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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

INTRODUZIONE

Potere giuridico, potere politico, potere economico

1) Sulla parola “potere”: quando usiamo questa parola come sostantivo aggiungiamo un aggettivo o lo
presupponiamo. Quest’ultimo va a chiarire che stiamo parlando non del potere in generale, ma del potere in
quello specifico campo indicato dall’aggettivo stesso. In questo ambito andremo a parlare del potere
giuridico, di quello politico, di quello economico, e dei rapporti tra di essi.

2) Il potere giuridico: ci sono norme che attribuiscono dei poteri: queste norme indicano il soggetto a cui è
attribuito quello specifico potere, dicono quale potere viene attribuito, in quali circostanze può essere
esercitato, secondo quali forme e procedure va esercitato, quale risultato l’esercizio del potere produce, etc.

3) Chi ha il potere di attribuire poteri giuridici: negli ordinamenti moderni, fondati su costituzioni scritte,
è la costituzione ad attribuire i poteri giuridici e allo stesso tempo a limitarli (es. potere legislativo spetta al
parlamento), dunque la costituzione non disciplina i poteri, ma afferma quali autorità possono distribuire
poteri, in che modo e con quali limiti. Nel nostro ordinamento la Costituzione dice che spetta alla legge
attribuire poteri (principio di legalità) e nessun potere è ammesso se non è fondato sulla legge. Dato che la
Costituzione individua chi può distribuire potere e con quali limiti, sorge spontaneo chiedersi chi abbia
conferito tale potere alla Costituzione. Quest’ultima, sul piano giuridico, è autofondata. Si presuppone che la
Costituzione sia viva e non solo un documento del passato, in quanto se fosse così non potrebbe più essere
applicata ad una realtà odierna. In definitiva, nel sistema vigente ci sono norme che attribuiscono poteri e
norme che attribuiscono il potere di attribuire poteri.

4) Poteri liberi e poteri doverosi: la norma può attribuire un potere che può essere esercitato o meno
secondo la volontà dell’individuo (es. rinvio delle leggi da parte del Presidente della Repubblica: questo è
libero di scegliere se chiedere o meno alle Camere un riesame ed una nuova deliberazione della legge
approvata); oppure un potere che se ricorrono determinate condizioni, espresse dalla norma, deve essere
esercitato (es. promulgazione della legge dopo che le Camere hanno approvato una seconda volta, a seguito
del rinvio presidenziale: il Presidente della Repubblica ha il dovere di promulgare).

5) Sulla nozione di effetto giuridico: questo indica il sorgere in capo a qualcuno (destinatario dell’atto di
esercizio del potere) di diritti, o obblighi, o doveri, o altre situazioni giuridiche soggettive, in base ai quali
tali destinatari possono o devono produrre eventualmente altre situazioni giuridiche, finché si giunge al
materiale compimento di ciò che realizza l’obiettivo dell’esercizio del potere.

6) Il potere giuridico presuppone l’esistenza di un effettivo apparato militare al suo servizio: il potere
giuridico è quel potere previsto e disciplinato dalle norme che, se viene esercitato correttamente dal soggetto
investito di tale potere, mette in moto il sistema e lo fa funzionare in modo corrispondente a ciò che l’atto di
esercizio del potere prescrive. Se qualcuno si rifiutasse di obbedire all’atto di esercizio del potere, nel caso di
un sistema vitale, esso reagirebbe punendo il ribelle e, se necessario, sostituendolo con un altro. Se però
molti si rifiutassero di sottostare agli atti di esercizio del potere, scoppierebbero delle rivoluzioni e
successivamente o verrebbe ristabilito con la forza il precedente sistema oppure se ne instaurerebbe uno
nuovo. Dunque, il potere giuridico presuppone anche l’esistenza di un apparato militare il quale, se
necessario, interviene affinché l’atto di esercizio del potere abbia pratica attuazione.

7) Il potere giuridico non è mera forza: per due ragioni: a) anche quando usa la forza, si tratta di una forza
regolata dalle norme sull’esercizio del potere; b) nella maggior parte dei casi il potere giuridico non usa la
forza e gli atti di esercizio del potere giuridico ricevono ugualmente obbedienza.

8) Il potere economico: presuppone una proprietà, cioè il potere di disporre in esclusiva rispetto a qualcosa
di cui altri hanno o potrebbero aver bisogno. In una società capitalistica chiunque ha qualche proprietà ha
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Riassunto di Gaia Paoloni
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tanto potere economico quanta è la proporzione di proprietà che possiede rispetto al totale delle proprietà.
Anche i singoli che hanno solo la propria forza lavoro hanno o possono avere un potere economico se la loro
forza lavoro è necessaria ad altri.

9) Il potere economico presuppone l’esistenza del potere giuridico: la proprietà in senso stretto è il diritto
di usare e disporre liberamente delle cose, salvo ciò che è vietato dalla legge. La tecnica utilizzata per
definirla è una tecnica in negativo in quanto la proprietà è illimitata, cioè non esiste limite positivo a ciò che
il proprietario può fare, ma il limite è solo di ordine negativo, cioè ciò che non può fare. La proprietà è un
istituto giuridico: il potere economico presuppone l’esistenza del diritto e quindi del potere giuridico. Il
proprietario può decidere di vendere una cosa o affittarla, ma per fare ciò deve stipulare un contratto. Il
diritto protegge i contratti: se un contraente non adempie, il creditore può agire per costringere il debitore ad
adempiere. In definitiva possiamo dire che il diritto è uno stato di cose senza la cui esistenza non è possibile
il costituirsi e l’efficacia di un potere economico.

10) Potere economico e libertà: il potere economico ha bisogno di libertà (garantita dal diritto), piuttosto
che di potere giuridico. Le regole sulla proprietà, sui contratti, etc. sono essenziali al potere economico per
poter agire senza paura di essere vanificato dalla prevaricazione di altri, ma nei rapporti puramente
economici, cioè nello scambio di beni, il potere economico si misura in base ai risultati che esso può ottenere
in termini di ricavo e quindi in termini economici. Questi risultati economici hanno bisogno essenzialmente
di libertà. La presenza del potere giuridico è necessaria, ma non è la ragione per cui il potere economico ha
successo o insuccesso. Il potere economico non deve avvalersi della forza per imporsi: deve riuscire a
vincere nella concorrenza economica mediante strumenti puramente economici (es. abbassare i prezzi). Il
potere economico non impone giuridicamente la sua volontà: giuridicamente si avvale della libertà sua e
degli altri (si vende o si compra se si vuole). Ogni volta che c’è bisogno della collaborazione di altri lo
strumento utilizzato è il contratto e cioè un accordo. Quando il potere economico si avvale del potere
giuridico lo fa o per tutelare la propria libertà economica o per esigere il rispetto dei patti liberamente
sottoscritti.

11) Il potere politico: è il potere di imporre decisioni alla collettività. È una forma di potere giuridico perché
si manifesta, come questo, come volontà che esige obbedienza e, se necessario, viene assistita dalla forza
organizzata del sistema giuridico. Il potere politico si distingue dal potere giuridico per due aspetti: a) non
tutte le manifestazioni di potere giuridico sono manifestazioni di potere politico: i poteri dei privati verso
altri privati non sono poteri politici (non sono poteri verso la collettività, ma verso singoli privati); potere
politico è il potere del legislatore, del corpo elettorale che elegge il parlamento, degli organi di vertice se e
nella misura in cui sono autorizzati dalla costituzione a compiere scelte libere che vengono imposte alla
collettività; b) il potere politico non si manifesta solo attraverso l’uso del potere giuridico: dato che obiettivo
del potere politico è quello di giungere a decisioni libere che vincolano l’intera collettività, di scegliere tra
diverse possibilità ed imporre tale scelta a tutti, diventa esercizio di potere politico qualunque attività
preparatoria in vista di quelle decisioni finali e sono politici tutti i soggetti che si impegnano in queste attività
di preparazione. Ci sono organizzazioni che svolgono esclusivamente attività politica, altre che la svolgono
ma non perseguono solo fini politici, altri che si impegnano occasionalmente, altri che non si mescolano mai
con l’attività politica. Il potere politico però, per essere efficace, deve manifestarsi attraverso un potere
giuridico. Ai partiti politici, per tradurre in atto i propri programmi, è necessario partecipare alle elezioni,
conquistare la maggioranza dei seggi parlamentari, far approvare le leggi che traducono i programmi,
conquistare l’esecutivo che dirige la macchina statale e che impone le proprie decisioni. È solo attraverso il
potere giuridico che il potere politico riesce ad imporsi ed a raggiungere gli obiettivi perseguiti.

12) Sistema politico e forma di governo: il rapporto tra potere giuridico e potere politico spiega e giustifica
la distinzione tra sistema politico e forma di governo. Con forma di governo si intende la struttura
fondamentale che individua gli organi costituzionali politici che stanno al vertice dello Stato e definisce i

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Riassunto di Gaia Paoloni
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rapporti tra di essi: questo insieme è costruito quasi del tutto dal diritto e da un lato consente al potere
politico di manifestarsi e di agire come potere giuridico, come potere che si impone alla collettività,
dall’altro rende visibile e ufficiale il potere politico, che non può raggiungere gli scopi e gli obiettivi che
persegue se non si manifesta nelle forme e nei modi ufficiali previsti dalla forma di governo e in tal modo
diventa controllabile dall’opinione pubblica. La forma di governo è una parte del sistema politico. Il sistema
politico, oltre l’insieme dei soggetti che hanno poteri di governo e le attività da essi svolte, comprende i
soggetti individuali e collettivi che partecipano in vario modo alla vita politica (es. partiti) e le multiformi
iniziative ed attività svolte continuamente da tali soggetti per influenzare e condizionare il potere politico (es.
manifestazioni pubbliche).

13) Conclusioni sui rapporti tra potere giuridico da un lato e potere economico e potere politico
dall’altro: la categoria potere giuridico è molto ampia per quanto riguarda gli oggetti su cui può incidere:
può riguardare innumerevoli interessi umani, economici e politici; per altro verso la categoria del potere
giuridico, considerata in astratto, è priva di contenuto, e acquista tanta efficacia e portata quanta gliene deriva
dalla materia a cui è applicato il potere giuridico.

14) Potere politico e potere economico: oggi presupponiamo che potere economico e potere politico siano
distinti, mentre in passato non è sempre stato così (es. nella società feudale). Il potere economico, usando il
denaro, tende a conquistare il potere politico, ma non lo possiede dato che per ottenere potere politico
bisogna ottenere consenso popolare e dimostrare col voto nelle elezioni politiche di averlo. Il potere politico
può mediante le leggi condizionare il potere economico. Tra i due si apre una lotta dall’esito variabile e
sempre incerto che è evidente ripercorrendo la storia della Repubblica italiana dal 1948 ad oggi. Una lettura
del testo costituzionale, approvato nel dicembre del 1947 dall’Assemblea costituente ed entrato in vigore il
1° gennaio 1948, mostra che per i nostri costituenti il potere economico è subordinato alla volontà popolare e
dunque al potere politico. Da un lato la Costituzione tutela la proprietà privata anche della terra e dei mezzi
di produzione (art. 42), e tutela l’impresa privata (art. 41), cioè le basi del potere economico, e quindi
implicitamente giudica legittima l’esistenza e lo sviluppo di tale potere. Dall’altro lato in quasi tutti gli altri
articoli della prima parte pone al centro come valore supremo la dignità degli uomini, la libertà di tutti, e
l’eguaglianza formale e sostanziale, e attribuisce alla Repubblica (potere politico) il compito di proteggere
tali valori supremi e di attivarsi per perseguirli e concretarli ogni volta che il gioco sociale non li soddisfa
con il suo movimento spontaneo (secondo comma dell’art. 3). Per quanto riguarda l’economia, i commi
secondo e terzo dell’art. 41 (dopo che nel primo viene sancita la libertà dell’iniziativa economica privata)
prescrivono che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché
l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Non c’è dubbio
che per la costituzione vigente il potere politico deve comandare su quello economico, se è necessario per
perseguire e raggiungere gli obiettivi indicati dal testo costituzionale. La realtà attuale mostra che esiste un
potere finanziario che grazie alla globalizzazione, possibilità di spostarsi in qualsiasi parte del mondo
dominato dal capitalismo, sfugge ad ogni controllo da parte dell’autorità statale. Se lo Stato italiano lo
volesse, non sarebbe in grado di porre limiti e controlli a tale potere: nel momento stesso in cui il parlamento
volesse approvare una legge in tal senso, i capitali monetari fuggirebbero immediatamente all’estero in
quegli Stati che promettono di non porre limiti al loro potere. Oggi sono ipotizzabili forme di controllo a
livello mondiale con strumenti che per essere efficaci devono essere imposti a tutti. Tutte le forme di potere
economico rivendicano ogni giorno maggiore libertà. L’espressione “costituzione economica” sta a
significare che esiste una struttura economica che è indipendente e più forte di quella politica; il potere
politico deve piegarsi alle leggi dell’economia. Da ciò nasce una tensione tra ciò che sta scritto nella
Costituzione vigente e la realtà economica e sociale.

CAPITOLO 1

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Riassunto di Gaia Paoloni
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Lo Stato in quanto ente monopolizzatore della forza

1) Premessa: la cellula costitutiva del rapporto di diritto pubblico mediante la quale si costruisce tutto
l’edificio è data dal rapporto autoritativo tra un soggetto che può comandare, usando se necessario la forza, e
un soggetto che deve obbedire, costrettovi, se necessario, dall’esercizio della forza. Poiché lo Stato
monopolizza la forza armata, ecco mostrato il ruolo centrale che svolge lo Stato nel diritto pubblico. Lo Stato
è lo strumento moderno attraverso cui il potere pubblico si esprime. La parola Stato presenta almeno due
significati distinti che si riferiscono a due realtà storico-sociali diverse. Talvolta la parola Stato viene usata
per indicare un determinato popolo che risiede in un determinato territorio e che ha una sua organizzazione
centralizzata (relativamente) stabile. In altri casi chiamiamo Stato quell’organizzazione o apparato
centralizzato, dotato di mezzi materiali e giuridici spesso imponenti, che comanda sul popolo entro un
determinato territorio (es. punisce i delinquenti, impone il pagamento di imposte e tasse, è proprietaria di
alcuni beni). In quest’ultimo caso la parola Stato designa un ente particolare distinto dal popolo. Per risolvere
la difficoltà posta da questo duplice significato è prevalente nel linguaggio dei giuristi l’uso di aggiungere
alla parola Stato un’altra parola, in modo da chiarire volta per volta a quale dei due significati della parola
Stato chi parla o scrive intende riferirsi. Così si trovano di frequente espressioni: Stato-soggetto o Stato-
persona o Stato-governo per designare la organizzazione centrale che dirige e governa l’intera società; si
trovano le espressioni Stato-comunità o Stato-società o Stato-ordinamento per designare quell’insieme
costituito da un popolo residente su un determinato territorio e governato da un apparato centrale. Da questo
momento in poi la parola Stato verrà usata solo nel senso di apparato centralizzato monopolizzatore della
forza che governa la società.

2) Lo Stato dispone della forza armata: lo Stato si presenta come un ente composito, fatto di molti uomini
e di molti organismi parziali, ma che agisce nel modo più possibile e tendenzialmente unitario. Lo Stato usa
la forza armata sia quando comanda, perché ha la materiale possibilità di far seguire a questo suo comando
l’uso della forza per imporre coattivamente quanto ha comandato, sia visibilmente quando uomini armati
eseguono il comando e realizzano materialmente e oggettivamente il risultato voluto.

3) Lo Stato ha il monopolio della forza (entro i suoi confini): lo Stato ha il monopolio della forza, questa è
intesa come violenza fisica sulle persone e sulle cose. Si tratta di una forza sociale e dunque può raggiungere
solo quei risultati umanamente possibili. Però lo Stato dispone della forza più incisiva ed efficace
umanamente possibile, ed ha il monopolio di tale forza, cioè vieta e limita l’uso della violenza da parte di
qualsiasi altro soggetto all’interno dei suoi confini. La violenza verso altre persone o sulle cose costituisce
reato e viene punita con pene severe; questa violenza viene punita non solo quando è ingiusta, ma anche
quando viene esercitata per difendere un proprio diritto, se è possibile al suo posto adire il giudice; ci sono
casi in cui la violenza è legittima, come quando una persona difende “un diritto proprio o altrui contro il
pericolo attuale di un offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”: anche in questo caso
la legge dello Stato stabilisce in quali ipotesi la violenza è ammessa e in secondo luogo la delimita. Il fatto
che in determinate circostanze ed entro limiti abbastanza precisi il privato possa esercitare legittimamente la
violenza non intacca il monopolio statale della forza perché è proprio lo Stato che attribuisce questo potere.
Dunque, lo Stato ha, entro i suoi confini, il monopolio della forza e tutti gli altri soggetti diversi dallo Stato la
esercitano entro i confini di questo in quanto è esso a concederla. Lo Stato ha il monopolio della forza entro
un determinato territorio perché ha il potere coercitivo incomparabilmente più forte ed efficace rispetto a tutti
gli altri soggetti e perché ogni altro potere coercitivo legittimo entro i suoi confini deriva da lui stesso. Lo
Stato presenta molte caratteristiche, ma ne ha una che è soltanto sua: il monopolio della forza, appunto.

4) La sovranità dello Stato: il monopolio della forza spiega anzitutto la sovranità. Si dice che lo Stato è
sovrano e cioè ha un potere di comando superiore ad ogni altro soggetto entro un determinato territorio.
Esistono molteplici centri di potere entro i confini dello Stato, ma tutti sono subordinati a questo e nessuno è
pari o superiore ad esso. Si tratta di una conseguenza che discende dal fatto che lo Stato detiene il monopolio
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Riassunto di Gaia Paoloni
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della forza. La Costituzione proclama (art. 1) che la sovranità appartiene al popolo, ma aggiunge che questo
esercita tale sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Poiché la Costituzione fonda e organizza
lo Stato come soggetto unitario e attribuisce ad esso il monopolio della forza, chi è realmente sovrano è lo
Stato; il popolo è sovrano nel senso che entro lo Stato rappresenta quella parte che decide con maggior
potere di altre, ma rispetto allo Stato non è affatto sovrano. A volte si dice che il Parlamento è sovrano, ma la
sovranità viene attribuita al Parlamento in quanto è soggetto rappresentativo del popolo e quindi organo di
diretta derivazione popolare che per questa ragione occupa un posto di comando entro l’apparato statuale
superiore a quello di ogni altra articolazione dello Stato. Il Parlamento è sovrano entro lo stato, ma non è il
Parlamento che dispone della forza, bensì lo Stato nel suo insieme. Tanto che, in Italia, il Parlamento non
comanda direttamente le forze armate, ma queste vengono comandate dal governo e dal capo dello Stato
(Presidente della Repubblica). Altre volte la parola sovrano applicata al Parlamento vuole sottolineare che
quest’ultimo è un organo statale, il quale non ha alcun altro al di sopra di sé, è indipendente. In questo senso
però tutti gli organi costituzionali sono sovrani, appunto perché sono costituzionali proprio quegli organi di
vertice dello Stato che sono indipendenti da ogni altro. Infatti, si usa spesso dire che la Corte costituzionale è
sovrana. Anche la Chiesa cattolica si considera sovrana rispetto alle cose di Dio, e riconosce la sovranità
dello Stato solo rispetto alle cose terrene. La nostra Costituzione recepisce questa posizione quando nell’art.
7 proclama: “Stato e Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. La Chiesa ha sempre
rivendicato la propria sovranità nell’ordine spirituale. Lo Stato italiano, mediante l’aperto riconoscimento
dell’indipendenza e sovranità della Chiesa nel suo ordine, in cambio del riconoscimento da parte della
Chiesa dell’indipendenza e sovranità dello Stato nell’ordine proprio dello Stato, accoglie pienamente la
posizione della Chiesa. L’accordo così stipulato presuppone che i due soggetti Stato e Chiesa siano
esattamente uguali in dignità e forza e che si spartiscano verticalmente l’universo delle cose possibili di
modo che una parte resta alla Chiesa cattolica e l’altra parte spetta esclusivamente allo Stato. Nella realtà
vediamo che tra Chiesa e Stato non esiste perfetta equivalenza. Lo Stato dispone della forza armata, la
Chiesa no. Lo Stato ha la materiale possibilità di mutare anche unilateralmente i rapporti con la Chiesa; la
Chiesa può difendersi essenzialmente con armi psicologiche, politiche, morali. Lo Stato garantisce i suoi
comandi con la forza, la Chiesa li garantisce con armi spirituali. Alcuni intellettuali della Chiesa per dare
coerenza di significato alla pretesa della Chiesa di essere sovrana sostengono che anche questa possiede la
forza armata: da un lato la Chiesa ha il diritto di richiedere ai governanti cattolici di prestare la loro forza per
assistere con la coercizione le regole della Chiesa, dall’altro lato per ragioni di opportunità la Chiesa ha
deciso di rinunciare attualmente alla forza, salva però, se necessario, la possibilità di ricostituirla e usarla
concretamente. Dunque, la Chiesa non ha rinunciato alla forza armata perché la forza armata è parte
necessaria di ogni sovranità. In conclusione, la sovranità della Chiesa, dal suo punto di vista, è vera
sovranità, perché comprende anche la forza armata, come possibilità che la Chiesa si riserva di usare se
necessario e che dunque caratterizza anche oggi tale ordinamento. La realtà però è diversa. Lo Stato ha
spogliato della forza armata tutti gli altri soggetti e quindi anche la Chiesa. Nei fatti dunque lo Stato è il vero
sovrano, perché ha il monopolio della forza; la Chiesa, per questo aspetto, non è sovrana. Però resta vero che
lo Stato sovrano italiano, monopolizzatore della forza, ha riconosciuto solennemente l’indipendenza e
sovranità della Chiesa nel suo ordine, cioè si è impegnato a non interferire in nessun modo nelle questioni
spirituali. Bisogna immaginare tre possibili tipi di rapporto tra Stato e confessioni religiose: 1) lo Stato
garantisce la sfera di libertà delle chiese, promette di non comandare sulla questione da esse rivendicate, ma
non garantisce con la forza nessuna regola e nessun comando di esse: se le confessioni religiose riescono a
farsi obbedire meglio per loro, ma lo Stato non le aiuta in alcun modo a farsi obbedire (situazione esistente
negli USA); 2) lo Stato aiuta la chiesa prestando la sua forza armata per garantire l’efficacia di alcune norme
di essa, purché non siano contrarie con le regole dello Stato (es. i cattolici che si sposano col matrimonio
concordatario vengono assoggettati alle regole della Chiesa e lo Stato italiano presta la sua forza per far
rispettare tali regole); 3) lo Stato, in determinate materie, assiste con la forza regole e comandi di una
confessione religiosa anche quando questi sono contrari a regole dello Stato: in determinate materie lo Stato
dà la prevalenza alla Chiesa rispetto a se stesso (talvolta si è verificato in Italia anche durante la Repubblica).
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Riassunto di Gaia Paoloni
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Lo Stato italiano, attraverso l’art. 7 della Costituzione, garantisce la non interferenza dello Stato entro le
questioni religiose ritenute proprie dalla Chiesa cattolica (1° comma dell’art. 7). Questo costituisce un limite
alla sovranità dello Stato. Non è solo la Chiesa cattolica a costituire ciò, ma tutta la Costituzione non è altro
che un complesso sistema di limiti attraverso i quali la forza dello Stato viene organizzata, disciplinata,
limitata, circoscritta. Lo Stato italiano, ad es., non può volere la morte degli uomini perché è vietata; lo Stato,
nel togliere la libertà, nel vietare determinati comportamenti, deve rispettare procedure rigorose e limiti
invalicabili; lo Stato non può usare la forza se non nei casi, nei modi e con i limiti contenuti nelle leggi
approvate da un corpo rappresentativo di tutto il popolo. Dunque, la sovranità dello Stato non vuol dire
assoluta libertà e arbitrarietà del potere statale. Tali limiti sono efficaci ed effettivi solo se lo Stato li
rispetta, in quanto questo, avendo il monopolio della forza, ha la materiale possibilità di rovesciare ogni
limite e ogni garanzia, di violare le sue stesse leggi. Questo avviene attraverso i colpi di Stato (colpo che
proviene dall’interno dello Stato stesso) o le rivoluzioni (mosse dal popolo). Quest’ultime confermano la
sovranità dello Stato: esse sono avvenimenti che, distruggendo il monopolio della forza dello Stato esistente,
distruggono appunto questo stesso Stato, dimostrando che, privato di questa caratteristica, esso muore.

5) L’indipendenza dello Stato: il mondo è ripartito tra molti Stati. L’ONU (Organizzazione delle Nazioni
Unite) ne raccoglie circa 190. Se ciascuno Stato deve essere sovrano, gli Stati devono considerarsi
reciprocamente pari ordinati perché se uno Stato potesse comandare su un altro e usare la forza su di esso,
questo secondo non sarebbe più sovrano. La sovranità degli Stati deve manifestarsi come indipendenza nei
rapporti reciproci, cioè come assenza di subordinazione. Lo Stato dunque è indipendente e sovrano: sovrano
al proprio interno, indipendente nei confronti degli altri Stati. Sovranità e indipendenza sono le due facce
inseparabili di una medesima qualità: il monopolio statale della forza. Questo monopolio si esprime verso
l’interno come possibilità di comando superiore ad ogni altro soggetto (sovranità); e verso l’esterno si
manifesta come impossibilità di usare la violenza all’interno di altri Stati e contemporaneamente come
esclusione della forza di ogni altro Stato nei propri confronti (indipendenza). L’indipendenza non toglie che
di fatto vi siano Stati potenti, Stati deboli, Stati realmente sovrani e indipendenti e Stati che di fatto sono
satelliti di altri Stati. Diverso il caso dell’Unione europea: la progressiva perdita di sovranità degli Stati
membri dipende da una decisione degli Stati aderenti e costituisce un tentativo di costruire una nuova entità
sovranazionale che sostituisca parzialmente gli Stati originari. In questo caso la sovranità e l’indipendenza
sono limitate per quanto riguarda i rapporti tra gli Stati appartenenti all’Unione.

6) La territorialità dello Stato: i confini: la sovranità e l’indipendenza dello Stato spiegano la sua
territorialità, questo ente per esistere deve avere un suo territorio delimitato e separato da quello di ogni altro
Stato. Ogni organizzazione ha una sua sfera territoriale di efficacia. Questa sfera di efficacia può essere
lasciata completamente al caso come nell’ambito delle Università e questo accade perché l’Università non è
un ente territoriale. Vi sono poi gli enti che per ragioni empirico-pratiche si articolano in modo tale che
ciascuna delle sue parti sia competente solo per un determinato territorio. Così gli enti mutualistici sono
articolati su base territoriale in modo che ciascuna articolazione si occupa solo degli assistiti residenti in un
determinato territorio. Vi sono poi enti configurati dalle leggi istitutive come soggetti competenti solo per
fatti accaduti e rispetto a persone residenti entro un determinato territorio. L’ente però non ha alcuna
possibilità di rivendicare questo territorio come suo, cosicché l’estensione di tale territorio non riguarda
l’ente, ma il soggetto superiore che lo ha istituito (ad esempio gli enti di bonifica). Vi sono infine enti
territoriali, come lo Stato, ai quali viene riconosciuto il diritto e il potere di difendere il proprio territorio. Il
territorio non viene considerato come un dato accidentale la cui delimitazione è necessaria solo per ragioni di
pratica operatività, ma viene considerato come un aspetto essenziale dell’ente, che si identifica anche e
anzitutto attraverso il suo territorio. Tali sono in Italia le Regioni, le Province e i Comuni. Mutare i confini di
questi enti è un fatto politico che può scatenare forti ribellioni. Nello stesso tempo però questi confini sono
pur sempre modificabili con leggi, con atti cioè di un soggetto superiore agli enti interessati. La materia è
regolata dagli artt. 132 e 133 della Costituzione: oggi i confini delle Regioni, e in parte delle Province e dei
Comuni, godono di una garanzia costituzionale. Però restano sempre modificabili per volontà di un ente
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Riassunto di Gaia Paoloni
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superiore, con procedure speciali previste dalla Costituzione. I confini dello Stato in principio sono
immodificabili, in tempo di pace non possono essere modificati unilateralmente per decisione di un ente
diverso dallo stesso Stato. I confini servono allo Stato per identificarsi rispetto a tutti gli altri Stati;
costituiscono la delimitazione di una sfera pratica di efficacia e la condizione di esistenza stessa dello Stato. I
confini individuano quella parte di spazio fisico entro cui si esercita il potere sovrano dello stato. Lo Stato, se
vuole rimanere tale, non potrà mai ammettere che al suo interno si intrometta il potere armato di altri Stati.
Vi sono casi che apparentemente fanno eccezione a questo principio: può accadere che, in base ad un trattato,
forze militari di un altro stato stazionino nel territorio dello Stato considerato (oggi in Italia ed in altri paesi
accade con la presenza di truppe della NATO, però truppe straniere possono stazionare nel territorio dello
Stato ed esercitare anche la forza se lo Stato ospite lo consente e finché questo lo consente). È necessario
stabilire esattamente fin dove si estende il potere coercitivo sovrano dello Stato, e da dove comincia o il
potere sovrano di altri Stati o nessun potere. Se i confini dello Stato fossero incerti verrebbe costantemente
rimessa in discussione l’esistenza stessa dello Stato e la disputa sui confini sarebbe disputa con un altro Stato
e quindi fonte di guerra. Lo stesso accadrebbe se due Stati rivendicassero come proprio un territorio
determinato oppure se uno dei due negasse il potere dell’altro su uno spazio determinato sostenendo che esso
deve restare libero. Questa disputa si traduce in guerra perché la lotta avviene tra due monopoli della forza
che non hanno, non riconoscono e a ben vedere non possono avere giudici al di sopra di sé. La guerra si
conclude con la sconfitta di uno dei due e quindi questo porta o alla distruzione dello Stato sconfitto o ad un
trattato di pace in cui lo Stato vittorioso detta le condizioni al vinto; in entrambi i casi vengono ristabiliti i
confini che delimitano esattamente l’estensione del potere dello Stato in questione. Nel linguaggio retorico si
dice che i confini della patria sono sacri in quanto avere confini certi e sicuri determina l’esistenza stessa
dello Stato. Questa rilevanza dei confini è una necessità recente. Nasce oggi dal fatto: a) che tutta la
terraferma è divisa tra Stati (eccetto l’Antartide che è disabitata), non esiste nessuna parte abitabile del globo
che non appartenga ad uno Stato determinato; b) che per questa ragione la maggioranza degli Stati confina
almeno con un altro Stato. In passato, quando la popolazione mondiale era più ridotta di quella attuale e
spesso grandi distese disabitate separavano una società da un’altra, non esistevano confini in senso proprio,
perché non c’era nessun bisogno di delimitarli. Ancora oggi l’idea di precisi confini è estranea alle
popolazioni nomadi di alcune regioni dell’Africa e per questo tali popolazioni si scontrano con la pretesa di
stabilire precisi confini da parte di tutti gli altri Stati interessati anche rispetto a tali territori occupati dalle
popolazioni nomadi, creando così conflitti e tensioni. Una precisa e stabile delimitazione di confini manca
anche quando una società è priva di un potere centralizzato: sono i singoli signori locali a determinare i
rispettivi confini (accadeva nel medioevo). I confini delimitano la terra ferma, ma delimitano anche qualsiasi
dimensione dello spazio intorno, sopra e sotto la terraferma, che appare storicamente utile. In passato lo Stato
estendeva i suoi confini sul mare e nello spazio sopra e sotto il suo territorio fin dove poteva materialmente
arrivare. La tecnica antica limitava oggettivamente il potere sovrano dello Stato nel dominio dello spazio
marino, sotterraneo e atmosferico, per cui nessun altro Stato subiva limitazioni significative a causa di questo
dominio, oggi lo sviluppo della tecnica è tale per cui applicare rigorosamente gli antichi criteri
comporterebbe una lesione grave degli interessi di altri Stati. Oggi ad esempio si è giunti alla conclusione
che la sovranità si estende nello spazio atmosferico o aereo (art. 3 cod. nav.), cioè fin dove esiste atmosfera
(aria respirabile), ma non si estende allo spazio superiore, che è libero. Problemi analoghi si pongono rispetto
allo spazio marittimo. Anticamente fu stabilito che la sovranità si estendeva per 3 miglia marine dalla costa
perché di 3 miglia era la gittata massima dei cannoni del tempo. Successivamente quasi tutti i paesi estesero
questa linea a 6 o a 12 miglia marine (in Italia è oggi di 12 miglia marine art. 2 del cod. nav.). Oggi la
situazione prevalente è la seguente: tutti gli Stati riconoscono l’istituto del mare territoriale e quasi tutti gli
Stati fissano in 12 miglia marine il limite di esso, adeguandosi all’ultima convenzione in materia, quella di
Montego Bay (Jamaica) del 10 dicembre 1982 sul diritto del mare. Oggi è accettato che gli Stati possano
riservare a sé l’utilizzazione esclusiva delle ricchezze estraibili dal mare attraverso i due istituti della
piattaforma continentale e della zona economica esclusiva. Mediante il primo si sostiene che il potere
esclusivo di uno Stato si estende sullo zoccolo continentale, quella parte del fondo marino di profondità
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

costante che circonda le terre emerse, prima che la costa sprofondi negli abissi marini. Mediante il secondo
lo Stato rivierasco dichiara che una certa estensione del mare antistante è riservata all’esclusiva utilizzazione
economica da parte dello stesso Stato. Gli altri Stati ugualmente interessati alla pesca in quello stesso mare o
allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi e minerari sottomarini protestano e si oppongono a questa
estensione, da qui i continui tentativi di arrivare ad accordi internazionali generali. In conclusione, l’esatta
delimitazione del territorio dello Stato è una caratteristica necessaria perché non si può immaginare sovranità
senza un delimitato territorio su cui essa si esercita, né questo territorio può essere liberamente modificato
perché ogni modificazione mette in discussione l’esistenza stessa dello Stato.

7) La diseguaglianza fra gli Stati: gli Stati sono eguali per quanto riguarda la sovranità e l’indipendenza,
ma sono diseguali per ogni altro aspetto (es. ricchezza, popolazione, potenza militare). Queste
disuguaglianze determinano l’esistenza di Stati che condizionano gli altri (USA) e Stati che vengono
condizionati. La differenza essenziale che c’è tra una colonia e uno Stato sovrano sta nel fatto che la prima
subisce il diretto intervento armato dello Stato colonizzatore, quindi nel territorio coloniale il soggetto
sovrano è questo stesso Stato colonizzatore; il secondo finché esiste come Stato sovrano e indipendente,
esclude dai suoi confini il diretto intervento di qualunque altro Stato: nel suo territorio comanda lui, lui
soltanto può esercitare la violenza e disporre della forza armata. Se un altro Stato più potente potesse
comandare direttamente entro i confini di un paese diverso usando la propria forza, allora questo paese non
sarebbe più uno Stato. Uno Stato, per quanto debole e dipendente da un altro, mantiene la sua indipendenza e
sovranità in questo: che lo Stato più forte non può entrare al suo interno e comandare direttamente. Questa
indipendenza formale non è senza valore : a) essa lascia allo Stato economicamente e militarmente
dipendente la possibilità di ribellarsi, se lo vuole, a questa dipendenza, rischiando rappresaglie, fino alla
guerra, ma con la possibilità anche di allentare o sfuggire questa dipendenza, nonostante le minacce; poiché
questo Stato in diritto è sovrano e indipendente, e in fatto ha la materiale possibilità di esserlo perché nel suo
territorio nessun altro comanda, è possibile che anche lo Stato più debole e più piccolo riesca a conservare la
sua piena indipendenza. L’indipendenza e sovranità formale (in quanto Stato) è la premessa indispensabile
per ogni indipendenza reale (economica e militare): tutti i popoli oppressi e colonizzati rivendicano anzitutto
l’indipendenza politica, la possibilità di costituirsi in Stato, come premessa di ogni altro obiettivo; b) la
posizione reciproca degli Stati può mutare nel tempo, e quello prima dipendente e debole può
successivamente liberarsi dalla primitiva dipendenza o rovesciare il rapporto e divenire lui dominante.
L’indipendenza e sovranità giuridico-formale dello Stato mantiene il suo valore perché costituisce la
condizione necessaria per liberarsi anche da questa dipendenza di fatto. Se questa dipendenza diventasse
permanente, la stessa sovranità e indipendenza degli Stati più deboli si incrinerebbe sempre di più. A questa
contraddizione gli Stati reagiscono in due modi: con le alleanze, attraverso le quali gli Stati deboli riescono a
unire le forze per bilanciare quella di altri Stati più forti, e con processi di integrazione, attraverso i quali
alcuni Stati tendono ad unirsi stabilmente in organismi più vasti e quindi più potenti. Gli Stati, con le loro
divisioni e la loro limitatezza, costituiscono un ostacolo all’ulteriore sviluppo e un freno agli scambi.
L’esigenza e la tendenza al superamento degli Stati per un’integrazione mondiale è il frutto non di una
consapevole volontà collettiva, ma di spinte inconsapevoli che si presentano come interessi particolari di
Stati e di gruppi contro altri interessi di altri Stati e altri gruppi, cosicché il risultato è che questa integrazione
si compie sotto il segno della violenza e della sopraffazione dei più forti.

8) Lo Stato come ente originario: generalmente si dice che lo Stato è un ente originario, cioè lo Stato non
deriva i suoi poteri da nessun altro soggetto, ma solo da sé stesso, in quanto sennò non sarebbe più sovrano e
indipendente. Gli enti derivati sono enti che derivano il proprio potere da altri. L’esistenza e la misura del
loro potere dipende da una decisione di un altro. Bisogna distinguere tra soggetti che sono assistiti dalla forza
e possono comandare autoritativamente (potere coercitivo) e soggetti privi di tale qualità e che possono
riuscire ad ottenere obbedienza solo con mezzi diversi dalla forza (morali, religiosi, etc.). Entro i primi,
poiché lo Stato ha il monopolio della forza, solo lo Stato è ente originario, proprio perché ogni altro ente
autoritativo dispone della forza in quanto lo Stato lo consente. Il potere autoritativo di questi enti entro lo
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

Stato è un potere derivato dallo Stato stesso. Le Regioni, i Comuni, le Province, persone giuridiche distinte e
separate dallo stato, sono anch’essi enti autoritativi, perché possono comandare usando strumenti coercitivi
(di norma sono quelli dello Stato, ma possono essere anche propri: i Comuni hanno al loro diretto servizio la
limitatissima forza armata dei vigili urbani art. 117 Cost.), ma il loro potere autoritativo è un potere derivato
dallo Stato, in quanto esiste nella misura in cui lo Stato lo riconosce e lo delimita. Una legge dello Stato può
ampiamente modificare i poteri di Comuni, Province e Regioni, riconfermando così il principio che essi sono
enti derivati. Solo lo Stato ha abbastanza forza da imporre le sue decisioni, in quanto le Regioni, i Comuni e
le Province o non dispongono affatto di armi e armati, o ne dispongono in misura limitata. Tra gli enti
derivati bisogna ricordare quelli autonomi: enti che godono di un qualche potere indipendente nei confronti
dello Stato. Si parla di autonomia politica, se l’ente può scegliere da sé i propri fini da perseguire; di
autonomia normativa, se l’ente, entro limiti stabiliti dallo Stato, può creare norme giuridiche che entrano a
far parte dell’ordinamento generale dello Stato; di autonomia organizzatoria, se l’ente può organizzarsi
secondo criteri decisi da sé stesso; di autonomia contabile, se nella contabilità può divergere dalle regole
dello Stato; di autonomia patrimoniale, finanziaria, amministrativa, etc. La categoria autonomia è comunque
opposta a quella di sovranità, perché designa una situazione di relativo potere in subordine a quello dello
Stato. Enti autonomi per eccellenza sono le Regioni ed i Comuni; godono di minore rappresentatività le Città
metropolitane e le Province, ma anch’esse sono enti autonomi. Vi sono poi enti che possiedono solo una o
solo alcune delle autonomie prima accennate. Si parla infine di autonomia privata, per designare la situazione
tipica dei privati per cui essi possono regolare come meglio credono i propri interessi entro i confini delle
regole statali inderogabili e avvalendosi degli strumenti legali loro offerti dall’ordinamento generale. Ogni
volta che si incontra la parola autonomia, bisogna verificare in che senso viene usata. Ai nostri fini è
opportuno ricordare: a) che autonomia è una categoria opposta a sovranità e designa sempre enti e situazioni
subordinati all’ente sovrano (Stato); b) che derivazione e autonomia sono due categorie non incompatibili,
ma diverse, e dunque possono stare insieme ma anche stare separate: vi possono essere enti derivati e
autonomi (es. gli enti territoriali: Regioni, Comuni, Province); enti solo derivati (es. organi decentrati dello
Stato); soggetti solo autonomi e non derivati (es. i privati). Vi sono poi soggetti autonomi non derivati: lo
Stato è il solo ente originario tra tutti gli enti autoritativi perché possiede il monopolio della forza, ma è
errato affermare che lo Stato sia l’unico ente originario in assoluto perché vi sono molti enti non autoritativi
(non impongono unilateralmente e coercitivamente la propria volontà) che si proclamano e riescono ad
essere originari e non derivati. Questo accade quando alcuni soggetti rivendicano una sfera di libertà rispetto
allo Stato: pretendono e ottengono che lo Stato non interferisca in questa sfera e non comandi
unilateralmente, e usi la forza solo a protezione della libertà e autonomia del soggetto (dietro sua richiesta).
Ne è un esempio la Chiesa cattolica. Quest’ultima sostiene di derivare i suoi poteri religiosi direttamente da
Dio e quindi ha sempre rivendicato la sua indipendenza nelle questioni religiose rispetto allo Stato. La
Chiesa cattolica non solo rivendica questa sua originarietà nei confronti dello Stato e rifiuta ogni
subordinazione ad esso nelle questioni che ritiene appartenerle, ma è riuscita ad ottenere, con garanzia
costituzionale, che lo Stato italiano si impegni solennemente e formalmente a rispettare questa sua
caratteristica (art. 7 Cost.). Vi sono dunque enti che pur non essendo dotati della forza e non potendo imporre
unilateralmente la propria volontà, quindi essendo subordinati al potere coercitivo dello Stato, non possono
però essere definiti enti derivati dallo Stato, ma sono originari: esistono per loro autonoma determinazione e
perseguono i fini da loro voluti, agendo liberamente e occupando tutto lo spazio che è loro possibile
occupare. Lo Stato può solo reprimerli con la forza o cercare di circoscrivere la loro sfera di libertà. Questa è
la situazione di tutti quei soggetti privati che agiscono liberamente nei limiti delle leggi (sfera del lecito).
Rispetto a tali soggetti lo Stato delimita in negativo i loro poteri, prescrivendo che cosa essi non possono
fare; quello che essi fanno dipende dalla loro stessa volontà. Opposta è la situazione di quasi tutti i soggetti
pubblici: essi devono fare solo quello che le leggi prescrivono. Ad essi si applica la categoria del legittimo (=
conforme alla legge), opposta a quella del lecito (= non contrario alla legge). La legge, rispetto a questi enti,
non delimita in negativo i loro poteri, ma in positivo, stabilendo quello che essi possono fare: essi possono
fare solo quello che gli è imposto o positivamente premesso, tutto il resto è vietato. In definitiva se
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

intendiamo l’originarietà di un ente come una proprietà per cui l’ente considerato deriva la propria esistenza
solo da sé stesso, allora lo Stato è un ente originario, ma non è l’unico. Se però ci riferiamo a questa qualità
considerando solo gli enti autoritativi, allora, fra questi, solo lo Stato è originario, tutti gli altri sono derivati.

9) Lo Stato in quanto ente necessario: lo Stato è un ente necessario: un ente al quale si appartiene o non
appartiene per volontà dello stesso ente e non per volontà dei singoli appartenenti (appartenere allo Stato
vuol dire far parte della collettività subordinata allo Stato e quindi essere ammessi a godere dei vantaggi e
degli svantaggi che questa collocazione comporta: pagare le imposte, prestare servizio militare, votare nelle
elezioni politiche, ottenere la pensione, godere dell’assistenza sanitaria, etc.). Ente necessario si contrappone
a ente volontario, ossia quel soggetto collettivo al quale si appartiene o non appartiene per libera volontà
degli appartenenti (es. partito, sindacato, associazioni private). Si diventa o si cessa di essere cittadini dello
Stato italiano (come di ogni altro Stato) sulla base di leggi imperative dello stesso Stato, e non per libera e
autonoma decisione del singolo. La materia oggi è disciplinata dalla legge 5 febbraio 1992 n. 91 (vanno
aggiunte le norme costituzionali sulla cittadinanza: art. 22, voluto dai costituenti in opposizione col fascismo
che privò molti italiani della cittadinanza per motivi politici, e art. 51 che presuppone vi siano persone
italiane per lingua, costumi, tradizioni, che però sono cittadini di altro Stato o apolidi). Secondo questa legge
si è cittadino italiano dalla nascita ed automaticamente nei seguenti casi: 1) se si nasce da padre o madre
cittadina (la legge che regolava precedentemente la materia, L. n. 555 del 1912, stabiliva, fino alla
dichiarazione di incostituzionalità su questo punto con la sentenza n. 30 del 1983, che il padre cittadino
trasmetteva sempre la cittadinanza al figlio, mentre la madre la trasmetteva solo in casi tassativamente
previsti dalla legge); 2) se si nasce nel territorio della Repubblica, ma solo nel caso in cui entrambi i genitori
sono ignoti o apolidi, oppure nel caso in cui il figlio (soggetto preso in considerazione) non segue la
cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono. La legge poi prevede
analiticamente i casi in cui si può acquistare la cittadinanza italiana, a seguito di fatti indicati nella stessa
legge, oppure si perde, oppure dopo averla perduta, si può riacquistare. Se non è possibile applicare nessuno
dei criteri previsti dalle leggi, il nato sarà o straniero (se un altro Stato lo riconosce come suo cittadino) o
apolide (se nessuno Stato lo riconosce come suo cittadino). È possibile che la stessa persona sia cittadina
contemporaneamente di più Stati. Casi più significativi in cui la cittadinanza si può acquistare: a) lo straniero
nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età,
diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data (art.
4, comma 2); b) acquista la cittadinanza italiana il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano (la legge
subordina questo diritto ad alcune condizioni di tempo e impedisce l’acquisto in altri casi indicati); c) la
cittadinanza può essere concessa allo straniero che risiede legalmente da almeno 10 anni nel territorio della
Repubblica (concessione che dipende da una decisione degli organi competenti dello Stato indicati nella
legge). Il cittadino italiano perde la cittadinanza se, “avendo accettato un impiego pubblico od una carica
pubblica da uno Stato o ente pubblico estero o da un ente internazionale cui non partecipi l’Italia, ovvero
prestando servizio militare per uno stato estero, non ottempera, nel termine fissato, all’intimazione che il
Governo italiano può rivolgergli di abbandonare l’impiego, la carica o il servizio militare” (art. 12, comma
1). L’acquisto, la perdita o il riacquisto della cittadinanza italiana dipendono da una dichiarazione di volontà
dell’interessato. Da queste regole può sembrare che non sia vero che si entra o si esce dallo Stato solo per
volontà di quest’ultimo, tanto è vero che vi sono casi in cui si entra e si esce dallo Stato per volontà degli
interessati. Però è importante tener presente che la volontà del singolo produce l’acquisto o la perdita della
cittadinanza solo in quanto le leggi dello Stato così prevedono. Tanto è vero che si acquista o si perde la
cittadinanza se ricorrono le condizioni previste dalla legge. Dunque, lo Stato dimensiona il potere del singolo
e quindi non si tratta di una libera volontà, ma di una volontà nei limiti in cui la legge la permette. In
conclusione: a) anche quando la legge lascia spazio alla volontà del singolo, non si tratta di una volontà
libera, ma di una volontà che può manifestarsi solo nei casi previsti dalla legge; b) per conseguenza, come la
legge prevede tali casi, così essa ne può prevedere altri, e in tal modo può allargare o restringere o annullare
del tutto lo spazio di libertà concesso. Non è la volontà del singolo che determina unilateralmente l’acquisto

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

o la perdita della cittadinanza, ma è la legge che stabilisce in quali casi ciò accade e quindi prevede anche
casi in cui a determinare l’effetto concorre la volontà del singolo. La conseguenza di questo meccanismo è
che una persona, finché è cittadino italiano, porta con sé questa qualità e dunque va incontro
automaticamente a tutti i vantaggi e gli svantaggi che essa può comportare secondo gli avvenimenti. Ogni
volta che la legge si applica ai cittadini, questa qualità diviene il presupposto necessario, non rinunciabile,
dell’applicazione della legge. Oggi per i cittadini degli Stati aderenti all’Unione europea esiste anche la
cittadinanza europea che si acquista automaticamente se si è cittadini di uno degli Stati aderenti all’Unione.
Si chiama status la situazione per cui un soggetto riveste una particolare qualità che costituisce il presupposto
di molteplici e variabili diritti e doveri riconnessi a tale presupposto dalle norme in occasione di accadimenti
concreti (es. un certo reddito per il cittadino soggetto al pagamento delle imposte dirette). La cittadinanza è
uno status. Col matrimonio si acquista lo status di coniuge; con la nascita dei figli si acquista lo status di
genitore esercente la potestà dei genitori; etc. Ciascuna di queste qualità, che accompagna stabilmente una
certa persona fino a che non accadono fatti nuovi legittimati a farla perdere (la morte del coniuge; la
maggiore età dei figli; etc.), di per sé non si concreta in nulla oltre questa generale e astratta qualificazione
del soggetto: nella realtà questa qualità diventa il presupposto necessario di una serie ampia di possibili
diritti, poteri, doveri, riconnessi dal diritto a questa qualità volta a volta quando altre e specifiche norme
attribuiscono poteri, diritti e doveri appunto ai cittadini, ai padri. Possiamo dunque concludere che lo Stato è
un ente necessario perché lo status di cittadino (soggetto appartenente allo Stato) si acquista e si perde in
base alla legge dello stesso Stato. Non c’è nessuna ragione logica invincibile per cui lo Stato debba essere un
ente necessario, però ci sono molte ragioni pratiche per cui non è pensabile che questo si trasformi in ente
volontario. Se i singoli fossero assolutamente liberi di appartenere o non appartenere allo Stato per semplice
loro decisione, il monopolio della forza, la sovranità dello Stato, l’esistenza stessa della società organizzata a
Stato, andrebbe in pezzi. Per comprendere meglio bisogna distinguere tra sfera territoriale di efficacia del
potere statuale e sfera personale di efficacia di questo stesso potere. Lo Stato può comandare entro i suoi
confini. Per questa ragione ciascuno Stato si disinteressa dei soggetti che vivono e degli accadimenti che
avvengono al di fuori dei suoi confini. Per ciascuno Stato non avrebbe senso (perché al di fuori dei confini lo
Stato non ha la materiale possibilità di applicare ed eseguire con la forza ed unilateralmente i propri
comandi, a meno di scatenare una guerra) e sarebbe impossibile (perché ogni Stato non avrebbe i mezzi
materiali per conoscere e regolare concretamente tutto ciò che accade al mondo) materialmente occuparsi di
tali soggetti e tali fatti. Entro i confini dello Stato quest’ultimo è sovrano e dunque il suo comando può
investire tutti i residenti, qualsiasi sia la loro qualità. Lo Stato può disciplinare come meglio crede sia gli
stranieri sia i cittadini residenti, senza che altri Stati possano interferire nella questione (solo nel caso dei
cittadini). Però quello che tutti gli Stati non possono non fare è distinguere nettamente tra cittadini e stranieri
(o apolidi). Infatti: a) il potere dello Stato è nullo se non si esercita su uomini; la società governata dallo
Stato non esiste se i singoli membri fuggono materialmente da essa e non funziona se vi sono forti e repentini
mutamenti nella composizione numerica e qualitativa (es. tutti i medici fuggono dallo Stato); b) lo Stato
dunque deve garantirsi una popolazione relativamente stabile e tale popolazione non può che essere quella
residente; c) lo Stato dunque tende a far coincidere popolazione residente con cittadinanza, e in tal modo può
decidere con efficacia che sui cittadini solo lui e nessun altro ha potestà di imperio; d) in tal modo lo Stato
garantisce un potere certo sulla maggioranza della popolazione perché nessun altro Stato può materialmente
intromettersi nelle questioni interne di un altro e nessuno Stato, avendo i propri cittadini residenti nei suoi
confini, ha interesse a difendere i cittadini di altri Stati; e) ciascuno Stato ha interesse a difendere e
controllare i propri cittadini che vanno all’estero, in modo da mantenere quanto più stabile e certa la sua
popolazione; f) per conseguenza ciascuno Stato non può trattare arbitrariamente gli stranieri, perché si
scontra immediatamente con la pretesa degli altri Stati di difendere e controllare i propri cittadini anche
all’estero. In conclusione: 1) tutti gli Stati distinguono nettamente tra cittadini e stranieri (e apolidi); 2) in
ogni istante dato la stragrande maggioranza dei cittadini risiede nei confini dello Stato e la stragrande
maggioranza dei residenti nello Stato è composta da cittadini. Lo Stato preserva la propria sovranità perché
solo una minoranza di cittadini sfuggono temporaneamente alla sua materiale possibilità di comando, e
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

coloro sui quali esso può esercitare il proprio comando in modo incontestato (i cittadini) sono sempre la
maggioranza rispetto a coloro sui quali il suo potere potrebbe essere contestato (i cittadini stranieri). Lo Stato
può disciplinare e limitare l’espatrio dei cittadini (non quello degli stranieri, salvo che abbiano commesso un
reato entro il territorio dello Stato). La Costituzione italiana nell’art.16 u.c. stabilisce: “ogni cittadino è libero
di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge”. Mentre sembra sancire
una libertà, la Costituzione presuppone e sancisce un potere dello Stato. Quindi lo Stato può porre limiti
all’espatrio del cittadino e tali limiti dunque possono essere posti solo dalla legge del Parlamento. Perciò, il
cittadino non è libero di uscire a suo piacimento dal territorio italiano, ma solo nei casi e con le limitazioni
previsti dallo stesso Stato attraverso leggi del Parlamento. Diverso il rientrare: il cittadino ha diritto di
rientrare nel territorio della Repubblica italiana e nessuna legge può impedirlo. Questa è la più importante
differenza tra il cittadino e lo straniero: lo straniero non ha il diritto incondizionato di entrare nel territorio
italiano, ma acquista quel diritto di entrare e rimanere nel territorio italiano così come è previsto e modulato
dalla legge. Lo Stato, nei casi in cui sia i cittadini che gli stranieri dimoranti al di fuori dei suoi confini
ricadano sotto la pretesa imperativa dello Stato, deve chiedere ad altri stati che questi gli consegnino
materialmente il cittadino o lo straniero. Questa richiesta di estradizione (estradizione attiva) ha successo se
l’altro Stato acconsente. La materia è oggetto di trattati internazionali fra gli Stati. In presenza di un trattato
da esso sottoscritto lo Stato è obbligato a concedere l’estradizione e quindi lo Stato richiedente ha la certezza
giuridica di ottenerla. Reciprocamente ciascuno Stato riceverà da parte di altri Stati richieste di estradizione
dal suo territorio o di stranieri o di suoi cittadini (estradizione passiva). La Costituzione italiana stabilisce che
“non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici” (art. 10 Cost. u.c.; salvo il reato di genocidio
per il quale secondo la l. cost. 21 giugno 1967 n. 1 è ammessa l’estradizione) e che “l’estradizione del
cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali. Non
può in alcun caso essere ammessa per reati politici” (art. 26 Cost.: eccezione del reato di genocidio). Dunque,
stranieri e cittadini sono parificati per quanto riguarda i reati politici, perché gli uni e gli altri non possono
essere estradati dall’Italia per questi reati; invece sono differenziati per quanto riguarda la generale
possibilità di estradizione passiva, perché gli stranieri possono essere estradati anche in assenza di specifiche
convenzioni internazionali, i cittadini italiani solo se vi sono specifiche convenzioni. L’estradizione è un
istituto che si applica solo a coloro che sono imputati o condannati per reati e per fatti che sono considerati
reati contemporaneamente sia dalla legge italiana che dalla legge straniera (art. 13 c.p.). L’estradizione
dall’Italia non è ammessa se da essa può derivare la pena di morte (Corte costituzionale sentenza n. 54 del
1979 e 223 del 1996). Nell’Unione europea tra gli Stati aderenti non si applicano più le norme di ciascuno
Stato sull’estradizione, ma le norme generali della decisione-quadro del Consiglio n. 584 del 2002/GAI (GAI
sta ad indicare che la decisione-quadro non era della Comunità europea, ma dell’Unione all’interno del terzo
pilastro: sui pilastri verdi; oggi questi nomi e il tipo di organizzazione che essi indicavano non esistono più a
seguito dell’entrata in vigore dal 1° dicembre 2009 del Trattato di Lisbona) che disciplinano il mandato di
arresto europeo e le procedure di consegna tra Stati membri (per l’Italia la direttiva è stata attuata con la
legge n. 69 del 2005). L’articolo 10 della Costituzione prevede il diritto di asilo dello straniero: “lo straniero,
al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla
Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla
legge”. Mentre il cittadino italiano ha il diritto di rientrare in Italia, lo straniero non ha alcun diritto
costituzionalmente garantito di entrare e, se entrato, di restare, salvi casi, previsti dalla Costituzione o
esplicitamente (diritto di asilo) o implicitamente (es. in nome dell’unità della famiglia, tutelata dalla
Costituzione, il diritto dello straniero al ricongiungimento con la sua famiglia legalmente residente in Italia).
Sarà la legge a stabilire se, quando, per quanto tempo, sotto quali condizioni lo straniero può entrare e restare
in Italia, e ne può venire espulso. Va ricordato, in forza della l. cost. 3/01 che ha modificato l’art. 117, che le
leggi italiane sono subordinate agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, le norme di queste fonti
prevalgono sulle leggi italiane. L’estradizione e l’espulsione sono due istituti diversi: il primo è la consegna
materiale di un individuo alle autorità di uno Stato determinato affinché l’estradato o venga processato
penalmente o sconti la condanna penale inflitta; il secondo è la materiale cacciata di un individuo dal
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

territorio dello Stato, fermo restando che tale individuo è libero di andare dove meglio ritiene. Se
l’espulsione viene condotta in modo coattivo, cessa ogni libertà della persona. Nel caso del respingimento
coattivo, cioè nella materiale presa di possesso delle persone prima che riescano ad entrare nel territorio
italiano, e nella loro consegna ad altro Stato che ha acconsentito a tale consegna, oggi lo Stato italiano agisce
contro ogni principio costituzionale, in modo inumano (la Costituzione tutela la libertà di tutti, in particolare
la libertà personale secondo l’art. 13). Comunque, solo lo straniero può essere espulso, non il cittadino
italiano. L’ordinamento deve prevedere sia il caso che lo straniero venga a risiedere in Italia, sia i casi in cui i
cittadini italiani e stranieri stringano rapporti giuridici. Il primo caso viene previsto dall’art. 10, comma 2
della Cost., che stabilisce esplicitamente che la legge italiana nel disciplinare lo straniero residente in Italia si
deve conformare prima alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, e poi ai trattati
internazionali. Implicitamente sembra suggerire che la legge italiana può disciplinare come meglio crede i
casi non previsti né da norme internazionali generalmente riconosciute né da trattati internazionali. La legge
generale vigente in materia è il decreto legislativo n. 286 del 1998, modificato da leggi successive. Questa
legge non si applica ai cittadini comunitari e parifica gli apolidi ai cittadini extracomunitari. Essa si ispira a
due principi: da un lato l’ingresso e la permanenza nel territorio italiano di cittadini extracomunitari sono
subordinati a regole restrittive, la cui violazione autorizza le autorità italiane indicate dalla legge o ad
impedire l’ingresso o ad espellere le persone entrate illegalmente; dall’altro lato “allo straniero presente alla
frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle
norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale
generalmente riconosciuti” (art. 2, comma 1). È sempre lo Stato che disciplina unilateralmente gli stranieri in
Italia perché: a) con legge di revisione costituzionale potrebbe abrogare o modificare l’art. 10 della
Costituzione; b) i trattati internazionali sono pur sempre atti volontari degli Stati. Usando questo potere
sovrano oggi lo Stato italiano ha portato al massimo di inciviltà la sua politica verso gli stranieri
extracomunitari: 1) ha reso difficile e ristretto l’ingresso ed il soggiorno legale dello straniero
extracomunitario (gli stranieri entrati e soggiornanti in maniera illegale sono tollerati finché fa comodo,
intanto vengono ricattati sul piano economico e sociale senza alcuna difesa); 2) ha praticato la politica del
respingimento, e cioè la materiale presa di possesso delle persone prima che entrassero nel territorio italiano
e la loro deportazione verso lo Stato compiacente, in totale violazione dell’art. 13 della Costituzione, oltre
che delle convenzioni internazionali in materia; 3) ha introdotto la punizione come reato dell’ingresso e del
soggiorno illegale nel nostro Stato. Fondamentale è la regola per cui i cittadini comunitari hanno il diritto di
entrare, risiedere e svolgere la propria attività lavorativa in qualunque stato dell’Unione europea, in parità
con i cittadini di tale Stato. C’è una netta distinzione tra cittadini extracomunitari e cittadini comunitari. La
condizione giuridica dei cittadini comunitari in Italia si avvicina progressivamente a quella dei cittadini
italiani (e viceversa), fino al punto che il trattato di Maastricht prevede la loro capacità elettorale per le
elezioni locali. Il secondo caso (rapporti interprivati tra cittadini e stranieri) viene disciplinato dal diritto
internazionale privato, norme dello Stato italiano che prevedono e disciplinano i possibili casi di rapporti
giuridici tra italiani e stranieri (matrimoni, rapporti di filiazione, contratti, etc.  l. 31 maggio 1995 n. 219
che ha sostituito gli artt. 17-31 delle disp. prel. c.c.). Il diritto internazionale privato regola i rapporti tra
privati appartenenti a diversi Stati; in secondo luogo è un diritto posto unilateralmente da ciascuno Stato, e
dunque niente vieta che il medesimo rapporto tra cittadino italiano e straniero riceva una certa disciplina se
giudicato in Italia, e riceva una disciplina del tutto diversa se giudicato in un altro Stato. In Italia, oltre lo
Stato, sono enti necessari anche i Comuni o le Città metropolitane, le Province e le Regioni perché non esiste
un pezzetto di territorio che non appartenga a questi. Quindi i Comuni o le Città metropolitane, le Province e
le Regioni sono necessari nel senso che non si può non appartenere a questi, ma non nel senso che bisogna
appartenere per decisione autoritaria ad un determinato Comune (e quindi Provincia e Regione); tanto che in
Italia tutti i cittadini sono liberi di stabilirsi nel Comune che si scelgono, e di mutarlo liberamente in ogni
momento. Dunque, Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni sono enti necessari nei limiti in cui lo
Stato lo permette. Un Comune non potrebbe ad esempio opporsi al trasferimento di un cittadino in un altro
comune. Ci sono poi entro lo Stato altri enti necessari (es. gli ordini professionali ai quali obbligatoriamente
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

deve iscriversi chi vuole esercitare la professione di avvocato etc.), ma l’appartenenza a tali enti è necessaria
perché così la legge dispone. Ogni volta che l’appartenenza ad un determinato ente è imposta in modo
giuridicamente necessario quindi coercibile, ciò avviene perché lo Stato ha così disposto. Ci troviamo quindi
di fronte alla distinzione tra enti autoritativi ed enti non autoritativi. Tra i primi solo lo Stato può porsi
mediante la forza come ente necessario e quindi realizzare la sua pretesa. Altri enti autoritativi possono
ugualmente essere necessari e quindi realizzare la loro pretesa, ma solo se lo Stato ha attribuito loro questa
qualità (necessarietà derivata, non originaria). Può accadere che alcuni enti non autoritativi, che non usano e
che non possono usare la forza, pretendano di essere necessari e quindi non ammettano che si possa uscire
liberamente da essi (es. per la Chiesa cattolica una volta battezzati si fa per sempre parte della Chiesa); tale
pretesa non ha efficacia se il soggetto dissenziente vuole abbandonare l’ente collettivo, dato che lo Stato
garantisce la libertà del dissenziente di abbandonare l’ente vietando che gli vengano comminate sanzioni. A
questo proposito è importante riportare tre esempi tratti dalla storia della Chiesa cattolica. Il primo risale a
più di un secolo fa e racconta che a Bologna, durante lo Stato della Chiesa, viveva una famiglia ebrea di cui
faceva parte un bambino (Edgardo Mortara) che aveva una governante cattolica. Ad un certo punto il
bambino si ammalò gravemente e così la governante fece voto a Dio che se il bambino fosse guarito lo
avrebbe battezzato. Il bambino guarì e la governante mantenne fede alla parola data. L’autorità ecclesiastica
del tempo venne a conoscenza del bambino e per questa ragione sottrasse il figlio alla famiglia perché un
bambino cattolico non poteva essere educato da una famiglia ebrea. Il bambino venne educato dalla Chiesa
senza che i genitori potessero più rivederlo. Dunque, a) per la Chiesa l’appartenenza ad essa non è un fatto
volontario, sia perché il battesimo di regola viene impartito al neonato, sia perché, una volta ricevuto il
battesimo, il battezzato per la chiesa farà parte per sempre di essa; b) la Chiesa del tempo, avendo il potere
statale (forza armata), concretò materialmente la sua pretesa e tradusse in pratica la sua caratteristica di ente
necessario, sottraendo con la forza, alla famiglia di origine, il figlio battezzato. La pretesa di essere ente
necessario in questo caso fu accompagnato dalla possibilità di esserlo nei fatti. Oggi non solo la pretesa della
Chiesa non troverebbe nessun aiuto materiale da parte dello Stato, ma se i genitori decidessero di consegnare
volontariamente il figlio alla Chiesa, essi sarebbero puniti dallo Stato. Quindi la pretesa della Chiesa di
essere ente necessario oggi non ha nessun appoggio materiale e incontrerebbe i divieti posti dallo Stato. Il
secondo risale al 1960 e narra di un progressista, Aldo Capitini, che chiese al vescovo della sua città di essere
cancellato dai registri di battesimo, in quanto non più cattolico. Gli fu negato in quanto il sacramento del
battesimo è indelebile. Il terzo risale al 1956 in cui una donna cattolica, a Prato, sposò civilmente un uomo
iscritto al partito comunista. Ovviamente i due coniugi andarono successivamente a vivere insieme. Questo
per la Chiesa, la quale riconosceva solo il matrimonio religioso, costituiva un peccato mortale, quello di
concubinaggio. Così il vescovo di Prato li denunciò pubblicamente. L’Italia si divise in due: una parte, di
sinistra, sosteneva che la Chiesa non aveva il diritto di violare le leggi dello Stato e che poiché l’accusa di
concubinaggio era infamante e quindi costituiva reato secondo le leggi dello Stato italiano, il vescovo di
Prato andava condannato e punito; l’altra parte, di destra, sosteneva l’opposto e che l’accusa di
concubinaggio non costituiva vera offesa. Il tribunale di Firenze, inizialmente, condannò il vescovo di Prato;
la Corte di appello di Firenze in sede di appello gli diede ragione. La vicenda dimostra che la Chiesa cerca di
far seguire conseguenze pratiche alla sua pretesa di essere un ordinamento necessario (giudica un battezzato
anche se non più praticante) e dipende dallo Stato se la pretesa di essere società necessaria da parte della
Chiesa è puramente verbale o trova esecuzione.

10) Lo Stato in quanto ente rappresentativo: lo Stato grazie a tutte le sue caratteristiche riesce ad essere
l’ente rappresentativo di tutta la collettività nazionale, l’unico autorizzato a parlare e decidere a nome di tutti
i cittadini. Ciascuno Stato rappresenta tutti i propri cittadini nei confronti di ogni altro Stato. Il principio è
talmente assoluto che un popolo porta la responsabilità per gli obblighi assunti dal suo precedente Stato
anche quando ha mutato totalmente forma di Stato e di governo. Negare la rappresentatività di uno Stato
rispetto al suo proprio popolo equivale a dichiarargli o minacciargli guerra. La pretesa dello Stato di essere
rappresentativo di tutto il popolo si rivolge anche verso il suo interno e riesce ad esserlo avendo il monopolio

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Riassunto di Gaia Paoloni
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della forza. All’interno vi possono essere forze sociali e politiche che si riconoscono nello Stato esistente e
quindi lo riconoscono come rappresentante dell’intera collettività nazionale, pertanto legittimato a decidere
per tutti; ma ci possono essere anche forze che non si riconoscono nello Stato esistente e che non concedono
allo Stato la qualità di rappresentante di tutti, pur dovendo subire nei fatti il comando dello Stato. Dunque, il
grado di rappresentatività dello Stato può variare da paese a paese, da periodo a periodo. Le stesse forze che
riconoscono allo Stato la qualità di ente rappresentativo di tutti possono a loro volta caratterizzare in modo
diverso questa stessa qualità: es. alcune possono vedere nello Stato uno strumento necessario per l’esistenza
ordinata e pacifica della società, altre forze possono vedere nello Stato l’unità reale di tutto il popolo e quindi
un soggetto etico che rappresenta la totalità del vivere insieme, portatore di valori.

11) Lo Stato in quanto apparato: lo Stato è un apparato: un insieme ordinato e stabile di uomini dotato di
mezzi materiali adeguati per esercitare una serie di compiti e perseguire una serie di obiettivi secondo un
programma generale e unitario previamente elaborato e deciso. Un apparato è un ente collettivo (formato da
molti uomini); è un ente sociale (esiste come creazione degli uomini in società); è un ente complesso che
possiede meccanismi per la formazione delle decisioni e per l’esecuzione di esse e si presenta come un
soggetto unitario, capace di elaborare programmi e di governare le sue diverse parti al fine di attuare tale
programma. L’apparato inteso come modo di organizzarsi e di agire collettivamente caratterizza la società
moderna. Dalla caratterizzazione dello Stato come apparato derivano una serie di ulteriori caratterizzazioni.
L’apparato statale è un apparato professionale: gli uomini che ne fanno parte sono uomini che dedicano tutto
il loro tempo lavorativo ai compiti svolti dall’apparato e vivono con la retribuzione che l’apparato assegna
loro in cambio dell’attività lavorativa svolta (compongono la burocrazia  Stato ente burocratico). Nello
Stato democratico al vertice ci sono i parlamentari, i membri del governo e altri soggetti politici di
derivazione popolare che però non sono dei professionisti, ma di fatto lo diventano, come è testimoniato
dalla constatazione che esiste una carriera politica e che i politici, soprattutto quelli più autorevoli, sono tali a
vita e dunque la loro attività esclusiva o principale è la politica che svolgono per tutta la vita. In ogni caso lo
Stato è composto per la stragrande maggioranza da professionisti: da persone che vivono solo al servizio
dell’apparato statuale. Un’altra caratteristica degli apparati è che la loro attività complessa viene scomposta e
divisa in modo che entro l’apparato generale si individuano apparati minori ciascuno con un proprio compito
specifico; all’interno poi di ciascun apparato anche i singoli membri hanno compiti diversificati. Gli apparati
sono un’esemplificazione del principio di divisione del lavoro. La divisione del lavoro propria degli apparati
è una forma di razionalizzazione del lavoro e si può definire come una scomposizione di ogni attività e
funzione in parti più semplici. La razionalizzazione delle funzioni statuali risponde a molteplici e
contraddittorie esigenze politiche e sociali, e quindi le procedure, le competenze, gli incroci e le
combinazioni di competenze si adattano alle diverse pressioni che provengono dal corpo sociale alle quali
l’apparato statale deve rispondere per garantire sia il funzionamento della macchina economica secondo le
sue leggi interne, sia la pace sociale. Bisogna distinguere tra razionalizzazione e razionalità. Col primo
termine si intende quel processo intellettuale e pratico-sociale per cui applichiamo la potenza dell’analisi a
qualsiasi procedimento pratico al fine di ottenere un risultato ottimo. Col secondo termine si intende un
giudizio sulla realtà storico sociale davanti al tribunale della ragione, cioè la capacità di valutare criticamente
la realtà complessiva secondo le cause che l’hanno determinata. La ragione tende a comprendere la realtà
complessiva, cioè è capace di comprendere contemporaneamente la storica necessità delle cose presenti e la
storica necessità del loro mutamento. Però può accadere che un procedimento razionalizzato si riveli
irrazionale misurato col metro più generale della ragione e quindi l’ottimizzazione rispetto ad un fine
particolare e parziale può rilevarsi fonte e causa di gravi e talvolta insopportabili irragionevolezze. Quando
parliamo di razionalizzazione delle attività e dei compiti di un apparato, descriviamo un modo di agire e di
modificarsi di questo apparato, ma non pronunciamo nessun giudizio positivo su questo stesso apparato nei
suoi rapporti con la realtà storico-sociale complessiva. Questo apparato, così razionalizzato, può rivelarsi
profondamente irrazionale rispetto al tutto. Anche lo Stato in quanto apparato presenta questo processo di
continua scomposizione e ricomposizione della sua attività.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

12) Apparati e principio di gerarchia: un’altra caratteristica degli apparati è che sono organizzati secondo
il principio di gerarchia. Nel diritto pubblico la categoria della gerarchia in senso stretto è quel rapporto tra
due soggetti in cui il superiore può in ogni momento riformare, annullare, avocare (richiamare presso di sé)
gli atti di quello inferiore, il quale è obbligato a conformarsi agli ordini e alle direttive del superiore. Però ci
sono rapporti gerarchici più intensi e rapporti meno incisivi di questo. La gerarchia militare è molto più
rigida perché tutto ciò che non è permesso può essere vietato e quindi il superiore, salve le libertà e i diritti
concessi all’inferiore dall’ordinamento militare e statale, ha un potere indeterminato sull’inferiore che deve
una quasi assoluta obbedienza al superiore. Due regole caratteristiche dell’ordinamento militare sono:
l’inferiore non può mai adire direttamente organi superiori scavalcando il superiore gerarchico (il soggetto
che gli è immediatamente superiore), ma deve sempre rivolgersi a questo (e questo si rivolgerà al suo
superiore gerarchico e così via fino al vertice della gerarchia); l’inferiore non può sindacare la legittimità
dell’ordine del superiore, ma deve obbedire. La gerarchia entro l’ordinamento giudiziario, poiché il giudice è
soggetto solo alla legge (art. 101 Cost.), è molto più blanda. Nei rapporti tra i diversi uffici giudicanti non
esiste un rapporto come da superiore ed inferiore e così viene tutelata l’indipendenza del giudice anche
rispetto ai giudici di appello sulle sue sentenze. La gerarchia in senso largo è quel principio organizzativo per
cui entro l’apparato esistono superiori ed inferiori e tutti sono posti in una scala gerarchica, in modo tale che
al vertice ci sono alcuni soggetti che comandano senza essere comandati; alla base ci sono puri esecutori, che
obbediscono senza avere neanche una piccola posizione di comando entro l’apparato; in mezzo ci sono
soggetti che sono contemporaneamente inferiori e superiori: subordinati verso l’alto della scala gerarchica,
superiori verso il basso di questa stessa scala.

13) L’apparato dello Stato e il segreto: una caratteristica dell’apparato statuale è la segretezza del suo agire
(principio del segreto). Bisogna distinguere tra segreto qualificato (o protetto) e segreto semplice (o di fatto).
Il segreto qualificato deve obbligatoriamente essere mantenuto da parte di coloro che vengono a conoscenza
di notizie e fatti sui quali chi ne ha l’autorità ha imposto il segreto. La violazione di tale obbligo dà luogo a
sanzioni penali. Si distingue tra segreto di Stato, cioè il segreto su fatti e notizie che, se divulgati, mettono in
pericolo o si pretende che mettano in pericolo la sicurezza dello Stato; segreto di ufficio (divulgazione da
parte di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio di notizie apprese a causa del loro ufficio e che
devono rimanere segrete): in questo caso commette reato solo l’impiegato che divulga la notizia, ma non
coloro che, fuori della p.a., venuti a conoscenza della notizia, la divulgano (nel primo caso il divieto riguarda
tutti e chiunque rivela le notizie coperte da segreto di Stato è punibile); segreto nel processo penale, cioè il
segreto che devono mantenere sui fatti dei quali sono venuti a conoscenza tutti coloro i quali partecipano alle
fasi del processo penale. Quest’ultimo segreto va mantenuto in assoluto o fino ad un certo momento, secondo
quanto dispongono le norme. Ci sono poi altri segreti tutelati come il segreto professionale. In tutti i casi
descritti l’ordinamento vieta e punisce penalmente la divulgazione di determinate notizie. È lo stesso
apparato che stabilisce quali notizie sono segrete. Per quanto riguarda il segreto di Stato la Corte
costituzionale con sentenza n. 86 del 24 maggio 1977 aveva stabilito che solo il Presidente del Consiglio
poteva dichiarare se una notizia era coperta da segreto, motivando la sua decisione davanti alle Camere. La
legge 24 ottobre 1977 n. 81 aveva recepito le indicazioni della Corte. Questa legge è stata sostituita dalla
legge n. 124/07 che prevede che contro il Presidente del Consiglio, il quale ha confermato l’esistenza del
segreto, il giudice può ricorrere per conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato davanti alla Corte
costituzionale; la Corte decide in ultima istanza se sussiste o no segreto secondo quanto previsto dalla legge;
qualora la Corte conferma l’esistenza e la legittimità del segreto, il giudice non può fare altro che prenderne
atto; se invece la Corte dichiara che segreto non c’è o è stato posto illegittimamente, il giudice ne prende
conoscenza e nessuno può opporsi. L’apparato può impedire la divulgazione di qualsiasi notizia che riguardi
la sua attività. Esiste poi un segreto di fatto: ogni unità amministrativa tende spontaneamente a coprire col
segreto la propria attività, limitandosi a far conoscere all’esterno solo ciò che è obbligatorio per legge o che
conviene ad essa far conoscere. Per superare il segreto di fatto sono necessarie norme specifiche. Oggi è stata
approvata la legge n. 241 del 1990 che riguarda il procedimento amministrativo e il diritto di accesso ai

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Riassunto di Gaia Paoloni
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documenti amministrativi. Scopo della legge è quello di garantire che chiunque vi abbia interesse possa
conoscere documenti della p.a. a cui è interessato. La legge definisce che cosa si deve intendere per
documento amministrativo; indica i casi e le ragioni per cui un regolamento di attuazione potrà stabilire
limiti all’accesso a certi documenti amministrativi; obbliga le amministrazioni a indicare mediante
dichiarazioni pubbliche le categorie di documenti di cui dispongono e le modalità per accedervi; stabilisce
che la conoscenza dei documenti amministrativi può avvenire sia mediante revisione diretta sia mediante
rilascio di copia; stabilisce i rimedi che gli interessati possono usare contro il diniego di accesso e stabilisce
che il giudice competente è quello amministrativo, il quale, se accoglie il ricorso, ordina all’amministrazione
l’esibizione dei documenti richiesti. In materia di accesso ai documenti amministrativi, viene istituita presso
la Presidenza del Consiglio la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, che ha il compito di
vigilare sull’esatto adempimento della legge su questo punto. Il diritto di accesso è praticabile solo se: a)
esistono archivi facilmente accessibili e ben costruiti i quali catalogano i documenti che ciascuna
amministrazione possiede ed indicano esattamente dove si trovano; b) se le procedure pratiche per accedere
non sono troppo scoraggianti. L’apparato ha tutto l’interesse a tenere segreta quanto più è possibile la sua
attività, per due ragioni: la conoscenza è potere  l’apparato nel suo complesso cerca di coprire col segreto
la sua attività e le sue conoscenze, ma anche i singoli apparati minori tengono segrete le loro conoscenze ad
altri apparati minori entro lo Stato, a tutela del proprio relativo potere; la conoscenza è la condizione
indispensabile della critica e dunque impedire la conoscenza è il mezzo più efficace per impedire la critica
perché è impossibile criticare senza conoscere i fatti su cui essa si esercita.

14) La separatezza dell’apparato statale: un’altra caratteristica dell’apparato statale è la separatezza:


l’apparato si autogoverna in modo da escludere, tendenzialmente, qualsiasi intromissione al suo interno di
soggetti estranei all’apparato. La tendenza si manifesta in tre momenti: quello dell’ammissione di nuovi
membri entro l’apparato; quello del controllo sulle persone e sugli atti dell’apparato; quello delle sanzioni a
carico dei membri dell’apparato nei casi di loro comportamento illegittimo. Per quanto riguarda il primo, la
regola è quella della cooptazione: l’apparato statuale assume i suoi membri. La Costituzione sancisce il
principio per cui la quasi totalità dei membri dell’apparato diventano tali solo per concorso (artt. 97 e 106),
ma i concorsi sono governati dallo stesso apparato. Per quanto riguarda il secondo momento, tutti i controlli
sulle persone e sui loro atti vengono affidati a specifici apparati minori che sono parte integrante
dell’apparato Stato. I meccanismi di controllo entro lo Stato sono molteplici e vari (es. preventivi, cioè che
avvengono prima che il l’atto divenga efficace, oppure successivi, cioè il contrario, etc.). Tutti però sono
esercitati da specifici soggetti interni allo stesso Stato, non esistono forme di controllo popolare o se esistono
sono talmente sporadiche da essere insignificanti rispetto alla regola generale per cui lo Stato controlla sé
stesso, i propri membri e la propria attività. Per quanto riguarda il terzo momento, sia le sanzioni penali sia le
sanzioni disciplinari vengono comminate da soggetti dello stesso apparato, le prime dai giudici ordinari, le
seconde dai superiori gerarchici. Il rapporto di servizio tra Stato e impiegato statale viene governato dallo
stesso apparato con totale esclusione di forme di controllo popolare. Negli ordinamenti democratici il
Governo risponde politicamente davanti al Parlamento (organo rappresentativo del popolo), cioè deve
rendere conto di tutto quello che compie l’apparato che esso dirige e deve subire le conseguenze politiche
negative derivanti da una censura del Parlamento, fino alle dimissioni. Dato che solo il Governo risponde,
viene escluso che possano rispondere direttamente i singoli funzionari nei confronti dello stesso Parlamento
(meno che mai nei confronti del popolo).

15) Apparato dello Stato e istituti democratici – prime osservazioni sui partiti: i dirigenti massimi
dell’apparato statale negli Stati democratici vengono eletti dal corpo elettorale e quindi dal popolo, o
direttamente (Parlamento) o indirettamente (altri organi costituzionali). Però il potere del corpo elettorale è
limitato al momento della scelta, non si estende alla direzione dell’apparato. Inoltre, né i parlamentari né
qualsiasi altro soggetto di derivazione popolare è revocabile dal corpo elettorale e responsabile innanzi ad
esso fino alla scadenza del mandato. La vita politica è tale che essa tende a creare un ceto di politici di
professione che stabilmente occupano i posti di dirigenti come loro professione specifica. Il motore del
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Riassunto di Gaia Paoloni
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meccanismo politico-costituzionale sono i partiti e dunque, se i titolari formali dei poteri statali di vertice
sono il corpo elettorale e i soggetti da esso direttamente o indirettamente eletti, i reali detentori di tali poteri
sono i partiti, i quali organizzano, guidano e orientano il corpo elettorale e riempiono di uomini di loro
fiducia gli organi costituzionali dello Stato. Se formalmente il corpo elettorale ha solo il potere di eleggere a
scadenze periodiche i suoi rappresentanti e non ha altri poteri di intervento entro la macchina dello Stato, nei
fatti i partiti correggono questo limite e rendono permanente l’intervento dei cittadini organizzati, i quali
attraverso i rispettivi partiti hanno lo strumento per intervenire costantemente nella direzione dell’apparato
statuale. Però questi stessi partiti riproducono al loro interno un meccanismo di selezione elitaria dei
dirigenti, i quali tendono a fondersi con l’apparato dello Stato, pur essendone formalmente separati, ed a
costruire un continuum dirigenti dell’apparato statale-dirigenti dei partiti. La tendenza dell’apparato statuale
a rendersi autonomo dalla società (governa la composizione, il reclutamento e la vita interna di questo stesso
apparato) viene ostacolata negli Stati democratici dal fatto che i dirigenti massimi dello Stato sono di diretta
o indiretta derivazione popolare ed entro l’apparato statale il dominio politico spetta ai partiti, organismi
fondati sul diretto consenso popolare.

16) L’apparato dello Stato e il principio di legalità: un’altra caratteristica di molti Stati moderni è il
principio di legalità: l’apparato dello Stato può esercitare solo quei poteri che trovano un loro fondamento
nella legge del Parlamento, e cioè nella volontà popolare maggioritaria. Nelle monarchie assolute, in forza
del principio per cui il potere del re derivava da Dio, i singoli poteri esercitati dal sovrano dipendevano dalla
libera determinazione dello stesso sovrano. Successivamente, con le monarchie costituzionali, la legge del
Parlamento fu concepita come limite del potere sovrano, però se non esisteva la legge per un determinato
campo, il potere del re poteva espandersi liberamente. Oggi ha prevalso il principio per cui ogni potere dello
Stato deve fondarsi sulla legge del Parlamento, e ove non c’è legge non c’è potere statale. In alcuni paesi,
come in Gran Bretagna, è normale che il sovrano mantiene un potere di prerogativa, cioè un potere rispetto a
determinate materie che è suo senza essere fondato sulla legge; così in Italia ci sono ancora alcuni poteri
eccezionali a favore dell’esecutivo che sono il ricordo della prerogativa sovrana, non fondata sulle leggi e
questi sono i poteri di ordinanza di necessità e urgenza in cui il soggetto che ne è rivestito ha un potere
generico e indeterminato: in casi di urgente necessità può fare tutto quello che ritiene necessario anche in
deroga alla legge per provvedere ad una situazione eccezionale ed urgente. Tali ordinanze non possono
violare i principi costituzionali, sono temporanee e cessano di avere efficacia non appena è cessata
l’emergenza, sono limitate al territorio investito da avvenimenti eccezionali, sono sottoposte al controllo dei
giudici. Però in generale tutti gli Stati democratici oggi sono governati dal principio di legalità, ogni potere
dello Stato si fonda sulla legge. Tutte le singole parti dell’apparato agiscono sulla base e nei limiti delle
decisioni del Parlamento. Però il Parlamento è pur sempre organo dello Stato, lo Stato dunque, obbedendo al
Parlamento, obbedisce pur sempre a sé stesso; allo stesso tempo il Parlamento deve rappresentare l’intero
popolo, e dunque per questa via è lo strumento attraverso cui l’apparato Stato dovrebbe subordinarsi
all’intero popolo. Quindi il popolo, per comandare, deve investire di sé lo Stato e dunque trasferire allo Stato
il potere di comando; allo stesso tempo, attraverso questo rapporto di rappresentanza politica, il popolo cerca
di conservare presso di sé il potere di comando e intanto deve esercitarlo necessariamente attraverso lo Stato
e i suoi organi, affinché la potenza dello Stato resti subordinata alla volontà del popolo. I migliori pensatori,
anche borghesi, da Rousseau in poi, hanno sempre sentito come un ostacolo il fatto che il popolo proclamato
sovrano debba esprimersi necessariamente attraverso un apparato separato da sé a cui è subordinato.

CAPITOLO 2

Stato e società

1) Due significati della parola Stato: la parola Stato indica sia l’organizzazione centralizzata
monopolizzatrice della forza, sia il popolo residente su un determinato territorio organizzato da un potere
centrale. L’oggetto denotato dal primo significato è compreso nell’oggetto denotato dal secondo significato
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Riassunto di Gaia Paoloni
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quindi a comporre il secondo significato concorre, insieme al popolo e al territorio, anche quello stesso
apparato centrale monopolizzatore della forza che esaurisce il primo significato. Si può concludere che i due
significati stanno in una relazione per cui la parte (apparato centrale) designa il tutto (intera società
organizzata da tale apparato). Resta però irrisolto come e perché accade che la stessa parola Stato designi sia
la parte (apparato centralizzato) sia il tutto (società organizzata intorno a questo apparato centrale). La
domanda rinvia alla storia secolare sia del costituirsi di questo monopolio della forza, sia della società
governata da tale apparato monopolizzatore della forza, sia del complicato e variabile rapporto storicamente
accertabile tra i due termini.

2) Storicità dello Stato: la caratteristica di Stato come apparato unitario che entro un determinato territorio
monopolizza la forza è recente nella storia dell’umanità, non è sempre esistita. Lo Stato è nato nel corso
dello sviluppo storico dell’umanità e questo rende legittima la domanda se non è possibile che lo Stato muoia
in un secondo momento: se cioè in futuro non possa esistere una nuova forma di organizzazione della società
umana nella quale non vi sia più un ente monopolizzatore della forza. Lo Stato non esisteva in tutte le società
primitive: società che per lo scarso numero dei propri componenti e per la rudimentalità della loro
organizzazione appartengono alla preistoria. Vi è storia quando c’è sviluppo della società umana. La
differenza tra storia e preistoria viene posta nella presenza o assenza di documenti scritti. La storia comincia,
e la preistoria finisce, quando cominciano testimonianze scritte. In conclusione, tali società, molto piccole e
ristrette, hanno un’organizzazione rudimentale tale per cui quel poco di violenza, che viene esercitata,
appartiene a tutto il gruppo contemporaneamente o ai singoli come tali. Passando alla società feudale quello
che colpisce è il fatto che ciascun feudatario ha una sua propria forza armata, tale che anche i feudatari
minori, alleandosi, possono contrastare il potere del feudatario maggiore, e tale che i feudatari maggiori
hanno un potere talvolta superiore a quello del sovrano. Ogni feudo è un’unità economica autosufficiente che
fonda e garantisce l’indipendenza anche militare del feudatario. Potere militare e potere economico sono
uniti nella stessa persona o famiglia. I rapporti tra sovrano e grandi feudatari, tra grandi feudatari e feudatari
minori sono governati da rapporti personali di fedeltà. L’inferiore giura fedeltà al superiore e nello stesso
tempo anche il superiore si impegna verso l’inferiore assumendosi verso di lui degli obblighi, come quello di
proteggerlo. In definitiva ogni potere è parziale e limitato. Il feudatario minore non è legato al sovrano
perché il suo vincolo di fedeltà è diretto verso il feudatario maggiore che lo ha investito, così se il feudatario
maggiore si ribella, quello minore a lui legato dalla fedeltà deve seguirlo. L’esercito feudale è composto da
armati che appartengono a diversi signori e così l’unità di comando era assicurata solo dall’accordo dei
feudatari maggiori. Nella società feudale nessun soggetto aveva il monopolio della forza, la quale era
spezzata, tra molti soggetti indipendenti, così nessuno poteva prevalere sugli altri, ma tutti erano costretti a
continui alleanze per mantenere il proprio potere parziale. Successivamente le monarchie assolute distrussero
i poteri feudali e concentrarono tutto il potere presso di sé. Il processo si sviluppa all’incirca nel 1400-1500 e
nel 1600 è terminato in tutti i principali paesi europei del tempo (Inghilterra, Francia e Spagna). Con la
monarchia assoluta comincia il monopolio della forza da parte di un apparato centralizzato e unitario e
comincia la storia dello Stato. Nelle monarchie assolute il potere non spetta all’uomo re, ma alla corona. Con
la monarchia assoluta si afferma il principio per cui la successione al trono è automatica e immediata
secondo regole certe e predeterminate, eliminando quel momento di crisi che nel passato sorgeva alla morte
di ciascun re. Questa continuità genera l’idea che il potere è impersonale: ad esempio si comincia a
distinguere il patrimonio della corona da quello personale del re, affermandosi così quell’apparato di potere
che comincia ad agire in nome del sovrano, non nell’interesse dell’uomo, ma del regno e cioè della
collettività unitariamente intesa (potere pubblico acquista una sua relativa autonomia). La monarchia assoluta
ha introdotto il concetto di apparato burocratico professionale. Il sovrano assume su di sé le funzioni di
ordine generale che i nobili svolgevano in precedenza e dunque ha bisogno di un apparato di servizio sempre
più numeroso, articolato e competente. Questo nel suo insieme è l’effettivo sovrano. L’esercito feudale viene
sostituito da un esercito professionale accentrato e permanentemente in servizio. Per la monarchia assoluta
comincia la storia dello Stato. Nelle città stato-greche non esisteva un apparato separato dalla comunità

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Riassunto di Gaia Paoloni
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cittadina il quale monopolizzava la forza dopo averne spogliati i cittadini: detentori del potere erano gli stessi
cittadini, infatti non esisteva burocrazia, né esercito permanente, ma tutti i cittadini erano armati e tutti
insieme formavano l’esercito nei momenti in cui era necessario combattere. Quindi esisteva un monopolio
della forza, ma da parte di tutti i cittadini nel loro insieme contro gli schiavi. Questo monopolio non
costituiva a sua volta proprietà di un ente separato dai cittadini che invece è caratteristica dello Stato che noi
oggi conosciamo. Quanto all’Impero romano è vero che il potere militare si è concentrato in un esercito
professionale comandato dall’imperatore, però questo fatto non è mai riuscito a trasformarsi nell’idea e nella
pratica per cui il potere sovrano spetta ad un apparato particolare separato rispetto alle società. Il potere è
legato all’imperatore che lo esercita per delega del popolo romano, non spetta ad un apparato impersonale di
cui l’imperatore è soltanto il capo. Di qui ad esempio la difficoltà nel risolvere il problema della successione
nel potere: viene a mancare l’elemento caratteristico dello Stato, la stabilità e continuità del potere che,
essendo legato ad un apparato impersonale e non ad un uomo singolo, non viene meno quali che siano le
vicende degli uomini che compongono l’apparato. Esiste poi una burocrazia divisa in due parti: quella
inferiore, composta da schiavi o liberti, e la parte superiore, quella dirigente, molto ristretta, composta da
cariche ricoperte da uomini tratti dalle classi superiori, cosicché queste cariche non erano né elettive né
professionali. In conclusione, mancano le condizioni affinché la burocrazia del tempo potesse divenire un
apparato unitario e impersonale e quindi capace di rappresentare gli interessi di tutto il popolo-nazione.
Infine: l’impero romano si fonda sulla schiavitù, sul potere dei padroni di schiavi che impediscono
l’affermarsi di un unico potere generale dello Stato su tutta la popolazione: chi comanda sugli schiavi è il
padrone privato, non il potere pubblico; l’impero nasce come unione di precedenti regni e città che
mantengono un’autonomia differenziata tra di loro. La città-stato greca e l’impero romano presentano già
alcune delle caratteristiche fondamentali dello Stato: si afferma la separazione tra potere politico e potere
economico, la convinzione che il potere politico è res pubblica e cioè affare di tutti contemporaneamente. Si
sviluppa poi nella sfera della circolazione lo scambio mercantile, per cui gran parte della ricchezza circola
sul mercato contro denaro. La società antica non diventerà mai capitalistica, ma resterà fondata sullo
schiavismo, però come nell’antichità classica il mercato è già dominante ed è ridotto a fenomeno secondario
la produzione per l’autoconsumo, così corrispondentemente il potere politico si separa dal potere economico
e in questo senso anticipa già la forma Stato. Quanto al dispotismo asiatico possiamo dire che è una
formazione economico-sociale in cui esistono molte comunità agricole autosufficienti, prive di sviluppo, che
di anno in anno ripetono il medesimo ciclo economico e sociale, le quali però tutte insieme dipendono da un
potere centrale che assicura l’indispensabile regolamentazione delle acque, le opere pubbliche di grandi
dimensioni e la difesa verso l’esterno, compiti che nessuna singola comunità può assolvere. Anche il
dispotismo asiatico non è uno Stato in senso proprio dato che l’imperatore e il suo apparato centrale non
sono sovrani rispetto ad ogni altro aspetto che riguarda più specificamente la vita delle singole comunità
agricole, che sono mondi autosufficienti e indipendenti l’uno dagli altri e dal centro. In conclusione, ci sono
state società prive del monopolio della forza, come la società feudale, e quindi società per questo solo fatto
non organizzate a Stato, così che lo Stato non è una forma permanente di organizzazione politica, ma una
forma storica, che si ritrova in alcuni periodi e in alcuni paesi, e non in altri. Anche ammettendo che
ordinamenti diversi dalle monarchie assolute del 1500-1600 in Europa presentano ugualmente la
caratteristica del monopolio della forza attribuito ad un apparato impersonale e quindi in questo senso sono
Stati, si tratta comunque di Stati che poco hanno a che spartire con lo Stato moderno nato e sviluppatosi
insieme al capitalismo.

3) La separazione tra potere politico e potere economico: con la monarchia assoluta si opera una
distinzione tra potere politico e potere economico. Il grande feudatario unisce in un unico potere, quello
economico, fondato sulla ricchezza materiale, e quello politico, fondato sulle armi. Con lo Stato questa unità
si rompe. Questo fatto spiega perché la borghesia e il popolo minuto appoggiano la monarchia assoluta, e
perché quest’ultima si afferma come la forma storico-politica dominante in Europa (prima di cedere il passo
a forme di governo più moderne e più adeguate a quella realtà economico-sociale). La borghesia è portatrice

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di un nuovo modo di produzione fondato sulla concorrenza tra privati, sulla libera circolazione delle merci,
sulla separazione tra mezzi di produzione e lavoratori e quindi sulla mercificazione della forza lavoro, che
viene venduta sul mercato da lavoratori liberi. La borghesia ha bisogno della monarchia assoluta e la sostiene
perché: essa difende i borghesi dai vincoli di origine feudale che limitano l’espandersi del mercato, e che
sono proprio amministrati dai feudatari, grandi proprietari terrieri i quali uniscono al potere economico
quello politico (possono imporre tasse, pedaggi, hanno le armi, etc.); la monarchia assoluta spoglia tutti i
borghesi del potere politico e per questo li rende eguali e permette che la competizione sia condotta e vinta
essenzialmente con armi economiche: chi decide della ricchezza e del fallimento del borghese imprenditore è
il mercato, non il potere politico; la monarchia assoluta, col suo potere centralizzato armato, garantisce una
pace sociale: la circolazione delle merci, l’espandersi del mercato e dell’iniziativa privata vengono aiutate da
questa pace sociale garantita da un potere centrale. Anche il popolo minuto appoggia la monarchia assoluta
perché per un certo periodo l’oppressione del monarca e del suo apparato è minore di quella del Signore
feudale. Finché fu necessario opporre un potere forte centralizzato al potere feudale, la monarchia assoluta
ebbe l’appoggio di queste forze. Non appena questo compito fu portato a termine, la monarchia assoluta si
rivelò un ostacolo per l’ulteriore sviluppo della società borghese. La monarchia assoluta in Europa era
l’unica forza che poteva distruggere il potere feudale. Ma ciò a cui tendeva la borghesia e ciò che ha
costruito è stata la separazione tra potere economico e potere politico: lo Stato. La monarchia assoluta si è
rivelata una forma transitoria di Stato, ma necessariamente da superare non appena terminato il suo compito
storico. La distinzione fra potere economico e potere politico è rilevante perché: rappresenta una novità
storica; questa separazione permette di concepire a livello di pensiero due attività umane come distinte:
quella politica e quella economica; su questa base materiale vengono poste le premesse per la nascita della
scienza della politica (in particolare con Machiavelli) e della scienza dell’economia (Inghilterra, il primo
paese capitalistico e il primo stato moderno); questa distinzione rappresenta un punto di non ritorno: anche
quando lo Stato le riunifica, ciò avviene sempre con la consapevolezza che sono distinte. Nessuna forma di
organizzazione politica del passato ha dimostrato una capacità di adattamento e di flessibilità comparabile
con quella che ha mostrato la forma Stato. La separazione dalla società del potere politico organizzato si è
dimostrata la premessa indispensabile per costruire questo stesso potere in modo tale che esso rimanga
costante, pur nel rapido mutamento della società, e nello stesso tempo sia abbastanza flessibile da contenere
diverse realizzazioni storiche della medesima forma fondamentale.

4) La rivoluzione inglese: la monarchia assoluta introduce aspetti che saranno ripresi dallo Stato: un
meccanismo politico separato dal potere economico, un apparato burocratico professionale e un esercito
permanente. Questo avviene attraverso un lento processo che inizia nei momenti di crisi attraversati dallo
Stato borghese ad esempio con la rivoluzione inglese. In Inghilterra la dinastia Tudor con la regina Elisabetta
(1558-1603) aveva già portato a compimento il dominio della monarchia assoluta, favorita dalla distruzione
della vecchia nobiltà feudale nella guerra delle due rose (1455-1485). Con Giacomo I Stuart (1603-1625)
l’accordo tra corona e classi proprietarie si incrina e si creano le premesse dello scoppio rivoluzionario.
Giacomo I Stuart pretende di teorizzare la derivazione da Dio del potere regio e di trarne tutte le
conseguenze. In questo modo si urta col parlamento, cioè con il corpo rappresentativo delle classi
proprietarie del tempo, e con l’indipendenza dei giudici, espressione istituzionale di quelle classi. Giacomo I
applica quello che si pratica negli altri paesi europei, in Francia e in Spagna. Però in Francia e Spagna il
potere feudale è ancora forte e la borghesia molto debole, cosicché la monarchia assoluta appare necessaria e
insostituibile come fattore di unità e di pace sociale; mentre in Inghilterra la nobiltà feudale era una forza
ormai secondaria e un notevole sviluppo dell’industria e commercio della lana aveva sviluppato la borghesia.
L’aristocrazia terriera, la nuova nobiltà, aveva poco di feudale: essa considerava la terra non come la base di
un potere politico indipendente, ma come una ricchezza da sfruttare; per questa ragione si allea con la
borghesia commerciale. Nascono tre figure dell’Inghilterra di quel secolo: l’affittuario capitalistico, cioè
l’imprenditore che prende in affitto la terra dei nobili per ricavarne profitto; il grande proprietario terriero,
aristocratico, che deriva la sua forza dalla rendita dei suoi terreni affidati all’imprenditore capitalistico; il

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gentiluomo di campagna, cioè il proprietario terriero della nobiltà inferiore, che cura direttamente mediante
fittavoli e braccianti la conduzione della terra. Quindi l’aristocrazia gode di una rendita che, essendo detratta
dal profitto, è già capitalistica, ed è interessata allo sviluppo capitalistico sia nell’agricoltura che nel
commercio. Il Parlamento, dominato dall’aristocrazia terriera è dunque un Parlamento che esprime già gli
interessi della borghesia. Dunque, quando Giacomo I e poi Carlo I (1625-1649) pretendono di imporre il
proprio potere assoluto sul Parlamento e sui giudici del regno, essi si scontrano con un blocco di interessi che
è ormai dominante economicamente e politicamente. Il conflitto si manifesta sotto veste religiosa: da un lato
la chiesa anglicana e la sua riaffermazione del potere dei vescovi di nomina regia; dall’altra parte ci sono i
presbiteriani; è l’ala destra della borghesia del tempo che vorrebbe un compromesso col potere regio, e gli
indipendenti (chiese a struttura più democratica e con contenuti più radicali, che daranno ai loro seguaci il
nome famoso di puritani, costituiti dalla media borghesia del tempo). Ci sono poi i livellatori che sono l’ala
radicale della borghesia del tempo e che esprime gli interessi della piccola borghesia. I nullatenenti avranno
una espressione politica con gli zappatori, ma non riusciranno ad esprimersi in modo significativo e
politicamente efficace. Col re si schiera quella parte dell’aristocrazia rimasta feudale per interessi economici,
modi di vita ed ideologia e quelle frazioni di borghesia commerciale che aveva fondato la propria fortuna sui
privilegi concessi dalla corona, e parte della gentry. La vittoria del parlamento è stata la premessa di un
impetuoso sviluppo capitalistico che farà dell’Inghilterra il primo paese industrializzato e la più grande
potenza del mondo. La rivoluzione inglese attraversò almeno quattro fasi distinte. Nella prima il parlamento
(1640-1652) si ribella apertamente al re, crea un suo esercito (New Model Army), governa direttamente
quella parte di territorio che domina militarmente. Questa fase termina con la decapitazione del re, Carlo I,
nel 1649, dopo che i tentativi di compromesso erano falliti e dopo che aveva preso il sopravvento sullo stesso
parlamento l’esercito guidato da Cromwell. La seconda fase è caratterizzata dalla dittatura (Protettorato) di
Cromwell, dal 1653 al 1658, in cui nessuno tra i partiti politici che si contendono il potere è in grado di
tenerselo. La terza fase è quella della restaurazione, seguita alla morte di Cromwell, nella quale tutte le forze
moderate impongono la restaurazione della monarchia Stuart. L’ultima fase si ha con la gloriosa rivoluzione
del 1688-89 quando la restaurazione della monarchia di Giacomo II (1685-1689) convince sia il partito
conservatore tory allora dominante, sia il partito whig, erede del Parlamento rivoluzionario, che è necessario
creare un rapporto istituzionale tra corona e Parlamento che impedisca il pericolo di restaurazione della
monarchia assoluta, il ritorno del cattolicesimo come religione di Stato (quindi la perdita dell’indipendenza
nazionale in campo spirituale), la subordinazione al potente re di Francia, il re sole, cui il cattolico Giacomo
II si appoggia. A questo fine i capi più autorevoli dei due partiti si accordano per chiamare al trono
Guglielmo d’Orange e sua moglie Maria, mentre Giovanni II fugge. Quella del 1688-89, che non fu una vera
rivoluzione, è gloriosa per gli ideologi perché pacifica, indolore e rispettabile. Essa pose le fondamenta
solide di un regime politico che verrà chiamato governo parlamentare, il quale da allora in poi reggerà il
paese e sarà sempre più perfezionato. Con la rivoluzione del 1688-89 viene acquisito: che il sovrano dipende
dalla legge, perché è la legge del Parlamento che chiama al trono Guglielmo d’Orange e Maria, scavalcando
la legittima successione, e perché è la legge del Parlamento che (a garanzia dell’indipendenza nazionale)
dispone che nessun re inglese può essere cattolico; che la corona deve spartire il potere col Parlamento, ma in
realtà si pongono le premesse affinché la corona ceda ogni suo potere a ministri responsabili innanzi al
Parlamento.

5) I teorici della rivoluzione inglese: Hobbes e Locke: il significato di questa vicenda storica si ritrova sia
in Hobbes (1588-1679) che in Locke (1632-1704). Hobbes scrive le sue opere politiche nel pieno della
guerra civile (1650), Locke le pubblica alla fine (dopo il 1689). Questo dato cronologico spiega la diversa
problematica che i due autori affrontano e la loro diversa collocazione. Hobbes si pone il problema dello
Stato nei suoi termini generali in quanto risolutore del conflitto e garante della pace sociale; Locke ha il
problema di consolidare la vittoria e la pace già raggiunta, di raccoglierne i frutti e dare ad essi una solida
base teorica e politica. Hobbes coglie un dato permanente dello Stato e l’assolutezza dello Stato da lui intuita
diverrà sempre più incombente, ma ai suoi tempi è stato rifiutato dalla borghesia vittoriosa; Locke avrà una

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fortuna politica perché offrirà soluzione al problema di come conciliare il potere dello Stato con la libertà dei
borghesi, però Locke verrà superato con la morte dello Stato liberale a cui aveva dato fondamento teorico. La
preferenza di Hobbes per la monarchia si spiega col fatto che lui vede in essa lo strumento migliore per
realizzare l’assolutezza dello Stato. Quello che interessa ad Hobbes è spiegare e fondare il Leviatano: lo
Stato. Per questo i realisti vanno contro ad Hobbes perché non gli potevano perdonare di fondare il potere
regio sul contratto, anziché su Dio; mentre Cromwell era agli occhi di Hobbes l’incarnazione vivente della
sua costruzione teorica dello Stato. L’analisi di Hobbes comincia dall’uomo singolo fuori dalla società.
Questo individuo tende per sua natura ad estendere la sfera del suo dominio sulle cose per soddisfare i propri
bisogni, per questo egli si scontra con l’uguale tendenza dei suoi simili, cosicché fra di essi è (vi sarebbe se
non ci fosse lo Stato) perpetua guerra (l’uomo è lupo per l’altro uomo). Poiché questa perpetua guerra
metterebbe in pericolo la vita di tutti, la paura spinge gli uomini a riunirsi in società in modo che siano
garantiti la vita e i beni e venga posta fine alla guerra. Però è necessario che tale società sia costruita in modo
tale che effettivamente nessuno possa nuocere agli altri. Gli uomini, dunque, stipulano un contratto col quale
tutti rinunciano alla propria forza a vantaggio di un solo soggetto, il sovrano (può anche essere un soggetto
collettivo), affinché tutti si ritrovino eguali di fronte alla forza di questo terzo e nessuno possa nuocere agli
altri. Questo terzo, il sovrano, avrà il potere necessario per garantire la vita e i beni dei sudditi. Egli sarà il
Leviatano. Secondo Hobbes il Leviatano è un mostro, ma portatore di ordine benefico, contrapposto a
Behemoth, principio di disordine e di caos. Nella costruzione teorica della società e dello Stato da parte di
Hobbes vi sono molti aspetti degni di attenzione. È degno di attenzione il modo di concepire l’uomo come
individuo singolo astratto dalla società. Con l’affermarsi del modo di produzione capitalistico, l’individuo
borghese si presenta separato dagli altri individui: i singoli produttori di merci che producono l’uno
separatamente dall’altro sono indipendenti e separati prima dello scambio e restano tali dopo lo scambio.
Questo modo di concepire l’uomo è caratteristico di tutto il pensiero dominante da Hobbes fino alla
rivoluzione francese: esso pone al posto dell’uomo il borghese. Il borghese non è l’uomo in generale, ma un
tipo di uomo e questo borghese in quanto figura dominante sarà per un certo periodo realmente l’uomo in
generale. In secondo luogo, colpisce in Hobbes la caratterizzazione del rapporto tra gli uomini come guerra
perpetua. Hobbes rileva che il singolo individuo nel tendere al suo utile privato si scontra inevitabilmente
con l’eguale tendenza di tutti gli altri, cosicché è necessario evitare che questa perpetua concorrenza si
tramuti in lotta per la vita. Secondo Hobbes gli uomini costruiscono lo stato per impedire che la concorrenza,
che pure esiste ed è inevitabile, giunga a conseguenze estreme. I borghesi sono in concorrenza tra di loro e il
mercato è luogo di questa concorrenza. La legge del mercato non è la cooperazione, ma la concorrenza. In
questo modo Hobbes spiega due aspetti di quello che stava emergendo dalla guerra civile: la separazione tra
potere economico e potere politico e la concentrazione della forza nello stato. Se l’essenziale del borghese è
di essere in perpetua concorrenza con altri uomini, se questa concorrenza deve perpetuarsi senza mai negarsi
allora è necessario che nessuno di coloro che partecipano alla concorrenza abbia la forza umana e che per
questo tutta la forza necessaria per tenere unita la società sia concentrata in un soggetto separato dagli uomini
in concorrenza. Quindi monopolio della forza a vantaggio del sovrano (il Leviatano) e separazione
dell’economia (il mondo della concorrenza) dal potere politico così costruito. La categoria che Hobbes usa
per descrivere questa vicenda è la categoria del contratto. Se gli uomini vengono concepiti come individui
prima e indipendentemente dalla società, solo il contratto permette lo scambio fra tali individui separati e
indipendenti; solo il contratto spiega la società: gli uomini vivono in società e sono soggetti a tutti i vincoli
conseguenti a questo vivere in società; l’unico modo per conciliare questa realtà e la supposta indipendenza
degli individui dalla società è postulare un contratto sociale, cioè un vincolo basato su un incontro di volontà
libere e indipendenti. Era uso distinguere tra due tipi di contratto sociale: il pactum unionis (il contratto di
associazione), cioè il contratto mediante il quale gli uomini si uniscono in società stabilendo reciproci diritti
e doveri; e il pactum subiectionis (il contratto di subordinazione), mediante il quale i cittadini e il sovrano
stipulavano i reciproci diritti e doveri nelle loro rispettive qualità di subordinati al potere e di titolare del
potere sovrano. Hobbes unifica i due contratti in uno solo e fa del sovrano non più il contraente, ma il
destinatario a cui favore viene stipulato il contratto tra i sudditi (contratto a favore di terzo). In tal modo il
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Riassunto di Gaia Paoloni
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sovrano, in quanto destinatario e non contraente, non ha obblighi verso nessuno, così come al rigore i sudditi
non sono obbligati verso di lui, ma si sono obbligati l’uno verso l’altro a trasferire permanentemente tutta la
forza a vantaggio di un terzo, che risulta così sovrano. I sudditi sono subordinati a questo sovrano per il fatto
che egli ha il monopolio della forza, e questo sovrano non ha verso di loro alcun obbligo. In questo modo
viene fissata la separazione tra potere politico (il sovrano) e potere economico (il mondo della concorrenza);
in secondo luogo in questo modo il potere diventa originario perché non dipende da nessuno; infine il potere
è perpetuo, irrevocabile e sciolto da ogni vincolo. Hobbes riesce genialmente a cogliere quei caratteri dello
Stato e coglie soprattutto l’aspetto più minaccioso e tragico dello Stato: il fatto che esso, concentrando tutto
il potere armato, ha di fatto una forza materialmente irresistibile. L’averlo chiamato Leviatano dimostra la
consapevolezza che Hobbes ha di questo carattere: lo stato è un mostro necessario per contenere la
concorrenza e quindi necessario per la vita della società borghese, ma è un mostro. Per Locke, esponente del
vittorioso partito whig, il problema principale è come organizzare lo stato in modo che esso corrisponda agli
interessi fondamentali del blocco sociale vittorioso. Il problema non è più quello di affidare il potere al
sovrano tale da garantire la pace sociale, ma quello di circondare il sovrano di tutti quei limiti necessari a
garantire ai borghesi il pacifico godimento dei diritti conquistati, primo fra tutti il diritto di proprietà, che
costituisce il fondamento materiale dell’indipendenza della libertà del borghese. Locke è il primo teorico
dello Stato liberale. Anche Locke parte dall’uomo presociale e usa la categoria del contratto, però pone a
base del pactum unionis non la paura, ma il reciproco interesse, e riconferma la coesistenza accanto al
pactum unionis del pactum subiectionis, così che anche il sovrano contrae degli obblighi verso i sudditi. La
gloriosa rivoluzione mostra il primo esempio moderno di un simile patto: accordo in base al quale il
Parlamento, in cambio di precise garanzie, trasferisce la corona a Guglielmo d’Orange e alla regina Maria,
sua moglie. Tale patto è stato razionalmente necessario al fine di garantire la proprietà e la libertà personale.
Il sovrano, a causa del Parlamento, trova dinanzi a sé limiti precisi oltre i quali non può andare. Infine Locke
disegna il meccanismo politico istituzionale che garantisce tale contenuto fondamentale del patto. Questo
meccanismo esprime la divisione dei poteri. Locke conosce tre poteri: quello legislativo che spetta al
Parlamento, quello esecutivo che spetta al re e quello federativo che spetta al re. Locke comunque coglie
l’essenziale della divisione dei poteri: il fatto che il potere sovrano dello Stato è la risultante di un
meccanismo complesso e articolato in cui diversi soggetti costituzionali hanno ciascuno una parte specifica
di potere da contrapporre a quella degli altri, quasi che il meccanismo funziona solo attraverso procedure di
accordo tra tutti. Ai tempi di Locke due erano i poteri che si fronteggiavano: da un lato la corona, capo
riconosciuto dell’apparato burocratico e militare; dall’altro il Parlamento, eletto dai proprietari del regno, le
cui leggi si impongono al sovrano, ma che è escluso dal comando diretto dell’apparato statale. Quindi Locke
disegna già lo stato liberale, cioè uno stato organizzato secondo il principio della divisione dei poteri e
guidato dal criterio base di garantire l’indipendenza e la libertà degli individui in concorrenza fra di loro; uno
stato che deve garantire la libera proprietà borghese e l’indipendenza dell’individuo da ogni intromissione
dello Stato nella sua sfera privata. Locke è costretto a mediare questa costruzione con il suo tempo e con
l’esistenza del potere indipendente e autofondato del re. La Gran Bretagna costituirà, fino alla rivoluzione
americana e francese, un’eccezione rispetto al resto dell’Europa: un paese che, per quanto aristocratico,
offriva però un esempio di regime libero incomparabilmente superiore a tutti gli altri paesi europei, nei quali
nelle ipotesi migliori dominava il dispotismo illuminato e nelle ipotesi peggiori governava la monarchia
assoluta. Il compromesso tra aristocrazia fondiaria e grande borghesia aveva dato una impronta fortemente
moderata alla società inglese del 1700 che risulterà arretrata rispetto agli stessi principi liberali, i quali si
affermarono successivamente. Dunque, lo stato liberale classico si avrà nell’Ottocento e avrà bisogno per
costituirsi di due grandi rivoluzioni più radicali: la rivoluzione americana e la rivoluzione francese.

6) La rivoluzione americana: fu una guerra di liberazione nazionale contro il dominio coloniale inglese, e
non una guerra civile. Diede vita ad un regime politico e ad una costituzione stabili. La costituzione
americana è la più antica costituzione scritta. La società americana si costruì, a partire dai primi coloni
immigrati dall’inizio del 1600 e per tutto il 1700, senza doversi scontrare e mediare con l’imponente

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apparato economico e politico che le contemporanee società europee ereditavano dal mondo feudale. Da un
lato questo significò assenza di un’aristocrazia fondiaria e del connesso apparato burocratico, culturale e
militare che in Europa divorava la maggior parte del plusprodotto della società; dall’altro assenza di quella
moltitudine quasi servile, sfruttata fino all’osso e legata alla terra non sua. Nelle colonie americane domina
l’uomo libero indipendente, padrone dei suoi mezzi di produzione e proprietario dei frutti del suo lavoro.
L’abbondanza di terra libera è la spiegazione di due fenomeni che caratterizzeranno gli Stati Uniti: l’aumento
della produttività rispetto a tutti gli altri paesi, e gli alti salari. Per tutto l’Ottocento la corsa verso nuovi
territori liberi (liberi da altri bianchi, i pellerossa vennero sterminati) sottraeva i possibili proletari del tempo
al bisogno di vendere la loro forza lavoro, cosicché i salari dovevano essere alti per controbilanciare
l’alternativa dell’immigrazione all’ovest in cerca di nuovi territori da sfruttare e ogni invenzione capace di
far risparmiare forze lavoro era prontamente applicata con aumento della produttività media per addetto.
Quando la rivoluzione americana vince, il tipo di uomo dominante è il borghese: un uomo proprietario dei
suoi mezzi di produzione, non soggetto ad alcun signore, libero e indipendente, che mediante la propria
iniziativa può accrescere la propria ricchezza. Si trattava di una società composta di liberi proprietari, i quali,
scambiando i risultati del proprio lavoro sul mercato, cercavano di accrescere la propria ricchezza. La
proprietà era talmente estesa che questa comprendeva la stragrande maggioranza degli abitanti del paese. La
proprietà garantisce l’indipendenza e la libertà di ciascuno. La proprietà viene acquistata con il lavoro e
questa è frutto del proprio lavoro e quindi potenzialmente è uguale per tutti. La scintilla che fece esplodere la
rivolta fu la pretesa inglese di imporre una tassa e il bisogno generale che guidò la rivolta fu quello di
affrancarsi dalle odiose imposizioni inglesi limitatrici del commercio, del libero mercato e dell’iniziativa
privata. Con la vittoria della rivoluzione e con la nascita della federazione si costituì il primo vero mercato
del mondo, capace di autoregolarsi senza sostanziali interventi dello Stato. Nelle istituzioni politiche domina
il principio del voto ai proprietari su ogni questione comune, quindi gli USA sono il primo paese in cui
dominano molteplici procedure elettive ai vari livelli; in cui l’assemblea locale è una struttura portante della
società; in cui quasi tutte le cariche più significative sono elettive e revocabili; in cui si uniscono una difesa
della propria privacy e un forte spirito comunitario che si esprime attraverso assemblee in cui persone eguali
decidono a maggioranza su questioni comuni. Inizialmente i diritti politici saranno riservati ai soli proprietari
perché solo i proprietari sono veramente liberi e indipendenti e quindi capaci di decidere da sé senza essere
condizionati dal proprio padrone o signore. Però tutti tendenzialmente sono proprietari e quindi tutti
decidono. Gli USA, per un certo tempo, hanno rappresentato un esempio di società in cui liberalismo e
democrazia tendevano a coincidere. Questo non sarà più così dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, con il
dominio del capitalismo industriale e quindi col prevalere del proletario moderno. Il fatto che per tutto un
periodo liberalismo e democrazia abbiano coinciso darà un indirizzo peculiare alla democrazia americana:
una democrazia che, svincolata dalla proprietà, resterà affidata alla libera iniziativa degli individui, e cioè
manterrà un carattere proprio di quegli originari liberi proprietari che l’hanno costruita. In conclusione,
anche se lo Stato americano ha mutato le sue caratteristiche originarie, rimane ancora il meno distante dal
modello di Stato liberale che ha dominato per lungo tempo.

7) La rivoluzione francese: è più complessa di quella americana: negli USA una società abbastanza
omogenea ed ugualitaria doveva liberarsi da un dominio straniero anacronistico e debole, mentre in Francia
una nuova società doveva liberarsi della vecchia. Nell’evoluzione francese emerge per la prima volta come
soggetto storico il proletariato, il quale non è quello industriale, ma è colui che non avendo alcuna proprietà
vive vendendo sul mercato la propria forza lavoro. Esso non è solo la massa di manovra che scardinerà il
vecchio mondo: su di esso si baseranno diverse correnti radicali, come ad esempio quella degli hebertisti, e
cioè la parte più radicale che cercherà di scavalcare con le sue rivendicazioni proletarie i limiti borghesi della
rivoluzione, e che proprio per questo sarà duramente repressa dai giacobini (e da Robespierre), i quali sono
l’ala estrema e radicale della borghesia, ma restano borghesi ed espressione di interessi borghesi. La
rivoluzione francese distrugge la divisione della società in ordini e afferma per la prima volta in Europa
l’eguaglianza giuridica, l’eguale capacità giuridica di tutti i cittadini, indipendentemente dalla nascita e dalla

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condizione sociale. Il legame tra questa conquista e il modo di produzione capitalistico è evidente: la
concorrenza, per svilupparsi pienamente in tutte le direzioni, ha bisogno di soggetti formalmente eguali, con
eguali possibilità giuridico-economiche ed ecco perché gli ordini (nobiltà, clero, servitù, etc.) andavano
distrutti. La rivoluzione francese, distruggendo la proprietà feudale e quella della chiesa, ha creato milioni di
contadini piccoli proprietari, la base permanente e solida di ogni potere borghese in Francia da allora ad oggi.
L’unione della Francia rivoluzionaria borghese con la grande massa contadina, e cioè con la grande
maggioranza del popolo, costituì uno straordinario atto politico, che diede alla rivoluzione francese quel
carattere nazionale popolare che mancò ad altri paesi, permettendo alla società francese un carattere più
libero e più reattivo rispetto ad altri paesi. La rivoluzione francese riunificò legislativamente la Francia, cioè
creò un unico mercato regolato da leggi uniformi per tutto il territorio francese; liberò la proprietà dai vincoli
che ne impedivano la circolazione. La rivoluzione francese libera anche la forza lavoro, distruggendo le
residue corporazioni artigiane e professionali. Per la rivoluzione la concorrenza deve essere legge per tutti,
anche per gli operai, ma l’operaio liberato diventa ancora più schiavo perché privo di ogni ricchezza
materiale. La rivoluzione francese darà forma definitiva allo Stato che ancora oggi pratichiamo: introdurrà il
principio di legalità; la necessità di parlamenti elettivi come fondamento di legittimità di tutto lo Stato; la
divisione dei poteri; l’esercito permanente di leva; il principio di selezione della burocrazia professionale per
concorso. Per intendere meglio le contraddizioni dello Stato liberale, bisogna fermare l’attenzione sui
giacobini e sul teorico della rivoluzione giacobina: Rousseau. I giacobini credono nella proprietà in quanto
frutto del lavoro, e nell’indipendenza, eguaglianza e fraternità garantita dalla proprietà. Essi sono
consapevoli che ogni disuguaglianza nella proprietà distrugge gli ideali repubblicani che vogliono introdurre.
Essi sono l’ala borghese radicale della rivoluzione: restano borghesi, perché ancorati al diritto di proprietà;
sono radicali perché vogliono tradurre in pratica mediante la violenza rivoluzionaria delle grandi masse,
questo ideale borghese: vogliono rendere tutti i cittadini proprietari liberi ed eguali. I giacobini furono
sconfitti dalla forza politica più adeguata agli interessi borghesi del tempo, i termidoriani. Con la sconfitta
dei giacobini viene sconfitto il loro ideale democratico, che doveva organizzare a livello politico istituzionale
la loro concezione di una società egualitaria di liberi proprietari. La costituzione del 1793, mai attuata in
pratica, è la prima costituzione democratica che traduce in termini radicali i principi della sovranità del
popolo e per questo nega la divisione dei poteri, non conosce bicameralismo ma una sola assemblea
nazionale rappresentativa, ignora il capo dello Stato, prevede il suffragio universale, l’elettività dei giudici, la
consultazione popolare sui progetti di legge. La costituzione giacobina del 1793 è stato il tentativo di tradurre
praticamente gli ideali democratici propagandati alcuni decenni prima da Rousseau. La democrazia di
Rousseau (1712-1778) non è in antitesi col pensiero liberale. Anche l’uomo di Rousseau è libero e
indipendente dalla società, è un proprietario che nella sua proprietà trova il fondamento della sua libertà e
indipendenza. Anche lo stato di Rousseau è uno stato garantista, il cui unico compito è quello di assicurare
indipendenza presociale degli individui e la loro libertà. Secondo Rousseau se la libertà e l’indipendenza si
fondano sulla proprietà, tutti devono essere proprietari, e quindi piccoli proprietari ed uguali nella proprietà,
perché solo così tutti sono proprietari e tutti i proprietari sono realmente uguali. Se la società deve essere
formata da individui liberi e uguali e lo stato è il garante di tale libertà e indipendenza, lo stato deve essere
assorbito dalla società che si auto governa, perché solo così tutti governeranno insieme e nessuno sarà
governato da altri. Rousseau porta all’estreme conseguenze i principi liberali. Il fallimento del tentativo
giacobino sarà la prova che la strada di Rousseau è impraticabile. Quest’ultimo nella società capitalistica è
stato il primo a porre con tanta risolutezza i problemi dell’uguaglianza sostanziale e della liberazione dal
potere politico di altri. La rivoluzione giacobina per quanto effimera costituisce il tentativo più radicale e
conseguente di realizzare praticamente il progetto liberale in quanto progetto universale, valido per tutti gli
uomini e per sempre. Con essa l’anima borghese cerca di realizzare il suo ideale di società: una società di
liberi e indipendenti che sulla loro proprietà fondano materialmente tale libertà ed indipendenza. Il progetto
doveva necessariamente fallire per due motivi: uno legato al fatto che la società francese del tempo era ben
lontana dall’essere omogeneamente borghese o anche solo dominata dalla borghesia: da un lato la borghesia
nel suo insieme aveva di fronte a sé l’aristocrazia fondiaria, che essa non riuscì a distruggere, dall’altro la
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stessa borghesia era differenziata al suo interno. Il secondo motivo è che col borghese nasce per forza il
capitalista, e col capitalista l’operaio, cioè il non-proprietario per definizione. La società di liberi, eguali ed
indipendenti proprietari produceva necessariamente nel suo interno una massa di non-proprietari, cioè un
elemento in contraddizione col suo principio-guida. Lo stato liberale puro, e quindi il modello di Stato
liberale a cui tendeva per la sua legge interna la borghesia dominante, non poteva realizzarsi mai. Per tutto
l’Ottocento nel mondo capitalistico domina lo stato liberale.

8) Caratteristiche essenziali dello Stato liberale: la base economica della società e dello Stato liberale è il
modo di produzione capitalistico. Il modo di produzione capitalistico separa i singoli produttori l’uno
dall’altro: essi producono separatamente e portano sul mercato i loro prodotti che se non vengono venduti o
vengono venduti al di sotto del loro valore è segno che sono state prodotte cose socialmente inutili o in
eccesso rispetto a quanto la società richiedeva. Il modo di produzione capitalistico separa i lavoratori dai
mezzi di produzione: di fronte ai proprietari dei mezzi di produzione ci sono i lavoratori che vendono la
propria capacità lavorativa per vivere. Il modo di produzione capitalistico tende a mercificare tutto, solo il
mercato offre la misura sociale del valore degli uomini e di ciò che fanno. Il principale mezzo di rapporto tra
gli uomini è il mercato, gli individui isolati entrano in collegamento gli uni con gli altri attraverso le cose
scambiate. Questo processo di separazione degli uomini è la premessa dell’individualismo borghese. Gli
uomini stringono rapporti transitori solo attraverso lo scambio di merci. Questa separazione è anche una
liberazione: è la premessa di un attività libera nelle direzioni che l’individuo sceglie, senza doverne rendere
conto a nessuno. Però la base materiale di questa attività è la ricchezza materiale quindi i proprietari sono
realmente liberi; i proletari sono anch’essi liberi del tutto, ma solo di vendersi o di morire di fame e di stenti.
Il borghese vuole una libertà per tutti, ma la ottiene solo per sé e per i proprietari perché è una libertà fondata
sulla proprietà privata. Il culto della libertà e dell’indipendenza investe di sé tutti gli aspetti della società
borghese. Il liberalismo, muovendo dal liberalismo economico (tendenza alla più assoluta libertà di
concorrenza), riplasma, secondo l’ideale della libertà come indipendenza, tutta la società. Questa libertà per
tutti e indipendenza nella ideologia liberale dominante avrebbe prodotto la pace e l’armonia sociale (liberté,
égalité, fraternité). Lo stato essendo una potenza esterna alla società che comanda su di essa, non dovrebbe
trovar posto nella costruzione liberale e infatti Rousseau cerca di riunificare stato e società. Qui si apre la
contraddizione del liberalismo. Lo stato è necessario perché in una società di individui in perpetua
concorrenza tra di loro, il cui unico legame è il mercato, solo lo stato garantisce che la concorrenza non si
trasformi in guerra civile e che tutti rispettino la libertà e l’indipendenza degli altri . Nello stesso tempo
questo stato viola la libertà perché usando la violenza è per sua natura antiliberale. Da un lato lo stato liberale
è fortemente repressivo perché deve garantire la libertà e l’indipendenza degli individui e quindi la proprietà:
lo stato dunque reprime tutti i non-proprietari che si ribellano. Nello stesso tempo lo stato liberale dovendo
corrispondere ad una società fondata sul principio dell’individuo libero indipendente, è lo stato meno
interventista: si astiene dall’intervento diretto nella produzione e sul mercato e assicura dall’esterno le
condizioni legislative e di ordine pubblico che consentono la libertà di iniziativa economica e di mercato (il
numero dei ministeri era inferiore ad oggi, prova che i settori di intervento dello Stato erano molto minori di
oggi  5 erano i ministeri dell’Ottocento: quello degli esteri, quello della difesa, quello per l’interno, quello
della giustizia e quello delle finanze). In conclusione, lo stato liberale rappresenta lo stato borghese puro,
quello che più si avvicina al modello di Stato conforme al dominio del modo di produzione capitalistico e al
dominio politico della borghesia. Lo stato liberale è un un’organizzazione politica che meglio realizza le
ragioni che hanno preceduto alla nascita dello Stato e lo fondano: separazione tra economia e politica;
monopolio della forza in un ente separato dalla società; autonomia della società. Con lo stato liberale la
separazione tra stato e società è evidente, ma già lo stato liberale stesso vede in questa separazione un
momento di contraddizione e tende a riassorbire lo stato entro la società. Questa tendenza resterà secondaria
in quanto esige la distruzione della stessa società liberale.

9) La crisi dello Stato liberale classico: lo stato liberale che è stato la forma di Stato dominante per buona
parte dell’Ottocento non era un modello esclusivo: si è scontrato con altre tendenze, le quali lo hanno
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relegato ad elemento oggi secondario. Lo sviluppo dell’economia e quindi della società avrebbe da un lato
garantito la libertà e indipendenza di ciascuno verso tutti e dall’altro ridotto la funzione dello Stato a pochi e
semplici compiti, nei rapporti con gli altri stati e verso i devianti. La necessità di eserciti permanenti, delle
carceri sarebbe diminuita e la libertà avrebbe potuto dispiegarsi senza oppressioni e comandi. Quindi il
progetto liberale si fondava sull’indipendenza degli individui, ma tale indipendenza si fondava a sua volta
sulla proprietà e perciò i non-proprietari non erano indipendenti: la crescita dei proletari avrebbe scagliato i
non-proprietari contro i proprietari, la dipendenza dei primi contro la indipendenza dei secondi. L’uomo
liberale era dunque una minoranza. La pretesa indipendenza degli individui proprietari si rivelava in realtà
una onnilaterale dipendenza: il proprietario poteva realizzare sul mercato il valore della sua proprietà se c’era
un altro proprietario disposto a comprare. Le crisi ricorrenti misero in evidenza che era impossibile non
intervenire sulle leggi economiche e perciò contraddire la società liberale. Lo sviluppo capitalistico avrebbe
distrutto la base sociale del liberismo, cioè l’individuo libero e indipendente: da un lato una massa crescente
di proletari, dall’altro la distruzione di ogni potere dell’artigiano, del contadino proprietario, schiacciati dalla
crescita delle grandi concentrazioni monopolistiche. L’uomo liberale è sostituito dagli impersonali monopoli;
il mercato di concorrenza non esiste più; lo stato deve intervenire più attivamente diventando la principale
potenza economica. Lo stato deve intervenire: per garantire con le armi la penetrazione di tali giganti
economici alla ricerca di nuovi mercati per merci e investimenti; per coordinare lo scontro fra tali giganti;
per garantire la pace solidale, mediando tra i diversi gruppi sociali. Si era creato un mondo che era l’esatto
contrario della società liberale di individui. Lo stato e la società liberale vinsero attraverso lotte sanguinose
(rivoluzioni) contro altre società. In questo scontro i perdenti, i reazionari, videro spesso le contraddizioni e i
mali che stavano dietro allo stato liberale. Vedevano che lo scatenarsi della concorrenza avrebbe distrutto
intere comunità, mandando in rovina i piccoli artigiani e costringendo alla fame i proletari in concorrenza tra
di loro per ottenere un lavoro dal padrone. Accanto a queste critiche che coprivano la difesa degli interessi di
tutti coloro che erano legati al vecchio regime, nascevano le critiche proletarie che vedevano come elemento
risolutivo la lotta per organizzarsi sindacalmente e trattare collettivamente le tariffe sindacali. Questa lotta è
passata attraverso varie fasi: divieto penale di organizzarsi in nome della libertà di concorrenza; eliminazione
del divieto penale ma nessuna garanzia: chi sciopera è libero di farlo, ma lo è anche il padrone di adottare
rappresaglie; garanzia del diritto di sciopero e però limiti a tale diritto. L’organizzazione operaia spinge
anche le altre classi ad organizzarsi: diverse categorie economiche di lavoratori sia dipendenti che
indipendenti e anche categorie non immediatamente economiche (studenti, donne, etc.). Dunque, il nuovo
soggetto sociale non è più l’individuo dello Stato liberale, ma il gruppo associato (sindacati, partiti moderni)
e da questa realtà, che rappresenta il punto di partenza, si sviluppano diverse tendenze storiche sociali. Alla
concorrenza e alla lotta si cerca di contrapporre la solidarietà e la cooperazione, e vengono esaltate quelle
forme di organizzazione che si fondano sulle seconde. Già Montesquieu (1689 -1755) aveva parlato della
necessità e utilità dei corpi intermedi, come fattore di stabilità ed equilibrio. Questi erano i parlamenti
francesi del suo tempo, organismi giudiziari che svolgevano sia funzioni giudiziarie che limitate funzioni di
controllo di legittimità sugli atti del re, e che organizzavano la nobiltà di toga, un ceto sociale molto potente
in Francia. Montesquieu si sforza di investigare le leggi della società come tale, e cioè le cause materiali che
determinano nei diversi tempi e luoghi diverse forme di organizzazione sociale. L’unica parte delle sue
indagini che ebbe duratura efficacia fu quella dedicata alla divisione dei poteri. Resta significativo però il
metodo e il problema da lui posto, perché da un lato consentirono a Montesquieu, in pieno giusnaturalismo
(movimento sociale di pensiero che sostiene l’esistenza di leggi naturali valide indipendentemente dal
riconoscimento che ne faccia il legislatore positivo. Si distingue un giusnaturalismo cristiano che riconduce
tali leggi naturali alla volontà di Dio e un giusnaturalismo moderno che riconduce tali leggi naturali alla
ragione umana) di vedere nella società aspetti che ai suoi tempi altri non riuscivano a vedere, e dall’altro
anticiparono tante critiche della società borghese, contrapponendo alla pretesa società di liberi ed eguali la
realtà complessa di una società formata né da liberi né da eguali. Montesquieu voleva dare espressione
politica e spazio adeguato agli interessi organizzati del regno di Francia, in modo da equilibrare il potere
monarchico, e renderlo costituzionale. Secondo Montesquieu i corpi intermedi avrebbero dovuto temperare il
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potere sovrano e contenere la spinta delle classi subalterne. Questa costruzione di Montesquieu non ebbe
molta fortuna, ma ebbe fortuna la sua costruzione della divisione dei poteri sia nella costituzione americana e
sia in tutte le costituzioni dell’Ottocento, nelle quali l’organizzazione dello Stato viene divisa in tre poteri
distinti e variamente collegati. Per quanto riguarda la divisione dei poteri Montesquieu fu assorbito dalla
tradizione liberale, mentre la sua tesi sui corpi intermedi non è liberale perché contraddice il principio di una
società fondata su individui. Fu necessario costruire un nuovo tipo di Stato: il rapporto stato-società dello
Stato liberale, per cui ad un capo stava l’apparato statale con le sue limitate funzioni garantiste e all’altro
stava la moltitudine degli individui in concorrenza tra di loro entro la società, viene sostituito da un rapporto
per cui da un lato non vi sono individui, ma innumerevoli gruppi sociali che hanno ciascuno in se stesso la
propria ragion d’essere storico-sociale e quindi vanno riconosciuti e protetti dallo stato; dall’altro lo stato
viene concepito come il più vasto e comprensivo di tali gruppi sociali, perde la sua separatezza; diventa la
stessa comunità vista nel suo complesso. Quindi lo stato non è più esterno alla società e dunque interviene e
deve intervenire attivamente in essa.

10) Lo Stato democratico-pluralista: l’espressione maggiormente usata per denominare questo tipo di
Stato è stato sociale, cioè lo stato che si preoccupa del benessere dei cittadini e quindi che corregge le
disuguaglianze e ingiustizie del mercato, redistribuendo il prodotto interno lordo, togliendo con i tributi
denaro ad alcuni gruppi e offrendo o denaro o servizi gratuiti o semi gratuiti ad altri e sottraendo al mercato
alcuni servizi chiamati sociali, come la scuola, la sanità, che vengono o direttamente organizzati dagli enti
pubblici o resi gratuiti o semi gratuiti per coloro che ne hanno bisogno e li richiedono. Rescigno preferisce
l’espressione stato democratico pluralista perché essa sottolinea il pluralismo (dei partiti politici, dei
sindacati, delle associazioni, etc.) e la democrazia (basata sul suffragio universale, mentre lo stato liberale era
basato sul suffragio ristretto, limitato in base al censo). Il pluralismo riconosce come legittima l’esistenza di
tutte le diversità sociali, ma esige che lo stato intervenga a limitare le disuguaglianze non distruggendo però
il pluralismo, cioè non eliminando nessuno dei gruppi che ne fanno parte. Tutti i gruppi hanno uguale diritto
di esistere e devono godere uguale protezione quanto alla loro esistenza. Il pluralismo è transitoriamente un
rimedio all’individualismo estremo: al posto dei singoli esso riconosce legittimità e potere di azione ai gruppi
organizzati. La coesione del gruppo e la sua pratica efficacia è data dalla sua unità e dalla sua disciplina
interna: al potere esterno del mercato dello Stato si aggiunge una nuova autorità, quella dei capi del gruppo. I
diritti e le garanzie tendono a trasferirsi direttamente in capo al gruppo. Questo significa che chiunque fuori
da un qualche gruppo o che vorrebbe ribellarsi ottiene una tutela inferiore. Il pluralismo funziona se i gruppi
sono stabili e strutturati. La concorrenza con i gruppi viene attenuata e limitata tra gli individui, ma non per
questo scompare tra i gruppi in quanto tali e quindi il pluralismo continua la società liberale di concorrenza.
Lo stato non è più il garante esterno dell’ordinata lotta di concorrenza entro la società, ma il mediatore
universale tra i diversi gruppi, il soggetto il cui scopo essenziale è ricomporre gli interessi dei diversi gruppi
sociali in modo da ottenere un generale accordo il più vasto possibile. Due osservazioni critiche: il
pluralismo tende a mettere sullo stesso piano e ad attribuire uguale dignità a tutte le possibili forme
organizzative, purché istituzionali e riconosciute dal blocco dominante es. famiglia, scuola, sindacati che
sono enti profondamente diversi per struttura, fini, vita e funzionamento; inoltre il pluralismo non impedisce
il conflitto sociale. All’interno del pluralismo troviamo il pluralismo conflittuale e quello organico. Il primo
crede che i gruppi sociali siano in concorrenza tra di loro, ma che tale concorrenza sia benefica. Rispetto alla
società liberale due sono i cambiamenti: la concorrenza riguarda essenzialmente gruppi organizzati, e non
più individui, dunque il problema non è più la difesa dell’indipendenza e libertà del singolo, ma quella del
gruppo; lo stato deve intervenire attivamente per impedire che questa concorrenza rinneghi se stessa
attraverso il predominio formale e totalitario dei gruppi più potenti organizzati, e impedire che crescano
gruppi eversivi. Questa diciamo è la situazione oggi dominante nei paesi anglosassoni. Il secondo prevede
che le procedure e le regole siano rivolte piuttosto che a mediare il conflitto a prevenirlo. Tutte le parti
esistenti della società sono necessarie le une alle altre, ciascuna per il suo ruolo, e dunque ciascuna deve
attenersi ad esso per il bene comune. Secondo questa ricostruzione il conflitto deriva dal fatto che alcuni

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gruppi non sono capaci di riconoscere il proprio giusto ruolo, non si attengono ai loro doveri. Se tutti
rientrano nei propri ruoli e si attengono ai propri doveri allora la società è una società pluralista in cui le
diverse parti cooperano armoniosamente, di conseguenza diventa un tutto organico. Questo schema domina
oggi in Germania e ha dominato per decenni in Italia (1945 -1992). Per quanto il pluralismo di matrice
cattolica e quello di matrice comunista fossero entrambi riconducibili ad un indirizzo unitario, in
contrapposizione al pluralismo conflittuale, essi restavano però distinti. Mentre il pluralismo cattolico
tendeva e tende a mettere l’accento sulle formazioni sociali spontanee (famiglia e associazioni) e sulla loro
indipendenza nei confronti dello Stato e dei poteri pubblici, il pluralismo comunista tendeva a mettere
l’accento sulle istituzioni, ai diversi livelli, e a ricondurre le esperienze del pluralismo sociale all’interno
delle istituzioni pubbliche (regioni, province, comuni, etc.): attraverso le assemblee elettive le espressioni del
pluralismo sorte nella società dovevano confrontarsi democraticamente e raggiungere una sintesi. Quello
cattolico possiamo definirlo pluralismo sociale, quello comunista (in Italia) pluralismo istituzionale.

11) Il ritorno del liberalismo classico: le cose dette precedentemente riassumono le caratteristiche
principali dello Stato italiano e degli altri Stati europei dal secondo dopoguerra (1945) al crollo dell’URSS
(1991). Da quel momento in poi si affermano tendenze neoliberali e neo liberiste in tutta Europa.
Caratteristiche principali di queste tendenze: rifiuto dei partiti politici di massa e al loro posto l’esaltazione
della lotta politica come lotta tra singoli candidati; smantellamento delle imprese pubbliche, cosicché l’intero
mondo della produzione di beni e servizi è in mano privata; estensione del mercato anche in settori che erano
stati sottratti ad esso (es. scuola); lotta per la riduzione del carico fiscale; attribuzione alle autorità pubbliche
dei soli compiti di regole e controlli a tutela della concorrenza dei mercati; tendenza a privilegiare
organizzazioni e politiche locali riducendo nel contempo i poteri e le funzioni dello Stato nazionale
(privilegiare la conservazione delle differenze tra diverse regioni); affermarsi della ideologia della
sussidiarietà manifestata attraverso le politiche di demandare all’iniziativa privata il compito di provvedere ai
propri interessi, lasciando alla carità di provvedere ai poveri e di ammettere l’intervento di organizzazioni
territorialmente più ampie solo nei casi in cui è impossibile a quelle minori di provvedere. Lo stato
democratico-pluralista sembra oggi tornare alle origini liberali con quei cambiamenti ormai irreversibili (es.
forte e decisiva presenza della spesa pubblica che, per quanto si intenda ridurla, rimane sempre intorno a
percentuali non comparabili con quelle molto ridotte del periodo liberale classico). La crisi dello Stato
liberale classico (quello che ha dominato nel corso del XIX secolo fino alla Prima guerra mondiale del 1914-
1918) ha dato vita a due soluzioni estreme: da un lato il movimento che si è proposto la distruzione
dell’autonomia della società e il suo riassorbimento entro lo stato; dall’altro il movimento che si è proposto
di distruggere lo stato e riassorbire le funzioni statuali entro la società (quindi da un lato fascismo e dall’altro
comunismo).

12) Il fascismo e la statizzazione forzosa della società: anche la società pluralistica più organica tiene
ferma la distinzione tra stato e gruppi sociali. Lo stato deve essere una sintesi libera di tali gruppi, ma tali
gruppi preesistono e restano indipendenti rispetto allo stato (es. chiesa). Pluralismo vuol dire che non esiste
una sola ideologia, ma una pluralità che corrisponde ad una pluralità di interessi. Lo stato fascista tende al
contrario esatto di questo (tutto entro lo stato, nulla fuori dello Stato). A differenza del principio liberale
secondo cui tutto ciò che non è vietato è permesso, lo stato fascista si governa e si sviluppa secondo il
principio generale per cui tutto ciò che non è permesso positivamente può essere vietato dal potere pubblico.
Mentre nello stato liberale (e pluralista) la categoria giuridica che guida la vita privata è quella del lecito,
nello stato fascista tende a diventare quella del legittimo: distinzione tra sfera privata e spera pubblica tende a
scomparire. Esiste una morale di Stato, un’ideologia di Stato, una cultura di Stato e anche un tentativo di
religione di Stato. Tutte le articolazioni della società vengono viste come articolazioni dello Stato: la
famiglia, le associazioni, etc. Il fascismo è un tentativo di statizzazione forzosa di tutta la società, che non si
estende però all’economia perché la proprietà privata non viene statizzata, ma garantita e potenziata. Il
fascismo è un tentativo di risolvere le contraddizioni di classe, la cui esistenza si riassume proprio nella
distinzione tra stato (momento dell’unità) e società (momento della concorrenza e della lotta): questo
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tentativo si compie limitando con la forza la società (non eliminando realmente le cause della lotta), e
rendendo totalitario il momento dell’unità (lo stato). Quindi lo stato ha preteso di assorbire l’intera società e
ha preteso in tal modo di aver eliminato il conflitto. Non si è trattato dunque di un superamento reale del
conflitto, ma di una illusione. L’esperienza fascista è definitamente fallita. Oggi vi sono molte dittature
militari, ma nessuna ha la pretesa e l’ambizione di offrire una risposta nuova e universalmente valida ai
problemi e ai conflitti della società moderna, come invece ebbe il fascismo.

13) Il comunismo e l’estinzione dello Stato: il progetto comunista è nato intorno alla metà del 1800
(anticipando la crisi dello Stato liberale); ha ottenuto il massimo di espansione con la Rivoluzione russa del
1917 e oggi appare crollato insieme al crollo di quell’esperienza (crollo avvenuto nel biennio 1990-91). Il
progetto comunista dell’estinzione dello Stato è nato all’interno del movimento socialista, ma è stato
sostenuto solo da una parte di questo movimento. Innanzitutto, bisogna distinguere tra progetto comunista e
esperienza sovietica così come si è realizzata storicamente perché tra il progetto iniziale e l’esperienza
storica corre una differenza così grande tale da sembrare impossibile che la seconda sia nata e vissuta
collegandosi idealmente al primo. Il progetto comunista muove dalla convinzione che il problema dominante
di ogni società fin qui esistita è quello della produzione e riproduzione dei mezzi materiali per la sua
esistenza (es. nelle società primitive il problema del cibo era il problema principale se non unico). Lo
sviluppo delle forze produttive consente alla società umana di liberarsi parzialmente di tale problema e
permette che alcuni strati minoritari della popolazione possano dedicarsi ad attività di ordine superiore (es.
scienze), mentre la maggioranza resta legata al lavoro necessario per la riproduzione delle condizioni
materiali di vita. Sotto questo aspetto il modo di produzione capitalistico si distingue da ogni altro modo di
produzione precedente perché rivoluziona le condizioni di vita di tutti gli uomini e i metodi di produzione,
accrescendo la ricchezza prodotta e le forze produttive sociali. Per un altro verso il modo di produzione
capitalistico ha in comune con quelli precedenti il fatto che è un sistema non reintegrativo, ma accumulativo
(massa dei lavoratori produce più di quanto consuma e il sovraprodotto viene monopolizzato da una
minoranza dominante). Tutti i sistemi di produzione con accumulazione si sono caratterizzati per una
struttura in cui da un lato vi era la massa dei lavoratori e dall’altro una minoranza che accumulava presso di
sé la sovrapproduzione (rapporto di sfruttamento). Le differenze di ricchezza e di potere per impedire
continue guerre civili fra i diseguali dovevano trovare corrispondenza in forme istituzionali di potere, che
garantissero lo sviluppo del modo di produzione dato nelle condizioni date senza ribellione degli sfruttati. La
forma di tale dominio politico è diversa da modo a modo di produzione e da periodo a periodo e da paese a
paese. Il modo di produzione capitalistico procede attraverso continue crisi e contraddizioni. La principale
variabile su cui il capitalista può far leva per aumentare i profitti è la forza lavoro, cercando di ridurla quanto
più è possibile a parità di risultato utile (prodotto). Assistiamo così alla vicenda per cui l’aumento enorme
della produttività del lavoro si traduce nella intensificazione del lavoro di un numero decrescente di
lavoratori e in un numero crescente di non lavoratori (con emarginazione di tutti coloro che, espulsi dalla
produzione, sono costretti a vivere di sussidi e di espedienti). Lo stato è stato costretto a bilanciare questi
fenomeni negativi sostituendo la sua spesa al deficit di investimento privato (politica keynesiana) e
assorbendo sempre più personale accollandosi crescenti spese sociali. Lo stato in tal modo introduce nel
meccanismo capitalistico un elemento contraddittorio, perché la spesa statale, di per sé, non è governata dal
criterio del profitto. Così assistiamo a fenomeni come inflazioni molto acute accompagnate da deflazioni
(caduta della produzione), di fronte a cui le tradizionali terapie keynesiane si mostrano impotenti. Su altro
piano lo stato viene piegato dalla lotta di classe verso i bisogni: di qui la lotta borghese per introdurre criteri
comparabili al profitto anche nella gestione della macchina statale, e/o per restringere di nuovo l’area statale
a vantaggio del mercato. Poste come premessa queste considerazioni, il progetto proletario si fonda su due
ipotesi: che il modo di produzione capitalistico genera crescenti e ricorrenti ribellioni; che questo stesso
modo di produzione ha creato tutte le premesse materiali per eliminare tali contraddizioni. Il progetto
proletario si propone di risolvere il problema della produzione e distribuzione della ricchezza materiale, in
modo tale da eliminare le contraddizioni sperimentate col capitalismo. A questo fine il progetto proletario

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sostiene: 1) che lo sviluppo delle forze produttive è oggi tale che il problema storico dominante è quello di
amministrarle a vantaggio dei bisogni umani razionali. 2) Si parla di bisogni razionali e cioè collettivamente
riconosciuti come umanamente degni di soddisfazione in quantità e qualità determinate; non è razionale che
una estrema minoranza consumi quanto potrebbe essere sufficiente per un numero di persone 10 volte
superiore. Il presupposto implicito di questa proposizione è la convinzione che gli uomini sono capaci di fare
propri e rispettare tali criteri razionali senza scatenare di nuovo una guerra per le disuguaglianze
economiche. Il progetto si dichiara convinto che questo è possibile poiché si tratta di amministrare una
ricchezza prodotta e producibile in misura tale che i bisogni storicamente determinati, quali sente ogni uomo
medio di oggi, siano tutti soddisfacibili (non saranno soddisfatti i bisogni dei grandi ricchi, ma loro non
rappresentano l’uomo medio). Nel comunismo è necessario ricondurre alla misura dell’uomo medio, per
quanto riguarda i bisogni materiali e la ricchezza, tutti quegli uomini che erano al di sopra di tale misura. 3)
Il progetto proletario sostiene che la produttività è tale che, se tutti gli uomini lavorassero, il tempo medio
individuale di lavoro si potrebbe ridurre ad una parte secondaria della giornata a parità di prodotto
complessivo, così che tutti potrebbero dedicarsi liberamente ad attività umane di ordine superiore (le arti
etc.). 4) Residua dunque un tempo di lavoro socialmente obbligatorio e inoltre tutti i diversi lavoratori
svolgono lavori equivalenti sotto tutti gli aspetti socialmente rilevanti. 5) Il punto precedente è irrealizzabile
se non esiste una uguaglianza culturale. In questo caso non si tratta di proporsi l’obiettivo irrealizzabile che
tutti sappiano contemporaneamente tutto, ma che tutti abbiano un livello di istruzione equivalente. 6) Il
progetto proletario è legato alla soluzione di due problemi: il controllo delle nascite e il rispetto della natura.
Un aumento incontrollato delle nascite distrugge ogni possibilità di razionale pianificazione della produzione
e distribuzione della ricchezza; mentre non è difficile capire perché il comunismo deve rispettare gli equilibri
naturali oggi messi in pericolo dallo sviluppo incontrollato del capitalismo, con i suoi sprechi e le sue
distruzioni della natura. Il progetto proletario riprende il tema dell’uguaglianza rapportato allo specifico
problema della produzione e distribuzione della ricchezza materiale. Se e quando sarà realizzata tale
uguaglianza, i mali tradizionali del capitalismo scompariranno perché eliminati in radice. Il comunismo
realizza per la prima volta realmente l’ideale che la borghesia non ha saputo né potuto realizzare: la
liberazione delle qualità individuali in un rapporto libero e umanamente vero con tutti gli altri uomini.
Questo progetto sostiene che la fine della disuguaglianza economica coincide con la fine del problema della
produzione e distribuzione della ricchezza materiale in quanto problema: la produzione della ricchezza non
sarà più un problema sociale perché non sarà più né la questione dominante, né la questione intorno a cui si
scatena la guerra degli uomini. Insieme a questa scomparsa si determina la scomparsa delle classi e
l’estinzione dello Stato. Scompariranno le classi perché esse sono il prodotto storico della disuguaglianza
nella produzione e nella distribuzione della ricchezza. Però se le classi scompariranno, non avrà più ragion
d’essere lo stato, e cioè l’apparato monopolizzatore della forza. Questo apparato deve mediare i conflitti,
attuare le contraddizioni. Il progetto proletario sostiene che solo il conflitto di classe (conflitto legato alla
produzione e distribuzione della ricchezza) esige una violenza sociale concentrata e istituzionalizzata. I
conflitti della società comunista non avranno bisogno della violenza, e quindi dello Stato come elemento
risolutore, perché non saranno conflitti di classe. Dunque, l’istruzione, la sanità etc. non ci sarà bisogno di
affidarle ad uno specifico apparato dotato del monopolio della forza, ma ci saranno specifici apparati sociali
destinati a queste funzioni e in tal modo la società avrà riassorbito in sé le funzioni statuali, dopo avere
estinto la violenza organizzata e istituzionalizzata. In conclusione, secondo il progetto proletario lo stato
come è nato storicamente per rispondere a specifiche, determinate esigente sociali, così è destinato a morire,
ad essere sostituito da modi di organizzazione superiori, più civili ed evoluti, non appena le condizioni
materiali lo consentiranno. Secondo questo modo di ricostruire la realtà sociale tra stato e società non vi è
solo distinzione, ma una contraddizione antagonista: tendono l’uno a distruggere l’altro. Tale contraddizione
si scioglie solo con la vittoria del termine storicamente più forte e cioè la società. Mentre lo stato non può
emanciparsi dalla società, la società si rivela potenzialmente capace di fare a meno dello Stato, è concepibile
e praticabile come società senza stato (senza apparato monopolizzatore della violenza). La società distrugge
lo stato, ma distrugge anche sé stessa in quanto società borghese, trasformandosi in comunista. Questo
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progetto non esiste più da tempo. Anche se continuano ad esistere stati che discendono da quella tradizione
(es. oggi, settembre 2017, la Repubblica popolare cinese), comunque questi hanno ben poche caratteristiche
che possono essere collegate col progetto descritto e inoltre gli obiettivi che si propongono sono diversi (es.
nessuno parla di estinzione dello Stato); infine essi stanno vivendo processi di trasformazione così violenti
che probabilmente diventeranno stati capitalistici. Quanto all’Urss, ed agli altri stati collettivisti nati per
imposizione dell’Urss, dopo la Seconda guerra mondiale (es. Polonia), essi si sono tutti trasformati in paesi
che hanno restaurato il mercato capitalistico. Studiando l’URSS e gli altri paesi collettivisti si nota un
enorme distacco tra progetto e realtà perché quelle società praticavano e autorizzavano modi di vita ed
obbiettivi che andavano oggettivamente ed incontestabilmente contro il progetto comunista. Dunque, oggi
non sono individuabili forze sociali significative a livello mondiale disposte a riprendere e riproporre il
progetto comunista. Il secolo si chiude con la vittoria del modello capitalistico in economia, e democratico-
pluralista a livello politico e di organizzazione statale. Questa vittoria non può essere considerata come
unificazione del mondo e sua pacificazione perché capitalismo e stato democratico-pluralista riescono a dare
buone prove di sé in una minoranza di stati e per una parte minoritaria della popolazione mondiale (intorno
al 25%).

14) La c.d. globalizzazione e le trasformazioni della forma Stato: i capitali in forma monetaria possono
oggi spostarsi senza limiti in uno qualunque degli stati dominati dal capitalismo. La potenza e gli effetti
sconvolgenti di questa mobilità si sono visti quando grandi stati si sono trovati all’improvviso davanti a crisi
economiche sconvolgenti perché i capitali in forma monetaria erano defluiti dal loro territorio e fuggiti in
altri stati e la loro moneta era crollata nel rapporto di cambio col dollaro e altre monete potenti (es. Messico).
Questa constatazione ha indotto tutti ad affermare la diminuzione della sovranità degli stati nei confronti del
potere economico sovranazionale. Una tesi sostiene che è in via di superamento lo stato nazionale, ma
sembra una prematura generalizzazione a livello mondiale di una vicenda europea: nell’Unione europea gli
Stati nazionali rinunciano ad alcuni dei loro poteri sovrani a vantaggio di questa nuova organizzazione
sovranazionale (es. moneta unica). Questo fenomeno però non dimostra che a livello mondiale stiamo
vivendo la fase del tramonto dello Stato nazionale; anche se la sovranità degli stati dell’Unione non è più
quella di prima per quanto riguarda i singoli stati, non dimostra che la sovranità dei singoli stati più quella
parte di sovranità trasferita all’Unione è inferiore alla sovranità prima detenuta dai singoli stati. L’altra tesi
secondo cui la globalizzazione sta determinando il tramonto degli stati è infondata, in quanto la guerra
sconvolge continuamente ampie parti di questo mondo, e la guerra viene decisa e condotta non dal potere
economico, ma da quello politico, e cioè dagli altri stati. Ciò che oggi appare mutato è il rapporto di forza tra
gli Stati. Oggi esiste una sola superpotenza e agli stati non resta che allearsi con questa. È vero poi che oggi
il potere economico appare così potente da ricattare quasi tutti gli Stati, ma questo aspetto caratterizza un
momento storico particolare, così come altri momenti storici sono stati caratterizzati da un rapporto tra
potere economico e potere politico diverso rispetto a quello attuale, e non toglie che esistano ancora gli Stati.

15) Conclusioni: riassumendo le principali tesi sostenute in questo capitolo: 1) lo stato è un apparato
separato dalla società che monopolizza la forza e che proprio per questo rappresenta la prima forma di
distinzione organizzata e socialmente attiva fra economia e politica. Questa distinzione corrisponde al modo
di produzione capitalistico. 2) Per questa ragione lo stato liberale rappresenta la forma di Stato che meglio
corrisponde all’essenza dello Stato. Per questa stessa ragione con la crisi del modo di produzione
capitalistico entra in crisi anche lo stato liberale e la stessa forma stato. 3) Le risposte a questa duplice e
connessa crisi sono state da un lato quelle che tendevano a distruggere la separatezza tra stato e società, l’una
assorbendo la società nello stato (il fascismo), l’altra sciogliendo lo stato entro la società (il comunismo);
dall’altro lato le risposte oggi dominanti in occidente hanno tentato una nuova sintesi tra stato e società che
continuasse e rinnovasse lo schema liberale; risposte che possono essere riassunte sotto la categoria del
pluralismo che si distingue in pluralismo conflittuale e organico. 4) Poiché da alcuni anni stiamo assistendo
in Europa al ritorno di tendenze liberistiche in economia e liberali per gli altri aspetti della società, è lecito
chiedersi se anche il modello democratico-pluralista stia vivendo il suo tramonto. È possibile ora rispondere
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

alla domanda perché la parola stato ha quasi sempre almeno due significati. La risposta è perché la duplicità
di significato della parola stato, e i diversi modi di riconnettere e riunificare i due significati, riflettono le
diverse ideologie sulla natura dello Stato e sul rapporto tra stato e società. Per un liberale la società resta
società separata dallo stato, quando si considera il momento della concorrenza e dei bisogni privati in lotta
l’uno contro l’altro, ma è immediatamente stato quando viene concepita unitariamente e viene quindi
sottolineato e considerato il momento unitario che le deriva solo dal fatto di essere incardinata intorno allo
stato. La parte (lo stato) diventa immediatamente la totalità (l’intera società retta a stato) perché la realtà
sociale complessiva è tale (è unità organizzata) grazie allo stato. La società è immediatamente stato e nello
stesso tempo è separata dallo stato, lo stato è apparato di potere separato dalla società e nello stesso tempo
totalità sociale che ricomprende l’apparato di potere, cioè sé stesso. Questa confusione logica e linguistica,
caratteristica di tutta la tradizione liberale, deriva dal fatto che lo stato liberale è esso stesso contraddittorio,
perché pretende di tenere uniti ad un tempo e senza conflitto la separatezza degli individui in concorrenza fra
di loro e la loro socievolezza. La costruzione pluralistica che riconosce la contraddizione tra stato e società
non incorre in questa confusione: essa usa la parola stato per designare sia l’apparato che la società
organizzata a stato, ma è consapevole che si tratta di due realtà distinte; tanto che quando è necessario
chiarire a quale delle due realtà ci si riferisce, questa tradizione di pensiero accoppia alla parola stato una
seconda parola per eliminare ogni ambiguità: es. stato-apparato quando ci si riferisce allo stato come
apparato e quindi soggetto tra gli altri; o stato-società quando ci si riferisce alla collettività nazionale. Nella
concezione dello Stato liberale la società di concorrenza veniva concepita indipendentemente dallo stato;
nello stato pluralista la società è dentro lo stato, lo stato è l’insieme armonioso e articolato di molte parti che
vanno dall’individuo singolo fino al governo attraverso una serie di comunità intermedie che fanno da
tramite e cemento tra base e vertice. Quindi tra stato e società non c’è contrapposizione, ma integrazione.
Con lo stato fascista la parola stato designa sia il governo che la comunità perché designa in realtà due aspetti
della medesima realtà. Lo stato è uno, unico e unitario. Il movimento comunista si comporterà, rispetto
all’uso della parola stato, in modo del tutto opposto: i comunisti terranno fermo nella sua separatezza il
termine stato e dunque designeranno sempre, con questa parola, solo ed esclusivamente l’apparato
monopolizzatore della forza, il quale è l’elemento da distruggere, da tenere separato dalla società perché in
contraddizione antagonistica con essa. Poiché è scientificamente dimostrabile che la società può emanciparsi
dallo stato e che tra stato e società esiste contraddizione antagonista, ne segue che non ha senso scientifico
usare la parola stato per designare l’insieme dei governanti e governati, ma al contrario, date le premesse,
l’unico uso scientificamente legittimo della parola stato è quello con cui si designa solo ed esclusivamente
l’apparato unitario che monopolizza la forza (secondo la visione comunista). Alla domanda perché la parola
stato nell’uso corrente ha due significati non si può dare un’unica risposta vera, ma tante risposte quanti sono
i contesti culturali-politici entro cui viene formulata la domanda. Dunque, un liberale, un fascista, o un
democratico-pluralista userà la parola stato con significato, estensione e articolazione diversi l’uno dall’altro:
tutti però ricomprenderanno entro lo stato anche la società; un comunista rivoluzionario invece riserverà la
parola stato solo ed esclusivamente all’apparato monopolizzatore della forza. Rescigno, da comunista, vede
lo stato solo ed esclusivamente come l’apparato monopolizzatore della forza, e quindi in questo senso è stata
e sarà usata la parola stato in tutto il libro. La nostra Costituzione scritta, la concezione dominante in Italia, e
quindi anche la stragrande maggioranza dei costituzionalisti, si inscrivono entro la concezione pluralistica
dello Stato e della società.

CAPITOLO 3

I rapporti tra gli Stati

1) Premessa: è ovvio che gli Stati abbiano rapporti tra di loro. Gli Stati possono entrare in conflitto tra di
loro, minacciando e attuando rappresaglie (es. impedendo lo scambio di merci dall’uno verso l’altro:
embargo), fino a giungere alla guerra. La guerra, e in generale gli atti ostili di uno stato verso l’altro, sono
oggetto di regole; così come anche i rapporti pacifici tra gli Stati. L’insieme delle regole che disciplinano i
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

rapporti tra gli Stati si chiama diritto internazionale. Gli Stati, per tutelare gli interessi della comunità che
ciascuno di essi organizza e dirige e per favorire scambi e rapporti internazionali, istituiscono anche
organizzazioni internazionali, e cioè organizzazioni create dagli stati mediante un trattato internazionale, alle
quali vengono affidati compiti specifici e alle quali, di conseguenza, vengono assegnati i mezzi finanziari,
materiali e personali ritenuti opportuni.

2) L’ordinamento internazionale: le caratteristiche di sovranità e indipendenza degli stati trovano riscontro


nelle regole fondamentali del diritto e dell’ordinamento internazionale. La prima regola che dispone che tutti
gli Stati fanno parte dell’ordinamento internazionale è conseguenza della sovranità di ciascuno stato: se
questo esiste, e quindi una parte del mondo è a lui subordinata, è inevitabile che questo stato esistente entri in
rapporti con altri stati e sia quindi soggetto alle regole consuetudinarie che disciplinano i rapporti tra gli
Stati. Sembra contraddire questa regola il fatto che a volte alcuni stati rifiutano di riconoscere un altro stato,
e quindi non hanno rapporti con esso. Questo rifiuto che ha un valore politico per lo stato che lo compie non
toglie che altri stati intrattengono rapporti con quello stato non riconosciuto dal primo e che anche lo stesso
stato il quale nega il riconoscimento debba sottostare a quelle regole che presiedono i rapporti tra gli Stati
ogni volta che, per qualsiasi ragione, entra in contatto con lo stato da lui non riconosciuto, e pretenda a sua
volta il rispetto di tali regole anche dallo stato non riconosciuto. Dunque, il rifiuto di riconoscimento non può
ottenere che lo stato esistente non ci sia, e quindi lo stato, anche non riconosciuto da altri, resta stato e
necessariamente entra a far parte dell’ordinamento internazionale. La seconda caratteristica del diritto
internazionale, per cui in principio solo gli Stati fanno parte del diritto internazionale, e non ne fanno parte i
soggetti interni ai singoli stati, traduce il principio di esclusività del potere dello Stato. Ogni soggetto entro
ciascuno stato è subordinato al suo stato sovrano, e dunque non può far parte dell’ordinamento internazionale
perché se così fosse esso sarebbe subordinato non solo al suo stato, ma anche alle regole poste da tutti gli
Stati insieme. Lo stato è il destinatario degli obblighi e dei doveri, e titolare dei poteri e dei diritti verso altri
stati; in questo modo fa da filtro verso l’esterno, monopolizza i rapporti con gli altri stati, e per questo
riconferma il suo potere esclusivo verso l’interno. I cittadini, e ogni altro soggetto entro lo stato, sono
obbligati solo se lo stato così comanda, non perché altri stati comandano; i cittadini devono rivolgersi al
proprio stato, il quale è il solo, nell’ordinamento internazionale, che può agire per loro conto. Lo stato,
quando contrae obblighi verso altri stati, deve seguirli secondo il principio “pacta sunt servanda” (gli accordi
vanno rispettati); dunque se questi obblighi esigono comportamenti conformi dei cittadini, lo stato obbligato
deve estenderli ad essi. Se non lo fa i cittadini non sono obbligati, perché solo lo stato può obbligarli. Oggi ci
sono casi in cui la regola descritta subisce attenuazioni cosicché obblighi e comandi di diritto internazionale
penetrano direttamente entro alcuni stati senza che questi debbano interporre i propri atti imperativi che
recepiscono le regole internazionali. Tutto ciò accade perché questi stati hanno stabilito che tutte o alcune
specifiche norme di diritto internazionale siano immediatamente vigenti al proprio interno. L’art. 10 della
costituzione stabilisce che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute”: dunque le norme consuetudinarie di diritto internazionale sono automaticamente
applicabili, e devono essere obbedite dai giudici, senza che lo stato italiano possa impedirlo. Lo stato
italiano, come qualsiasi altro stato, può in ogni momento violare il diritto internazionale, perché ha la forza
materiale per farlo; anche se compie un illecito internazionale andando incontro a possibili ritorsioni e
sanzioni, fino alla guerra. L’art. 117, primo comma, nel testo introdotto dalla l. Cost. 3/2001, stabilisce che
tutte le leggi devono essere conformi agli obblighi internazionali. I paesi che aderiscono all’ONU
(Organizzazione delle Nazioni Unite) assumono verso questa organizzazione e verso tutti gli altri stati
aderenti una serie di obblighi descritti nel trattato istitutivo. Però l’Onu è un’organizzazione volontaria e non
ha una sua forza materiale indipendente. Dunque, ogni Stato membro può in ogni momento uscirne e l’Onu
non può materialmente imporre i suoi ordini e deve confidare in strumenti indiretti di pressione. Anche
quando organizza le forze armate dell’ONU, si tratta di forze armate prestate dai singoli stati aderenti, e
quindi se e nei limiti in cui essi vogliono prestarle; l’uso di tali forze o avviene con il consenso degli stati sul
cui territorio esse devono agire o scatena la guerra. In conclusione, l’esistenza dell’ONU non supera la

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Riassunto di Gaia Paoloni
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sovranità e indipendenza degli stati, cerca solo di limitarla. Altra caratteristica dell’ordinamento
internazionale è che i fatti normativi (fatti che sono legittimati a creare norme obbligatorie nei rapporti tra gli
Stati) sono solo di due tipi: o consuetudini (cioè regole che si ricavano da comportamenti costanti
accompagnati dalla convinzione entro la comunità che li pratica che essi sono obbligatori e quindi
coercibili), o trattati, cioè accordi volontari tra due o più stati. Quindi nel diritto internazionale le regole o
sono il frutto di diretti patteggiamenti tra gli interessati (i trattati) o sono il frutto di comportamenti
tradizionali degli stati, dunque il diritto è sempre il frutto della volontà dei singoli soggetti, esiste perché gli
stessi soggetti obbligati lo vogliono. La ragione di tutto ciò rimanda ad un’altra caratteristica
dell’ordinamento internazionale: al fatto che esso è un ordinamento paritario senza un’autorità sovraordinata
ai singoli membri di esso. L’ordinamento internazionale è un esempio classico di società senza autorità
sovraordinata, senza monopolio della forza. L’unico modo attraverso cui in ultima istanza gli Stati possono
garantire i loro diritti verso altri stati è il diretto uso della forza che può sfociare nella guerra. Se gli Stati non
vogliono essere perpetuamente in guerra ci deve essere uno spontaneo rispetto dei patti, ma, poiché questo
rispetto dei patti si basa sulla spontanea e volontaria adesione degli stipulanti, nessuna forza può impedire
che il singolo stato violi unilateralmente il patto, come nessuna forza può impedire che l’altro o gli altri stati
scatenano, se lo vogliono, rappresaglie, fino alla guerra. Tutto questo avviene perché tutti gli Stati e solo gli
Stati dispongono della forza armata. Questo fatto si esprime in una piccola clausola che si aggiunge alla
regola che gli accordi vanno rispettati: la clausola per cui i patti vanno rispettati finché le circostanze restano
immutate. A giudicare se le circostanze sono mutate è lo stesso stato, quindi la regola esiste finché
l’obbligato la vuole. Dunque, l’ordinamento internazionale esiste, ma è imperfetto perché la sovranità e
indipendenza dei suoi soggetti lo rende fondamentalmente anarchico.

3) L’ONU: fu costituita nel 1945 dagli stati che avevano combattuto e vinto la Seconda guerra mondiale.
Essa riprende e migliora la Società delle Nazioni che era stata costituita dopo la Prima guerra mondiale. È
un’organizzazione internazionale aperta all’adesione di altri stati, e oggi quasi tutti vi aderiscono. Gli organi
principali sono: il consiglio di sicurezza; l’assemblea generale; il segretario generale. Il consiglio di sicurezza
è l’organo più importante perché è l’unico che può adottare decisioni vincolanti per gli Stati. È composto dai
rappresentanti di 15 stati: 5 però sono membri di diritto (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina
popolare), gli altri 10 sono scelti per un biennio dall’assemblea generale. Ciascuno dei 5 membri permanenti
ha un potere di veto su ogni decisione del consiglio (salvo quelle meramente procedurali): bisogna
raggiungere la maggioranza prescritta per decidere, però affinché la decisione sia valida devono aver votato a
favore tutti e 5 membri di diritto. Le materie su cui è competente il consiglio sono indicate nel trattato:
riguardano gli oggetti più importanti perché il consiglio è competente a decidere su tutte le questioni che
riguardano la pace tra gli Stati, e può adottare le misure che ritiene più opportune per prevenire o ristabilire
la pace, comprese quelle di carattere militare. Siccome da un lato ogni membro di diritto può porre il veto, e
dall’altro oggi solo gli Stati Uniti sono in grado di esercitare la forza anche unilateralmente e di condizionare
tutti gli altri stati, ne segue che l’Onu interviene se e quando gli Stati Uniti vogliono. L’assemblea generale,
composta da tutti gli Stati aderenti con voto eguale, ha una competenza generale (può adottare deliberazioni
su qualsiasi questione che rientri nello statuto dell’ONU e non sia attribuita alla competenza del consiglio o
di altro organo dell’organizzazione), ma le sue deliberazioni non sono vincolanti nei confronti degli stati. Il
segretario generale, che sta a capo dell’apparato dell’ONU, viene nominato dall’assemblea generale su
proposta del consiglio di sicurezza, ed è l’organo responsabile dell’attuazione delle decisioni dell’ONU.

4) Altre organizzazioni internazionali: delle innumerevoli organizzazioni internazionali bisogna ricordare,


in quanto incidono sulla sovranità dell’Italia (e degli stati aderenti), il fondo monetario internazionale (FMI),
l’organizzazione mondiale del commercio (OMC), il Consiglio d’Europa e la collegata Corte europea dei
diritti dell’uomo, la NATO. Il fondo monetario internazionale (e la Banca Mondiale ad esso collegata) è una
organizzazione che ha lo scopo di impedire o ridurre squilibri nelle bilance dei pagamenti tra gli Stati
aderenti. La bilancia dei pagamenti è l’insieme delle entrate in denaro da un lato, e delle uscite dall’altro, di
un paese nei confronti di un altro paese o nei confronti di tutti i paesi. La bilancia commerciale è una parte
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Riassunto di Gaia Paoloni
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della bilancia di pagamenti: misura le importazioni e le esportazioni di merci (la bilancia dei pagamenti
aggiunge alla bilancia commerciale altre voci: es. i movimenti di capitali in denaro). Se le oscillazioni sono
piccole, esse da un anno all’altro si compensano. Se sono violente, il paese in disavanzo può trovarsi
nell’impossibilità di far fronte ai propri debiti. Il fondo monetario internazionale, su richiesta dello Stato
aderente, può intervenire in aiuto (nel darlo spesso impone anche condizioni). Siccome il fondo è governato
in base alle quote che ciascuno stato ha versato, e gli Stati Uniti hanno la quota maggiore, molti sostengono
che il fondo è uno dei principali strumenti attraverso cui gli Stati Uniti impongono la loro egemonia sugli
altri paesi. L’organizzazione mondiale del commercio nasce come tale il 1° gennaio 1995, ma per quanto
riguarda la normativa sostanziale che deve applicare, ha il suo precedente nel GATT (accordo generale sui
dazi e sul commercio) del 1947. Il suo scopo è quello di favorire il commercio internazionale, sia per le
merci che per i servizi: a questo fine gli Stati aderenti hanno introdotto una complessa normativa, ed hanno
istituito un’organizzazione internazionale che ha il compito di sottoporre a sorveglianza il comportamento
degli stati nelle materie disciplinate e risolvere le controversie che ne possono nascere per mancato rispetto
di tali regole da parte degli stati. Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione che comprende molti stati
europei e ha lo scopo di conseguire una più stretta unione fra i suoi membri per salvaguardare e promuovere
gli ideali e i principi che costituiscono il loro comune patrimonio e di favorire il loro progresso economico e
sociale. Il Consiglio d’Europa è riuscito a fare approvare un progetto elaborato da esso per la salvaguardia
dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo (CEDU). La convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali fu approvata a Roma nel 1950. L’Italia ha aderito ad essa con la
legge 4 agosto 1955 n. 848. La convenzione si divide in due parti, una di ordine sostanziale e una di ordine
procedurale: nella prima vengono descritti e disciplinati i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo; nella
seconda sono istituiti e disciplinati gli organi e le procedure a tutela dei diritti disciplinati nella prima parte.
Se gli Stati aderenti alla convenzione dichiarano di aderire anche a questo meccanismo (come fa l’Italia), i
cittadini degli stati aderenti alla convenzione possono rivolgersi ad un’organizzazione internazionale,
scavalcando il proprio stato, per tutelare i propri diritti fondamentali. Basandoci sulla recente innovazione
(convenzione approvata a Strasburgo l’11 maggio 1994 ed eseguita dall’Italia con legge 28 agosto 1997, n.
296), i cittadini degli stati aderenti, entro sei mesi a partire dalla ultima decisione del proprio stato, possono
ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo, le cui decisioni sono obbligatorie per gli Stati aderenti. La
convenzione, dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, ha acquistato nel nostro ordinamento ulteriore
importanza perché in base al nuovo testo del comma primo dell’art. 117 oggi le leggi ordinarie statali e
regionali contrarie a tale convenzione sono incostituzionali. Per quanto riguarda la NATO (Organizzazione
del trattato del Nord Atlantico) bisogna distinguere tra il trattato del Nord Atlantico e la relativa
organizzazione militare: si può aderire al primo e non alla seconda. Mediante il patto alcuni stati del Nord
America (USA) e dell’Europa occidentale si sono impegnati a coordinare le loro politiche militari e a darsi
reciproco aiuto in caso di aggressione da parte di altri stati ad uno qualunque degli stati aderenti (il trattato fu
stipulato nel 1949 pensando ad un possibile conflitto armato con l’URSS; oggi la NATO viene mantenuta
come strumento di forza degli stati aderenti nei confronti di tutti gli altri). Al fine di dare maggiore efficacia
al trattato, è stata creata una comune organizzazione militare, composta da forze armate messe a disposizione
dai singoli stati, con un comando unificato.

CAPITOLO 4

L’Unione europea

1) La Comunità europea, le Comunità europee, l’Unione europea: alcuni stati europei (es. Germania,
Francia, Italia, etc.) a cui si sono aggiunti successivamente altri stati (es. Grecia, Spagna, Austria, etc.; dal 1
maggio 2004 sono entrati a far parte dell’Unione europea altri 10 stati; dal 1 gennaio 2007 altri due, per un
totale di 28 a settembre 2014) hanno stipulato trattati internazionali che istituivano, prima la CECA
(comunità europea del carbone e dell’acciaio: trattato di Parigi del 1952, che oggi non esiste più; se vi sono
questioni relative al carbone e all’acciaio da decidere, queste rientrano nelle previsioni generali della
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Riassunto di Gaia Paoloni
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comunità europea), e poi, con due trattati firmati lo stesso giorno a Roma nel 1957, la CEE (comunità
economica europea che a seguito del trattato di Maastricht diviene comunità europea (CE)) e la CEEA
(comunità europea per l’energia atomica, Euratom). Nel 1992 gli Stati della comunità europea stipularono un
trattato sull’Unione europea che prende il nome di trattato di Maastricht dalla cittadina in cui è stato firmato.
Questo trattato è entrato in vigore nel novembre 1993 (istituiva l’Unione europea ed apportava importanti
modifiche alle Comunità esistenti). Tra Unione europea e Comunità europea non vi era coincidenza:
l’Unione europea comprendeva le comunità come suoi strumenti principali, ma era un’organizzazione
politica con obiettivi e strumenti ulteriori rispetto a quelli attribuiti alle Comunità. L’Unione si basava su tre
pilastri: le politiche svolte dalle Comunità, la politica estera e di sicurezza comune (PESC), la cooperazione
di polizia e giudiziaria in materia penale (GAI). L’Unione europea però non aveva una sua organizzazione
amministrativa specifica e si avvaleva dell’organizzazione della Comunità europea o dello Stato che per sei
mesi aveva e curava la presidenza del consiglio europeo. Il 1° dicembre 2009 è entrato in vigore il trattato di
Lisbona che ha apportato alcune modificazioni sia al trattato base sull’Unione europea (TUE) sia al trattato
base sulla Comunità europea, che prenderà il nome di trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE). I due trattati restano formalmente distinti, ma hanno lo stesso valore giuridico. Una modificazione
significativa consiste nel fatto che l’Unione europea acquista la personalità giuridica, mentre la perde la
vecchia Comunità europea, la cui organizzazione ed il cui funzionamento diventano parte interna e servente
dell’Unione europea. Dunque, scompare la distinzione tra Unione europea e Comunità europea con il chiaro
intento di costruire una struttura maggiormente unitaria rispetto alla precedente. Però nell’Unione europea le
regole cambiano molto spesso secondo l’oggetto sul quale decidere, cosicché questa maggiore unità in
pratica è più apparente che reale. Cambia la numerazione dei due trattati, cosicché quando si leggono
precedenti pubblicazioni o si devono fare confronti tra vecchie e nuove regole è necessario ricordare che i
numeri non si corrispondono e fare uso delle tavole di conversione allegate ai trattati (cosa complicata).
Alcune altre caratteristiche importanti dell’Unione: 1) il principio di sussidiarietà: si dispone che, nelle
materie di non esclusiva competenza dell’Unione europea, questa può intervenire solo quando gli obiettivi
previsti non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri. Dunque, a parte le materie di
esclusiva competenza dell’Unione, in tutte le altre competenti sono gli Stati: se viene deciso che gli Stati non
sono in grado di raggiungere sufficientemente gli obiettivi previsti, l’Unione può intervenire. 2) Esiste la
cittadinanza dell’Unione, che prevede la eleggibilità dei cittadini dell’Unione per le elezioni comunali entro
lo stato in cui risiedono anche se diverso dal proprio, e la possibilità di votare per la elezione del Parlamento
europeo in qualsiasi stato dell’Unione. Questa cittadinanza è una cittadinanza derivata: si è cittadini
dell’Unione solo se si è cittadini di uno Stato membro dell’Unione, non esiste che si acquista
indipendentemente dalle leggi degli Stati membri. 3) Esiste (solo per alcuni, tra i quali l’Italia) un sistema
europeo delle banche centrali con funzioni di coordinamento rispetto alle funzioni secondarie che sono
rimaste alle banche centrali dei singoli stati e in subordine rispetto alla Banca centrale europea, una Banca
centrale europea, ed una moneta unica europea chiamata Euro, amministrata da tale Banca. 4) È prevista la
cooperazione rafforzata tra alcuni stati dell’Unione e la possibilità di eccezioni a vantaggio di alcuni stati che
intendono sottrarsi alla disciplina comune su alcune questioni, con la conseguenza che in alcune materie e
rispetto a determinate questioni all’interno dell’Unione vigono regole differenziate, secondo che gli Stati
hanno concordato una disciplina comune oppure ne stanno fuori. 5) Esiste, con il nome di Mediatore, un
difensore civico comunitario a cui rivolgersi per segnalare disfunzioni, omissioni, ingiustizie, etc. Gli atti
comunitari legittimi, a partire dai regolamenti, prevalgono sulla stessa Costituzione italiana, grazie all’art. 11
della stessa Costituzione in cui si dispone che l’Italia “consente, in condizioni di parità con altri stati, alle
limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”:
l’Unione europea è basata sulla parità tra gli Stati europei e viene considerata un’organizzazione che rientra
tra quelle indicate dall’art. 11; quindi sono ammissibili tutte le limitazioni di sovranità previste o che
discendono dai trattati che istituiscono e disciplinano l’Unione europea, salvo, ha sancito la Corte
costituzionale, la garanzia dei diritti di libertà e il rispetto dei principi costituzionali fondamentali.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

2) Gli organi e gli atti dell’Unione europea: gli organi di vertice dell’Unione europea sono: il Consiglio
europeo, il Consiglio (dei ministri), la Commissione, il Parlamento, la Corte di giustizia, la Banca centrale
europea, la Corte dei conti. Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati
membri, dal suo Presidente (innovazione portata dal Trattato di Lisbona) e dal Presidente della
Commissione. L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (una specie di
ministro degli esteri per conto di tutta l’Unione, che non sostituisce le decisioni di politica estera adottate dai
singoli stati) partecipa ai lavori. Il presidente del consiglio europeo viene eletto per due anni e mezzo, ed è
rieleggibile solo per una volta. Il consiglio europeo sul piano politico è il massimo organo dell’Unione ed
esercita quelle che possiamo chiamare le funzioni strategiche, stabilisce il programma politico di massima
per il futuro, ma la traduzione in norme e decisioni vincolanti spetta poi agli altri organi competenti previsti
dai trattati. L’organo che è al di sopra di tutti sul piano normativo ed amministrativo è il Consiglio dei
ministri. È composto da un rappresentante di livello ministeriale per ogni stato aderente, designato volta a
volta dal governo di ciascuno stato. Dunque, è un organo rappresentativo dei governi dei singoli Stati
membri della Comunità. È presieduto per sei mesi a turno dal rappresentante di uno degli stati aderenti. Il
fatto che le autorità più importanti dell’Unione dipendano dai Governi dei singoli stati, e non dai Parlamenti
di questi, dimostra che l’Unione è stata concepita come un’organizzazione strumentale al servizio delle linee
politiche dei Governi dei singoli stati. Le decisioni principali dell’Unione sono il frutto di lunghe e faticose
trattative tra i governi degli Stati membri, finché non si raggiunge un accordo unanime. Però seguendo i
trattati, ci sono casi in cui per decidere basta la maggioranza dei componenti, altri nei quali è necessaria la
unanimità, altri in cui è necessaria la maggioranza qualificata (agli stati vengono attribuiti i pesi ponderali
diversi secondo la loro importanza in popolazione o altro). Rimane fermo il principio che le decisioni
dell’organo massimo dell’Unione dipendono dai Governi dei singoli stati (nel Consiglio europeo vige la
regola della unanimità, salvo che i trattati dispongano diversamente). La Commissione è composta da un
certo numero di persone (dal 2014 i componenti dovrebbero essere i 2/3 degli stati aderenti all’Unione),
nominate di comune accordo dai governi degli stati, previa approvazione da parte del Parlamento. La
Commissione deve agire in modo del tutto indipendente dagli stati, e i suoi componenti non sono
rappresentanti dello Stato di appartenenza. Essa è l’organo collegiale che dirige l’intero apparato
amministrativo dell’Unione, eseguendo ed attuando le decisioni del Consiglio, e adottando gli atti previsti
dai trattati. In particolare: a) ha un generale potere di proposta (spesso in modo esclusivo: un atto non può
essere deliberato dal Consiglio e dal Parlamento se non vi è stata una previa proposta della Commissione); b)
vigila sulla corretta applicazione dei trattati e dei regolamenti, e adotta gli atti previsti dai trattati (es. ricorre
alla Corte di giustizia); c) rappresenta l’Unione sia nei confronti degli stati aderenti sia nei confronti di
qualunque altro soggetto. Il Parlamento europeo è eletto a suffragio universale dai cittadini di tutti gli Stati
aderenti alla Comunità europea: ciascuno stato elegge una quota stabilita dai trattati in base ad un sistema
elettorale che ciascuno ha deciso autonomamente (in Italia il sistema è proporzionale di lista, al quale con la
legge n. 10/09 è stata aggiunta una soglia di sbarramento al 4%: non concorrono alla ripartizione dei seggi le
liste che non raggiungano a livello nazionale la quota del 4% dei voti validi). Nonostante sia un organo
rappresentativo l’indirizzo politico viene deciso dal Consiglio europeo, e la funzione normativa spetta nella
sostanza al Consiglio dei ministri, anche quando in molti casi deve esserci anche l’approvazione del
Parlamento. Le principali funzioni del Parlamento europeo: a) concorre, nei casi previsti dai trattati, alla
deliberazione dei regolamenti secondo procedure previste negli stessi trattati; b) esprime pareri, spesso
obbligatori; c) approva il bilancio (può respingerlo con la maggioranza dei 2/3 dei voti); d) può esprimere
censura verso la Commissione: se viene approvata con i 2/3 dei suffragi espressi i quali raggiungano anche la
maggioranza assoluta dei componenti, la Commissione decade (svolgendo attività di ordinaria
amministrazione fino alla sua sostituzione). La Corte di giustizia è il giudice dell’Unione che decide le
controversie previste dai trattati, quelle relative alla legittimità degli atti comunitari, e quelle relative
all’interpretazione ed applicazione dei trattati e degli atti comunitari previsti dai trattati. Dal 1988 è in
funzione anche il Tribunale di primo grado, che decide su questioni di minore importanza. Le sentenze di
questo giudice sono impugnabili davanti alla Corte di giustizia, ma solo per questioni di diritto. La Corte dei
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

conti si occupa delle regolarità e legittimità dei conti e delle spese delle Comunità. La Banca centrale
europea è un organo indipendente sia dagli stati sia rispetto agli altri organi dell’Unione. Gli atti principali
dell’Unione sono: i regolamenti; le direttive (prescrizioni rivolte agli stati affinché questi raggiungano
determinati risultati; ciascuno stato è obbligato ad attuare la direttiva, e nell’attuarla deve perseguire i fini
indicati, ma usando i mezzi che ritiene più opportuni); le raccomandazioni (atti politici, che invitano gli Stati
a fare o decidere qualcosa, ma non sono obbligatori); le decisioni (atti concreti di carattere amministrativo,
adottati dagli organi competenti sulla base dei trattati e dei regolamenti); le sentenze (atti della Corte di
giustizia e del Tribunale di primo grado). I regolamenti, le decisioni e le sentenze dell’Unione sono
immediatamente obbligatori per tutti, cittadini ed autorità, entro tutti gli Stati contemporaneamente.

3) Rapporti tra Unione europea e Stati aderenti: l’Unione europea per una parte disciplina e amministra
alcune materie, sottraendole quasi del tutto ai singoli stati; per un’altra parte disciplina con atti generali e
astratti le molte materie ad essa attribuite dai trattati, demandando agli apparati amministrativi dei singoli
stati l’applicazione concreta di essi (dunque gli stati hanno perduto quasi completamente la loro funzione
legislativa, e sono incaricati di svolgere i compiti amministrativi necessari per l’applicazione della normativa
comunitaria); per un’altra parte svolge un attività promozionale e preparatoria in vista di una progressiva e
continua integrazione dei paesi aderenti. Nel primo caso essa, in base ai trattati, ha ad es. il potere di stabilire
i dazi doganali per tutta l’Unione nei confronti degli stati esterni; stabilisce prezzi unici per i prodotti
dell’agricoltura; da aiuti per aumentare o diminuire la produzione; etc. Nel secondo caso, mediante i
regolamenti, gli organi competenti dell’Unione si sostituiscono ai legislatori nazionali, che al più in quelle
stesse materie possono approvare atti normativi necessari per l’esecuzione dei regolamenti. Nel terzo caso,
mediante le direttive, o con altri atti, si propongono di ottenere che in tutti gli Stati vigano regole quanto più
possibile simili e pratiche amministrative omogenee, e vengano perseguiti obiettivi economici e sociali
eguali o compatibili. La direttiva indica agli stati gli obiettivi che essi devono obbligatoriamente perseguire,
e lascia agli stessi di approvare, entro un termine tassativo, gli atti normativi necessari per individuare i
mezzi e i modi in vista del raggiungimento di quegli obiettivi. L’Unione non dispone di alcun apparato
militare al proprio servizio, ma spetta alle forze armate e di polizia dei singoli stati attuare con la forza, se
necessario, le decisioni comunitarie. Non esistono oggi forze militari direttamente governate dagli organi
comunitari. Gli apparati amministrativi dell’Unione sono inferiori a quelli dei singoli stati: tranne i casi in cui
sono gli apparati amministrativi dell’Unione che deliberano nei casi concreti, spetta alle autorità
amministrative dei singoli stati dare applicazione nei casi concreti alla normativa comunitaria, e spetta ai
giudici dei singoli stati decidere nelle controversie che derivano dall’applicazione della normativa
comunitaria (fatti salvi i casi tassativamente previsti nei quali si può ricorrere alla Corte di giustizia o al
Tribunale di primo grado). Quindi molto spesso le autorità amministrative italiane devono applicare norme
comunitarie e devono coordinarsi con le autorità comunitarie. Il bilancio dell’Unione è più piccolo di quello
dei singoli stati (tranne gli Stati piccoli). Se il potere della borsa misura anche il potere politico, si capisce
perché nell’Unione comandano gli stati ed i loro governi (che detengono il potere della borsa), e non gli
organi comunitari come tali. In base a tutte le considerazioni fatte si capisce perché tutti gli osservatori
concludano che l’Unione europea non è uno stato federale; nello stesso tempo però non è neppure una mera
alleanza tra stati, perché i singoli stati si trovano ad essere subordinati alle decisioni collettive adottate dagli
organi dell’Unione, cosicché una parte non piccola della loro sovranità originaria non esiste più in capo al
singolo stato.

CAPITOLO 5

Lo Stato come soggetto giuridico

1) Persona fisica, persona giuridica e altri soggetti giuridici: si sosteneva in passato che tutti gli Stati
fossero persone giuridiche, ma ad esempio la Gran Bretagna non è considerata tale e non agisce come
persona giuridica unitaria; mentre per molti decenni è stata opinione dominante tra i giuristi che lo stato
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Riassunto di Gaia Paoloni
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italiano fosse una persona giuridica. Oggi molti giuristi sostengono che lo stato italiano non è una persona
giuridica e neppure un soggetto giuridico. Nell’ordinamento italiano ogni persona umana, alla nascita,
acquista la capacità giuridica, la quale non si perde mai finché si vive. Questa è la capacità astratta di
divenire titolare di diritti e doveri. Il bambino non può esercitare tali diritti (i suoi atti non hanno alcuna
efficacia giuridica) perché non ha acquisito la capacità di agire. Quest’ultima è la capacità concreta di
modificare, costituire o estinguere rapporti giuridici e si acquista con la maggiore età (art. 2 c.c. modificato
con legge 8 marzo 1975 n. 39 che ha fissato la maggiore età a 18 anni), mentre la si può perdere in ipotesi
tassativamente determinate dal diritto (es. con sentenza di interdizione a causa dell’accertata incapacità di
intendere e di volere: art. 414 ss. cc.). La capacità giuridica quindi può esistere anche se non esiste la
capacità di agire, mentre quest’ultima presuppone sempre che il soggetto capace di agire sia esso stesso
capace giuridicamente. L’acquisto automatico della capacità giuridica al momento della nascita non è
scontato perché storicamente anche in Europa è esistita la schiavitù, la schiavitù esiste ancora in qualche
paese e da molti paesi è scomparsa solo recentemente (negli USA la schiavitù è scomparsa solo dopo la
guerra di secessione nel 1865). Dunque, alcuni uomini nascevano privi di capacità giuridica essendo così
oggetti di diritto. Oggi la capacità giuridica è uguale per tutti i cittadini: alla nascita tutti sono potenzialmente
eguali, nel senso che tutti possono divenire titolari di tutti i possibili diritti e doveri (dal punto di vista legale
non esiste alcuna impossibilità). Anche questa è una conquista moderna, data essenzialmente dalla
rivoluzione francese. In passato gli uomini nascevano con diverse capacità giuridiche in base alla diversa
collocazione sociale della famiglia a cui appartenevano. Lo status è una qualità personale che costituisce il
presupposto di indeterminabili diritti e doveri ogni volta che il diritto condiziona il godimento di essi
all’esistenza di tale status: cioè vi sono diritti e doveri che non si possono godere, esercitare, adempiere, etc.
se non si appartiene a quel certo status. Modernamente gli status si acquistano al sopravvenire di fatti
determinanti (matrimonio, etc.) e sono potenzialmente acquistabili da tutti (tranne la cittadinanza) purché si
verifichino quei fatti attributivi dello status (tutti dunque possono diventare coniugi, etc.); mentre in passato
alcuni status si creavano all’atto della nascita e quindi davano luogo a diverse capacità giuridiche: ciò che
poteva fare giuridicamente il nobile era diverso da quello che poteva fare il villano; le leggi che si
applicavano al primo erano diverse da quelle che si applicavano al secondo per medesimi fatti. In questo
modo fatti esattamente uguali, venivano trattati diversamente dal diritto a seconda se riguardavano il nobile o
il villano. Molti diritti di libertà si esercitano mediante un fare che di per sé non produce alcun effetto
giuridico: la sostanza del diritto consiste nel poter fare liberamente, con la garanzia che questo fare potrà
essere impedito o limitato solo in ipotesi tassative, dalle autorità previste, nei modi e nelle forme prescritte,
secondo quanto stabilisce il testo costituzionale: es. la libertà di riunione (art. 17) o quella di manifestazione
del pensiero (art. 21). In questi casi non ha senso distinguere tra capacità giuridica e capacità di agire: per
quanto riguarda la capacità di agire il problema non si pone perché tali diritti sono personalissimi, riguardano
proprio la persona in quanto tale e non sono esercitabili da nessun altro al posto e per conto della persona
interessata; per quanto riguarda la capacità giuridica, non avrebbe senso porsi la domanda se quei diritti di
libertà sono esercitabili dai neonati, così come se il giovane di 16 anni abbia o non abbia la capacità di
manifestare il proprio pensiero. In questo caso sovviene la nozione di capacità naturale: il minore eserciterà
liberamente i diritti di libertà previsti in Costituzione nella misura in cui è naturalmente capace; questo
principio deve conciliarsi con il principio egualmente previsto in Costituzione per cui i genitori hanno il
diritto-dovere di educare i propri figli, cosicché i figli possono vedere limitato l’esercizio dei diritti di libertà
se e nella misura in cui appare necessario ai genitori a fini educativi. Nel mondo del diritto i soggetti a cui si
rivolgono le norme e che costituiscono i centri di interessi a cui si riannodano tutte le situazioni giuridiche
soggettive ammissibili sono le persone fisiche. Gli ordinamenti giuridici conoscono anche un’altra figura
giuridica soggettiva la quale non è una persona fisica, ma è allo stesso modo titolare potenziale di diritti e
doveri: cioè ha anch’essa capacità giuridica. Questo soggetto si chiama persona giuridica: esiste come
individuo perché giuridicamente costruito. Nel caso in cui più persone decidano di perseguire uno scopo
comune mettendo insieme parte delle proprie sostanze e delle proprie energie, è lecito porsi delle domande
tra cui chi risponderà in caso di debiti. Queste questioni vengono risolte attribuendo la personalità giuridica
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

all’associazione come tale, che in tal modo diventa un soggetto di diritto in tutto e per tutto distinto e
separato dai singoli soci. In questo modo tutte le vicende che toccano l’associazione non toccano i singoli
soci e viceversa. L’associazione con personalità giuridica ha una vita indipendente da quella dei singoli soci.
Però possono anche esistere associazioni senza personalità giuridica (non riconosciute). In Italia la
personalità giuridica si acquista in due modi: o automaticamente per le società commerciali che rientrano nei
tipi previsti dal codice come aventi personalità giuridica e che sono stati costituiti in conformità alla legge
(es. società per azioni); o mediante iscrizione nel registro delle persone giuridiche, istituito presso le
prefetture, o presso le regioni per quelle persone giuridiche che operano nell’ambito regionale e perseguono
fini rientranti nelle materie di competenza regionale, per tutte le altre associazioni che non perseguono fini di
lucro e per le fondazioni. Ovviamente ci saranno soggetti fisici incaricati di agire in nome e per conto
dell’associazione, però tutto ciò che costoro faranno in quanto organi dell’associazione diverrà
immediatamente attività di essa. Ci può anche essere il caso in cui un patrimonio destinato ad un fine
specifico diventi una persona giuridica autonoma indipendente. In tal modo esso potrà svolgere il suo
compito senza essere toccato dalle vicende personali di coloro che di volta in volta dovranno amministrarlo.
Questa figura si chiama Fondazione. Con essa dunque un patrimonio viene reso autonomo da ogni singola
persona fisica, e costituito in soggetto giuridico specifico. La figura della persona giuridica può essere
considerata uno strumento pratico elaborato dalla società per raggiungere determinati fini. La concessione
della personalità giuridica ad un ente collettivo o ad un’organizzazione diventa spesso strumento tecnico
indispensabile quando si intende svolgere un’attività economica, cosicché è assolutamente necessario
decidere univocamente e con certezza chi risponde patrimonialmente per i debiti contrattuali ed
extracontrattuali: la figura della persona giuridica è lo strumento tecnico indispensabile per derogare alla
regola generale secondo cui il debitore risponde con tutto il suo patrimonio, e per sostituire alla
responsabilità patrimoniale degli individui, che materialmente contrattano o provocano danni patrimoniali, la
specifica e particolare responsabilità del nuovo soggetto-persona giuridica. Quando invece l’attività
principale dell’ente collettivo non ha carattere economico (es. l’attività dei partiti), allora lo strumento
persona giuridica diventa praticamente irrilevante. Questi enti collettivi raggiungono ugualmente i risultati
voluti e funzionano come enti collettivi indipendentemente dalla concessione della personalità giuridica. In
conclusione, la concessione della personalità giuridica serve a risolvere essenzialmente questioni di carattere
patrimoniale. Al di fuori di questo campo ha scarso significato, e gli enti collettivi e le organizzazioni sociali
possono raggiungere ugualmente i risultati voluti e agire collettivamente senza bisogno di essere riconosciuti
come persone giuridiche (spesso rifiutano tale riconoscimento perché costituirebbe una limitazione alla loro
libertà in quanto è lo stato che concede la personalità giuridica). La categoria persona giuridica è una
costruzione giuridica che risponde a fini pratici. I soggetti giuridici sono dunque le persone fisiche; sono
anche, per volontà del diritto italiano, quelle organizzazioni che hanno ottenuto la personalità giuridica; però
sono anche tutte quelle forme organizzative che, pur non essendo persone giuridiche, possono agire in alcuni
casi nel mondo dei rapporti giuridici come individui distinti da ogni altro soggetto.

2) Lo Stato come soggetto giuridico: il Codice civile distingue tra persone giuridiche pubbliche e persone
giuridiche private. Rispetto a quelle pubbliche esso si limita a disporre che “le province e i comuni, nonché
gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati
come diritto pubblico” (art. 11). Tra le persone giuridiche pubbliche il Codice civile non ricorda lo stato.
L’art. 11: da un lato ribadisce in linea di principio che il Codice civile si occupa solo delle persone giuridiche
private, mentre quelle pubbliche sono regolate dalle leggi e dagli usi osservati come diritto pubblico, e quindi
ciascuna dalle leggi che istituiscono e disciplinano singolarmente le persone giuridiche pubbliche; dall’altro
riflette implicitamente una situazione ben conosciuta dagli esperti per cui non esiste un’unica e uniforme
disciplina delle persone giuridiche pubbliche, ma tante specifiche discipline quanti sono i tipi di enti pubblici
o addirittura i singoli enti pubblici previsti e disciplinati dalle leggi istitutive. Dunque, se lo stato italiano è
persona giuridica pubblica, le regole che lo disciplinano in quanto persona giuridica pubblica si ricavano
dall’insieme delle leggi che disciplinano lo stato italiano, e non dal c.c. o da un’inesistente legge generale

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Riassunto di Gaia Paoloni
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sulle persone giuridiche pubbliche. D’altra parte, è opinione unanime che le norme sulle persone giuridiche
private contenute nel c.c. sono applicabili anche alle persone giuridiche pubbliche se e in quanto sono
compatibili con le specifiche regole che disciplinano singolarmente queste seconde. Dunque, anche lo stato
italiano persona giuridica pubblica segue la disciplina delle persone giuridiche private in tutti i casi in cui
non esiste incompatibilità con specifiche norme relative allo stato. Abbiamo concluso che lo stato è una
persona giuridica pubblica e non privata, e cioè regolata essenzialmente da specifiche norme di diritto
pubblico e solo eventualmente dalle regole di diritto privato proprie delle persone giuridiche private. Però,
come dietro le persone giuridiche private vi è una realtà sociale unitaria e organizzata, così, prima di
chiedersi qual è la disciplina normativa che regola lo stato in quanto persona giuridica, è necessario chiedersi
qual è la realtà sociale personificata nello e con lo stato. Lo stato non è ovviamente una Fondazione perché si
dà gli scopi da perseguire e non ha uno scopo predeterminato da altri. Lo stato visto come una corporazione
era l’opinione dominante in passato. Corporazione vuol dire ente composto da molte persone fisiche
associate. I membri della corporazione stato non sarebbero i dipendenti dello Stato perché non sono costoro
che hanno creato lo stato, ma è l’esistenza di questo che offre ad essi la possibilità di un impiego stabile e
retribuito. I membri della corporazione stato dovrebbero essere tutti i cittadini, ma questo significa ritenere
che lo stato è l’insieme dei cittadini, cioè che lo stato è la comunità stanziata su un territorio organizzata
intorno ad un potere sovrano (quindi non si distingue tra l’apparato statale e il popolo governato); e quindi
questo contrasta con quanto sostenuto in precedenza e cioè che lo stato è solo ed esclusivamente l’apparato
monopolizzatore della forza. Dunque, se lo stato è persona giuridica, lo è in un senso e in un modo
completamente diverso da quello riassunto nella definizione di Stato come corporazione pubblica. Un altro
importante ente pubblico che è considerato persona giuridica è il comune. Escluso senza dubbio che il
comune-persona giuridica sia assimilabile ad una Fondazione, escluso che esso sia una corporazione degli
impiegati del comune, se si vuole applicare al comune la figura della corporazione non resta che definire il
comune come la corporazione dei cittadini iscritti all’anagrafe comunale. Il comune, in questo modo, viene
ricostruito come l’unità organica di quella collettività di base residente nel territorio comunale. Storicamente
alle origini i comuni erano corporazioni, ma lo erano perché, a differenza di oggi, il comune comprendeva
quella parte di residenti che volontariamente si univano in comune. Dunque, quest’ultimo non era un ente
necessario che ricomprendeva obbligatoriamente tutti i residenti, ma era un ente volontario che comprendeva
una parte dei residenti. Quindi il comune delle origini rientra nella categoria della corporazione perché era un
ente collettivo che risultava dalla concorde volontà di una pluralità di persone le quali, tutte insieme,
formavano il comune, cioè davano vita ad una forma di organizzazione; mentre il Comune di oggi ci si
presenta come un ente necessario, perché tutti i cittadini italiani devono far parte di un comune, e, secondo la
legge, di quel comune nel cui territorio risiedono abitualmente. Oggi il cittadino sceglie di risiedere in un
luogo piuttosto che in un altro per ragioni di lavoro, di affetti, etc. e l’appartenenza a quel determinato
comune piuttosto che ad un altro costituisce la conseguenza necessaria di quella scelta. Cioè il comune non è
un organismo comunitario al quale si desidera appartenere, ma come lo stato, è un ente burocratico col quale
la gran massa di cittadini ha rapporti di scambio giuridico come un qualsiasi soggetto esterno distinto da lui.
Il comune è il palazzo comunale, l’anagrafe, l’ufficio tributi, i vigili urbani, il sindaco, la giunta e il consiglio
comunale, gli impiegati comunali; non è la comunità alla quale ciascuno sente di appartenere come
condizione vitale della propria esistenza. Un ente collettivo che è sicuramente una corporazione è la società
per azioni. Quest’ultima si presenta come un organismo sociale complesso nel quale è opportuno distinguere
tre livelli: a) l’insieme dei soci, proprietari delle azioni; b) i dirigenti della società, che possono essere soci,
ma possono anche non esserlo; c) i dipendenti della società: la massa di lavoratori che rendono possibile
l’attività economica per cui è nata la società per azioni. Dal punto di vista giuridico fanno parte della società
per azioni, e cioè compongono la corporazione società per azioni, solo ed esclusivamente i soci. Tutti gli altri
non fanno parte della persona giuridica società per azioni. Nel rapporto capitalistico la forza lavoro conta
solo come spesa di capitale, come oggetto, mentre il potere di comando spetta totalmente al proprietario del
capitale. La persona giuridica società per azioni rappresenta unitariamente il capitale; i lavoratori e i dirigenti
non sono elemento costitutivo della persona giuridica, ma elemento esterno con cui la persona giuridica (il
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capitale personificato) intrattiene rapporti interprivati. È grande la tentazione di ricostruire lo stato borghese
sulla falsariga di una società per azioni. Gli azionisti dello Stato sarebbero i borghesi; i dirigenti dello Stato
sarebbero i membri dell’apparato burocratico; i dipendenti, la grande massa del popolo. Così lo stato sarebbe
una persona giuridica corporazione dei borghesi e non di tutti i cittadini. Questa ricostruzione è falsa perché
lo stato non è mai stato la corporazione dei borghesi, anche se lo stato corrisponde agli interessi fondamentali
della borghesia, ma ciò accade perché lo stato deve corrispondere alle leggi fondamentali del modo di
produzione capitalistico per necessità storicamente oggettiva in quanto tale modo è il fondamento materiale
di tutta la società per un intero periodo storico; e inoltre lo stato può corrispondere al modo di produzione
capitalistico solo se separato dalla società e quindi anche dalla borghesia come classe particolare, e si
presenta come il portatore dell’interesse generale dell’intera società fondata sul modo di produzione
capitalistico. Dunque, lo stato non può essere considerato tecnicamente una corporazione in nessun senso, né
come corporazione dei cittadini, né come corporazione dei funzionari dello Stato, e neppure come
corporazione della classe borghese o di qualsiasi altra classe. In conclusione, se lo stato è una persona
giuridica: a) esso è una persona giuridica di diritto pubblico, disciplinata dalle specifiche regole proprie dello
Stato, e solo secondariamente dalle regole generali sulle persone giuridiche private; b) esso non è né una
associazione né una corporazione, ma un apparato personificato; c) l’attribuzione della personalità giuridica
allo stato vuol dire che vi sono almeno alcuni casi in cui lo stato nel mondo dei rapporti giuridici si presenta
come un soggetto rigorosamente unitario distinto da tutti gli altri, e su questa base istituisce rapporti giuridici
tra sé, in quanto unità, e gli altri. Se non vi fossero almeno alcuni casi in cui lo stato si presenta come unità
nel mondo dei rapporti giuridici, non avrebbe senso definire lo stato un soggetto giuridico. Però poiché lo
stato è un’organizzazione molto complessa, nulla ci assicura pregiudizialmente che lo stato si comporti nel
mondo dei rapporti giuridici come unità, e cioè come soggetto giuridico. Solo l’analisi concreta può
dimostrare che lo stato agisce sempre come soggetto giuridico o viceversa in alcuni casi come soggetto
giuridico e in altri casi come insieme coordinato di distinti soggetti giuridici. I casi rispetto ai quali lo stato si
presenta come un soggetto giuridico distinto da tutti gli altri soggetti giuridici esterni ad esso sono: la
proprietà dello Stato; il bilancio dello Stato; la responsabilità giuridica dello Stato.

3) La proprietà, il bilancio e la responsabilità giuridica dello Stato: lo stato possiede beni materiali come
un qualsiasi proprietario. Questi mezzi vengono usati da quelle specifiche parti dell’apparato a cui servono:
es. gli edifici scolastici e le relative attrezzature dal ministero della pubblica istruzione, etc. Queste unità
amministrative minori non sono proprietari dei beni che usano, ma sono solo beneficiarie perché il
proprietario unico è lo stato. Questa affermazione viene verificata dall’insieme delle norme che disciplinano i
beni che le stesse leggi definiscono statali. Tali norme tengono fermo il punto per cui il proprietario è lo stato
unitariamente inteso, e quindi i beni statali non possono essere amministrati a discrezione degli apparati
amministrativi minori a cui sono stati materialmente assegnati, ma solo secondo le leggi generali dello Stato
che prescrivono chi, come, quando può disporre dei beni di tutto lo stato. L’ordinamento italiano distingue
tre tipi di beni dello Stato: i beni demaniali, quelli patrimoniali indisponibili e quelli patrimoniali disponibili.
Rispetto alla proprietà e ai beni, lo stato si comporta realmente come un soggetto unitario. Lo stato ha
bisogno di molto denaro per svolgere i suoi compiti, nei paesi più sviluppati lo stato assorbe dal 30 al 50%
del prodotto nazionale lordo e solo una parte infima deriva dalla proprietà dello Stato e dalle vendite dei suoi
prodotti. Lo stato eroga servizi in genere senza prezzo (perché è impossibile ad es. vendere il servizio difesa
militare). Di qui la necessità per lo stato di estorcere ai cittadini il denaro che gli è necessario. Una regola
fondamentale dell’ordinamento italiano è quella per cui tutte le entrate dello Stato, a qualsiasi titolo e da
chiunque riscosse, confluiscono in un unico conto generale. Tutte le amministrazioni statali devono
obbligatoriamente versare le somme percepite in un unico conto generale dello Stato, amministrato dal
ministero competente (e dalla Banca d’Italia che funge da cassiere), per conto dello Stato tutto intero. La
destinazione delle somme da spendere a vantaggio delle diverse parti dell’apparato viene decisa
contestualmente con un unico atto centralizzato: il bilancio dello Stato, presentato per ciascun anno dal
governo e approvato con la legge dal Parlamento. Il bilancio dello Stato è unico e unitario. Rispetto dunque

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al denaro che circola per suo tramite e alle spese che esso compie lo stato italiano agisce come un soggetto
tendenzialmente unico. In questa sede ci interessano le questioni relative ad una specifica forma di
responsabilità, quella giuridica, cioè quella prevista e disciplinata da norme giuridiche. L’espressione
responsabilità giuridica ha tre significati, l’uno connesso all’altro. Vista astrattamente come qualità dei
soggetti giuridici, significa attitudine a rispondere per fatti imputabili secondo le norme, e cioè attitudine a
subire le conseguenze sfavorevoli riconnesse dal diritto a carico di un soggetto indicato come responsabile a
seguito del verificarsi di determinati fatti. In linea di principio la responsabilità segue normalmente la
capacità giuridica, e solo in casi eccezionali e tassativi può esservi sfasatura tra le due (si può essere
giuridicamente incapaci e ugualmente responsabili). Responsabilità giuridica significa anche attitudine a
subire specifiche sanzioni riconnesse a specifici comportamenti o fatti entro un rapporto giuridico
determinato. In questo caso, a differenza che nel primo, si presuppone che il soggetto giuridico si sia
impegnato in un determinato rapporto (es. abbia stipulato un contratto di compravendita): egli non è più
responsabile in astratto e in generale, ma specificamente in relazione a quel determinato rapporto giuridico
concretamente esistente; nello stesso tempo si presuppone, come nel primo caso, che tale specifica
responsabilità sia pur sempre una responsabilità potenziale: la soggezione ad una possibile sanzione se
accadranno determinati fatti (se ad es. il compratore non pagherà il prezzo dovuto). In un terzo significato
responsabilità giuridica vuol dire attuale soggezione al potere sanzionatorio di altri: si presuppone che il fatto
che genera responsabilità sia avvenuto, e che il soggetto responsabile sia tale non più in potenza ma in atto;
esistono tutte le condizioni perché tale soggetto possa o debba essere colpito dalle sanzioni corrispondenti
alla sua responsabilità, secondo che tale irrogazione è rimessa alla volontà di un altro (nella responsabilità
civile l’inadempiente risponde solo se il danneggiato chiede il risarcimento del danno) o deve comunque
essere irrogata (nel caso della responsabilità penale il colpevole deve essere punito). Anche se colui che è
responsabile perché ha effettivamente compiuto un illecito è passibile di una sanzione, non è detto che tale
sanzione gli verrà irrogata effettivamente, o perché mancano le prove, o perché il giudice sbaglia, o perché
esiste inerzia in coloro che dovrebbero punirlo, etc. La responsabilità giuridica, in tutti e tre i significati,
designa sempre una possibile conseguenza; ciò che cambia è il grado di tale possibilità: nel primo caso è una
possibilità del tutto astratta; nel secondo è una possibilità relativa ad un determinato rapporto, ma prima che
si sia verificato il fatto per cui si diventa responsabili; nel terzo è una possibilità attuale, perché esistono tutte
le condizioni per essere fatti responsabili, per subire le conseguenze relative al fatto, ormai verificatosi, per
cui si è responsabili. Si è responsabili finché esiste la possibilità che si risponda; se si è risposto, cioè si è
subita la sanzione, per questo non si è più responsabili per quel determinato fatto accaduto. La responsabilità
giuridica si articola in categorie più specifiche e la summa divisio è tra responsabilità civile e responsabilità
penale. Alcuni fatti sono reati, e altri illeciti civili perché così ha deciso il legislatore in base a solide
motivazioni sociali e politiche; alcune sanzioni sono pene, e altre sono sanzioni civili di nuovo perché così le
ha considerate il legislatore. Normalmente nella responsabilità civile la colpa non è l’elemento determinante,
ma spesso la responsabilità civile prescinde anche dalla colpa. Nella responsabilità civile, di regola, il fatto
che genera responsabilità è l’emergere di un danno (può essere emergente: danno per il diminuito valore
della cosa in sé; o lucro cessante: danno per il mancato utilizzo di questa stessa cosa) patrimoniale. Per
questa ragione, di regola, lo scopo esclusivo o principale della responsabilità civile è ripristinare la situazione
preesistente al fatto dannoso e risarcire il danno subito da un soggetto. Di regola la responsabilità civile
dipende dalla volontà del danneggiato. Nel diritto penale l’oggetto principale della regola non è mai il danno
patrimoniale prodotto, ma il comportamento come tale, che si vuole comunque impedire. Per questa ragione:
a) la responsabilità penale è personale: subisce la pena proprio e solo colui che con il suo comportamento ha
commesso il reato. Ci sono pochissimi casi in cui questo principio della personalità della responsabilità
penale viene attenuato fino a scomparire. Tale il caso del reo che risponde non del reato da lui voluto ma per
quello più grave commesso dal suo complice (art. 116 c.p.). b) Poiché nel diritto penale di regola l’elemento
centrale è il comportamento, diventa determinante accertare lo stato psichico del presunto reo, e sapere se ha
voluto consapevolmente l’evento delittuoso (dolo) o se l’evento si è prodotto senza consapevole volontà di
esso, ma attraverso pur sempre un comportamento volontario non conforme alle normali regole della
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prudenza (colpa). Ci sono reati solo dolosi (per i quali si risponde solo se il fatto delittuoso è stato
consapevolmente voluto); ci sono comportamenti puniti in modo profondamente diverso secondo che siano
dolosi o colposi (l’omicidio volontario è punito in modo più severo di quello colposo); in ogni caso i delitti
(specie più grave dei reati, distinti dalle semplici contravvenzioni, che sono egualmente reati, ma considerati
meno gravi nel nostro sistema penale) non sono punibili se non esiste nemmeno colpa. c) La sanzione penale
non è proporzionale al danno economico, che può mancare, ma viene determinata dal legislatore in base a
criteri extraeconomici. Dato il fine di prevenire e impedire il comportamento illecito essa consiste perlopiù
nella privazione della libertà personale, considerata socialmente la sanzione più dura possibile (sanzione oggi
esclusa rispetto alla responsabilità civile, anche se un tempo esisteva anche la prigione per debiti). d) Di
regola la responsabilità penale non dipende dalla volontà libera del danneggiato. L’azione penale è
obbligatoria, salvi quei pochi casi in cui è subordinata ad una richiesta di qualcuno (ad es. nel caso dei reati
perseguibili solo su querela di parte). La distinzione tra le due responsabilità comporta diversità dei giudici,
diversità delle procedure di accertamento (diritto processuale civile e diritto processuale penale), diversità
della procedura di irrogazione delle sanzioni, etc. La stessa responsabilità civile si divide a sua volta in due
sottospecie: la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale o aquiliana. La prima deriva da un
comportamento contrario alle norme entro un rapporto contrattuale (responsabilità di un contraente verso gli
altri contraenti); la seconda da un fatto dannoso imputabile al di fuori di un rapporto contrattuale. Esiste poi
la responsabilità disciplinare, che comprende al suo interno responsabilità di diverse sottospecie, tra cui
quella più importante ai nostri fini è la responsabilità dei dipendenti pubblici. La responsabilità disciplinare
presuppone: a) che un soggetto debba seguire determinati criteri di condotta nello svolgimento di specifici
compiti in collaborazione con altre persone; b) che questa attività cooperante si svolga sotto la direzione di
altri; c) che questi dirigenti abbiano dei poteri, chiamati disciplinari, adeguati rispetto al fine di ristabilire la
normalità di funzionamento dell’insieme cooperante, ed abbiano il potere di infliggere sanzioni a quei
sottoposti che non si adeguano alle regole di funzionamento e di vita dell’insieme (sanzioni che non possono
consistere nella privazione della libertà personale perché in Italia solo i giudici possono infliggere un tale
tipo di sanzione). Così ad es. nella pubblica amministrazione l’impiegato che viola i suoi doveri di ufficio,
secondo la gravità della violazione, può essere censurato, sospeso, destituito. Un medesimo comportamento
può dar luogo a più responsabilità contemporaneamente e così possono anche stare l’una senza l’altra.
Dunque in che senso e in che misura lo stato è responsabile giuridicamente? Due responsabilità che non si
applicano allo stato sono: quella penale, perché la responsabilità penale è personale e dunque non compete a
soggetti collettivi, riguarda solo le persone fisiche; quella disciplinare, sia per la ragione ora detta, perché
anche la responsabilità disciplinare riguarda di necessità persone fisiche, sia perché lo stato sovrano non può
incorrere in responsabilità disciplinare, non essendo subordinato a nessuno. Non resta che la responsabilità
civile. È ovvio che l’apparato statale, nello svolgere i suoi compiti, stipula contratti privati e può provocare,
con i suoi comportamenti, danni ingiusti: cioè può incorrere in responsabilità contrattuale o extracontrattuale.
Se effettivamente un qualunque soggetto che agisce nell’ambito delle sue competenze in nome e per conto
dello Stato viola le regole di un contratto di cui lo stato è parte o con la sua attività provoca un danno
ingiusto, il soggetto che è giuridicamente responsabile è lo stato nel suo insieme con tutto il suo patrimonio
(art. 28 Cost.). Dunque, il danneggiato può rivalersi su tutto il patrimonio dello Stato. Però in Italia, mentre è
relativamente facile ottenere l’esecuzione forzata su un bene privato, è più difficile ottenere questa stessa
esecuzione su un bene dello stato. In conclusione, la regola vigente nell’ordinamento italiano è che, in tutti i
casi in cui l’apparato statale commette un illecito civile, contrattuale o extracontrattuale, risponde tutto lo
stato nel suo insieme col suo patrimonio. Anche rispetto alla responsabilità giuridica lo stato si comporta
come un soggetto unico e unitario.

4) Gli organi dello Stato: rispetto a: proprietà, entrate e spese, responsabilità giuridica, lo stato si comporta
come un soggetto unico e unitario, e quindi in questi tre casi è equiparabile ad una persona giuridica; fermo
restando che lo stato non è né Fondazione né corporazione (i tre casi esaminati sono stati scelti a fini
esemplificativi, ma non sono gli unici nei quali lo stato italiano si comporta come soggetto giuridico). Viene

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

chiamato organo della persona giuridica quel soggetto autorizzato ad agire in nome e per conto di essa, e
sono organi dello Stato quei soggetti che agiscono in nome e per conto dello Stato. La parola organo fu
mutuata dai giuristi dell’Ottocento dalla biologia: come l’organismo vivente è un tutto connesso e articolato
di diverse parti (gli organi), ciascuna con una propria funzione specifica e necessaria a tutte le altre, e tutte in
reciproca relazione e mutuamente condizionate; epperò come l’organismo non è la somma delle diverse parti
ma è un tutto organico, un’unità irriducibile e indivisibile pena la sua morte, cosicché il tutto precede le parti;
così, si diceva, lo stato è un organismo sociale in tutto analogo a quello biologico, composto sì da diverse
parti connesse e mutuamente dipendenti (gli organi statali), ma superiore alle sue parti e non divisibile nella
realtà se non nell’analisi dell’intelletto. Gli organi erano gli strumenti pratici di questo soggetto complesso
che aveva una sua volontà e una sua vita specifica in quanto organismo totale. Però oggi questa parola
organo non ha più alcun legame con l’organismo biologico e lo stato, pur avendo organi, non è in nessun
senso un organismo comparabile a quelli naturali. Normalmente ciascuna persona provvede da sé ai propri
affari e quindi agisce direttamente e in prima persona per tutelare i propri interessi e raggiungere i propri
scopi, usando gli innumerevoli strumenti offerti dall’ordinamento giuridico. Però può accadere che o non
possa (per assoluta e oggettiva impossibilità o per divieto di legge) o non voglia. In tali casi, al posto della
persona che non può (es. minore) o non vuole agire giuridicamente, agisce un’altra persona, designata dal
giudice o direttamente dalla legge (rappresentanza necessaria) perché imposta dal diritto: caso del minore
rappresentato dai genitori esercenti la potestà genitoriale; o scelto dallo stesso interessato (rappresentanza
volontaria). In questi casi chi agisce giuridicamente è il rappresentante, però gli effetti di questa attività si
producono direttamente nella sfera giuridica dell’interessato. Nella rappresentanza, sia volontaria che
necessaria, ci sono sempre due soggetti distinti: il rappresentante e il rappresentato. Ne consegue: a) che
possono instaurarsi rapporti giuridici anche tra i due; b) che a certi fini e in certi casi bisogna prendere in
considerazione la persona del rappresentante (es. quando ci si chiede se il contratto da lui stipulato in nome e
per conto del rappresentato è viziato o no a causa di un errore), in altri casi bisogna prendere in
considerazione la persona del rappresentato (es. quando il rappresentato ricorre al giudice proprio contro il
suo rappresentante). Le persone giuridiche non sono persone fisiche, ed esistono solo giuridicamente, come
soggetti impersonali costruiti dall’ordinamento per rispondere ad esigenze pratiche-sociali. Esse, quindi, per
definizione non possono volere: c’è bisogno che determinate persone fisiche vogliano per esse. Ci sono poi
alcune persone che rappresentano necessariamente la persona giuridica e quindi agiscono in sua vece
producendo effetti giuridici a carico di essa. In tal modo però: a) si produce la conseguenza paradossale per
cui la persona giuridica diventa un soggetto privo di capacità di agire, cioè si contraddice la ragione pratico-
sociale che ha condotto alla creazione di questa figura organizzativa, che era quella di accrescere l’efficacia
giuridica e le possibilità operative dell’attività umana (e non di creare nuovi soggetti incapaci di agire, come
i minori); b) mentre è fisicamente vero che nella rappresentanza vi sono due persone distinte, e quindi è vero
che vi sono due soggetti giuridici diversi, nel caso della persona giuridica, dietro coloro che agiscono in
nome e per conto di essa non c’è un altro soggetto la cui volontà può eventualmente opporsi-scontrarsi con
quella dei primi: la persona giuridica in quanto soggetto unitario esiste attraverso i suoi organi; se li
eliminiamo non ci resta più nulla della persona giuridica (resterà un insieme di persone e di cose, ma non un
ente unitario). La costruzione persona giuridica è possibile, esiste ed agisce in quanto la personificazione di
un insieme di persone o di un patrimonio, o di un apparato si esprime concretamente in figure organizzative
capaci di agire (es. gli amministratori). Dunque, il diritto conformandosi ad esigenze pratiche-sociali, disegna
in astratto uno schema stabilendo che cosa questa figura può fare o non fare, etc. Questa figura organizzativa
viene via via riempita dall’attività umana di qualcuno e ciò che rileva di questo qualcuno è quella parte della
sua attività che corrisponde allo schema astratto e quindi riempie di contenuto concreto la figura astratta. In
questo modo esiste la persona giuridica. Se noi eliminiamo questi schemi di comportamento, queste figure
costruite dal diritto, non esiste più neppure la persona giuridica. Nel rapporto organico entra solo ed
esclusivamente quella parte di attività che, conformemente alla previsione astratta voluta dal diritto, fa agire
concretamente la persona giuridica. Possiamo considerare l’organo sotto due aspetti collegati e però distinti:
come prefigurazione astratta di una figura organizzativa che ha determinate competenze, deve seguire certe
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

procedure, produce determinate conseguenze; o come attività concreta conforme a questo schema astratto. Si
tratta di due significati della parola organo, e di due possibili rappresentazioni distinte, la prima come
potenza, la seconda come atto; nello stesso tempo l’una definizione rinvia necessariamente all’altra e la
implica (né la concreta attività dell’organo può esistere se non esiste la previa configurazione astratta, né la
previa configurazione astratta esiste socialmente se non si incarna nella concreta attività conforme di concreti
uomini). Dunque, gli organi non sono le concrete persone fisiche come tali, nella loro interezza, ma le
persone fisiche nella parte in cui impersonano la persona giuridica, e cioè agiscono conformemente allo
schema astratto; ne consegue che la persona giuridica è l’insieme dei suoi organi e, fuori di essi, non esiste
(la persona giuridica è gli organi nel loro insieme). Dunque, a questa realtà è inapplicabile la figura della
rappresentanza perché non esistono un rappresentante e una rappresentato, ma gli organi sono
immediatamente la persona giuridica. Nel rapporto organico l’organo esprime immediatamente e
direttamente la persona giuridica, è lo strumento della sua capacità di agire, mentre nel rapporto di
rappresentanza il rappresentante si sostituisce ad un altro soggetto e lo esprime mediante e indirettamente.
Non può esistere un solo organo perché se ve ne fosse uno solo, esso sarebbe immediatamente la persona
giuridica e non vi sarebbe ragione di duplicare tale realtà e di dare due nomi diversi alla stessa cosa. Inoltre,
la persona giuridica è l’insieme degli organi, non esiste al di fuori di essi in quanto persona; ma proprio per
questo non si identifica con nessuno di essi singolarmente e non si esaurisce con nessuno di essi (nel suo
complesso la persona giuridica esiste solo attraverso l’insieme dei suoi organi). Altra conseguenza è che non
può esistere un rapporto tra l’organo e la persona giuridica come tale, ma solo con altri organi.

5) In che senso lo Stato non sempre è soggetto unitario: è necessario che gli organi abbiano rapporti tra di
loro. Essi esprimono immediatamente la persona giuridica verso l’esterno, ma solo pro parte, e, poiché
ciascuno ne esprime una parte, per raggiungere una costanza di azione debbono potersi collegare e
coordinare. L’organo, nato per esprimere immediatamente, per fare esistere, sia pure pro parte, la persona
giuridica, in certi casi ed a certi fini può rendersi autonomo rispetto alla persona giuridica, cioè all’insieme
degli organi, ed acquistare una sua soggettività indipendente e separata. Dunque, l’organo si rende autonomo
dalla persona giuridica ed ha rapporti propri e indipendenti non con altri organi, ma con altri soggetti
dell’ordinamento generale distinti dalla persona giuridica, così che l’organo diventa esso stesso un soggetto
tra gli altri entro l’ordinamento generale accanto e in modo indipendente rispetto alla persona giuridica di cui
è organo. Avviene cioè una scissione tra persona giuridica e un suo organo. Una volta costituito, l’organo ha
una sua esistenza distinta dagli altri organi. È possibile dunque che esso, il quale all’origine esiste solo in
funzione della persona giuridica di cui è organo, abbia e persegua interessi suoi e soltanto suoi; è possibile
che, anziché agire in nome e nell’interesse dell’intera persona giuridica, agisca nel suo interesse particolare.
Questa vicenda può accadere contro il diritto e allora si assiste ad una disintegrazione della persona giuridica,
che non è più un insieme coerente e unitario di parti, ma si scinde in sezione autonome e separate. La
polemica ricorrente sui corpi separati accenna a questa possibilità, quando in parte si verifica che alcune parti
dello Stato si rendano autonome dall’insieme e perseguano fini e interessi contrastanti con i fini e gli
interessi perseguiti dall’insieme. Questo autonomizzarsi può essere voluto dallo stesso diritto: in questo caso
l’organo si scinde in modo legittimo in due parti ideali e giuridiche (ideali perché l’organo resta unico;
giuridiche perché è il diritto che tiene separate queste due parti ideali): per un verso resta organo della
persona giuridica e continua quindi ad esprimere immediatamente interesse e volontà di questa, come parte
di un insieme unitario; per un altro persegue i suoi interessi particolari ed ha quindi rapporti giuridici
puramente suoi, che non diventano interessi e rapporti dell’insieme. Le Università degli Studi rappresentano
un esempio di questa vicenda. Queste sono persone giuridiche, distinte e separate dallo stato: hanno un
proprio patrimonio, un proprio bilancio, una propria responsabilità giuridica. Se la persona giuridica
università commette un illecito chi risponde è essa direttamente col suo patrimonio. Gli organi dello Stato, in
quanto organi, non hanno un proprio patrimonio, un proprio bilancio, una propria responsabilità giuridica,
ma sono dello Stato nel suo insieme. L’università degli studi, persone giuridiche, rilasciano le laure, titoli di
studio con valore legale per lo stato e valide in tutto il territorio dello Stato: per questo aspetto le università

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

sono organi dello Stato. Quando l’autorità universitaria incaricata proclama qualcuno “dottore in”, è lo stato
che conferisce questo titolo. Però proprio perché le università rilasciano titoli di studio statali, e cioè sono per
questo aspetto organi dello Stato, lo stato interviene molto incisivamente entro questi soggetti (i professori
sono soggetti alle leggi dello Stato sull’impiego pubblico). Gli organi della persona giuridica università
hanno limitati e secondari poteri di controllo sul personale docente, e quasi sempre per incarico dello Stato
che si riserva il controllo definitivo. Tutte le questioni più rilevanti relative agli studi sono decise dallo stato
o dalle università sotto controllo dello Stato. Lo stesso bilancio dell’università è per buona parte costituito da
contributi dello Stato, il quale destina sul proprio bilancio fondi all’università per il loro funzionamento.
Tutta la vita dell’ente università è sottoposta ad un controllo sistematico, continua, penetrante da parte dello
Stato. Sotto questo secondo aspetto le università sono organi dello Stato, e come tali vengono governate
giuridicamente. Lo stesso ente Università degli Studi a certi fini e in certi casi è una persona giuridica e
segue le regole proprie delle persone giuridiche, in altri casi e a fini diversi è un organo dello Stato e segue le
regole applicabili agli organi. Vi sono dunque degli organi persone giuridiche. In questo caso l’autonomia
giuridica è massima, perché giunge fino a configurare l’organo, in certi casi, come persona giuridica. Vi sono
altri casi in cui tale autonomia è minore, ma tale da rendere un’articolazione dello Stato relativamente
autonoma e indipendente. Le aziende e amministrazioni autonome dello Stato, che spesso vendono servizi
come li venderebbero dei privati, che agiscono sul mercato e per questo usano prevalentemente strumenti
privatistici, che hanno bisogno di procedure di decisione più rapide e snelle di quelle generalmente adottate
dallo stato, sono soggette a regole di funzionamento che in più punti derogano a quelle a cui sono soggette
tutte le altre articolazioni dello Stato. Così hanno in generale un’autonomia negoziale, hanno un’autonomia
contabile, un’autonomia di bilancio, un’autonomia patrimoniale per cui beni ad essi assegnati vengono
amministrati con una certa autonomia direttamente dall’azienda autonoma in deroga alle regole generali. In
nessun caso però tale autonomia giunge sino al punto da configurare l’azienda autonoma come una vera e
propria persona giuridica. La figura delle aziende e amministrazioni autonome oggi è recessiva, però il
legislatore ha introdotto e sta espandendo nuove figure soggettive che per un verso sono parte dello Stato e
per altro verso godono di ampia autonomia e si differenziano dagli organi dello Stato: le agenzie e le autorità
amministrative indipendenti.

6) Gli enti pubblici: vi sono casi nei quali un soggetto pubblico non è in nessun senso organo e dal punto di
vista del patrimonio, del bilancio, della responsabilità, del personale, è una persona giuridica del tutto
autonoma; però l’attività dell’ente, appunto perché pubblico, è strettamente collegata a quella dello Stato e
ampiamente controllata da esso. Tali sono gli enti di previdenza e assistenza (INPS, etc.). Tali su altro piano
erano gli enti pubblici economici: ENEL, etc., oggi quasi tutti trasformati in società per azioni (dal 1992) o
privatizzati o estinti. Questi enti hanno un loro patrimonio del tutto distinto da quello dello Stato, un loro
bilancio, sono e si comportano nel mondo dei rapporti giuridici esterni come persone giuridiche del tutto
separate e distinte dallo stato. Lo stato però interviene al loro interno in modi spesso penetranti: così a volte
nomina e revoca i dirigenti di tali enti; può controllarne alcuni atti; etc. Per le persone giuridiche di diritto
privato esiste una normativa uniforme generale, quella del codice civile; mentre le persone giuridiche di
diritto pubblico hanno una disciplina differenziata da ente ad ente in base a quanto ritiene opportuno il
legislatore. Vi sono casi in cui il legislatore disciplina un tipo di ente, così che la disciplina del tipo si applica
a tutti i concreti enti pubblici che rientrano in quel tipo (es. la disciplina dei comuni); altri casi in cui il
legislatore disciplina con legge singolare proprio quel determinato ente (es. INPS). Ci sono casi in cui l’ente
pubblico, nei casi e con i modi previsti dalla legge istitutiva del tipo di ente, nasce per decisione dell’autorità
pubblica o viene riconosciuto come ente pubblico dall’autorità pubblica competente, e casi in cui la stessa
legge direttamente istituisce l’ente pubblico. Poi ci sono enti pubblici dipendenti dallo stato ed enti pubblici
dipendenti dalle regioni, così che per i primi i poteri di vigilanza, direzioni, controllo etc. previsti dalle leggi
sono esercitati dallo stato, per i secondi dalle regioni. Altra distinzione è tra enti pubblici territoriali ed enti
pubblici funzionali, i primi sono enti pubblici polifunzionali, tendenzialmente a fini generali, che
individuano l’ambito dei loro compiti sulla base di un territorio che li individua, così che in linea di principio

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

sono competenti su tutto ciò che accade e su tutte le persone residenti in quel territorio. Gli enti pubblici
funzionali, polifunzionali o monofunzionali, sono enti incaricati di perseguire un compito determinato. Gli
enti pubblici territoriali sono enti rappresentativi (i loro organi dirigenti sono eletti direttamente o
indirettamente dalle popolazioni interessate), gli enti pubblici funzionali no. La realtà economico-sociale per
cui lo stato non agisce solo attraverso la sua diretta organizzazione, ma attraverso una moltitudine di altri
enti, ha trovato una traduzione anche istituzionale giuridica con le modifiche apportate al bilancio dello Stato
e al sistema della contabilità nazionale, con l’introduzione della nozione di amministrazioni pubbliche, per
cui, data l’elencazione delle amministrazioni pubbliche compiuta dall’Istat su incarico della legge, ne risulta
un bilancio consolidato nazionale di tutte le amministrazioni pubbliche seguendo le norme vigenti in materia
di contabilità dello Stato e delle amministrazioni pubbliche (legge 31 dicembre 2009 n. 196).

7) Conclusioni: dunque: 1) ci sono casi in cui lo stato si presenta ed agisce nel mondo giuridico come un
unico soggetto di diritto personalizzato: cioè come una persona giuridica in senso proprio e tecnico. 2) Ci
sono altri casi in cui lo stato appare ed agisce come un insieme coordinato di parti relativamente autonome
l’una dall’altra e talvolta l’una contro l’altra. Ciò accade: a) quando un organo ha rapporti con un altro
organo: in tali casi non ha senso dire che lo stato ha rapporti con sé stesso, perché la verità di fatto è proprio
che una parte dello Stato ha rapporti con una diversa parte dello Stato e dunque entro questo rapporto
entrambi le parti si comportano come soggetti autonomi e distinti. b) Lo stato non agisce più come un’unica
e unitaria persona giuridica nei casi in cui alcune sue parti, come ad esempio le aziende autonome o le
agenzie senza personalità giuridica, godono entro l’apparato statale e verso l’esterno di particolari autonomie
derogatorie rispetto alle regole generali vigenti per tutte le altre parti dello Stato, così che rispetto a tali
autonomie tali parti relativamente autonome dello Stato si comportano e vengono considerate dal diritto
come soggetti separati e distinti dallo stato nel suo insieme. c) Il fenomeno è più evidente quando un organo
dello Stato, a certi fini e in certi casi, è positivamente riconosciuto dall’ordinamento come persona giuridica
in senso tecnico, dando vita alla figura dell’organo persona giuridica o dell’agenzia con personalità giuridica.
3) Però lo stato non si limita ad agire attraverso i suoi diversi organi e le sue diverse parti in multiforme
rapporto le une con le altre. Lo stato, attraverso controlli, influenza e guida molti altri enti pubblici, i quali,
pur essendo riconosciuti come persone giuridiche, e quindi centri di imputazione giuridica del tutto
indipendenti e separati formalmente dallo stato, costituiscono in definitiva strumenti indiretti della volontà
statale. Nella società pluralistica, quale è quella dominante in Italia e in generale nell’occidente capitalistico,
sottovalutare o ignorare le differenze tra soggetti privati e soggetti pubblici, tra soggetti pubblici autonomi e
stato, preclude la possibilità di comprendere la specifica dinamica di tali ordinamenti. Bisogna mantenere tali
differenze perché tali differenze esistono e sono socialmente e giuridicamente operanti. Entro la generale
tendenza dello Stato a controllare tutti gli aspetti e i momenti della vita associata, vi sono diversi modi di
questo controllo, e l’attenzione deve essere concentrata su di essi perché è su tale differenza che si fonda il
concreto movimento giuridico. L’attuale società è fondata su questa distinzione basilare tra poteri pubblici da
un lato e privati dall’altro. Si distinguono i soggetti privati da quelli pubblici dal fatto che i primi agiscono
prevalentemente secondo la categoria del lecito e i secondi prevalentemente secondo la categoria del
legittimo. Entro i soggetti pubblici distinguiamo lo stato da tutti gli altri soggetti pubblici, ponendo come
criterio di distinzione il fatto per cui le diverse parti dello Stato sono sottoposte ad una possibilità di controllo
da parte dei vertici dello Stato permanente, sistematica e generale, così che in ogni momento nessun aspetto
della loro attività sfugge alla possibilità di controllo da parte dello Stato nel suo insieme; gli enti pubblici
diversi e distinti dello Stato sono soggetti viceversa a diverse forme di controllo, unificate dalla caratteristica
di essere sempre controlli puntuali, su alcuni predeterminanti aspetti specifici dell’attività e della
organizzazione dell’ente pubblico, cosicché, al di fuori di questi specifici momenti, l’ente mantiene la sua
autonomia e indipendenza. Dunque, lo stato non è sempre e non agisce sempre come unica e unitaria persona
giuridica, e già solo per questa ragione non è riconducibile alle figure di persone giuridiche del diritto
privato. Lo stato agisce come soggetto giuridico unitario solo a certi fini e in certi casi, ed invece si
scompone in altri casi e ad altri fini in parti relativamente autonome e indipendenti perché lo stato è un

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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

soggetto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, e dunque accoglie necessariamente al suo interno i
molti interessi presenti nella collettività, fino al punto che alcune sue parti sono specificamente destinate a
tutelare ciascuna interessi parziali confliggenti con altri, così che anche le parti dello Stato che tutelano tali
interessi sono inesorabilmente spinte a confliggere. Invece più un soggetto collettivo è semplice, tanto minori
sono le articolazioni interne di tale soggetto e minori le possibilità di relativa autonomia delle singole parti.
Tale è il caso delle persone giuridiche private, che di regola si presentano come un soggetto unico e unitario
perché non hanno internamente momenti confliggenti. Lo stato, e in generale gli enti pubblici rappresentativi
(regioni, etc.), devono invece articolarsi in molte parti, perché molti e differenziati sono gli interessi sociali a
cui debbono attendere, così che nasce la possibilità che tali diverse parti confliggano e si rendano
relativamente autonome. Riserviamo la parola organo a quei soggetti dello Stato, singoli o collettivi, che
hanno il potere di istituire rapporti giuridici con soggetti esterni allo stato. Tutti gli altri innumerevoli
soggetti che compongono la macchina dello Stato debbono necessariamente fare capo a questi, ciascuno
secondo lo specifico apparato in cui è inserito, e dunque costituiscono momento interno dell’organo e dello
Stato, senza rilevanza esterna.

CAPITOLO 6

L’ordinamento giuridico

1) Stato e diritto: lo stato usa la sua forza secondo regole. Queste regole, anche se sono poste dallo stesso
stato, non possono essere create, modificate e sostituite se non seguendo altre regole che prescrivono chi,
come e in quali casi ha il potere di imporre e mutare le regole: cioè lo stato appare esso stesso subordinato a
regole. Con questa constatazione entriamo nel tema del rapporto tra stato, apparato monopolizzatore della
forza, e diritto, complesso di regole di comportamento giuridicamente obbligatorie. Anzitutto bisogna
chiarire che cosa vuol dire regola di comportamento. Se io osservo due fenomeni distinti e, mediante lo
studio, giungo ad istituire una relazione tra i due, io posso dire che questa relazione è la legge che lega questi
due fenomeni. Questo schema riassume le leggi fisiche naturali, leggi cioè sulla cui base io comprendo il
legame tra i diversi fenomeni. Si tratta di descrizioni di fenomeni, non di prescrizioni: la legge mi spiega
come avvengono i fenomeni naturali, ma non è essa a determinarli. Dunque, le leggi naturali sono
indipendenti dalla volontà umana. Si usava la parola legge per i fenomeni naturali perché si riteneva che,
come i comportamenti umani sono guidati dalle leggi degli uomini, così la natura è guidata dalle leggi di
Dio. Il pensiero scientifico moderno, del tutto laico, usa la parola legge ormai per tradizione senza nessun
riferimento a qualsiasi volontà. Se il legislatore prescrive che il ladro venga punito, anche in questo caso
viene istituita una relazione tra due fenomeni: furto e punizione. Affinché il ladro venga punito è necessario
che un giudice lo condanni e che uno specifico apparato coercitivo esegua la condanna. Dunque, la volontà
del legislatore non si concreta se non esiste la collaborazione di altri soggetti. Se proviamo a riassumere in
uno schema logico questa vicenda dobbiamo scrivere “se X, allora è obbligatorio che Y”. In questo caso il
legislatore prescrive un comportamento, cioè esige che qualcun altro si comporti in una predeterminata
maniera. Il legislatore non descrive come andranno le cose, ma prescrive come dovranno andare se coloro a
cui la prescrizione si rivolge si conformeranno ad essa. Le prescrizioni presuppongono che l’uomo sia libero
anche se, spesso, la violazione delle prescrizioni comporta delle sanzioni. In conclusione, bisogna separare le
leggi fisico-naturali dalle regole di comportamento (volute dagli stessi uomini in società). Sul piano logico
questa distinzione si traduce nella distinzione tra proposizioni descrittive e proposizioni prescrittive. Le
prime sono o vere o false; le seconde non sono né vere né false perché esse, in quanto prescrizioni, si
rivolgono ad un comportamento futuro di uomini che dipende dalla loro volontà. Approfondiamo il discorso
rispetto alle regole di comportamento. Noi possiamo costruire un’indagine di tipo naturale oggettivo che
abbia per contenuto il mondo delle prescrizioni. Anzitutto possiamo descrivere quante e quali prescrizioni
sono state formulate e obbedite: cioè indagare come si è effettivamente comportata la società sulla base delle
prescrizioni. In questo caso le prescrizioni diventano non più criteri per il comportamento, ma fatti accaduti,
per i quali ritorna ad avere vigore il principio che o sono veri o sono falsi. Proprio perché possiamo
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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

esaminare le prescrizioni come fatti oggettivi, possiamo chiederci se esse, anziché essere il frutto di una
volontà assolutamente libera ed arbitraria, non siano invece il frutto di una volontà perlomeno condizionata
storicamente; di una volontà che, date le condizioni storicamente esistenti, non poteva volere diversamente
da come ha voluto. Così è impensabile che il codice Napoleone potesse nascere prima della rivoluzione
francese. Non possiamo però sostenere che le prescrizioni sono semplicemente il prodotto delle condizioni
storico-sociali e dunque fatti non volontari, ma necessitati come quelli naturali, perché la distinzione prima
fatta tra descrizioni e prescrizioni sarebbe del tutto apparente (nella realtà gli uomini si illudono di essere
liberi, ma invece non possono agire diversamente da come agiscono); e quindi ogni distinzione tra leggi
fisiche naturali e regole di comportamento non avrebbe più senso. Le prescrizioni restano distinte dalle
descrizioni perché, per quanto spiegabili solo in rapporto alle esistenti condizioni storico sociali, esse sono
volta a volta pretese rivolte a conservare l’ordine esistente (contro cui si manifesta la volontà diretta al
mutamento) e reciprocamente tentativo di modificare l’ordine esistente (contro il quale si scontra la volontà
di conservazione). Questi movimenti contraddittori sono anch’essi il frutto della storia passata, ma sono nello
stesso tempo movimenti reali dal cui urto discende un mutamento. Per quanto le prescrizioni debbano essere
esse stesse oggetto di indagini scientifiche come fatti puramente oggettivi, si tratta di una oggettività storico
sociale e non naturale, e dunque esse restano distinte dalle descrizioni, perché entro il contesto dato
costituiscono l’espressione di forze sociali che tendono o si oppongono a determinati risultati, e dunque
prescrivono, esigono che il comportamento degli uomini sia conforme alle loro intenzioni.

2) Regole (di comportamento) sociali e regole (di comportamento) giuridiche: tutte le prescrizioni
osservabili in una società storicamente data sono per ciò stesso regole giuridiche? Illustriamo quattro esempi
di regole di comportamento. Regole del mangiare e del vestire: spontaneamente la maggioranza delle
persone appartenenti a quella classe sociale, in quella regione, in quel periodo, mangiano e vestono in quel
modo regolare e prevedibile che può essere fatto oggetto di studio statistico e sociologico. Queste regole
vengono rispettate con la convinzione che è opportuno fare così, che questo è il modo giusto di mangiare e
vestire. Nello stesso tempo la regola è priva di qualsiasi aspetto obbligatorio: se qualcuno vuole mangiare e
vestire diversamente da tutti gli altri, mai verrà visto come violazione di una regola obbligatoria, e quindi
come fatto riprovevole da condannare. Immaginiamo ora un altro caso. Nel costume i vincoli familiari,
specialmente nelle comunità a base contadina, sono sentiti fortemente, fino al punto che essi sono fonte di
obblighi sociali molto al di là di quello che prescrivono le leggi dello Stato. Così per es. non sposare la donna
messa incinta viene giudicato da molti contrario ad un obbligo vincolante. Colui che si è reso colpevole di
tale violazione, verrà criticato dalla cerchia degli amici e dei conoscenti che ad es. potrebbero non salutarlo
più. Queste conseguenze vengono sentite come sanzioni, sia da chi le riceve sia da chi le provoca. Però: a)
non esiste nessun apparato specifico che abbia il compito di accertare esattamente se violazione dell’obbligo
c’è stata o meno, se vi sono circostanze attenuanti, etc.; b) le sanzioni non sono predeterminate, possono
verificarsi come non verificarsi, essere di un tipo o di un altro (purché non vadano contro le leggi dello
Stato), essere applicate da alcuni e non da altri, etc. Dunque, in questo caso la regola è sentita come
socialmente obbligatoria, però tutto ciò che la riguarda resta affidato alla reazione spontanea degli interessati.
Ipotizziamo un terzo caso. Il membro di una comunità religiosa infrange una regola dell’ordine cui
appartiene. Un apposito organo permanente accerta questa infrazione ed infligge una punizione al colpevole.
Poiché, secondo il diritto dello Stato italiano, il condannato conserva la libertà di celebrare la messa,
immaginiamo che egli contravvenga al divieto, e celebri la messa, magari in una casa privata. Il tribunale
ecclesiastico può adottare un ulteriore sanzione, e ad es. espellere dall’ordine il ribelle. Però rispetto alla
prima regola violata, il tribunale non possiede alcuno strumento pratico per impedire che il condannato
celebri ugualmente la messa. La caratteristica di questo tipo di regola sta nel fatto che: a) da un lato la regola
non solo viene posta e sentita dagli interessati come obbligatoria, ma, a differenza del tipo precedente, esiste
anche uno specifico apparato destinato ad accertare la violazione di essa e ad infliggere la sanzione
conseguente. La regola cioè non viene affidata alla reazione spontanea e non organizzata della comunità che
la vive, ma è assistita da una specifica e particolare organizzazione destinata a farla rispettare. b) Però

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

dall’altro lato quest’apparato non dispone della forza né può invocare la forza di un altro soggetto per
imporre coattivamente l’esecuzione della sua decisione. Il sacerdote spesso, nello stato italiano, può
celebrare ugualmente la messa. Arriviamo all’ultimo tipo di regola. Tutte le regole che lo stato impone
coattivamente e fa eseguire mediante la forza, di cui esso ha il monopolio, presentano una caratteristica che
gli altri tipi non hanno: non solo esiste un apparato imponente per imporre il rispetto della regola o la
sanzione conseguente alla sua violazione, ma questo apparato dispone e usa della forza fisica, se è
necessario, così che nei limiti dell’umanamente possibile esso raggiunge comunque il risultato prefisso.
Dunque, per rispondere al problema che ci siamo posti e cioè qual è la differenza tra le regole giuridiche e le
regole sociali non giuridiche possiamo dire che è facile escludere dal diritto le regole del primo tipo. Se ad
esse manca il carattere della obbligatorietà, manca il minimo indispensabile per chiamare un fenomeno
diritto. Anche le regole del secondo tipo non sono giuridiche perché manca ad esse il carattere della
istituzionalità, cioè della certezza del loro esatto tenore (manca un giudice che ufficialmente lo dichiari),
della costanza della loro applicazione, della univocità e prevedibilità delle sanzioni. Le regole del quarto tipo
sono regole giuridiche. Ogni volta che si parla di diritto e di norme giuridiche, si pensa immediatamente alle
regole coercite mediante la forza (esperienza giuridica per eccellenza). Il dubbio verte sulle regole del terzo
tipo. Esse si presentano uguali a quelle del quarto tipo salvo un aspetto: non sono assistite dalla forza
materiale. Un’opinione molto autorevole e oggi dominante in Italia ritiene che le regole giuridiche sono
caratterizzate dal fatto che esse sono assistite da uno specifico apparato diretto alla loro garanzia, anche se
esso non usa la forza. Ci saranno dunque regole giuridiche coercite mediante la forza e regole giuridiche non
coercite con la forza: le une e le altre però egualmente regole giuridiche. La questione, così esposta, sembra
quasi una questione convenzionale per cui qualcuno preferisce definire le regole giuridiche in un certo modo
e altri in uno diverso. La verità è che si tratta di una questione relativa a realtà storico sociali e al modo di
intenderle e ricostruirle. Dietro la questione della definizione delle regole giuridiche si nasconde la questione
del ruolo della forza materiale nella società umana. Affermare che le regole giuridiche non sono
caratterizzate dall’uso della forza significa ritenere questo un fatto secondario e irrilevante. Secondo questa
ricostruzione la forza è un momento del diritto accidentale, che può esserci come non esserci.
Conseguentemente questa opinione suggerisce che la società umana non è caratterizzata dall’uso della forza.
La violenza non è essenziale. Chi invece fa dell’uso della forza il carattere essenziale del diritto, proprio per
questo caratterizza anche l’attuale società umana come società dominata dalla forza. La forza, in base a
questa ricostruzione, è l’elemento essenziale e caratterizzante del diritto, come della società attuale. Chi
pensa di superare la brutalità della violenza sociale solo perché la forza scompare nella definizione del
diritto, o della società, o dello Stato, è un idealista, perché pensa che gli aspetti negativi della realtà possano
essere superati nel pensiero. Chi viceversa mette brutalmente al centro dell’attenzione la forza come
elemento caratterizzante del diritto, come della società, come dello Stato, per questo solo, tenendo fermo
questo elemento, lo mette al centro della realtà e ne fa un problema. Coloro che sottolineano la centralità
della forza sono coloro che intendono superare nella realtà la forza, e cioè eliminarla effettivamente dalla
società, e che proprio per questo devono riconoscerla nella realtà di oggi. L’esaltazione della forza è propria
di tutti quei pensatori, di quelle correnti politiche e sociali, che riconoscono l’impossibilità di conciliare gli
antagonismi sociali, dichiarano l’impossibilità di eliminarli e dunque esaltano la forza come l’unico
strumento per tenere unita la società. La svalutazione della forza è propria di tutti quei pensatori, e di tutte
quelle correnti politiche sociali, che sostengono la possibilità di conciliare gli antagonismi sociali, così che la
forza non è il cemento principale della società, ma solo un momento ausiliario. Per questa ragione il
riconoscimento della forza come elemento principale della società torna ad essere caratteristica dei
rivoluzionari, perché anche essi muovono necessariamente dal presupposto che gli antagonismi sociali non
sono conciliabili, però, a differenza dei reazionari, essi ritengono possibile eliminare gli antagonismi sociali
attraverso un radicale rivoluzionamento della società. Reazionari e rivoluzionari sembrano convergere sulla
centralità della forza come elemento caratterizzante della società, però poi divergono radicalmente, perché i
reazionari esaltano la forza come elemento permanente, i rivoluzionari intendono contrapporre forza a forza,
violenza sociale a violenza sociale, per eliminare definitamente la violenza sociale dalla società. È chiaro ora
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

quale problema storico politico si nasconde dietro le dispute dei giuristi sulla definizione del diritto. Nella
realtà si tratta di dispute politiche, di prese di posizione, di scelte di campo.

3) Regole giuridiche e regole indirettamente (o tendenzialmente o quasi) giuridiche: esistono regole


coercite mediante la forza e regole non coercite con la forza però simili alle prime in tutto il rimanente.
Riesponiamo le caratteristiche delle regole proprie di ordinamenti che non dispongono della forza. Queste
regole sono sanzionate e dunque: a) non sono affidate alla spontaneità, ma precisamente individuate; b)
comportano conseguenze già prefigurate in astratto; c) hanno al loro servizio apparati che accertano la loro
violazione e impongono la relativa sanzione; d) tendono a raggiungere il medesimo risultato di quelle
incontestabilmente giuridiche, e cioè l’obbedienza media. Queste notazioni sembrano confermare la tesi
secondo cui esiste diritto anche quando non c’è coercizione. Una dimostrazione più approfondita dimostra il
contrario. Questi ordinamenti indipendenti e autonomi rispetto allo stato, i quali non dispongono della forza,
sono tutti ordinamenti volontari agli occhi dello Stato: si impongono se e nella misura in cui alcuni soggetti
si subordinano ad essi volontariamente (es. i membri della chiesa possono in ogni momento uscire da questo
ordinamento). Il singolo come tale ha la scelta tra l’uscire dall’ordinamento dato, e però non soddisfare il
proprio bisogno (es. religioso), o restare nell’ordinamento dato, soddisfare in tal modo il proprio bisogno, e
però subordinarsi alle regole dell’ente. Dunque, la libertà di uscire da un ordinamento particolare si rovescia
molto spesso in sanzione. Essere cacciato da questo ordinamento, per il singolo, è quasi sempre una pena
gravissima (essere espulso da una chiesa significa non poter soddisfare il proprio bisogno religioso). In
conclusione, le sanzioni di questi ordinamenti non coercitivi vengono spontaneamente e volontariamente
subite, e dunque funzionano come sanzioni finché i condannati si assoggettano alla pena; se invece si
ribellano, allora la pena realmente efficace è l’espulsione dal gruppo. Questa sanzione però si fonda sulla
forza dello Stato. Se il fedele sospeso dai sacramenti pretende di entrare ugualmente in chiesa, può esserne
cacciato con la forza dello Stato. In conclusione, questi ordinamenti non coercitivi, però ugualmente effettivi,
in realtà si affidano tutti alla forza dello Stato: le loro regole sono in tutto simili a quelle statuali e funzionano
praticamente come queste perché hanno alle loro spalle la forza dello Stato. Tutto ciò non toglie che le regole
di questi ordinamenti vigono non perché imposte con la forza, ma perché accettate dai membri del gruppo;
però questo è vero in generale di tutte le regole. Se le regole dello Stato venissero obbedite solo perché
coercite, lo stato non esisterebbe. Mediamente le regole vengono obbedite spontaneamente, e solo così è
possibile allo stato concentrare la sua forza sulle minoranze devianti. Se lo stato dovesse continuamente
imporre con la forza a tutti il rispetto delle proprie regole, la forza non basterebbe mai. Negli ordinamenti
non coercitivi la sanzione massima da temere è l’espulsione dal gruppo, negli ordinamenti coercitivi è la
privazione della libertà o dei beni. Però un ordinamento non coercitivo può essere molto più solido di uno
coercitivo perché solo in casi estremi esso si affida alla forza e dunque è segno che normalmente le sue
regole vengono obbedite spontaneamente. Ricorrere alla forza d’altra parte è un segno di debolezza per il
gruppo in quanto gruppo, perché permette ad un ente esterno, lo stato, di interferire in esso. Inoltre, mentre
l’ordinamento non coercitivo non può impedire una scissione e cioè è debole di fronte alla minoranza, lo
stato all’inverso non solo riesce normalmente ad impedire le scissioni di minoranze, ma riesce spesso a
resistere anche alla stragrande maggioranza della popolazione perché dispone del monopolio della forza. Gli
apparati di ordinamenti non coercitivi, nel momento in cui si scontrano con il rifiuto di obbedienza alle loro
regole, hanno a disposizione come arma l’aiuto che lo stato presta loro indirettamente: l’espulsione dal
gruppo. Tanto è vero che: a) quanto più un ordinamento è complesso e duraturo nel tempo, quanto più è un
momento istituzionale della società, e quindi un fattore di controllo e di organizzazione della società, tanto
più cerca di fare inserire direttamente alcune sue regole principali entro le regole dello Stato, e di garantire
queste sue regole mediante la forza in modo diretto e non indiretto; b) questi ordinamenti sono privi della
forza solo perché lo stato l’ha monopolizzata, ma essi tendono spontaneamente all’uso della forza. Infatti, la
chiesa cattolica proclama di possedere ancora la forza armata, però si rende conto che lo stato ha
monopolizzato la forza e che non può oggi rovesciare questo monopolio; quindi in linea di principio essa non
rinuncia alla forza, ma si riserva sempre la possibilità di riassumerla, se e quando sarà necessario. In

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conclusione: a) esistono gruppi sociali organizzati i quali vivono secondo regole imposte da essi stessi (sono
enti originari e volontari); b) tutti questi gruppi presuppongono lo stato: presuppongono l’esistenza di una
società generale organizzata e governata da un ente monopolizzatore della forza che garantisce anche la
libertà di tali ordinamenti e quindi la possibilità che essi riescano ad ottenere un’obbedienza media alle
proprie regole da parte dei propri membri; c) questa possibilità si riassume e culmina nella libertà di ciascun
ordinamento di non ammettere o espellere da sé le persone indisciplinate, libertà che lo stato garantisce
mediante la forza armata; d) tra tutti questi gruppi sociali organizzati ne emergono alcuni che per complessità
dell’apparato organizzativo, stabilità del tempo, si comportano in modo quasi analogo allo stato: sono
istituzioni portanti della società organizzata a stato; e) per questa ragione lo stato spesso presta la propria
forza a molte delle regole poste da tali ordinamenti-istituzionali sociali, e quindi le coercisce come le regole
statali (numerose regole poste a tutela della religione della chiesa cattolica). Questi ordinamenti dunque, sia
pure spesso indirettamente, usano anch’essi la forza e, in questo senso, le loro regole sono giuridiche in
modo esattamente uguale a quelle dello Stato; f) in ogni caso tali ordinamenti sono privi della forza
essenzialmente perché lo stato l’ha monopolizzata; g) di tali ordinamenti noi possiamo dire che sono
giuridici, se vogliamo sottolineare un loro carattere potenziale che solo il monopolio della forza da parte
dello Stato reprime; e dire che sono quasi giuridici, o tendenzialmente giuridici, se vogliamo sottolineare
che, a causa del monopolio della forza da parte dello Stato, presentano in fatto una giuridicità meno piena,
una giuridicità attenuata.

4) L’ordinamento giuridico – le regole per risolvere le contraddizioni entro l’ordinamento: alla


questione che riguarda l’individuazione del carattere essenziale delle regole giuridiche, è connessa l’altra
questione che va sotto il nome di teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. La parola ordinamento si
riferisce all’insieme sistematico in cui le varie parti stanno in precise relazioni le une con le altre. Ciò che da
unità e completezza all’ordinamento giuridico italiano sono due momenti: 1) il fatto che è prestabilito quali
sono i soggetti abilitati a introdurre nuove regole giuridiche entro l’ordinamento dato, in quali forme e modi,
con quali limiti: l’ordinamento contiene al suo interno le regole che presiedono al suo sviluppo e al suo
mutamento. Esso è un sistema ordinato di regole nel senso che fanno parte di esso solo quelle regole emanate
dai soggetti autorizzati, nei modi e nelle forme prescritte, entro i limiti precostituiti. 2) L’ordinamento è tale,
e cioè un sistema ordinato, per un secondo aspetto: contiene al suo interno le regole che permettono di
eliminare le contraddizioni (antinomie). Il primo filtro serve a selezionare le regole che possono entrare dalle
regole che non possono entrare. Il secondo seleziona le regole che possono essere applicate da quelle che in
concreto non possono essere applicate perché la loro contemporanea applicazione provocherebbe una
contraddizione. Immaginiamo che il Parlamento emani una legge in tutto conforme a costituzione;
immaginiamo che questo stesso Parlamento approvi successivamente una seconda legge ugualmente
conforme a costituzione, la quale disponga il contrario della prima. È evidente che non è possibile applicarle
entrambe nello stesso tempo perché incompatibili. Un’antichissima regola, oggi fatta propria in modo
espresso dall’ordinamento italiano, dice che la legge posteriore abroga la legge anteriore (art. 15 disp. prel.
c.c.). Questo criterio, per scegliere tra due leggi entrambe immesse nell’ordinamento in modo valido, è il
criterio cronologico: ciò che viene dopo scaccia quello che viene prima. L’effetto prodotto dall’applicazione
di questo criterio si chiama abrogazione. L’abrogazione in generale è quell’effetto giuridico per cui una
regola giuridica valida elimina definitivamente dall’ordinamento una precedente regola giuridica valida.
L’art. 15 disp. prel. c.c. vuol dire che questo effetto chiamato abrogazione si produce in tre casi: se la regola
successiva espressamente indica la regola precedente da espungere; se la regola successiva è incompatibile
con una precedente regola che quindi va espunta; se il confronto non viene fatto tra singola regola e singola
regola, ma tra complessi organici di regole vertenti sul medesimo oggetto, per cui il complesso successivo
elimina in toto il precedente, senza necessità di esaminare se singole regole precedenti sono o non sono
incompatibili con regole successive. Il primo caso prende il nome di abrogazione espressa e si ha quando la
regola abrogata è esattamente individuata dalla regola abrogante. Il secondo caso prende il nome di
abrogazione tacita e si ha quando una tacita regola nega quello che ne prescrive un’altra: se la prima dice A,

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Riassunto di Gaia Paoloni
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la seconda dice non-A. Però questo caso così semplice e facilmente riconoscibile è raro. Il caso più frequente
è un altro. Per capirlo bisogna introdurre la nozione di deroga, in quanto effetto distinto da quello
dell’abrogazione. La deroga si ha quando una nuova norma pone, ma solo per specifici casi, una disciplina
diversa da quella prevista dalla norma precedente, la quale continua ad essere applicabile a tutti gli altri casi.
Dunque, se la norma derogante cessa di esistere, automaticamente si riespande la norma derogata; mentre
l’abrogazione è effetto definitivo, cioè la regola abrogata cessa definitivamente di esistere. A questo punto
nasce un problema. Posto che il legislatore approva una legge la quale disciplina diversamente un oggetto
che rientrava per prima in una legge più generale, come si fa a capire se il legislatore intendeva mantenere in
vita la precedente legge generale diminuita dell’oggetto ora assegnato ad una legge speciale, o se il
legislatore intendeva abrogare la precedente legge generale sostituendola con una nuova legge che disciplina
un ambito minore? O anche, posto che legislatore emani una legge generale, come si fa a capire se le
precedenti leggi, divenute ora speciali rispetto a questa seconda, restano in vigore come leggi speciali, o sono
state abrogate perché il legislatore non intendeva fare eccezioni? È in casi come questi che il legislatore
lascia margini discrezionali all’interprete e ai giudici. Considerazioni analoghe valgono per l’abrogazione per
rinnovazione di materia. Come si fa a decidere quando c’è questa rinnovazione e quando no? Anche qui si
apre uno spazio di libertà per i giudici e per gli interpreti. Un esame dell’ordinamento italiano dimostra che
questo criterio cronologico non basta a risolvere tutte le possibili contraddizioni che si possono creare entro
l’ordinamento tra regola e regola di esso. Per es. il Parlamento approva una legge in tutto valida, e poi il
governo approva un regolamento esecutivo di tale legge, il quale in qualche parte pretende di dire il contrario
della legge. Dunque, i due atti collidono. Se si applicasse il criterio cronologico, si dovrebbe eseguire il
regolamento al posto della legge e questo sarebbe una violazione della costituzione e dell’ordinamento
italiano: il regolamento non può abrogare o contraddire una legge del Parlamento. Quindi in questo caso si
applica un’altra antica regola latina che dice: la legge superiore abroga la legge inferiore, indipendentemente
dal tempo dell’uno e dell’altra. Questo criterio si chiama gerarchico, cioè esso seleziona le regole sulla base
della forza reciproca: quando entrano in conflitto due atti di diversa forza, il superiore prevale sull’inferiore.
Si applica o il criterio gerarchico o il criterio cronologico. Il criterio gerarchico prevale su quello
cronologico: il secondo si può applicare solo quando non si può applicare il primo perché gli atti
incompatibili hanno la medesima forza reciproca, mentre il criterio gerarchico, prescindendo dal tempo,
scaccia il criterio cronologico e si applica al suo posto anche quando quest’ultimo si potrebbe applicare.
Esiste anche un terzo criterio quello della competenza. Per disposizione di un atto gerarchicamente superiore,
ad es. la costituzione, un determinato atto può occuparsi solo di determinati oggetti indicati dallo stesso atto
superiore; se quell’atto pretende di disciplinare oggetti sui quali non è competente, questo fatto è sufficiente
per causarne l’invalidità (es. oggi il nuovo art. 117 della costituzione elenca le materie nelle quali è
competente la legge statale: se una legge statale pretende di disciplinare una materia che non rientra
nell’elenco, essa è automaticamente incostituzionale). Dunque, nella gerarchia il rapporto è trilatero: un atto
superiore prevede che vi siano due atti normativi distinti che in astratto potrebbero occuparsi del medesimo
oggetto, ma stabilisce che se i contenuti di A e B sono incompatibili, A prevale su B. Nella competenza il
rapporto è bilatero: C ha stabilito che un certo atto può occuparsi solo di alcuni oggetti e nessun altro. La
differenza tra gerarchia e competenza diventa più evidente quando una competenza è accompagnata da una
riserva: C ha stabilito che l’atto E è competente solo rispetto all’oggetto x e nello stesso tempo che solo E è
competente su tale oggetto. In questo modo sussistono due limiti di competenza: uno rispetto ad E, il quale
non può occuparsi di oggetti diversi da quelli previsti da C; un secondo rispetto a tutti gli altri atti normativi
esistenti, i quali non possono occuparsi dell’oggetto riservato alla competenza di E. Nel caso in cui vi sia
limitazione della competenza, senza riserva, E è competente soltanto su un determinato oggetto, ma non è
detto che di quegli oggetti non possono occuparsene un altro atto normativo. Il criterio della competenza non
esclude quello cronologico se il confronto avviene tra due atti del medesimo tipo. Inoltre, il criterio della
competenza non esclude neppure quello gerarchico, entro certi limiti: il regolamento parlamentare è l’unico
competente a disciplinare certi oggetti, ma entro i limiti della costituzione. Dunque è subordinato alla
costituzione e perciò è subordinato anche alle leggi di revisione costituzionale e alle leggi costituzionali:
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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

quest’ultime possono dunque abrogare il regolamento parlamentare, mentre il regolamento parlamentare non
può abrogare o contraddire la costituzione e le leggi costituzionali. Quindi il regolamento parlamentare è
gerarchicamente inferiore alla costituzione, alle legge di revisione costituzionale e alle altre leggi
costituzionali. Rispetto al regolamento parlamentare i tre criteri si applicano parallelamente tutti e tre in
questo modo: il criterio gerarchico si applica ai rapporti tra questo atto ed alcuni individuali atti ad esso
superiori (costituzione e leggi costituzionali); il criterio della competenza si applica ai rapporti tra questo atto
e tutti gli altri atti dell’ordinamento; il criterio cronologico si applica ai rapporti interni al tipo di atto, e cioè
tra atto e atto dello stesso tipo. Dunque, il criterio della competenza rispetto a certi atti serve a risolvere
alcuni rapporti tra atti normativi che gli altri due criteri non possono risolvere. In conclusione, il criterio
cronologico elimina dall’ordinamento una norma fin qui valida e vigente. Il criterio gerarchico o espelle
dall’ordinamento una norma fin qui valida, o impedisce la valida immissione di una nuova norma. Il criterio
della competenza impedisce la valida immissione nell’ordinamento di nuove norme. Il criterio della
gerarchia possiede ambedue le qualità di espellere vecchie norme e impedire l’immissione di nuove norme; il
criterio cronologico possiede la prima qualità ma non la seconda; il criterio della competenza possiede la
seconda ma non la prima.

5) Criteri di individuazione delle fonti dell’ordinamento giuridico italiano: fonti del diritto o
dell’ordinamento sono quegli atti o fatti abilitati a porre norme giuridiche. Gli atti normativi sono
manifestazioni di volontà consapevolmente diretti a produrre norme (es. le leggi); fatti normativi sono
comportamenti sociali da cui l’ordinamento ricava norme senza che questo effetto sia consapevolmente
voluto da qualcuno (es. la consuetudine). L’ordinamento italiano non contiene un elenco tassativo delle sue
fonti. Il Codice civile, nell’art. 1 delle disp. prel., contiene un elenco puramente indicativo, in quanto vi sono
altre fonti oltre quelle elencate. L’articolo cita: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) le norme corporative; 4) gli
usi (oggi le norme corporative non esistono più perché erano proprie del regime fascista). Neanche la
costituzione contiene ed elenca tutte le fonti dell’ordinamento italiano. Quindi qual è il criterio per decidere
se un atto è fonte del diritto o no? Partiamo dalla distinzione tra regole generali e astratte e regole particolari
e concrete. È generale e astratta una regola formulata in modo ipotetico, generale e impersonale: si
applicherà in futuro tante volte e a tante persone quanti saranno gli imprevedibili casi concreti che
corrisponderanno alla previsione astratta (quante volte avverrà X, tante volte dovrà seguire Y). È particolare
e concreta la regola formulata in relazione a persone determinate rispetto a specifici fatti: una regola che o
non è ipotetica, ma attuale, o è ipotetica ma è riferita a soggetti specifici, già individuati (sia fatto Y perché è
avvenuto X, o se i soggetti A, B, C, si troveranno nella situazione X, allora deve seguire Y). Una sentenza,
un provvedimento amministrativo rispetto a determinate persone individuate o individuabili, un contratto,
sono tutti atti che contengono regole concrete: o ordinano incondizionatamente, o se ordinano
condizionatamente, lo fanno rispetto a specifiche persone già individuate. Esistono anche atti particolari ed
astratti ed atti generali e concreti. Secondo una tradizione millenaria solo alle regole generali e astratte è
riservato il nome di norme giuridiche in quanto normalmente le regole particolari e concrete sono
applicazione delle prime, e dunque per conoscere un ordinamento è sufficiente conoscere le regole generali e
astratte. Inoltre, queste sono più importanti di quelle concrete: durano nel tempo, riguardano tutti, o grandi
gruppi sociali, costituiscono il criterio di validità delle regole concrete. Per mutare l’ordinamento basta
cambiare le regole generali e astratte, e quelle concrete cambieranno in conformità; per garantire l’uniformità
dei giudizi basta mantenere costante l’interpretazione delle regole generali e astratte, disinteressandosi di
quelle concrete. Chiunque intende studiare un ordinamento deve concentrare l’attenzione su certe regole e
non su tutte, e dunque proprio per questo sceglie quelle generali e astratte; ancora più significativo è che lo
stesso ordinamento generale attribuisce pratica rilevanza alla distinzione tra norme giuridiche e regole non
costitutive del diritto oggettivo, e prescrive che le norme giuridiche ricevano un determinato trattamento, e
tutte le altre regole che non meritano questo titolo ne ricevano un altro. Quali sono queste specifiche
conseguenze che l’ordinamento italiano ricollega alla qualità di norme giuridiche? La prima è questa: nel
nostro ordinamento è previsto che un particolare organo giurisdizionale, la Corte di Cassazione, abbia come

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Riassunto di Gaia Paoloni
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compito principale quello di garantire l’uniformità dell’interpretazione delle norme giuridiche da parte dei
giudici: come rimedio contro le sentenze erronee è previsto il ricorso per violazione o falsa applicazione di
norme di diritto, col quale una parte interessata chiede alla Cassazione di cassare la sentenza perché contraria
alle norme giuridiche. Tale ricorso è ammissibile quando si pretende che il giudice abbia male interpretato
una norma, e non quando abbia male ricostruito un fatto. È necessario dunque distinguere tra norme e fatti.
Un contratto è un fatto, e un regolamento ministeriale, secondo i giudici italiani, è un atto normativo. Per il
diritto italiano ci sono atti normativi la cui violazione è conoscibile dalla Cassazione, e atti non normativi la
cui violazione non è conoscibile dalla Cassazione in sede di ricorso per violazione di diritto. La distinzione
tra norme giuridiche e il resto è giuridicamente rilevante e produce questa conseguenza. Ci sono altre
conseguenze in tema di interpretazione degli atti giuridici, rispetto a contratti da un lato e norme giuridiche
dall’altro, in quanto vigono principi opposti: il contratto va interpretato quanto più possibile secondo le
intenzioni soggettive dei contraenti; le norme giuridiche vanno interpretate oggettivamente, secondo il
significato sociale e generale che le parole usate hanno, anche quando tale significato non corrisponde
pienamente alle intenzioni del legislatore. Si usa bensì rifarsi agli atti parlamentari (le pubblicazioni ufficiali
di ciascuna camera con le quali esse danno conto dei propri lavori), ma il principio generale è che questi
possono servire utilmente a confermare un’interpretazione dubbia, non a far prevalere l’intenzione dei
parlamentari sull’oggettivo significato delle proposizioni dell’atto legislativo. Le ragioni di questa regola
sono tre: 1) le norme giuridiche durano nel tempo e dunque, se esse devono aderire ai tempi, ci deve essere
un margine di libertà nell’interpretazione capace di adeguarle ai mutamenti; 2) è impossibile dire qual è
l’intenzione del legislatore, perché il legislatore è un organo collegiale che non formula ufficialmente le sue
intenzioni; 3) una terza ragione sta nell’ideologia dominante per cui le leggi vengono ideologicamente
considerate come il prodotto della volontà di tutto il popolo, attraverso i suoi rappresentanti, e dunque esse
vigono non secondo l’interpretazione di questo o quel soggetto particolare, ma secondo un’interpretazione
comune e generale, oggettiva. I giudici sarebbero gli incaricati di questa comune e generale interpretazione.
Di qui la possibilità di un conflitto tra intenzione delle forze politiche che hanno approvato la legge e
interpretazione giudiziale. Una terza differenza di trattamento tra norme giuridiche e tutti gli altri atti
riguarda la disciplina dell’ignoranza: il principio generale vigente in tema di norme giuridiche è che
l’ignoranza della legge non costituisce esimente o si presume che nessuno ignori il diritto; mentre gli atti
giuridici che non sono produttori di diritto in generale non obbligano se non conosciuti. Il principio secondo
cui l’ignoranza della legge non scusa ammetteva ed ammette varie eccezioni; ad es. con la sentenza n. 364
del 1988 della Corte costituzionale, anche nel campo penale l’ignoranza della legge va ammessa quando
essa, per circostanze oggettive, era inevitabile. Però spetta a chi invoca la sua ignoranza come scusante
provare che non conosceva la legge e che questa sua non conoscenza era inevitabile. Un’altra differenza
significativa riguarda il principio “il giudice conosce il diritto”: il giudice deve applicare le norme giuridiche
indipendentemente dalla prova dell’esistenza di queste norme da parte delle parti e indipendentemente dalle
richieste di esse, mentre questo stesso giudice non può giudicare sui fatti se questi non vengono provati dalle
parti e non risultano ufficialmente dagli atti. Poiché nell’ordinamento italiano nessun atto obbligatorio
formula dei criteri di distinzione tra norme giuridiche e regole non costitutive del diritto oggettivo, non esiste
una pacifica concordanza di criteri. Ci sono regole concrete che vengono unanimemente considerate norme
giuridiche e trattate come tali (ad es. le regole concrete rivestite della forma della legge del Parlamento); ci
sono all’inverso regole generali e astratte, applicate dai giudici, che unanimemente non vengono considerate
norme giuridiche (ad es. poste da soggetti che non sono pubbliche autorità). Non esistendo alcun criterio
ufficiale di distinzione è inevitabile che: 1) ci sono atti considerati unanimemente normativi, i quali di regola
sono generali e astratti, ma restano normativi anche quando contengono regole concrete (legge, legge
regionale, regolamento, etc.); 2) ci sono atti che unanimemente sono considerati non normativi: tutti gli atti
al di fuori di quelli ricordati nel numero precedente quando contengono regole concrete (quasi tutte le
sentenze, quasi tutti i contratti, gli atti amministrativi che riguardano singoli individui); 3) ci sono alcuni atti i
quali, poiché sono generali e astratti, pure non rientrando tra quelli del numero 1, da alcuni sono considerati
atti normativi, da altri no: così si disputa ad es. dei bandi di concorso, dei contratti di lavoro, e simili. Le
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

ragioni più usate per negare loro natura di atti normativi sono queste: non provengono da autorità pubbliche,
non vengono pubblicati su fogli legali, sono atti preliminari rispetto ad atti concreti e quindi destinati a
cessare con essi, e simili; siccome però non mancano argomenti per sostenere il contrario, ne deriva una
grande incertezza anche tra i giudici, con la conseguenza che in un periodo un atto viene considerato
normativo, in quello successivo non normativo. Comunque, il danno è meno grave di quanto sembri: a)
perché gli atti della terza categoria sono una minoranza rispetto a quelli delle altre due; b) perché l’attribuire
o il negare la qualità di fonte del diritto ad un atto non cambia radicalmente le conseguenze giuridiche (le
cambia solo rispetto a quei pochi aspetti prima descritti). In conclusione, l’ordinamento giuridico è ordinato
perché determina da sé stesso le sue fonti: decide mediante sue regole o norme come si producono
validamente altre regole o norme. A) L’ordinamento giuridico, attraverso prescrizioni poste da soggetti
autorizzati che disciplinano il modo di produrre nuove regole, determina sempre quali atti o fatti sono
giuridicamente leciti, quali atti o fatti sono giuridicamente illeciti, restando inteso che tutti gli altri
innumerevoli atti o fatti sono giuridicamente indifferenti. B) All’interno degli atti o fatti riconosciuti
giuridicamente leciti, diventano automaticamente e di necessità atti o fatti produttori di regole tutti quegli atti
o fatti che pongono, col loro prodursi, regole di comportamento (ad es. i contratti). C) All’interno di questi
atti o fatti produttori di regole, l’ordinamento italiano individua quali atti o fatti sono sicuramente produttori
di norme giuridiche in senso proprio (regole di comportamento che ricevono un trattamento particolare per la
loro provenienza e la loro generalità e astrattezza), quali atti o fatti sicuramente non sono produttori di norme
giuridiche, e lascia che vi sia dubbio rispetto ad una minoranza di atti o fatti che ora vengono assegnati agli
atti normativi ora viceversa alla categoria degli atti non normativi a discrezione dei giudici e degli interpreti.
La regola generale è la regola del divieto di astenersi: obbliga i giudici a pronunciarsi sempre, e dunque fa
obbligo di dire sempre se un fatto è lecito, o illecito, o indifferente. In questo modo esiste una procedura che
impone sempre ai giudici di decidere se una regola entra o non entra a far parte dell’ordinamento. Attraverso
queste procedure si dimostra fondata la caratteristica degli ordinamenti giuridici per cui l’ordinamento
determina da sé stesso le sue fonti.

6) Alcuni tipi di regole giuridiche: le regole di comportamento sono la parte principale di tutto il diritto,
però non esauriscono l’insieme delle regole: vi sono regole strumentali per produrre, interpretare e applicare
le regole di comportamento. Tali regole sono ad es. quelle di organizzazione, quelle definitorie, quelle sulle
regole. Le regole di organizzazione prescrivono come devono essere organizzati uffici, enti, associazioni e in
generale organizzazioni: una volta che tali organizzazioni sono state costituite, le regole su di esse servono
per verificare la loro conformità alle prescrizioni, ma di per sé non disciplinano comportamenti, e semmai
descrivono le strutture delle organizzazioni e le relazioni tra le loro parti. Le regole definitorie classificano
persone e cose secondo certi criteri: ad es. le regole sulla cittadinanza sono definitorie perché servono ad
individuare i cittadini rispetto agli stranieri e agli apolidi, sono definitorie anche quelle che distinguono tra
beni mobili e immobili, etc. Queste regole non prescrivono comportamenti, ma attribuiscono etichette,
qualità, collocazioni, etc. a cose e persone, come presupposto di altre norme che a tali classificazioni
ricollegano effetti diversi. Le regole sulle regole hanno per oggetto immediato altre regole e prescrivono
come tali regole vanno trattate (es. le regole sulla interpretazione delle regole: art. 12 delle disp. prel. al c.c.).
È importante distinguere anche tra regole primarie e regole secondarie: le prime descrivono il
comportamento permesso o obbligatorio o vietato, le seconde, nel caso di violazione delle regole primarie,
prescrivono la sanzione da infliggere al responsabile della violazione (es. è regola primaria quella che vieta
l’inadempimento del contratto senza giusta causa, è regola secondaria quella che, nel caso di inadempimento,
prescrive la sanzione da infliggere al responsabile del comportamento illecito). Un altro aspetto importante
che riguarda le regole è il fatto che in genere per decidere un caso concreto bisogna combinare insieme molte
regole diverse. Per es. le norme di un regolamento vanno lette e applicate insieme a quelle della legge di cui
sono esecuzione; sono numerosissimi i casi in cui bisogna collegare norme diverse per poterle applicare alle
questioni che bisogna risolvere. Questi collegamenti sono di diverso tipo e variabili da caso a caso. È

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

importante ricordare che le norme giuridiche si applicano quasi sempre attraverso combinazioni,
collegamenti, comparazioni e intrecci tra molte norme applicabili al caso specifico che si intende risolvere.

7) Sulla pluralità degli ordinamenti: è evidente il legame che esiste tra la pluralità degli ordinamenti
giuridici e la problematica della società pluralistica. Come è divenuta dominante l’ideologia del pluralismo
sociale, per cui la società è composta di molti e differenti gruppi sociali; così tra i giuristi prevale oggi la tesi
secondo cui esistono molti ordinamenti giuridici, variamente differenziati e collegati tra loro. Lo stato,
secondo questa concezione, è solo l’ordinamento generale che li comprende tutti, ma non è l’unico
ordinamento giuridico. Può sembrare che questa questione non sia altro che la ripetizione sotto altro nome
della questione relativa alla differenza tra regole giuridiche e regole sociali non giuridiche. Come si
sosteneva che le regole giuridiche sono quelle assistite da un apparato coercitivo e che le altre regole, le quali
presentano tutte le caratteristiche delle regole giuridiche salvo la coercibilità, aspirano ad essere giuridiche
ma vi riescono solo indirettamente attraverso l’appoggio che riescono ad ottenere dallo stato, così sarebbe
facile concludere che sono ordinamenti giuridici gli ordinamenti coercitivi (l’ordinamento dello Stato e
quegli ordinamenti coercitivi creati o riconosciuti dallo stato), mentre gli altri ordinamenti, non coercitivi,
riescono ad esserlo indirettamente avvalendosi della forza dello Stato, dal momento che lo stato ha
monopolizzato la forza e dunque, se lo stato non esistesse, tenderebbero a restaurare l’uso della forza al
servizio delle proprie regole. Questa traduzione nasconde un’ambiguità. La parola ordinamento contiene due
significati: può essere intesa come insieme di regole che ordinano cose, o come insieme di cose ordinate
dalle regole. Nel primo caso, ordinamento è l’insieme delle regole, e le cose ordinate sono l’oggetto di esso,
ma ne stanno fuori; nel secondo significato, ordinamento sono le cose ordinate, e le regole ordinatrici sono
una parte idealmente distinguibile, ma nella realtà oggettiva organicamente fusa con le cose ordinate.
Quando si usa l’espressione ordinamento dello Stato si intende o l’insieme delle regole che l’ente stato
applica a se stesso e all’intera società e che crea direttamente o fa propria anche se create da altri (lo stato
crea le regole attraverso il Parlamento; fa proprie le regole create con legge regionale dalle regioni); o
l’insieme delle cose rese ordinate dallo stato con le sue regole, e poiché tali cose ordinate sono sia lo stesso
apparato dello Stato sia la stessa società retta a stato, nasce l’equivoco per cui ordinamento dello Stato =
società organizzata, o stato = società. Nel primo significato è chiaro che lo stato non è l’insieme delle regole
giuridiche ma l’ente che o crea o recepisce tali regole e le coercisce; nello stesso tempo l’ordinamento
giuridico non è la società, ma tali regole disciplinano una parte della vita associata. Stato, ordinamento
giuridico dello Stato, società sono tre realtà collegate ma distinte: lo stato è il soggetto regolatore; la società è
l’insieme regolato; l’ordinamento giuridico è l’insieme delle regole che connettono stato e società. Poiché il
modo del collegamento tra queste realtà è molto complesso, si spiega come possano nascere facilmente le
confusioni come nel secondo significato dell’espressione “ordinamento giuridico dello Stato”. Lo stato
mentre è il regolatore delle regole, sembra contemporaneamente il prodotto dell’ordinamento e dunque una
parte di questo, perché le regole dell’insieme chiamato ordinamento giuridico dello Stato disciplinano anche
esso. Lo stesso ragionamento può ripetersi per il rapporto società-ordinamento giuridico e società-stato. La
società dello Stato è regolata dallo stato, ma nello stesso tempo condiziona lo stato fino al punto che
attraverso i partiti lo dirige. La società, ricompresa nello stato, perché da esso disciplinata, a sua volta
ricomprende lo stato, perché lo stato diventa una parte dell’insieme sociale. L’ordinamento giuridico regola i
rapporti sociali, ma le regole senza rapporti sociali sarebbero vane e dunque l’ordinamento esiste in quanto
esistono le cose ordinate. Questo singolare modo di rapportarsi dei diversi momenti sociali si spiega se noi
consideriamo questi aspetti specifici come momenti di un processo circolare, per cui ciascuno implica e
richiama tutti gli altri. Però dire che stato = ordinamento giuridico = società, significa annullare proprio il
processo. Dove c’è immediata identità non è più possibile cogliere i passaggi di questo processo. La
tendenza ad identificare stato, ordinamento giuridico dello Stato e società organizzata a stato è spiegabile col
fatto che tra questi momenti della complessiva e vivente realtà sociale esiste un processo di interazione; ma
questa tendenza va respinta se si vuole comprendere la natura del processo. Dunque questo sviluppo di
ragionamento svolto rispetto alla società in generale, allo stato come ente dirigente generale di tale società e

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

all’ordinamento giuridico dello Stato, si può ripetere rispetto a molti altri enti particolari entro la società
generale. Se si esamina un qualsiasi ente collettivo significativamente numeroso, complesso, organizzato e
stabile nel tempo, si ritrovano i tre elementi prima esaminati, e cioè un corpo sociale collettivo (base), un
gruppo dirigente (vertice) e un elemento cementatore composto dalle regole che connettono base e vertice e
disciplinano sia i comportamenti della base, sia quelli del vertice, sia quelli tra base e vertice. Affermare che
la base è immediatamente uguale al vertice, che l’ente è immediatamente uguale al suo ordinamento, è
sbagliato; perché impedisce di costruire categorie specifiche adeguate a capire i possibili movimenti, anche
contraddittori, che si sviluppano entro ciascun ente collettivo, e tra essi e tutti gli altri. In conclusione: 1) lo
stato è per necessità un ente che usa la forza per tenere unite le diverse parti della società e dunque non può
mai identificarsi con l’intera società. Lo stato fascista è stato un tentativo forzoso in questa direzione, ma
proprio perché forzoso era autocontraddittorio: la sua riunificazione di Stato e società doveva avvenire
mediante la forza (tentativo fallimentare). Lo stato di tutto il popolo dell’URSS presentava caratteristiche
analoghe al tentativo fascista. Finché nell’URSS c’è stata una repressione feroce (soprattutto il periodo
staliniano dal 1930 al 1953), questo fatto denunciava la falsità della tesi dello “Stato di tutto il popolo” (era
tanto poco uno stato di tutto il popolo che aveva bisogno di una grande repressione). È vero che in certi paesi
e in certi periodi il consenso popolare verso i governanti è talmente alto che si realizza un’ampia
identificazione tra masse e stato, ma si tratta di un fenomeno limitato nello spazio e nel tempo. 2) Gli enti
collettivi volontari, a differenza dello Stato, raggiungono più facilmente questa unità tra le diverse parti, ma
non perpetuamente: l’unità è maggiore agli inizi, quando l’ente collettivo esprime un’entusiastica volontà
popolare, e diminuisce sempre di più mano a mano che l’ente si inserisce nello stato, cosicché le diverse parti
si differenziano e la base entra in conflitto col vertice. 3) Per queste ragioni, se è necessario distinguere con
chiarezza, rispetto allo stato, tra stato in quanto ente monopolizzatore della forza, ordinamento giuridico
dello Stato e società organizzata a stato, è opportuno operare questa medesima distinzione rispetto a tutti gli
enti collettivi. In conclusione, viene respinto il concetto di ordinamento giuridico come gruppo sociale
ordinato perché fonte di gravi travisamenti della realtà, e l’espressione ordinamento giuridico sarà usata solo
nel senso di complesso ordinato di regole.

8) Ordinamento giuridico dello Stato e altri ordinamenti: esaminiamo i problemi oggettivamente esistenti
che vengono compresi sotto la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. Questi problemi concernono
tre questioni distinte. La prima riguarda l’esistenza, la natura e i rapporti con lo stato di ordinamenti interni
allo stesso stato. La riflessione sulla realtà organizzata dello Stato ha mostrato che esistono apparati minori
con un’autonomia talmente incisiva da suggerire una loro ricostruzione in termini di ordinamenti giuridici
minori entro lo stato. Affinché questo tentativo abbia senso è necessario: a) che esista una pluralità di
soggetti unificati da un’unica organizzazione specifica; b) che questa specifica organizzazione abbia una sua
capacità normativa autonoma rispetto alla propria stessa organizzazione ed a tutti i membri che a vario titolo
la compongono; c) che questa normativa propria sia amministrata dalla stessa organizzazione interessata, la
quale deve possedere un suo specifico apparato di produzione delle regole, un apparato amministrativo sulla
base di tali regole, un apparato di controllo per garantire la conformità alle regole. L’ordinamento militare
sembra rispondere a questi requisiti. I militari sono i membri dell’organizzazione della forza armata; questa
organizzazione elabora quotidianamente per la sua vita, attraverso i suoi organi interni, una serie di regole in
piena autonomia dal resto dello Stato; questa stessa organizzazione ha una serie di meccanismi di controllo
interni che culminano nei tribunali militari. Questo ordinamento particolare è tale col consenso dello Stato: è
legittimo; esso è rigorosamente interno allo stato, dato che per ogni altro aspetto oltre quelli regolati da esso
stesso, rientra entro l’organizzazione dello Stato e le sue regole; esso usa direttamente la forza. Si tratta
dunque di un ordinamento particolare interno allo stesso apparato dello Stato. Gli ordinamenti interni allo
stato, tendono a creare rispetto a se stessi principi generali diversi rispetto a quelli dello Stato in generale;
così la gerarchia militare è diversa da quella dello Stato; il concetto di disciplina è diverso; etc. D’altra parte
questo ordinamento particolare è legato a quello generale perché coesiste con esso e quindi per una parte le
forze armate sono disciplinate dall’ordinamento loro specifico, per altra parte restano disciplinate

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

dall’ordinamento generale; le stesse regole dell’ordinamento particolare sono collegate a quelle statali perché
non possono violare norme costituzionali. Un’altra forma di organizzazione alla quale è stata applicata la
categoria dell’ordinamento giuridico è il credito. Quest’ultimo, prima della costituzione del sistema delle
banche centrali europee dirette dalla banca centrale europea, costituiva un sistema italiano fortemente
centralizzato e controllato con al vertice la Banca d’Italia, i suoi regolamenti e direttive, i suoi poteri di
controllo e vigilanza. Dopo la costituzione del sistema europeo diretto dalla banca centrale l’autonomia di
questo settore rispetto all’ordinamento della Repubblica italiana è aumentata, ed ancora di più l’insieme degli
organi di direzione e degli enti diretti si caratterizza come un ordinamento speciale. Anche in questo caso
ritroviamo un ordinamento particolare, con specifici organi normativi di controllo; un complesso di regole
che disciplinano l’attività delle diverse parti del complesso. Poi abbiamo l’ordinamento sezionale, il quale
unifica soggetti di diversa qualità e provenienza che al di fuori dell’attività che rientra nell’ordinamento
sezionale, restano disciplinati in modo anche diverso; così mescolati insieme troviamo organi dello Stato,
enti pubblici, persone giuridiche private. Dal punto di vista giuridico statale, come i soggetti componenti tale
sistema sono qualitativamente diversi, così le regole di tale ordinamento sezionale hanno diverse qualità:
alcune sono poste direttamente da leggi dello Stato, altre da autorità amministrative, altre da soggetti
giuridicamente privi di potere normativo; alcune si impongono o perché regole direttamente coercite o
perché la loro violazione ridonda in violazione di diverse regole, altre invece si impongono solo per forze di
autorità e sotto la minaccia di ritorsioni economiche. La ragione di applicare a questa realtà la categoria
dell’ordinamento giuridico consiste nel fatto che in tal modo vengono unificati per un settore specifico della
loro vita, soggetti e regole molto diversi e che continuano a restare diversi per altri aspetti. Questo tipo di
ordinamento non è rigorosamente interno allo stato, ma non è neppure separato e indipendente. Riflessioni
analoghe valgono rispetto all’ordinamento sportivo (CONI). Un terzo tipo di ordinamento è ad es.
rappresentato dalla chiesa: pluralità di persone fisiche organizzate unitariamente da un apparato centralizzato
mediante regole prodotte dalla stessa organizzazione. Rispetto a queste organizzazioni il punto essenziale è
che il loro ordinamento è del tutto separato dallo stato e dall’ordinamento giuridico dello Stato. Questo
ordinamento si costituisce per libera volontà degli interessati, si struttura liberamente, agisce secondo regole
liberamente create dallo stesso ente. Quali rapporti possibili si istituiscono tra l’ordinamento giuridico
generale dello Stato e tali ordinamenti particolari, esterni ad esso? Si sostiene che esistono tre possibili
rapporti tra ordinamento dello Stato e altri ordinamenti indipendenti dallo stato: di riconoscimento, di
indifferenza, di opposizione. Nel primo caso l’ordinamento giuridico dello Stato riconosce l’esistenza
dell’altro ordinamento a lui esterno ed entro certi limiti attribuisce efficacia e protezione alle sue norme (es.
il rapporto tra ordinamento dello Stato e ordinamento della chiesa); nel secondo caso l’ordinamento dello
Stato non ostacola l’altro ordinamento, ma neppure gli attribuisce alcuna efficacia o protezione in quanto
ordinamento (situazione di quasi tutte le associazioni private); nel terzo caso l’ordinamento dello Stato vieta
l’esistenza dell’altro ordinamento e mediante sanzioni cerca di distruggerlo (se la mafia è un ordinamento lo
stato la combatte). Ci sarà il primo o il secondo o il terzo comportamento secondo quanto deciderà
unilateralmente lo stato. Dunque, i rapporti tra ordinamento dello Stato e altri ordinamenti sono asimmetrici,
non paritari: l’ordinamento dello Stato può assumere tre diversi atteggiamenti verso gli altri ordinamenti
indipendenti da lui, e può o riconoscerli, o ignorarli senza combatterli o viceversa combatterli; gli altri
ordinamenti possono o riconoscere l’ordinamento dello Stato e quindi inserirsi in esso, o combatterlo, ma
non possono certo ignorarlo. Questa asimmetria conferma la sovranità dello Stato e la disuguaglianza tra
ordinamento dello Stato e ogni altro ordinamento al suo interno; spiega perché gli ordinamenti non statali,
siccome necessariamente ricompresi entro l’ordinamento dello Stato, non hanno alcuna possibilità di
raggiungere lo stesso grado di generalità dello Stato, e si occupano solo di limitate e circoscritte materie
chiedendo allo stato di dare riconoscimento o spazio libero a questa loro limitata e circoscritta normazione
autonoma. Questi ordinamenti particolari, se l’ordinamento generale stato contiene regole contrarie ai loro
interessi, faranno di tutto per modificarle in modo conforme alla propria volontà, ma intanto, a meno di porsi
nell’illegalità, dovranno rispettarle. Se è così, di fronte alla decisione dello Stato di non riconoscerli come
ordinamenti giuridici, delle due l’una: o accettano questo punto di vista statale e allora per ciò solo non
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Riassunto di Gaia Paoloni
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saranno ordinamenti giuridici, o si ribellano e allora entreranno in conflitto con l’ordinamento dello Stato;
mentre di fronte al riconoscimento dello Stato, essi saranno ordinamenti giuridici nella misura e nei limiti in
cui lo stato li riconoscerà come tali. Essere riconosciuti come ordinamenti giuridici è uno svantaggio:
significa che l’organizzazione non è più cementata dal consenso spontaneo, e ha bisogno della forza
coercitiva, così che, poiché solo lo stato possiede tale forza, l’organizzazione che pretende dallo stato di
essere riconosciuta come ordinamento giuridico chiede in realtà la protezione della forza dello Stato.
Pluralità degli ordinamenti giuridici vuol dire che entro l’ordinamento generale dello Stato ci sono alcuni enti
che chiedono allo stato di essere riconosciuti come ordinamenti giuridici e cioè di ricevere indirettamente
protezione dallo stato, pure restando quanto più possibile autonomi e indipendenti. Esiste dunque una
pluralità di ordinamenti giuridici quando entro l’ordinamento generale lo stato, esplicitamente o
implicitamente, riconosce come ordinamenti giuridici alcuni ordinamenti particolari autonomi rispetto ad
esso. Oggi in Italia le regioni e i comuni hanno anch’essi un proprio ordinamento, pienamente giuridico
perché riconosciuto tale dallo stato. Quando ci imbattiamo in organizzazioni che non hanno alcun interesse
ed alcuna volontà di invocare la potenza dello Stato per tutelare le proprie regole di vita come regole di
ordinamento specifico, ma usano le regole comuni dello Stato valide per tutti i soggetti, non ha senso parlare
di ordinamenti giuridici e ricomprendere queste organizzazioni entro la pluralità degli ordinamenti giuridici.

CAPITOLO 7

Le fonti dell’ordinamento giuridico italiano

1) Premessa: l’adesione della Repubblica italiana all’Unione europea comporta almeno due complicazioni
fondamentali in tema di fonti dell’ordinamento giuridico italiano: a) anche se dal punto di vista formale
l’adesione della Repubblica italiana all’Unione europea si fonda sulla costituzione italiana, ed in particolare
sull’art. 11, i trattati che disciplinano e modificano l’Unione, sono autorizzati a derogare alla stessa
costituzione, e sono autorizzati a derogare alla costituzione italiana anche i regolamenti comunitari; per
questa ragione molte volte le norme supreme in alcune materie non stanno nella nostra costituzione, ma nei
trattati o nei regolamenti comunitari; questa situazione, che si modifica continuamente rende incerta ogni
ricostruzione del sistema giuridico italiano, che dipende non solo dalle fonti italiane, ma anche da quelle
comunitarie; b) per ragioni sistematiche diventa necessario trattare insieme con le fonti italiane anche quelle
comunitarie, e i regolamenti dell’Unione europea che non sono fonti italiane.

2) Il costituzionalismo: la costituzione italiana si presenta come un testo normativo intitolato “costituzione


della Repubblica italiana”, composto da 139 articoli più XVIII disposizioni transitorie e finali approvato
dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947, promulgato dal capo provvisorio dello Stato il 27 dicembre
1947, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 298 del 27 dicembre 1947, ed entrato in vigore il 1° gennaio
1948. Esaminiamo alcune questioni preliminari relative a tutte le costituzioni: 1) esiste sempre una
costituzione scritta? 2) Esiste sempre una costituzione, anche se non scritta? 3) Esiste un contenuto tipico
delle costituzioni? 4) Se la costituzione ha un contenuto tipico, ogni costituzione scritta deve contenere tutto
questo contenuto o può contenerne solo una parte? Deve contenere solo questo contenuto o può contenere
altre norme oltre questo? È incontestabile il fatto che esistono stati privi di una costituzione scritta, privi cioè
di un documento unitario, distinto da tutte le altre leggi; un es. ne è la Gran Bretagna. Quest’ultima ha molte
leggi costituzionali scritte ma: tali leggi non si distinguono per la forma e l’efficacia dalle altre leggi; esse
non costituiscono un unico testo; esse non esauriscono la materia altrove contenuta in costituzione, perché
parte di tale materia è effettivamente fondata sulla consuetudine, e cioè su norme non scritte. Dunque, la
Gran Bretagna non ha una costituzione scritta, però tutti concordano che la Gran Bretagna ha una
costituzione in tutto comparabile a quella scritta di altri stati. Quindi la costituzione esiste, anche se non
esiste uno specifico testo solenne così chiamato e separato da tutte le altre leggi. Da qui si può sostenere che
tutti gli ordinamenti, per il solo fatto di esistere, abbiano una costituzione. Però perché la coscienza collettiva
si è posta il problema della costituzione solo recentemente? Perché le costituzioni scritte sono nate in un
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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

certo periodo e non prima? Perché è nata storicamente la lotta per la costituzione, e la problematica ad essa
relativa? È necessario muovere dall’art. 16 della celebre dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789: “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri determinata, non
ha costituzione”. A questa proclamazione si obietta che anche lo stato assoluto o feudale ce l’avessero perché
non sarebbero potuti essere governati senza alcuni principi guida fondamentali. Però in tal modo si ignorano
le domande prima poste e non si coglie la parte di verità contenuta nell’art. 16 della dichiarazione dei diritti
approvata nel 1789 dai rivoluzionari francesi. Per i rivoluzionari francesi il contenuto essenziale di ogni
costituzione è la difesa dei diritti di libertà e di proprietà: dove non c’è tale garanzia, non c’è costituzione. In
tal modo la costituzione diventa obiettivo di lotta quando forze sociali politiche si pongono il problema di
come garantire determinati diritti: il problema della costituzione nasce insieme a questa lotta ed a questa
esigenza di garanzie verso lo stato. A sua volta l’esigenza di garanzia dei diritti di libertà e di proprietà nasce
e si afferma quando da un lato si afferma lo stato, come apparato monopolizzatore della forza che deve
garantire la libertà e la proprietà dei cittadini, e dall’altro si afferma la separatezza della società rispetto allo
stato, e quindi sorge la necessità di garantire la libertà e la proprietà dei cittadini nei confronti dello Stato,
che potrebbe abusare della sua forza e schiacciare diritti di libertà e diritto di proprietà. La classe che si fa
portatrice di questa duplice esigenza, perché corrisponde al modo di produzione di cui essa è momento
dirigente, è la borghesia. Il modo di produzione capitalistico si fonda: sulla separazione dei produttori
immediati dai loro mezzi di produzione; sulla polarizzazione dei mezzi di produzione da una parte, come
proprietà libera e separata e della forza lavoro dall’altra, come proprietà libera e separata, così che l’incontro
tra mezzi di produzione e forze lavoro può avvenire solo mediante un libero contratto tra il proprietario dei
mezzi di produzione e il proprietario della forza lavoro; sulla concorrenza, e cioè sulla lotta tra tutti, in linea
di principio puramente economica; sul mercato, come mezzo per ricostruire e garantire il legame tra i
produttori indipendenti, tra mezzi di produzione e i lavoratori, tra mezzi di produzione e altri mezzi di
produzione, tra consumatori e prodotti di consumo, etc. Il mercato è l’elemento di collegamento tra tutti;
sulla libera proprietà, sulla libertà di usare liberamente la proprietà e di farla circolare liberamente senza
vincoli e limitazioni. Aspetto ulteriore egualmente necessario della società borghese è il bisogno di certezza
dei propri diritti: anzitutto la certezza del diritto di proprietà e dei diritti della propria persona necessari per
esercitare il diritto di proprietà. Posto che lo stato deve poterli comprimere a vantaggio della continuità della
società tutta intera è necessario che tutti i provvedimenti limitativi siano tassativamente previsti, affinché sia
eliminato quanto più è possibile ogni esercizio arbitrario, cioè non prevedibile, del potere statale. Ecco
perché con l’affermarsi della borghesia, cioè del modo di produzione capitalistico, nasce il bisogno della
costituzione, e cioè decisione consapevole di esigenza, borghese, di garantire la libertà e la proprietà
necessarie al funzionamento e alla produzione indefinita del modo di produzione capitalistico. In questo
senso è vero che senza garanzia delle libertà e della proprietà non c’è costituzione: effettivamente la
costituzione, come problema storico politico, nasce con la necessità di garantire libertà e proprietà. Però la
costituzione, in quanto insieme di regole che esprimono le strutture politiche fondamentali di una società, di
fatto è sempre esistita, perlomeno in tutte le società organizzate intorno ad un potere politico; anche se fino
all’avvento del costituzionalismo moderno erano un fatto non consapevolmente vissuto dalla società, e
quindi non studiato come tale, né organizzato né razionalmente dominato. Questa è la parte di verità
contenuta nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789. La borghesia compie un’operazione duplice:
vuole la costituzione, con la quale si dà voce ad esigenze universali, per garantire anzitutto la sua libertà e la
sua proprietà. Mentre la libertà e la proprietà del borghese è reale libertà e proprietà, poiché esso è realmente
libero grazie alla sua proprietà indipendente e realmente ricco di proprietà, la libertà e la proprietà del
proletario è formale, perché il proletario è libero di vendersi e la sua unica proprietà è la sua forza-lavoro,
una ricchezza che lo obbliga a vendersi al proprietario dei mezzi di produzione, in cambio del salario, e a
lasciare a costui la ricchezza prodotta. Comunque, la borghesia che dà vita al costituzionalismo moderno,
difendendo il suo interesse di classe, plasma anche una nuova società e lascia alle future società alcune
acquisizioni irreversibili. A) Rende per la prima volta il potere politico oggetto di lotta organizzata, di
riflessione. Il costituzionalismo moderno generalizza lo studio e la riflessione sulle strutture più profonde del
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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

potere politico; propone, compara gli strumenti sperimentali che consentono di smembrare e poi ricostruire
questo apparato di potere, di assoggettarlo a regole di procedura, a meccanismi di controllo, di articolare lo
Stato e connettere in vario modo le sue diverse parti. Questo lavorìo ha instillato la convinzione che il potere
può essere studiato e sottoposto a verifica, riformato. B) Il meccanismo costituzionale si è rilevato uno
strumento utile per tutte le classi, che non hanno tardato ad organizzarsi per modificare la costituzione a loro
vantaggio, per porre garanzie anche per sé. Es. la libertà di organizzazione sindacale e la garanzia del diritto
di sciopero. Inizialmente la costituzione di tutti gli stati nega l’uno e l’altro perché: una società e uno Stato
fondati sull’illimitata concorrenza tra individui (Stato liberale), non tollera forme di organizzazione e di lotta
volte a limitare la concorrenza e i risultati di essa (il sindacato e lo sciopero sono mezzi per imporre una
contrattazione collettiva e dunque per limitare la concorrenza tra i singoli). Ritorniamo alle domande iniziali.
Ogni costituzione dello Stato è essenzialmente scritta in quanto nasce come consapevole oggetto di lotta e
non è possibile proporsi un obiettivo in modo consapevole senza dargli veste solenne e cioè senza fissarlo
per iscritto. Dalla costituzione americana e francese in poi le costituzioni sono tutte scritte. La costituzione
inglese, proprio perché la Gran Bretagna è il primo paese in cui ha vinto una rivoluzione borghese e si è
affermato come dominante il modo di produzione capitalistico, sta ancora a metà tra il vecchio e il nuovo
mondo, ha una forma particolare a causa della sua nascita “prematura”. Da un lato la rivoluzione inglese si
traduce, a livello costituzionale, in leggi scritte che garantiscono proprio i diritti di libertà e la proprietà, oltre
che porre alcune regole fondamentali sugli organi fondamentali dello Stato (corona e parlamento). Dall’altro
lato però, la lotta organizzata per la costituzione e la riflessione consapevole non erano ancora così consapute
da giungere a concepire la costituzione come un atto complesso da separare dagli altri. La costituzione
inglese nasce come serie di atti formalmente eguali agli altri atti legislativi e si sviluppa attraverso un
secolare processo di adattamento di ordine essenzialmente convenzionale e consuetudinario, perché manca
uno specifico testo costituzionale ed una specifica decisione costituente da rivedere. Oggi possiamo estrarre
dalla realtà socio-politica del passato strutture e regole comparabili con quelle che oggi chiamiamo
costituzionali. Le società precedenti non avevano consapevolezza di avere e praticare una costituzione, ma
era fusa con tutto lo Stato. In queste costituzioni non si ritrova quella parte che è tipica delle costituzioni
moderne, e cioè il complesso di norme le quali sono rivolte a garantire anzitutto la libertà e la proprietà dei
singoli (ed oggi anche dei gruppi sociali). Per quanto riguarda il moderno costituzionalismo, queste
costituzioni sono nate per difendere libertà e proprietà ed hanno costantemente questo fondamentale
contenuto. Libere poi le costituzioni di aggiungere norme di ogni genere; libere alcune di contenere regole
che altre non contengono. Come la costituzione voluta è necessariamente scritta, così essa è tendenzialmente
immodificabile, stabile nel tempo, permanente. Se essa è la decisione fondamentale con la quale la società
chiede ed ottiene garanzie verso lo Stato assoggettando a regole il potere statale; se sta alla base dello Stato,
è ovvio che non possa essere modificata facilmente e frequentemente (altrimenti lo Stato e l’intera società
sarebbero instabili). Bisogna distinguere tra costituzioni rigide e costituzioni flessibili. Le prime sono
modificabili dalle leggi ordinarie (cioè dalla maggioranza parlamentare) ma solo con procedimenti speciali
più complessi della normale procedura legislativa. Le seconde sono quelle che sono modificabili con legge
ordinaria. La Costituzione italiana è una costituzione rigida, lo Statuto albertino era flessibile; la costituzione
americana è rigida, quella inglese flessibile. Le forze che stipulano il patto costituzionale (forze dominanti
nell’Assemblea costituente), per reciproca garanzia, stipulano anche che tale patto per essere modificato avrà
bisogno di un consenso talmente ampio da ricostituire per quanto è possibile la originaria maggioranza e
quindi garantire tutte o quasi tutte le forze stipulanti. In generale il passaggio storico è dalle costituzioni
flessibili a quelle rigide perché se la forza costituente ha la sicurezza di essere la maggioranza perché non
deve spartire il potere con pericolose concorrenti, essa non pensa di porre garanzie rispetto a sé stessa. Così,
quando la borghesia creò costituzioni che in sostanza attribuivano i diritti politici solo a sé stessa, non sentì il
bisogno di irrigidire la costituzione. Quando successivamente le costituzioni divennero il frutto di un patto
tra diverse classi sociali, ciascuna sentì il bisogno di garantirsi verso le altre e tutte dunque sono giunte a
chiedere la rigidità della costituzione come garanzia dell’originario patto costituzionale. Fa eccezione a
questo sviluppo la costituzione americana, che pur essendo il prodotto della borghesia americana del tempo,
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è rigida. Però qui la causa della rigidità sta nella necessità di garantire i singoli Stati federati rispetto alla
Federazione (quindi alla sua maggioranza politica). Comunque, non è da credere che le leggi ordinarie
possano modificare facilmente la costituzione, sia pure flessibile, solo perché lo possono in diritto. La
costituzione, se riflette un equilibrio sociale stabile e permanente, dura con esso e dunque è stabile e
permanente, anche se flessibile.

3) Breve storia costituzionale italiana prima della Costituzione del 1948: lo statuto albertino concesso
unilateralmente nel 1848 dal re Carlo Alberto per il regno di Sardegna (dal 1861 regno d’Italia) ha retto lo
stato italiano da allora fino al 1943, sia pure con modificazioni, la principale è costituita dall’inserzione dal
1922 del regime fascista. Il 25 luglio 1943 cade il fascismo e con esso della struttura costituzionale vigente
cade quasi tutto tranne la monarchia (e il governo che si fonda sul potere del re). Inizia un regime
provvisorio e l’Italia è divisa in 2: nel nord governa la Repubblica sociale di Salò, governo sostenuto dai
nazisti occupanti, e nel sud nelle zone di operazioni militari governano direttamente le potenze militari
angloamericane occupanti. Nelle zone rimaste al governo del re, non esistendo più Parlamento e organi
rappresentativi, il governo si autoinveste di ogni potere anche legislativo, che esercita mediante decreti-
legge. Intanto i partiti politici antifascisti acquistano maggiore autorità e danno vita ai comitati di liberazione
nazionale (CLN), nel sud facenti capo al CLN centrale di Roma, e nel nord, dove si organizzava la guerra
partigiana sotto la direzione dei partiti, e del PCI (partito comunista italiano), al comitato di liberazione
nazionale alta Italia (CLNAI). Sotto l’incalzare dei partiti nel marzo-aprile del 1944 (svolta di Salerno) il re
Vittorio Emanuele III si impegna, non appena Roma sarà liberata dai tedeschi, a ritirarsi a vita privata
affidando al figlio Umberto la luogotenenza generale del Regno, in attesa dell’elezione a suffragio universale
e diretto di una futura Assemblea costituente alla quale è demandata la scelta tra la Repubblica e la
monarchia. Successivamente (con d. lgs. lgt. 16 marzo 1946 n. 98) fu deciso che la scelta fondamentale tra
Repubblica e monarchia non venisse demandata all’Assemblea costituente ma al popolo, che il 2 giugno
1946 si pronunciò per la Repubblica (12 milioni di voti contro circa 10 milioni) ed elesse l’Assemblea
costituente che approvò la costituzione oggi vigente.

4) La Costituzione vivente: la costituzione italiana è un documento scritto. Questo documento fu approvato


nel 1947 dall’Assemblea costituente ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Esso è modificabile dal
Parlamento con una legge particolare diversa da quella ordinaria, più complessa, e in questi 60 anni è stato
modificato più volte. Bisogna quindi distinguere tra il testo storico della costituzione e il testo vigente: il
primo è costituito dal testo originario, e dai testi via via modificati; il secondo è quello che risulta dalla parte
del testo originario mai modificata più quelle varianti approvate da ultimo e rimaste immutate. Questa
osservazione ci dice che la costituzione è un documento che vive nel tempo ed è attuale: se la collettività
italiana non vuole più alcune sue parti, può modificarle; se essa non modifica la costituzione è segno che
tacitamente la fa propria. Siccome la costituzione contiene delle prescrizioni, volere la costituzione,
tacitamente, significa comportarsi così come la costituzione prescrive. Se gli italiani si comportassero in
modo contrario alla costituzione, dovremmo concludere che questa è solo un pezzo di carta e dunque
neanche una vera costituzione. La costituzione vive perché la società italiana si è attenuta e si attiene alle
regole contenute in costituzione. Le cose però non sono così semplici. Anzitutto esistono anche
comportamenti incostituzionali. In qualche caso questi comportamenti vengono corretti o repressi attraverso i
meccanismi che la stessa costituzione prevede (es. la Corte costituzionale dichiara incostituzionali le leggi
del Parlamento contrarie a costituzione). Altre volte però il comportamento incostituzionale non viene né
corretto né punito. Il fatto che una legge sia qualche volta violata non basta per dire che essa è un pezzo di
carta, ciò che è importante è che nella maggior parte dei casi la costituzione venga rispettata e questo basta
per concludere che essa è attualmente vigente (la maggior parte delle regole contenute in costituzione viene
obbedita nella maggior parte dei casi). In questo modo siamo costretti ad ammettere che possono esservi
nella costituzione scritta regole non ancora attuate, e che possono esservi regole non sempre e pienamente
attuate. Facciamo qualche esempio del caso delle regole scritte nel testo costituzionale che però non trovano
corrispondenza nella realtà. Alcuni importanti soggetti pubblici previsti dalla costituzione non cominciarono
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

a funzionare dal 1° gennaio 1948 ma dopo alcuni anni: la Corte costituzionale fu costituita nel 1956; il
consiglio superiore della magistratura nel 1958; le regioni ordinarie furono costituite nel 1970; il referendum
abrogativo fu praticabile solo dal 1970. Nel passato vi sono stati periodi in cui parti anche importanti della
costituzione scritta non erano attuate. Ma ancora oggi vi sono parti della costituzione scritta senza alcuna
attuazione. L’es. più importante è rappresentato dall’art. 39 sui contratti collettivi di lavoro. La costituzione
prevede certe regole che hanno bisogno di una legge di attuazione; questa legge non è mai stata approvata e
dunque le regole sui contratti collettivi di lavoro sono diverse da quelle previste in costituzione. La
costituzione italiana, come tutte le cose fatte di parole, subisce il destino delle parole e dato che anche il
diritto è fatto di parole, non c’è nulla di sorprendente nel fatto che l’esperienza giuridica sia piena di liti e
incertezze (molte volte gli operatori del diritto non sono d’accordo sull’interpretazione delle parole di una
legge). Es. l’articolo 59 della costituzione dice: “il presidente della Repubblica può nominare senatori a vita
5 cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e
letterario”. Di questo sono possibili due diverse interpretazioni: 1) la carica di presidente della Repubblica
può nominare al massimo 5 senatori a vita e di conseguenza se un nuovo presidente trova che i 5 posti sono
già occupati, non ne può nominare nessuno; può nominare senatori a vita mano a mano che uno dei
precedenti muore o si dimette o cessa dalla carica. 2) Ciascun presidente della Repubblica può nominare 5
senatori a vita e dunque un nuovo presidente può nominarne 5 durante i 7 anni della sua carica,
indipendentemente da quanti ne rimangono in carica tra quelli nominati dai precedenti presidenti della
Repubblica; il numero dei senatori a vita diventa variabile. Dal 1948 al 1984 l’opinione quasi unanime era la
prima. Nel 1984 l’allora presidente Pertini sostenne che era corretta la seconda interpretazione. Il successivo
presidente Cossiga (1985-1992) in un primo tempo disse che nel dubbio si sarebbe attenuto all’antica
interpretazione, successivamente si avvalse dell’interpretazione sostenuta da Pertini. I successivi presidenti
(Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella) si sono astenuti dal nominare senatori a vita oltre il numero di 5.
Questo dimostra come le stesse parole possono essere interpretate in modo diverso, e come queste
interpretazioni divergenti possono susseguirsi nel tempo o addirittura essere tutte presenti. Dunque, se una
interpretazione prevale, finché prevale, questa è la costituzione vivente: niente però può escludere che
successivamente prevalga una diversa interpretazione e così la costituzione diventa oggetto di una contesa.
Le leggi e le regole della costituzione sono tali che, senza violarle ma rimanendo entro i confini da esse
tracciati, le esecuzioni possibili sono molte, tendenzialmente infinite: dipende dall’operatore giuridico di
quel momento quale esecuzione offrire. Es. le regole della costituzione sul presidente della Repubblica sono
le stesse da 60 anni; eppure ogni presidente, senza violare tali regole, ha interpretato il suo ruolo in modo
diverso dall’altro. In conclusione, dire qual è la costituzione vivente in un certo momento è operazione
difficile, che da un lato deve tener conto di molti aspetti come quelli ora esaminati, dall’altro non giunge mai
a soluzioni definite e quello che a noi pare corretto a qualcun altro può apparire incostituzionale. Ciò non
vuol dire che la costituzione diventa un oggetto misterioso: se vi sono parti non attuate, interpretazioni
divergenti, attuazioni sempre nuove della costituzione, esiste nello stesso tempo un nucleo costante, parti
della costituzione di cui possiamo dire tranquillamente: così stanno le cose.

5) La Costituzione come legge fondamentale: la costituzione è la legge fondamentale del nostro


ordinamento dunque tutti gli altri atti sono subordinati alla costituzione. A garanzia di questa supremazia
della costituzione stanno vari istituti. In particolare, la Corte costituzionale ha il potere di annullare le leggi o
gli atti con forza di legge dello Stato e le leggi regionali contrarie a costituzione. Quest’ultima può essere
modificata con una legge speciale (la legge costituzionale) che va approvata con modi e maggioranze
particolari tali da garantire che le modificazioni della costituzione ricevano un amplissimo consenso. A
seguito dell’adesione dell’Italia all’Unione europea e all’art. 11 della costituzione secondo cui “l’Italia
consente, in condizione di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento
che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”, la collocazione gerarchica della costituzione italiana
nell’ordine gerarchico delle fonti si presenta complessa. Facendo leva sulle parole dell’art.11 è ormai
pacifico, sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale, sia nella quasi totalità dei costituzionalisti, sia

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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

nella totalità delle forze politiche, che tutto il diritto comunitario, sia quello contenuto nei trattati istitutivi e
regolativi dell’Unione, sia quello derivato contenuto nei regolamenti e nelle direttive comunitarie adottati
sulla base dei trattati, prevale anche sulle disposizioni della costituzione italiana, salvi i diritti di libertà ed i
principi fondamentali. Ipotizzando di sapere con esattezza quali e quanti sono i principi fondamentali, il
sistema che ne risulta diventa: al sommo della scala sta la proposizione dell’art. 11 della costituzione italiana
(questa è la Grundnorm, la norma fondamentale, che regge tutto il sistema); al secondo posto stanno i diritti
di libertà ed i principi fondamentali della costituzione italiana, in forza della Grundnorm; al terzo posto si
colloca il diritto comunitario, sia originario sia derivato (all’interno del diritto comunitario si stabilisce una
gerarchia tra diritto originario, quello dei trattati, e diritto derivato, quello creato dagli organi comunitari
sulla base dei trattati); al quarto posto tutte le disposizioni costituzionali che non rientrano nelle norme e nei
principi collocati al secondo posto.

6) I regolamenti comunitari: i regolamenti comunitari sono atti normativi approvati dagli organi
dell’Unione europea secondo le procedure e nelle materie previste e disciplinate dai trattati istitutivi. In
quanto atti normativi si distinguono da un lato dalle decisioni, perché i regolamenti sono generali e astratti e
le decisioni sono atti concreti, e dall’altro dalle direttive, perché i regolamenti sono applicabili senza bisogno
di atti ulteriori, mentre le direttive diventano applicabili solo dopo che gli Stati hanno approvato gli atti
necessari per la loro piena operatività. La Corte di giustizia dell’Unione europea non dà importanza ai nomi
ufficiali, ma al contenuto dell’atto; così possono aversi atti ufficialmente chiamati regolamenti che però non
sono operativi, perché bisognosi di essere integrati da altre norme prima di divenire applicabili, e atti
chiamati direttive che sono così completi da essere immediatamente applicabili. I regolamenti comunitari,
dopo il trattato di Maastricht, sono deliberati attraverso una procedura molto complessa che coinvolge la
commissione esecutiva, il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri delle comunità. Per una classe di
essi, che viene indicata nel trattato, Parlamento europeo e Consiglio dei ministri hanno pari potestà, cioè il
regolamento non è approvato se manca il consenso di uno dei due. Per un’altra classe la deliberazione
contraria del Parlamento può essere superata dal consiglio, ma solo all’unanimità. Restano dei casi, previsti
nei trattati, nei quali il consiglio decide da solo, previa consultazione del Parlamento. Sono previsti anche
regolamenti della commissione e ci sono anche, nella specifica materia di sua competenza, regolamenti della
banca centrale europea. In molti casi le formule usate nei trattati sono così vaghe che è impossibile tracciare
una precisa linea di confine tra competenza attribuita all’Unione e competenze che restano agli stati aderenti.
Inoltre, il principio di sussidiarietà introdotto dal trattato di Maastricht rende mobile la linea di divisione tra
competenze dell’Unione europea e competenze dei singoli stati. In ogni caso ancora oggi vi sono materie
riservate agli stati, sulle quali le comunità non possono intervenire (ad es. il diritto di famiglia). I regolamenti
comunitari sono pubblicati legalmente nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea (una edizione per ogni
lingua delle comunità, fino al 1992 si chiamava Gazzetta Ufficiale delle comunità europee), ed entrano in
vigore 20 giorni dopo la pubblicazione. I regolamenti comunitari, con la loro entrata in vigore secondo le
regole del trattato, sono automaticamente e immediatamente obbligatori per tutti i soggetti dell’Unione. Date
queste regole, nasce il problema del rapporto tra i regolamenti comunitari e gli atti normativi italiani.
Qualunque sia la risposta che si voglia dare alla domanda se i regolamenti comunitari entrano a far parte
dell’ordinamento italiano o restano atti di un altro ordinamento, in ogni caso i giudici italiani debbono
risolvere i problemi che possono nascere dall’eventuale contrasto tra regolamenti comunitari e altri atti
normativi italiani: o si applica l’uno e non si applica l’altro o viceversa. Va notato che i regolamenti
comunitari, con la loro esistenza, derogano alla costituzione: nelle materie attribuite dai trattati all’Unione
europea, non è più il Parlamento che impone norme giuridiche mediante la legge, ma l’Unione mediante i
suoi regolamenti. Poiché la legge di esecuzione dei trattati istitutivi dell’Unione è stata una legge ordinaria, i
giuristi si sono posti la domanda se è costituzionale una tale legge ordinaria che autorizza una deroga alla
costituzione. La quasi totalità dei giuristi e la Corte costituzionale fondano la legittimità costituzionale di tale
legge sopra l’art. 11 della costituzione. Secondo questo articolo l’Italia consente, in condizioni di parità con
gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra

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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

le nazioni e dunque si giustifica in questo modo che una legge ordinaria consenta limitazioni della sovranità
italiana e trasferisca all’Unione europea competenze che in caso diverso aspetterebbero al Parlamento
italiano. Da decenni ormai politici e giuristi, e soprattutto la Corte costituzionale, hanno consolidato la tesi
per cui il modo che è stato seguito per aderire ed eseguire i trattamenti comunitari è conforme a costituzione.
Fino a che punto, grazie a questo trasferimento di sovranità dall’Italia alle comunità, i regolamenti
comunitari possono derogare alla nostra costituzione? La Corte costituzionale ha posto come limite
invalicabile il rispetto dei principi e delle libertà fondamentali del nostro ordinamento. Questa tesi produce la
conseguenza per cui regolamenti comunitari hanno una forza maggiore delle leggi italiane ordinarie, potendo
derogare alla costituzione. Dunque, i regolamenti comunitari, nelle materie comunitarie, prevalgono su tutti
gli atti degli stati aderenti e quindi anche sulle leggi. Che accade se una legge italiana si rivela contraria ad
un regolamento comunitario? La Corte costituzionale ha dato nel tempo due risposte diverse. Fino alla
sentenza 170/84 la legge italiana contraria ad un regolamento comunitario, in quanto incostituzionale per
violazione dell’art. 11 Cost., doveva essere impugnata davanti alla Corte e da questa dichiarata
incostituzionale. Con la sentenza n. 170/84 la Corte italiana ha deciso che non spetta ad essa pronunciarsi su
tali leggi, ma che spetta al giudice comune verificare se conflitto sussiste, e, se conflitto cioè, applicare il
regolamento comunitario e non applicare la legge statale (che resta in vigore, fino ad abrogazione da parte
del legislatore italiano, ma resta paralizzata finché esiste il regolamento comunitario). Successivamente la
Corte costituzionale con la sentenza 384/94 ha deciso che nel caso di impugnativa diretta delle leggi
regionali da parte dello stato essa ha il potere di giudicare sulla legittimità delle leggi regionali sospettate di
essere contrarie a regolamenti comunitari. Un anno dopo con la sentenza 94/95 ha sostenuto che eguale
potere essa conserva nei confronti di leggi statali se impugnate in via diretta da una regione. Al di fuori dei
casi in cui la questione viene sollevata in via incidentale si applica la regola per cui spetta al giudice della
causa applicare il regolamento comunitario e non applicare la legge italiana incompatibile con questo. La
conseguenza di questa decisione è che il controllo sulle leggi in Italia non è sempre accentrato, ma talvolta
decentrato: è decentrato, cioè spetta a tutti i giudici, ogni volta che la legittimità di una legge viene misurata
sulla base dei regolamenti comunitari; è accentrato in tutti gli altri casi. Il regolamento comunitario prevale
sulla legge italiana difforme, purché il regolamento rientri nella competenza comunitaria. Cosa accade se una
parte sostiene o il giudice d’ufficio ritiene che il regolamento comunitario non rientra nella competenza
comunitaria? In base all’art. 267 nella nuova numerazione del trattato sul funzionamento dell’Unione
europea, si stabilisce che il giudice italiano deve sollevare la questione che riguarda la legittimità di un atto
comunitario davanti alla Corte di giustizia. In tal modo si produce un ulteriore limitazione della sovranità
italiana: la decisione la quale stabilisce a chi spetta la competenza ad approvare un determinato atto, nel caso
vi sia conflitto tra più soggetti su tale punto, viene spostata dallo stato ad un organo sovranazionale quale è la
Corte di giustizia. È pacifico che qualora si ritenga che il regolamento è contrario a norme dei trattati,
competente a giudicare su questa illegittimità è la Corte di giustizia. I regolamenti comunitari si basano sui
trattati istitutivi delle comunità, e tali trattati entrano in vigore in Italia mediante un ordine di esecuzione
contenuto nella legge ordinaria. A risultare incostituzionali potrebbero essere direttamente i trattati e quindi
la legge che ordina la loro esecuzione. In questo caso il giudizio sulla costituzionalità di tali leggi spetta alla
Corte costituzionale. La legge comunitaria non è un atto dell’Unione europea, ma una legge italiana.
Secondo la l. 4 febbraio 2005 n. 11 ogni anno deve essere approvata una legge, comunitaria, la quale, tra le
tante cose previste: a) modifica o abroga disposizioni statali in contrasto con gli obblighi derivanti
dall’Unione europea; b) attua o assicura l’applicazione degli atti del consiglio o della commissione europea,
o delega il governo per tale attuazione con decreto legislativo; c) autorizza il governo ad attuare in via
regolamentare le direttive, quando la via regolamentare è ammissibile secondo costituzione e attenendosi alle
disposizioni contenute nell’art. 11 di questa legge; d) individua i principi fondamentali ai quali regioni e
province autonome debbono attenersi per dare attuazione agli atti comunitari nelle materie nelle quali esse
hanno una competenza legislativa concorrente.

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7) Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali: le leggi di revisione


costituzionale sono quelle leggi che modificano il testo della costituzione; le leggi costituzionali sono quelle
leggi che materialmente non fanno parte del testo della costituzione e ne restano separate, pur essendo state
approvate con la medesima procedura delle leggi di revisione e pur occupando il medesimo grado di queste
nella scala delle fonti normative. Dal punto di vista giuridico entrambe sono sotto ogni aspetto pienamente
parificate: ambedue sono subordinate alla costituzione allo stesso modo; identico è il modo della loro
approvazione; identico il loro nome ufficiale (legge costituzionale); identica la loro funzione giuridica sia nei
riguardi reciproci sia rispetto alle altre fonti normative. Entrambe possono modificare allo stesso modo e con
gli stessi limiti le norme costituzionali e/o precedenti leggi costituzionali, ambedue non possono essere
modificate che da successive leggi costituzionali o di revisione costituzionale, ambedue sono sovraordinate
allo stesso modo a tutte le altre fonti dell’ordinamento che le seguono nella scala gerarchica. Sarà usata la
legge di revisione quando si intende modificare l’originario testo della costituzione, così che il nuovo testo
della costituzione verrà riscritto così modificato; mentre quando si approvano con forza costituzionale
oggetti separati dal testo originario è opportuno usare la legge costituzionale, che si affianca alla costituzione
e la integra, ma ne resta materialmente separata. Però niente vieta che una modificazione del testo
costituzionale venga contenuta in una legge costituzionale separata da esso, così niente vieta che il
legislatore costituzionale inserisca con legge di revisione entro il testo costituzionale un intero sviluppo
normativo che più opportunamente poteva restare separato dal primitivo testo. Dunque, la distinzione è
puramente descrittiva ed è utile solo come mezzo di individuazione di due tipi di atti che dal punto di vista
normativo sono in tutto eguali. La costituzione italiana prescrive nell’articolo 138 la procedura per approvare
validamente le leggi di revisione e le leggi costituzionali (guardare schema pagina 218). Schematicamente la
sequenza è: approvazione di una camera del progetto di legge costituzionale; approvazione quando si vuole,
purché entro la legislatura (periodo di durata delle due camere), da parte dell’altra camera; seconda
approvazione della prima camera a distanza non inferiore a tre mesi dalla sua precedente approvazione;
seconda approvazione della seconda camera di nuovo a distanza non minore di tre mesi dalla sua precedente
approvazione. Questa doppia approvazione da parte di ciascuna camera è il primo aggravamento di
procedura imposto dalla costituzione rispetto alla procedura normale di approvazione delle leggi ordinarie.
Però ci sono altri aggravamenti: la seconda volta, ambedue le camere devono approvare il progetto di legge
costituzionale con una maggioranza qualificata. Se le Camere approvano con la maggioranza dei 2/3
(calcolata sul totale dei membri del collegio), la legge costituzionale o di revisione viene promulgata,
pubblicata ed entra in vigore. Se le camere, o anche una di esse, non raggiungono la maggioranza dei 2/3, ma
quella assoluta (metà più uno dei membri del collegio), si apre una ulteriore fase del procedimento. Il
progetto di legge approvato dalle due camere con la maggioranza assoluta viene pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale: da questo momento decorrono tre mesi entro i quali 500.000 elettori o 5 consigli regionali o 1/5 di
ciascuna camera possono chiedere un referendum su tale progetto. Se la richiesta viene avanzata il presidente
della Repubblica deve indire il referendum; al referendum avvenuto, se la maggioranza dei votanti ha
approvato, alla legge costituzionale seguirà la sua promulgazione, pubblicazione ed entrata in vigore; se la
maggioranza dei votanti ha respinto il referendum, il progetto cade. Se entro i tre mesi la richiesta di
referendum non viene avanzata, scaduto il termine, al progetto approvato dalle camere segue la
promulgazione, pubblicazione ed entrata in vigore. Ci sono però leggi costituzionali che seguono un
procedimento diverso. La legge costituzionale n. 2/99 conferma che gli statuti delle regioni speciali vanno
approvati con legge costituzionale, ma stabilisce che per tale approvazione è sufficiente la maggioranza
assoluta di ciascuna camera, senza che sia possibile procedere al referendum. Inoltre, questa legge prevede
altre due differenze rispetto all’art. 138 per quanto riguarda le leggi costituzionali che approvano gli statuti
delle regioni speciali: 1) l’iniziativa per la modificazione degli statuti speciali spetta anche alle assemblee
legislative di tali regioni (la novità sta nel fatto che tale iniziativa viene prevista in modo espresso); 2) il
Parlamento prima di deliberare deve chiedere ed ottenere obbligatoriamente il parere del consiglio regionale.
Anche se la legge di revisione costituzionale e le leggi costituzionali possono abrogare o modificare la
costituzione, le collochiamo su un gradino inferiore alla costituzione nella scala gerarchica delle fonti per tre
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ragioni. La legge di revisione costituzionale e la legge costituzionale devono essere approvate secondo le
regole contenute nell’art. 138 della costituzione, quindi sono subordinate a quest’ultima almeno per quanto
riguarda l’aspetto procedurale. È vero che con la legge di revisione è possibile modificare lo stesso articolo
138, ma questa legge deve rispettare la procedura prefissata dallo stesso articolo 138 che intende modificare.
Tutto questo è tanto vero che nessuno dubita che la Corte costituzionale possa controllare la costituzionalità
delle leggi di revisione costituzionale e delle leggi costituzionali per quanto riguarda il loro procedimento di
formazione. Se la Corte ha questo potere, è segno che la costituzione è più forte delle leggi costituzionali. La
costituzione, prescrivendo come si approvano le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi
costituzionali, solo per questo è superiore ad esse. La seconda ragione per ritenere esistente un rapporto di
gerarchia tra costituzione e legge di revisione sta nel fatto che almeno in un caso la costituzione impone a
queste leggi un limite espresso di contenuto: le leggi di revisione e le leggi costituzionali per nessuna ragione
possono modificare la norma sottratta esplicitamente a revisione costituzionale. L’art. 139 della costituzione
dice: “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. L’espressione forma
repubblicana deve essere intesa secondo il senso storico-comune che la parola repubblicana ha acquistato in
contrapposizione a monarchia: monarchia è la forma di governo in cui esiste un capo dello Stato ereditario,
Repubblica è la forma di governo in cui il capo dello Stato è elettivo. L’art. 139 vieta la reintroduzione in
Italia, anche con legge di revisione costituzionale, della monarchia. Qualche ragionatore ha pensato di
aggirare l’ostacolo: l’art. 139 vieta di modificare direttamente con una legge di revisione la forma
repubblicana, ma niente impedisce che una prima legge di revisione abroghi lo stesso art. 139 e una seconda
introduca la nuova forma di governo (monarchia). A questa tesi si possono opporre due argomenti. Primo
argomento: secondo lettera e buon senso si fa oggetto di revisione la forma repubblicana nel momento stesso
in cui si toglie la garanzia dell’art. 139; l’eventuale legge di revisione che abroga l’art. 139 solo per questo
viola la prescrizione costituzionale. Secondo argomento: la forma repubblicana non fu decisa dall’Assemblea
costituente, ma dal popolo con il referendum del 2 giugno 1946: su questo l’Assemblea costituente non
poteva più decidere liberamente, ma era vincolata alla precedente decisione del popolo. Di conseguenza,
come il popolo ha scelto la forma repubblicana, così solo il popolo può revocarla, con un nuovo referendum
istituzionale. Si tratta di una possibilità che va oltre l’ordinamento vigente, perché la decisione di rimettere in
discussione la Repubblica rimette in discussione l’intero ordinamento nato e cresciuto con la Repubblica. In
conclusione, il nostro ordinamento non prevede e non ammette la modifica della forma repubblicana perché
così dice la costituzione, e dunque, anche per questo aspetto di contenuto, la costituzione è superiore alle
leggi di revisione. Il limite posto dall’art. 139 è un limite espresso. Ci sono limiti taciti, cioè divieti di
revisione costituzionale non formulati espressamente ma ricavabili implicitamente dalla costituzione? Se noi
ricordiamo che la costituzione italiana è il frutto di un patto tra diverse forze, si può concludere che questo
patto potrà essere modificato nei particolari, ma non rovesciato nelle sue caratteristiche di fondo. Es. si può
immaginare che venga modificata la più particolare disciplina del Parlamento, ma non che possa venire
abolito il Parlamento; ci sono cioè istituti irriducibili e ineliminabili, almeno attraverso le leggi di revisione
costituzionale. Secondo questa ispirazione, è stato trovato, un fondamento testuale per un limite implicito
alla revisione costituzionale nella parola inviolabile che la costituzione usa per qualificare alcuni diritti di
libertà. È opinione prevalente che inviolabile vuol dire non eliminabile neppure con legge di revisione
costituzionale. In conclusione, ci sono limiti sostanziali alla revisione costituzionale, e dunque tali leggi, non
potendo modificare queste regole costituzionali, confermano la loro qualità di fonti subordinate alla
costituzione. Tutte le fonti diverse dalla costituzione, dalle leggi di revisione e dalle leggi costituzionali, sono
subordinate alle prime senza distinzione: la subordinazione delle leggi ordinarie e di ogni altro atto
normativo rispetto alla costituzione è la medesima di quella rispetto alle leggi di revisione e alle leggi
costituzionali; la Corte costituzionale giudica allo stesso modo e con la stessa efficacia sia la contrarietà delle
leggi ordinarie rispetto alla costituzione che la contrarietà di queste stesse leggi ordinarie nei confronti delle
leggi costituzionali. Dunque, per questo aspetto, costituzione, leggi di revisione costituzionale e leggi
costituzionali si comportano come un unico blocco compatto. Le leggi di revisione costituzionale trovano il
loro oggetto già nella stessa costituzione; le altre leggi costituzionali sono rammentate dalla stessa
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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

costituzione in più punti (es. gli statuti delle regioni speciali sono approvati con legge costituzionale (art.
116)). Disciplinare una materia con legge costituzionale significa sottrarre tale materia alla libera
disponibilità della futura maggioranza parlamentare o rendere più difficoltoso per essa il mutamento della
precedente disciplina. Ecco perché bisogna concludere che non vanno regolate con leggi costituzionali tutte
quelle materie che potrebbero essere tranquillamente disciplinate con legge ordinaria. Questo criterio non
consente però limiti certi, e dunque sono sempre possibili abusi ed arbitri. Così si potrebbe sostenere che
possono essere approvate con leggi costituzionali solo: quelle materie espressamente assegnate dalla
costituzione ad esse; quelle materie che costituiscono sviluppo di materia già disciplinata in costituzione e
che sono strettamente necessarie per la pratica operatività di queste. Questo caso in pratica può diventare
esteso quanto si vuole, perché non c’è aspetto rilevante della vita associata che non trovi un principio di
disciplina o una menzione e una tutela, per quanto generica, nella costituzione (così la famiglia, le
associazioni, etc.).

8) La legge del Parlamento: la parola legge ha diversi significati. Un primo significato è generico e
atecnico: legge equivale a regola giuridicamente obbligatoria, quale ne sia la sua fonte. La parola legge, se
usata tecnicamente, designa solo alcuni specifici atti normativi dell’ordinamento chiamati così ufficialmente.
In questo secondo significato tecnico, in cui la parola legge costituisce il nome proprio di atti determinati,
legge designa non solo un atto, ma alcuni atti: ci sono le leggi costituzionali; le leggi del Parlamento o
ordinarie; le leggi regionali (vanno esclusi invece gli atti con forza di legge perché essi hanno un loro nome
specifico che non è legge). La legge viene spesso chiamata legge ordinaria quando se ne vuole sottolineare
l’origine: in questo caso l’aggettivo non è parte del nome ufficiale, ma serve solo a sottolineare che la legge
ordinaria è la legge del Parlamento. In definitiva la parola legge senza aggettivi o designa in modo generico e
atecnico qualsiasi regola giuridica generale, o indica tecnicamente e propriamente la legge del Parlamento.
La legge in senso tecnico, e cioè la legge del Parlamento, presenta una caratteristica che non si rinviene a
proposito degli atti normativi e degli atti giuridici in genere: quella per cui la legge del Parlamento si
riconosce e si individua immediatamente per caratteri esteriori, per la sua forma, che è tipica e solenne. Il
solo fatto che la legge provenga dal Parlamento non basta ad individuarla come tale. Sono leggi quegli atti
del Parlamento: che sono stati approvati seguendo il procedimento tipico di approvazione delle leggi e che
per questa ragione fin dal primo nascere si presentano come progetti di legge; che sono stati dichiarati
ufficialmente dal presidente della repubblica attraverso la promulgazione e che solo per questo si chiamano
ufficialmente leggi e con questo nome vengono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale e ripubblicati nella
raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. In pratica: quando sulla Gazzetta Ufficiale c’è
un testo normativo preceduto dalla parola legge, dalla data di promulgazione, da un numero progressivo della
pubblicazione e rivestito della formula sacramentale della promulgazione, si è certi che si tratta di una legge
o di un atto che pretende di essere legge e che dunque va trattato come legge; ogni atto che non si presenta
con questa forma non è legge. Pochi atti del nostro ordinamento sono regolati come le leggi del Parlamento
quanto al loro procedimento di formazione, alla loro forma esteriore e alla pubblicità dell’intero processo
dall’inizio alla fine. La nozione di procedimento ricomprende al suo interno il procedimento di formazione
della legge, l’iter legislativo, cioè il cammino delle leggi. Per capire meglio il fenomeno, muoviamo da un
caso che non costituisce procedimento. Quando due persone intendono concludere un contratto, in ipotesi un
contratto di compravendita, è probabile che ciascuna svolga una serie di indagini preliminari. Inoltre, è
probabile che i due soggetti prima svolgano accurate trattative, sul prezzo, sui termini di pagamento, sulle
condizioni di consegna. Per il diritto tutta questa attività preliminare non rileva o rileva solo a certi fini molto
particolari e limitati; in ogni caso questa attività preliminare è lasciata alla libera iniziativa degli interessati.
Per il diritto non esiste un modo precostituito e predeterminato per arrivare a concludere il contratto. Nel
caso in cui il contratto debba essere stipulato da un ente pubblico le cose cambiano perché esso trova già
indicate nella legge le tappe e i modi di questo cammino. Il diritto impone al soggetto pubblico come deve
procedere per giungere ad un certo risultato utile; di modo che il risultato non viene raggiunto, o viene
raggiunto invalido e quindi annullabile da chi ne ha il potere, se il soggetto non ha seguito quel

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

predeterminato cammino (es. è previsto che solo un soggetto previamente indicato possa iniziare la
trattativa). Dunque, il procedimento è una sequenza predeterminata di atti rivolta al raggiungimento di un
risultato finale unitario, per cui ogni atto della sequenza non può svolgersi se non si è concluso l’atto
precedente, e dunque il risultato finale non viene raggiunto o è invalido se la sequenza non è stata rispettata.
Sequenza di atti, non di fatti, cioè sequenza di atti volontari e non semplicemente di avvenimenti
giuridicamente rilevanti. Ci sono casi in cui un certo atto diventa efficace solo dopo che è trascorso un certo
tempo e/o si è verificato un certo fatto. Es. un privato può avere interesse che un contratto da lui stipulato
venga eseguito non al momento della stipulazione, ma successivamente. Il contratto comprende un termine
come clausola essenziale del suo contenuto. Oppure il privato può subordinare l’inizio dell’efficacia di un
contratto o la sua cessazione al verificarsi di un evento futuro e incerto (evento che forse potrà accadere e in
questo sta la differenza con il termine, che avverrà certamente): questa clausola si chiama condizione,
sospensiva nel primo caso, risolutiva nel secondo caso. In tutti i casi illustrati esiste una sequenza nel tempo
di avvenimenti collegati. Però non si tratta di un procedimento in senso proprio perché la sequenza temporale
ed eventuale, dipende dalla libera volontà degli interessati che possono apporre come non apporre o il
termine o la condizione, mentre la sequenza del procedimento è obbligatoria. Inoltre, non c’è procedimento
solo perché c’è uno scorrere del tempo prima che un determinato atto giuridico sia efficace, ma perché
questo tempo è riempito di una sequenza predeterminata di atti che il diritto esige si susseguono l’uno
all’altro in quella determinata successione, di modo che ciascuno è condizionato da tutti i precedenti e il
risultato finale è condizionato da tutta la sequenza. Gli innumerevoli procedimenti disegnati nelle regole del
nostro ordinamento sono molto vari e articolati però la riflessione ha dimostrato che esiste una sequenza
tipica e fondamentale, che costituisce lo schema base sul quale si innestano eventuali procedure più
complicate. Questa sequenza comprende quattro fasi (guardare schema pagina 239): la fase dell’iniziativa,
cioè che introduce il procedimento; la fase preparatoria o istruttoria, cioè quella in cui si compiono tutte
quelle attività strumentali ritenute necessarie o opportune per adottare la decisione finale con piena
cognizione dei fatti e in modo conforme alla legge; la fase della decisione, cioè quella in cui il soggetto
competente decide definitivamente il contenuto concreto dell’atto che il procedimento aveva di mira; la fase
integrativa dell’efficacia, cioè quella in cui l’atto viene assoggettato a controlli di legittimità (per accertare se
è conforme alla legge) o di merito (se è opportuno), o ad ulteriori procedure strumentali prima di divenire
effettivamente operante. Non sempre si rinvengono tutte e quattro queste fasi, ad eccezione della terza che
deve essere sempre presente; così come non c’è procedimento se esiste solo il momento della decisione,
perché viene a mancare una sequenza concatenata e predeterminata di atti, la quale richiede almeno due atti
collegati, senza di che non esiste il minimo per aversi procedimento. L’ordinamento italiano conosce sia
ipotesi di atti adottati senza previo procedimento (es. gli ordini per fini di pubblica sicurezza; gli atti adottati
senza procedimento sono rari nel diritto pubblico mentre costituiscono la regola nel diritto privato), sia
ipotesi di atti rispetto ai quali la sequenza disegnata dalla legge è più ricca e articolata di quella base appena
descritta. Nel diritto pubblico prevale l’ipotesi di atti che possono essere adottati solo in base al
procedimento perché un atto pubblico non viene adottato nell’interesse di chi lo compie, ma nell’interesse
della collettività; è necessario dunque che prima di adottare ed eseguire l’atto possano intervenire sia coloro
che sono colpiti o avvantaggiati dall’atto sia altri soggetti il cui compito specifico è tutelare interessi pubblici
in qualche modo coinvolti in un atto. In conclusione il procedimento è la figura tipica del diritto pubblico
perché mediante questo il legislatore si preoccupa di far intervenire in tempi successivi, in vario modo, con
efficacia differenziata, soggetti che rappresentano interessi diversi prima dell’adozione ed efficacia di un
atto, e dunque il procedimento serve essenzialmente a conciliare questi diversi interessi e ad offrire garanzie
formali e stabili; questa è la ragione per cui il procedimento è raro nel diritto privato in quanto qui la
conciliazione degli interessi è rimessa alla libera determinazione dei privati. Può accadere che una specifica
fase di un procedimento sia a sua volta costruita dal legislatore anch’essa come un procedimento e questa
prende il nome di sub-procedimento (un es. si ritroverà entro il procedimento legislativo quando si parlerà
dell’iniziativa del governo, che si configura come sub-procedimento del procedimento principale su cui si
innesta). Il procedimento legislativo si articola nelle quattro fasi canoniche: iniziativa, fase preparatoria, fase
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Riassunto di Gaia Paoloni
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decisionale, fase integrativa dell’efficacia. L’iniziativa delle leggi secondo la costituzione (artt. 71, 99, 3°
comma e 121) spetta solo a 5 categorie di soggetti almeno finché una legge costituzionale non estenda tale
potere ad altri: a 50.000 elettori (iniziativa popolare), a ciascun parlamentare, al governo, a ciascuna regione,
al consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL). Questo comporta che se un soggetto diverso da
quelli legittimati invia alle camere un progetto di legge, questo fatto non produce alcuna conseguenza (se ne
ricorrono i requisiti questa richiesta viene considerata una petizione, altrimenti viene cestinata); se invece il
progetto di legge viene presentato da uno dei 5 soggetti legittimati, questo progetto viene immediatamente
comunicato all’assemblea, viene stampato e distribuito ai parlamentari, riceve un numero, viene assegnato ad
una commissione, e in tal modo dà concretamente inizio ad uno specifico procedimento legislativo. Questo
progetto di legge poi dovrebbe percorrere le tappe successive fino ad una decisione definitiva, sia essa
positiva, sia essa negativa. Dunque, la possibilità che un progetto superi la fase dell’iniziativa e cominci ad
essere discusso dipende dalla forza politica dei proponenti e dalle circostanze. In generale proseguono le
iniziative del governo e quelle fatte proprie dai gruppi parlamentari, mentre le altre hanno qualche possibilità
solo se un gruppo parlamentare se ne appropria. Quindi non tutti i soggetti legittimati hanno nei fatti un
eguale potere di iniziativa in quanto hanno tutti il diritto che la loro iniziativa venga accolta dal Parlamento,
ma non tutti allo stesso modo hanno la possibilità che la loro proposta prosegue nel cammino fino alla
decisione. Il potere di iniziativa non è uguale per tutti e cinque i soggetti, neppure in diritto. Alcuni soggetti
hanno un potere di iniziativa limitato: in passato il CNEL, per disposizione espressa della sua legge istitutiva
(art. 10 della legge 5 gennaio 1957 n. 33) poteva proporre progetti di legge solo in materia di economia e
lavoro; mentre oggi, in base alla legge 30 dicembre 1986 n. 936, il CNEL ha iniziativa senza limiti. Ci sono
poi casi rari di iniziativa obbligatoria (un certo soggetto deve presentare un determinato progetto di legge: il
governo ad esempio deve presentare ogni anno il disegno di legge che approva il bilancio preventivo e quello
consuntivo dello Stato), e casi rari di iniziativa riservata (solo un soggetto ad esclusione di ogni altro può
presentare quel certo progetto di legge: l’iniziativa della legge di bilancio spetta secondo l’opinione
dominante al solo governo). Le due caratteristiche possono esistere contemporaneamente, ma niente vieta
che siano disgiunte. Tranne le iniziative dei singoli parlamentari, tutte le altre si attuano mediante un
procedimento, il quale, rispetto al procedimento legislativo a cui dà vita, diventa un sub-procedimento di
esso. Così la legge predetermina il procedimento attraverso cui vanno raccolte le 50.000 firme di elettori
necessarie a dar vita all’iniziativa popolare (artt. 48 e 49 della legge 25 maggio 1970 n. 352). Ci occuperemo
del sub-procedimento seguito dal governo, perché esso riguarda organi costituzionali ed è il più frequente e
importante. L’iniziativa del governo si articola in tre fasi: iniziativa del singolo ministro o di un gruppo di
ministri nei confronti del Consiglio dei ministri; approvazione del Consiglio dei ministri (la decisione
sull’iniziativa governativa spetta al Consiglio dei ministri); autorizzazione del presidente della Repubblica a
presentare il disegno di legge del governo. L’atto del presidente della Repubblica si chiama autorizzazione
perché rinnova nella forma un’antica competenza del re: in passato il re poteva autorizzare come non
autorizzare, oggi il presidente della Repubblica autorizza necessariamente e serve al presidente della
Repubblica per conoscere preventivamente il disegno di legge del Governo e per metterlo in grado in tal
modo di far pervenire ad esso in modo efficace, cioè prima della presentazione al Parlamento, le sue
eventuali osservazioni o i suoi eventuali consigli. Infine, le iniziative non stanno tutte sullo stesso piano per
quanto riguarda la probabilità di essere approvate. Le iniziative che hanno maggiori probabilità di essere
approvate sono quelle del governo, per la ragione che le iniziative del governo sono quelle necessarie ad
attuare quel programma approvato dalla maggioranza parlamentare che ha dato la fiducia al governo. Le
iniziative parlamentari invece hanno minori probabilità di essere approvate perché spesso esse sono contro o
al di fuori del programma governativo e quindi della maggioranza parlamentare. Gli iniziatori non possono
presentare una richiesta generica di approvare una legge quale che sia una certa materia, e neppure possono
limitarsi ad indicare i principi guida, i criteri fondamentali a cui tale legge dovrebbe ispirarsi, ma devono
presentare un progetto di legge specificato e completo in ogni sua parte affinché questo sia valido. Questa è
la prima differenza tra la proposta di legge e la petizione e cioè la domanda che qualsiasi cittadino può
rivolgere alle camere. La petizione può essere generica, approssimativa. Seconda differenza: la petizione può
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Riassunto di Gaia Paoloni
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riguardare anche materie non legislative, cioè i cittadini possono segnalare problemi o chiedere interventi che
non abbisognano di leggi. Terza differenza: la petizione può essere avanzata da tutti i cittadini, e viene
assoggettata a specifiche regole procedurali contenute nei regolamenti parlamentari (artt. 109 reg. camera e
140-141 reg. Senato), le quali non configurano la petizione per nessun aspetto come inizio di un
procedimento legislativo. Il progetto di legge viene materialmente presentato alla presidenza di una delle due
camere. La presidenza ne dà annuncio pubblico alla assemblea, ne ordina la stampa e la distribuzione ai
parlamentari, l’assegna ad una commissione. In questo momento il presidente, salvo opposizione
dell’assemblea, decide e comunica il tipo di procedura successiva: se la proposta seguirà l’iter normale o
quello speciale. È sempre in questo momento che il presidente assegna il progetto ad una commissione
permanente o ad una speciale che egli si riserva di costituire (sempre salva l’opposizione dell’assemblea). Da
questo momento in poi è necessario descrivere due procedimenti alternativi di formazione della legge
all’interno delle camere. Il primo procedimento è quello ordinario, perché è quello che la costituzione
prevede come normale e perché è quello che deve essere scelto obbligatoriamente rispetto a certe materie e a
cui si deve ritornare quando lo richiedono alcuni soggetti, dunque è il procedimento che prevale. Entro
questo procedimento ordinario il presidente dell’assemblea assegna il progetto di legge ad una commissione
che si chiama referente, perché il suo compito è quello di riferire all’assemblea dopo avere esaminato il
progetto. Queste commissioni sono composte da parlamentari eletti dai diversi gruppi parlamentari in modo
proporzionale alla rispettiva consistenza numerica, così che entro ciascuna commissione i rapporti politici di
forza tra i diversi gruppi restano i medesimi che nel plenum. Le commissioni sono permanenti o speciali: le
prime sono quelle che sono costituite una volta per tutte con una specifica competenza (commissione affari
costituzionali, etc.), Camera e Senato hanno ciascuna molte commissioni permanenti. La permanenza si
riferisce alla commissione come istituzione e non ai singoli membri che vengono rinnovati ogni due anni. Le
commissioni permanenti sono quelle cui vengono assegnati normalmente i diversi progetti in base alle
rispettive competenze. Le seconde sono quelle la cui commissione è costituita solo ed esclusivamente per
l’esame di uno specifico progetto di legge e che dunque, terminato il suo compito, si scioglie. Anche questa
commissione speciale è composta in modo proporzionale ai gruppi. Queste commissioni referenti avendo un
numero di componenti più ristretto rispetto all’intera assemblea, permettono un esame del progetto che non
sarebbe possibile nell’assemblea ed ecco perché sono state istituite. In tal modo l’assemblea riceve un
progetto di legge dopo che alcuni parlamentari per ciascun gruppo politico lo hanno esaminato e vagliato
approfonditamente, così che essi, riferendo all’assemblea, le permettono di discutere e di decidere con
migliore cognizione di causa. A questo fine la commissione deve riferire prima per iscritto e poi oralmente,
di modo che i parlamentari prima ricevano la relazione scritta della commissione e poi ascoltano la relazione
del relatore per l’occasione nominato dalla commissione al termine dell’esame di ciascun progetto di legge.
Inoltre, se esistono più progetti di legge sulla stessa materia compito della commissione è quello di tentare di
unificarli in uno solo o di ridurli al massimo. In ogni caso la commissione non si limita ad esaminare il
progetto presentato e a dare un parere su di esso, ma ha il potere di riformulare tale progetto, così che il testo
base su cui poi l’assemblea dovrà pronunciarsi non è quello dell’originario iniziatore, ma quello presentato
dalla commissione. Dato che i membri delle commissioni appartengono tutti ai diversi gruppi politici e
quindi ai partiti presenti in Parlamento; di conseguenza le votazioni in commissione pregiudicano quelle in
aula, e cioè indicano già qual è l’orientamento dei diversi partiti, così che l’esito delle future votazioni in
aula è già in larga misura scontato. Quindi, se il testo presentato dalla commissione ha ricevuto consensi
maggioritari, diventa difficile modificarlo, e lo stesso presentatore originario, se vuole ristabilire il primitivo
testo si trova in una posizione di svantaggio, dato che deve convincere la maggioranza a cambiare parere.
Dunque, le battaglie decisive si combattono in commissione referente, e non in aula. Una volta che in
commissione si è raggiunta una solida maggioranza su un testo, è difficile poi ribaltare il risultato in aula.
Terminato il lavoro della commissione referente il progetto da essa presentato, accompagnato dalla o dalle
relazioni, passa all’assemblea, che discuterà e deciderà su di esso quando la conferenza dei presidenti di
gruppo deciderà di metterlo all’ordine del giorno. L’assemblea delibera in questo modo: discussione generale
sul progetto di legge (vengono presentati alla presidenza, per iscritto, gli emendamenti); discussione e
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

votazione dei singoli articoli separatamente (compresi gli emendamenti a ciascun articolo); votazione finale
dell’intero progetto. È necessario approvare i singoli articoli perché l’unità elementare di tutte le leggi è
l’articolo, quella parte di ogni legge che ha perlomeno un numero proprio progressivo per distinguerlo dalle
altre parti; per questa ragione il legislatore che vuole discutere e approvare per parti la legge, deve esaminare
una per una le parti elementari della legge; queste parti non ulteriormente scindibili sono per convenzione gli
articoli. Nello stesso tempo è necessario approvare tutta la legge nel suo insieme, perché alcuni che hanno
approvato determinati articoli possono non condividere altri articoli che pure hanno ottenuto la maggioranza
da parte di altri; questi altri a loro volta possono non condividere gli articoli approvati dei primi, così che, per
ragioni diverse, gli uni e gli altri non vogliano più l’intera legge. Le maggioranze differenziate sui singoli
articoli possono divenire nella votazione finale reiezione della legge (sistemi di votazione: 1) il voto palese è
espresso: o elettronicamente mediante lo schiacciamento di un pulsante, o mediante dichiarazione verbale
pronunciata pubblicamente e debitamente registrata, o mediante alzata di mano, o mediante divisione
nell’aula. Oggi il voto palese è la regola, salvo che la votazione riguardi certe materie, in quel caso, se lo
richiedono alcuni parlamentari, si deve votare in segreto. 2) Il voto segreto viene espresso: o
elettronicamente, o mediante schede, o mediante il sistema delle palle nere e bianche, per cui ogni
parlamentare depone in due urne diverse le due palle, la bianca in quella dei sì e la nera in quella dei no se
vuole approvare, e viceversa se vuole respingere). Se c’è stata approvazione (se non c’è stata il progetto cade
e se qualcuno dei soggetti legittimati vuole ripresentarlo, il procedimento non può ricominciare se non sono
trascorsi almeno sei mesi: art. 76 reg. Senato) termina la fase deliberante della prima camera (può essere
indifferentemente sia la camera dei deputati che il senato, secondo la camera a cui è stato presentato il
progetto) e si ricomincia davanti alla seconda camera, percorrendo la stessa trafila percorsa davanti alla
prima (la seconda è libera di scegliere tra procedimento ordinario e procedimento speciale,
indipendentemente dalla scelta fatta dalla prima). Giungiamo così al momento finale davanti alla seconda
camera. I risultati possibili sono tre: 1) la seconda camera approva il progetto con emendamenti rispetto al
testo approvato dalla prima; 2) la seconda camera respinge il progetto; 3) la seconda camera approva
esattamente il medesimo testo approvato dalla prima. 1) Poiché, in applicazione del principio del
bicameralismo perfetto, e dell’art. 70 della costituzione secondo cui le leggi sono approvate collettivamente
dalle 2 camere, una legge è approvata dalle camere solo quando ambedue concordano sul medesimo testo,
nel primo caso fra quelli ora ipotizzati il progetto deve tornare alla prima camera, che secondo il regolamento
si limita a riesaminare solo quelle parti emendate dalla seconda camera: art. 70 reg. Camera e art. 104 reg.
Senato. Se la prima camera emenda a sua volta il progetto già emendato dalla seconda camera, bisogna
ritornare alla seconda camera, e così all’infinito finché non si arriva alla concorde approvazione (questa
procedura si chiama navetta). Una volta raggiunto l’accordo, la camera che ha approvato per ultima trasmette
la legge al governo che a sua volta la trasmette al presidente della repubblica, aprendo così un ulteriore fase
del procedimento legislativo. 2) Nel secondo caso basta la reiezione dell’una per impedire la nascita della
legge e quel progetto di legge rifiutato da una camera decade definitamente. Se qualcuno dei legittimati
vuole ripresentarlo, deve farlo espressamente mediante una nuova iniziativa, non prima di sei mesi. 3) Nel
terzo caso la legge è approvata e si passa direttamente alla fase successiva: il presidente della camera che ha
approvato per ultima il medesimo testo già approvato dalla prima lo trasmette al presidente della repubblica
(attraverso il governo). Il procedimento speciale di approvazione della legge, alternativo rispetto a quello
ordinario, se l’assemblea è d’accordo, unifica fase referente e fase deliberante presso la commissione, la
quale viene investita del potere di approvare il progetto al posto dell’assemblea, e per questa ragione si
chiama commissione in sede deliberante. Tali commissioni possono essere permanenti o speciali e dunque
deliberante non indica una diversa commissione, ma una diversa funzione della stessa commissione. Due
regole costituzionali vanno ricordate a proposito di questo procedimento speciale. La prima vieta che
possano essere approvate in commissione alcune leggi: quelle in materia costituzionale, in materia elettorale,
le leggi di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di
bilanci sia preventivi che consuntivi. Queste leggi devono essere approvate solo con il procedimento
ordinario. La seconda regola esige che sia fatta sempre salva, fino all’approvazione finale, la possibilità che
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Riassunto di Gaia Paoloni
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la discussione e l’approvazione di un progetto di legge precedentemente assegnato alla commissione possano


ritornare all’assemblea, se lo richiedono il governo o 1/10 dell’assemblea o 1/5 della stessa commissione (art.
72 cost.). I regolamenti parlamentari prevedono una variante del procedimento speciale: l’art. 96 del reg.
Camera e l’art. 36 del reg. Senato prevedono che l’assemblea o il presidente possano rimettere a
commissioni permanenti o speciali un progetto di legge affinché queste redigano e approvino i singoli
articoli, riservando all’assemblea l’approvazione finale (commissioni redigenti). La differenza principale con
il procedimento speciale sta nel fatto che le commissioni deliberanti approvano, salvo revoca, l’intera legge,
le commissioni redigenti invece possono al più approvare i singoli articoli, ma la approvazione finale spetta
sempre all’assemblea. Terminata la fase della deliberazione della legge, inizia la fase successiva. Il
presidente della repubblica entro un mese dall’approvazione della seconda camera promulga la legge
approvata, o (per una volta) rinvia tale legge alle camere con messaggio motivato. Esaminiamo il primo caso.
La promulgazione oggi consiste in una dichiarazione solenne della legge secondo una formula sacramentale
e dà vita all’originale della legge. La promulgazione è una formula sacramentale cioè fissa e immutabile.
Essa si presenta sempre così: “la Camera dei deputati e il senato della Repubblica hanno approvato - il
presidente della repubblica promulga la seguente legge” - segue il testo della legge approvato dalle due
camere – “la presente legge, munita del sigillo dello stato, sarà inserita nella raccolta ufficiale degli atti
normativi della Repubblica Italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e farla osservare come
legge dello Stato”. La promulgazione costituisce l’originale della legge in quanto è il testo promulgato che
viene conservato come originale della legge negli archivi di Stato e viene pubblicato sulla gazzetta ufficiale e
inserito nella raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana diventando obbligatorio per tutti;
è al testo promulgato che deve rifarsi il ministro della giustizia per correggere un eventuale pubblicazione
erronea; è al testo promulgato, conservato negli archivi dello Stato e di cui chiede copia autentica, che si rifà
il cittadino il quale vuole opporre il vero testo a quello erroneamente pubblicato. Se c’è un errore nella stessa
promulgazione, è solo lo stesso presidente della repubblica che può correggerla. La Corte costituzionale
potrebbe anche dichiarare illegittima una legge perché il testo promulgato non corrisponde a quello
realmente approvato dalle camere, però solo il presidente della repubblica con una nuova promulgazione
potrebbe far entrare in vigore il vero testo. La promulgazione è la dichiarazione solenne ufficiale della legge.
Generalmente colui che vuole un atto giuridico dichiara la sua volontà agli altri, in modo conoscibile. Però
non è escluso che i due momenti siano separati: così io posso volere e incaricare un altro di dichiarare
all’esterno questa mia volontà. Il diritto, specie il diritto pubblico, impone di separare il momento della
decisione dal momento della dichiarazione. Naturalmente anche la decisione deve essere manifestata. Così la
decisione di ciascuna camera è talmente manifesta che in genere è pubblica, viene proclamata dal presidente
dell’assemblea, ne viene fatto processo verbale, può essere conosciuta attraverso i normali mezzi di
informazione. Però queste manifestazioni delle decisioni adottate non costituiscono ancora dichiarazioni di
esse, vengono considerate ancora un fatto. Le ragioni di questo fatto possono essere varie: dare particolare
solennità e autorità all’atto, facendolo dichiarare all’esterno da un soggetto autorevole, anche se esso si limita
a ripetere decisioni sostantive adottate da altri; permettere attraverso questo meccanismo un controllo
preventivo dell’atto; garantire la certezza dei rapporti attraverso una dichiarazione che viene posta come
incontrovertibile, così che chiunque agisce sulla sua base è certo che domani non gli potrà essere opposta una
presunta volontà, diversa da quella dichiarata. Dunque, la dichiarazione proviene dal presidente della
repubblica, capo dello stato, per sottolineare che la legge proviene da tutto lo stato e quindi per dare ad essa
maggiore solennità; la promulgazione permette al capo dello Stato di controllare preventivamente la legge
già approvata, se del caso rinviandola; la promulgazione garantisce al cittadino che il testo promulgato è
l’unico al quale egli deve obbedire. Questi risultati potevano essere raggiunti anche attribuendo questa
funzione del dichiarare la legge ad un soggetto diverso dal presidente della repubblica. Però un atto
equivalente alla promulgazione doveva comunque esserci. La nostra costituzione ha attribuito questa
funzione e il relativo atto al presidente della repubblica e lo ha chiamato promulgazione. Così si spiega
perché la data della legge è quella del giorno della promulgazione. La legge esiste ufficialmente con la
promulgazione. Il presidente della repubblica anziché promulgare, può rinviare la legge (per qualsiasi
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

motivo, sia di legittimità, sia di merito) approvata alle 2 camere con messaggio motivato. Poiché il presidente
della repubblica non deve schierarsi politicamente a favore di una parte contro l’altra, egli non potrà rinviare
per motivi di merito se non in casi eccezionali. Poiché esiste la Corte costituzionale che ha il compito
istituzionale di controllare la legittimità delle leggi, il presidente della repubblica rinvierà per motivi di
illegittimità solo in casi assolutamente eccezionali o quando è prevedibile che la corte non potrà sanare una
probabile incostituzionalità. In ogni caso i rinvii hanno da essere rari se raffrontati all’insieme della
legislazione, perché altrimenti il presidente della repubblica diverrebbe inevitabilmente partecipe della
funzione legislativa, contro la volontà della costituzione, e diverrebbe un soggetto politico paragonabile a
tutti gli altri. Le camere di fronte al rinvio possono adottare tre posizioni: lasciar cadere di fatto la legge;
possono riapprovare la legge rinviata così com’è; possono apportare emendamenti. In questi due ultimi casi
la legge così approvata dalle due camere deve essere promulgata dal presidente della repubblica entro trenta
giorni dall’approvazione della seconda camera, così come impone espressamente la costituzione (art. 74). Il
rinvio del presidente della repubblica si configura come veto sospensivo, e cioè come facoltà di bloccare solo
temporaneamente l’approvazione di una legge, e come richiesta di riesame. Dopo la promulgazione segue la
pubblicazione della legge che è la stampa del testo promulgato. È evidente che la legge per essere obbedita,
deve essere conosciuta o conoscibile ed è importante per l’ordinamento imporre e garantire l’osservanza
delle leggi senza che i soggetti obbligati possano giustificarsi della loro disobbedienza con l’ignoranza della
legge. Così attraverso la pubblicazione legale, l’atto viene presunto come conosciuto con scarsissime
possibilità di prova contraria nei casi espressamente previsti dallo stesso ordinamento. L’art. 73 cost. dispone
che le leggi entrano in vigore 15 dopo la pubblicazione (vacatio legis), salvo che la stessa legge disponga
rispetto a sé stessa un termine diverso, maggiore o minore. In Italia, rispetto alle leggi e a tutti gli atti dello
Stato-soggetto, la pubblicazione legale che produce il risultato appena detto è costituita dalla pubblicazione
sulla gazzetta ufficiale. La gazzetta ufficiale è un giornale a stampa quasi quotidiano, pubblicato dal
ministero della Giustizia, sul quale si pubblicano tutte le leggi e i principali decreti del presidente della
repubblica, del presidente del consiglio di ministri, dei ministri, etc. La raccolta ufficiale degli atti normativi
della repubblica italiana è una pubblicazione a stampa sempre a cura del ministero della giustizia che
raccoglie anno per anno le leggi e i principali decreti della repubblica. La costituzione non dispone un
termine per la pubblicazione delle leggi e dice solo nell’art. 73 che essa deve avvenire subito dopo la
promulgazione, mentre oggi l’art. 12 della l. 11 dicembre 1984 n. 839 ha stabilito che la pubblicazione deve
avvenire non oltre 30 giorni dalla promulgazione. Questo spiega il fenomeno per cui, siccome la data della
legge è quella della promulgazione, ma il numero è quello progressivo della pubblicazione, può accadere che
una legge promulgata prima, e quindi con una data anteriore, abbia un numero posteriore ad altra legge
promulgata dopo. La legge del parlamento, come tutti gli altri atti giuridici, è subordinata alla costituzione ed
alle leggi costituzionali. La legge del Parlamento è in secondo luogo subordinata all’ordinamento
comunitario. La legge del parlamento, in forza del nuovo articolo 117, deve rispettare gli obblighi
internazionali, il che vuol dire che una comune legge non può derogare o violare un trattato internazionale ed
a tal fine ci vuole una specifica legge costituzionale che espressamente manifesti questa volontà dello Stato
italiano; va chiarito che gli obblighi internazionali capaci di vincolare le leggi ordinarie del Parlamento sono
soltanto quelli adottati secondo le regole contenute nell’art. 80 della cost., cioè gli obblighi derivanti da quei
trattati ratificati dal presidente della repubblica sulla base di una specifica legge di autorizzazione del
parlamento: non costituiscono vincolo per il Parlamento quegli accordi in forma semplificata che pure sono
possibili secondo il diritto internazionale, ma che non seguono la procedura di approvazione dei trattati
prevista per il nostro ordinamento dall’art. 80 nei casi indicati da questo stesso articolo; in questo modo, in
forza della nuova disciplina introdotta dall’art. 117, come modificato dalla l. cost. 3/2001, si è determinata
un’asimmetria tra modo di approvazione dei trattati previsti dall’art. 80 della cost., e modo di sottrazione agli
obblighi internazionali già assunti con il trattato: nel primo caso, per assumere un obbligo internazionale,
basta una legge ordinaria, nel secondo diventa necessario una legge costituzionale. La legge del parlamento,
in base al nuovo articolo 117, non ha più una competenza generale, ma una competenza numerata: non può
legiferare su qualunque oggetto o materia, salvo quelli riservati ad altri soggetti, ma ha il potere di legiferare
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

solo sugli oggetti e nelle materie riservate espressamente allo stato, mentre oggi la competenza legislativa
generale spetta alle regioni. Se la legge del Parlamento si mantiene entro la sua competenza, può abrogare,
sospendere, derogare, o modificare qualunque altra legge anteriore e non può essere abrogata, sospesa,
derogata o modificata se non da una successiva legge o con forza di legge: secondo l’uso nel primo caso si
dirà che la legge ha forza di legge attiva, nel secondo passiva. Tra forza attiva e forza passiva la distinzione
va tenuta ferma perché in alcuni casi, tassativi, una legge può possedere la forza attiva ma non quella passiva
(es. una legge che autorizza espressamente una fonte a modificare sé stessa); reciprocamente una legge può
possedere la forza passiva ma non quella attiva (la legge di bilancio non può essere modificata se non da
legge o atto avente forza di legge successivo). Nonostante queste eccezioni, le regole sulla forza di legge
restano però valide in generale, perché esse si applicano immediatamente in tutti i casi possibili, salvi quei
pochi che fanno eccezione. Gli atti con forza di legge sono atti normativi che, pur non essendo leggi del
parlamento, hanno la medesima efficacia delle leggi. Che tali atti esistano ce lo dice la costituzione, sia
quando negli artt. 76 e 77 prevede e disciplina il decreto legislativo e il decreto-legge e li qualifica atti con
forza di legge; sia quando nell’art. 134 dispone che la Corte costituzionale giudica della legittimità
costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello stato. Dunque, ci sono atti che non sono leggi
formali, cioè deliberati dal Parlamento, ai quali però si applicano tutte le considerazioni e le conseguenze
tecniche o giuridiche delle leggi. Nell’art. 77 la costituzione dispone: il governo non può, senza delegazione
delle camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Siccome nello stesso art. 77 la
costituzione aggiunge che il governo può adottare i decreti-legge, la regola costituzionale prima citata è mal
formulata, ma il suo significato è chiaro: al di fuori della previsione costituzionale (oltre il decreto-legge e il
decreto legislativo) il governo non può adottare atti con forza di legge. Poiché questo limite è contenuto in
costituzione, è da ammettersi che tale limite possa essere mutato da leggi costituzionali, così che la regola
contenuta nel primo comma citato dell’art. 77 va letta come se dicesse: il governo non può adottare atti con
un valore di legge al di fuori delle previsioni di ordine costituzionale. Questo limite vale anche per gli altri
organi costituzionali, ai quali la costituzione non attribuisce alcun atto con forza di legge, e vale per tutti gli
altri organi statali non costituzionali. L’art. 70 della costituzione stabilisce che la funzione legislativa è
esercitata collettivamente dalle due camere. Dunque, l’art. 70 attribuisce un potere, quello legislativo e solo il
Parlamento a livello nazionale approva le leggi, cioè gli atti dotati di quella particolare forza ed efficacia
proprio delle leggi. Poiché la costituzione italiana è rigida, solo una disposizione di eguale forza può
derogare a questa norma costituzionale, e quindi o una regola contenuta nella stessa costituzione o regole
contenute in leggi costituzionali. Nessun altro atto può creare atti con forza di legge oltre quelli previsti dalla
costituzione o da leggi costituzionali. Ci sono poi atti che non hanno propriamente la forza della legge,
perché non possono sostituirsi alle leggi del parlamento, ma condividono con il Parlamento la particolarità di
essere subordinati solo alla costituzione e alle leggi con forza costituzionale, così che, in questo senso,
anch’essi hanno forza di legge. La precisazione torna utile per individuare gli atti con forza di legge di cui
parla la costituzione nell’art. 134 quando elenca le competenze della Corte costituzionale. Ebbene gli atti
sottoponibili al giudizio della corte sono quelli che possono sostituirsi alle leggi del parlamento, ma sono
anche quelli che, pur non possedendo tale qualità, sono, nella previsione della costituzione e delle leggi
costituzionali che li legittimano, subordinati solo alla costituzione e alle leggi con forza costituzionale, allo
stesso modo delle leggi del parlamento. Una legge molto particolare è quella di amnistia e indulto, prevista
dall’art. 79 della costituzione nel testo modificato dalla l. cost. n. 1 del 1992. Amnistia e indulto sono
provvedimenti generali di clemenza, mediante i quali, per reati già commessi, o viene estinto il reato o viene
diminuita o tolta la pena. La grazia è un provvedimento di clemenza individuale, e viene concessa dal
presidente della repubblica. L’amnistia e l’indulto, che sono provvedimenti generali, vengono concessi
mediante una legge approvata con l’altissima maggioranza dei due/terzi di ciascuna camera (prima della
riforma del 1992 l’amnistia e l’indulto venivano concessi mediante un decreto emanato dal presidente della
repubblica sulla base di una legge che la costituzione chiamava di delegazione).

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

9) Il decreto-legge: esaminiamo ora i due casi certi di atti con forza di legge previsti dalla stessa
costituzione. L’art. 77 disciplina così il decreto-legge: “quando, in casi straordinari di necessità e urgenza, il
governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso
presentarli per la conversione alle camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si
riuniscono entro 5 giorni. I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro 60
giorni dalla loro pubblicazione. Le camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla
base dei decreti non convertiti”. La dizione decreto-legge non è prevista dalla costituzione, ma si tratta del
nome tradizionale che da decenni si trovava nelle pubblicazioni legali e che oggi viene imposto dall’art. 14
della legge 400/88. La parola decreto è il nome di quasi tutti gli atti autoritativi del potere esecutivo: essa
designa una forma che può contenere i più svariati contenuti. Il decreto è una forma astratta che può ricoprire
atti molto diversi per quanto riguarda sia il contenuto che l’efficacia. Ecco perché l’atto del governo previsto
dall’art. 77 della costituzione, che ha forza di legge, viene rivestito dalla forma del decreto. Viene però
chiamato decreto-legge per unire in un sol nome sia la forma che il contenuto. Questo decreto-legge spetta al
governo, cioè al Consiglio dei ministri. Va fatta distinzione tra adozione del decreto-legge, cioè
deliberazione sul suo contenuto, che spetta al Consiglio dei ministri, ed emanazione del decreto-legge, cioè
sua dichiarazione pubblica e ufficiale, che viene fatta dal presidente della Repubblica con suo decreto.
L’emanazione del capo dello Stato è un atto analogo alla promulgazione delle leggi, ha gli stessi scopi e offre
al capo dello Stato poteri analoghi. Il decreto-legge viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e inserito nella
raccolta, ed entra subito in vigore, conformemente alla sua natura. La costituzione subordina l’esercizio di
questo potere del governo al sussistere di una situazione (di urgenza) tale per cui il governo ha necessità di
intervenire con provvedimenti non previsti da precedenti leggi e però non può attendere l’intervento del
Parlamento, pena il prodursi di danni irreparabili. Unico giudice della sussistenza delle condizioni di
necessità e urgenza fino al 1995 è stato solo il Parlamento in sede di conversione. Per questa ragione, poiché
il governo gode di una previa maggioranza che gli ha concesso la fiducia, e la maggioranza normalmente
segue la direzione del governo, è più che probabile che la maggioranza parlamentare si schieri col suo
governo riconoscendo l’esistenza della necessità e urgenza anche quando al rigore tali presupposti non
ricorrono. Ecco perché i decreti-legge sono sempre più frequenti, quando invece i provvedimenti potrebbero
essere adottati dal Parlamento con legge ordinaria. La ragione politica principale del ricorso frequente al
decreto-legge sta nel fatto che in tal modo il governo crea un fatto compiuto di fronte al quale il Parlamento
si trova nella situazione svantaggiosa di chi deve distruggere quanto è stato già fatto. Inoltre, il procedimento
legislativo può durare quanto si vuole, mentre la legge di conversione deve essere approvata entro 60 giorni,
cosicché di necessità i tempi della discussione in Parlamento sono più brevi. Per questa ragione ogni volta
che i dirigenti del governo e dei partiti di minoranza non sono sicuri dei propri parlamentari e temono
resistenze accanite, essi ricorrono al decreto-legge per mettere i parlamentari di fronte al fatto compiuto e in
sostanza ricattarli o diminuire i tempi e le possibilità del dissenso. A rendere insostenibile la situazione è
intervenuta la pratica della reiterazione: il governo, scaduti 60 giorni senza che il decreto-legge venisse
convertito, ne deliberava un secondo, dal contenuto identico, e poi un ennesimo, senza limiti. Questa pratica
incostituzionale è durata per anni, fino a che è intervenuta la Corte costituzionale con una sentenza in materia
(24 ottobre 1996, n. 360). La Corte conferma il principio enunciato nella sentenza n. 84 del 1996, secondo
cui la questione sollevata nei confronti di un decreto-legge o di singole disposizioni di un decreto-legge non
convertito si trasferisce automaticamente nei confronti dei successivi decreti-legge reiterati, purché vi sia
identità sostanziale di contenuto normativo. La Corte sostiene che la reiterazione di un decreto-legge è
ammissibile purché al momento della reiterazione sussistano ragioni attuali di necessità ed urgenza. Quindi il
primo decreto-legge può essere dichiarato incostituzionale se non sussistono effettivamente ragioni di
necessità ed urgenza. La Corte costituzionale per anni aveva sostenuto che la legge di conversione sanava
l’eventuale vizio della originaria mancanza della necessità e urgenza nel decreto-legge. Poi con la sentenza n.
171 del 2007 ha riconosciuto che, se il decreto-legge originario era incostituzionale per mancanza di ogni
necessità e urgenza, tale resta anche la successiva legge di conversione: solo in casi evidenti nei quali non è
possibile rinvenire alcun requisito di necessità e urgenza la Corte potrà sindacare un tale vizio. Sempre in
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

tema di decreto-legge la Corte lo ha reso un possibile oggetto di conflitti di attribuzione tra i poteri dello
Stato, con la limitazione che ciò è possibile solo quando non esiste altro strumento tempestivo ed efficace per
difendere una sfera di competenza costituzionalmente attribuita ad un potere dello Stato. Col decreto-legge il
governo esercita un potere che di regola non ha, cioè di modificare precedenti leggi o disciplinare una
materia coperta da riserva di legge. Il governo usa questo strumento quando non può esercitare i normali
poteri a lui conferiti dalle leggi esistenti. Il decreto-legge entra subito in vigore nel momento stesso della
pubblicazione, e deve essere obbedito da tutti fino a che: a) o il Parlamento lo abbia convertito in legge, in
quel caso la legge di conversione sostituisce il decreto-legge e diventa essa obbligatoria al suo posto; b) o il
Parlamento abbia rifiutato la conversione; c) o siano trascorsi 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale senza che il Parlamento si sia pronunciato. Nei casi b) e c) il decreto-legge decade fin dal momento
in cui è stato pubblicato e di conseguenza tutti gli atti compiuti sul suo fondamento diventano
automaticamente invalidi. Però il Parlamento, consapevole di questa conseguenza, può approvare norme
specifiche che regolano questi casi (quindi o convalidano semplicemente gli atti giuridici compiuti sulla base
di un decreto-legge non convertito, o li disciplinano in modo diverso rispetto al decreto-legge non convertito
senza però farli cadere nel nulla). Affinché la normativa del decreto-legge diventi definitiva e valida, è
necessario che il Parlamento entro 60 giorni converta in legge il decreto-legge; cioè accolga il contenuto del
decreto-legge facendolo diventare contenuto di una sua legge, cosicché da quel momento in poi l’atto che
obbliga non è più il vecchio decreto-legge, ma la legge del Parlamento dal medesimo contenuto che l’ha
assorbito. La legge di conversione consiste in un solo articolo che converte in legge un precedente decreto-
legge e contiene solo quelle parti nuove che il Parlamento aggiunge e/o sostituisce alle vecchie. Dunque, per
ricostruire l’intero testo bisogna fare un collage tra le parti del decreto-legge conservate e le parti della legge
di conversione sostitutive e integrative. Questo collage oggi, attraverso l’art. 5 della legge 839/84, viene fatto
direttamente in Gazzetta Ufficiale. L’art. 15 della legge 400/88 nel quinto comma stabilisce che le modifiche
eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a
quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente.
Questo stesso articolo pretende di porre limiti alla possibilità di adottare decreti-legge: mediante decreti-
legge non si può “a) conferire deleghe legislative ai sensi dell’art. 76 della costituzione; b) provvedere nelle
materie indicate nell’art. 72, quarto comma, della costituzione; c) rinnovare le disposizioni di decreti-legge
dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due camere; d) regolare i rapporti
giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti; e) ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate
illegittime dalla Corte costituzionale per vizi non attinenti al procedimento”. Dato che questi divieti sono
contenuti in una legge ordinaria, e siccome il decreto-legge e la relativa legge di conversione hanno forza di
legge, cioè possono abrogare o derogare a precedenti leggi, di per sé questi divieti non hanno molta efficacia
per il legislatore futuro. Però alcuni di essi non sono che esplicitazione di divieti già contenuti in
costituzione: anche senza la l. 400 i divieti di cui alle lettere a), c) d), ed e) erano già vigenti in forza di
costituzione. Diverso è il divieto contenuto nella lettera b): da tempo la dottrina sosteneva che alcuni degli
oggetti previsti dall’art. 72 Cost. non potevano essere disciplinati con decreto-legge: es. il bilancio e la
delegazione legislativa. Mentre è difficile sostenere che non possono essere disciplinati con il decreto-legge
gli oggetti “materia elettorale”, “ratifica di trattati internazionali”, “questioni materialmente costituzionali”.
Con l’entrata in vigore della l. cost. 3/2001 si apre una questione nuova e difficile. Poiché il Parlamento ha
competenza legislativa soltanto nelle materie indicate nel nuovo articolo 117, si deve concludere che anche il
decreto-legge, deliberato dal governo e poi convertito dalle camere, può intervenire solo in quelle stesse
materie. La costituzione non prevede decreti-legge delle regioni nelle materie regionali e quindi nel caso in
cui ci sia bisogno sarà il consiglio regionale, convocato in via d’urgenza, ad approvare la legge necessaria,
usando tutti quegli accorgimenti regolamentari che permettono al Consiglio di decidere in tempi brevissimi.

10) Il decreto legislativo: l’art. 76 cost. recita: l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato
al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e progetti
definiti. Col decreto-legge l’iniziativa parte dal governo e successivamente interviene il parlamento, col

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

decreto legislativo prima decide il parlamento, con la legge di delegazione, e successivamente interviene il
governo, che esercita il potere a lui delegato. In seguito alla riforma introdotta dalla l. cost. 3/2001 il
Parlamento non ha più una competenza legislativa generale, ma solo nelle materie e nei casi espressamente
indicati nell’art. 117. Dunque, l’art. 76 va integrato con il nuovo art. 117, aggiungendo mentalmente, dopo le
parole “l’esercizio della funzione legislativa”, la clausola “spettante al parlamento”, affinché sia chiaro che il
Parlamento può delegare il suo potere legislativo, ma non certo quello spettante alle regioni. La legge di
delegazione, quanto al procedimento e alla forma esteriore, è identica ad una normale legge; quanto al
contenuto la sua caratteristica principale è di essere non operativa: le regole contenute nella legge di
delegazione sono formulate in modo così generico che è impossibile applicarle. Le regole che verranno
applicate sono quelle approvate dal governo uniformandosi ai criteri dettati dal Parlamento con la legge di
delegazione. La legge di delegazione per costituzione deve contenere tre elementi (altrimenti è
incostituzionale): a) oggetto definito; b) principi e criteri direttivi che il governo dovrà seguire nel formulare
le regole da applicare; c) termine, cioè una data fissa o determinabile oggettivamente. Inoltre, la legge di
delegazione può porre vincoli ulteriori al governo: è frequente che il Parlamento nel delegare il governo gli
imponga di sentire il parere di una commissione parlamentare prima di approvare definitivamente il decreto
legislativo. Oggi la legge n. 400/88 nell’art. 14 impone di chiamare ufficialmente con il nome di decreto
legislativo quest’atto. In passato non era così: l’atto veniva emanato con un decreto, e a volte non era facile
capire se si trattasse di un decreto con forza di legge o un decreto senza forza di legge. Anche il decreto
legislativo, come il decreto-legge, oggi, a differenza di ieri, sulla base della l. 400, non è più sottoposto al
controllo della Corte dei conti. Chi delibera, cioè decide sul contenuto del decreto legislativo, è il governo
con il quale si intende il Consiglio dei ministri. L’emanazione del decreto legislativo spetta al capo dello
stato, e valgono per essa le stesse considerazioni svolte a proposito dell’emanazione del decreto-legge e della
promulgazione delle leggi. Il decreto legislativo, come tutti gli atti normativi deve essere pubblicato in
gazzetta ufficiale e inserito nella raccolta ufficiale, entrando in vigore dopo 15 giorni dalla pubblicazione,
salvo l’eventuale diverso termine da esso stabilito. La parola delegazione viene qui usata nel suo significato
giuridico per cui si intende un soggetto che trasferisce ad un altro solo l’esercizio di un proprio potere di cui
resta pienamente titolare. Si ritiene, in tema di delegazione legislativa, che questa definizione comporti due
conseguenze: il delegante può revocare in ogni momento la delega, anche prima che essa venga esercitata (il
parlamento può revocare in ogni momento la delega, disciplinando esso stesso la materia delegata); la delega
legislativa si esaurisce con il suo esercizio, così che il potere delegato una volta esercitato non spetta più al
governo, ma può essere nuovamente esercitato solo dal Parlamento che non ne ha mai perduto la titolarità (il
governo non può ritornare con un secondo decreto legislativo sulla materia delegata dopo averla già
disciplinata con decreto legislativo). Però niente vieta che il governo, data una materia delegata molto
complessa, la divida in più parti, e disciplini separatamente tali parti con più decreti legislativi (art. 14, 3°
comma della l. 400/88). Il governo, con i diversi decreti, regola sempre parti diverse e non ritorna su quanto
già deciso. Il decreto legislativo ha forza di legge: le sue regole producono tutti gli effetti propri delle leggi.
Però il decreto legislativo, proprio perché è ammissibile solo a seguito di legge di delegazione ed è valido
solo se conforme a tale legge, presenta particolarità uniche: non è subordinato solo alla costituzione e alle
leggi costituzionali, come le altre leggi, ma anche alla legge di delegazione, cioè ad un’altra legge ordinaria,
restando pari a tutte le altre. La regola generale è: ci sono limiti alle leggi e agli atti aventi forza di legge non
direttamente posti dalla costituzione o da altre leggi costituzionali, però tali limiti sono pur sempre fondati e
sono ammissibili solo se fondati in Costituzione, implicitamente ed esplicitamente, e quindi sono sempre
limiti costituzionali sia pure indiretti. Di conseguenza tutte le leggi e gli atti aventi forza di legge sono pari
ed uguali, salvi quei limiti particolari diretti o indiretti posti dalla costituzione e dalle leggi costituzionali
rispetto a questo o a quell’atto particolare avente forza di legge. Il decreto legislativo non elimina la legge di
delegazione, ma si accompagna necessariamente ad essa, così che legge di delegazione e decreto legislativo
vigono sempre insieme per due motivi: a) il decreto legislativo deve essere non contrario ai criteri e principi
direttivi della legge di delegazione: poiché non esiste alcun giudizio definitivo di accertamento di tale
conformità, è sempre possibile, finché il decreto legislativo è in vigore, sostenere che esso è contrario alla
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

legge di delega ed è sempre possibile, fino alla fine della sua vigenza, provocare un giudizio di
costituzionalità su di esso che eventualmente lo dichiari illegittimo per constatata difformità rispetto alla
legge di delegazione. La legge di delegazione si accompagna al decreto legislativo perché la legge di
delegazione viene sempre tacitamente presupposta come fondamento delle regole da applicare, così che
esiste sempre la possibilità che questo stare dietro nascostamente diventi uno stare dietro apertamente. b) La
legge di delegazione accompagna il decreto legislativo in un altro senso: ogni volta che le regole del decreto
legislativo provocano dubbi interpretativi, è lecito ricorrere ai principi della legge di delegazione per
risolvere tali dubbi. La legge di delegazione funziona come criterio prioritario per l’interpretazione del
decreto legislativo. Però, una volta accertato che la regola del decreto legislativo non è contraria alla legge di
delegazione, una volta interpretata con sicurezza tale regola, dal punto di vista operativo i giudici e i cittadini
applicano la regola scritta nel decreto legislativo. Il decreto legislativo viene formulato dal governo in modo
che esso sia operativo da solo, cioè sia scritto in modo tale che esso sia autosufficiente. Dunque, potrebbe
applicarsi tranquillamente indipendentemente dalla legge di delegazione. All’inverso la legge di delegazione
viene formulata in modo tale che essa, da sola, non è operativa, è troppo generica. Quindi il testo normativo
che viene applicato concretamente è sempre quello del decreto legislativo: la legge di delegazione serve solo
a legittimare ed eventualmente ad interpretare tale testo. Viceversa, il regolamento esecutivo, se il legislatore
e il governo si conformano alle regole su questa materia, si caratterizza per questo: di essere un testo
normativo in autonomo che, da solo, non potrebbe applicarsi; si applica e diventa operativo solo in unione
con le regole della legge a cui si ricollega esplicitamente e di cui è esecuzione. Qual è il giudice del decreto
legislativo non conforme alla legge di delegazione? La Corte costituzionale o i giudici ordinari? La corte
giudica sulla conformità delle leggi e degli atti aventi forza di legge rispetto alla costituzione e alle leggi
costituzionali, mentre il decreto legislativo qui ipotizzato è contrario ad una legge ordinaria. Poiché questa
violazione si risolve indirettamente in una violazione della stessa costituzione (dell’art. 76), è opinione
pacifica che tale decreto legislativo venga giudicato dalla Corte costituzionale e non dai giudici ordinari.
Quanto alle ragioni e ai casi in cui è ammissibile la delegazione, la costituzione non dispone nulla e quindi
può essere oggetto di delega qualunque materia che il parlamento ritenga opportuno devolvere al governo.
Ragioni abbastanza ovvie impediscono che il Parlamento possa delegare poteri che non avrebbero più senso
se non esercitati direttamente da lui. Il parlamento ricorre alla delega legislativa soprattutto quando dovrebbe
approvare testi normativi di notevole complessità tecnica per i quali non è attrezzato e che impegnerebbero
troppo del suo tempo, impedendogli di dedicarsi ad altre questioni. Il governo invece è più libero, perché ha
al suo servizio tutto l’apparato amministrativo dello stato o può nominare commissioni di esperti, così che
tutto il lavoro preparatorio e di stesura viene svolto da questi, e il governo si riserva l’approvazione finale. La
ragione vera della delegazione legislativa così com’è configurata in costituzione è: permettere una maggiore
concentrazione del potere e scavalcare la discussione parlamentare pubblica, accrescendo i poteri di guida e
l’autorità del potere esecutivo rispetto a quello legislativo, e quindi accrescendo ora i poteri del governo, cioè
di un organo molto più ristretto e centralizzato, capo dell’apparato amministrativo, immediatamente e
direttamente legato alle forze dominanti, che lavora coperto dal segreto; ora i poteri dello stesso apparato
burocratico, che quasi sempre prepara ed elabora il contenuto del decreto che poi sarà provato dal consiglio
di ministri. Una forma particolare di delega molto tipizzata è quella che dà vita ai testi unici: quei complessi
normativi così ufficialmente denominati (testo unico: contenuto possibile di un decreto) con i quali il
governo, su delega del parlamento, raccoglie in modo organico e sistematico tutte le precedenti leggi via via
entrate in vigore rispetto ad una materia unitaria. In tal modo, di fronte ad una situazione di confusione ed
incertezza, Parlamento e governo pongono rimedio a questa situazione mediante un atto che riordina con
chiarezza tutta la materia. La delega del Parlamento può essere molto ristretta, così che il governo deve
limitarsi a riordinare sistematicamente le vecchie norme senza modificarle, o abbastanza ampia da consentire
al governo anche profondi mutamenti. Se la legge di delegazione è conforme all’art. 76, questa possibilità di
variazione non ha nulla di incostituzionale. La particolarità di questa forma di delegazione sta nell’oggetto
della delega e quindi nell’implicito criterio che l’oggetto automaticamente impone al governo. Dunque, il
parlamento può limitarsi ad autorizzare il governo a raccogliere in un testo unico le precedenti norme sulla
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

materia x, senza indicare i criteri e i principi direttivi, perché questi sono già implicitamente contenuti
nell’oggetto delegato. Non bisogna confondere i testi unici, che sono decreti legislativi, con le raccolte
sistematiche curate da privati o dallo stesso governo senza alcuna delegazione. Quest’ultimi sono atti senza
alcuna efficacia normativa che non sostituiscono in nessun caso i veri atti normativi che essi si limitano a
diffondere nel modo che ai curatori pare più adeguato.

11) Il referendum abrogativo: la costituzione prevede più tipi di referendum, cioè di votazioni popolari su
questioni determinate da risolvere con un sì o un no. Oltre quello abrogativo, esiste quello approvativo in
sede di procedimento di legge di revisione costituzionale o legge costituzionale, quello relativo alla
modificazione territoriale delle regioni, quelli previsti dalla costituzione e dagli statuti regionali sulle leggi e
gli atti amministrativi delle regioni. Attraverso il referendum abrogativo il corpo elettorale può dire solo se
intende abrogare una legge già esistente o intende mantenerla in vita, ma non può né proporre una nuova
legge né approvare un progetto di legge sostitutivo della legge eventualmente abrogata. La costituzione (art.
75) dispone che il referendum abrogativo può essere chiesto solo da 500.000 elettori o da 5 consigli
regionali; che può riguardare solo le leggi del Parlamento o atti aventi forza di legge, o parti di esse; non può
riguardare le leggi tributarie di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati
internazionali; il referendum è valido solo se hanno votato la maggioranza assoluta degli aventi diritto e cioè
la metà più uno dell’intero corpo elettorale. L’istituto del referendum è rimasto a lungo inapplicabile a causa
dell’inerzia del Parlamento che non approvava la legge necessaria per la pratica operatività dell’istituto. Solo
nel 1970 tale legge è stata approvata. Perché da un lato i partiti di sinistra non si sono mai battuti con grande
convinzione per l’attuazione del referendum, sospettosi di ogni meccanismo di diretto appello al popolo che,
sotto veste democratica, scavalca l’organizzazione dei partiti proletari e la loro funzione di guida e di
chiarificazione, e dunque rischia di risospingere la massa nella situazione di coacervo di individui isolati;
dall’altro la democrazia cristiana, una volta divenuta partito dominante, non ha avuto più interesse al
referendum e ha temuto che potesse tornare a vantaggio dei suoi oppositori. La legge che regola tutti i
referendum statali è la l. 25 maggio 1970 n. 352 (modificata dalla legge 22 maggio 1978 n. 199). Essa attua
l’art. 75 ponendo dei limiti: la raccolta delle firme non può durare oltre 3 mesi (art. 28); non può essere
depositata richiesta di referendum nell’anno anteriore alla scadenza di una delle 2 camere e ne sei mesi
successivi alla data di convocazione dei comizi elettorali per l’elezione di una delle camere medesime (art.
31); il referendum si può effettuare solo in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno (art. 34):
trattandosi di una disposizione di legge ordinaria, nulla vieta che una successiva legge operi una deroga in un
caso concreto; nel caso di scioglimento anticipato delle camere il referendum già indetto viene sospeso per
un anno, i termini cominciano a decorrere di nuovo dal 365° giorno successivo alla data delle elezioni (art.
34); nel caso in cui il risultato del referendum sia contrario all’abrogazione non può proporsi richiesta di
referendum per l’abrogazione della medesima legge prima che siano trascorsi 5 anni (art. 38); se il
Parlamento, prima dello svolgimento del referendum, approva una legge che modifica quella su cui era stato
chiesto il referendum, questo non ha più luogo (art. 39). La Corte costituzionale, con la sentenza 7 febbraio
1978 n. 16, ha deciso che i limiti di materia al referendum non sono solo quelli posti dall’art. 75 cost., ma
anche che la Corte si riserva discrezionalmente di decidere essa quando un referendum è ammissibile e
quando no. I referendum, quando sono normali strumenti di governo, hanno senso compiuto in un
ordinamento che tende alla democrazia diretta, cioè a demandare le scelte più importanti alla diretta volontà
del corpo elettorale, così che gli organi rappresentativi devono eseguire tali decisioni; il governo
parlamentare è una forma tipica della democrazia rappresentativa, in cui il corpo elettorale ha la funzione di
selezionare gli uomini i quali per una legislatura decideranno con legge tutte le questioni essenziali, e
manterranno col corpo elettorale solo un rapporto indiretto, di reciproca e mutua influenza politica mediata
dai partiti politici. Però il costituente volle egualmente il referendum perché lo ritenne un utile correttivo
delle possibili degenerazioni del sistema parlamentare che ha la tendenza organica alla burocratizzazione
della vita politica e all’elitarismo dei gruppi dirigenti, a causa dei quali può sempre generarsi e ricrearsi una
profonda frattura tra macchina dei partiti e reale corpo sociale. La pratica ha dimostrato la polivalenza

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

dell’istituto che può essere usato in molti modi diversi: a) talvolta è lo strumento attraverso cui movimenti
non necessariamente politici riescono ad entrare nel gioco politico con efficacia ed a costringere il
Parlamento a modificare leggi che la maggioranza spontaneamente non avrebbe modificato; b) altre volte è
lo strumento delle minoranze politiche che, appellandosi al popolo, cercano di vincere contro la maggioranza
politica in Parlamento; c) altre volte è divenuto lo strumento di alcuni partiti della stessa maggioranza per
costringere altri partiti entro la maggioranza ad adottare una decisione che non li vedeva d’accordo; d) nei
referendum del 18-19 Aprile del 1993 un referendum, quello sulla legge elettorale per il Senato, ha
acquistato un significato oggettivamente costituzionale, in quanto decisione popolare su una questione
fondamentale che ha chiuso una fase della Repubblica italiana e ne ha aperto una nuova i cui esiti sono
difficili da prevedere. La pratica ha dimostrato che spesso il referendum non è affatto abrogativo (pur
rimanendo tale per la forma), ma deliberativo (nella sostanza). La tecnica per raggiungere questo risultato è
semplice: data una legge, si toglie qui una parola, là una frase, finché alla fine, attraverso questa operazione
di scrematura, risulta un testo diverso da quello iniziale, egualmente operativo come quello, ma con un
contenuto magari opposto. La Corte costituzionale ha affermato il principio per cui non è ammissibile un
referendum su una legge se dall’abrogazione di tale legge deriva il pericolo di paralisi di un organo
costituzionale. In casi come questo cioè la Corte ammette il referendum solo se esso, anziché essere
abrogativo, è approvativo di una legge che deriva dall’opportuna cancellazione di parole del vecchio testo.
La totale incostituzionalità di questo risultato è duplice: da un lato si introduce nel nostro ordinamento il
referendum approvativo contro quanto dispone chiaramente la costituzione, che prevede il referendum
approvativo solo per le leggi costituzionali, mentre per quelle ordinarie prevede solo il referendum
abrogativo; dall’altro lato si introduce una procedura di approvazione di una nuova legge del tutto
antidemocratica, giacché si dà il potere di proposta della nuova legge ad una sola parte (il comitato
promotore del referendum), negando il diritto di altri di proporre un diverso progetto, così da permettere al
popolo di scegliere tra ipotesi diverse, come dovrebbe avvenire in una democrazia, e come avviene nelle
assemblee rappresentative. All’istituto del referendum come è oggi disciplinato vengono mosse altre critiche.
Si discute sulla razionalità della procedura, per cui il giudizio della Corte sulla ammissibilità del referendum
avviene dopo la raccolta delle firme, vanificando mesi di lavoro, energie e mezzi spesi inutilmente: meglio
sarebbe anticipare questo giudizio. Nel momento in cui alcuni partiti, che pure fanno parte della
maggioranza, e dunque potrebbero ottenere dalla maggioranza una nuova legge, promuovano un referendum
abrogativo, ci si chiede se questo non significhi snaturare l’istituto, facendolo diventare, da strumento del
popolo nei confronti del potere, uno strumento dei partiti nella lotta tra di loro. Alcuni poi si chiedono se il
referendum, costringendo a risposte drastiche, non sia uno strumento troppo rozzo, che rischia di assecondare
pericolose forzature della maggioranza contro le minoranze. Infine, crescono i dubbi sulla ammissibilità di
un referendum formalmente abrogativo che può diventare un referendum deliberativo, e si comincia a
chiedere la introduzione aperta di un tale referendum deliberativo, con una disciplina adeguata al nuovo
istituto. Il referendum introduce nel sistema politico queste novità: permette a movimenti non partitici di
entrare nel gioco politico con forza comparabile ai partiti, almeno su temi specifici; spesso, con la sola
minaccia di iniziare la procedura referendaria, costringe maggioranze pigre o divise ad attivarsi, modificando
leggi esistenti; offre ai partiti nuovi strumenti di lotta; e rappresenta un notevole strumento di partecipazione
e mobilitazione popolare, che si rende pienamente evidente nella campagna di raccolta delle firme e nel
dibattito che precede la votazione.

12) Gli statuti regionali, provinciali, comunali, delle Città metropolitane: gli statuti delle regioni sono
quegli atti normativi che disegnano le strutture organizzative fondamentali dell’ente regione, indicano i fini
fondamentali che l’ente perseguirà e prescrivono le regole fondamentali a cui l’ente si dovrà attenere nella
sua futura e multiforme attività. Essi rientrano nella categoria degli statuti degli enti pubblici, dato che tutti
gli enti pubblici hanno o potrebbero avere un loro statuto, e cioè un atto fondamentale che sta a base della
loro organizzazione e della loro attività. Rispetto agli enti autonomi, sono l’equivalente della costituzione
dello Stato: però la parola costituzione viene riservata allo stato, e rispetto agli enti autonomi si usa la parola

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

statuto, per sottolineare che lo stato è sovrano, e quindi è sovrana la costituzione dello Stato, mentre gli enti
minori entro lo stato sono autonomi e cioè godono di un potere normativo entro limiti posti dallo stato, così
che anche i loro atti fondamentali sono subordinati perlomeno alla costituzione, e dunque non possono
chiamarsi costituzione. Tali statuti, poiché sono la base di ogni attività dell’ente, sono sovraordinati rispetto a
tutti gli altri atti dell’ente. Gli statuti regionali sono subordinati alla costituzione e non alle leggi ordinarie
dello Stato, ma sono a loro volta sovraordinati alle leggi regionali. La costituzione differenzia gli statuti
speciali, cioè delle regioni chiamate speciali, dagli statuti ordinari, cioè delle regioni chiamate ordinarie. I
primi sono propri di 5 regioni nominate dalla costituzione: Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Valle
d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia. Le prime quattro sono nate contestualmente alla costituzione (la Sicilia
preesisteva ad essa); il Friuli-Venezia Giulia venne istituito nel 1963 a causa delle vicende internazionali per
cui a lungo il territorio di Trieste non ha fatto parte dello Stato italiano. Gli statuti speciali sono approvati
direttamente dallo stato mediante legge costituzionale. Le regioni sono dette speciali perché godono di una
autonomia maggiore di quella propria delle regioni ordinarie, per ragioni o etnico linguistiche, o per ragioni
storico sociali. La specialità di tali regioni rispetto a tutte le altre si traduce nel fatto che le norme
costituzionali generali in tema di regioni devono essere o derogate o integrate o modificate rispetto alle
regioni speciali, in modo da ampliare i poteri di queste ultime: questo spiega perché gli statuti speciali sono
approvati con legge costituzionale, appunto perché dovendosi derogare alla stessa costituzione l’unico
strumento legale adeguato è un atto con forza di legge costituzionale. La legge costituzionale n. 2/99, pur
confermando che gli statuti delle regioni speciali vanno approvati con legge costituzionale, ha attenuato la
dipendenza dalla volontà dello Stato che le regioni speciali dovevano pagare in cambio del privilegio di
ottenere uno statuto con maggiori e diverse autonomie rispetto alle regioni ordinarie. In base a tale legge:
l’iniziativa per la modificazione degli statuti spetta anche alle assemblee legislative di tali regioni; il
Parlamento prima di deliberare deve chiedere ed ottenere obbligatoriamente il parere del consiglio regionale;
se la legge costituzionale viene approvata, e per l’approvazione è sufficiente la maggioranza assoluta, non è
possibile dare luogo al referendum previsto dall’art. 138 della costituzione. Questa stessa legge
costituzionale n. 2/99 prevede le leggi statutarie, cioè leggi delle regioni speciali che possono modificare lo
stesso statuto per quanto riguarda la forma di governo e il sistema elettorale. Il procedimento è così
caratterizzato: la legge statutaria deve essere approvata dalla maggioranza assoluta del consiglio regionale; il
governo entro 30 giorni dalla pubblicazione di questa deliberazione può ricorrere alla Corte costituzionale;
entro tre mesi dalla pubblicazione un cinquantesimo degli elettori o 1/5 del consiglio possono chiedere un
referendum; se la legge è stata approvata dai 2/3 del consiglio solo gli elettori possono chiedere un
referendum, con un numero minimo di elettori diverso secondo le diverse regioni. La legge costituzionale 22
novembre 1999 n. 1 ha modificato l’originario art. 123 della costituzione che disciplina gli statuti delle
regioni ordinarie, sia per quanto riguarda il procedimento di formazione, sia per quanto riguarda il contenuto.
Per quanto riguarda il contenuto il nuovo art. 123 demanda allo statuto la determinazione della forma di
governo, precedentemente disciplinata dalla costituzione, sia pure in armonia con quest’ultima, così che per
sapere quale forma di governo vige in ciascuna regione ordinaria bisognerà studiare il suo statuto. Gli statuti
devono stabilire i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento della regione, regolare l’esercizio
del diritto di iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della regione, e la
pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali (contenuti obbligatori di ciascuno statuto). Gli statuti
hanno ulteriori contenuti, secondo la volontà dei consigli regionali. Per quanto riguarda il modo di
approvazione e modificazione degli statuti delle regioni ordinarie il nuovo art. 123 è diverso rispetto al testo
originario. I punti certi della nuova disciplina sono: 1) lo statuto va approvato e modificato con legge
regionale (quello delle regioni ordinarie; lo statuto speciale va approvato con legge costituzionale); 2) la
deliberazione del consiglio regionale, trascorsi i tre mesi senza che sia stato chiesto referendum dagli aventi
diritto, deve essere promulgata dal presidente della Regione e pubblicata nel bollettino ufficiale di questa, ed
entra in vigore decorsi 15 giorni; 3) in consiglio è necessaria una duplice deliberazione con la maggioranza
assoluta dei componenti e con un intervallo tra la prima e la seconda deliberazione non inferiore a due mesi;
4) il governo può promuovere questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte costituzionale entro
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

30 giorni dalla pubblicazione; 5) lo statuto è sottoposto a referendum popolare se entro tre mesi (dalla
pubblicazione) ne facciano richiesta un cinquantesimo degli elettori o 1/5 dei componenti del consiglio
regionale. In che momento il governo può ricorrere alla Corte costituzionale? La Corte costituzionale, con
sentenza n. 304 del 3 luglio 2002, ha ritenuto che i 30 giorni per ricorrere ad essa da parte del governo
decorrano dalla prima pubblicazione dalla quale decorrono anche i tre mesi entro i quali può essere richiesto
un referendum, così che il controllo della Corte in tal caso è un controllo preventivo, prima che la legge la
quale approva lo statuto entri in vigore. Il nuovo art. 114 prevede che comuni, province, città metropolitane e
regioni abbiano propri statuti. Per quanto riguarda gli statuti di Comuni e Province essi erano già stati
introdotti per la prima volta dalla l. 142 del 1990 e sono oggi disciplinati dal d. lgs. 267/2000:
precedentemente erano previsti da legge ordinaria, oggi sono previsti e garantiti dalla stessa costituzione,
quindi una legge ordinaria può disciplinare gli statuti di questi enti stabilendo i principi fondamentali ai quali
devono attenersi, ma non potrebbe togliere tale potestà ad essi. Anche agli statuti comunali, Provinciali e
delle città metropolitane si applicano alternativamente il criterio della competenza e quello della gerarchia.
Da un lato gli statuti comunali, provinciali e delle città metropolitane sono subordinati sia alla costituzione
che alle leggi statali, le quali istituiscono e disciplinano le competenze statutarie di province, comuni e delle
città metropolitane; per un altro verso queste leggi statali individuano una materia che viene attribuita in via
esclusiva alla decisione di tali enti, così che tali statuti disciplinano oggetti che spettano solo ad essi e a
nessun altro atto normativo. Ne consegue che, nel conflitto tra statuto comunale e provinciale e ogni altro
atto normativo diverso dalla legge statale, si applica il criterio della competenza, cioè si deve previamente
stabilire se la materia disciplinata rientra tra quella statutaria o non rientra tra quelle statutarie. Nel rapporto
tra statuto provinciale o comunale e regolamenti provinciali o comunali si ristabilisce la gerarchia delle fonti,
per cui i regolamenti provinciali e comunali sono sempre subordinati ai rispettivi statuti.

13) I regolamenti parlamentari: i regolamenti parlamentari, per espressa disposizione costituzionale (art.
64), sono atti approvati da ciascuna camera con i quali esse disciplinano la propria organizzazione interna, le
procedure che seguono nello svolgere i propri compiti, e ogni altro oggetto che concerne il proprio modo di
funzionare. Oggi i regolamenti parlamentari per una parte sono esecutivi di norme costituzionali, cioè
sviluppano, integrano e specificano regole costituzionali senza poterle contraddire, e per un’altra parte
dettano regole in piena autonomia, conformemente alla volontà della stessa camera interessata. I regolamenti
parlamentari vanno approvati da ciascuna camera per sé stessa (solo così ciascuna camera difende e
garantisce la propria autonomia) e vanno approvati con la maggioranza assoluta. I regolamenti parlamentari,
nell’ordine delle fonti, si comportano come gli statuti regionali (o come i regolamenti dell’Unione europea) e
in generale come quegli atti a competenza esclusiva ai quali si applica il criterio della competenza e non
quello gerarchico. Anche i regolamenti parlamentari sono subordinati alla costituzione (e alle leggi
costituzionali) e a nessun altro atto, e per questo aspetto vanno posti sullo stesso piano delle leggi; ma né le
leggi possono disciplinare la materia propria dei regolamenti parlamentari, né i regolamenti parlamentari
possono disciplinare materie al di fuori di quella relativa all’organizzazione e all’attività interna di ciascuna
camera. Bisogna ricordare: 1) che sulla base di questi atti, e della concreta attività delle camere, si è creato
un vero e proprio ramo del diritto, il diritto parlamentare, a testimonianza dell’importanza pratico-politica e
della complessità tecnico-giuridica della materia; 2) che le camere costituiscono l’esempio di organo
collegiale più importante e quindi maggiormente disciplinato, così che tutti gli altri organi collegiali sono
disciplinati o si ispirano alla disciplina delle camere (es. anche la Corte costituzionale approva propri
regolamenti, analoghi al contenuto a quelli di ciascuna camera. Questi regolamenti non sono previsti dalla
costituzione, ma da leggi ordinarie).

14) Le leggi regionali: le leggi regionali sono previste e così chiamate dalla costituzione (innovazione
rispetto al precedente ordinamento statutario). La costituzione garantisce l’autonomia regionale e configura
le principali espressioni di tale autonomia come leggi, cioè come atti comparabili in linea di principio con
quelli del Parlamento (va ricordata la particolarità della regione Trentino-Alto Adige, per cui anche le
province di Trento e Bolzano hanno potestà legislativa comparabile a quella delle regioni; dunque esistono
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

anche leggi provinciali della provincia di Trento e leggi della provincia di Bolzano). Oggi, grazie alle nuove
disposizioni introdotte dalla l. cost. n. 3 del 2001 nel titolo V della parte seconda della Costituzione, il
rapporto tra leggi statali e leggi regionali è ribaltato rispetto a quanto stabilito in precedenza, cioè dal 1948 al
2001. Le leggi regionali erano caratterizzate da tre elementi: 1) le regioni avevano una competenza tassativa,
mentre la competenza del Parlamento era generale; cioè poteva legiferare su qualunque materia tranne quelle
attribuite alle regioni, le regioni potevano legiferare solo nelle materie espressamente attribuite ad esse dalla
costituzione o da leggi costituzionali; 2) le leggi regionali erano sempre subordinate alle leggi statali secondo
i diversi tipi; 3) le leggi regionali erano sottoposte sistematicamente ad un controllo preventivo di legittimità
da parte dello Stato, mentre quelle statali subivano un controllo solo successivo ed eventuale. Oggi: 1) le
leggi statali hanno una competenza tassativa, solo nelle materie e per gli oggetti espressamente indicati nel
nuovo art. 117, mentre la competenza delle regioni è generale, cioè esse possono legiferare su qualunque
materia e qualunque oggetto, esclusi quelli riservati allo stato; 2) i casi di subordinazione delle leggi
regionali a principi e regole posti dallo stato sono tassativi, dunque ci possono essere leggi regionali che non
possono subire alcuna limitazione ad opera di leggi dello Stato (restano subordinate alla costituzione); 3)
leggi regionali e leggi statali sono sottoposte alle medesime regole per quanto riguarda il controllo di
costituzionalità. Le leggi regionali vengono deliberate dal consiglio regionale (organo rappresentativo dei
cittadini della regione), con un procedimento analogo a quello delle leggi del Parlamento: esiste la fase
dell’iniziativa, per cui solo alcuni soggetti possono presentare progetti di leggi regionali; quella preparatoria
in commissione e quella deliberante davanti all’intera assemblea; quella integrativa dell’efficacia, per cui la
legge approvata dal consiglio deve essere promulgata dal presidente della giunta o della regione e deve
essere pubblicata legalmente secondo le norme stabilite negli statuti regionali. Le leggi regionali hanno il
vantaggio di essere chiamate leggi ufficialmente nella intestazione dell’atto e di presentarsi rivestite di una
formula sacramentale, la promulgazione, che le rende riconoscibili. Anche le leggi regionali incontrano vari
limiti riconducibili alla costituzione (quanto verrà detto riguarda le regioni ordinarie; dato che per quanto
riguarda le regioni speciali è necessario leggere i rispettivi statuti, i quali vanno integrati o modificati dalle
disposizioni della l. cost. n. 3/2001 “se prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già
attribuite” (art. 10)): 1) l’art. 120 cost. dispone: “la regione non può istituire dazi di importazione o
esportazione o transito fra le regioni, né adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera
circolazione delle persone e delle cose tra le regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque
parte del territorio nazionale”. 2) Le leggi regionali sono subordinate ai rispettivi statuti, dunque una legge
regionale che viola il proprio statuto è incostituzionale e può essere dichiarata tale dalla Corte costituzionale.
3) Le leggi regionali sono subordinate all’ordinamento comunitario. 4) Le leggi regionali devono rispettare
gli obblighi internazionali come anche le leggi statali: però, mentre si può sostenere che sono incostituzionali
le leggi statali che violano i trattati internazionali, ma è possibile che lo stato italiano mediante una specifica
legge costituzionale decida di sciogliersi anticipatamente e senza il consenso delle controparti da obblighi
internazionali già sottoscritti, subendo delle conseguenze, questo non è possibile alle regioni; inoltre il nuovo
art. 117, nel quinto comma, prevede che una legge dello Stato disciplini le modalità di esercizio del potere
sostitutivo esercitabile dallo Stato in caso di inadempienza delle regioni per quanto riguarda l’attuazione e
l’esecuzione di atti normativi comunitari e di accordi internazionali nelle materie di competenza regionale. 5)
La potestà legislativa regionale viene divisa in due gruppi: a) nel primo sono comprese le leggi che
disciplinano le materie elencate nel terzo comma dell’art. 117: le leggi regionali di questo gruppo devono
rispettare i principi fondamentali che in ciascuna materia pongono le leggi statali, a cui spetta questa
importante funzione; quindi spetta alla legge statale stabilire in ciascuna materia indicata i principi
fondamentali; spetta a ciascuna regione legiferare in modo operativo in tale materia, attenendosi ai principi
fondamentali stabiliti dalla legge statale; se esiste controversia tra stato e regione, sul rispetto dei limiti
reciproci, spetterà alla Corte costituzionale stabilire fin dove può estendersi la potestà legislativa di principio
dello Stato, e da dove comincia quella della regione; inoltre se lo stato non approva leggi-quadro che dettano
i principi fondamentali, la regione deve attenersi ai principi fondamentali impliciti che si ricavano dalla
legislazione preesistente nella stessa materia; b) nel secondo rientrano tutte le leggi regionali che non
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

rientrano né nelle materie riservate allo stato né in quelle riservate alla legislazione concorrente delle regioni
(categoria residuale): per le leggi di questo gruppo in principio non sono né previste né ammesse leggi
statali, e le leggi regionali che rientrano in questa categoria sono subordinate solo alla costituzione ed ai
vincoli che si fondano sulla costituzione. 6) Un meccanismo particolare viene previsto per le leggi tributarie
ed in generale le forme di finanziamento delle regioni (nuovo art. 119). 7) Un ampliamento delle materie di
competenza regionale è previsto dal terzo comma dell’art. 116: una legge statale, con la maggioranza
assoluta, sulla base di intesa fra lo stato e la regione interessata, previa iniziativa della stessa regione, sentiti
gli enti locali, e nel rispetto dei principi di cui all’art. 119, può attribuire ad una specifica regione potestà
legislativa in materia di organizzazione della giustizia di pace, di norme generali sull’istruzione, di tutela
dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (materie riservate allo Stato). 8) Il terzo comma dell’art.
116 dice anche che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al
terzo comma dell’art. 117, possono essere attribuite alle regioni ordinarie con la procedura prima descritta
nel numero precedente: nella legislazione concorrente alcune regioni ordinarie sono subordinate a principi
fondamentali meno stringenti o diversi da quelli validi per tutte le altre regioni. 9) Se gli atti dell’Unione
europea vertono in materie regionali, sono le regioni ad avere la competenza per l’attuazione ed esecuzione,
e non lo stato; però, in tal caso, la legge regionale deve rispettare le norme di procedura stabilite con legge
dello Stato. 10) Le leggi regionali hanno un limite territoriale, per cui sono efficaci soltanto entro il territorio
di ciascuna regione. 11) Sia la dottrina sia la Corte costituzionale hanno individuato due tipi di limiti generali
che riguardano tutte le leggi regionali: a) ci sono nell’elenco delle materie statali quelle che sono state
chiamate materie trasversali e che non sono materie, cioè partizioni della realtà sociale distinguibili da ogni
altra, ma aspetti generali che possono riguardare qualunque materia: es. la lettera m) del secondo comma
dell’art. 117 stabilisce che spetta alla legge dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; di
conseguenza, qualunque sia la materia trattata, se una legge regionale prevede prestazioni riguardanti diritti
civili e sociali, questa legge può venire subordinata ad una legge statale che determina i livelli essenziali
delle prestazioni relative a quei diritti; b) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 303 del 2003, ha
sostenuto che se lo stato ritiene che una funzione amministrativa in materia regionale, quindi spettante alle
regioni, debba però essere svolta a livello statale per ottenere risultati adeguati, la legge statale può sottrarre
tale funzione alle regioni e attribuirla allo stato, con relativa disciplina; però lo stato deve cercare ed ottenere
il consenso delle regioni interessate.

15) I regolamenti (in quanto fonte secondaria): la parola regolamento non ha un significato tecnico
rigoroso e viene applicata per designare atti molto diversi per natura ed efficacia. I regolamenti parlamentari
e i regolamenti dell’Unione europea, nonostante il nome, non hanno nulla a che spartire con i regolamenti
intesi come atti normativi subordinati alle leggi e cioè fonti secondarie. In questa sede non parleremo
neanche dei regolamenti interni, cioè di quegli atti che disciplinano il modo di funzionare interno di enti,
organi, e apparati minori, la cui caratteristica è quella di non avere rilevanza esterna, così che non ha alcuna
rilevanza al di fuori dell’apparato, organo o ente che gli usa. Dunque, ci sono alcuni regolamenti che sono
certamente fonti del diritto anche se secondarie; ci sono altri atti che pongono regole generali e astratte i
quali non sono considerati fonti del diritto italiano e quindi non ricevono il trattamento proprio delle norme;
ci sono poi pochi casi dubbi per i quali non c’è conclusione certa e ciascuno interprete sostiene che sono o
non sono fonti del diritto italiano. La costituzione, con la l. cost. 3/2001, è stata modificata anche per quanto
riguarda i regolamenti. Il comma 6 del nuovo art. 117 prevede l’esistenza di tre tipi di regolamento per
quanto riguarda il soggetto emanante: a) regolamenti statali, b) regolamenti regionali, c) regolamenti dei
comuni, delle province e delle città metropolitane, e stabilisce: 1) che lo stato ha potestà regolamentare solo
nelle materie nelle quali ha competenza legislativa esclusiva, ma può delegare tale potestà regolamentare alle
regioni; 2) che i comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà regolamentare per quanto
riguarda la disciplina della propria organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite; 3) che in
tutti gli altri casi la potestà regolamentare spetta alle regioni. Per quanto riguarda lo stato, la costituzione

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

aggiunge nell’art. 87, quinto comma che il presidente della Repubblica emana i regolamenti: questa
disposizione è stata intesa come se dicesse che alcuni regolamenti indicati dalle leggi sono emanati dal
presidente della Repubblica, quindi ci sono regolamenti statali che non sono emanati dal presidente della
Repubblica ma da altri. Altri dubbi hanno riguardato diverse altre questioni in materia di regolamenti statali,
finché la legge n. 400 del 1988, con l’art. 17, ne ha risolti alcuni. Durante l’Ottocento, nell’Europa
continentale, si affrontarono due correnti storico-politiche sul tema del rapporto tra potere normativo del
Parlamento e potere normativo dell’esecutivo. La prima corrente, che riprendeva i principi democratici
affermati dalla rivoluzione francese, sosteneva che i regolamenti erano legittimi in quanto fondati su un
esplicito conferimento di potere da parte di una legge del Parlamento (si ribadiva la subordinazione del re,
del governo e della pubblica amministrazione al potere legislativo). Un’altra corrente, moderata, sosteneva
che il Parlamento e le sue leggi limitavano il potere assoluto del re, così che tale potere poteva espandersi
liberamente in quelle materie che la legge non aveva regolato. Questa corrente si divideva ulteriormente in 2:
per entrambe c’erano materie riservate esclusivamente al Parlamento (materie relative ai diritti di libertà e
alla proprietà); la divisione cominciava rispetto alle materie al di fuori delle prime, perché alcuni
sostenevano che il potere esecutivo poteva regolare tali materie con suoi atti normativi in assenza di leggi,
ma che le leggi prevalevano sui regolamenti, così che il regolamento dell’esecutivo doveva cedere alla legge;
altri sostenevano che alcune materie spettavano esclusivamente all’esecutivo, così che il Parlamento non
poteva intervenire su di esse. Così le posizioni più favorevoli al potere esecutivo hanno prevalso nel periodo
della restaurazione e all’inverso le altre hanno prevalso in periodi di offensiva democratica. Bisogna fare
distinzione tra la situazione precedente e quella posteriore all’art. 17 della l. n. 400/88. Questa legge si
occupa dei regolamenti statali. Bisogna ricordare che oggi è in vigore un nuovo testo costituzionale sulla
base della l. cost. 3/2001 e che dunque la legge 400 va letta come se fosse scritta in modo coerente con tale
nuova normativa di ordine costituzionale. Quindi oggi bisogna ricordare che i regolamenti statali sono
legittimi solo se disciplinano materie riservate dalla costituzione allo stato, e sono illegittimi se pretendono di
disciplinare materie ulteriori rispetto alle precedenti. L’art. 17 della legge 400/88 si preoccupa di dare ai
regolamenti una forma esteriore riconoscibile. Questi regolamenti devono recare il nome di regolamento
all’interno dell’atto, ma non è il suo nome ufficiale: il nome ufficiale dell’atto resta decreto, ma nel titolo, o
nel titolo dell’eventuale allegato che contiene il regolamento approvato con decreto, deve figurare la parola
regolamento. Per quanto riguarda la procedura di approvazione dei regolamenti statali: tutti devono essere
preceduti da un parere del Consiglio di Stato; dopo l’emanazione sono sottoposti al controllo della Corte dei
conti; devono essere pubblicati nella Gazzetta ufficiale. In tal modo essi sono conoscibili da tutti. Siccome
tale procedimento viene introdotto da una legge ordinaria, niente vieta che successive leggi ordinarie
prescrivano per alcuni regolamenti procedimenti specifici, diversi dal procedimento generale stabilito con
l’art. 17 ricordato. In conclusione, il procedimento previsto da questo articolo si applica solo se le successive
leggi non prescrivono diversamente sul punto. Per quanto riguarda i soggetti deliberanti, l’art. 17 distingue
tra: a) regolamenti deliberati dal Consiglio dei ministri ed emanati dal presidente della Repubblica (la
sequenza diventa: iniziativa di uno o più ministri o del presidente del consiglio; parere del Consiglio di Stato;
deliberazione del Consiglio dei ministri; emanazione del presidente della Repubblica; controllo della Corte
dei conti; pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Si tratta dei regolamenti governativi; b) regolamenti
deliberati ed emanati dal singolo ministro (regolamenti ministeriali) e regolamenti deliberati ed emanati da
più ministri contemporaneamente (regolamenti interministeriali); l’art. 17 non cita i regolamenti del
presidente del Consiglio dei ministri, ma bisogna ritenere che anch’essi siano ammissibili nei casi previsti
dalla legge. L’art. 17 elenca sei tipi (di cui uno abolito) di regolamenti governativi: 1) i regolamenti emanati
per disciplinare l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi: sono i vecchi regolamenti esecutivi. Si
chiamano così quei regolamenti che si riferiscono ad una specifica e nominata legge e contengono norme
ulteriori che a) specificano le norme contenute nella legge, o b) prescrivono il modo che i soggetti interessati
dovranno seguire per attuare le norme della legge (es. a) la legge vieta l’uso e lo spaccio degli stupefacenti: il
regolamento elenca le sostanze stupefacenti; b) la legge prescrive che agli studenti meritevoli che rientrano
in certe categorie sia attribuito un assegno di studio: il regolamento prescrive a chi e come va presentata la
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

domanda). Le norme del regolamento non possono in alcun modo contrastare quelle della legge a cui si
riferiscono, come in generale di nessun’altra legge (art. 4 disp. prel. c.c.). Di qui la definizione del
regolamento del potere esecutivo come fonte secondaria del diritto: cioè subordinata rispetto alle leggi. Il
rapporto apparentemente astratto e formale tra legge e regolamento è in realtà un rapporto politico tra due
diversi centri di potere, in questo caso governo e Parlamento. Questo potere governativo dovrebbe trovare un
fermo nei giudici perché essi, se non altro, a) dovrebbero o disapplicare o annullare i regolamenti che
contengono norme contrarie a norme legislative; b) potrebbero disapplicare o annullare quelle norme
regolamentari che, pure non essendo apertamente contrarie a norma di legge, pongono tali restrizioni ad una
legge da renderla sostanzialmente inefficace. Nella pratica il punto a) trova sufficiente garanzia, quello b) è
del tutto trascurato, così che i giudici applicano sempre i regolamenti salvo che le norme regolamentari siano
in chiara opposizione con norme di legge. La caratteristica della norma regolamentare di questo tipo è di
essere inautonoma, cioè ha senso e si può applicare solo unendola con un’altra norma contenuta nella legge a
cui si riferisce il regolamento esecutivo. Quando i giudici applicano norme appartenenti a tale complesso
legge-regolamento di esecuzione, essi applicano sempre norme che risultano da un intreccio di proposizioni
contenute nella legge e proposizioni contenute nel regolamento esecutivo ed ecco perché quando si abroga
una legge senza abrogare il suo regolamento esecutivo, la nuova legge viene applicata in unione col vecchio
regolamento, nella misura in cui le sue norme sono compatibili con la nuova legge. 2) L’art. 17 della l.
400/88 prevede i regolamenti per l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti
norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale. Alla luce del nuovo
art. 117 cost. la disposizione va letta come se dicesse: nelle materie riservate allo stato, le leggi e i decreti
legislativi possono limitarsi a dettare norme di principio, demandando ai regolamenti la determinazione delle
disposizioni di attuazione e integrazione: cioè il legislatore statale si limita a porre in una certa materia
riservata allo stato dalla costituzione solo norme di principio (norme che di per sé non sono operative), e che
la legge o atto avente forza di legge affidi al regolamento statale il compito di completare la normativa
rendendola operativa. Oggi la cosa è possibile solo se la materia disciplinata rientra tra quelle riservate allo
stato, dato che in caso contrario: 1) o la legge statale è incostituzionale, perché la materia spetta in toto alla
regione o perché la legge statale non si è limitata a porre i principi fondamentali della legislazione
concorrente; 2) o la legge statale che pone i principi fondamentali nella legislazione concorrente non
ammette regolamenti statali ma solo leggi regionali che attuano tali principi fondamentali. Siccome la
costituzione in molte materie pone la riserva di legge assoluta, cioè esige che una certa materia sia
disciplinata solo con legge o atto avente forza di legge, deve ritenersi implicitamente che i regolamenti di
attuazione dei principi sono ammissibili in quanto disciplinano materie non coperte da riserva assoluta di
legge. La nostra Costituzione prescrive che questa o quell’altra materia sia regolata per legge: cioè contiene
ad ogni passo quella che si chiama tecnicamente riserva di legge che vuol dire che in linea di principio una
determinata materia può essere disciplinata con norme giuridiche solo da una legge del Parlamento, se la
materia è riservata allo stato, o con legge regionale in tutti gli altri casi. Si distinguono tre tipi di riserva di
legge: a) la riserva rinforzata, cioè quella riserva con cui la costituzione non solo esige che unicamente la
legge disciplini una certa materia, ma fissa essa stessa limiti inderogabili dalla legge; b) la riserva assoluta,
cioè quella riserva fondata in modo tale dalla costituzione da far presumere che quella certa materia può
essere disciplinata solo dalla legge, senza possibilità di integrazione o specificazione o sviluppo da parte di
fonti subordinate alla legge, e di regolamenti; c) la riserva relativa, cioè quella riserva fondata in modo tale
dalla costituzione da far presumere che in quella specifica materia la legge deve pur sempre intervenire
previamente, ma può limitarsi a delineare le caratteristiche fondamentali della disciplina, permettendo che i
regolamenti o altre fonti senza forza di legge la completino e la articolino compiutamente. Nella materia
della riserva di legge ci sono almeno tre punti problematici. Il primo riguarda i tre criteri in base ai quali
stabilire se una certa materia è coperta da riserva assoluta o relativa, in quanto la costituzione non offre
criteri decisivi; così ci si affida a) alla tradizione, per cui c’è riserva assoluta in quelle materie che per
tradizione sono state ritenute coperte da riserva assoluta, e c’è riserva relativa nel caso inverso; b) e/o alla
lettera della costituzione, per cui di regola c’è riserva assoluta quando la costituzione usa la formula “nei casi
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Riassunto di Gaia Paoloni
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previsti dalla legge”, “con legge”, e riserva relativa quando la costituzione usa la formula “in base alla legge”
(art. 23), “secondo la legge”. Il secondo riguarda la portata della distinzione tra riserva assoluta e riserva
relativa. Se la costituzione o una legge disponessero che la riserva assoluta è quella nella quale in nessun
caso è ammesso regolamento esecutivo, cioè tutte le regole applicabili devono essere contenute nella legge, e
se la pratica fosse conforme a tale criterio, il problema non sorgerebbe. Siccome tale regola non c’è, e la
pratica conosce regolamenti esecutivi anche in materie coperte da riserva assoluta (es. in materia penale), e la
dottrina è costretta ad ammettere regolamenti esecutivi in riserva assolute, la distinzione tra riserva assoluta e
riserva relativa si vanifica e si arriva a dire che nella riserva assoluta la legge deve essere più specifica e
concreta di quanto può permettersi nei casi di riserva relativa (criterio generico e insufficiente). Sulla base di
quanto detto è possibile individuare un criterio oggettivo, che consente i regolamenti esecutivi anche in
materie coperte da riserva assoluta ma stabilisce un limite al loro potere. Nei casi di riserva assoluta a) la
legge deve essere formulata in modo da poter essere applicata senza bisogno di regolamento esecutivo, così
che questo, se c’è, è un’aggiunta utile ma non indispensabile; b) per questa ragione non è ammissibile che il
regolamento circoscriva e determini l’oggetto delle norme della legge. Il terzo punto problematico in tema di
riserva riguarda la riserva relativa, in particolare il criterio in base al quale ritenere che la legge, pure non
essendo di per sé operativa, è sufficientemente determinata in modo da rispettare la riserva. Quindi tranne
casi evidenti nei quali la legge si limita semplicemente ad investire di potere normativo il governo, tutti gli
altri casi vengono decisi discrezionalmente dalla Corte costituzionale ogni volta che qualcuno sostiene
davanti a essa che la legge x non rispetta la riserva relativa posta in costituzione. 3) La lettera c) del primo
comma dell’art. 17 della l. 400/88 continua a prevedere i regolamenti indipendenti, cioè regolamenti statali
che disciplinano materie nelle quali non ci sono leggi o atti aventi forza di legge e che non sono coperte da
riserva di legge, né assoluta né relativa (in quel caso i regolamenti sarebbero costituzionalmente illegittimi).
Oggi i regolamenti indipendenti statali sono impensabili, dato che si dovrebbe ipotizzare che qualcuna delle
materie riservate allo stato dall’art. 117 non è coperta da riserva di legge e per di più non si trova già
disciplinata dalla legge o da un atto con forza di legge. 4) I regolamenti che disciplinano l’organizzazione ed
il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge: si tratta dei
vecchi regolamenti di organizzazione. Questo tipo di regolamento è già ricompreso o nel tipo a) regolamento
esecutivo, o nel tipo b) regolamento di attuazione, dato che si tratta di un regolamento che deve attenersi alle
disposizioni di legge. L’art. 13 della l. 15 marzo 1997, n. 59, introduce entro l’art. 17 della legge 400/88 un
comma 4-bis, nel quale vengono previsti i regolamenti che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento
degli uffici dei ministeri. Questi regolamenti si caratterizzano per due aspetti: a) vengono autorizzati a
disciplinare tutta l’organizzazione dei ministeri, attenendosi ai pochi e generici principi enunciati nella legge;
b) devono seguire un procedimento loro specifico, diverso da quello previsto in generale dall’art. 17 della l.
400/88 (colpisce la previsione che essi devono essere inviati alle commissioni competenti delle due camere
per ricevere un parere). 5) Si ricordano i regolamenti che disciplinavano l’organizzazione del lavoro ed i
rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti in base agli accordi sindacali. Oggi non sono più praticabili perché
il d. lgs. n. 29 del 1993 ha privatizzato il rapporto di lavoro della grande maggioranza dei dipendenti
pubblici, e, fatta salva la disciplina prevista dalla legge (ed esclusi quei dipendenti pubblici, i quali restano
disciplinati solo da leggi e altri atti normativi previsti dalla legge: giudici, avvocati dello Stato, militari, etc.),
sono disciplinati per quanto attiene agli aspetti economici e normativi del loro rapporto di lavoro dai comuni
contratti collettivi disciplinati dal c.c. In base alla precedente normativa, gli accordi sindacali nel p.i.
divenivano obbligatori giuridicamente dopo che erano stati approvati dal consiglio dei ministri e recepiti in
decreti del presidente della Repubblica (per le regioni recepiti in leggi regionali). 6) Infine il comma secondo
dell’art. 17 prevede un altro tipo di regolamento governativo: con decreto del presidente della Repubblica,
previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Stato, sono emanati i regolamenti per
la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla costituzione, per le quali le
leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del governo, determinano le
norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con effetto
dall’entrata in vigore delle norme regolamentari. Questo tipo di regolamento si sostituisce a precedenti
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disposizioni contenute nelle leggi o atti aventi forza di legge, ma ciò è possibile solo in materie non coperte
da riserva assoluta di legge; inoltre il regolamento sostituisce precedenti disposizioni di legge in quanto la
legge su cui esso si fonda lo prevede e dunque non è tanto il regolamento ad abrogare le disposizioni di
legge, quanto la legge abilitante, la quale dispone che certe disposizioni di legge cesseranno di aver vigore
con l’entrata in vigore di altre disposizioni. Il fenomeno viene chiamato delegificazione: una certa materia,
non riservata in toto alla legge, viene per così dire declassata: mentre fino ad un certo punto essa è stata
disciplinata con legge, da un certo punto in poi, sulla base di una legge autorizzante, viene disciplinata con
regolamento. A questa caratteristica della legge 400 si possono muovere due obiezioni: a) non è chiara la
differenza tra questo tipo di regolamento e quello previsto nella lettera b) del primo comma. b) Il problema
più delicato consiste nell’individuazione delle disposizioni di legge che vengono abrogate: se queste
disposizioni vengono individuate una per una nella legge abilitante, non c’è problema; ma se la legge
abilitante si limita a preannunciare genericamente l’abrogazione di tutte le disposizioni che risultano
incompatibili col regolamento di attuazione, allora chi individua le disposizioni di legge da abrogare e le
abroga è il governo, e non il legislatore, e questo va contro l’art. 76 della costituzione, il quale ammette
questa possibilità solo mediante decreto legislativo, e non mediante regolamento. La l. 4 febbraio 2005 n. 11
(intitolata “norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari”) che ha sostituito la precedente legge dallo stesso titolo
n. 86/89, prevede un altro tipo ancora di regolamento. Va ricordato che oggi questi regolamenti, se statali,
sono ammessi solo se vertono su materie riservate allo stato; se le materie rientrano tra quelle che spettano
alle regioni, allora sono le stesse regioni che provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi
internazionali e degli atti dell’unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello
Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza (nuovo art. 117,
quinto comma). L’art. 17, della l. 400/88, ha stabilito: a) che i ministri e il presidente del Consiglio dei
ministri possono adottare regolamenti in quanto volta per volta abilitati da una specifica legge (i regolamenti
del Consiglio dei ministri sono ammessi una volta per tutte in base all’art. 17; quelli ministeriali,
interministeriali e del presidente del consiglio sono ammessi solo se previsti volta per volta); b) i ministri e il
presidente del consiglio possono adottare regolamenti solo nelle materie di loro competenza (regola
conforme a quanto già si sosteneva in base all’art. 3 delle disp. prel. c.c.); c) i regolamenti dei ministri e del
presidente del consiglio sono subordinati a quelli dell’intero governo (si conferma quanto dispone l’art. 4
disp. prel. c.c.). Dai ministri sicuramente possono essere adottati i regolamenti esecutivi. Siccome però i
poteri regolamentari di un ministro sono basati su una specifica legge, niente vieta che una specifica legge
posteriore alla l. 400/88 attribuisca ad un ministro un potere regolamentare corrispondente ad uno dei tipi
previsti a favore del governo, o un tipo diverso (opportuno rammentare le circolari, istruzioni che autorità
sovraordinate inviano agli uffici da loro dipendenti e che concernono il modo di interpretare e applicare le
leggi, che anche se non sono atti normativi, nella pratica determinano il concreto comportamento
dell’apparato amministrativo e in fatto si impongono anche ai giudici che si adeguano alle interpretazioni
delle leggi in essa contenute). Poiché tutte le prescrizioni fin qui esaminate sono contenute in una legge
ordinaria, niente impedisce che successive leggi stabiliscano deroghe ad essa, così che il fine di porre ordine
e chiarezza nella tormentata materia dei regolamenti potrà essere vanificato. È questa la ragione per cui molti
sostengono che la materia delle fonti del diritto, in cui rientrano i regolamenti in quanto atti normativi, è
oggettivamente materia costituzionale, e andrebbe disciplinata con legge costituzionale; ma siccome questa
legge non c’è, gli operatori giuridici saranno costretti a verificare attentamente in materia di regolamenti
dell’esecutivo non solo quello che prescrive la l. 400/88 ma anche quello che eventualmente prescriveranno
altre leggi successive a questa. Poiché la legge 400 riserva al ministro i regolamenti nelle materie di
competenza del ministro, bisogna ritenere che tutti i casi residui di potestà regolamentare attribuita ad
autorità statali inferiore al ministro prima della legge 400/88 non sono più ammissibili. La costituzione non
vieta che le leggi statali nelle materie statali possano attribuire poteri regolamentari a soggetti diversi da
quelli previsti dalla legge 400/88. Inoltre, spesso le leggi prevedono che atti non ulteriormente qualificati
possano introdurre regole esattamente uguali per configurazione alle regole contenute nei regolamenti
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chiamati ufficialmente con questo nome. I regolamenti regionali, per quanto riguarda le regioni ordinarie,
sono previsti dall’art. 123 della costituzione che prescrive la loro pubblicazione legale come le leggi. Il
nuovo art. 121 (modificato dalla l. cost. 1/99) non esige più che i regolamenti siano deliberati dal consiglio
regionale. Spetta agli statuti delle regioni ordinarie stabilire chi e come delibera i regolamenti regionali. Il
nuovo art. 117, comma sei, come modificato dalla l. cost. 3/2001, prevede che le regioni abbiano una
generale potestà regolamentare, a differenza dello Stato, che ha potestà regolamentare solo nelle materie
riservate allo stato, e di comuni, province e città metropolitane, che hanno potestà regolamentare per quanto
riguarda la loro organizzazione e lo svolgimento delle funzioni loro attribuite; inoltre lo stato può delegare
alle regioni la sua potestà regolamentare, e dunque la regione può approvare regolamenti anche in materia
riservata allo stato. I regolamenti provinciali e comunali, insieme ai regolamenti delle città metropolitane,
sono coperti da una garanzia di ordine costituzionale, per cui nessuna autorità può togliere a questi la potestà
normativa ad essi conferita direttamente dalla costituzione in materia di organizzazione di tali enti e per lo
svolgimento delle funzioni loro attribuite. Però non è chiaro se comuni, province e città metropolitane
abbiano funzioni amministrative proprie, e cioè funzioni che essi attribuiscono a sé stessi di propria
iniziativa, o solo funzioni ad essi attribuite o da leggi statali da leggi regionali. Quando le funzioni sono
attribuite da leggi statali o regionali, secondo le rispettive competenze di Stato e regioni, i regolamenti di
comuni, province e città metropolitane sono subordinati a tali leggi, a meno che esse pretendano di togliere
ad essi ogni autonomia per quanto riguarda la loro organizzazione e le modalità di svolgimento delle
funzioni. I regolamenti comunali, provinciali e delle città metropolitane sono subordinati anche agli statuti
dei rispettivi enti. I regolamenti illegittimi, per quanto atti normativi, nel nostro ordinamento vengono
assimilati sotto questo aspetto agli atti amministrativi, e dunque vengono disapplicati nel caso concreto dal
giudice ordinario, con la conseguenza che i regolamenti illegittimi per quanto disapplicati restano in vigore e
continuano ad essere applicati dalla pubblica amministrazione; e vengono invece annullati dal giudice
amministrativo, con l’applicazione di quelle regole limitatrici che disciplinano l’impugnazione degli atti
amministrativi davanti al giudice amministrativo (guardare schema pagina 276).

16) La consuetudine: la consuetudine non è un atto giuridico, e quindi un atto normativo, ma un fatto
giuridico e quindi un fatto normativo. Anche la consuetudine giuridica, come tutte le fonti normative,
esprime la necessità sociale di tale regola che si traduce nella coercibilità della regola, per cui essa è assistita
dall’uso della forza se è necessario. La consuetudine giuridica consta di due elementi: uno materiale, che
consiste nell’esistenza di un comportamento medio e generale entro la collettività, costantemente e da tempo
seguito, conforme alla regola che da esso si trae; un altro soggettivo, che consiste nella convinzione diffusa
entro la collettività che tale regola è obbligatoria tanto da meritare l’assistenza della forza organizzata delle
autorità pubbliche. Questa convinzione della giuridicità è un elemento da ricercarsi non nel singolo, ma
nell’insieme della collettività e per questa ragione essa è facilmente accertabile come tutti i fatti oggettivi. Si
presuppone sempre che la consuetudine già esista, e da tempo non determinabile: non è possibile mai dire
quando e perché è nata una consuetudine (frutto di un processo molto lungo fino a che tale regola viene
riconosciuta dai giudici). Il fatto che una regola seguita spontaneamente e costantemente dalla maggioranza
di una collettività venga riconosciuta dai giudici è il segno che essa è sentita dalla collettività come
giuridicamente obbligatoria. In conclusione, il fatto che una regola non scritta desunta dai fatti sia applicata
dai giudici è normalmente la prova necessaria e sufficiente per concludere che quella regola è una
consuetudine giuridica. La consuetudine non è scritta, ma si trae direttamente dai fatti osservati. Dato che la
consuetudine è formulabile in parole, potrebbe venire redatta per iscritto a fini di prova e per meglio
tramandarla e conoscerla. Oggi il nostro ordinamento prevede che il ministero dell’industria e commercio e
le camere di commercio preparino, stampino e aggiornino raccolte degli usi rispettivamente generali e locali
del commercio, così che vengano conosciuti attraverso uno scritto ufficiale, legalmente autorizzato. Però
mentre la norma scritta è quella per cui ogni interprete deve ricavare la regola da certe proposizioni scritte
formulate dal legislatore, le proposizioni attraverso cui viene formulata per iscritto la consuetudine hanno
solo un valore probatorio, e quindi ammettono la prova contraria desunta dai fatti (art. 9 disp. prel. c.c.): la

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parte che esibisce la raccolta ufficiale delle consuetudini ha provato l’esistenza della consuetudine invocata,
ma le altre parti possono provare, in base a testimonianze e ricognizione dei fatti, che le proposizioni
contenute nella raccolta sono erronei; il giudice, se si convince in questo senso, deve disattendere il testo
della raccolta ufficiale e riformulare la regola consuetudinaria sulla base dei fatti accertati. La consuetudine
in definitiva, nonostante le raccolte scritte, resta fonte di diritto non scritta. Il Codice civile chiama usi ciò
che la pratica e la dottrina chiama consuetudini e prescrive nell’art. 8 delle disp. prel. del c.c. che nelle
materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati
(la consuetudine nelle materie regolate da leggi e regolamenti può applicarsi solo se espressamente
richiamata). Riprendendo la distinzione tradizionale, secondo cui le consuetudini si distinguono in
consuetudini secundum legem (richiamate dalle leggi scritte), praeter legem (che pretendono di regolare
materia non regolata da leggi scritte), e contra legem (contrarie alle leggi), l’art. 8 ammette solo quelle
secundum legem, e implicitamente vieta quelle contra legem, mentre nulla dice di quelle praeter legem. In
ogni caso la consuetudine viene collocata dallo stato all’ultimo posto tra le fonti dell’ordinamento. Si
riconosce validità alle consuetudini praeter legem nel diritto costituzionale e nel diritto pubblico in generale.
Anche se oggi l’importanza pratica delle consuetudini è quasi nulla, la consuetudine a livello scientifico resta
ancora oggetto di studio e di attenzione, in misura sproporzionata rispetto alla sua attuale importanza pratica.
La ragione sta nel fatto che la consuetudine per la sua imponente storia passata costituisce un ottimo banco di
prova per saggiare la validità di qualsiasi teoria generale del diritto. Si dice, per distinguere la consuetudine
dalla legge, che la consuetudine è una fonte autonoma, cioè il diritto è creato da quegli stessi che vi
obbediscono, mentre la legge è una fonte eteronoma, cioè il diritto è imposto dall’esterno a coloro che vi
obbediscono. In realtà la consuetudine è fonte autonoma solo se riferita al gruppo che l’ha prodotta: per il
singolo la consuetudine è fonte del tutto eteronoma, esattamente come la legge. La consuetudine è la classica
fonte di diritto ad efficacia locale: è raro che esistano consuetudini nazionali, perché la consuetudine,
essendo elaborata e lentamente modificata dagli stessi utenti, rispecchia le mille varietà locali ed aderisce
alle differenze particolari dei gruppi che la creano. La legge scritta invece domina in una società in cui per
tutta la nazione rispetto allo stesso fatto deve esistere la medesima regola. La consuetudine come prodotto
spontaneo e inconsapevole della società è morta: ma non è morta la tendenza dei gruppi sociali a creare da sé
stessi e per se stessi norme giuridiche autonomamente dallo stato. Col tramonto dello Stato liberale, ed il
riconoscimento della legittima esistenza dei gruppi organizzati, lo stato doveva in qualche modo riconoscere
anche le regole prodotte da tali gruppi. Si moltiplicano le fonti del diritto, ma soprattutto accanto ad un
diritto del tutto unilaterale, che si impone perché proveniente da un solo soggetto dotato di autorità
legislativa, si afferma sempre più un diritto pattizio, contrattuale. Non è un diritto consuetudinario, perché
questo diritto pattizio è pur sempre il frutto di volontà razionali e consapevoli, ma è un diritto di gruppi,
autonomo rispetto allo stato, che lo stato deve riconoscere e fare suo. Un fenomeno imponente in questa
direzione va sotto il nome di nuova lex mercatoria: si tratta di quelle regole create dalle grandi imprese
transnazionali e dalle pratiche degli arbitri ai quali esse si rivolgono per disciplinare i rapporti commerciali:
questo diritto si impone al punto che anche i giudici italiani sono costretti a tenerne conto e spesso a darvi
esecuzione. Ci sono poi casi di codici di autoregolamentazione obbligatori sotto controllo di una autorità
pubblica (categoria di soggetti obbligata a darsi un codice che disciplini i comportamenti professionali dei
propri aderenti, ma questo codice viene valutato da un’autorità pubblica: è il caso dei giornalisti), o casi nei
quali le regole sono introdotte da accordi tra le parti interessate, purché questi accordi vengano valutati
idonei da un’autorità pubblica (caso della determinazione delle prestazioni indispensabili nello sciopero nei
pubblici servizi essenziali). Un fenomeno che rientra nella stessa tendenza è quello delle regole
convenzionali.

CAPITOLO 8

Forme di Stato e forme di governo

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1) La divisione dei poteri: le prime formulazioni del principio di divisione dei poteri avevano un chiaro
scopo politico e si inserivano in uno specifico contesto storico. Locke si proponeva di dare razionale
spiegazione e di fondare teoricamente il dualismo di potere tra corona e Parlamento emerso dalla rivoluzione
inglese, così che la sua costruzione teorica è funzionale a tale scopo e risente dei tempi; Montesquieu offriva
la sua costruzione come contributo per una possibile riforma in senso liberale moderato della monarchia
francese, in cui, accanto alla monarchia temperata e all’organo legislativo analogo a quello inglese, venisse
mantenuto il potere autonomo e indipendente dei parlamenti francesi, organi giurisdizionali che costituivano
il punto di forza della nobiltà di toga di cui Montesquieu era esponente. In entrambi dunque c’era una
pluralità dei poteri, cioè di centri di potere indipendenti, il cui titolo di legittimità non dipendeva dagli altri e
la cui sfera di competenza non era rimessa alla discrezione degli altri. All’inizio lo scopo principale era
quello di smembrare il potere del sovrano assoluto e garantire la indipendenza di più centri di potere.
Successivamente la divisione dei poteri si fissò nella classica tripartizione di: potere legislativo, potere
esecutivo e potere giurisdizionale, e subì un tentativo di razionalizzazione con il duplice scopo: a) di far
corrispondere ad ogni potere una e una sola funzione; b) di impedire ogni intromissione di ciascun potere
all’interno dell’altro. Solo che questo tentativo doveva fallire di fronte alla prova dei fatti: a) ciascun potere
esercitava più funzioni contemporaneamente (ad es. il governo svolgeva compiti amministrativi, ma spesso
emanava atti normativi mediante i decreti-legge, i decreti legislativi e i regolamenti); b) era impossibile
impedire una continua e legalizzata intromissione di un potere all’interno di un altro, come nei casi in cui il
Parlamento dava la sfiducia al governo o il governo proponeva le leggi. Il tentativo di razionalizzare la
divisione dei poteri è tipico dello Stato liberale: la sua pretesa di far rispondere a ciascun potere una e una
sola funzione e di separare i diversi poteri e le diverse funzioni, corrisponde al significato garantista che
doveva assumere tale forma di organizzazione dello Stato, in cui la macchina doveva funzionare in maniera
personale e secondo l’astratta volontà di una legge generale eguale per tutti, e ciascuna funzione dello Stato
avrebbe agito conformemente ai suoi scopi senza mai deviare o interferire con altre parti. Il potere legislativo
formula le leggi, cioè regole generali e astratte (se formulasse regole concrete invaderebbe il potere esecutivo
o giurisdizionale): di conseguenza a) il potere legislativo assolve nei confronti della società il compito da
questa affidatogli di formulare le regole della convivenza senza intromettersi nel concreto funzionamento di
tale convivenza: la legge è impersonale e astratta, uguale per tutti; b) nei confronti degli altri poteri la legge è
superiore, ma non è il potere legislativo che comanda ad essi, ma la legge impersonale: il legislatore non
ordina propriamente, ma fissa i criteri generali di comportamento, e gli altri poteri mantengono una loro sfera
di potere subordinata alla legge ma costituzionalmente garantita in cui il potere legislativo non può entrare. Il
potere esecutivo ha il compito di eseguire le leggi, e cioè di far corrispondere materialmente la realtà delle
cose all’astratta previsione legislativa. La parola esecuzione fa chiaro che questo potere deve limitarsi a
compiere ciò che la legge gli prescrive o gli permette e non ha una volontà propria indipendente. Il potere
giurisdizionale ha il compito di dichiarare se le regole sono state rispettate o violate. Esso esegue ugualmente
la legge, ma idealmente mediante l’accertamento della corrispondenza dei fatti alle regole del legislatore. Se
la realtà corrispondesse a questo schema: i poteri, se si comportassero tutti secondo le prescrizioni, non
interferirebbero l’uno con l’altro; l’insieme funzionerebbe come una macchina senza intervento di volontà
libere, perché ad ogni passo esisterebbe una previa regola, impersonale, che prescriverebbe esattamente ciò
che si dovrebbe fare e dunque lo stato non ordinerebbe, ma per incarico della società consegnato nelle leggi
generali astratte, svolgerebbe un compito puramente passivo di garante dell’ordinato svolgimento della vita
associata. Il legame tra questa costruzione e lo stato liberale è perfetto. Di conseguenza: la divisione dei
poteri come divisione delle funzioni corrisponde allo stato liberale; come lo stato liberale concreto non ha
mai corrisposto pienamente alla legge di tendenza, così ugualmente il principio di divisione dei poteri non ha
mai corrisposto all’empirica realtà costituzionale dei singoli stati; come lo stato liberale concreto si è
avvicinato alla sua legge di tendenza, così in quel periodo la pratica del principio di divisione dei poteri si è
avvicinata alla costruzione teorica; con la morte dello Stato liberale è entrata in crisi la vecchia costruzione
teorica del principio di divisione dei poteri. Vediamo quali sono i fatti che hanno messo in crisi lo schema
della tripartizione dei poteri come schema esaustivo della realtà costituzionale. Le funzioni individuate non
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esaurivano in nessun modo i compiti dello Stato: lo stato non si limita e non può limitarsi a garantire
dall’esterno l’ordinata vita associata, ma deve intervenire nell’economia, e dunque deve avere una sua
politica di intervento. La macchina dello Stato non funziona secondo lo schema della tripartizione, perché ha
una sua volontà che non può stare nelle leggi, ma prima delle leggi, quando si devono scegliere i fini dello
Stato da perseguire e i modi da perseguirli. Questa funzione è stata chiamata di indirizzo politico. Poiché lo
stato ha una sua politica, le diverse parti partecipano allo sviluppo di tale politica e quindi acquistano poteri
di intervento e di iniziativa, non solo poteri esecutivi. Viene abbandonata ogni pretesa di far corrispondere a
ciascun potere una funzione e la pretesa di tenere rigidamente separati i diversi poteri. Questo intreccio di
compiti e funzioni genera la nascita di organi dello Stato. I centri costituzionali di potere diventano spesso
maggiori di tre. Infine, poiché lo stato deve avere una politica complessiva per tutto il paese, lo stato deve
essere diretto: questa direzione non appartiene più agli organi dello Stato, ma a soggetti collettivi privati
esterni allo stato (i partiti politici), che si impadroniscono volta a volta dello Stato e lo fanno funzionare
secondo i loro programmi. La moderna divisione dei poteri sta nel sistema pluralistico dei partiti, per cui
nessuno di essi può prevalere in assoluto su tutti gli altri centri di potere, ma ciascuno deve misurarsi con gli
altri e scontare la possibilità di divenire minoranza. I veri soggetti sovrani di oggi sono i partiti, e la
limitazione della loro sovranità sta nella pluralità e concorrenza tra i partiti. Dunque, la tripartizione dei
poteri ha perso quel valore interpretativo e costruttivo esclusivo che pretendeva di avere e se, in qualche
periodo, la tripartizione di poteri ha corrisposto alla realtà, oggi non è più così. Però ci sono alcune
caratteristiche dell’ordinamento italiano che si spiegano solo come prodotto dell’affermazione della divisione
dei poteri, e che dunque dimostrano come tale principio è ancora operante. 1) Sulla base della tripartizione
dei poteri, oggi il potere giudiziario è costituito in ordine separato indipendente: è subordinato alle leggi, ma
a leggi generale e astratte, così che all’interno di tali leggi generali e astratte, si autogoverna. A garanzia di
tale autogoverno la costituzione prevede che i giudici sono soggetti solo alle leggi e che ogni questione
amministrativa relativa al rapporto di lavoro tra i funzionari giuridici ordinari e lo stato datore di lavoro è
rimessa al consiglio superiore della magistratura, eletto in maggioranza dagli stessi magistrati. 2) Sulla base
dell’antica tripartizione dei poteri è ancora operante la tendenza per cui esiste un unico apparato burocratico
e militare dello Stato centralizzato dal governo; attraverso la direzione unitaria del governo tutto l’apparato
dello Stato risponde ad un unico centro. 3) In base all’antica tripartizione dei poteri si spiega perché oggi il
Parlamento è separato dalla pubblica amministrazione, tanto che il Parlamento non può mai entrare
direttamente nella pubblica amministrazione ma deve avvalersi della mediazione del governo. 4) La
divisione dei poteri spiega le caratteristiche degli organi costituzionali, i quali godono di particolari garanzie
e immunità volte a tutelare la loro indipendenza l’uno nei confronti dell’altro. 5) L’antica tripartizione dei
poteri spiega perché anche oggi il popolo è separato dalla quotidiana attività dello Stato: anche il popolo non
può entrare direttamente entro l’apparato amministrativo e burocratico dello Stato, deve avvalersi della
necessaria mediazione del Parlamento, mediazione caratterizzata dal divieto del mandato imperativo. Queste
sono le principali caratteristiche dello Stato italiano che dimostrano come la divisione dei poteri, come
principio generale di organizzazione dello Stato, esista ancora oggi.

2) Forme di Stato e forme di governo: la divisione dei poteri conduce alla nozione di forma di governo.
L’esperienza storica dimostra che nel corso degli ultimi secoli le diverse organizzazioni del potere politico
presentano differenze marcate. Per ciascuno stato i poteri costituzionali hanno nomi diversi, diversa
composizione, diversa forma, diversi rapporti gli uni con gli altri, diverse procedure di funzionamento. Di
qui l’esigenza di trovare somiglianze e differenze tra i diversi casi, al fine di giungere a costruire modelli
semplificati di tali realtà e mettere a confronto tali diversi modelli. Queste esperienze storiche da catturare
mediante modelli sono particolari perché si tratta di esperienze storico sociali che durano decenni e
coinvolgono milioni di persone. Stabilire quando comincia e quando finisce una determinata esperienza vuol
dire ritrovare quegli elementi essenziali che, nel tempo, danno unità e identità ad esse; riguardo ai modi di
esercizio del potere politico, si tratta di trovare quegli elementi costanti che ci assicurano che un determinato
modello rappresenta la corretta descrizione del modo di funzionamento del potere politico entro una

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determinata società in un determinato periodo di tempo. Questa ricerca si articola a due livelli che ricevono il
nome di forme di Stato e forme di governo. Con forme di Stato si parte dalla organizzazione statale
considerata come un tutto e si indagano i caratteri essenziali del rapporto che corre tra tale organizzazione
complessiva e la società nel suo insieme. Con forme di governo si pone come oggetto di indagine
l’organizzazione statale in quanto tale, entrando al suo interno e ricercando di individuare gli elementi
essenziali che caratterizzano tale struttura a livello di vertice.

3) Le forme di Stato: l’espressione forme di Stato riprende la parola stato come sinonimo di società
organizzata o ordinamento generale ed indica la presenza e l’organizzazione complessiva di un popolo
stanziato su un determinato territorio sotto la direzione di un’autorità centrale. Nel periodo che va dalla fine
della seconda guerra mondiale fino al 1989-1991 era frequente imbattersi nelle espressioni primo, secondo,
terzo e quarto mondo; in quanto era opinione dominante che il mondo fosse diviso in due grandi aree, in
ciascuna delle quali prevaleva una forma di Stato: nel primo mondo prevaleva lo stato occidentale
(espressione neutra) o democratico (caratterizzazione positiva) o capitalista (caratterizzazione negativa); nel
secondo quello orientale, o socialista, o totalitario (rispettivamente caratterizzazione neutra, elogiativa,
spregiativa). Le caratteristiche essenziali di tali tipi di Stato sono: a) nel primo i mezzi di produzione sono
per la maggior parte di proprietà dei privati, il mercato è il meccanismo di regolazione dell’economia;
nell’altro i mezzi di produzione sono per la gran parte di proprietà pubblica, e la pianificazione è il
meccanismo di regolazione dell’economia; b) nel primo vi è concorrenza tra più partiti sul piano politico e
possibilità di alternanza al governo tra di essi; nel secondo vi è un partito unico o un solo partito stabilmente
al potere, senza concorrenza politica con altri; c) nel primo tutti gli individui e i gruppi sociali significativi
godono di libertà costituzionalmente garantite, nel secondo le libertà dipendono dal beneplacito del potere; d)
nel primo vi è una complessa articolazione politico istituzionale, retta dal principio di divisione dei poteri;
nel secondo il partito dominante controlla tutti i poteri, rendendo impraticabile ogni effettiva divisione.
Questa tradizionale caratterizzazione era inadeguata, dato che venivano ricompresi nel mondo occidentale
anche stati dittatoriali o razzisti come il Sudafrica di allora. Tutti gli Stati che componevano il secondo
mondo sono crollati nel periodo 1989-1991 ed al loro posto sono nati nuovi stati che intendono far parte del
mondo occidentale. Con paesi del terzo mondo oggi si intendono i paesi in via di sviluppo. Quanto
all’espressione quarto mondo, viene usata da alcuni che vogliono sottolineare che ci sono paesi così poveri a
tal punto di essere esclusi dallo sviluppo, costituendo così un gruppo distinto da quelli del terzo mondo.

4) Sulla nozione di “forma di governo”: con l’espressione forma di governo ci chiediamo quanti sono i
soggetti di vertice entro l’apparato dello Stato, quali poteri e quali funzioni ciascuno ha e svolge, quali sono i
rapporti tra di essi. Nel linguaggio comune esiste un’espressione che contende il campo a quella di forma di
governo: l’espressione sistema politico. Con l’espressione sistema politico intendiamo descrivere e
caratterizzare l’insieme di tutti coloro che a vario titolo partecipano alla vita politica, i loro comportamenti,
la loro attività, i loro rapporti. Con l’espressione forma di governo intendiamo descrivere e caratterizzare
quella parte della vita politica che si manifesta e si svolge attraverso regole e forme riconoscibili ed ufficiali.
Queste forme visibili sono un requisito essenziale della democrazia. Solo se la vita politica si svolge
attraverso procedure visibili e prevedibili, essa diventa controllabile. Per comprendere bene il fenomeno
vanno aggiunte tre avvertenze: a) forme visibili non sono solo quelle codificate in regole scritte ufficiali ed
effettive, ma anche quelle che si manifestano attraverso comportamenti socialmente accettati: lo strumento
migliore oggi per garantire la regolarità e visibilità dei comportamenti politici è quello delle regole scritte,
ma non mancano regole non scritte; b) queste forme sono soggette ad un continuo processo di
trasformazione, sia attraverso l’introduzione di nuove regole ufficiali, sia attraverso slittamenti progressivi di
significato, per cui vecchie regole si trasformano gradualmente in regole diverse, magari restando le stesse
per quanto riguarda il testo ufficiale; c) accanto, o al di sotto della vita politica visibile ed ufficiale, può
svilupparsi una vita politica più o meno segreta, più o meno illecita. È difficile però immaginare un’attività
politica totalmente nascosta che sostituisce di fatto e per lungo tempo la vita politica che si vede in
superficie: o prima o poi la vita politica effettiva deve dar luogo a nuove regole visibili (almeno in una
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

democrazia). Più frequente il caso di attività politiche illecite o inconfessabili che si insinuano nelle pieghe
della vita politica visibile, per sfruttare i vantaggi del potere senza dovere rendere conto all’opinione
pubblica. Però coloro i quali manovrano nell’ombra devono riuscire, senza che l’opinione pubblica se ne
avveda, a dirigere di fatto la vita politica visibile, e cioè piegarsi alle sue regole, sia pure per usarle
fraudolentemente. In ogni caso è necessario descrivere le regole e i modi visibili dell’attività politica, e cioè
la forma di governo come si è cristallizzata e come si esprime in regole e procedure ufficiali. Se esaminiamo
una qualsiasi società che si ispira ai principi delle democrazie pluraliste, troviamo tre costanti: un corpo
elettorale da cui derivano tutte le cariche politiche; un’assemblea rappresentativa di tale corpo elettorale; un
apparato professionale diretto da persone legate al corpo elettorale. Date queste tre costanti, e il principio per
cui tutte le cariche politiche derivano la loro investitura dal corpo elettorale, i possibili rapporti fondamentali
tra questi tre soggetti sono 2: o il corpo elettorale elegge l’assemblea che elegge i dirigenti dell’apparato; o il
corpo elettorale elegge sia l’assemblea che i dirigenti politici dell’apparato. Nel primo caso avremo lo
schema del governo parlamentare; nel secondo lo schema del governo presidenziale (schemi ridotti
all’essenziale). Ecco perché sono le due forme di governo prevalenti e le due forme base a cui tutte le altre
possono essere avvicinate. Dati i principi fondamentali della democrazia moderna abbiamo che l’assemblea
legislativa viene sempre eletta dal corpo elettorale, e l’esecutivo è sempre rappresentativo del corpo
elettorale. Ad es., in Italia il Parlamento non elegge il governo, e il governo viene nominato dal capo dello
Stato: siccome però il governo dipende dalla fiducia del Parlamento e deve dimettersi se il Parlamento da ad
esso la sfiducia, se guardiamo la sostanza politica della questione e tralasciamo il meccanismo giuridico
formale, è corretto concludere che è il Parlamento che nella sostanza sceglie il governo. Il governo
parlamentare garantisce istituzionalmente la corrispondenza tra legislativo ed esecutivo per quanto attiene al
programma politico: se il governo dipende dalla fiducia del Parlamento, è segno che Parlamento e governo
hanno il medesimo programma politico, con la conseguenza che è certa la collaborazione tra i due centri di
potere, senza che l’uno paralizzi o boicotti l’altro, e dall’altro che vi sarà un unico programma politico
generale che guida sia il legislativo che l’esecutivo. Lo svantaggio che deriva sta nel fatto che il governo non
ha un tempo certo di durata e quindi può diventare instabile: la sfiducia del Parlamento costringe il governo a
dimettersi, in qualsiasi momento. All’inverso, nel governo presidenziale il meccanismo giuridico garantisce
istituzionalmente la stabilità dell’esecutivo, dato che il capo di esso viene eletto direttamente dal corpo
elettorale per un numero determinato di anni e non è revocabile prima della scadenza. La stabilità
dell’esecutivo può determinare un grave difetto se la maggioranza che ha eletto il capo dell’esecutivo è
politicamente diversa da quella che forma la maggioranza nel legislativo. Se il capo dell’esecutivo e
l’assemblea sono portatori di programmi politici diversi, nasce il rischio di paralisi reciproca, dato che
ciascuno tende ad approvare gli atti conformi al suo programma ed a respingere quelli contrari.

5) Il governo parlamentare (e sue varianti): il governo parlamentare si caratterizza per il fatto che l’organo
collettivo che sta a capo dell’apparato burocratico militare, il governo composto da un presidente e dai
ministri, dipende dalla sfiducia del Parlamento in ogni momento, dal suo costituirsi fino alla sua fine.
Affinché questo rapporto di fiducia si mantenga è necessario che tra la maggioranza politica in Parlamento e
l’organo governo ci sia omogeneità politica e programmatica: il governo dirige l’apparato burocratico
militare sulla base di un programma approvato e condiviso dalla maggioranza parlamentare; gli uomini che
compongono il governo appartengono allo stesso partito (se un solo partito raggiunge la maggioranza e
governa da solo) o agli stessi partiti (se la maggioranza è composta da più partiti) che costituiscono la
maggioranza in Parlamento. Il governo parlamentare funziona in modo differente se la maggioranza è
composta da un solo partito, o da una coalizione di partiti. Nel primo caso la compattezza del governo, la sua
durata sono maggiori che nel secondo. Se i partiti della coalizione sono molti, e abbastanza disomogenei per
programmi, è facile prevedere che diminuirà la durata dei governi, crescerà l’incapacità di decidere,
aumenteranno i tempi della contrattazione. In generale la composizione del Parlamento, e dell’organo
governo, dipende dal sistema elettorale adottato. Più un sistema elettorale è maggioritario, più è probabile la
presenza di due partiti con alternanza al governo dei due maggiori; più un sistema è proporzionale, e più

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

diventa probabile che il numero dei partiti cresca e che nessuno raggiunga la maggioranza assoluta dei seggi,
rendendosi necessario un accordo tra più partiti per governare. Se il sistema elettorale è maggioritario, e un
partito conquista la maggioranza, è probabile che il leader di questo partito vittorioso sia anche il capo del
governo e che la sua autorità politica divenga tale che i ministri siano subordinati a lui. Se esiste un governo
di coalizione l’influenza sui ministri del capo del governo diminuisce dato che egli non può realmente
comandare sui ministri appartenenti ai partiti diversi dal suo. Se il suo stesso partito è diviso in correnti, e
diviene regola che il presidente del consiglio non possa essere contemporaneamente capo del partito, allora è
facile capire perché in Italia il presidente del consiglio è così debole, al paragone con altri capi di governo,
nei confronti di tutti i ministri. Un terzo elemento di differenziazione tra governi parlamentari sta nella
presenza o assenza di una effettiva alternanza al governo tra diversi partiti o blocchi di partiti. Ci sono
governi parlamentari in cui al predominio di un partito per un certo periodo di tempo si sostituisce il
predominio di un altro partito, e in ogni elezione vi è una concorrenza tra i due partiti. Ci sono governi
parlamentari in cui solo un partito o un blocco di partiti ha la possibilità di accedere al governo, e all’altro o
agli altri partiti è riservata la posizione di minoranza politica (situazione in Italia dal 1947 fino al 1991 nei
confronti del partito comunista italiano). Un quarto elemento che genera forti variazioni è costituito dal ruolo
e dalla collocazione che in concreto ha il capo dello Stato. Per quanto astrattamente il capo dello Stato, nello
schema del governo parlamentare, sia un organo sovrabbondante e che quindi potrebbe essere eliminato, in
pratica, per ragioni storiche politiche, tutti i governi parlamentari conosciuti prevedono la presenza del capo
dello Stato, come organo distinto, con propri poteri e una specifica procedura di assunzione alla carica.
Poiché il capo dello Stato non dipende dalla fiducia del Parlamento e non risponde politicamente davanti ad
esso, questo organo può inserirsi nel rapporto governo-maggioranza parlamentare con esiti non facilmente
prevedibili e controllabili. L’esperienza storica dei vari paesi al riguardo presenta grandi variazioni. Si va dal
capo dello Stato con funzioni puramente simboliche e onorifiche, come accade oggi con la regina in Gran
Bretagna, al capo dello Stato che oppone una sua politica a quella del Parlamento, fino ad un rovesciamento
della costituzione, come avvenne nel 1922 in Italia e in Germania nel 1933. Un quinto elemento è la
possibilità di scioglimento anticipato del Parlamento. Il potere di scioglimento spetta al capo dello stato. Se il
capo dello Stato può usare quest’arma a sua discrezione, il Parlamento si troverà a dipendere dal capo dello
Stato e ne sarà condizionato. Se al contrario lo scioglimento anticipato è impossibile o è ammesso solo in
casi tassativamente previsti dalla costituzione, il Parlamento agirà sul piano politico con molta maggiore
sicurezza e libertà. Il modo di funzionare di un sistema politico è diverso se è presente o assente una Corte
costituzionale, cioè un organo incaricato di garantire che gli altri organi costituzionali non compiano atti
contrari a costituzione. Diverso sarà il comportamento e il risultato raggiunto dal legislatore se le sue leggi
sono sottoposte a controllo di costituzionalità, o se tale controllo non è previsto. Le modalità di tale controllo
possono essere molto diverse ed anche questi ulteriori elementi determinano un diverso funzionamento dei
governi parlamentari dei diversi stati. Ugualmente la possibilità o impossibilità di indire referendum, su tutte
le materie o solo su alcune, con poteri estesi o limitati, etc., tutti questi elementi aggiuntivi o la loro assenza
determinano conseguenze sull’intero sistema politico. Se consideriamo che, oltre i 7 elementi ricordati, ce ne
possono essere ancora altri, e che si possono variamente combinare tra di loro, si spiega perché ogni governo
parlamentare è diverso da tutti gli altri, resta però fermo lo schema base che consente di confrontarli. Il
governo parlamentare praticato in Italia si caratterizza per: a) la presenza costante e obbligata di governi di
coalizione, di corta durata e con scarsa capacità di direzione; b) la mancanza di alternative di governo nel
periodo 1948-1994, per cui per oltre 40 anni ha sempre governato un blocco di partiti guidato dalla DC, e il
PCI è sempre stato all’opposizione; il biennio 1992-1994 ha determinato la scomparsa di alcuni partiti, la
trasformazione di altri, la nascita di nuovi partiti e la vittoria di un blocco di destra del tutto nuovo; le
elezioni anticipate del 1996 hanno determinato la vittoria di un blocco di sinistra; nelle elezioni del 2001 ha
vinto il blocco di destra; nelle elezioni del 2006 ha vinto il blocco di centrosinistra; nel 2008 ha vinto il
blocco di destra che a causa della crisi del debito pubblico dello Stato italiano sui mercati internazionali, si è
dovuto dimettere nel novembre 2011 ed al suo posto è stato nominato un governo composto da uomini
esterni a tutti i partiti, e sostenuto dall’esterno, cioè senza ministri e senza diretta assunzione di
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

responsabilità, dalla maggioranza dei partiti sia di destra che di sinistra, incapaci di trovare una diversa
soluzione; successivamente viene formato un governo di coalizione con forze eterogenee; anche questo
governo entra in crisi e si ricostruisce con la stessa maggioranza ma con un nuovo presidente del consiglio
(Gentiloni); tutto ciò dimostra che le forze politiche cercano di introdurre in Italia un meccanismo politico di
tipo bipolare, nel quale i partiti sono costretti ad allearsi prima delle elezioni in due blocchi contrapposti, e
vince il blocco che ottiene più seggi; anche se le ultime crisi dimostrano che anche questo meccanismo è
entrato in crisi e può determinare disfunzioni gravi; c) gli scarsi poteri politici del presidente del consiglio nei
confronti dei ministri; d) una presenza discreta ma incisiva del capo dello Stato, il quale non ha costituito un
centro politico in concorrenza col governo, ma costringe tutti i partiti a ricordare che su questioni
fondamentali di ordine costituzionale bisogna ottenere il consenso anche dal capo dello Stato; e) un controllo
di costituzionalità sulle leggi incisivo e penetrante; f) un ruolo spesso incisivo dello strumento referendario.

6) Il governo presidenziale: il governo presidenziale più antico è quello degli Stati Uniti d’America. In esso
il corpo elettorale elegge sia i membri del congresso, sia il presidente degli Stati Uniti. Ciascuno di questi
organi ha un periodo di carica fisso, stabilito in costituzione, durante il quale esercita i poteri ad esso
attribuiti. Che accade se la maggioranza parlamentare ha un programma politico diverso da quello del
presidente? Negli Stati Uniti il caso è frequente e ciò accade perché negli Stati Uniti i partiti politici sono
diversi da quelli europei: non esiste una disciplina di partito, così che i parlamentari dello stesso partito
possono votare in modo divergente. L’abilità del presidente degli Stati Uniti consiste nel conquistare volta a
volta sulle sue proposte la maggioranza del congresso, attraverso continui patteggiamenti con i diversi
parlamentari. In Europa prevale la forma di governo parlamentare; nelle Americhe prevale la forma di
governo presidenziale. L’elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia, in Italia dal 1993, ha
introdotto anche qui meccanismi di governo più vicini alla forma presidenziale che a quella parlamentare; la
l. cost. 1/99 ha modificato la costituzione stabilendo che nelle elezioni delle regioni ordinarie della primavera
2000 il presidente della giunta venisse eletto dal corpo elettorale, come è infatti avvenuto; questa stessa legge
ha demandato agli statuti regionali delle regioni ordinarie la determinazione della forma di governo e un’altra
legge costituzionale ha dato il medesimo potere alle regioni speciali: tutte le regioni hanno scelto l’elezione
diretta del presidente della Regione; sono forti le pressioni affinché a livello nazionale il capo dell’esecutivo,
il presidente del Consiglio dei ministri, venga eletto dal corpo elettorale. Se questa tendenza dovesse
prevalere avremo anche in Italia a tutti i livelli una forma di governo presidenziale, in sostituzione di quella
parlamentare che ha caratterizzato la Repubblica dal 1948 ad oggi, e il periodo liberale. Negli Stati Uniti né
il congresso può provocare le dimissioni o la revoca del presidente degli Stati Uniti né reciprocamente
quest’ultimo può determinare lo scioglimento anticipato del congresso; invece nella forma di governo oggi
prevista a livello regionale e comunale le dimissioni del capo dell’esecutivo, o l’approvazione della mozione
di sfiducia nei suoi confronti determinano anche lo scioglimento dell’assemblea rappresentativa. In tal modo
il capo dell’esecutivo ha un potere di ricatto enorme nei confronti dell’assemblea rappresentativa.

7) Altre forme di governo: l’opinione prevalente tra gli studiosi sostiene che, accanto alle due forme di
governo dominanti, ce ne sono altre. Si parla oggi, sulla base dell’esperienza della V Repubblica francese,
del governo semipresidenziale. In esso si ha una commistione di elementi propri del governo parlamentare
con elementi propri del governo presidenziale. Come nel governo parlamentare, la costituzione prevede un
organo governo che deve godere della fiducia del Parlamento; come nel governo presidenziale, esiste un
presidente della Repubblica eletto direttamente dal corpo elettorale. Se la maggioranza in Parlamento è la
stessa che ha eletto il presidente, allora il sistema diventa molto più accentrato che nello stesso governo
presidenziale. Il presidente eletto, forte del consenso popolare e capo politico della maggioranza in
Parlamento, forte del potere di scioglimento anticipato nei confronti di quest’ultimo, nomina e revoca
liberamente un governo di sua fiducia, e dirige sia il governo che il parlamento. Se nel Parlamento siede una
maggioranza diversa, il governo espresso da questa maggioranza sarà portatore di una politica diversa da
quella del presidente, e il Parlamento approverà leggi conformi al programma della maggioranza
parlamentare, divergenti rispetto al programma del presidente. Quest’ultimo conserva poteri abbastanza
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

incisivi, ma su quasi tutte le questioni politiche dovrà piegarsi alla volontà della maggioranza in Parlamento
e del governo da questa espresso. È vero che il capo dello Stato può sciogliere anticipatamente il Parlamento:
se però il corpo elettorale conferma la precedente maggioranza, il capo dello Stato deve cedere. L’esperienza
francese mostra che la forma di governo semipresidenziale ha funzionato per tutto il periodo della V
Repubblica perché la maggioranza che ha eletto il presidente ha quasi sempre confermato questo voto
nell’elezione dei parlamentari; quando nel periodo 1986-1988 e nel periodo 1993-1996 si è avuto un
presidente socialista e una maggioranza di centrodestra, e nel periodo 1998-2002 all’inverso, il sistema ha
funzionato, ma come un normale governo parlamentare. Va ricordato che oggi grazie ad una riforma
costituzionale del 2002 la forma di governo in Francia funziona diversamente rispetto al passato: questa
riforma ha previsto che la durata in carica del presidente della Repubblica sia di 5 anni e non di 7, questa
durata rafforza i poteri del presidente perché è più ravvicinato il consenso popolare, e dall’altro che le
elezioni del presidente e dell’assemblea nazionale siano quasi contestuali, prima quella del presidente e dopo
quella dell’assemblea nazionale, così che è facilmente prevedibile che la maggioranza che ha eletto il
presidente sarà dopo un mese la medesima dell’assemblea. Un’altra forma di governo è la forma direttoriale
vigente nella confederazione elvetica. In questa forma di governo il Parlamento elegge i membri
dell’esecutivo, ma per un tempo determinato, come persone incaricate dall’assemblea di eseguire le leggi
entro quel certo tempo. Rispetto al governo parlamentare ci sono due differenze: i membri dell’esecutivo non
vengono considerati i capi della maggioranza politica, ma meri esecutori della volontà parlamentare; per
questa ragione essi vengono scelti tra tutti i partiti, anche quelli della minoranza in Parlamento. Ciò che
caratterizza la forma di governo Svizzera è anche il forte decentramento locale e il peso preponderante che
hanno il referendum nell’adottare le decisioni più importanti. Da alcuni il governo direttoriale viene anche
chiamato governo assembleare; altri preferiscono riservare questo nome ad un’altra forma di governo,
caratterizzata dalla prevalenza politica dell’assemblea elettiva su ogni altro organo costituzionale; altri
negano ogni legittimità a questa presunta forma di governo.

8) Forme di governo e partiti politici: nei modelli descritti i partiti politici non entrano come elementi
costitutivi di essi: i partiti sono il soggetto politico principale, ma lo sono proprio in quanto stanno
formalmente fuori dallo Stato e si presentano come soggetti privati. Nel descrivere le forme di governo è
corretto tenere sullo sfondo i partiti perché le forme di governo rappresentano gli schemi attraverso cui la
vita politica si formalizza e diviene riconoscibile, così che entrano a costituire le forme di governo quegli
elementi formalizzati sul piano costituzionale mediante regole. Questi elementi sono chiamati anche organi
costituzionali, ed i partiti non sono organi costituzionali, anche se politicamente contano più di essi.

9) Gli organi costituzionali: con l’espressione organi costituzionali si intendono alcuni fra gli organi dello
Stato, caratterizzati per il fatto di non essere subordinati a nessun altro e dunque di essere formalmente, sul
piano giuridico costituzionale, tutti uguali e tutti ugualmente indipendenti. Essi sono organi dello Stato, cioè
parti interne della complessiva organizzazione stato, legittimi perché fondati su norme dello Stato, dotati di
quei poteri autoritativi loro attribuiti dalle regole costituzionali, disciplinati da norme statali in tutti gli aspetti
organizzativi e funzionali essenziali. Per questo aspetto essi non sfuggono alla caratterizzazione propria di
tutti gli organi statali. Essi sono costituzionali e cioè: dotati di poteri politici, cioè poteri di determinare i fini
fondamentali validi per tutto lo stato e per tutta la società, o di incidere su tali scelte e di condizionarle;
garantiti costituzionalmente quanto alla loro esistenza e quanto ai loro poteri, l’una e gli altri sottratti al
potere di chicchessia; assistiti da una serie di garanzie eccezionali rispetto al diritto comune, che
impediscono il più possibile l’intromissione al loro interno di altri soggetti e rendono concreta la loro
indipendenza rispetto ad ogni altro soggetto. La strada migliore per decidere quali sono gli organi
costituzionali è quella di esaminare le garanzie particolari ed eccezionali di cui, a fini di indipendenza, gode
un organo. Per quanto riguarda i titolari dell’organo: i parlamentari godono di particolari immunità
sostanziali e procedurali; di immunità analoghe godono i giudici della Corte costituzionale; il presidente
della Repubblica è penalmente irresponsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne i
reati di attentato alla costituzione e di alto tradimento; i membri del governo per i reati commessi
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

nell’esercizio delle loro funzioni possono essere processati solo dopo autorizzazione delle camere. L’art. 1
della l. 140/03 prevedeva che il presidente della Repubblica, i presidenti di Camera e Senato, il presidente
del consiglio, il presidente della Corte costituzionale non potessero essere processati penalmente durante la
loro carica; una volta cessati dalla carica il processo poteva riprendere. Però la Corte costituzionale con
sentenza n. 24/04 dichiarò incostituzionale questa disposizione. Successivamente fu dichiarata tale anche la l.
n. 124 del 2008 che aveva reintrodotto questa particolare immunità con alcune modificazioni, escludendo il
presidente della Corte costituzionale perché ci si è accorti che questo soggetto era già tutelato dall’art. 3 della
l. cost. n. 1 del 1948. Fu dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 262 del 2009 perché l’art. 1 di questa
legge introduceva con legge ordinaria e non con legge costituzionale una nuova immunità, violando in tal
modo l’art. 3 della costituzione e cioè il principio di uguaglianza. Parlamento, Corte costituzionale e
presidente della Repubblica hanno ciascuno al loro servizio un apparato particolare, che si governano e
amministrano in piena e totale autonomia. Godono di autonomia organizzativa e normativa rispetto a tali
apparati, e cioè con propri regolamenti disciplinano l’organizzazione e l’attività di essi; di autonomia
patrimoniale e contabile; non sono soggetti ad alcun controllo esterno per quanto riguarda gli atti relativi alle
cose loro assegnate e alle persone facenti parte dell’apparato, tanto che le controversie tra ciascuna camera, o
Corte costituzionale, e loro impiegati sono rimesse al giudizio di questi stessi organi costituzionali. Queste
regole non si applicano al governo, ma per la ragione che il governo comanda su tutto l’apparato
amministrativo e militare, e dunque per questo aspetto è il più indipendente di tutti. Gli organi collegiali
Parlamento, Corte costituzionale e il governo si organizzano in piena indipendenza e si autogovernano per
quanto riguarda la loro attività interna, fatte salve le norme costituzionali. Gli organi collegiali Parlamento e
Corte costituzionale eleggono da se stessi i propri presidenti e sono padroni del proprio ordine del giorno;
essi controllano la legittimità della elezione dei propri membri. Negli edifici di ciascuna camera la forza
pubblica non può entrare senza la richiesta del relativo presidente e questa è la regola anche per la Corte
costituzionale e il presidente della Repubblica. Rispetto agli organi costituzionali vige il principio degli atti
interni al collegio per cui tutto ciò che avviene entro ciascun collegio o organo, salvo il rispetto delle norme
costituzionali, non è controllabile da nessun altro soggetto esterno. Dunque, non tutti gli organi costituzionali
godono di tutte le garanzie godute dagli altri. Ciascuno però ne ha abbastanza da separarlo da tutti gli altri
organi dello Stato e rendere provata la sua maggiore indipendenza rispetto ad ogni altro organo non
costituzionale e la sua parità solo con altri organi costituzionali. In base a questi criteri sono organi
costituzionali il Parlamento e cioè le due camere, il governo e cioè il presidente del consiglio e, i ministri e il
Consiglio dei ministri, il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale. Si discute se lo siano il
consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il consiglio superiore della magistratura, la Corte di
Cassazione, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, il consiglio supremo di difesa. La questione, in termini
di conseguenze giuridiche, ha scarsa importanza. Quello che conta è la concreta disciplina alla quale è
soggetto ciascun organo: aggiungere a questa disciplina la qualifica di organo costituzionale, a rilevanza
costituzionale, o puro, non comporta alcuna conseguenza concreta ulteriore rispetto alla disciplina positiva
già prevista. La questione è importante in sede di ricostruzione complessiva dell’ordinamento vigente,
quando si tratta di cogliere il ruolo di ciascun organo e il posto politico che esso occupa nel sistema
complessivo. Sotto questo aspetto è evidente che le garanzie che presidiano l’indipendenza degli organi
costituzionali sono la conseguenza della collocazione e del ruolo che un organo ha. Parlamento, governo,
presidente della Repubblica, e Corte costituzionale, si staccano oggi da tutti gli altri organi dello Stato perché
sono i centri politici decisivi dello Stato italiano, ciascuno per una parte spettante a lui solo, così che tutti gli
altri centri di potere entro lo stato sono indirettamente o direttamente subordinati ai primi. Questi quattro
invece sono centri politici statali indipendenti: politici, perché il grado di libertà di cui godono è determinato
e governato da ragioni politiche, che li rende più liberi entro lo stato rispetto alle competenze loro attribuite,
gli unici che possono realmente scegliere da sé i fini da perseguire; statali, poiché essi decidono con potere
autoritativo e non solo decidono i fini, ma li impongono coercitivamente, ciascuno per la parte che gli
compete; indipendenti, perché ciascuno ha, rispetto a tutti gli altri, almeno una parte di potere politico statale
intangibile da parte degli altri. Dato che lo stato è unitario, questi centri di potere indipendenti devono
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trovare istituzionalmente e realizzare modi di collegamento, o imposti dalla costituzione o decisi


autonomamente da essi stessi, che consentano alla macchina statale di funzionare in modo il più possibile
unitario. Va sottolineato che: l’esistenza di più centri di potere spiega l’impossibilità di determinare a priori il
peso politico di ciascuno rispetto agli altri. Se tutti devono collaborare e coordinarsi, nulla ci garantisce in
anticipo che nel corso di questa collaborazione e coordinamento non si modifichino i pesi politici relativi di
ciascuno verso gli altri, secondo il gioco politico complessivo. Se chiamiamo baricentro del potere il luogo
entro cui si disloca il peso politico maggiore, così che chi occupa quel luogo ha, in quel momento, la forza
politica maggiore, allora in ciascuna forma di governo il baricentro del potere è estremamente variabile da
momento a momento e da questione a questione; rispetto a certe questioni può essere più forte il Parlamento,
rispetto a certe altre può essere più forte il governo o il presidente della Repubblica. Dunque, dove sta il
potere politico? Questa domanda trova risposte determinate sulla base di un’analisi specifica. La costituzione
scritta non risponde a questa domanda in quanto si limita a stabilire il quadro complessivo, ad individuare le
parti e gli snodi principali. Come poi funzioni realmente questa macchina politica, è questione di fatto. Per
questa ragione l’individuazione degli organi costituzionali è anch’essa una questione di fatto, da decidere
essenzialmente con criteri politici sulla base della realtà esistente. Se oggi si afferma che organi
costituzionali dello Stato italiano sono il Parlamento, il governo, il presidente della Repubblica, e la Corte
costituzionale, è perché, sulla base di una ricostruzione fondata sull’esperienza storica, questi sono oggi i
centri politici statali indipendenti, che nel loro diverso rapportarsi sulla base delle competenze
costituzionalmente garantite, dirigono con potere legale lo stato italiano, mentre tutti gli altri organi sono
centri di potere o non politici o dipendenti dai primi.

CAPITOLO 9

I partiti politici

1) Partiti politici e Stato: gli Stati moderni, perlomeno quelli democratico-pluralisti, sono caratterizzati dal
fatto che i soggetti politici principali non sono gli organi costituzionali ufficialmente previsti dalle rispettive
costituzioni, ma i partiti politici, i quali però, secondo diritto, non sono organi dello Stato, ma organizzazioni
private. I soggetti politici principali degli stati democratici sono i partiti politici. Il meccanismo di
formazione delle decisioni statali è il seguente: l’atto politico supremo è la legge e il soggetto costituzionale
titolare della potestà legislativa è il Parlamento; poiché negli stati democratici il potere si fonda sulla volontà
del popolo, il Parlamento deve essere elettivo in modo da rispecchiare la volontà popolare; le elezioni
politiche generali sono dunque l’inizio del meccanismo politico di formazione della volontà statale; con le
elezioni la maggioranza del Parlamento conquista anche il governo, se la forma di governo vigente è quella
parlamentare. Nelle elezioni per la conquista della maggioranza del Parlamento, e quindi per la conquista del
governo nella forma di governo parlamentare, sono decisivi i partiti politici. Dal punto di vista legale i partiti
non hanno il monopolio delle elezioni, perché le candidature possono essere presentate anche dai gruppi di
elettori; però tutti sanno che, di fatto, i candidati presentati dai partiti hanno maggiori possibilità di essere
eletti e che la stragrande maggioranza degli eletti è composta di persone previamente selezionate e scelte dai
partiti. I partiti cioè hanno il monopolio di fatto delle elezioni. In conclusione, il meccanismo politico
disegnato nelle costituzioni va integrato con l’intervento determinante dei partiti, i quali sono i veri padroni
del meccanismo, prima col monopolio delle candidature e delle elezioni, e poi con la conquista del
Parlamento, riempito da uomini di partito diretti dai partiti, e con la conquista del governo, composto da
uomini di partito che rispondono ai rispettivi partiti. Verrebbe spontaneo concludere che allora gli organi
costituzionali sono i partiti, ma questo sarebbe un errore perché i partiti politici sono e restano organizzazioni
private. I partiti sono organizzazioni private per il modo in cui nascono: sono organizzazioni volontarie, a cui
si può aderire o non aderire liberamente, che liberamente possono accettare o respingere le iscrizioni,
possono dividersi per creare nuovi partiti, o possono nascere in numero illimitato e liberamente per volontà
di gruppi privati. I partiti politici per il diritto italiano non sono soggetti pubblici, ma soggetti privati:
rientrano nella categoria delle associazioni non riconosciute, e ad essi si applicano, nei loro rapporti
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Riassunto di Gaia Paoloni
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patrimoniali col mondo esterno, gli articoli dal 36 al 38 del c.c. applicabili a tutte le associazioni non
riconosciute. I partiti, i sindacati, le infinite associazioni culturali, ricreative, sportive, le confessioni
religiose, sono organizzazioni che si considerano e vengono considerate socialmente enti collettivi che hanno
una vita e un’attività indipendente da quella dei singoli che le compongono. Il diritto, non potendo
disconoscere questa realtà, ne prende atto attraverso la figura dell’associazione non riconosciuta, non è
riconosciuta come persona giuridica, e dettando norme che, pur non equiparandola del tutto alla persona
giuridica, rispecchia la sua realtà di ente collettivo. La differenza principale rispetto alle persone giuridiche
non sta nella regola dettata dall’art. 38 relativa alla responsabilità patrimoniale, quanto nel fatto che la
persona giuridica, proprio perché riconosciuta dallo stato, è assoggettata e assoggettabile a penetranti
controlli statali, ai quali invece sfugge l’associazione non riconosciuta. I partiti, i sindacati e tutte le altre
innumerevoli associazioni non hanno nessun interesse ad essere riconosciuti come persone giuridiche, e si
rifiuterebbero decisamente di fronte ad ogni tentativo in questa direzione. Ciò vale anche per i sindacati, i
quali hanno rese vane le regole costituzionali contenute nell’art. 39 che pure prevedeva l’attribuzione ad essi
della personalità giuridica; ciò vale a maggior ragione per i partiti che intendono essere controllori dello
Stato, e non controllati dallo stato. Le decisioni politiche dei partiti, giuridicamente, non vincolano nessuno:
non gli iscritti, i quali possono liberamente sottrarsi alle decisioni del partito uscendo da esso, men che meno
tutti i non iscritti. Se un partito decide un certo programma o propone una certa legge, queste decisioni in sé
per sé sono atti privati in tutto uguali, quanto a forza giuridica, a quelli che potrebbe adottare qualsiasi
persona e cioè sono tutti senza forza giuridica. Politicamente questi atti dei partiti hanno grandi effetti, ma li
hanno perché sono fatti propri, se il partito ha la maggioranza o fa parte della maggioranza, dal Parlamento e
quindi dal governo, e in tal modo, venendo recepiti in atti costituzionali gli organi costituzionali, acquistano
forza giuridica vincolante. I partiti per comandare devono impadronirsi degli organi costituzionali dello
Stato, riempendo tali organi di persone di loro fiducia. Nei sistemi democratici i partiti sono sempre più di
uno. Secondo le costituzioni democratico-pluraliste viene garantita la possibilità di più partiti e nei fatti ci
sono più partiti. Ciò vuol dire che c’è concorrenza politica fra i partiti e se uno o alcuni sono maggioranza,
l’altro o gli altri sono all’opposizione; uno o alcuni formulano e impongono le leggi, formano il governo e
quindi dirigono l’apparato dello Stato, l’altro o gli altri che stanno all’opposizione possono criticare la
maggioranza, ma intanto non comandano. Il sistema si regge sul presupposto che chi oggi è minoranza
domani può diventare maggioranza. Dunque, per questo aspetto, i partiti devono essere considerati e
considerarsi tutti pari, sia che siano all’opposizione sia che siano al governo, perché possibile l’alternanza al
potere tra i partiti nel corso della lotta politica. Nessun partito è permanentemente superiore agli altri. Ecco
perché i partiti, presi per se stessi, non comandano, mentre comandano gli organi costituzionali di cui uno o
alcuni partiti mediante le elezioni si sono impadroniti: tutti i partiti, anche quelli di maggioranza, sono
giuridicamente eguali, perché tutti privi di poteri formali di comando; siccome però governare vuol dire
comandare, il partito o i partiti di maggioranza comandano di fatto ma travestendosi da organi costituzionali,
cioè ponendo propri uomini negli organi costituzionali. Dunque, chi comanda, dal punto di vista giuridico
costituzionale, non è il partito di maggioranza, ma gli organi costituzionali. Ogni partito sa che ogni sua
decisione per divenire vincolante deve passare attraverso gli organi costituzionali. Se non esiste mai totale
coincidenza tra persone che dirigono i partiti e persone degli stessi partiti che occupano cariche
costituzionali, i dirigenti di partito devono convincere i titolari degli organi costituzionali, e cioè è possibile
che questi secondi non siano sempre d’accordo con i dirigenti dei partiti. Gli organi costituzionali allora sono
soggetti politici relativamente autonomi dagli stessi partiti. Questa indipendenza diventa maggiore nel caso
in cui l’elezione ad una carica monocratica (es. sindaco) dipende dalle qualità del candidato e dai consensi
che egli riesce a raccogliere piuttosto che dalla macchina organizzativa del partito di appartenenza, e nel caso
in cui la permanenza nella carica dura un numero di anni prestabilito, senza possibilità di revoca anticipata.
In tali casi il rapporto tra eletto e partito può invertirsi, ed è l’eletto a dettare i tempi e programmi, ed il
partito o tace o asseconda l’eletto. Gli organi costituzionali sono circondati costituzionalmente e
legislativamente da vincoli rivolti al fine di costringerli a decidere avendo in mente l’interesse generale dello
Stato. I criteri che seguono i dirigenti di partito non sono gli stessi che seguono i titolari degli organi
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costituzionali. In particolare, i dirigenti di partito si propongono di come accrescere la forza elettorale e il


consenso al proprio partito; i titolari degli organi costituzionali devono rispettare i molteplici vincoli che le
leggi e la costituzione hanno loro imposto. Questo elemento accresce la relativa indipendenza tra organi
costituzionali e partiti; gli organi costituzionali agiscono per una parte nella sfera del lecito ma per un’altra
parte nella sfera del legittimo; i partiti agiscono totalmente nella sfera del lecito. La separazione giuridica tra
organi costituzionali e partiti va a vantaggio anche dei partiti di maggioranza, perché permette ad essi di
agire con la più grande libertà: essi non comandano direttamente, ma in cambio si muovono con la stessa
libertà di tutti i privati, e cioè col massimo di libertà giuridicamente possibile. Ecco perché i partiti non
accetterebbero la concessione della personalità giuridica, in quanto costituirebbe un vincolo e un
condizionamento della loro libertà. Questa libertà è lo strumento più efficace per elaborare liberamente i
propri programmi politici, ricercare i consensi dove il partito vuole e come vuole, modificare senza controlli
le proprie decisioni, stringere e rompere le alleanze in piena indipendenza, insomma svolgere la propria
attività politica da vero sovrano che non ha nessuno al di sopra di sé. Questa libera attività politica diventa
efficace quando si trasferisce entro gli organi costituzionali. In conclusione, i partiti sono i soggetti principali
del complessivo meccanismo politico costituzionale; essi però, giuridicamente, sono associazioni di fatto e
non organi costituzionali. I partiti sono organizzazioni sociali che dirigono, influenzano, comandano lo stato,
ma giuridicamente non sono ancora parte organica dello Stato.

2) Sui sistemi di partito: nei sistemi politici nei quali è garantita la libertà e la pluralità dei partiti, vi sono
sistemi che conoscono la dominanza di due soli partiti, che si alternano al governo in base alla vittoria nelle
competizioni elettorali (in tal caso si parla di bipartitismo); sistemi nei quali solo un’alleanza tra più partiti
consente di conquistare il governo del paese (in tal caso si parla di pluripartitismo e di governi di coalizione).
Questo secondo caso si articola in molti altri sotto casi: in alcuni sistemi le alleanze di governo vengono
stabilite prima delle elezioni, in altri dopo; in alcuni si creano due blocchi contrapposti (in tal caso si parla di
bipolarismo), in altri le alleanze sono variabili e diventano possibili molte combinazioni diverse; etc. In tutti i
casi c’è una significativa correlazione tra sistemi di partito e sistemi elettorali, anche se non è facile dire
quando è il sistema elettorale praticato che determina il sistema dei partiti, e quando è il sistema dei partiti
prodotto da una specifica società che crea il sistema elettorale corrispondente alla propria configurazione.
Però è evidente che a sistemi bipartitici corrispondono sistemi elettorali fortemente maggioritari, e che dove
sono vigenti sistemi elettorali proporzionali o quasi proporzionali si riscontrano sistemi bipolari.

3) Sui tipi di partito politico: i primi partiti che si ricordano sono i whigs e i tories, cioè i partiti nati con la
rivoluzione inglese, con il primo stato aristocratico liberale dopo la monarchia assoluta. Però più che di
partiti si dovrebbe parlare di consorterie, cioè di gruppi di pressione legati al prestigio e al potere di alcuni
uomini politici. I partiti, come organizzazioni di massa, sono molto più recenti. La forma di partito
dominante nell’Europa continentale non risale oltre alla seconda metà dell’Ottocento; mentre quella
dominante nei paesi anglosassoni non risale oltre l’Ottocento. Bisogna distinguere tra: 1) partiti che sono
essenzialmente macchine elettorali, cioè si attivano solo in occasione delle elezioni, e non svolgono alcuna
attività nei periodi intermedi, e partiti che hanno un’organizzazione permanente e dunque svolgono
un’attività politica ogni giorno; 2) partiti che selezionano direttamente i candidati da presentare nelle elezioni
e partiti che offrono il loro appoggio a candidati che hanno costruito la loro candidatura indipendentemente
dal partito; 3) partiti che finanziano interamente o quasi la campagna elettorale dei candidati che presentano
o appoggiano, e partiti che demandano ai candidati del tutto o quasi la raccolta di fondi per finanziare la loro
campagna elettorale; 4) partiti con una forte disciplina nei confronti dei propri iscritti, ivi compresi quelli
eletti a cariche elettive, e partiti con una scarsa o assente disciplina interna. Gli aspetti ora elencati possono
sovrapporsi in diverse combinazioni per ciascun partito. Un aspetto che accomuna tutti i partiti politici è che
essi sono articolazioni della società che da un lato debbono rivolgersi verso il basso, per raccogliere,
selezionare, organizzare, coordinare i bisogni e le esigenze che salgono dai gruppi sociali che essi intendono
rappresentare e tutelare; dall’altro lato devono trasferire queste domande ed i programmi che ne conseguono
a livello dei poteri pubblici, e dunque devono integrarsi col potere che comanda sulla società. Secondo che
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prevalga l’uno o l’altro aspetto avremo partiti fortemente radicati nelle masse popolari o partiti
istituzionalizzati che sovrappongono ai bisogni popolari i propri interessi egoistici di classe dirigente. Il
prevalere di uno o dell’altro aspetto muta nel tempo, in base a molte variabili, la principale delle quali
dipende dalla circostanza se quel partito è al governo (prevale il momento istituzionale) o sta all’opposizione
(tende a prendere il sopravvento il momento della lotta e del legame con i movimenti entro il corpo sociale).
Due tipi di partito estremi opposti l’uno all’altro sono: il partito di lotta e il partito di mediazione-
integrazione. Il partito di lotta è il primo vero partito dell’Europa continentale, esclusa cioè la Gran Bretagna,
ed è un’invenzione della classe operaia. Questo tipo di partito, il cui primo esempio è costituito dal partito
socialdemocratico tedesco, nato alla fine del 1800, sul cui esempio si sono costituiti gli altri partiti socialisti
(tra cui quello italiano fondato nel 1892) si caratterizza per: a) distinzione tra iscritti e simpatizzanti.
L’iscrizione è volontaria, ma deve essere accettata: essa è subordinata ad una verifica dell’adesione al
programma ed ai fini del partito; b) l’adesione è individuale: membri del partito sono sempre i singoli
individui, e non altre organizzazioni, così che nell’adottare le decisioni non ci sono membri individuali e
membri rappresentativi di organizzazioni. Ciò significa che l’essere dirigenti di altre organizzazioni è il titolo
per partecipare ad organismi dirigenti del partito e in tali organismi ognuno vota come singolo; inoltre nei
congressi, cioè nelle assise decisionali supreme, non è mai ammesso il voto in rappresentanza di
organizzazioni, ma solo in rappresentanza di singoli iscritti; c) in questo tipo di partito vi è una precisa
enunciazione dei diritti e doveri degli iscritti, con conseguente disciplina di partito, per cui gli iscritti si
subordinano alle regole di vita dell’organizzazione, pena l’espulsione. L’iscritto si impegna ad applicare le
decisioni adottate dagli organi legittimi del partito ed a difendere verso l’esterno le iniziative del partito; d)
l’esistenza di un apparato di direzione professionale, stabile nel tempo e addestrato. I dirigenti del partito
sono tali perché scelti dallo stesso partito secondo criteri interni ad esso e non perché detengono posizioni di
potere al di fuori del partito. Essi costituiscono un gruppo professionale che dedica tutta la sua vita e la sua
attività al partito. È facile capire perché la classe operaia doveva costruire questa forma di organizzazione, e
perché solo la classe operaia poteva inventarla. La borghesia e l’aristocrazia terriera, finché dominarono
politicamente senza dover temere la concorrenza di altre classi organizzate, non avevano bisogno di un tale
partito. La loro ristrettezza numerica, il grado medio di istruzione dei propri membri, la forza sociale e il
potere che ciascun membro aveva individualmente in quanto ricco proprietario, garantivano un’unità politica
di fondo, una solidarietà di classe, senza alcuna necessità di duplicare l’esistenza nella propria classe
attraverso la creazione di un’organizzazione rappresentativa di essa. Niente di simile per gli operai. Il loro
grande numero e la loro dispersione, la totale dipendenza in quanto singoli individui, il basso o nullo grado
di istruzione, rendevano indispensabile la creazione di un’organizzazione specifica che con la sua
compattezza creasse una forza sociale al posto della debolezza individuale dei singoli operai. Dunque, gli
operai non potevano agire come classe sulla scena politica se non organizzati in partito, e in un partito
compatto, disciplinato, organizzato in modo stabile e permanente. Il partito diventa così storicamente la
condizione di esistenza della classe operaia. Le caratteristiche prima elencate di questo partito sono la
conseguenza di queste esigenze. La distinzione tra iscritti e simpatizzanti è necessaria per creare una
organizzazione dai confini certi, per poter esigere con certezza l’adempimento dei doveri, per creare una
solidarietà di gruppo stabile; l’adesione deve essere individuale perché si chiede un impegno ai singoli, si
esige un’attiva partecipazione, si vuole sottrarli all’ignoranza; è necessario esigere una rigorosa disciplina e
creare un’organizzazione disciplinata perché solo così si può bloccare la concorrenza e la divisione che per
gli operai è causa di debolezza e miseria; è necessario creare dei dirigenti professionali, perché gli operai,
poco istruiti e assorbiti dal lavoro in fabbrica, non possono fare a meno di dirigenti di loro fiducia, colti e
addestrati abbastanza per reggere il confronto con i dirigenti delle classi proprietarie. Questo tipo di partito
Rescigno lo chiama di lotta, perché quando nasce esso ha la funzione di creare una forza organizzata contro
il dominio esistente. Questo partito dunque nasce con la classe operaia, risponde ai suoi bisogni, e solo la
classe operaia, già unificata e disciplinata dalle grandi fabbriche, poteva essere capace di concepirlo e
praticarlo. Una volta che la classe operaia crea tale partito, prima in Germania e poi in tutti i paesi
dell’Europa continentale, tutte le altre classi e gli altri gruppi sociali sono costretti ad adottare tale tipo di
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partito, con modificazioni almeno nella struttura esteriore. Però, siccome i fini di queste altre classi non sono
di lotta contro la società esistente, ma in prevalenza fini di mediazione e integrazione nella società esistente,
gli stessi originari partiti operai spesso hanno trasformato i loro obiettivi iniziali fino a rovesciarli e si è
creata in Europa una situazione in cui le strutture del partito di lotta entrano in contraddizione con la
funzione principale dominante da essi svolta. Per capire questa questione è necessario esaminare prima una
diversa esperienza. I partiti americani sono profondamente diversi da quelli europei. Anzitutto non esiste una
rigorosa distinzione tra iscritti e simpatizzanti, perché non esistono liste formalizzate di iscritti: ogni volta
che è necessario, ciascuno si iscrive al partito che ha deciso di scegliere per compiere quel determinato atto
(es. le primarie, elezioni di partito per scegliere i candidati da presentare alle elezioni politiche vere e
proprie). Conseguentemente non esiste alcun controllo sull’iscrizione, nessuna vera disciplina di partito. È
ammesso che gli eletti dello stesso partito possano votare nelle assemblee elettive in modo differente. Non
esiste un apparato stabile di partito ma: da un lato volta a volta si crea un apparato temporaneo in occasioni
particolari; dall’altro esistono stabilmente gli eletti alle diverse cariche e i bosses, cioè i capi clientela,
personaggi auto investitisi, e potenti nei fatti perché riconosciuti da vari gruppi sociali. Questi bosses
controllano masse di voti e sono i mediatori riconosciuti dei gruppi di pressione. Non esistono dirigenti
professionali di partito eletti dal partito secondo procedure formali. Il partito americano è una struttura
perfettamente funzionale allo scopo di conciliare, mediare, integrare diversi gruppi di interesse, così che il
partito è come una camera di compensazione, nelle quali diversi rappresentanti di tali gruppi si accordano
volta a volta sul modo migliore di conciliare gli interessi diversi ammessi alla contrattazione. A questo tipo
di partito non interessano gli iscritti ma interessano gli elettori, con i quali verificare volta a volta il grado di
consenso raccolto dal compromesso raggiunto; la disciplina sarebbe un grave intralcio, perché renderebbe
più difficile il raggiungimento di un compromesso accettato da tutti i gruppi ammessi; è necessaria una
struttura flessibile che può continuamente modificarsi secondo le variabili vicende dei diversi gruppi sociali.
Il bipartitismo, senza distinzione di base sociale e di obiettivi strategici nei due partiti, è lo strumento ideale
per permettere quegli spostamenti pendolari dei vari gruppi sociali che consentono nuove alleanze e nuovi
compromessi, attraverso una contrattazione permanente del proprio appoggio elettorale ai diversi candidati.
Questo tipo di partito Rescigno lo chiama di mediazione-integrazione e si caratterizza per il fatto che in esso
la struttura corrisponde pienamente alla funzione. Esso si adegua alle caratteristiche dominanti della società
americana, e rappresenta una vittoria politica della borghesia americana, che ha imposto alla società il suo
tipo di partito politico ed ha impedito il costituirsi del partito operaio. La classe operaia americana non ha
mai superato la fase sindacale di organizzazione, e politicamente vota ora l’uno ora l’altro partito dominante
(di solito vota democratico). Dunque, il proletariato organizzato sindacalmente si considera un gruppo di
pressione tra gli altri, e chiede al partito cui fa riferimento di tenere conto dei suoi interessi particolari nelle
mediazioni via via proposte e raggiunte. Il partito operaio europeo invece mantiene la pretesa di essere
portatore di un nuovo interesse generale per tutta la società. Diversa la caratterizzazione dei partiti inglesi più
vicini a quegli americani che a quelli europei. L’aspetto più caratteristico dei partiti inglesi è la quasi assoluta
indipendenza dei gruppi parlamentari rispetto al partito, ridotto a puro supporto organizzativo dei primi. Il
capo del partito viene scelto dal gruppo parlamentare e riceve la sua definitiva investitura dal voto popolare;
il programma elettorale viene deciso dal leader del partito con la collaborazione del gruppo dirigente che egli
si sceglie, e può divergere da quello approvato dal congresso del partito; gli uomini che siedono al governo
sono scelti dal leader e dal gruppo parlamentare. A differenza dei partiti americani, nei partiti inglesi, e
segnatamente nel gruppo parlamentare, vige la più rigorosa disciplina di partito. Questa prevalenza del
gruppo parlamentare sul partito è il risultato di una ideologia e di una pratica tesa a negare o a ridurre
l’influenza dei gruppi politici organizzati esterni al Parlamento e ad esaltare l’espressione della diretta
volontà popolare. In tal modo viene reciso ogni legame permanente ed organizzato tra eletti ed elettori, e
dunque le elezioni accentuano fino all’estremo il loro carattere di atto plebiscitario in cui il popolo sovrano
viene chiamato ogni tanti anni a scegliersi i propri rappresentanti e però a delegare totalmente ad essi ogni
potere decisionale. Si sostiene che il programma presentato agli elettori vincola il partito così che esso, nel
corso della legislatura, non può perseguire fini e obiettivi non compresi nel programma. Si tratta di
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affermazioni senza effettivo riscontro nella realtà; si tratta di un criterio politico che ogni partito preferisce
seguire quanto più gli è possibile per non alienarsi il proprio elettorato, piuttosto che di una regola vera e
propria. L’indipendenza e libertà dei rappresentanti rispetto ai rappresentati, indipendenza del corpo dei
rappresentanti verso gli elettori, corrisponde alla ideologia liberale secondo cui una società di individui liberi
ed eguali sceglie persone di sua fiducia affinché queste, avvalendosi del proprio giudizio e delle proprie
capacità perseguono il bene comune senza essere vincolate a interessi particolari di gruppi e di persone. Si
presuppone dunque: che esista un interesse generale; che la società sia omogenia; che questo interesse debba
essere cercato al di fuori di ogni condizionamento perché questo altererebbe la situazione di eguaglianza dei
membri della società; che il deputato debba essere libero rispetto ai suoi elettori, e debba contare per le sue
qualità personali. Di qui due conseguenze costanti nel sistema politico inglese: il collegio uninominale, in cui
si affrontano politicamente persone, e la riduzione del partito a supporto organizzativo degli eletti che si
ripresentano dinanzi agli elettori. Queste regole si affermano nell’800, il partito conservatore, erede di questa
tradizione, le fa proprie. È più difficile capire perché le ha fatte proprie il partito laburista. La classe operaia
inglese per tutto l’Ottocento rifiuta di superare la fase sindacale, cioè economico-corporativa, e sul piano
politico si affida al partito liberale, cioè progressista rispetto al partito conservatore. All’inizio del ‘900 i
sindacati inglesi giungono alla conclusione che essi devono poter fare affidamento entro il Parlamento su
uomini di loro fiducia, e a questo scopo fondano il partito laburista. Membri del partito non sono gli operai,
ma i sindacati come tali: l’adesione non è individuale, ma collettiva. Ciò significa che il partito nasce non
come corpo collettivo organizzato che deve educare ed unire i singoli, ma come strumento pratico al servizio
di organismi già esistenti, i quali hanno una propria vita e propri dirigenti, i sindacati. Il partito laburista
dunque non organizza direttamente gli operai, e non ne è direttamente influenzato. Il rapporto diretto del
partito laburista con gli operai avviene nelle elezioni politiche, cioè quando essi si presentano come cittadini
elettori formalmente uguali a tutti gli altri. I deputati laburisti sono uomini che ricevono la loro investitura
dai cittadini, secondo un rapporto plebiscitario che preserva la loro quasi assoluta indipendenza. La
mediazione politica organizzata del partito viene saltata, il partito è una macchina elettorale, che si attiva
solo nelle elezioni, e non è una organizzazione di massa permanentemente attiva capace di contrapporsi allo
stesso Parlamento e di prevalere su deputati, come avviene in Italia e in altri paesi europei. Questa è la
ragione per cui i partiti inglesi sono più vicini a quelli americani che a quelli europei: sia quelli inglesi che
quelli americani sono costruiti in modo da mantenere nella passività le grandi masse popolari tra una
elezione e l’altra, e sono particolarmente efficaci nel permettere ai dirigenti eletti plebiscitariamente di
svolgere con grande libertà e flessibilità la loro funzione di mediazione delle diverse spinte provenienti dalla
società. Entrambi raggiungono questo risultato perché è mancata in tali paesi l’esperienza di forti partiti
operai, i quali invece in Europa hanno imposto il loro modello organizzativo e il loro modo di vita politica
anche agli altri partiti non operai. Oggi, attraverso modifiche statutarie, il peso dei sindacati entro il partito
laburista è stato praticamente azzerato, ma comunque non ha guadagnato in diretta partecipazione degli
iscritti.

4) I partiti in Italia: per parlare dei partiti italiani è necessario distinguere due periodi: il primo comprende
il periodo che va dalla fine dell’Ottocento al fascismo e poi dal 1943 al 1992. Il secondo inizia dal 1992 e
durerà qualche decennio. L’Italia, prima della fondazione del partito socialista italiano (1892), non
conosceva veri partiti. Nei libri di storia si distingue tra destra e sinistra durante il Risorgimento, ma si
ricorda anche il fenomeno del trasformismo così che il Parlamento era un insieme di clientele e consorterie
dai confini mutevoli. Con il partito socialista per la prima volta si ebbe l’esperienza di un partito di massa
con una sua organizzazione stabile e permanente, una sua disciplina, una sua capacità di essere e agire come
soggetto collettivo. Il secondo partito che seguì quello socialista fu il partito popolare, di ispirazione
cattolica, nato nel primo dopoguerra, quando i cattolici decisero di partecipare alla vita politica. Il partito
popolare copiò in buona parte il partito socialista: anche i cattolici stavano creando un partito di massa
(essenzialmente a base contadina), anche i cattolici come i socialisti provenivano da un’esperienza di lunga
opposizione allo stato liberale e agitavano obiettivi antagonisti rispetto allo stato esistente. Dunque, i cattolici

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e i socialisti crearono organizzazioni con la struttura di partito di lotta perché la loro politica era una politica
di opposizione di massa. Nel 1919 viene abbandonato il sistema elettorale a collegio uninominale ed adottato
quello proporzionale di lista (ad un sistema incentrato sui candidati si sostituisce un sistema incentrato
prevalentemente sui partiti); come conseguenza di questo mutamento il regolamento della Camera dei
deputati istituzionalizza per la prima volta i gruppi parlamentari. Questi fatti costituiscono il riconoscimento
che la nuova forma di partito è ormai quella dominante così che il diritto si deve adeguare a questa realtà. Il
partito fascista interrompe lo sviluppo di questa esperienza vietando gli altri partiti, ma la conserverà anche
perché il partito fascista si struttura a somiglianza del partito socialista. Col secondo dopoguerra i partiti si
riorganizzano e gli unici partiti vitali e significativi sono i vecchi partiti di massa già esistenti prima del
fascismo: la democrazia cristiana (DC) è l’erede del partito popolare, partito comunista italiano (PCI) e
partito socialista italiano (PSI) sono gli eredi del vecchio PSI e del vecchio partito comunista d’Italia (PCDI),
nato dalla scissione di Livorno del 1921. Essi si riorganizzarono secondo i modelli sperimentati, quindi
presentano tutti una struttura da partito di lotta. Ma la situazione politico sociale si è intanto mutata. La DC
non è più partito di opposizione, ma partito di governo. La sua struttura è in contrasto con la sua funzione
che è quella di gestire lo stato esistente e di mediare le diverse parti del suo blocco sociale e di integrarle
nello stato esistente. La sua funzione è di mediazione-integrazione; la sua struttura, sulla carta, resta quella di
partito di lotta. La DC cerca di porre rimedio a questo attraverso le correnti di partito che sono l’espressione
organizzata di diversi gruppi di interesse diversamente presenti e alleati entro ciascuna corrente, e la
funzione principale del partito è quella di trovare adeguati compromessi tra le correnti e quindi tra i diversi
gruppi di interessi di cui esse sono portatrici. Perciò le correnti diventano i centri reali di potere nel partito, il
partito è una camera di compensazione tra le correnti, è lo strumento per garantire che i compromessi
raggiunti siano rispettati dai contraenti. Ragionamenti analoghi valgono per il PSI e per il PCI. In Italia, e in
genere in Europa, si è creata in questo periodo un’altra forma di partito rispetto a quelle prima esaminate, la
cui caratteristica è data dall’unione contraddittoria di due caratteristiche antagoniste: la struttura
organizzativa, che è quella classica del partito di lotta, e la funzione, che è sempre più quella di mediare tra
diversi gruppi organizzati e integrarli nello stato esistente. Le correnti sono un tentativo per superare tale
contraddizione abbastanza inadeguato e produttivo di conseguenze peggiori. Possiamo chiamare questo tipo
di partito “partito di correnti”. Gli anni dal 1992 ad oggi hanno determinato e continuano a determinare uno
sconvolgimento totale del sistema dei partiti in Italia. Nel breve giro di due anni sono scomparsi tutti i partiti
che hanno caratterizzato il periodo 1943-1993. Non esistono più la DC, il PCI e il PSI. Non esistono più o
sono ridotti a larve il partito socialdemocratico italiano, il partito repubblicano italiano, il partito liberale
italiano. Il partito di destra estrema, il movimento sociale italiano, fino alla sua confluenza nel 2009 nel
partito della libertà, aveva cambiato nome (si chiamava alleanza nazionale) e collocazione politica. Al posto
del PCI ci sono stati due nuovi partiti: i democratici di sinistra, dal 2008 confluiti nel partito democratico, e il
partito della rifondazione comunista, che rischia di non superare le soglie di sbarramento; la democrazia
cristiana ha dato vita a due formazioni relativamente stabili, la Margherita a sinistra, che dal 2008 si è fusa
con i democratici di sinistra per dare vita al nuovo partito di centrosinistra chiamato partito democratico, e
l’Udc prima a destra ed ora schierata al centro. Sono nati nuovi partiti o nuovi movimenti. Forza Italia, che
dopo la fusione con alleanza nazionale nel 2009 si chiama partito della libertà, nacque nel 1994 intorno alla
figura di un imprenditore televisivo Silvio Berlusconi: partito tutto incentrato intorno al suo capo ed alla sua
Corte. La Lega Nord è oggi un partito che pone al centro della sua politica l’opposizione dura all’accoglienza
dei migranti extra comunitari e un rigetto delle politiche dell’Unione europea (raggiunge oggi un consenso
intorno al 12%). Un movimento, 5 Stelle, creato da un comico ha ottenuto e conserva un notevole successo,
facendone il secondo partito. Il primo partito nei sondaggi sembra restare il partito democratico. La
situazione politica è più confusa: dopo le sentenze della Corte costituzionale che hanno dichiarato
parzialmente incostituzionale la prima volta (sentenza n. 1 del 2014) la l. n. 270 del 2015, e la seconda volta
(sentenza n. 35 del 2017) la legge n. 52 del 2015 (che disciplina il sistema elettorale della sola Camera dei
deputati), la legge elettorale per la Camera dei deputati rischia di essere una legge proporzionale (essendo
improbabile che una lista, da sola, ottenga il 40% dei voti), e resta tale, dopo la sentenza n. 1 del 2014 della
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Corte costituzionale, la legge elettorale per il Senato. Tutto è in movimento, ma sono individuabili alcuni
punti fermi: a) la scomparsa del tradizionale partito di massa: tutti, o quasi tutti i partiti oggi esistenti, hanno
un’organizzazione leggera e si mobilitano solo in occasione delle elezioni; b) i luoghi delle decisioni
politiche non sono individuabili con relativa certezza negli organi dirigenti dei partiti; c) la carriera politica
non passa quasi mai attraverso i partiti, ma si conquista visibilità attraverso altri canali; d) aumenta il peso
delle grandi organizzazioni sociali che cessano di essere collaterali ai partiti e che viceversa sono sempre più
autonome ed indipendenti, e intervengono nella vita politica direttamente, scavalcando i canali e le
mediazioni dei partiti. Questi mutamenti si riflettono nelle leggi elettorali. Mentre le leggi elettorali vigenti
dal 1948 al 1993 erano proporzionali a livello nazionale, e proporzionali negli altri livelli, le leggi elettorali
da allora in poi sono tutte maggioritarie, tali cioè da favorire o garantire ai partiti maggiori o alle coalizioni
vincenti un numero di seggi superiore al numero dei seggi che avrebbero vinto con un sistema proporzionale.
La mancata stabilizzazione politica si ritrova anche nell’insoddisfazione per le leggi elettorali vigenti: è
significativo che le leggi nazionali del 1993 siano state abrogate e sostituite nel 2005, e che questa legge
recente criticata da tutti sia stata dichiarata incostituzionale con sentenza n. 1 del 214 dalla Corte
costituzionale rispetto a due punti (il premio di maggioranza e la mancata previsione di almeno un voto di
preferenza), di modo che la legge resta in vigore ma è divenuta del tutto proporzionale. Un secondo punto
fermo riguarda il bipolarismo davanti i partiti maggiori, trascinandosi dietro quelli minori, costretti ad
allearsi con i primi per non scomparire, tendono a creare due blocchi contrapposti, in qualche modo resi
obbligatori dai sistemi elettorali; si tratta di bipolarismo, cioè di due blocchi contrapposti di più partiti, e non
di bipartitismo. Il significato più profondo delle riforme elettorali è il tentativo di distruggere i tradizionali
partiti di massa, come erano nati dopo la resistenza e come si erano affermati da allora per alcuni decenni, e
di sostituirli con altri tipi di partito. Oggi la maggioranza delle forze politiche e sociali in Italia vogliono un
altro partito diverso rispetto a quello della classe operaia, con minore o nessuna disciplina interna, con una
organizzazione minima, con programmi generici e al loro posto uomini di prestigio, con una vita politica che
si limita a chiedere il voto, ma non mobilità mai in azioni dirette grandi masse di uomini. Le nuove leggi
elettorali assecondano questa tendenza, e ne sono la traduzione istituzionale.

5) La Costituzione italiana sui partiti: la costituzione italiana disciplina i partiti in un articolo, il 49.
Questo articolo si trova nella prima parte della costituzione, quella dedicata ai rapporti civili, economici,
sociali, e non invece nella seconda, che è dedicata all’organizzazione dello Stato. I costituenti hanno colto
nei partiti l’aspetto peculiare per cui essi, per quanto determinanti nella vita politica e quindi rispetto allo
stato, non fanno parte dello Stato. La costituzione si riferisce ai partiti anche in altri casi: nell’art. 98,
secondo comma; nella XII disposizione finale (è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del
disciolto partito fascista); nell’art. 72, in cui la costituzione accenna ai gruppi parlamentari e quindi ai partiti
in Parlamento. La costituzione con l’art. 49 presuppone l’esistenza di più partiti ed esige che sia garantita la
possibilità di molteplici partiti: tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, cioè vi è libertà di
associarsi o non associarsi in partiti, sia in quelli già esistenti sia in parti di nuovi; in partiti: la costituzione
usa il plurale, cioè presuppone che i partiti possano essere più di uno; per concorrere: ha senso la parola
concorrere in quanto i partiti siano più di uno; con metodo democratico: rispettando il gioco e l’alternanza di
maggioranza e minoranza, per cui la maggioranza governa, ma la minoranza può divenire successivamente
maggioranza e deve quindi godere di tutti i diritti sufficienti e necessari per svolgere la sua funzione di
opposizione che tende a divenire maggioranza.

6) La legge ordinaria sui partiti, l’abolizione del finanziamento pubblico diretto, la disciplina della
contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore: il decreto legge, n. 146/2013,
convertito con modificazioni nella l. n. 13/2013, parzialmente modificato dal d. l. 149 del 2013 convertito
con modificazioni dalla l. n. 13 del 2014 ha introdotto tre innovazioni in tema di partiti politici: 1) ha dettato
norme sulla organizzazione e sul funzionamento dei partiti politici, di quelli che intendono avvalersi dei
benefici previsti dalla legge, e cioè di tutti quelli significativi; 2) ha abolito il finanziamento pubblico dei
partiti, che aveva caratterizzato il sistema dal 1974 in poi; 3) ha disciplinato con norme di favore le
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

contribuzioni volontarie ai partiti da parte di persone fisiche e di altri soggetti. Per quanto riguarda
quest’ultimo punto bisogna ricordare che a) agli individui ed alle organizzazioni è consentito finanziare
volontariamente i partiti che si conformano a quanto previsto dalla legge, godendo dei benefici previsti ma
nello stesso tempo attenendosi ai limiti e alle modalità imposte dalla legge, e che b) la legge prevede altri
vantaggi indiretti per favorire la vita e l’attività di tali partiti. Per quanto riguarda il punto uno la legge
distingue tra i partiti che volontariamente si attengono a quanto previsto dalla legge e che, come
contropartita, si avvalgono di tutte le norme di favore previste dalla legge, e quelli che non si attengono alle
norme e non per questo diventano illeciti (restano associazioni di fatto), ma non possono avvalersi dei
benefici previsti. La legge prevede che i partiti che intendono avvalersi dei benefici devono dotarsi di uno
statuto per atto pubblico, che tale statuto deve disciplinare una serie di oggetti analiticamente elencati, che
tale statuto deve essere giudicato conforme alla legge da un’apposita commissione nazionale, va iscritto in
un registro nazionale tenuto da dalle commissioni, va pubblicato in Gazzetta Ufficiale, e deve essere
consultabile da chiunque in un apposito sito internet.

CAPITOLO 10

La partecipazione popolare

1) Premessa: ogni potere pubblico deriva dal popolo e i governi oggi dichiarano sempre di agire in nome e
nell’interesse del popolo. Questa affermazione si manifesta attraverso la proclamazione ufficiale nelle
costituzioni che la sovranità appartiene o spetta al popolo, o emana dal popolo, o deriva dal popolo e simili.
Nei regimi democratici la scelta dei governanti viene compiuta direttamente o indirettamente da tutto il
popolo. Si ha elezione diretta quando tutto il popolo (il corpo elettorale) sceglie direttamente mediante
elezione i membri di un organo costituzionale collegiale o il titolare di una carica costituzionale monocratica:
nei regimi democratici questo organo collegiale è il Parlamento, a cui si aggiunge, come organo
costituzionale, il capo del potere esecutivo. Si ha elezione indiretta quando titolari di un organo
costituzionale vengono eletti da un altro organo direttamente rappresentativo (il governo in Italia è organo
indirettamente rappresentativo, perché per restare in carica deve godere la fiducia del Parlamento, che è
organo direttamente rappresentativo). L’esistenza di un organo direttamente rappresentativo (direttamente
eletto dal popolo) è la condizione minima affinché si possa parlare di democrazia. È necessario che tale
elezione diretta sia reale decisione liberamente assunta dal corpo elettorale; è necessario che anche gli organi
costituzionali siano indirettamente rappresentativi, e cioè in qualche modo dipendano dall’organo
direttamente rappresentativo. La partecipazione popolare all’esercizio delle funzioni pubbliche non si limita
alla elezione dei membri di alcuni organi, come il Parlamento, ma si estende ad altri fatti, assecondando una
pressione popolare che dura da almeno un secolo, diretta ad estendere le forme di partecipazione all’esercizio
dei poteri pubblici.

2) Democrazia diretta e democrazia rappresentativa: si ha democrazia diretta quando tutte le decisioni


politiche vengono adottate direttamente dall’intero popolo (o è previsto istituzionalmente che qualsiasi
decisione politica potrebbe essere avocata e decisa definitivamente dal popolo); si ha democrazia
rappresentativa quando tutte le decisioni politiche vengono adottate da rappresentanti eletti dal popolo. Si
possono anche avere commistioni dei due processi decisionali, per cui esistono sia strumenti di democrazia
diretta sia strumenti di democrazia rappresentativa: però se prevalgono i momenti di democrazia
rappresentativa, cioè che quasi tutte le decisioni politiche più importanti vengono adottati da organi
rappresentativi, allora dobbiamo concludere che, nonostante l’esistenza di alcuni momenti di democrazia
diretta, vige una democrazia rappresentativa (regimi democratici); se dovessero prevalere i momenti di
democrazia diretta, cioè le decisioni politiche più importanti venissero adottate dal popolo direttamente,
allora dovremmo concludere che, nonostante la presenza anche di strumenti di democrazia rappresentativa,
vigerebbe una democrazia diretta (questo caso oggi non si dà in nessun paese). È importante sottolineare che
la democrazia diretta non coincide con l’estinzione dello Stato come teorizzata dal marxismo. In
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

conclusione, per quanto riguarda l’esercizio del potere politico, il popolo partecipa indirettamente al suo
esercizio attraverso i suoi rappresentanti, anche se le costituzioni contemporanee prevedono alcuni momenti
di partecipazione diretta, così che istituti di democrazia diretta (es. il referendum abrogativo in Italia) si
inseriscono in una struttura che resta però rappresentativa. La distinzione tra democrazia diretta e democrazia
rappresentativa perde di significato se applicata a meccanismi che non consistono in decisioni o che non
sono politici: il potere di proporre una legge, restando la decisione al Parlamento, è uno strumento di
democrazia diretta depotenziato, consente di partecipare al processo decisionale, ma non è un meccanismo di
decisione. Dunque, non rientrano di per sé nella democrazia diretta quelle forme di partecipazione alla
gestione dei pubblici poteri che non sono propriamente manifestazioni di potere politico. Dovrebbe farsi
netta distinzione tra democrazia diretta e partecipazione, tra istituti della democrazia diretta e istituti della
partecipazione: con i primi il popolo ha poteri politici decisionali definitivi, con i secondi il popolo ha poteri
per concorrere a decisioni che spettano ad altri. Bisognerebbe anche fare distinzione tra democrazia
rappresentativa e partecipazione, tra istituti della prima e istituti della seconda: con gli strumenti della
democrazia rappresentativa il popolo esprime consenso ma non partecipa, dato che una volta eletti i
rappresentanti, ogni decisione spetta ai rappresentanti: i rappresentati hanno manifestato un consenso che si
esaurisce nella elezione; il processo decisionale, fino alle prossime elezioni, spetta ai rappresentanti. Gli
strumenti della partecipazione esigono che comunque il popolo possa prendere parte anche alle decisioni dei
suoi rappresentanti, e quindi entrare nei concreti processi decisionali. La categoria unificante di tutti questi
strumenti è quella della partecipazione, perché è la partecipazione che caratterizza l’insieme, che prevale su
ogni altra forma e dunque in qualche modo assimila a sé anche gli strumenti della democrazia diretta e di
quella rappresentativa.

3) La partecipazione: partecipazione ricomprende tutte quelle forme attraverso cui i cittadini prendono
parte a processi decisionali dei poteri pubblici. Prendere parte presuppone che vi siano momenti attraverso
cui si può influire in qualche misura sul processo decisionale e che il processo decisionale sia guidato e
determinato anche da altri: i poteri pubblici cioè decidono, i partecipanti hanno il diritto e il potere di influire
su tali decisioni, nei modi e nelle forme ammesse. Ci sono casi in cui i cittadini sono chiamati a decidere e
non a partecipare a processi decisionali altrui: accade nelle elezioni politiche quando il corpo elettorale,
mediante il voto, determina quali persone di quali liste faranno parte di un organo dello Stato (o di altro ente
pubblico). La selezione delle persone costituisce la premessa di un ciclo di processi decisionali delle
assemblee elettive rispetto ai quali processi i cittadini possono partecipare in vario modo, ma nel presupposto
che la decisione spetta sostanzialmente a tali assemblee e ai partiti politici che dominano tali assemblee; la
stessa selezione delle persone si configura più come partecipazione alla selezione che come vera decisione,
dato che i partiti hanno il monopolio di fatto delle candidature, così che gli elettori partecipano a scelte già in
buona parte predeterminate dai partiti. Ragionamento analogo si può tenere rispetto ai referendum così come
oggi sono disciplinati in Italia, dato che essi sono momenti di partecipazione a processi politici generali
governati da altri nel loro insieme, piuttosto che processi decisionali principali che subordinano a sé ogni
altro momento politico. In conclusione, considerato il processo politico in cui dominano i partiti politici e
quei gruppi di pressione che hanno forza comparabile ai partiti, gli strumenti di democrazia diretta e di
democrazia rappresentativa diventano momenti della partecipazione e acquistano dunque le caratteristiche di
momenti e di strumenti attraverso cui il popolo viene invitato ed ha la possibilità di partecipare a processi
decisionali di altri. Dunque, il popolo ha strumenti per condizionare ed indirizzare i poteri pubblici, ma non è
realmente sovrano. Bisogna distinguere tra partecipazione per individui e partecipazione per gruppi. Si ha la
prima quando, sul piano giuridico formale, solo l’individuo viene chiamato a partecipare, e quindi la
partecipazione collettiva in questo caso si manifesta come somma di molte partecipazioni individuali: caso
ad es. delle elezioni politiche. Sul piano politico sostanziale i partiti dimostrano come anche in questo caso la
partecipazione, almeno per quella parte di popolazione che segue i partiti, è di ordine collettivo; anche se sul
piano giuridico formale deve manifestarsi in forma individuale. Si ha partecipazione per gruppo quando le
regole esigono che solo un gruppo possa partecipare. Es. è il caso in cui si richiede la sottoscrizione da parte

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

di un determinato numero di cittadini affinché un determinato atto sia valido e produttivo di conseguenze:
l’iniziativa popolare delle leggi esige la richiesta di almeno 50.000 elettori, il referendum abrogativo di
500.000 elettori, etc. Nei casi citati il gruppo si costituisce per l’occasione e si manifesta solo per quell’atto.
In altri casi le norme esigono la partecipazione di un gruppo già costituito e che vive indipendentemente dal
processo specifico al quale partecipa. Es. i casi in cui le norme esigono la partecipazione dei partiti. Qui il
gruppo si è costituito per una sua autonoma decisione e indipendentemente dall’atto di partecipazione e vive
come soggetto collettivo per volontà dei suoi aderenti indipendentemente da ogni riconoscimento dei
pubblici poteri. Si noti in questo caso la differenza tra partecipazione mediante il gruppo e partecipazione del
gruppo: con la prima espressione ci si riferisce ai singoli entro il gruppo, i quali partecipano attraverso il
gruppo, con la seconda espressione ci si riferisce alla partecipazione ad un processo decisionale di un gruppo
nel suo insieme: due cose diverse che possono giungere a tensioni molto forti tra di loro, in tutti quei casi in
cui il gruppo, attraverso la sua organizzazione, esclude o diminuisce la partecipazione dei propri membri; in
altre parole non sempre la partecipazione dei gruppi accresce la partecipazione dei singoli nel gruppo, spesso
è il contrario. Veniamo alla distinzione tra partecipazione immediata o diretta e partecipazione mediata o
indiretta. Si ha la prima quando il singolo partecipa direttamente col suo contributo individuale ai processi
decisionali, si ha la seconda quando la sua partecipazione è mediata dal gruppo al quale appartiene, così che
egli partecipa alla decisione del gruppo, ma sono poi i rappresentanti del gruppo a partecipare al processo
decisionale in nome e per conto dell’intero gruppo. Più aumenta la distanza e crescono i passaggi intermedi
tra individuo e processo decisionale a cui partecipa il gruppo, minore diventa la partecipazione indiretta
dell’individuo, fino ad annullarsi del tutto. Partecipazione immediata non è sinonimo di partecipazione per
individui: anzi la partecipazione più efficace per i singoli individui è quella collettiva: la differenza sta nel
fatto che nella partecipazione immediata il singolo, anche se partecipa con altri, entra direttamente anche
come singolo, insieme ad altri, nel processo decisionale; nella partecipazione indiretta sono i dirigenti del
gruppo che partecipano a nome dei membri del gruppo. Si può distinguere tra partecipazione formalizzata e
partecipazione informale (sul piano giuridico): si ha la prima quando le norme prescrivono i tempi e i modi
della partecipazione (es. elezioni politiche); si ha la seconda quando la partecipazione avviene secondo prassi
(es. trattative tra governo e parti sociali). Si può fare distinzione tra partecipazioni a livello nazionale o a
livello locale secondo che si partecipi a processi decisionali con raggio nazionale o con raggio locale (es.
elezioni nazionali o elezioni regionali); partecipazioni generali o di categoria, secondo che al processo
decisionale partecipino tutti (es. le elezioni politiche) o solo i soggetti appartenenti a determinate categorie
indicate dalla legge (es. le elezioni per gli organi collegiali della scuola). Ci sono poi altri tipi di distinzioni,
ma quella più importante è quella tra partecipazione politica e partecipazione non politica. Qui si assume
come criterio di distinzione la circostanza che si tratti di processi decisionali politici o non politici. La
partecipazione alle elezioni politiche è politica per definizione; la partecipazione alla gestione delle scuole
attraverso i collegi scolastici è non politica. Entro la partecipazione politica si può fare una distinzione fra
partecipazione politica in senso stretto (secondo cioè l’intenzione) e partecipazione di interessi: nel primo
caso la partecipazione ha carattere generale, chi partecipa tiene presenti l’insieme degli interessi e si propone
di dare una risposta a tutte le domande; nel secondo caso chi partecipa rappresenta gli interessi di categoria
di cui è portatore e si propone di difendere tali interessi. La partecipazione politica si esprime nella elezione
dei membri delle assemblee politiche rappresentative (in Italia Parlamento, consigli regionali, consigli
provinciali e consigli comunali), nella elezione diretta dei sindaci, dei presidenti delle province, dei
presidenti delle giunte regionali, nella continua possibilità di indirizzare e controllare le decisioni di tali
assemblee (attraverso discorsi, scritti, manifestazioni, partiti e gruppi di pressione), nella possibilità di
decidere direttamente alcune questioni politiche quando la costituzione e le leggi lo ammettono (es.
referendum abrogativo). Dunque, il perno di questa partecipazione sta nel rapporto tra rappresentati e
rappresentanti, perché la partecipazione si esprime e si concreta essenzialmente nell’influenza sui propri
rappresentanti eletti.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

4) La rappresentanza politica: la caratteristica principale del Parlamento e di altre assemblee è quella di


essere organi rappresentativi del popolo, organi direttamente rappresentativi perché direttamente eletti dal
popolo. Questa rappresentanza si chiama rappresentanza politica, per distinguerla da quella giuridica. La
rappresentanza giuridica è un meccanismo in base al quale, o per volontà della legge o per volontà
dell’interessato, un soggetto agisce in nome e per conto di un altro, così che gli atti sono del rappresentante,
ma gli effetti giuridici dell’atto toccano direttamente la sfera giuridica del rappresentato. La rappresentanza
politica non ha nulla a che fare con quella volontaria: questa presuppone che il rappresentato possa compiere
da sé determinati atti e che per sua volontà questi atti vengano compiuti da un altro; nella rappresentanza
politica il rappresentato non può esercitare da sé i poteri spettanti al rappresentante, ma deve limitarsi ad
eleggerlo e di regola i rappresentati non possono revocare il loro rappresentante politico. Si distingue
nettamente anche dalla rappresentanza giuridica necessaria, perché: a) nella rappresentanza giuridica
necessaria il rappresentante viene scelto da un terzo autorizzato e viene imposto al rappresentato, incapace di
intendere e di volere, mentre nella rappresentanza politica i rappresentati eleggono da sé stessi i propri
rappresentanti; b) la rappresentanza politica è sempre collettiva, cioè è sempre rappresentanza di un insieme
indistinto di persone, mentre la rappresentanza giuridica è individuale, e al massimo è rappresentanza di una
somma determinata di individui; c) la rappresentanza politica non rappresenta questo insieme in alcun caso
sul piano dei rapporti giuridici interprivati, com’è tipico della rappresentanza giuridica, perché gli atti del
rappresentante politico non hanno alcuna efficacia diretta nella sfera giuridica dei rappresentati; d) la
rappresentanza politica rappresenta un insieme di cittadini che sono portatori di un programma generale di
governo, e quindi non li rappresenta a livello di rapporti giuridici con altri soggetti, ma a livello di rapporti
politici generali, nei confronti dunque dell’ente politico generale. In sintesi alcune persone sono definibili
rappresentanti politici di una collettività perché incaricati da questa di esercitare specifici poteri nell’interesse
e al servizio di questa collettività nel suo insieme e dunque si potrebbe definire la rappresentanza politica
come una rappresentanza espressiva, perché esprime politiche generali. Questa caratterizzazione spiega il
divieto di mandato imperativo. La rappresentanza politica si presenta in Italia come necessariamente legata al
divieto di mandato imperativo, ma questo accade perché la costituzione così dispone (art. 67) non perché
ogni rappresentanza politica deve essere sempre accompagnata da tale divieto (poiché la costituzione
prevede il divieto di mandato imperativo espressamente solo per i parlamentari, ci si può chiedere se questo
divieto costituzionale valga anche per i consiglieri regionali etc. Oggi il divieto di mandato imperativo si
applica a tutti gli eletti dal corpo elettorale in elezioni politiche). Con l’espressione divieto di mandato
imperativo si intende che il rappresentante politico elettivo non è vincolato ad alcun impegno verso i suoi
elettori, ma può agire liberamente qualunque promessa abbia fatto per essere eletto: dunque non può essere
revocato dai suoi elettori fino alla normale scadenza legale del suo mandato. Se gli elettori, o un controllore,
potessero revocare l’eletto prima della scadenza, costui, nel timore di una revoca, potrebbe essere indotto ad
agire secondo gli impegni presi o secondo le richieste di coloro che minacciano la revoca. Questa regola
serve a svincolare gli eletti dagli elettori. Si sostiene che sia necessaria per impedire il prevalere di interessi
corporativi di gruppo e per consentire invece che l’eletto persegua il bene di tutti, libero da impegni verso un
gruppo particolare che ha contribuito ad eleggerlo. L’obiezione che si presenta spontanea a quanto appena
detto muove dalla constatazione che i partiti nei fatti impongono la propria disciplina ai parlamentari eletti
nelle loro liste (in pratica a tutti), e dunque rendono apparente il divieto di mandato imperativo e
garantiscono al contrario un permanente rapporto tra eletti ed elettori. Proprio l’intermediazione dei partiti
dimostra non più efficace il principio liberale del divieto di mandato imperativo nella sua originaria portata e
riconferma come quel divieto, in un contesto diverso e con diversa efficacia, persegua un risultato analogo
all’antico. La disciplina di partito si sovrappone di fatto al divieto di mandato imperativo senza annullarlo. In
linea di diritto il parlamentare resta libero di decidere come meglio crede, e nessuna sanzione legale può
venirgli irrogata qualunque violazione egli compia di precedenti impegni politici. Se il parlamentare
abbandona il partito nelle cui liste è stato eletto, egli resta parlamentare. Questa libertà legale viene ridotta di
fatto fino a zero perché: a) l’esperienza insegna che è quasi impossibile essere eletti se non si viene presentati
da un partito; b) dunque il parlamentare che intende continuare la sua lotta politica, deve nei fatti rispettare la
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

disciplina di partito perché l’espulsione da esso, o un suo rifiuto di ripresentarlo candidato, gli precluderebbe
questa possibilità; c) questa disciplina di partito non va vista come un’oppressiva prevaricazione, sia perché i
parlamentari concorrono alla definizione della politica del loro partito, e dunque si subordinano a decisioni
che essi stessi hanno contribuito a creare, sia perché si aderisce ad un partito per la sua linea generale ed è
quindi da prevedere che il dissenso verta su questo o quel punto particolare, così che il parlamentare mette a
confronto l’adesione che egli continua a portare alla linea generale e il dissenso particolare su punti specifici
e sceglie l’adesione, cioè la disciplina che pesa di più del dissenso particolare. Il fatto che i parlamentari
siano subordinati al partito è la riprova che non esiste più un interesse generale e che prevalgono in
Parlamento gli interessi di partito, cioè politiche orientate da interessi specifici di classe. Dunque, la
disciplina di partito rompe la finzione del divieto di mandato imperativo e dimostra che il parlamentare è
lontano dall’essere libero di perseguire secondo coscienza l’interesse generale. Il partito rompe questa
finzione a suo vantaggio, non a vantaggio del corpo elettorale. La rappresentanza politica che si accompagna
al divieto di mandato imperativo è propria delle democrazie pluralistiche e pluripartitiche: è una
rappresentanza politica che in nome dell’interesse nazionale accentua fino all’estremo il carattere formale di
tale rappresentanza, ed espropria il popolo del rapporto rappresentativo a vantaggio dei partiti. Questa
espropriazione è minore se a loro volta i partiti sono rappresentativi, cioè riescono realmente ad esprimere i
bisogni collettivi delle masse che li votano; diviene più grande se i partiti si istituzionalizzano e si
burocratizzano, separandosi dalle masse che solo formalmente e passivamente continuano a votarli. Nella
rappresentanza politica si muove dal presupposto implicito secondo cui gli interessi comuni del popolo non
possono essere perseguiti direttamente dal popolo, ma devono essere rappresentati: da un lato i
rappresentanti devono continuamente legittimare la propria rappresentatività davanti al popolo e per questo
non possono mai del tutto separarsene; dall’altro proprio perché vi è rappresentazione, cioè distinzione tra
interesse e rappresentazione di esso, vi è anche la permanente possibilità che questa distinzione diventi reale
separazione e i presunti rappresentanti diventino portatori non più degli interessi dei rappresentati, ma di se
stessi o di altri. Questa possibilità viene accresciuta con il divieto di mandato imperativo. Essa viene
diminuita ogni volta che la società organizza praticamente strumenti operativi per sottoporre a controllo i
rappresentanti politici, ma non scompare mai. Rousseau ha compreso che la rappresentanza politica come
tale è uno scandalo, un’espropriazione di volontà popolare ed ecco perché voleva eliminare in radice la
rappresentanza politica; in questa verità sta l’attualità del pensiero marxista, che ugualmente condanna non la
cattiva rappresentanza politica, ma la rappresentanza politica come tale, e progetta una società fatta in modo
tale che non vi sia più bisogno di rappresentanti politici perché non ci sarà più bisogno di politica. La
rappresentanza politica è sempre tentativo e pretesa di rappresentare interessi comuni di tutti o di
rappresentare una visione partigiana degli interessi di tutti. I partiti politici, cioè per il solo fatto di essere
parti, denunziano un’origine parziale e partigiana delle proprie proposte; e però nello stesso tempo essi
elaborano una politica per tutti. I programmi dei partiti sono sempre generali, non riguardano solo gli iscritti
e i gruppi sociali che il partito organizza, ma pretendono di valere per tutti. Questa è una differenza
essenziale rispetto ai sindacati e rispetto ad ogni altra organizzazione parziale che si preoccupa solo di
tutelare gli interessi da essa rappresentati per i quali essa è nata. È per questa ragione che le elezioni politiche
sono organizzate in modo che votino cittadini tutti formalmente eguali, e non uomini secondo la categoria
professionale di appartenenza. La rappresentanza, per essere politica, deve essere e apparire generale, non è
professionale. Questa notazione ci permette di comprendere il senso e i limiti invalicabili di tutte le proposte
di camere cosiddette rappresentative di interessi. La consapevolezza che gli elettori, formalmente uguali,
sono nella realtà sociale profondamente divisi gli uni dagli altri, e la constatazione che questa diversità si
esprime in organizzazioni di categoria corrispondenti alle diverse collocazioni nel processo produttivo e nella
società, organizzazioni le quali difendono gli interessi comuni degli aderenti, ha suggerito più volte l’idea di
affiancare al Parlamento politico, rappresentativo del popolo nel suo insieme, un altro collegio
rappresentativo degli interessi. La proposta non ha mai avuto successo. Un’eco di questa proposta si trova
anche nell’ordinamento italiano, con il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL), composto da
membri designati dalle varie categorie professionali elencate dalla legge istitutiva, le cui competenze si
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

riducono al potere di presentare progetti di legge e di dare poteri sia alle camere che al governo quando
questi glielo chiedono (organo insignificante nella concreta esperienza italiana). La ragione per cui, nello
stato pluralistico, democratico e rappresentativo, una camera rappresentativa di interessi non può in alcun
modo né affiancarsi né sostituirsi al Parlamento, non è difficile da capire. In una società pluralistica (in cui
tutte le classi e tutti i gruppi sociali hanno eguale diritto di esistenza politica) compito dello Stato è quello di
superare e pacificare i conflitti di classe, eliminando o riducendo la conflittualità entro confini predeterminati
e accettati da tutti i principali contraenti sociali. Questa riduzione non è possibile se lo stato nel suo insieme
non si presenta come portatore di un interesse generale; non è possibile se lo stato appare come lo strumento
di una classe. Il partito politico ha proprio questa funzione: di mediare le spinte particolari della sua base
sociale e di inserirle entro un progetto politico globale che si presenta e pretende di essere valido per tutta la
società. Una camera rappresentativa di interessi non farebbe altro che esprimere gli immediati interessi
corporativi senza alcuna mediazione, e mancherebbe di legittimazione e di autorità rispetto alla collettività
nel suo insieme. Questo spiega perché una camera rappresentativa di interessi è immaginabile solo in due
ipotesi: a) o nel caso in cui al di sopra della camera di interessi esiste un soggetto sovrano legittimato per
altra via, così che questa camera è quel l’organo abilitato a presentare al sovrano le richieste parziali dei
diversi gruppi sociali; b) o l’assemblea rappresentativa di una classe o di un blocco di classi alleate non si
presenta come rappresentante dell’interesse di tutti, ma come rappresentante di alcune classi:
caratterizzazione assunta dal potere sovietico nella Russia del 1917, nella quale il partito bolscevico
conquista il potere in nome della classe operaia e dei contadini al fine di creare una società nuova, senza
classi e senza stato. Per questa ragione erano ammessi alla elezione dei soviet solo operai e contadini e le
votazioni avvenivano sulla base di delegati eletti da fabbriche, villaggi e unità produttive. Quando il potere
sovietico rinuncia all’obiettivo della estinzione dello Stato e proclama la fine della lotta di classe nel 1936,
esso deve presentarsi di nuovo come rappresentante dell’interesse generale e dunque rinnega il precedente
sistema elettorale basato sulla appartenenza degli elettori alle classi ammesse al potere e sulla loro
collocazione materiale nella produzione, e restaura il classico sistema borghese del suffragio universale dei
cittadini.

5) Il corpo elettorale: con l’espressione corpo elettorale designiamo l’insieme di coloro che hanno diritto di
partecipare alle elezioni per esprimere il proprio voto. Es. il Parlamento in seduta comune è il corpo
elettorale del presidente della Repubblica. Il corpo elettorale per eccellenza è il corpo elettorale politico
nazionale, e cioè l’insieme di tutti i cittadini titolari del diritto di eleggere i membri del Parlamento
nazionale: in Italia è l’insieme di tutti i cittadini maggiorenni, che per questo fatto, secondo costituzione (art.
48) ne fanno parte immediatamente al conseguimento della maggiore età. Il corpo elettorale del Senato è
composto dai cittadini che abbiano compiuto il venticinquesimo anno, e dunque è più ristretto di quello della
Camera dei deputati. Poiché però con il diciottesimo anno di età si acquista il diritto di eleggere i deputati
della camera, col diciottesimo anno si diventa cittadini politicamente attivi, e dunque il corpo elettorale per
definizione è quello che comprende tutti i cittadini maggiorenni; tutti gli altri corpi elettorali più ristretti sono
eccezioni. Il corpo elettorale esistente in Italia, e in genere nei paesi democratici, è il più vasto pensabile.
Questo corpo elettorale il più vasto pensabile costituisce la caratteristica essenziale dei sistemi democratici (è
condizione necessaria per la loro esistenza). Si tratta di una conquista molto recente. Fino al 1946 in Italia le
donne non avevano il diritto elettorale; fino al 1913 solo una minoranza di maschi adulti aveva il diritto
elettorale, quelli appartenenti alle classi proprietarie. Più si risale nel tempo, più ristretto era il corpo
elettorale. Nel 1861 gli aventi diritto al voto erano l’1,9% della popolazione e nel 1880 erano pari al 2,2%;
nel 1882 erano il 6,9%; nel 1909 l’8,3% e solo nel 1913 col suffragio maschile quasi universale salgono al
23,2%. Col suffragio universale maschile e femminile del 1946 la percentuale degli aventi diritto fu del
61,4%. Il fenomeno è comune a tutti i paesi, Stati Uniti compresi. La storia delle leggi elettorali è un ottimo
punto di vista per ricostruire la storia sociale e politica di uno stato moderno e per ottenere fondamentali
informazioni sui rapporti di forza volta a volta esistenti. Il passaggio dal suffragio ristretto a quello
universale è il criterio più seguito per segnare il passaggio dallo stato liberale allo stato democratico. Una

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caratteristica del corpo elettorale in Italia è che di esso si fa parte automaticamente e obbligatoriamente,
mediante iscrizione da parte di apposite commissioni a liste elettorali permanenti, che vengono via via
aggiornate. Questa iscrizione non ne costituisce titolo esclusivo, ma una garanzia: anche chi per errore non è
stato iscritto ha il diritto elettorale se possiede i requisiti previsti dalla costituzione e dalle leggi conformi a
costituzione (può rivolgersi al giudice competente e la sentenza del giudice costituisce titolo sufficiente per
votare anche senza essere iscritto alle liste elettorali). Questo meccanismo è una prima traduzione pratica del
principio per cui il voto è considerato moralmente obbligatorio (è un dovere civico, dice la costituzione
all’art. 48) e risponde a fini di certezza e di garanzia. Le liste elettorali permanenti costituiscono il contrario
del sistema prevalente negli Stati Uniti, secondo il quale per votare bisogna preventivamente iscriversi con
proprio atto volontario alle liste elettorali; inoltre essi impediscono contestazioni e brogli, dato che le liste
sono formate una volta per tutte da commissioni composte da cittadini, prima e indipendentemente da ogni
consultazione elettorale. Il corpo elettorale svolge una sola funzione: votare. Il corpo elettorale dunque non
discute collegialmente; non può scegliere da sé gli oggetti delle proprie decisioni; a parte il caso eccezionale
del referendum, il corpo elettorale si limita a scegliere persone o lista di persone, e non può deliberare su
nessun altro oggetto; non agisce in permanenza, ma saltuariamente, ad intervalli anche molto lunghi, in
occasione delle scadenze elettorali. Questi aspetti illustrano il carattere essenziale del corpo elettorale, che è
quello di semplice meccanismo tecnico pratico per selezionare rappresentanti, e in nessun caso e per nessun
aspetto quello di un reale organismo sociale, di un effettivo corpo collettivo. Questa conclusione si
ridimostra esaminando le caratteristiche del voto. La costituzione proclama che il voto è personale ed eguale,
libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico (art. 48). Personale: il voto spetta ad ogni cittadino e non è
delegabile ad altri. Eguale: ogni voto è uguale ad un altro. Libero: ogni patto col quale un elettore si è
impegnato a votare in un certo modo è nullo, e ogni tentativo di coartare il voto attraverso mezzi illeciti è
penalmente punito. Segreto: l’elettore non solo ha il diritto di votare in segreto e di non rivelare il suo voto,
ma ha il dovere di tenerlo segreto (vuol dire che la materiale manifestazione del voto deve rimanere segreta,
così che nessuno può verificare la veridicità della sua successiva rivelazione: ad es. la scheda elettorale
consegnata aperta viene immediatamente annullata dal presidente del seggio elettorale). La segretezza del
voto ha lo scopo di garantire la libertà del voto, mettendo al riparo l’elettore da possibili ritorsioni. Questa
segretezza del voto denuncia che il voto espresso pubblicamente potrebbe nei fatti esporre a persecuzioni e
ritorsioni, denuncia cioè che la società è divisa al punto che esiste chi potrebbe nuocere per il voto a lui non
gradito e chi è soggetto a ritorsioni per la sua posizione politica. Il voto riconferma le caratteristiche del
corpo elettorale: atto compiuto simultaneamente da milioni di individui isolati gli uni dagli altri e non
risultato di un’attività svolta in comune. Se questa c’è, essa viene presupposta, e spetta ai partiti e alle loro
iniziative libere. Il corpo elettorale è un soggetto solo per finzione: è il meccanismo pratico attraverso cui i
reali soggetti, cioè per una parte gli individui come tali, e per l’altra i partiti, raggiungono il risultato loro
concesso di selezionare i propri rappresentanti politici. Il corpo elettorale non è un organo perché non è un
soggetto e fa parte della società e non dello Stato. Il corpo elettorale elegge, ma gli eletti non sono
considerati i rappresentanti del corpo elettorale, ma rappresentanti, nella ideologia, del popolo, nella realtà,
dei partiti. Infatti, il popolo, attraverso la pubblica opinione, controlla in qualche modo gli eletti, e cioè dà
una minima parvenza di verità alla loro natura di suoi rappresentanti; i partiti, attraverso la disciplina di
partito, rendono responsabili davanti a sé gli eletti e ne fanno degli effettivi rappresentanti; ma il corpo
elettorale non ha alcun potere su coloro che pure ha eletto.

6) I sistemi elettorali: i sistemi elettorali non sono meccanismi fatti per instaurare un rapporto diretto tra
elettori ed eletti come rapporto tra due soggetti, ma sono un meccanismo pratico per meglio inquadrare gli
elettori al fine di eleggere i rappresentanti del popolo nel numero e secondo le modalità richieste. Di fronte
ad ogni corpo elettorale (insieme di aventi diritto al voto) sta un determinato numero di eleggibili (candidati)
e di eligendi (seggi da ricoprire). Un sistema elettorale molto semplice è quello che fa eleggere
contemporaneamente tutti gli eligendi da tutti gli elettori scegliendoli tra tutti i candidati. Questo sistema è
impraticabile, ma viene ipotizzato per far meglio comprendere la ragione di fondo di tutti i sistemi elettorali.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

Il sistema prima ipotizzato è impraticabile nelle elezioni politiche perché o non c’è alcuna forza politica
capace di indirizzare il voto, e allora il risultato di tale elezione è del tutto casuale, senza nessuna garanzia
che gli elettori riescano ad esprimersi in modo politicamente significativo; o tali forze politiche esistono ed
allora il partito di maggioranza relativa, per quanto piccola essa sia, può aggiudicarsi tutti i posti in palio. I
sistemi elettorali devono garantire un minimo di rappresentatività dell’intero corpo elettorale e devono offrire
possibilità politiche comparabili ai diversi partiti in lizza ed ai molti gruppi sociali. a) Anzitutto i sistemi
elettorali sono sempre l’espressione tecnico-pratica di rapporti politici di forza e dietro ogni sistema
elettorale c’è sempre una ragione politica sostanziale; b) il criterio principale e più significativo per
classificare e ordinare i diversi sistemi è quello che considera il quantum di garanzia che ciascun sistema
assicura alle minoranze. Tutti i sistemi elettorali che esamineremo hanno in comune la caratteristica di
dividere l’intero corpo elettorale in molti collegi minori, assegnando a ciascuno di essi il compito di eleggere
una quota parte degli eligendi. In questo modo: a) si offre una garanzia alle minoranze, perché queste, anche
se più deboli a livello complessivo, possono risultare maggioritarie in alcuni collegi e dunque essere
comunque rappresentate; b) si assicura una migliore rappresentatività, perché ciascun collegio elegge i suoi
rappresentanti i quali esprimono presuntivamente interessi e bisogni del collegio che essi conoscono e dal
quale sono conosciuti; c) si permette alle particolarità locali e sociali di essere più fedelmente rappresentate:
vi saranno collegi prevalentemente agricoli, o prevalentemente operai, etc. La divisione del corpo elettorale
in collegi minori si presta facilmente ad alterazioni dell’uguaglianza tra gli elettori. Chi sta al potere ha la
possibilità di stabilire lui i confini dei diversi collegi, egli può: a) delimitare i collegi in modo tale che collegi
meno numerosi eleggano gli stessi eletti di collegi più numerosi, così che di fatto i voti del primo contano di
più di quelli del secondo. b) Una diversa e concorrente alterazione il legislatore può determinarla ritagliando
i collegi in modo che i partiti avversari si trovino in minoranza nel maggior numero di collegi così che, se il
sistema elettorale è maggioritario e non proporzionale, essi siano costantemente svantaggiati (es. dato un
territorio di estensione X, immaginiamo che un partito all’opposizione sia più forte nella regione A e quello
al potere più forte in un’altra regione B dello stesso territorio: il partito al potere può dividere a metà la
regione B unendo ciascuna metà ad un’altra metà della regione A in modo tale che esso ottenga una
maggioranza in ambedue i collegi così costruiti; se i collegi avessero ricalcato le originarie regioni A e B, in
uno sarebbe stato maggioranza e nell’altro minoranza). Dunque, nell’esaminare un sistema elettorale, il
primo aspetto da sottolineare riguarda il modo con cui vengono delimitati i singoli collegi ed attribuiti ad essi
i seggi da ricoprire. Il secondo aspetto politicamente significativo riguarda il criterio di ripartizione,
all’interno di ciascun collegio, dei seggi tra i candidati. In tutte le elezioni politiche gli elettori possono
votare solo persone che si sono candidate ufficialmente secondo rigorose procedure e si può essere candidati
in un collegio e non in un altro. In base al numero di seggi attribuiti al collegio, si distingue tra collegio
uninominale e collegio plurinominale. Collegio uninominale significa: collegio nel quale l’elettore può
votare solo per un candidato e il collegio elegge solo un candidato. Dipende poi dai sistemi elettorali se viene
eletto il candidato che ottiene la percentuale più alta di voti o se viene previsto un doppio turno di votazione,
con l’intesa che vince il seggio nel primo turno il candidato che ottiene una determinata percentuale,
altrimenti si vota una seconda volta e vince il seggio il candidato che, nella seconda votazione, ottiene la
percentuale più alta; i sistemi elettorali poi possono prevedere, tra il primo e il secondo turno, soglie di
sbarramento. Nel collegio uninominale esiste un solo seggio in palio, e dunque ciascun candidato corre per
sé solo e i partiti non hanno alcun interesse a presentare più candidati, che dividerebbero i voti favorendo gli
avversari. Nel sistema britannico viene eletto il candidato che ottiene il maggior numero di voti, anche se non
raggiunge la maggioranza assoluta dei votanti di quel collegio. È un sistema che premia i partiti più forti fino
al punto che un solo partito, se è maggioranza relativa in tutti i collegi, si attribuisce tutti i seggi in palio,
escludendo ogni altro partito, pur avendo ottenuto in percentuale neanche il 50% dei voti. Dunque, la
percentuale di seggi ottenuti col sistema a collegio uninominale può essere superiore (o inferiore) a quella
dei voti ricevuti. In generale col sistema a collegio uninominale solo i due partiti maggiori ottengono
un’adeguata rappresentanza; il terzo partito, che è inferiore, viene praticamente cancellato nelle assemblee
elettive. Assumendo come parametro il sistema proporzionale, il sistema elettorale a collegio uninominale ed
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

elezione al primo turno con maggioranza relativa è lontano da quello proporzionale: è un sistema
maggioritario, che premia in seggi i partiti più forti al di là della loro forza numerica effettiva in voti. Può
accadere che un partito vinca le elezioni in voti e le perda in seggi, se il suo elettorato è distribuito in modo
tale da essere grande maggioranza nella minoranza dei collegi. Es. dati 10 collegi con 1000 elettori ciascuno
e dati due partiti A e B, se il partito A ottiene 800 voti in quattro collegi e 400 negli altri sei, il risultato finale
sarà che questo partito ha ottenuto 3200 + 2400 = 5600 voti e quattro seggi, e il partito B ha ottenuto 800 +
3600 = 4400 voti e sei seggi. Questo caso si è verificato per esempio nel 1951 in Gran Bretagna quando i
laburisti ottennero più voti e meno seggi dei conservatori. Una vicenda analoga può determinarsi negli USA:
gli elettori non eleggono direttamente il presidente (e il vicepresidente), ma eleggono dei grandi elettori, in
numero determinato per ciascuno stato federato, i quali si sono impegnati preventivamente e pubblicamente a
votare per quel candidato alla presidenza che ciascuno dei due maggiori partiti ha ufficialmente designato;
questi grandi elettori, successivamente alla loro elezione, votano, separatamente stato per stato senza riunirsi,
per il presidente e il vicepresidente e dal punto di vista formale legale sono essi ad eleggere il presidente e il
vicepresidente. Dunque, i grandi elettori vengono divisi per stato, in modo che ciascuno stato costituisce un
unico collegio elettorale, e in ogni stato la maggioranza relativa conquista tutti i seggi in palio. Nelle elezioni
presidenziali americane non conta ottenere la maggioranza numerica dei voti nell’insieme degli Stati Uniti,
ma conta ottenere la maggioranza dei voti elettorali, cioè conquistare tanti stati che, mettendo insieme i seggi
ad essi assegnati, assicurino la maggioranza dei grandi elettori. Il collegio uninominale con elezione a
maggioranza relativa è il più amato dai liberali: questo sistema mette al centro della competizione singole
persone e dunque corrisponde ad una società basata sulla concorrenza tra individui; inoltre costringe gli
elettori a concentrare i voti su due, massimo tre candidati, pena la sicura sconfitta per coloro che disperdono
voti. In tal modo vengono sistematicamente escluse dalla rappresentanza politica tutte le forze politiche più
radicali, con grande vantaggio della stabilità e della conservazione degli equilibri già esistenti. Entro il
sistema del collegio uninominale ci sono molte varianti, oltre quella attuata in Gran Bretagna, ad esempio in
Francia è stato a lungo praticato il sistema del doppio turno in cui nel primo turno viene eletto solo il
candidato che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti validi e poi si ricorre ad un secondo turno di
elezioni, che si svolge una settimana dopo il primo e nel quale vince il seggio in palio il candidato che ottiene
la maggioranza relativa. Il sistema del doppio turno rappresenta un compromesso, per cui il primo turno
serve a tutelare la pluralità dei partiti e ad impedire la riduzione del sistema al bipartitismo tipico della Gran
Bretagna, il secondo turno serve a riprodurre gli aspetti classici del collegio uninominale, e cioè a garantire
un premio ai partiti più forti e a semplificare a due blocchi la competizione elettorale. Nel collegio
plurinominale ci sono più seggi da assegnare e quindi più candidati da eleggere. Dato che è immaginabile un
sistema elettorale in cui i candidati nel collegio plurinominale siano singole persone, tutte in lizza ciascuna
contro le altre, e in cui gli elettori votano le persone, nome per nome, in tutti i paesi democratici, se esiste un
sistema elettorale a collegio plurinominale, questo è un collegio plurinominale di lista. Quest’ultimo è quello
in cui concorrono alla ripartizione dei seggi elettorali liste di candidati, così che i seggi vengono assegnati
anzitutto alle liste e poi questi seggi così assegnati alle liste vengono successivamente assegnati alle singole
persone entro la lista. Dunque, in questo sistema: ci si candida se si viene accettati da una lista, cioè se un
partito nel presentare la sua lista accetta di inserire una certa persona in questa lista; l’elettore vota anzitutto
la lista, identificata da un contrassegno: solo se vuole, l’elettore vota anche singole persone elencate nella
lista. Secondo quali criteri vengono divisi tra le diverse liste in concorrenza i seggi assegnati al collegio? La
distinzione principale è tra sistema proporzionale e sistema maggioritario. Si ha il primo quando i seggi
vengono divisi tra le liste in proporzione ai voti ricevuti da ciascuna lista. Quindi se una lista ha ottenuto il
40% dei voti otterrà il 40% dei seggi attribuiti al collegio, etc. Naturalmente è quasi impossibile che le
divisioni da compiere non diano resti, e qui nasce il problema delicato della divisione dei resti. I meccanismi
escogitati per risolvere questa questione sono molto numerosi. Il meccanismo più semplice è quello dei
maggiori resti: dati seggi non assegnati a causa di resti, essi vengono assegnati alle liste che hanno ottenuto i
resti maggiori, fino ad esaurimento. Un altro meccanismo, usato per la elezione della Camera dei deputati
prima della riforma del 1993, è quello di correggere il quoziente, aumentando il divisore: se i seggi da
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

assegnare sono ad esempio 20, si finge che essi siano 22 o 23 o altra cifra ancora; in tal modo il quoziente
elettorale (si ottiene dividendo il numero dei voti dell’intero collegio per il numero dei seggi, e sta a
significare il numero dei voti necessari per vincere un seggio; per sapere quanti seggi ha vinto una lista, basta
sapere quante volte tale quoziente, che rappresenta un seggio, entra nella cifra elettorale della lista, e cioè nel
numero dei voti ottenuti da una determinata lista: si divide dunque la cifra elettorale di lista per il quoziente
elettorale, e si ottiene il numero dei seggi, più un resto), cioè il numero di voti necessario per conquistare un
seggio, diventa più piccolo, e quindi è compreso un numero di volte maggiore nella cifra elettorale di ciascun
partito, diminuendo per conseguenza il numero dei seggi non assegnati a causa dei resti. Un terzo
meccanismo, che elimina il problema perché non da resti, è quello che va sotto il nome di d’Hondt. Esso è il
più comune nei sistemi elettorali praticati oggi in Italia ai vari livelli. Si presuppone che più candidati in
diversi collegi uninominali, seguendo le prescrizioni della legge, si siano collegati tra di loro prima delle
elezioni, e che siano stati sommati i voti ottenuti da diversi gruppi di candidati collegati. Ogni cifra elettorale
di ciascun gruppo di candidati viene divisa per uno, per due, per tre etc. fino al numero corrispondente al
totale dei seggi da assegnare. Si ottengono in tal modo tanti quozienti quanti sono i seggi da assegnare. Si
collocano poi in ordine decrescente tutti i quozienti di tutti i collegamenti così ottenuti e si assegnano i seggi
in ordine decrescente fino ad esaurimento. Es. se ad un collegio sono stati assegnati 7 seggi e in esso si sono
presentate quattro liste A, B, C, D ciascuna delle quali ha riportato rispettivamente 2000, 1.500, 900 e 700
voti, si divide la cifra elettorale di ciascuna lista per 1, 2, 3 etc. fino a 7:

A) 2000 1000 666 500 400 333 285

B) 1500 750 500 375 300 250 214

C) 900 450 300 225 180 150 128

D) 700 350 233 175 146 116 100

i sette seggi da assegnare corrispondono ai quozienti più alti, che sono scritti in neretto, e sono 3 per la lista
A, 2 per la B, 1 per ciascuno a C e D. Il metodo si chiama anche del comun divisore perché il quoziente più
basso fra quelli utilizzati (nell’es. 666) serve da divisore comune per tutte le cifre elettorali di lista, perché
dividendo queste per quello si ottiene come risultato il numero dei seggi spettanti a ciascuna lista. Infatti

Lista A 2000/666 = 3; B 1000/666 = 2; C 900/666 = 1; D 700/666 = 1

Per decidere poi quale dei candidati entro ciascuna lista è stato eletto si calcola il rapporto fra i voti riportati
da ciascun candidato nel suo collegio e il numero dei votanti iscritti a questo stesso collegio e si proclamano
eletti in ordine decrescente quelli che hanno ottenuto la più alta percentuale fino ad esaurimento dei seggi
assegnati al collegamento. In conclusione, al di là dei diversi meccanismi di correzione usati, tutti i sistemi
proporzionali non lo sono mai del tutto. Un’altra distorsione, molto praticata in altri paesi, viene prodotta
dalla regola per cui le liste che restano al di sotto di una predeterminata percentuale (quorum) non ottengono
nessun seggio. Questa regola si traduce in un premio alle liste che superano il quorum elettorale, perché esse
automaticamente ottengono una rappresentanza in seggi superiore alla percentuale in voti. In definitiva, sia
attraverso meccanismi di utilizzo dei resti che premiano i partiti maggiori sia attraverso la fissione di quorum
minimi per concorrere alla ripartizione dei seggi, il sistema proporzionale può trasformarsi in uno dei tanti
sistemi maggioritari, cioè in un sistema che premia in seggi oltre il rapporto proporzionale i partiti che
ottengono più voti rispetto ad altri partiti. Sistemi maggioritari sono oggi quelli previsti in Italia per la
elezione dei consigli comunali e per la elezione diretta dei sindaci dei comuni sotto i 15.000 abitanti; un
sistema maggioritario a doppio turno è quello previsto per la elezione diretta dei sindaci nei comuni al di
sopra dei 15.000 abitanti. Un tentativo di sistema maggioritario è quello ricordato sotto il nome di legge
truffa: un sistema elettorale applicato nelle elezioni politiche del 1953 (e poi abrogato) secondo cui la lista
che avesse ottenuto il 50,1% dei voti avrebbe ottenuto un premio in seggi a danno delle altre liste. Il blocco
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

centrista non riuscì a raggiungere il quorum, e quindi il premio non scattò, applicandosi la proporzionale.
Questa vicenda fu possibile perché la costituzione non impone un determinato sistema elettorale, ma
demanda la questione alla legge (artt. 48 e 72). Per quanto si sostenesse e si continua a sostenere da molti che
l’unico sistema elettorale conforme a costituzione è quello proporzionale, l’assenza di esplicite regole
costituzionali ha consentito l’imposizione di sistemi elettorali diversi, se i rapporti di forza lo permettono. In
Italia la scelta dei candidati da presentare alle elezioni costituisce un monopolio di fatto dei partiti: un
monopolio di fatto perché dal punto di vista legale le leggi prevedono che le candidature sono presentate da
gruppi di elettori, nel numero compreso tra un minimo ed un massimo predeterminato dalla legge secondo i
diversi tipi di elezione. Di fatto però solo le candidature presentate dagli elettori dei partiti hanno serie
possibilità di riuscita, così che di fatto i partiti hanno conquistato il monopolio delle candidature. Va
ricordato il sistema americano (vigente solo in alcuni stati degli USA) delle primarie, per cui sono gli
aderenti ad un partito che, mediante elezioni dirette, scelgono i candidati da presentare poi alle elezioni
politiche generali. Anche in Italia alcuni partiti (come il partito democratico) stanno sperimentando le
elezioni primarie, cioè elezioni organizzate dagli stessi partiti mediante le quali vengono selezionati i
candidati nelle diverse elezioni che poi il partito o la coalizione di partiti che ha organizzato le primarie si
impegna a presentare e sostenere nelle vere e proprie elezioni.

7) Elettorato attivo e passivo, ineleggibilità, incandidabilità, incompatibilità, le pari opportunità tra


donne e uomini: con elettorato attivo si intende il diritto di partecipare alle elezioni come votanti e l’insieme
dei requisiti necessari e sufficienti per essere elettori in quel determinato tipo di elezioni. In Italia l’elettorato
attivo rispetto alla Camera dei deputati spetta a tutti i cittadini che abbiano compiuto la maggiore età e non
rientrino in quelle categorie di esclusi da tale diritto secondo costituzione e secondo le leggi applicative della
costituzione (art. 48); rispetto al Senato spetta a tutti i cittadini che abbiano compiuto i 25 anni di età e
ugualmente non rientrino nelle categorie prima citate. Elettorato passivo è il diritto ad essere candidati nelle
competizioni elettorali e comprende l’insieme dei requisiti necessari per essere candidati in quel tipo di
elezioni. Rispetto alla Camera dei deputati l’elettorato passivo spetta a tutti i cittadini che abbiano compiuto
25 anni e non rientrino in quelle categorie di soggetti che la legge dichiara ineleggibili; rispetto al Senato
spetta a tutti i cittadini che abbiano compiuto il quarantesimo anno di età e non rientrino nelle categorie ora
dette. La mancanza dell’elettorato passivo si chiama ineleggibilità, situazione per cui un determinato
soggetto non può essere eletto in quel determinato tipo di elezioni: se egli viene eletto nei fatti, la sua
elezione è nulla e tale va dichiarata dagli organi a cui è dato il compito di accertare la validità delle elezioni.
Una specie di ineleggibilità, chiamata incandidabilità, è stata introdotta di recente al fine di impedire in
radice che venga votata una persona che secondo la legge non può ricoprire una specifica carica elettiva:
viene previsto che la persona incandidabile venga tolta dalla lista prima delle votazioni. Diversa dalla
ineleggibilità è la incompatibilità, che designa quella situazione per cui una medesima persona non può
ricoprire contemporaneamente due cariche, ma deve scegliere fra di esse e se non lo fa è lo stesso
ordinamento che sceglie al suo posto. La costituzione stabilisce che sono incompatibili la carica di deputato e
senatore (art. 65), di membri del Parlamento e membri del consiglio superiore della magistratura (art. 104).
La maggior parte dei casi di incompatibilità come di ineleggibilità rispetto a tutte le cariche pubbliche e agli
impieghi pubblici sono stabiliti da leggi ordinarie. Per quanto riguarda sia l’elettorato attivo che quello
passivo la legge costituzionale n. 1 del 2003 ha integrato l’art. 51 della costituzione, aggiungendo alle parole
“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in
condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” la frase: “A tale fine la Repubblica
promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Poco prima, la l. cost. n. 3 del
2001 aveva introdotto il nuovo comma 7 dell’art. 117 secondo cui “Le leggi regionali rimuovono ogni
ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e
promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”. Oggi dunque le leggi possono
introdurre particolari disposizioni che favoriscono l’accesso delle donne alle cariche elettive.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

8) Riassunto dei diversi casi di partecipazione: esponiamo qui le principali forme di partecipazione
rinvenibili nell’ordinamento italiano. 1) Prima in ordine di importanza viene la partecipazione alle elezioni
politiche per la scelta dei membri di assemblee rappresentative, partendo dal più generale verso il più
particolare: 1.1 elezione dei membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; 1.2 dei consigli
regionali; 1.3 dei consigli comunali; 1.4 dei consigli circoscrizionali noti come consigli di quartiere. 2) Vi
sono poi i casi in cui al corpo elettorale viene demandata l’elezione diretta dei capi degli esecutivi: 2.1
elezione diretta del sindaco; 2.2 elezione diretta del presidente della Regione in quelle regioni ordinarie che
hanno confermato negli statuti l’elezione diretta prevista transitoriamente per le elezioni del 2000 dalla l.
cost. 1/99 (oggi tutte). Molti premono affinché anche il presidente del consiglio venga eletto direttamente dal
corpo elettorale. 3) Partecipazione ai referendum, che si dividono in: 3.1 referendum statali; 3.2 referendum
regionali; 3.3 referendum comunali. Quelli statali si dividono a loro volta in: 3.1.1 abrogativi; 3.1.2
approvativi di leggi costituzionali; 3.1.3 per le variazioni territoriali delle regioni. 4) Iniziative popolari verso
le assemblee rappresentative: 4.1 legislative, che si dividono in: 4.1.1 statali (mediante almeno 50.000
elettori); 4.1.2 regionali (rinvio agli statuti regionali); 4.2 per il referendum abrogativo (almeno 500.000
elettori); 4.3 per il referendum approvativo di leggi costituzionali (almeno 500.000 elettori); 4.4 per i
referendum regionali (rinvio agli statuti); 4.5 petizioni (alle camere, ai consigli regionali, etc.); 4.6 per i
referendum comunali. 5) Partecipazione allo svolgimento di funzioni e attività pubbliche. Insieme di casi
molto diversificati nei quali cittadini, individuati secondo procedure specifiche stabilite dalle norme,
vengono chiamati a partecipare allo svolgimento di attività e funzioni dei pubblici poteri, attraverso la
partecipazione ad organi collegiali. Quattro casi significativi: 5.1 partecipazione alla funzione giurisdizionale
(giudici popolari delle corti d’assise; vengono estratti a sorte da elenchi di persone che hanno determinati
requisiti di istruzione); 5.2 alla gestione delle scuole (consigli scolastici ai diversi livelli); 5.3 consultori
familiari (dove è previsto); 5.4 partecipazione mediante le associazioni di volontariato all’assistenza e
beneficenza e all’assistenza sanitaria; a queste forme si possono aggiungere i casi in cui vengono chiamate a
partecipare allo svolgimento di attività pubbliche quelle che sono state definite associazioni di interesse
pubblico. 6) Partecipazione indiretta allo svolgimento di funzioni e attività pubbliche. Casi in cui la
partecipazione non è immediata ma mediata, o attraverso assemblee rappresentative o attraverso partiti,
sindacati, gruppi in generale. Ricordiamo i casi in cui regioni, Province e Comuni nominano propri
rappresentanti entro collegi di altri enti. In questi casi i soggetti decisionali sono i partiti, e quindi potremmo
chiamare questa partecipazione “partecipazione indiretta attraverso i partiti”. Vi sono poi casi in cui sono i
sindacati o associazioni rappresentative di categorie che designano propri rappresentanti nel seno di
organismi pubblici (la partecipazione avviene attraverso i sindacati o tali associazioni di categoria). 7)
Partecipazione a procedimenti amministrativi. La l. 241/90 ha previsto in via generale il diritto degli
interessati a partecipare ai procedimenti amministrativi. Gli interessati hanno diritto di prendere visione degli
atti del procedimento e di presentare memorie e documenti, di cui la p.a. deve tener conto motivando se e
perché accoglie suggerimenti e proposte e se e perché non li accoglie. Vi sono poi casi in cui leggi più
specifiche prevedono forme e modi particolari per partecipare, integrativi rispetto al modo generale previsto
dalla l. 241/90. 8) Partecipazione del personale a organi decisionali e consultivi delle strutture a cui
appartengono. Rientrano in questo tipo i casi di elezioni di propri rappresentanti entro organi decisionali o
consultivi di strutture pubbliche da parte dei dipendenti di tali organismi. A titolo di esempio ricordiamo: 8.1
l’elezione nei consigli scolastici di propri rappresentanti da parte del personale docente e non docente; 8.2
l’elezione di propri rappresentanti nei consigli di amministrazione delle università da parte del personale
docente e non docente; 8.3 l’elezione di propri rappresentanti ai diversi livelli da parte delle diverse categorie
nelle forze armate; 8.4 lo stesso nella Polizia di Stato. 9) Autogestione e gestione sociale. In questa casella
facciamo rientrare i casi in cui si afferma il criterio guida di affidare direttamente agli interessati la gestione
di strutture pubbliche o semi pubbliche: il fenomeno si manifesta nel campo dell’assistenza (es. le comunità
autogestite dei tossicodipendenti, sotto il controllo e con l’aiuto di strutture pubbliche). Su tutt’altro terreno
si parla di autogestione per le imprese economiche. Questo elenco è ben lontano dall’essere completo, ma già
così dimostra la tendenza delle democrazie moderne a coinvolgere sempre più ampiamente i cittadini
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

nell’attività dei pubblici poteri. In altri paesi questo coinvolgimento è più ampio (paesi in cui anche i giudici
sono elettivi, e talvolta anche funzionari amministrativi).

CAPITOLO 11

Il Parlamento

1) Caratteristiche generali dei parlamenti: il nome Parlamento non è il nome ufficiale di uno specifico
organo così chiamato, ma designa il rango e la funzione di un centro di potere unitario entro lo stato. I nomi
specifici degli organi che compongono il Parlamento italiano sono Camera dei deputati e Senato della
Repubblica; il nome di quelli inglesi sono Camera dei comuni e Camera dei lords; etc. Tutti però li
consideriamo parti del Parlamento di ciascun paese, perché riconducibili ad una funzione statale specifica e
unitaria che per secolare tradizione si usa chiamare parlamentare così che Parlamento è il nome unico che
designa questo centro unitario di potere. Originariamente la parola Parlamento designava la riunione solenne
in cui re e altri rappresentanti invitati dal re si riunivano per parlamentare e cioè per accordarsi su questioni
importanti. Rivendicare il Parlamento ha significato storicamente rivendicare l’esistenza e l’indipendenza di
un centro di potere dotato di poteri simili a quelli del Parlamento per antonomasia, il Parlamento inglese, tra i
più antichi e l’unico che vanta una continuità secolare. Ciò spiega perché si chiama unitariamente
Parlamento, con un solo nome, anche un potere diviso in due organi distinti (quando cioè il Parlamento è
bicamerale). Così in Italia la parola Parlamento non designa uno specifico soggetto, ma un centro di potere e
di attività congiuntamente esercitati da due soggetti collettivi distinti: Camera dei deputati e Senato. Il
Parlamento può essere composto da uno o più organi. In ogni caso però: è un soggetto collettivo, un organo
collegiale, cioè un organo che decide attraverso la discussione e la votazione di più persone riunite insieme; è
un corpo elettivo, in quanto se non lo fosse non sarebbe più rappresentativo. La caratteristica del Parlamento
più importante di tutte è di essere organo rappresentativo (in Italia è l’unico organo direttamente
rappresentativo a livello nazionale perché direttamente eletto da tutto il popolo). Tra elettività e
rappresentanza non c’è necessaria coincidenza: un organo può essere elettivo, ma non è rappresentativo dei
suoi elettori (es. il Papa eletto dai cardinali, ma non è il loro rappresentante); all’inverso un organo può
considerarsi ed essere considerato rappresentativo, senza essere eletto dai rappresentanti, né direttamente né
indirettamente (oggi la cosa appare impraticabile). Altra caratteristica del Parlamento italiano è che i suoi
membri non possono essere revocati ed ogni eventuale promessa da essi sottoscritta non produce alcuna
conseguenza giuridica: vige il divieto del mandato imperativo. Un’altra caratteristica costante dei parlamenti
sta nel fatto che essi discutono e decidono in pubblico. Il fatto che l’ingresso nelle camere è disciplinato dalle
stesse è una misura pratica dato il numero ristretto dei posti disponibili; in ogni caso oggi importante è che
siano presenti giornalisti, i quali informano dei lavori parlamentari, e che siano pubblicati i resoconti più
fedeli possibile dei dibattiti parlamentari (questo avviene attraverso la stampa degli atti parlamentari,
resoconti stenografici di tutto ciò che avviene in assemblea). Nella nostra costituzione è previsto che le
Camere possano discutere e deliberare in segreto (art. 64), ma sia la costituzione che la pratica configurano
questo caso come eccezionale. Si usa distinguere tra bicameralismo perfetto e bicameralismo imperfetto. Si
ha il primo quando i due organi del Parlamento hanno gli stessi poteri e quindi si trovano su un piano di
assoluta parità e questo è il caso del Parlamento italiano: Camera e Senato non si distinguono in nulla quanto
ai poteri che essi hanno. Si ha il bicameralismo imperfetto quando una camera non ha gli stessi poteri
dell’altra ma l’una può compiere atti e raggiungere risultati che l’altra non può compiere o raggiungere
(situazione del Parlamento italiano sotto lo statuto albertino, in cui il Senato non poteva dare la sfiducia al
governo e non aveva iniziativa legislativa in materia di leggi tributarie e di bilancio).

2) Il sistema elettorale della Camera dei deputati: la legge cost. n. 1/2020 ha modificato l’art. 56 della
Costituzione e prevede che i componenti della Camera dei deputati siano 400. La stessa costituzione prevede
che i cittadini italiani residenti all’estero abbiano diritto ad eleggere 8 rappresentanti in una specifica
circoscrizione chiamata Estero, così che i deputati che vengono eletti in Italia diventano 392. La costituzione
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Riassunto di Gaia Paoloni
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esige che il territorio italiano venga diviso in circoscrizioni e che ciascuna circoscrizione elegga un numero
di deputati proporzionale alla popolazione quale risulta dall’ultimo censimento generale. In tal modo gli
elettori residenti in una circoscrizione votano soltanto per i seggi attribuiti ad essa. Quante sono e come sono
delimitate le circoscrizioni lo decide la legge ordinaria che attua le prescrizioni ed i principi della
costituzione, così come è la legge ordinaria che stabilisce come i voti si trasformano in seggi, e cioè il
sistema elettorale in senso stretto. La legge elettorale vigente è la l. n. 165 del 2017, come modificata dalla l.
n. 51 del 2019. La prima caratteristica di tale legge è quella di essere una mescolanza tra un criterio
proporzionale e un criterio maggioritario, con prevalenza dei seggi attribuiti mediante il criterio
proporzionale. 147 seggi vengono attribuiti mediante collegi uninominali, per cui vince il seggio il candidato
che ottiene più voti (sistema maggioritario in cui tutti gli altri non ottengono nulla); tutti gli altri seggi
vengono assegnati a liste o coalizioni di liste in proporzione ai voti che esse hanno ricevuto in collegi
plurinominali (collegi nei quali diverse liste di candidati concorrono per dividersi i deputati attribuiti dalla
legge al collegio). Una volta stabilito quante sono e come sono delimitate le circoscrizioni e quanti seggi
complessivamente spettano a ciascuna circoscrizione, è necessario delimitare entro ciascuna circoscrizione
sia i collegi uninominali sia quelli plurinominali (che raggruppano uno o più collegi uninominali contigui),
necessità alle quali ha provveduto il recente d.lgs. n. 177 del 2020. Qui basta ricordare il criterio base che la
costituzione esige al fine di garantire l’uguaglianza tutti i cittadini elettori: i collegi uninominali devono
avere in principio lo stesso numero di abitanti, salvo le variazioni per ragioni pratiche ovvie (non si può
dividere a metà un’abitazione o un quartiere; la legge ammette uno scarto non superiore e non inferiore al
20% rispetto al numero esatto); quelli plurinominali devono avere un numero di seggi proporzionale al
numero degli abitanti (la legge ammette lo stesso scarto precedente). La seconda caratteristica della legge è
che essa attribuisce a ciascun elettore un solo voto che vale contemporaneamente per il collegio uninominale
nel quale vota l’elettore e per quello plurinominale del quale fa parte il collegio uninominale nel quale vota
l’elettore (l’elettore fa sempre parte contemporaneamente di un collegio uninominale e di un collegio
plurinominale che comprende il collegio uninominale). Di conseguenza la legge prevede che l’elettore riceva
una sola scheda e che su questa scheda compaiano contemporaneamente sia i nomi dei candidati per il seggio
uninominale, tra i quali l’elettore sceglierà quello che preferisce, sia le liste dei candidati che concorrono per
la quota proporzionale, tra le quali l’elettore sceglierà una soltanto purché collegata con il candidato del
collegio uninominale scelto dall’elettore. Dato il numero dei collegi proporzionali e di quelli plurinominali,
le liste dei candidati nei collegi plurinominali risulteranno molto corte (la legge prescrive sia il numero
minimo e massimo di seggi attribuibili ai collegi plurinominali, sia il numero minimo e massimo di candidati
che ciascuna lista deve avere, pena la non ammissione). Una terza caratteristica della legge: non sono
ammesse le preferenze, l’elettore non può scegliere i candidati che preferisce entro la lista, ma può solo
votare la lista che preferisce e se la lista vince qualche seggio, la selezione dei candidati vittoriosi viene
determinata dall’ordine che i presentatori hanno imposto alla lista. La legge esige che nell’ordine della lista
ci sia un’alternanza tra i generi: se il primo candidato è maschio il secondo deve essere donna etc. Una quarta
caratteristica della legge sta nelle soglie di sbarramento calcolata a livello nazionale, per cui le liste o le
coalizioni di liste non ottengono seggi se non superano le percentuali di voti prescritte dalla legge. Nel
procedimento elettorale ci sono tre momenti distinti: a) quello della presentazione dei candidati; b) quello del
voto; c) quello del computo dei voti e dell’applicazione dei criteri in base ai quali i voti si traducono in seggi,
con proclamazione degli eletti. Stabilito il quadro delle circoscrizioni e dei collegi uninominali e
plurinominali, i partiti o gruppi di elettori possono presentare candidati nei collegi uninominali e liste di
candidati nei collegi plurinominali collegate col candidato uninominale, con le seguenti limitazioni: 1) non è
possibile presentare un candidato nel collegio uninominale senza collegarlo con una lista o una coalizione di
liste nel collegio plurinominale del quale fa parte il collegio uninominale, e viceversa; 2) nelle circoscrizioni
non sono ammesse liste o coalizioni di liste che non si presentano in almeno 2/3 dei collegi plurinominali
della circoscrizione (e conseguente presentazione di candidati uninominali negli stessi collegi); 3) una volta
stabilite le coalizioni questa è unica per tutto il territorio italiano; 4) le liste dei collegi plurinominali
contengono candidati non inferiori alla metà e non superiori al numero dei seggi attribuiti al collegio e sono
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Riassunto di Gaia Paoloni
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liste bloccate, per cui ai fini della elezione conta l’ordine imposto dai presentatori; 5) un candidato può
presentarsi in un solo collegio uninominale, ma può aggiungere a questa candidatura quella in quattro collegi
plurinominali; un candidato che non si presenta in un collegio uninominale può essere presente in quattro
collegi plurinominali. Stabilito il quadro delle candidature, l’elettore può votare. La scheda elettorale è unica
per ciascun elettore. Sulla scheda sono stampati tanti rettangoli quanti sono i candidati nel collegio
uninominale; ciascun candidato è accompagnato o da una sola lista di candidati per il collegio plurinominale,
lista che viene scritta per intero ed è individuata con un simbolo, o da più liste di candidati se il candidato
uninominale viene sostenuto da una coalizione ed è la coalizione che concorre alla ripartizione dei seggi
proporzionali nel collegio plurinominale; in questo caso in ciascun rettangolo grande ci sono rettangoli
minori che contengono le liste della coalizione con i rispettivi simboli di ciascuna. L’elettore non può
scegliere un candidato uninominale e una lista per il collegio plurinominale non collegata con il primo. I casi
principali sono: 1) l’elettore vota un candidato del collegio uninominale (se ne vota più di uno il voto è nullo)
e vota la singola lista o una delle liste della coalizione collegata al candidato uninominale; 2) l’elettore vota il
candidato uninominale, ma non si esprime sulla singola lista o su una delle liste della coalizione collegata: il
voto espresso si estende automaticamente alla singola lista collegata e si ripartisce tra le liste coalizzate,
usando come criterio la proporzione che ciascuna lista della coalizione ha ricevuto direttamente nel collegio
proporzionale: si fa il conteggio dei voti validi per il collegio uninominale privi del voto per una lista della
coalizione collegata, e questi voti vengono ripartiti tra le liste della coalizione in proporzione ai voti che esse
hanno ricevuto espressamente (da altri elettori) entro il collegio proporzionale; 3) l’elettore vota una lista (se
ne vota due il suo voto è nullo) e non esprime voto sul candidato uninominale collegato: il voto dato alla lista
si estende automaticamente al candidato uninominale collegato. Terminati gli scrutini ci saranno i voti
ottenuti dai singoli candidati in ciascun collegio uninominale, con la conseguenza che vince il seggio in palio
quello che ha ottenuto più voti, e vi saranno i voti ottenuti per i seggi proporzionali o da liste singole che si
sono presentate da sole o da coalizioni, e dentro le coalizioni vi saranno i voti ottenuti da ciascuna lista
coalizzata. I conteggi vanno fatti o a livello di circoscrizione o a livello nazionale ed è a livello nazionale che
scattano le soglie di sbarramento: un partito che si è presentato da solo ottiene seggi solo se supera il 3% dei
voti validi; una coalizione non ottiene seggi come coalizione se non supera il 10% dei voti validi e se almeno
uno dei partiti coalizzati non ha superato il 3%; se la coalizione ha ottenuto seggi, questi vengono ripartiti tra
i singoli partiti coalizzati in proporzione ai voti ricevuti da ciascuno. A questo punto cominciano i conteggi
per stabilire quanti seggi ha ottenuto una coalizione, o un singolo partito, a livello prima di circoscrizione, e
poi a livello di collegio plurinominale.

3) Il sistema elettorale del Senato della Repubblica: la costituzione prescrive che il Senato della
Repubblica sia composto da 200 senatori, 4 dei quali eletti nella circoscrizione Estero. I restanti senatori
sono eletti su base regionale, l’equivalente delle circoscrizioni previste per la Camera dei deputati: gli elettori
eleggono i senatori attribuiti alla regione. La costituzione (art. 57, terzo comma) esige che nessuna regione (o
provincia autonoma) abbia un numero di senatori inferiore a 3, tranne il Molise che ne ha due, e la Valle
d’Aosta che ne ha uno. La ripartizione dei senatori tra le regioni viene fatta in proporzione al numero degli
abitanti quale risulta dall’ultimo censimento nazionale. La legge elettorale vigente per il Senato è la
medesima di quella oggi vigente per la Camera dei deputati, fatti salvi alcuni aggiustamenti e alcune
modificazioni o richieste da specifiche regole di ordine costituzionale o richieste dal numero dei senatori. In
particolare, considerando i numeri e le regole specifiche per la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, e il
Molise (che risultano avere assegnati rispettivamente uno, sei e due seggi al Senato), la legislazione vigente
prevede un numero totale di collegi uninominali pari a 74 (ovvero i 3/8) e tanti altri collegi plurinominali
quanti sono necessari per eleggere i restanti senatori (fino ad arrivare a 196, ai quali vanno aggiunti i 4
senatori eletti nella circoscrizione Estero). Con decreto legislativo dunque (ad oggi, il d.lgs. n. 177 del 2020)
vanno individuati i seggi spettanti complessivamente a ciascuna Regione e poi i collegi uninominali e quelli
plurinominali entro ciascuna regione, e per quelli plurinominali il numero di seggi ad essi attribuiti. Le
regole sulla presentazione delle candidature, sulla scheda che l’elettore riceve, sulle regole alle quali

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l’elettore deve attenersi nel voto affinché sia valido, sul conteggio dei voti, sono analoghe a quelle della
Camera. La soglia di sbarramento è in parte diversa: per le coalizioni resta lo sbarramento del 10% purché
una lista entro la coalizione abbia raggiunto il 3% a livello nazionale, ma ottiene voti anche una coalizione
che abbia superato il 10% purché in una regione almeno una lista della coalizione abbia raggiunto il 20% dei
voti validi; egualmente per le liste singole, non collegate, vale il criterio o del 3% a livello nazionale o del
20% almeno in una regione. Per quanto riguarda il Senato: le soglie di sbarramento potrebbero essere messe
soltanto a livello regionale, come sembra esigere l’art. 57 cost. quando scrive che il Senato viene eletto su
base regionale.

4) Lo “status” di parlamentare: non appena eletto e fino a che non cessa dalla sua carica, il parlamentare
gode di un particolare status, cioè di una situazione propria solo dei parlamentari, in forza della quale essi
sono soggetti a specifici doveri e hanno particolari diritti inerenti alla carica, e in generale sono soggetti ad
un regime giuridico in parte diverso da quello proprio di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento. Quasi tutte
le norme dei regolamenti parlamentari presuppongono che i soggetti in essi regolati siano parlamentari e
quindi in questi casi essi si applicano solo ai parlamentari. Importante esaminare le immunità parlamentari:
particolari garanzie disposte direttamente in costituzione a tutela della libertà del parlamentare e delle sue
funzioni. Si chiamano immunità e non privilegi perché esse non sono concesse a vantaggio dell’individuo,
ma della sua funzione. I privilegi sono rinunciabili (perché si tratta di un vantaggio privato), le immunità non
sono rinunciabili (perché si tratta di un vantaggio dato non all’individuo, ma all’individuo in quanto svolge
una funzione pubblica, e quindi nell’interesse pubblico). Dopo la l. costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3,
bisogna distinguere tra due tipi di immunità, una di ordine sostanziale e una di ordine procedurale. L’art. 68,
primo comma, nel nuovo testo, dispone: i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere
delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni: qualunque cosa dica e qualunque
decisione adotti nell’esercizio delle sue funzioni, il parlamentare non è soggetto a nessuna sanzione. Fuori
delle camere il parlamentare non può essere incriminato penalmente o processato civilmente o perseguito per
quello che ha detto e deciso entro le camere. Questa regola riguarda i fatti in sé e per sé e per questo si
chiama sostanziale. Di conseguenza il parlamentare non è perseguibile, in questo senso, non solo mentre è
parlamentare, ma anche quando non lo è più. Ci sono casi di conflitto tra i giudici, i quali ritengono che le
opinioni dei parlamentari espresse fuori dall’esercizio delle funzioni, siano perseguibili se reati, e le camere,
invece le ritengono coperte dalla immunità sostanziale; la Corte costituzionale negli ultimi anni ha dato
ragione ai giudici e torto alle camere; per questa ragione il Parlamento ha approvato l’art. 3 della l. 140/03
che pretende (nel comma 1) di imporre una definizione legale di opinioni espresse nell’esercizio delle
funzioni: poiché si tratta di una legge ordinaria, essa dovrebbe essere incostituzionale. La Corte
costituzionale, con la sentenza n. 120 del 2004 ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità
sollevata nei confronti del primo comma dell’art. 3: lo ha fatto con una sentenza interpretativa di rigetto, cioè
con una sentenza che apparentemente respinge la questione, ma in buona sostanza l’accoglie, perché la Corte
ha sostenuto che il testo del comma 1 dell’art. 3 della l. 140/03 va interpretato alla luce della precedente
giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale per le opinioni espresse al di fuori del Parlamento
ammetteva l’immunità solo se tali opinioni erano riproduttive all’esterno di dichiarazioni fatte all’interno
delle camere nell’esercizio di attività parlamentari. Il testo del comma 1 dell’art. 3 è diverso dalla
interpretazione che ne dà la Corte (nel testo della legge eventuali ingiurie pronunciate da un parlamentare in
un comizio politico sono coperte dall’immunità; nell’interpretazione della Corte l’immunità sussiste solo se
esiste un nesso funzionale con l’attività di parlamentare: se ad es. nel comizio il parlamentare ripete
affermazioni fatte in un dibattito parlamentare), e questa discrepanza avrà come risultato il ripresentarsi
continuo di controversie intorno all’applicazione o mancata applicazione dell’immunità prevista dall’art. 68,
primo comma della costituzione. Prosegue l’art. 68: senza autorizzazione della camera alla quale appartiene,
nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere
arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di
una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è

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previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del
Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di
corrispondenza. Prima della riforma, l’immunità riguardava anche il processo penale: il parlamentare non
poteva essere processato penalmente se prima la camera alla quale apparteneva non aveva concesso
l’autorizzazione, permettendo così ai politici di commettere impunemente delitti. Di fronte alla crescente
indignazione pubblica, il Parlamento, con la l. costituzionale n. 3/93, ha abolito questa immunità. Questa
immunità aveva una giustificazione nei secoli passati, quando i giudici erano subordinati al potere esecutivo,
e dunque esisteva il concreto pericolo, confermato dalla pratica, che il potere esecutivo, attraverso i giudici
da esso dominati, potesse violentare la libertà e il potere del Parlamento. Oggi, alla luce della costituzione,
che tutela l’indipendenza dei giudici, e della pratica, che dimostra che non esiste il pericolo che il Parlamento
possa subire limitazioni dei propri poteri a causa dei giudici, quella immunità aveva perduto ogni
giustificazione. Restano le altre immunità di ordine procedurale a tutela della libertà e delle funzioni del
parlamentare. I parlamentari non sono cittadini comuni, ma rappresentanti del popolo, liberamente eletti da
questo. Sarebbe grave che tali rappresentanti non potessero svolgere la funzione per la quale sono stati eletti
dal popolo, a causa della decisione di un altro potere dello Stato che può rivelarsi infondata. Se un’autorità
giudiziaria ritiene che un parlamentare debba essere sottoposto a restrizioni della sua libertà personale o
perquisito, o che debba essere perquisita la sua abitazione, o intercettata una sua comunicazione o sequestrata
una sua corrispondenza, deve chiedere l’autorizzazione a procedere della camera cui appartiene il
parlamentare, e solo dopo tale autorizzazione può procedere alla limitazione della libertà del parlamentare.
Tale autorizzazione non è richiesta se il parlamentare è stato condannato definitivamente o se egli è stato
colto nell’atto di commettere un delitto per il quale la legge prevede l’arresto obbligatorio, in quanto vi è un
accertamento definitivo dei fatti. Ai parlamentari viene corrisposta un’indennità in denaro stabilita dalla
legge e ciò segna il passaggio dal Parlamento liberale a quello democratico. I parlamentari liberali non
avevano bisogno di remunerazione perché erano rappresentanti dei proprietari e perciò essi stessi proprietari.
Viceversa, i partiti proletari e democratici volevano eleggere loro rappresentanti, era necessario remunerarli
perché essi non avevano proprietà sulle cui rendite basare la propria esistenza materiale ne potevano di fatto
svolgere un’altra attività retribuita oltre quella parlamentare. Questa remunerazione è molto più alta del
reddito medio esistente in Italia. È vero che qualche partito impone ai parlamentari di versare larga parte di
tale retribuzione al partito, ma è regola interna che riguarda solo tale partito. In generale i rappresentanti del
popolo vivono meglio della media del popolo da essi rappresentato.

5) Durata e scioglimento delle Camere: ciascuna camera secondo costituzione dura normalmente 5 anni
così come il Senato anche se prima del 1963 quest’ultimo ne durava sei. Le camere sono organi permanenti,
che potrebbero riunirsi in ogni momento indipendentemente dalle vicende dei singoli membri. Anche quando
sono sciolte, se necessario, potrebbero riunirsi fino ad un istante prima della prima riunione delle nuove, e le
nuove potrebbero riunirsi un istante dopo la elezione (questa regola si chiama prorogatio). Dopo l’atto di
scioglimento e la contemporanea indizione della elezione delle nuove camere, esse non si riuniscono più, e le
nuove camere si riuniscono nel giorno fissato dal presidente della Repubblica nell’atto stesso di indizione
delle elezioni (per costituzione non può andare oltre il ventesimo giorno dalla data delle elezioni). Dunque,
anche i parlamentari durano in carica 5 anni e la loro sostituzione avviene contemporaneamente per tutti allo
scadere del quinto anno. Così lo scioglimento anticipato delle camere vuol dire scioglimento del corpo
collettivo dei parlamentari ed elezione per rinnovare tale corpo, e non scioglimento dell’organo Camera dei
deputati e dell’organo Senato. Due regole fondamentali: 1) le camere possono riunirsi sempre, anche quando
sono sciolte (art. 61 u. c.); 2) non è possibile sciogliere le camere senza, o contemporaneamente o entro un
termine brevissimo costituzionalmente garantito, indire le elezioni per le successive (art. 61: le elezioni delle
nuove camere hanno luogo entro 70 giorni dalla fine delle precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il
ventesimo giorno dalle elezioni). Queste regole sono il risultato di un duro processo storico, all’inizio del
quale vigevano regole opposte: un tempo, sciolto il Parlamento o la riunione per ordine del re, il Parlamento
non esisteva più fino a che non venisse riconvocato dal re; in passato allo scioglimento potevano anche non

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seguire nuove elezioni per lungo tempo. Lo scioglimento a norma di costituzione viene sempre disposto dal
presidente della Repubblica, ma l’atto ha un diverso significato e importanza secondo che avvenga alla
scadenza dei 5 anni o prima. Nel primo caso si tratta di un atto dovuto, che non comporta alcun potere
politico, ma è obbligatorio (la costituzione prevede solo in caso di guerra (art. 60) la proroga della durata
delle camere oltre i 5 anni). Nel secondo caso, di scioglimento anticipato, proprio perché il presidente della
Repubblica con la sua decisione prima della normale scadenza provoca un mutamento politico, l’atto è
politico. L’art. 88 (nel testo modificato dalla l. cost. 1/91) della costituzione dice: il presidente della
Repubblica può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le camere o anche una sola di esse. Non può esercitare
tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi
sei mesi della legislatura. La costituzione dunque non subordina il potere del presidente della Repubblica ad
alcun limite sostanziale, ma solo a limiti procedurali (deve sentire il parere dei presidenti delle camere, ma è
libero di decidere anche contro il parere di questi) e temporali (non può sciogliere negli ultimi sei mesi:
semestre bianco) però dato che secondo l’ art. 89 nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non
è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità, ne consegue che anche l’atto di
scioglimento deve essere controfirmato dal governo: questo è un fatto sostanziale perché il governo con la
sua opposizione può porre un veto all’intenzione del presidente della Repubblica. Potremmo concludere che
secondo costituzione presidente della Repubblica e governo congiuntamente possono sciogliere le camere in
qualsiasi momento e per qualsiasi ragione. Le cose non stanno così. Il perno fondamentale del meccanismo
costituzionale italiano sta nel rapporto di fiducia tra governo e Parlamento, e cioè nella certa e costante
esistenza di una maggioranza parlamentare stabile. Se questa maggioranza esiste, esiste un governo
relativamente stabile e sicuro, ed esiste una linea politica omogenea e coerente che guida l’intero apparato
statale. Di fronte a questo fatto il presidente della Repubblica non ha alcuna possibilità pratico politica di
sciogliere anticipatamente le camere a meno che a) per ragioni del tutto eccezionali la stessa maggioranza
parlamentare e quindi lo stesso governo vogliano le elezioni anticipate e riescano a convincere il presidente
della Repubblica delle opportunità di esse; b) il presidente della Repubblica capeggi un colpo di Stato. Un
corollario di questo discorso è la regola secondo cui il presidente della Repubblica, a seguito di una crisi di
governo, non può sciogliere le camere se prima non ha compiuto un’indagine per verificare se esiste una
maggioranza in Parlamento. Questa regola si affida solo a convenzioni tacitamente accolte dai politici e
quindi solo a volontà politiche, se e nella misura in cui i soggetti politici non ritengono opportuno rompere
tali convenzioni. Immaginiamo ad es. che il presidente della Repubblica anziché procedere al tentativo di
formare un nuovo governo, sciolga le camere col consenso del vecchio governo. Può accadere che tutti i
partiti accettino il fatto compiuto e partecipano alle nuove elezioni; però potrebbe accadere che tutti o una
parte non lo accettino e non riconoscano lo scioglimento. Questo secondo caso non è risolvibile secondo
costituzione, ma solo in fatto, in base a puri rapporti di forza. Nel primo caso si aprono due possibilità: le
nuove elezioni determinano una maggioranza parlamentare che ratifica politicamente la decisione di
scioglimento, o le elezioni determinano una maggioranza parlamentare contraria alla iniziativa di
scioglimento adottata dal presidente della Repubblica, così che si apre una crisi politica nella quale le nuove
camere chiedono le dimissioni del presidente della Repubblica. In linea di principio e secondo la logica del
governo parlamentare il presidente della Repubblica non può sciogliere le camere contro la maggioranza
parlamentare (maggioranza capace di esprimere un governo). Si può sostenere che il presidente della
Repubblica può o deve sciogliere le camere solo che lo voglia la maggioranza parlamentare? In Italia è stato
certo fin qui che il presidente della Repubblica non deve sciogliere le camere solo perché glielo chiede il
primo ministro, o il governo o la maggioranza parlamentare. Ma il presidente della Repubblica può ritenere
motivo sufficiente per sciogliere le camere il fatto che la maggioranza lo richieda? Qui si deve intendere per
maggioranza una maggioranza politica, capace di esprimere un governo. Bisogna immaginare una
maggioranza che, pur potendo continuare a governare, preferisce le elezioni perché le ritiene più opportune
nel suo interesse di partito. Finora non è mai accaduto, ed è facile prevedere che tutti i partiti di minoranza
accuserebbero la maggioranza di comportamento incostituzionale se questa volesse imporre uno
scioglimento nel suo particolare interesse di partito. La lotta politica in Italia ha una asprezza tale che ogni
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vantaggio ulteriore a favore della maggioranza, oltre i molti che essa si è già acquistata (influenza sui mezzi
di comunicazione di massa), suonerebbe attentato alla parità e libertà dei partiti, e cioè verrebbe sentito come
violazione di una regola fondamentale della democrazia così come si pratica in Italia. Siamo arrivati dunque
all’unico caso che legittima senza dubbi lo scioglimento anticipato: il caso in cui è certo, per riscontri
oggettivi o per maggioritario riconoscimento dei partiti, che è impossibile formare un qualsiasi governo con
la fiducia del Parlamento, e dunque non esiste nessuna maggioranza parlamentare. Non è senza significato
che i casi di scioglimento anticipato delle camere fin qui avvenuti sono stati provocati da questo motivo e si
sono verificati col consenso di tutti i principali partiti, anche di opposizione. Queste limitazioni sono tutte di
ordine convenzionale, e nulla esclude in assoluto che l’arma dello scioglimento anticipato sia usata
politicamente in modi e con conseguenze oggi sconosciuti. Il potere di scioglimento delle camere costituisce
una delle chiavi di volta del meccanismo politico costituzionale, perché il suo uso concreto costituisce uno
strumento decisivo di lotta politica e quindi di mutamento anche drammatico degli equilibri politici. Lo
scioglimento dunque è una sorta di arma di riserva.

6) L’organizzazione interna delle Camere: la Camera dei deputati si compone di 400 deputati e il Senato
della Repubblica di 200 senatori elettivi, più 5 senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica fra
coloro che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario,
più eventuali ex presidenti della Repubblica, che allo scadere del loro mandato sono divenuti
automaticamente senatori a vita (art. 59). Si tratta di collegi molto numerosi e già questo spiega perché essi
sono organismi complessi. Essi sono organi costituzionali, e cioè indipendenti rispetto ad ogni altro, così che,
per garantire tale indipendenza da ogni intromissione, devono governarsi da sé stessi e attrezzarsi
organizzativamente e normativamente a questo fine. Queste due esigenze spiegano le funzioni di tutte le
articolazioni di ciascuna camera. Ciascuna camera elegge fra i suoi componenti il proprio presidente e
l’ufficio di presidenza (art. 63, 1° comma cost.). Il presidente rappresenta e simboleggia la camera, cosicché,
ogni volta che ciascuna camera decide in quanto soggetto unitario, per essa dichiara la volontà del collegio il
suo presidente; inoltre dirige i lavori dell’assemblea, usando allo scopo i numerosi poteri previsti dal
regolamento interno di ciascuna camera; infine sovrintende a tutta l’organizzazione interna della camera,
assicurando il buon funzionamento degli uffici e il rispetto delle regole. Tra questi poteri non vi è quello di
stabilire l’ordine del giorno, e cioè gli oggetti sui quali vertono giorno per giorno la discussione e le
deliberazioni: questo potere spetta alla conferenza dei presidenti di gruppo. È opportuno ricordare due
importanti funzioni di ordine costituzionale che spettano rispettivamente solo al presidente della Camera e
solo al presidente del Senato: il primo presiede il Parlamento in seduta comune, il secondo supplisce il
presidente della Repubblica in caso di impedimento di questo. Il fatto che un collegio elenca da sé stesso e
fra i propri membri il proprio presidente è una fondamentale garanzia di indipendenza del collegio. Proprio
per questo il fatto per cui le camere eleggono i rispettivi presidenti va ricordato in opposizione ad un periodo
lontano in cui in certi paesi solo il re nominava il presidente del Parlamento, e quindi il potere esecutivo,
attraverso persone di sua fiducia, si assicurava un controllo permanente sul Parlamento. L’ufficio di
presidenza è composto anche dai vicepresidenti, che sostituiscono il presidente ogni volta che è necessario,
dai questori, che sovraintendono all’ordine e all’organizzazione materiale interna, dai segretari, che assistono
il presidente in tutte le operazioni e le attività relative ai lavori dell’assemblea (sono quindi scrutatori,
procedono agli appelli, etc.). Tutti questi soggetti formalmente vengono eletti da ciascuna camera, ma in
sostanza essi vengono ripartiti fra tutti i gruppi parlamentari in modo che ciascuno abbia una rappresentanza
entro l’ufficio di presidenza proporzionale per numero e qualità alla sua forza numerica. Dunque, sono i
gruppi parlamentari a decidere e non i parlamentari come singoli. La conferenza dei presidenti è un organo
collegiale che comprende il presidente dell’assemblea e i presidenti di tutti i gruppi parlamentari, e può
comprendere anche i vicepresidenti dell’assemblea e i presidenti delle commissioni parlamentari. Il suo
compito principale è quello di predisporre l’ordine del giorno, e cioè di stabilire il ritmo dei lavori, le
priorità, gli oggetti su cui l’assemblea dovrà decidere. Alcune articolazioni interne si chiamano giunte, e il
loro compito è esercitare alcuni poteri che garantiscono l’indipendenza di ciascuna camera rispetto alla

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

possibile intromissione di ogni altro soggetto. Le più significative giunte sono: quella per il regolamento, che
ha il compito di esaminare le questioni relative all’interpretazione e alle richieste di mutamento del
regolamento, formulando pareri e proposte; la giunta per le autorizzazioni a procedere, che esamina le
richieste di autorizzazioni a procedere contro parlamentari nei casi previsti dall’art. 68 cost. dopo la riforma
del 1993 e contro ministri ed ex ministri per reati ministeriali, e formula proposte in merito sulle quali si
pronuncerà definitivamente l’assemblea; la giunta delle elezioni, che ha il compito di esaminare la regolarità
della elezione di tutti i membri dell’assemblea e di esaminare ogni ricorso in merito, riferendone
all’assemblea a cui spetta ogni decisione definitiva. A garanzia della loro indipendenza ciascuna camera è
titolare esclusiva del potere di giudicare sulla validità della elezione dei propri membri. Queste giunte sono
nominate dal presidente dell’assemblea, ma nella pratica il presidente chiede ai vari gruppi di designare i
propri candidati in proporzione alla rispettiva forza. Fondamentali nella organizzazione dei lavori
parlamentari e nell’attività legislativa sono le commissioni parlamentari, composte in modo proporzionale ai
gruppi e da membri designati direttamente dai rispettivi gruppi. Queste commissioni sono permanenti, cioè
costituite dai regolamenti parlamentari con competenza specifica ed esclusiva su materia determinata: non
sono permanenti i loro membri perché per regolamento essi scadono ogni biennio. Le funzioni delle
commissioni sono quattro: a) hanno il compito di esaminare preliminarmente un progetto di legge, di
rielaborare il testo e di riferire all’assemblea i risultati del loro esame (prendono il nome di commissioni
legislative in sede referente); b) hanno il compito, se questo potere viene loro attribuito dal presidente senza
opposizione dell’assemblea, di deliberare una legge al posto dell’assemblea (prendono il nome di
commissioni legislative in sede deliberante); c) hanno il compito, se incaricate dall’assemblea dopo che
questa ha già discusso il progetto di legge, di redigere definitivamente e approvare gli articoli di un progetto
di legge secondo le direttive dell’assemblea e salvo il potere di approvazione definitiva che resta a questa
seconda (commissioni legislative in sede redigente); d) le prime tre figure si chiamano tutte legislative
perché si inseriscono, a vario titolo, nel procedimento legislativo; un quarto compito delle commissioni si
svolge al di fuori di un concreto procedimento legislativo, e concerne quei casi in cui le commissioni
sviluppano un dibattito politico, ed approvano una risoluzione, sulla base di informazioni dei ministri, o
svolgono indagini conoscitive (prendono il nome di commissioni in sede politica). Dal punto di vista
materiale e della organizzazione interna, la commissione è la stessa, e muta volta a volta il suo compito
rispetto ad una stessa materia. Le commissioni parlamentari permanenti si distinguono per le materie ad esse
assegnate, esse esaminano ed approvano progetti di legge, e discutono questioni, solo nelle materie ad esse
attribuite. Vi è così la commissione affari esteri, giustizia, etc.: all’ingrosso le commissioni corrispondono ai
ministeri. Bisogna ricordare che queste commissioni, come tutte le articolazioni interne di ciascuna camera,
hanno propri organi dirigenti e in particolare un presidente, vicepresidenti e segretari. Ciascuna camera non è
obbligata a servirsi solo delle commissioni permanenti. Essa può, volta a volta, nominare delle commissioni
speciali composte in modo proporzionale ai gruppi politici e composte da membri designati da questi, ma che
si sciolgono non appena terminato il compito loro assegnato. Commissioni ad hoc con funzioni molto
specifiche sono le commissioni parlamentari di inchiesta. L’art. 82 cost. dispone: ciascuna camera può
disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina tra i propri componenti una
commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione d’inchiesta
procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria.
Dunque, le inchieste possono essere disposte anche da una singola camera e quindi senza bisogno di una
previa legge, ma nulla vieta che esse siano svolte congiuntamente e che siano decise mediante una legge
formale. Si possono dunque avere commissioni di inchiesta monocamerali, bicamerali senza previa legge,
bicamerali sulla base di una previa legge. Compito di queste commissioni è quello di acquisire notizie e di
suggerire provvedimenti, ma non quello di decidere. Rispetto all’oggetto la costituzione pone che esse non
indaghino su questioni private, attinenti alla sfera personale degli individui. Ogni altra questione che riveste
interesse pubblico può costituire oggetto di inchiesta parlamentare. La previsione costituzionale è necessaria
perché, se a tutti è lecito svolgere indagini, solo alcuni soggetti hanno poteri di indagini, e cioè poteri di
acquisire anche coattivamente notizie e documenti e questo ad es. è il caso del giudice. Dunque, la previsione
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

costituzionale è necessaria per dotare ciascuna Camera dei poteri di inchiesta, che altrimenti non avrebbe. La
costituzione stabilisce che ciascuna commissione ha gli stessi poteri e incontra le stesse limitazioni
dell’autorità giudiziaria. Si chiede se questi limiti valgono solo per le inchieste parlamentari disposte senza
previa legge o anche per le inchieste disposte con legge. La costituzione prevede solo le inchieste disposte
senza previa legge, ed a queste si applica il limite costituzionale, le inchieste disposte con legge vengono
deliberate mediante un atto con forza di legge, così che è lecito chiedersi se questa iniziativa adottata con
forza di legge può superare i limiti che il giudice incontra a causa di altri atti con forza di legge. Se il
Parlamento è l’organo sovrano per eccellenza, perché è rappresentativo del popolo, non si vede perché esso
dovrebbe essere vincolato a regole da lui stesso poste e perché dovrebbe essere equiparato necessariamente
ai giudici nelle proprie indagini. Il Parlamento rappresentativo del popolo deve poter conoscere notizie che i
giudici non possono conoscere. Così il Parlamento può superare ogni segreto che rivesta interesse pubblico,
da quello di Stato a quello di ufficio. Ritenere il contrario significa sottrarre la p.a. e il potere esecutivo al
potere di controllo del parlamento. In un sistema parlamentare solo la minoranza ha un reale interesse a
svolgere inchieste, soprattutto quando queste investono il governo, mentre la maggioranza ha l’interesse
opposto a coprire ogni attività di governo. Per questa ragione la costituzione federale tedesca attuale concede
il potere di istituire commissioni di inchiesta alla minoranza. La costituzione italiana non ha seguito questo
tentativo di rendere più efficace il controllo parlamentare sul governo, così che il potere di inchiesta, a causa
del gioco dei partiti, in generale è svuotato del suo valore politico. I gruppi parlamentari differiscono da tutte
le altre articolazioni interne delle camere perché, mentre queste agiscono sempre come parti di un insieme
unitario, i gruppi parlamentari agiscono nel loro proprio interesse e quindi i loro atti sono sempre atti di
ciascun gruppo e non dell’intero collegio. I gruppi parlamentari sono l’insieme dei parlamentari appartenenti
al medesimo partito e quindi in concorrenza l’uno con l’altro e opposti l’uno all’altro. Ciascun gruppo
dunque persegue il proprio interesse politico. Quando è necessario che un soggetto interno a ciascuna camera
esprima la volontà di tutti, si ricorre alla rappresentanza proporzionale ai gruppi, in modo che tale soggetto
sia composto da parlamentari di tutti i gruppi in proporzione alla loro rispettiva forza numerica
nell’assemblea. Dal punto di vista giuridico i gruppi parlamentari sono organizzazioni volontarie all’interno
di ciascuna camera. I regolamenti parlamentari, muovendo dalla realtà per cui i parlamentari appartengono
nella quasi totalità ai partiti e si subordinano alla disciplina di partito, hanno adottato come criterio base per
organizzare i lavori e le articolazioni interne delle camere i gruppi risultanti da tale stato di fatto, e hanno
dato formale riconoscimento ad essi. Ad es. è stato disposto che le commissioni siano composte in modo
proporzionale ai gruppi. In tal modo però si correva il rischio di svantaggiare quei parlamentari non
appartenenti ad alcun partito o usciti dal partito originario. Il possibile inconveniente è stato evitato creando
il gruppo misto: un gruppo finto, non politico, i cui membri non hanno alcuna omogeneità politica, ma
vengono assegnati ad esso solo per partecipare alla vita delle camere in condizioni di parità con tutti gli altri
parlamentari. Si spiega perché i regolamenti parlamentari esigono che i parlamentari appartengano
comunque ad un gruppo: solo così possono partecipare paritariamente alla vita delle camere. Ma quale sia
questo gruppo dipende dalla volontà dei parlamentari. Sono essi che devono decidere a quale gruppo
intendono iscriversi e questo gruppo è libero di rifiutare tale iscrizione. Essi si iscriveranno al gruppo del
partito al quale appartengono; però i parlamentari sono giuridicamente liberi di decidere altrimenti. Se i
parlamentari non scelgono, essi vengono assegnati d’ufficio al gruppo misto. I gruppi parlamentari in senso
proprio, cioè i gruppi corrispondenti ai partiti, sono dal punto di vista giuridico associazioni volontarie, come
partiti di cui costituiscono un’articolazione. È vero che tali gruppi vengono riconosciuti formalmente e ad
essi vengono attribuiti rilevanti poteri rispetto alla organizzazione ed ai lavori di ciascuna camera, ma resta
vero che tali compiti e tali poteri vengono loro attribuiti proprio in quanto portatori di interessi politici
particolari, mentre ogni volta che la decisione deve impegnare tutti e deve essere rappresentativa per l’intero
stato essa viene adottata da tutti i gruppi insieme, cioè dall’intero collegio o da organi minori egualmente
rappresentativi dell’intero collegio. Ciascun gruppo isolatamente non rappresenta mai l’intero collegio,
mentre il presidente, le giunte, le commissioni, etc. rappresentano l’intera assemblea. I gruppi costituiscono
un insieme organizzato stabilmente. Tutti i gruppi hanno un loro presidente, quasi tutti hanno anche un
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

vicepresidente o più, un direttivo, dei segretari. Il presidente rappresenta unitariamente il gruppo e l’ultima
parola spetta a lui, il gruppo si esprime solo attraverso di esso. Attraverso i gruppi, i reali soggetti politici
interni alle camere non sono i singoli parlamentari, ma i gruppi, e quindi i dirigenti di essi. Per decidere non
è necessario mettere d’accordo (oggi) 630 deputati e 315 senatori (rispettivamente, 400 e 200 dalla prossima
legislatura), ma i rappresentanti dei gruppi volta a volta designati, e quindi una decina di persone.
Ovviamente queste poche persone, dovendo rappresentare i rispettivi partiti, non agiscono arbitrariamente e
sono soggette a controllo. Tutti i partiti italiani riaffermano la subordinazione del gruppo parlamentare agli
organi dirigenti del partito. Questa subordinazione si manifesta in due momenti. Anzitutto nelle elezioni
politiche solo il partito decide il programma elettorale e sceglie i candidati. I parlamentari possono far pesare
in queste scelte la loro autorità e il loro prestigio, ma solo entro le sedi di partito autorizzate (in Gran
Bretagna vige un sistema opposto, perché i gruppi parlamentari comandano sul partito). Una seconda
manifestazione della subordinazione in Italia dei gruppi nei confronti dei rispettivi partiti si esprime nel fatto
che in tutte le occasioni politiche più importanti la decisione ultima sull’atteggiamento del gruppo in
Parlamento viene adottata dal partito ogni volta che esso lo ritiene necessario. Dunque, il gruppo ha una
limitata autonomia rispetto ai lavori parlamentari all’interno delle linee generali fissate dal partito e sotto il
permanente controllo di esso. È differenziato il posto che i partiti fanno ai gruppi parlamentari al loro
interno: alcuni partiti non danno alcuna rilevanza ai gruppi come tali nella struttura e nella vita del partito;
altri attribuiscono ai loro gruppi come tali uno specifico ruolo istituzionale entro il partito. Così in certi
partiti i gruppi, attraverso i loro rappresentanti, partecipano agli organismi dirigenti dei partiti, ora con voto
consultivo ora con voto deliberativo; talvolta i parlamentari partecipano di diritto ai congressi di partito, ora
con la sola facoltà di parola, ora con voto deliberativo; talvolta hanno diritto ad un certo numero di posti
negli organismi dirigenti, in certi casi con voto consultivo, in altri con voto deliberativo. L’attribuzione di
particolari diritti ai parlamentari e ai gruppi all’interno di molti partiti esprime il fatto che in tali partiti i
parlamentari hanno dietro di sé forze indipendenti (es. chiesa cattolica); queste forze extraparlamentari ed
extrapartitiche, attraverso i parlamentari da esse controllati, in certa misura controllano il partito stesso o lo
costringono a trovare un compromesso con queste forze (ricordando che la sede in cui si trova il
compromesso è il partito e non il gruppo, e che solo le decisioni coperte dall’autorità del partito diventano
vincolanti). Deve riconoscersi anche che il rapporto tra gruppo e partito può essere molto più variabile del
semplice controllo del partito sul gruppo, specie nei partiti dichiaratamente interclassisti. Infine, è necessario
ricordare che il gruppo e il partito non sono due soggetti rigorosamente distinti, perché i dirigenti dell’uno
sono anche dirigenti dell’altro, così che non è corretto affermare la subordinazione del gruppo verso il
partito, quanto piuttosto la subordinazione del gruppo verso dirigenti che dirigono ad un tempo gruppo e
partito; anche se alcuni dirigenti sono più forti entro il gruppo e altri entro il partito. In conclusione, il
rapporto fondamentale fra gruppo e partito in Italia è quello di subordinazione del gruppo al partito, ma: a) i
partiti riconoscono ai gruppi in certi campi un margine di autonomia, soprattutto per quanto riguarda la
tecnica parlamentare e l’ordinaria amministrazione; b) i parlamentari e i gruppi, attraverso i particolari diritti
ad essi attribuiti in certi partiti hanno una grande forza contrattuale verso i rispettivi partiti e possono quindi
condizionare in misura più o meno grande le stesse decisioni di partito; c) gruppo e partito sono diretti dalle
medesime persone. Ciascuna camera dispone di un proprio specifico apparato amministrativo necessario alla
sua attività, e dispone anche di un suo bilancio. Nessun soggetto esterno può intromettersi nelle questioni
interne delle camere (principio degli atti interni al collegio) e addirittura le controversie in tema di rapporto
di lavoro tra ciascuna camera e propri dipendenti sono sottratte ai giudici comuni e demandate alla stessa
camera. L’amministrazione patrimoniale e la contabilità di ciascuna camera sono sottratte ai normali
controlli interni cui sono soggetti in genere gli organi dello Stato (da parte della Ragioneria dello Stato e
della Corte dei conti). Ciascuna camera riceve una somma di denaro dallo stato iscritta nel bilancio dello
Stato, ma l’amministrazione di tale somma spetta a ciascuna camera. Tutto ciò tutela l’indipendenza delle
camere rispetto ai possibili controlli dell’esecutivo. Il fatto che ciascuna camera abbia un suo proprio
specifico apparato di servizio, mentre il governo non ne ha alcuno, è il segno della estraneità delle camere

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

nei confronti dell’apparato statale: il governo ha tutto l’apparato statale al suo servizio; le camere, separate
da tale apparato generale, sono costrette a formarsi un proprio specifico, limitato apparato particolare.

7) Il Parlamento in seduta comune: il Parlamento in seduta comune consiste nella riunione di tutti i
parlamentari convocati nelle ipotesi tassativamente previste dalla costituzione per adottare quelle decisioni
tassativamente numerate dalla stessa costituzione. Si tratta di una riunione dei parlamentari, nella quale va
perduta ogni distinzione tra le camere (così che esiste una sola maggioranza, calcolata sull’insieme dei
parlamentari). Questo nuovo soggetto ha poche e tassative competenze, in particolare: 1) elegge il presidente
della Repubblica, integrato in questo solo caso da tre delegati per ciascuna regione (salvo la VA che ne ha
uno); 2) elegge 5 giudici della Corte costituzionale e approva ogni 9 anni una lista di cittadini (aventi i
requisiti per essere eletti senatori) tra i quali vengono estratti a sorte i 16 giudici aggregati della Corte
costituzionale in occasione di processi contro il presidente della Repubblica; 3) elegge un terzo dei membri
del consiglio superiore della magistratura; 4) mette in stato di accusa il presidente della Repubblica per i reati
di alto tradimento e attentato alla costituzione; 5) riceve il giuramento del presidente della Repubblica e
ascolta il suo messaggio di insediamento. Vi è qualche caso eccezionale di riunione del Parlamento in seduta
comune, legittimo perché suggerito da pure ragioni celebrative nelle quali non si doveva adottare alcuna
decisione (es. celebrazione del centenario dell’unità d’Italia nel 1961). Il Parlamento in seduta comune non è
un terzo centro di potere distinto dalla camera e dal Senato perché è composto da deputati e senatori. Inoltre,
il fatto che le riunioni del Parlamento in seduta comune siano saltuarie, il fatto che abbia competenze
limitate, e il fatto che, tranne nei casi di accusa penale, esso non discute, ma si limita a votare, conferma che
è solo un modo particolare ed eccezionale di decidere dei parlamentari piuttosto che un vero centro di potere
politico distinto da Camera e Senato. Si spiega così perché il Parlamento in seduta comune abbia come suo
presidente il Presidente della Camera, per disposizione della costituzione (art. 63), perché usi il regolamento
della camera, perché non abbia una sua sede (usa quella della camera), etc., ma per ogni evenienza usi gli
uffici della camera. Organi comuni delle due camere sono le commissioni bicamerali con poteri esterni
talvolta incisivi (es. la Commissione parlamentare di vigilanza sulla RAI-TV).

8) La funzione legislativa del Parlamento: l’art. 70 della costituzione, che dice che la funzione legislativa è
esercitata collettivamente dalle due camere, oggi, a seguito della l. cost. 3/2001, che ha modificato l’intero
titolo V della seconda parte della costituzione, va letto insieme al nuovo art. 117, dal quale si ricava che alle
camere spetta la funzione legislativa solo nelle materie elencate nel secondo comma dell’art. 117, mentre la
funzione legislativa generale spetta alle regioni (cioè al consiglio regionale che approva le leggi regionali).
La funzione legislativa regionale si divide in due gruppi: a) nelle materie elencate nel terzo comma dell’art.
117 le regioni hanno una competenza legislativa concorrente, cioè devono attenersi ai principi fondamentali
stabiliti con legge dello Stato; b) in tutte le altre materie la funzione legislativa spetta alle regioni. Mentre in
precedenza alle regioni spettavano solo le materie elencate nel vecchio art. 117, ed ogni altra materia era di
competenza dello Stato, oggi è esattamente al contrario, spettano allo stato solo le materie elencate nel nuovo
art. 117, e tutte le altre materie spettano alle regioni. Lo stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti
materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’unione europea;
diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di stati non appartenenti all’unione europea; b)
immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e forze armate; sicurezza
dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della
concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse
finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento
europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h)
ordine pubblico e sicurezza ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e
anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m)
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione; o) previdenza sociale; p)
legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane;
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del
tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e
locale, opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Quando un atto
normativo distribuisce poteri tra diversi soggetti e individua a tal fine distinte materie od oggetti usando
parole, possono nascere controversie tra i diversi soggetti sull’esatta delimitazione di tali materie od oggetti.
In tal casi sarà la Corte costituzionale, in sede di giudizi sollevati dallo stato contro una legge regionale a suo
dire invasiva della competenza statale, o dalla regione contro una legge statale (o di altra regione) che la
regione ritiene invasiva della propria competenza, a dire l’ultima parola. Dicendo che il Parlamento approva
le leggi si intende dire che il Parlamento, attraverso l’atto formale legge, può disciplinare come vuole le
materie ad esso riservate? Oppure la funzione legislativa non si identifica solo per la forma ma anche per il
contenuto? Anzitutto il Parlamento non può sostituirsi ai giudici. La costituzione dispone che la funzione
giurisdizionale spetta solo all’ordine giudiziario. Ogni volta che un soggetto chiede giustizia egli deve
rivolgersi ai giudici e solo loro mediante sentenze possono pronunciarsi sulla sua domanda e imporre che tale
pronunzia sia praticamente eseguita. Esiste solo un caso in cui il Parlamento si sostituisce al giudice e ricorre
quando si deve accertare se il capo dello Stato ha commesso il reato di alto tradimento o di attentato alla
costituzione. L’incriminazione formale che precede il giudizio definitivo spetta al Parlamento in seduta
comune, mentre il giudizio spetta alla Corte costituzionale. Si tratta di un eccezione disposta dalla stessa
costituzione: al di fuori di questa eccezione vige la regola generale per cui il Parlamento non può, neppure
con legge, sostituirsi ai giudici. Dunque, si può delimitare la funzione legislativa per quanto riguarda il suo
contenuto escludendo da essa la funzione giurisdizionale (accertamento di fatti contrari a diritto e
conseguente pronuncia che dispone il ristabilimento coattivo dell’ordine violato, nelle forme possibili:
ripristino dello Stato di cose esistente, risarcimento del danno, pena). Possiamo affermare che il Parlamento
non può sostituirsi alla p.a., così che, come esiste una riserva del potere giurisdizionale, esisterebbe allo
stesso modo un campo riservato alla p.a.? Immaginiamo due casi. Nel primo caso il Parlamento, dopo aver
approvato una legge di carattere generale che disciplina un certo oggetto, pretende poi di applicare la sua
stessa legge a questo o quel caso. Nel secondo caso il Parlamento, dopo aver approvato una legge generale,
approva successivamente una legge particolare che deroga alla sua precedente legge generale rispetto ad una
determinata proprietà. Dunque, nel primo caso il Parlamento applica semplicemente la precedente legge, nel
secondo la modifica, rispetto ad un caso particolare e quindi, trattandosi di un caso concreto, svolge un
compito esecutivo amministrativo che normalmente viene svolto dalla p.a. Il primo caso deve ritenersi
incostituzionale. Se la costituzione ha distinto tra Parlamento e p.a., tra legge (atto del Parlamento) e
provvedimento (atto della p.a.), questa distinzione deve comportare che la semplice esecuzione delle leggi
spetta solo alla p.a. e quindi il Parlamento non potrebbe sostituirsi ad essa nell’applicazione delle sue stesse
leggi. A meno che la stessa costituzione non autorizzi il Parlamento a questa sostituzione (es. art. 43). Nel
secondo caso vige la regola inversa. Non c’è nessuna regola costituzionale che vieta al Parlamento di
approvare leggi singole (leggi che si applicano a casi singoli); non c’è alcuna regola costituzionale che
impone al Parlamento di approvare solo regole generali e astratte. Anzi la stessa costituzione prevede alcune
leggi singolari: art. 43; art. 78 (deliberazione dello Stato di guerra); art. 81 (approvazione del bilancio
annuale); art. 82 (costituzione delle commissioni di inchiesta parlamentare). Però, anche se non esiste una
regola generale che vieta alle leggi di essere singolari e concrete, esistono molte norme costituzionali che
impongono alle leggi di essere generali: l’art. 3 della costituzione formula il principio di eguaglianza di
fronte alla legge e quindi vieta tutte quelle leggi che disciplinano casi particolari in modo difforme dalla
generalità senza alcun fondamento razionale; l’art. 25 formula il principio di legalità dei reati e delle pene e
quindi vieta leggi penali singolari; l’art. 53 vieta leggi fiscali impositive personali; tutti gli articoli relativi ai
diritti di libertà (13 e seguenti), che tollerano limiti di legge solo generali e astratti e non limiti personali,
neanche se disposti con legge del Parlamento. È facile capire perché la legge ideale dello Stato liberale era la
legge generale e astratta: la legge che prevede schemi di comportamento umano eguali per tutti, lasciando
che i concreti comportamenti e i risultati raggiungibili mediante essi siano il frutto della libera iniziativa dei
singoli e della loro capacità di autogoverno. Questa libertà era reale per i proprietari e formale per i proletari.
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

Il legislatore borghese riteneva assolto il suo compito una volta formulate le regole generali che, rispetto a
tutti, fissavano i confini e i limiti del comportamento umano. Le leggi per eccellenza erano i codici, nei quali
le parole indicavano categorie generali e nelle quali tutti i cittadini e tutti gli uomini potevano rientrare
attraverso i loro comportamenti. Il legislatore dei codici non vuole modificare il mondo, ma stabilire le
regole di comportamento sulla cui base i privati provano a modificare il mondo secondo le loro intenzioni, le
loro ricchezze, le loro capacità. Nella realtà storica neanche il legislatore più liberale ha mai potuto attenersi
a questa limitata funzione perché se non altro egli doveva approvare i bilanci dello Stato, e cioè accertare e
controllare come venivano spesi i soldi estorti ai cittadini. Spendere è un concreto comportamento, è un
effettivo provvedere in un certo modo rispetto a certe determinate persone; inoltre il legislatore doveva
occuparsi della costruzione di strade etc., quindi doveva decidere in concreto comportamenti dello Stato (e
degli uomini dello Stato) rispetto a fatti, circostanze e persone determinate (doveva approvare leggi-
provvedimento). In conclusione, non è mai stato vero che il legislatore si sia limitato a disciplinare schemi
astratti di possibili comportamenti umani, ma con le sue leggi si è proposto volta a volta obiettivi concreti.
La stragrande maggioranza delle leggi di oggi non sono né generali né astratte, ma concrete, e perciò
disuguali. Ad es. il legislatore si preoccupa della metropolitana di Roma e stabilisce una sovvenzione per la
sua costruzione; etc. Vi è un mezzo semplice per individuare i due tipi di leggi (leggi regolative in astratto di
comportamenti umani e leggi-provvedimento): verificare se il contenuto e lo scopo della legge è quello di
autorizzare spese, e se quindi parte principale della legge è quella che stabilisce chi, con quale procedura,
sotto quali condizioni, può spendere (si tratta di una legge-provvedimento). La legge-provvedimento è il tipo
di legge statisticamente e politicamente dominante. Lo stato interviene entro i rapporti economici e sociali e
vi interviene con le leggi-provvedimento perché la disuguaglianza di fatto, l’anarchia dell’economia, la
ribellione dei gruppi sociali impongono allo stato di intervenire per ristabilire equilibri violati, per pacificare
i confini sociali, etc. La legge provvedimento è il risultato e lo strumento legislativo di questa generale
caratteristica degli stati moderni. La legge del Parlamento è necessaria a questo scopo perché tutte le leggi-
provvedimento culminano in una spesa statale, e lo stato non può spendere se non vi è stata una
autorizzazione da parte del Parlamento mediante una sua legge. Ogni nuova o maggiore spesa, impone la
costituzione, deve essere disposta con legge (l’art. 81 della costituzione dispone anche che deve prevedere i
mezzi di copertura). In questo modo tutti i centri di potere devono passare attraverso il Parlamento perché
nessuna iniziativa si fa senza mezzi, e tutte le spese dello Stato vanno approvate dal Parlamento con legge. In
definitiva: a) il Parlamento, unico organo legittimato ad autorizzare nuove o maggiori spese dello Stato,
conserva almeno sul piano formale il suo ruolo preminente entro il meccanismo costituzionale; b) le leggi di
spesa, e cioè le leggi-provvedimento, costituiscono la stragrande maggioranza delle leggi approvate
annualmente; c) la prevalenza di queste leggi-provvedimento rispetto alle leggi generali e astratte è il
risultato necessario del mutamento del ruolo e delle funzioni dello Stato interventista rispetto allo stato
liberale; d) la legge, avendo spesso come contenuto un concreto provvedere, è lo strumento attraverso cui il
Parlamento controlla le iniziative del governo e di altri centri di potere, così che la stessa distinzione fatta tra
funzione legislativa e funzione di controllo politico del Parlamento diventa molto relativa: anche le leggi,
spesso, rientrano nella funzione di controllo politico sul governo.

9) La funzione di controllo politico del Parlamento: nel linguaggio comune e in campi diversi dal diritto,
controllo è sinonimo di direzione; mentre nel linguaggio giuridico per controllo si intende un’attività di
riesame dell’attività di altri. Il presupposto dunque del controllo è che un soggetto, il controllato, abbia
istituzionalmente il dovere/potere di compiere un certo atto; quest’atto poi viene sottoposto al giudizio di un
altro soggetto, il controllante. Quest’ultimo deve sempre attendere che il controllato abbia agito. Si possono
distinguere i controlli secondo i criteri in base ai quali esso viene compiuto: si può distinguere tra controllo
di legittimità, quando il soggetto controllante giudica se l’atto sottoposto a controllo è conforme o no a criteri
contenuti in regole giuridiche; e controllo di merito o di opportunità, quando il soggetto controllante giudica
se l’atto sottoposto a controllo è opportuno rispetto a determinati fini dei quali è giudice il controllante. Si
possono distinguere i controlli in base all’oggetto di esso: distinguiamo controlli sugli atti, quando oggetto

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

del controllo è proprio ciascun singolo atto; controlli sull’attività, quando oggetto di esame è l’attività nel suo
insieme svolta dal soggetto controllato entro un certo periodo; controlli sulle persone, quando oggetto di
controllo sono le persone controllate. Si possono distinguere i controlli in base alle misure a cui può dar
luogo il controllo: es. nel caso di controllo sugli atti possiamo avere un annullamento dell’atto controllato,
una richiesta di riesame che il soggetto controllante rivolge o impone al soggetto controllato, etc. Ci sono
altri tipi di controllo. Importante chiarire: se il controllo implica l’adozione di misure conseguenti al giudizio,
o se anche la semplice ispezione, il semplice giudizio, configura un’attività di controllo. Mentre l’adozione
di una misura contro l’atto o le persone controllate esige un previo giudizio, esistono casi in cui un soggetto
ha il potere di esaminare gli atti di un altro soggetto, di formulare un giudizio su di essi, senza però poter
adottare alcuna misura sanzionatoria o verso gli atti o verso le persone controllate. A fini di chiarezza è
appropriato chiamare controllo l’attività di riesame che si conclude con una misura sugli atti o sulle persone
sottoposte a riesame, e ispezione l’attività che si limita ad accertare fatti e circostanze ed a formulare giudizi
su di essi senza però comportare sanzioni o misure conseguenti. Veniamo ora ai diversi poteri di cui dispone
il Parlamento e che vengono riassunti sotto la categoria del controllo del Parlamento sull’esecutivo.
L’interrogazione di un parlamentare al ministro consiste “nella semplice domanda, rivolta per iscritto, se un
fatto sia vero, se alcuna informazione sia giunta al governo, o sia esatta, se il governo intenda comunicare
alla camera documenti o notizie o abbia preso o stia per prendere alcun provvedimento su un soggetto
determinato” (art. 128 reg. Camera; le corrispondenti norme del reg. Senato sono letteralmente diverse ma
sostanzialmente equivalenti). Dunque, l’interrogazione spetta al singolo parlamentare, il quale può chiedere
che gli venga risposto in aula o in commissione, oralmente o per iscritto, e, nel caso di interrogazione orale,
ha diritto di replicare per dichiarare se si ritiene soddisfatto o meno. Dal punto di vista strettamente giuridico
l’interrogazione non è un controllo in senso proprio, perché essa si esaurisce col semplice informare da parte
del governo e non prevede alcuna misura sanzionatoria. Però non è neppure un’ispezione, perché
l’interrogante dipende dalla risposta dell’interrogato e non può compiere nessuna attività indipendente di
accertamento. Dunque, si tratta di attività di informazione in senso stretto e serve a sollevare l’attenzione su
una questione, sollecitando l’intervento del governo su di essa. Dal punto di vista giuridico l’interrogazione è
un atto povero di contenuto, risolvendosi nel dovere del governo di rispondere ad una interrogazione; dal
punto di vista politico questo atto mantiene ancora oggi una sua importanza perché serve a dare risonanza
politica ad attività di governo giudicate negative, a disfunzioni ed intralci burocratici, ad omissioni del potere
esecutivo, a sue carenze e ritardi. Serve a soddisfare esigenze locali e corporative, portando all’attenzione
parlamentare queste situazioni. In definitiva il valore dell’interrogazione sta nelle reazioni di ordine politico
che essa è capace di suscitare e quindi nell’efficacia tutta politica che essa può avere rispetto al governo.
L’interpellanza, rivolta da un parlamentare ad un ministro, consiste nella domanda, rivolta per iscritto, circa i
motivi o gli intendimenti della condotta del governo in questioni che riguardano determinati aspetti della sua
politica (art. 136 reg. cam.). Le differenze tra interpellanza e interrogazioni sono: a) l’interpellanza non
dovrebbe ridursi alla domanda su un fatto determinato, ma dovrebbe riguardare la generale condotta del
governo su aspetti della sua politica. Lo scopo dell’interpellanza non dovrebbe essere quello di acquisire
informazioni (come fanno le interrogazioni), ma quello di indirizzare il governo rispetto a determinati aspetti
della sua politica attraverso la discussione della sua condotta; b) chi ha presentato l’interpellanza ha diritto di
illustrarla in assemblea prima della risposta del governo (l’interrogazione si esaurisce con la presentazione di
una domanda per iscritto); c) l’interpellanza viene discussa sempre in aula (l’interrogazione può ricevere
risposta in commissione); d) se l’interpellante non è soddisfatto della risposta del governo, egli, oltre che
dichiarare e motivare la sua insoddisfazione al termine della risposta del governo, può trasformare
l’interpellanza in una mozione (non è possibile farlo attraverso l’interrogazione) e quindi chiedere una
pronuncia di tutta l’assemblea. In conclusione, nell’interpellanza è prevalente il fine di indirizzare la politica
del governo. La mozione è la proposta rivolta da un presidente di gruppo o da dieci deputati all’assemblea
affinché questa adotti una risoluzione su un determinato argomento. Tra le mozioni possibili vanno distinte
le mozioni di fiducia e di sfiducia. Il Parlamento, oltre che il potere d’interrogare e inquisire il governo, ha il
potere di determinare la sua rimozione mediante le mozioni di fiducia e di sfiducia. La prima viene
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Riassunto di Gaia Paoloni
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presentata secondo costituzione entro dieci giorni dalla nomina del nuovo governo. Se il governo non ottiene
la fiducia delle camere è obbligato a presentare le dimissioni (le dimissioni potranno essere respinte dal capo
dello Stato che decide di sciogliere le camere). La mozione di sfiducia presuppone un governo in carica
contro il quale viene presentata una mozione nella quale si dichiara che la camera (o il Senato) non ha più
fiducia nel governo. Questa mozione secondo costituzione (art. 94) deve essere presentata almeno da un
decimo dei componenti di una camera, non può essere discussa e votata prima di tre giorni dalla sua
presentazione, e va votata per appello nominale (in questo modo i parlamentari si assumono pubblicamente
le proprie responsabilità). Se essa viene approvata il governo è obbligato a presentare le dimissioni (a cui
possono seguire le dimissioni accettate dal capo dello Stato o lo scioglimento delle camere). La mozione di
fiducia iniziale ricorre obbligatoriamente ogni volta che viene nominato un nuovo governo, mentre la
mozione di sfiducia è molto rara e fino ad oggi non è mai stata approvata dalla maggioranza di una camera. I
governi si sono dimessi decine volte, però mai a causa dell’approvazione di una mozione di sfiducia: le crisi
sono state tutte extraparlamentari. Le mozioni di sfiducia, mai approvate, sono state presentate dalle
minoranze di ciascuna camera, e avevano lo scopo di sottolineare l’opposizione di alcuni partiti al governo in
carica. Il fatto che una mozione di sfiducia venga respinta, rafforza il governo, così che la minoranza ottiene
il risultato esattamente opposto a quello voluto. Per questa ragione le stesse minoranze ricorrono alle
mozioni di sfiducia solo in casi eccezionali, per rispondere a movimenti vasti dell’opinione pubblica che
fanno presumere uno spostamento dei rapporti politici di forza nella società contro la maggioranza. Il fatto
che la mozione di sfiducia non abbia mai operato secondo il suo fine (costringere alle dimissioni il governo)
non toglie importanza a questo istituto, perché resta nell’ordinamento costituzionale l’unico strumento legale
di cui dispone il Parlamento per far decadere il governo (rappresenta l’extrema ratio). Queste due mozioni
tipiche vanno distinte da tutte le altre non solo per il loro contenuto specifico e politicamente significativo,
non solo per la procedura particolare che caratterizza la mozione di sfiducia e anche quella di fiducia (come
quella di sfiducia, può essere votata solo per appello nominale), ma anche perché esse sono le uniche
mozioni con precise e specifiche conseguenze giuridiche (obbligo di dimissioni del governo colpito da
sfiducia o permanenza in carica del governo che ha ottenuto la fiducia). Tutte le altre mozioni possibili non
producono alcuna conseguenza giuridica: se non si eseguono oppure ci si comporta in modo opposto a
quanto deciso, nessuna sanzione giuridica è prevista. Le mozioni servono politicamente a definire programmi
e impegni rispetto a questioni determinate, nei confronti dell’opinione pubblica e nei confronti dei partiti e
nei rapporti tra governo e partiti. Le mozioni vengono sempre approvate con il consenso del governo: o il
governo è d’accordo o non si oppone alla mozione presentata; o se il governo non è d’accordo, esso pone la
questione di fiducia e in tal modo presenta l’alternativa che o la mozione viene respinta o se essa viene
approvata il governo si dimetterà. Questo ricatto spiega perché le mozioni costituiscono un impegno della
camera (cioè della maggioranza che approva la mozione) e dei governi insieme. La mozione rappresenta un
mezzo attraverso cui le camere partecipano in qualche modo alla direzione dello Stato, e quindi uno
strumento di indirizzo e di proposta, piuttosto che uno strumento di controllo. Analoga alla mozione è la
risoluzione, introdotta dal nuovo reg. camera, la quale viene approvata da una commissione anziché
dall’assemblea. La risoluzione non può mai sostituire la mozione di sfiducia, che spetta solo al plenum. Le
considerazioni svolte a proposito delle mozioni si applicano anche alle risoluzioni. Le interrogazioni,
interpellanze e mozioni hanno questo di caratteristico: costringono il governo a rispondere (interrogazioni e
interpellanze) o a pronunciarsi su una questione (mozione), e costringono l’intera assemblea o ad ascoltare
(interrogazione e interpellanza) o a pronunciarsi direttamente su una questione (mozione). Rappresentano
dunque degli strumenti legali efficaci per costringere governo e Parlamento ad occuparsi di questioni ritenute
degne di essere discusse. Ci sono poi altre procedure dirette ad acquisire informazioni. Prima tra tutte viene
la commissione di inchiesta parlamentare. La commissione di inchiesta è anche uno strumento di controllo
del Parlamento sul governo e sulla p.a. ma va ricordato che: essa può indagare anche su questioni che non
riguardano l’attività di governo, purché di pubblico interesse; è uno strumento puramente conoscitivo e
dunque manca in esso il momento della misura o sanzione; le inchieste servono spesso alla funzione
legislativa per permettere alle camere di legiferare con cognizione di causa, e dunque diventano strumentali
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Riassunto di Gaia Paoloni
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rispetto a questa funzione delle camere, e non strumentali rispetto alla funzione di controllo. Per quanto il
regolamento camera impedisca oggi al governo di porre la questione di fiducia sulle proposte di istituire
commissioni di inchiesta, pure la deliberazione spetta alla maggioranza e dunque accadrà inevitabilmente
che la maggioranza non accoglierà una proposta di inchiesta contro il governo da essa appoggiato, così che
questo possibile strumento di controllo sul governo in carica appare molto inefficace. Simili sono le indagini
conoscitive disposte dalle commissioni. Secondo l’art. 144 reg. camera le commissioni, nelle materie di loro
competenza, possono disporre, previa intesa con il presidente della Camera, indagini conoscitive dirette ad
acquisire notizie, informazioni e documenti utili alle attività della camera … queste commissioni, in questa
loro funzione, non hanno i poteri di cui all’art. 82 cost., e quindi ad es. non possono obbligare gli invitati a
testimoniare. Le commissioni poi possono richiedere documenti e informazioni alla p.a., e anche interrogare
funzionari della p.a., ma sempre previo consenso del ministro competente. Le camere poi sono destinatarie di
una serie di informazioni obbligatorie da parte del governo, della Corte dei conti, di vari enti, che hanno lo
scopo di fornire quante più informazioni esatte e continue alle camere, le quali le useranno come meglio
ritengono opportuno sia in sede di formazione e approvazione delle leggi, sia in sede di discussione col
governo e di controllo della sua attività. Uno strumento tradizionale di controllo è l’approvazione con legge
del bilancio dello Stato da parte del Parlamento. Il bilancio è un documento contabile nel quale si elencano
tutte le entrate previste e tutte le spese previste, relativamente ad un anno (dal 1° gennaio al 31 dicembre).
Questo documento contabile deve essere approvato con legge entro il 31 dicembre dal Parlamento. Il più
significativo è il bilancio preventivo. Mediante esso il Parlamento controlla il momento essenziale
dell’attività dello Stato, la raccolta e l’allocazione delle risorse finanziarie. Il bilancio preventivo riguarda il
futuro. Non si tratta di un’attività di controllo, cioè di riscontro di ciò che è stato fatto, ma di verifica di ciò
che si intende fare, e quindi di attività di direzione. Responsabile del bilancio è il governo, mentre il
Parlamento si trova nella posizione di chi esamina cose già decise e tutt’al più può apportare dei ritocchi
marginali. Anche le leggi di spesa rientrano in questo meccanismo, però rispetto alle grandi spese e ai grandi
progetti l’iniziativa spetta in generale al governo e/o ai partiti, e quindi realmente il Parlamento si limita a
controllare; rispetto alle piccole spese (le leggine) spesso l’iniziativa parte dai parlamentari, così che rispetto
alla politica delle mediazioni minori il Parlamento acquista una maggiore autonomia e capacità di iniziativa.
Considerazioni in parte analoghe a quelle sviluppate rispetto alla legge di bilancio valgono per le leggi di
autorizzazione a ratificare i trattati internazionali. Secondo la nostra Costituzione alcuni tipi di trattati,
elencati nell’art. 80, possono essere ratificati solo dopo che il Parlamento ha autorizzato con legge tale
ratifica, altrimenti non sono validi. Nonostante che si tratti di direzione piuttosto che di controllo, è corretto
fare rientrare la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali nella funzione di controllo
politico del Parlamento sul governo, perché in realtà la politica estera spetta al governo, e solo
secondariamente al Parlamento che sottopone a verifica quello che il governo ha iniziato. L’aver previsto per
i trattati più importanti l’autorizzazione con legge alla ratifica di essi da parte del Parlamento costituisce la
garanzia che rispetto agli atti di politica internazionale più rilevanti il Parlamento non venga scavalcato dal
governo. Anche la guerra, l’atto più importante di diritto internazionale, oggi deve essere deliberata dal
Parlamento; anche se è un atto di governo e non di legislazione. Con la legge che delibera la guerra siamo
fuori dello schema del controllo, perché la deliberazione della guerra spetta principalmente e sul piano
giuridico esclusivamente al Parlamento (e non dunque prima al governo e successivamente al Parlamento).
Tra governo e Parlamento c’è un continuo dialogo, per cui non passa giorno senza che l’attività di governo
venga discussa entro le camere, a prescindere dagli stessi strumenti già esaminati, attraverso cui il
Parlamento controlla o indaga o indirizza l’attività di governo. Il risultato di questi dibattiti informali è
spesso la discussione e l’approvazione dell’ordine del giorno, cioè di una dichiarazione con la quale una
camera in relazione alla legge che sta approvando impegna il governo a seguire un certo comportamento. In
conclusione, unici strumenti tra quelli esaminati che hanno un’apparente somiglianza con i controlli in senso
tecnico giuridico sono la legge di bilancio e la mozione di sfiducia: il primo si presenta come uno strumento
di controllo su un atto (il bilancio presentato dal governo) e si sostanzia in un’approvazione che rende
efficace giuridicamente o impedisce ogni efficacia operativa al bilancio presentato; la seconda si presenta
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Riassunto di Gaia Paoloni
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come un controllo sulle persone, perché la sfiducia determina la rimozione dei ministri. Anche il voto
negativo sul bilancio è un controllo sulle persone e non sul bilancio come tale perché il Parlamento che non
approva il bilancio compie questo atto con l’intenzione di far cadere il governo, mentre il bilancio sarà o
prima o poi approvato. Il voto negativo sul bilancio determina la caduta del governo e, con la formazione del
nuovo governo, l’eventuale modificazione del precedente bilancio e la sua approvazione da parte delle
camere. La legge di approvazione del bilancio preventivo non ha tanto la funzione di controllare, quanto di
indirizzare così anche essa non rientra nella figura del controllo in senso tecnico giuridico. Anche la mozione
di sfiducia non è un atto di controllo in senso tecnico giuridico: la sfiducia colpisce non un esecutore, ma un
dirigente politico, e lo colpisce non perché la sua attività politica non è stata conforme alla legge o al
precedente programma, ma perché non esiste più corrispondenza politica tra governo e maggioranza
parlamentare. Dunque, qualunque cosa abbia fatto il governo in carica, ciò che determina la sua caduta è il
semplice fatto che la maggioranza non è più d’accordo con esso. Il controllo in senso tecnico giuridico
presuppone la comparazione tra l’attività del controllato e criteri oggettivi predeterminati. Nel caso della
sfiducia non esistono criteri oggettivi predeterminati, ma la non corrispondenza di volontà politica tra
governo e Parlamento. In questo caso si parla di controllo politico che è diverso dal controllo giuridico e
anche dal controllo chiamato di merito. Quest’ultimo è sempre condotto secondo criteri di opportunità
oggettivi, ricavabili da circostanze di fatto e da opinioni sociali esistenti oggettivamente; tanto è vero che il
controllo di merito può essere a sua volta controllato da altri (es. dai giudici). Viceversa, il controllo politico,
proprio perché non è vincolato a precedenti criteri oggettivi, ma dipende dalla libera volontà politica dei
partiti, non è assoggettabile a controllo da parte di altri: è un controllo libero da criteri predeterminati.
Dunque, neppure la legge di bilancio e la mozione di sfiducia che più assomigliano al controllo sono veri atti
di controllo in senso tecnico giuridico. Gli altri strumenti esaminati si allontanano ancora di più dallo schema
del controllo perché o servono ad acquisire notizie ed informazioni o servono a condizionare la condotta del
governo e quindi partecipano della funzione di indirizzo piuttosto che di quella di controllo. Dunque, non è
improprio ricomprendere tutti questi meccanismi sotto la categoria del controllo politico. Essi non vanno
considerati isolatamente, ma nel loro complesso perché il senso politico di ciascuno si coglie solo nel
rapporto con tutti gli altri e solo se viene collocato entro il generale rapporto Parlamento-Governo. Questo
rapporto generale tra Parlamento e governo, al cui interno vanno collocati i meccanismi esaminati, va
chiamato controllo perché effettivamente esso presuppone che il potere politico di impulso e di iniziativa
spetti al governo, mentre al Parlamento spetti di controllare e verificare questa direzione e queste proposte.
Nel rapporto dunque il lato attivo spetta al governo, il lato successivo al Parlamento, il quale agisce quasi
sempre su iniziativa del governo o misurandosi con l’attività del governo. Questo controllo è politico: cioè è
un tipo di controllo che costituisce genere a sé rispetto ai controlli giuridici conosciuti dal diritto pubblico.
La differenza essenziale sta nel fatto che nel controllo politico non esistono criteri oggettivi predeterminati
sulla cui base compiere il controllo, ma ciascuna forza politica crea i suoi criteri, cioè formula il suo
programma politico sulla cui base giudica il governo; viceversa nel controllo giuridico i criteri in base ai
quali compiere il controllo sono predeterminati e oggettivi, non dipendono dalla libera scelta del soggetto
controllante.

CAPITOLO 12

Il Governo

1) Composizione del Governo: con la parola governo designiamo uno specifico soggetto costituzionale.
Questo soggetto deve agire unitariamente e in questo senso è un centro di potere unitario e può considerarsi
un unico soggetto; ma come il Parlamento risulta composto da più organi. Secondo costituzione in Italia il
governo è composto dal presidente del Consiglio dei ministri, dai singoli ministri e dal Consiglio dei
ministri. Ciascuna di queste figure ha una competenza costituzionalmente garantita, e dunque, sotto questo
aspetto, è pari a tutte le altre, dato che non può essere espropriata giuridicamente delle questioni ad essa
attribuite ed è il soggetto decisionale ultimo rispetto a tali questioni. I singoli ministri sono i capi individuali
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Riassunto di Gaia Paoloni
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di ciascun ministero. L’organizzazione amministrativa dello Stato italiano si articola in grandi branche
settoriali, ciascuna con un proprio specifico apparato chiamato ministero o dicastero. I ministeri, il loro
numero, le loro attribuzioni, la loro organizzazione basilare, vengono determinati con legge del Parlamento
(secondo l’art. 95 della costituzione). Ciascun ministero ha come capo un ministro e dunque vi sono almeno
tanti ministri quanti sono i ministeri. Il presidente del Consiglio dei ministri è capo di tutto il governo
unitariamente inteso. Esso ha specifiche competenze: 1) in quanto simbolo dell’unità e omogeneità del
governo il presidente del consiglio decide della vita e della morte del governo: è lui il primo che con
l’accettazione della nomina fatta dal presidente della Repubblica permette al governo nuovo di formarsi ed
esistere; ed è lui che decide le dimissioni del governo, fino al punto che è ammesso che egli possa provocare
la caduta del governo senza neanche consultarsi con i suoi ministri. La sua decisione travolge tutto il
governo, giacché questo, senza il suo presidente, non può continuare ad esistere e per questa ragione il
governo cade anche quando il presidente del consiglio muore o è permanentemente impedito. Il presidente
del consiglio può decidere le dimissioni previa consultazione del Consiglio dei ministri o di altri soggetti, o
può essere politicamente forzato a dare le dimissioni dal suo Consiglio dei ministri o da altri soggetti politici;
ma dal punto di vista giuridico costituzionale la decisione definitiva spetta solo a lui. 2) Il presidente del
consiglio convoca il Consiglio dei ministri, stabilisce l’ordine del giorno del consiglio, dirige i lavori del
consiglio. 3) Il presidente del consiglio ha la responsabilità dell’unità e omogeneità dell’attività politica e
amministrativa di tutto il governo, e dunque a questo fine può chiedere conto ai singoli ministri, può esigere
sul piano politico che certe questioni vengano sottoposte a lui preventivamente, può dare suggerimenti, etc.
Però non può dare ordini in senso proprio, né sostituirsi ai ministri. 4) Il presidente del consiglio, con i suoi
decreti, decide alcune questioni che le leggi specificamente attribuiscono a lui. Il Consiglio dei ministri è un
organo collegiale composto da tutti i ministri più il presidente del Consiglio dei ministri. Questa figura va
distinta dai singoli ministri: è un organo in più, che decide attraverso il convergere in un’unica volontà di più
volontà. La l. n. 400 del 1988 (“disciplina delle attività di governo e ordinamento della presidenza del
Consiglio dei ministri”; prevista dall’art. 95 della costituzione) elenca gli oggetti su cui deve deliberare il
Consiglio dei ministri, sostituendo un decreto del 1901 che fin qui aveva regolato la materia: resta fermo che
spettano al Consiglio dei ministri tutte le altre questioni che specifiche leggi attribuiscono ad esso. Tra le
competenze del Consiglio dei ministri vanno ricordate: 1) l’approvazione delle iniziative legislative del
governo. I singoli ministri presentano un progetto di legge che però diviene iniziativa legislativa del governo
solo se è fatto proprio dal Consiglio dei ministri, così che è l’intero governo che assume la responsabilità
politica dell’iniziativa delle leggi da esso proposte. 2) L’approvazione dei decreti-legge, dei decreti
legislativi, e dei regolamenti governativi. 3) La nomina dei più alti funzionari dell’apparato civile e militare.
4) La risoluzione dei conflitti tra i singoli ministri. In base alla l. 81/2001, che ha inserito un nuovo periodo
nel comma 4 dell’art. 10 della l. 400/88, su invito del presidente del consiglio d’intesa con il ministro
competente possono partecipare al Consiglio dei ministri anche i viceministri, ma senza diritto di voto, per
riferire su argomenti e questioni attinenti alla materia loro delegata. Le figure fin qui esaminate sono
espressamente previste dalla costituzione e dunque sono obbligatorie e costituzionalmente garantite. Le altre
figure che compongono il governo sono oggi previste dalla l. 400/88. Come il vicepresidente, o più
vicepresidenti, del consiglio. Il presidente del consiglio può proporre al Consiglio dei ministri di attribuire ad
uno o più ministri le funzioni di vicepresidente, il quale supplisce il presidente in caso di assenza o
impedimento temporaneo; se ci sono più vicepresidenti, la supplenza spetta al vicepresidente più anziano di
età. Se non è stato nominato nessun vicepresidente, la supplenza spetta o al ministro designato dallo stesso
presidente del consiglio supplito, o, in mancanza, al ministro più anziano di età. Un’altra figura è costituita
dai ministri senza portafoglio. Mentre i ministri conosciuti dalla costituzione sono i capi di un ministero e
quindi con portafoglio, quasi sempre vengono nominati anche dei ministri senza ministero, ai quali il
presidente del consiglio delega, sentito il Consiglio dei ministri, alcune funzioni. Essi partecipano al
Consiglio dei ministri alla pari con tutti gli altri ministri, hanno il rango e lo stipendio di ministro, con tutte le
conseguenze giuridiche riconnesse a questo status, svolgono alcuni compiti specifici per i quali non si
richiede un ministero: ad es. ministro senza portafoglio per i rapporti col Parlamento. La ragione per la quale
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Riassunto di Gaia Paoloni
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essi vengono nominati non è tanto lo svolgimento di quel compito ufficialmente annunciato, quanto offrire la
possibilità di partecipare al governo ad uomini politici che altrimenti ne rimarrebbero fuori e che invece è
bene vi siano per garantire gli equilibri politici. In base alla l. 81/2001 esistono oggi anche i viceministri,
definiti come quei sottosegretari che, in un numero non superiore a 10, con delega proposta dal rispettivo
ministro, ma approvata dal Consiglio dei ministri su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, sono
stati incaricati di dirigere politicamente un’intera area corrispondente ad uno o più dipartimenti o direzioni
generali. La differenza tra i viceministri ed i sottosegretari sta nel fatto che i primi possono partecipare, senza
diritto di voto, al Consiglio dei ministri. Ma il significato politico maggiore della nuova figura sta nel fatto
che la riduzione del numero dei ministeri viene bilanciata dalla previsione che ad alcuni sottosegretari
possano essere delegati poteri e funzioni relativi a vaste aree, corrispondenti a vecchi ministeri oggi assorbiti
in ministeri più vasti. Non possono essere nominati viceministri quei sottosegretari che non siano anche
incaricati di dirigere politicamente uno o più dipartimenti o direzioni generali dei ministeri, ma niente
esclude che vi possano essere sottosegretari ai quali vengono delegati dal suo ministro egualmente compiti e
funzioni relativi ad uno o più dipartimenti o direzioni generali dei ministeri, e che, ciò nonostante, non
vengono nominati viceministri. Un’altra figura è il sottosegretario di Stato. Dato che la denominazione
completa dei ministri è ministri segretari di Stato, i sottosegretari sono soggetti subordinati ai ministri e si
chiamano sottosegretari perché segretari sono i ministri. Essi vengono nominati dal presidente della
Repubblica su proposta del presidente del consiglio insieme al ministro che il sottosegretario è chiamato a
coadiuvare, sentito il Consiglio dei ministri, e cadono con il governo. Sotto questo aspetto essi seguono le
vicende del governo e dunque ne fanno parte, sia pure in posizione subordinata rispetto ai ministri. Però non
fanno parte del Consiglio dei ministri e non hanno alcuna competenza propria. I compiti di ciascun
sottosegretario vengono decisi dal rispettivo ministro, il quale delega a lui alcune materie. Sotto questo
aspetto il sottosegretario non fa parte del governo, non sta sullo stesso piano degli altri membri del governo.
Il sottosegretario è un uomo politico designato a quel posto per ragioni di equilibri politici interni ai partiti e
tra i partiti, e questo spiega perché il sottosegretario possa rispondere in Parlamento al posto del ministro. Per
questa ragione il sottosegretario collabora con il suo ministro con una sua forza politica e dunque con una
sua capacità di influenza e condizionamento nei confronti del ministro. In definitiva i sottosegretari fanno
parte del governo, sono cioè soggetti politici entro il governo, anche se con una posizione inferiore a quella
del ministro. Oggi i sottosegretari trovano il loro fondamento legale nell’art. 10 della l. 400/88. Tra gli organi
di governo ci sono infine i comitati di ministri e i comitati interministeriali. Esistono comitati
interministeriali composti da funzionari di diversi ministeri che non fanno parte del governo. I criteri per
distinguere questi due comitati possono essere 3: in base alla composizione, si potrebbe riservare il nome di
comitati di ministri a quelli composti solo da ministri, e assegnare l’altro ai comitati composti da ministri e
altri soggetti; in base alle funzioni, si potrebbero chiamare comitati di ministri quelli solo consultivi, e
interministeriali quelli deliberanti; in base all’atto che li istituisce, si potrebbero chiamare i comitati
interministeriali quelli istituiti con legge, e comitati di ministri quelli istituiti senza legge, per decisione del
governo. Questi comitati possono essere consultivi o deliberanti, e cioè preparatori rispetto alle deliberazioni
del Consiglio dei ministri, o sostitutivi di esso rispetto a specifiche questioni per le quali sono stati istituiti.
Se sono deliberanti, e cioè sono organi esterni che vincolano altri soggetti, devono fondarsi su una previa
legge, in base al generale principio di legalità, e quindi possono essere costituiti solo con legge; per quella
parte di compiti a loro affidati dalla legge, sostituiscono il Consiglio dei ministri. Se sono consultivi, possono
essere istituiti sia con legge sia anche direttamente dal presidente del consiglio. I principali comitati
interministeriali deliberanti sono oggi il comitato interministeriale per il credito e il risparmio, e il comitato
interministeriale per la programmazione economica. È sempre più difficile che una questione non riguardi
contemporaneamente più branche della p.a., e cioè non tocchi interessi diversificati. Quando ciò accade, uno
degli strumenti di coordinamento spesso usati è il concerto: la decisione viene presa da un ministro di
concerto con altri ministri interessati. Lo svantaggio di questa procedura è che la decisione deve passare
attraverso tanti passaggi quanti sono i ministeri interessati, e talvolta anche di più se uno o più ministri
intervengono più volte. Appare molto più rapido un sistema che riunisce contemporaneamente tutti i ministri
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Riassunto di Gaia Paoloni
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interessati e li fa decidere insieme, con un atto collegiale. I comitati interministeriali, presieduti dal
presidente del consiglio o da un ministro designato dalla legge istitutiva, sono organi di governo, sullo stesso
piano dei singoli ministri. Tanto che le questioni spettanti ad essi, se questi non esistessero, dovrebbero
spettare o a singoli ministri o all’intero Consiglio dei ministri. Tutti i soggetti ultimamente esaminati sono
tutti soggetti non previsti dalla costituzione. Però vicepresidenti, sottosegretari e ministri senza portafoglio si
aggiungono agli organi di governo previsti dalla costituzione, senza togliere ad essi nessuna delle loro
competenze costituzionalmente garantite; essi dunque si possono giustificare in base ai principi di auto
organizzazione e di autonomia politica dei soggetti costituzionali, principi che consentono, entro limiti
costituzionali, che gli organi costituzionali possano organizzarsi e agire come meglio credono; i comitati
interministeriali invece tolgono qualcosa o ai ministri o al Consiglio dei ministri, e dunque per questo aspetto
riducono le competenze costituzionalmente garantite o degli uni o dell’altro. A loro parziale difesa si può
addurre oggi l’art. 6 della l. 400, secondo cui i comitati di ministri e quelli interministeriali istituiti per legge
devono tempestivamente comunicare al presidente del consiglio l’ordine del giorno delle riunioni, e questo
può deferire singole questioni al Consiglio dei ministri perché stabilisca le direttive alle quali i comitati
devono attenersi, nell’ambito delle norme vigenti. Dunque, i comitati sono pur sempre subordinati al
Consiglio dei ministri. Va notato che il consiglio di ministri non può sostituirsi al comitato e decidere al suo
posto e questo sembra difficilmente compatibile col rango costituzionale del Consiglio dei ministri. La l. 20
luglio 2004, n. 215, intitolata norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi, cerca di prevenire
situazioni che potrebbero determinare un conflitto tra gli interessi egoistici dei titolari delle cariche di
governo prima elencate e gli interessi pubblici che invece essi hanno l’obbligo di perseguire. Vengono
stabilite una serie di incompatibilità tra la carica di membro del governo e altri cariche o attività o uffici, ed
altre norme che dovrebbero raggiungere gli scopi che la legge si prefigge.

2) Il procedimento di formazione del Governo: al fine di costituire un nuovo governo la costituzione


prevede due momenti: a) la nomina del presidente del consiglio e, su proposta di questo, la nomina dei
ministri da parte del presidente della Repubblica; b) la necessaria presentazione alle camere del neonominato
governo per riceverne la fiducia. Prima che il presidente della Repubblica, con suo decreto controfirmato dal
nuovo presidente del consiglio, nomini sia il presidente del consiglio che i ministri, ci sono altre fasi create
dalla pratica, in particolare la fase delle consultazioni e quella dell’incarico. Queste due fasi si rendono
necessarie quando nelle consultazioni elettorali non è emersa una maggioranza certa o quando, nel corso
della legislatura, un governo si sia dimesso e sia necessario verificare se è possibile formarne un altro. Se,
come è accaduto nel 1996, nel 2001, nel 2006 e nel 2008, nelle elezioni politiche generali si confrontano due
blocchi di partito contrapposti, ciascuno dei quali ha previamente designato il suo leader, e se, dato il sistema
elettorale, emerge con sicurezza una maggioranza in seggi, le consultazioni e l’incarico diventano inutili, e si
riducono a rapida e formale cerimonia, perché la maggioranza è certa (è quella costituita dal blocco che ha
vinto in seggi nelle elezioni) e del presidente del consiglio è egualmente certo (è quello che i partiti che
hanno vinto hanno previamente e pubblicamente designato). Le descrizioni che seguono si riferiscono al caso
in cui nelle elezioni non è emersa una maggioranza precostituita e non è stato previamente designato il futuro
presidente del consiglio. È stato così in Italia dal 1948 al 1996. Il presidente della Repubblica, non appena si
è aperta la crisi di governo (governo in carica si è dimesso o è cessato), inizia le consultazioni: riceve
separatamente, varie personalità politiche. Queste personalità si dividono in: personalità che esprimono
direttamente la volontà dei partiti di cui essi sono espressione; personalità che, per gli incarichi pubblici
precedentemente ricoperti, godono di particolare autorevolezza. Nel primo gruppo rientrano i presidenti dei
gruppi parlamentari della camera e del Senato, i segretari dei partiti e, quando esistono, i rispettivi presidenti.
Fino al 1996 il presidente della Repubblica riceveva separatamente le delegazioni di ciascun partito, mentre
dal 1996 il presidente della Repubblica o riceve delegazione dei singoli partiti o, se i partiti sono coalizzati
permanentemente in poli, riceve delegazione unitaria dei poli, e continua a ricevere delegazioni dei singoli
partiti se questi stanno fuori dei due poli. Il presidente della Repubblica consulta le delegazioni dei partiti
perché il nuovo governo dovrà ricevere la fiducia delle camere, e dunque dovrà presentarsi ad esse con una

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

maggioranza precostituita; poiché tale maggioranza è sempre una maggioranza governata dai partiti, il
presidente della Repubblica nel nominare il governo deve verificare se esiste una tale maggioranza e quale
essa è, e deve nominare quegli uomini che sono accetti a tale maggioranza. La consultazione dei partiti serve
a far conoscere al capo dello Stato gli orientamenti di tutti i partiti. Il presidente della Repubblica consulta
anche un gruppo di personalità politiche, composto dai presidenti di Camera e Senato, gli ex presidenti della
Repubblica, e in passato anche dagli ex presidenti della camera e del Senato e dagli ex presidenti del
consiglio. Nel 1964 il presidente della Repubblica del tempo, Segni, convocò per consultazioni anche alti
funzionari civili e militari, generando forti sospetti e dubbi nei partiti e nell’opinione pubblica, accresciuti
dalle successive rivelazioni su un presunto piano tendente al colpo di Stato. Questo precedente così negativo
induce a ritenere che è bene che il presidente della Repubblica non chiami a consultazione altre personalità
oltre quelle codificate dalla prassi. Terminate le consultazioni, il presidente della Repubblica procede
all’incarico, atto diverso e distinto dalla nomina. Con l’incarico la personalità incaricata non è ancora
presidente del consiglio, ma è colui che il presidente della Repubblica designa come futuro presidente del
consiglio se la fase dell’incarico si concluderà positivamente. Con l’incarico l’attività del presidente della
Repubblica cessa temporaneamente, mentre l’iniziativa passa all’incaricato. Costui di regola procede a sue
consultazioni, o con i soli partiti della probabile maggioranza, o con tutti o quasi tutti i partiti. La sua attività
ha due obiettivi: concordare con i partiti della maggioranza in gestazione un programma politico comune;
concordare con questi partiti la ripartizione dei ministeri e la designazione dei ministri. Nel momento in cui
l’incaricato scioglie la riserva e cioè si dichiara pronto ad assumere la carica, egli ha già concordato con i
partiti della futura maggioranza il programma di governo, nelle sue linee generali e caratterizzanti, ed ha già
pronta la lista dei ministri, che è stata approvata, e spesso apprestata dai partiti della maggioranza, con
metodi diversi propri a ciascun partito. Prima del 1994 il potere dei partiti era così forte che l’incaricato
doveva concordare con tutti i partiti dell’ipotizzata maggioranza sia il programma di governo sia la scelta dei
ministri. Dopo il 1994 in generale il potere dei partiti e la loro capacità di condizionamento è diminuita:
l’incaricato ha margini di manovra molto maggiori di prima, sia per quanto riguarda i particolari del
programma di governo sia per quanto riguarda la scelta di ministri. Però non per questo l’incaricato può
disinteressarsi di ciò che pensano i partiti che dovranno sostenerlo in Parlamento, e deve comunque
assicurarsi il loro consenso. La fase dell’incarico termina quando l’incaricato scioglie la riserva e cioè o
accetta di formare il governo o rinuncia all’incarico. In questo secondo caso il procedimento ricomincia da
capo, con l’avvertenza che le consultazioni possono essere abbreviate, o perché il presidente della
Repubblica consulta solo i partiti, o perché consulta solo alcuni partiti. Le nuove leggi elettorali per Camera
e Senato hanno determinato la necessità, per i partiti che aspirano a ottenere la maggioranza in seggi, di
costituire alleanze ufficiali e vincolanti prima del voto, e designare, prima del voto, il loro candidato a
presidente del consiglio. Così è avvenuto nel 1996, nel 2001, nel 2006 e nel 2008. In tal caso i poteri del
presidente della Repubblica nella formazione del governo si riducono a zero, poiché le elezioni hanno già
stabilito qual è il polo che ha vinto e che dunque ha la maggioranza, e chi deve essere presidente del
consiglio. Per conseguenza le fasi delle consultazioni e dell’incarico diventano puramente cerimoniali per
quanto riguarda il presidente della Repubblica. La fase dell’incarico però mantiene tutta la sua importanza
per quanto riguarda l’incaricato, che deve avere il tempo per concordare con i partiti della sua maggioranza
sia il contenuto preciso del programma di governo sia la lista dei ministri. Quando l’incaricato si dichiara
pronto ad assumere il governo, il presidente del Repubblica lo nomina presidente del consiglio con suo
decreto, controfirmato dallo stesso neonominato, e dopo, su formale proposta del presidente del consiglio,
nomina con decreto controfirmato dal neopresidente i ministri. Tutti costoro non possono esercitare le
proprie funzioni se, a seguito della nomina, non hanno giurato. Il governo dipende politicamente dal voto di
fiducia delle camere e quindi acquista pieni poteri politici solo dopo che queste hanno ufficialmente concesso
la fiducia; dal punto di vista strettamente giuridico il governo entra in carica con la nomina da parte del
presidente della Repubblica, prima della fiducia. Inoltre, il governo non viene tecnicamente revocato dal voto
di sfiducia di una camera, cioè non cessa automaticamente dalla carica per il solo voto di sfiducia. Il governo
colpito da sfiducia deve presentare le dimissioni, ma per questo il risultato pratico della rimozione dalla
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Riassunto di Gaia Paoloni
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carica si raggiunge attraverso un comportamento volontario del governo (e cioè le sue dimissioni). Se il
governo colpito da sfiducia non presentasse le dimissioni, l’opinione più semplice consentirebbe che il
presidente della Repubblica revocasse il governo. Un’altra ritiene che di fronte a questo comportamento
incostituzionale del governo non resta che attivare il meccanismo penale. Comunque sia in nessun caso il
Parlamento può direttamente revocare lui il governo. La spiegazione di questa particolarità del governo
parlamentare sta nella sua storia. Inizialmente i ministri erano ministri del re, e cioè dipendevano solo dal re.
Il Parlamento non aveva alcuna possibilità di rimuoverli. Successivamente si affermò il principio politico
secondo cui i ministri dovevano godere la fiducia anche del Parlamento, e dunque dovevano dimettersi se si
verificava che essi non l’avevano. Però rimase al re il potere di nominare i ministri. Se, come accadeva
nell’Ottocento, il governo non doveva chiedere la sfiducia ma spettava semmai al Parlamento l’iniziativa di
dare la sfiducia, poteva avvenire che il governo, una volta nominato e in carica, governasse per un certo
tempo finché le opposizioni non davano apertamente la sfiducia. Questo periodo di benevola attesa era
determinato da due ragioni: la prima è che il Parlamento del tempo si riservava di giudicare il governo dopo
averlo sperimentato; la seconda è che di fronte al fatto compiuto è sempre più difficile opporsi di quanto lo
sia di fronte ad una semplice proposta, perché si tratta di rovesciare un fatto compiuto, con tutte le incognite
e anche i prezzi politici che ne possono derivare. Per queste ragioni, in un periodo in cui partiti in senso
moderno o non erano ancora nati o non avevano i poteri oggi loro riconosciuti, il re poteva riuscire a
condizionare il Parlamento almeno per lunghi periodi. Oggi di fronte al ruolo dominante dei partiti, tutto ciò
è impensabile, ma resta il fatto che attraverso la nomina del governo il presidente della Repubblica mantiene
ancora l’iniziativa di fronte al Parlamento e può costringere questo ad assumersi la responsabilità di riaprire
la crisi. Questa è la ragione per cui assemblee costituenti, volendo diminuire il ruolo del presidente della
Repubblica nella soluzione delle crisi di governo e accrescere quello del Parlamento, hanno tolto al
presidente della Repubblica il potere di nomina del governo, e al più lo hanno declassato a potere di
designazione. Il significato del meccanismo della nomina del governo da parte del presidente della
Repubblica si spiega ancora meglio se collegato con lo scioglimento del parlamento. Se questo spetta al
presidente della Repubblica, allora diventa più chiaro perché è il presidente della Repubblica che nomina il
governo e perché il governo si dimette, ma non viene revocato direttamente dal Parlamento. Le dimissioni
del governo non danno necessariamente luogo alla formazione di un nuovo governo. Infatti, il presidente
della Repubblica anziché accettare le dimissioni può sciogliere le camere; ma questo è impensabile se la crisi
di governo è avvenuta proprio perché nel frattempo è maturato un nuovo governo e quindi se esiste già una
maggioranza politica entro le camere. Però nel caso opposto, in cui un nuovo governo non è già maturato, si
apre concretamente anche sul piano politico la possibilità di scioglimento. In questi casi il presidente della
Repubblica diviene l’ago della bilancia tra le diverse tendenze pro o contro lo scioglimento anticipato. Lo
scioglimento dunque rappresenta la risposta alternativa alla sfiducia, e mentre la sfiducia determina la morte
del governo, lo scioglimento salva il governo e colpisce le camere. La nomina del governo spettante al
presidente della Repubblica, il fatto che la sfiducia non revochi il governo ma lo obblighi a presentare le
dimissioni, il connesso potere del capo dello Stato di sciogliere anticipatamente le camere, sono i mezzi
istituzionali attraverso cui la costituzione inserisce la possibile difesa dell’esecutivo contro le camere entro il
meccanismo costituzionale, e spiegano il profondo significato politico costituzionale della separazione tra
nomina e fiducia. Se dal punto di vista giuridico formale il governo con la nomina (e il giuramento) è già
investito dei suoi poteri e può esercitarli, dal punto di vista politico esso deve ancora ricevere la fiducia delle
camere e dunque si trova in una situazione di provvisorietà: la sua autorità di governo gli deriva dalla fiducia,
e dunque l’efficacia politica della sua funzione di governo inizia solo con la fiducia. Finché il governo non
ha ufficialmente la fiducia esso è un governo senza certa maggioranza parlamentare e quindi privo di
effettiva investitura politica. Dunque, il governo in attesa di fiducia è provvisorio perché la sua situazione è
destinata a mutare: esso diventerà un governo con fiducia, o un governo dimissionario in attesa di un nuovo
governo, o un governo dimissionario che assicura lo svolgimento delle elezioni di nuove camere in attesa di
un nuovo governo successivo alle elezioni. Per questo motivo la fase della fiducia è ancora un momento del
procedimento di formazione del governo. La costituzione italiana esige che il governo debba presentarsi alle
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Riassunto di Gaia Paoloni
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camere entro dieci giorni dalla nomina. Presentarsi alle camere vuol dire esporre alle camere il proprio
programma di governo. Il programma definitivo del governo viene steso dal presidente del consiglio,
approvato in Consiglio dei ministri e presentato poi alle camere a ribadire la responsabilità collegiale e la
direzione unitaria del governo. La presentazione del programma di governo, che riguarda tutta la politica
nazionale, spetta all’organo governo: il Parlamento cioè si trova in una situazione passiva, può assentire o
dissentire, ma solo su iniziativa di un altro e cioè del governo. Dunque, solo il governo presenta il suo
programma e dopo che il governo lo ha elaborato e presentato il Parlamento lo approva. La fiducia dal punto
di vista formale si presenta come una mozione molto semplice che si limita ad approvare le dichiarazioni del
governo. Viene concessa da ciascuna camera (basta il diniego di una perché vi sia sfiducia) e deve essere
approvata per appello nominale (in questo modo tutti i parlamentari si assumono le loro responsabilità e i
partiti ribadiscono la disciplina, contro eventuali dissenzienti che invece spesso approfittano dello scrutinio
segreto per votare in modo difforme dal partito: franchi tiratori). A seguito della fiducia il governo comincia
la sua attività con pienezza politica di potere; se viceversa la fiducia viene negata, allora il governo presenta
le sue dimissioni al capo dello Stato. Di regola il capo dello Stato non accetta le dimissioni, ma si riserva di
decidere e accetta le dimissioni un momento prima di nominare il nuovo governo quando il presidente
incaricato scioglie la sua riserva e si dichiara pronto a formare il nuovo governo. Anche se il capo dello Stato
accettasse subito le dimissioni, il governo rimarrebbe in carica fino alla nomina del nuovo governo, in forza
di un istituto del diritto pubblico, chiamato prorogatio dei poteri, per cui chi cessa da un ufficio pubblico
continua ad adempiere ai doveri di ufficio finché non viene sostituito. L’opinione prevalente riteneva che si
trattasse di un principio generale, da applicare se la costituzione o la legge non dicevano il contrario; la Corte
costituzionale invece, con sentenza n. 208 del 1992, ha negato che si tratti di un principio generale, ed ha
sostenuto che la prorogatio nel diritto amministrativo si applica solo se espressamente prevista dalla legge; a
seguito di questa sentenza è stato emanato un decreto legge, più volte reiterato, finché la l. 15 luglio 1994, n.
444 ha convertito il d. l. 16 maggio 1994, n. 293: in base a questa nuova disciplina la prorogatio è ammessa
per un periodo non superiore a 45 giorni dalla scadenza. La ragione per cui il capo dello Stato si riserva di
accettare le dimissioni è quella di lasciare aperta la strada a soluzioni alternative. Riservandosi di accettare le
dimissioni, il capo dello Stato resta formalmente libero di respingere le dimissioni e di sciogliere le camere; e
se lo ritiene opportuno potrebbe invitare il governo a ripresentarsi alle camere e provocare un pubblico
dibattito (se la crisi è stata extraparlamentare; se invece le camere si sono già pronunciate sul governo, la
richiesta del capo dello Stato sarebbe scorretta).

3) Le convenzioni costituzionali: è notevole il fatto che il procedimento di formazione del governo è fatto,
per buona parte, di regole non scritte. La costituzione si limita a prevedere due momenti, la nomina e la
fiducia. La pratica conosce le consultazioni e l’incarico, e tutte le regole di comportamento più particolari
relative a consultazioni e incarico. Poiché si tratta di regole di comportamento non scritte viene spontaneo
concludere che esse siano consuetudini, le quali, in quanto regole giuridiche non scritte ma ugualmente
obbligatorie, sono coercibili dai giudici. Se il presidente della Repubblica nelle consultazioni e/o
nell’incarico non si attiene a qualcuna delle regole prima esaminate e fin qui rispettate dai presidenti della
Repubblica, chi è il giudice di tali violazioni? Nel nostro ordinamento non c’è giudice e non vi sono sanzioni
possibili per violazioni di tal fatta. Queste regole si sono formate gradualmente sulla base dell’esperienza
politica governata e vissuta dagli stessi soggetti politici. Dunque, le hanno create gli stessi interessati, e le
hanno create con un certo contenuto piuttosto che un altro perché solo il primo corrispondeva ai rapporti
politici voluti e raggiunti; proprio per questa ragione queste regole, rispondendo a precisi rapporti politici,
devono rapidamente modificarsi per aderire eventualmente a nuovi equilibri politici. In ogni caso i padroni di
tali regole restano gli stessi soggetti interessati ad esse. Se in questo meccanismo si introducesse un giudice,
cioè un soggetto estraneo al rapporto, si stravolgerebbe il senso e l’utilità di tali regole. Esse diverrebbero
modificabili solo col consenso di tale giudice. In questo modo andrebbe perduto il vantaggio per cui le forze
politiche possono adattare rapidamente le regole della propria condotta ai mutati bisogni istituzionali e ai
mutati rapporti politici di forza. Inoltre, il giudice incaricato di vegliare sul rispetto di tali regole, in quanto

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controllore delle forze politiche, diverrebbe superiore ad esse, e dunque nello stato i soggetti superiori ad
ogni altro non sarebbero più i partiti e quegli organi costituzionali governati da partiti, ma quel giudice che
avrebbe il potere di intromettersi nei rapporti fra tali soggetti. In conclusione, il fatto che per alcune regole
manchi un giudice e manchino sanzioni istituzionali è una caratteristica necessaria adeguata all’oggetto.
Queste regole devono restare senza giudice e senza sanzioni istituzionali perché esse vengono liberamente
create e mutate dai soggetti politici interessati, si fondono su un accordo tacito o informale fra di esse,
vengono rispettate finché i soggetti interessati ritengono opportuno mantenere l’accordo o non hanno
abbastanza forza politica per mutarlo. Queste regole, chiamate convenzioni, presentano le seguenti
caratteristiche: a) sono regole, cioè criteri di comportamento normalmente seguiti dai soggetti interessati in
determinate circostanze; b) non sono coercibili, cioè si fondano esclusivamente sul consenso e l’accordo dei
soggetti interessati; ed ecco perché non sono regole giuridiche dello Stato; c) pur non essendo regole
giuridiche dello Stato, tali regole fanno parte del meccanismo costituzionale, dato che lo studio e l’esame del
concreto muoversi e svilupparsi di esso è incomprensibile se, insieme alle regole costituzionali, non si
studiano queste regole ulteriori. È possibile dividere le convenzioni costituzionali in quattro categorie: 1)
regole convenzionali che sostituiscono regole costituzionali scritte, le quali continuano ad essere rispettate
solo per la forma, mentre la sostanza è riempita da una diversa regola, appunto convenzionale. In Gran
Bretagna la regina dal punto di vista formale vuole la legge esattamente come le due camere, così che il
diniego della regina impedirebbe alla legge di nascere. Da secoli il sovrano inglese vuole costantemente la
legge approvata dai Comuni: dal punto di vista formale la regina approva la legge, in sostanza non può non
approvare. La regola convenzionale “deve approvare” svuota la regola costituzionale ormai formale. In Italia
regole convenzionali di questo tipo in sostanza violano la costituzione scritta e dunque, in un regime in cui la
costituzione può essere modificata solo attraverso il procedimento previsto dall’art. 138, sono inammissibili.
Però convenzioni di tal genere si trovano anche nel nostro ordinamento. La costituzione dice che il
presidente del consiglio propone i ministri; nella pratica, almeno fino al 1992, è certo che il presidente del
consiglio non propone mai i ministri spettanti ai partiti della coalizione diversi dal suo; per quanto riguarda i
ministri spettanti al suo partito talvolta la scelta di essi viene compiuta dal partito con totale sua esclusione.
Dunque, la proposta del presidente del consiglio è pura forma esteriore senza sostanza, dato che la regola
effettiva è che i ministri vengono proposti dai partiti della coalizione secondo gli accordi tra essi intercorsi.
2) La regola costituzionale, nel costruire un rapporto tra soggetti costituzionali o nell’imporre un dovere o
nell’attribuire un potere, lascia aperta la strada ad un fascio di possibili ulteriori regole di comportamento che
completano la previsione costituzionale. Es. la costituzione dice che il presidente della Repubblica nomina il
presidente del consiglio e i ministri, ma non dice come il presidente della Repubblica deve procedere alla
nomina e quindi la regola costituzionale consente infiniti modi di procedere. Quindi le regole sulle
consultazioni e sull’incarico sono convenzioni del secondo tipo che integrano e completano la previsione
costituzionale. 3) Le regole convenzionali del terzo tipo sono regole indipendenti e autonome che non
costituiscono specificazione e integrazione di regole giuridiche. Esse presuppongono l’esistenza di un
soggetto politico costituzionale e il complesso dei suoi poteri giuridici, ma non si ricollegano a nessuna
regola specifica: si ricollegano alla situazione complessiva di tale soggetto di cui diventano un elemento in
più tra gli altri. Es. la regola convenzionale per cui il presidente della Repubblica non può criticare
pubblicamente il Parlamento o il governo su questioni politiche, e meno che mai un singolo partito o un
singolo parlamentare. 4) Le convenzioni del quarto tipo consistono nella sovrapposizione di un significato
politico tipico ad un atto giuridico che continua a produrre i suoi effetti giuridici tipici del tutto distinti dalle
conseguenze politiche. Es. il voto negativo di una camera su una proposta di legge governativa è una
decisione negativa su una proposta e produce l’effetto di far decadere la proposta di legge governativa; ma i
partiti e il governo possono convenire che questo voto negativo significa anche sfiducia verso il governo.
Dunque, coesistono due regole: una legale, la quale dice che il voto negativo sulla tale proposta produce
l’effetto x, e una convenzionale che dice che questo stesso voto può significare sfiducia verso il governo.

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4) La responsabilità politica: la responsabilità politica del governo è la caratteristica fondamentale di


questo organo, intorno alla quale ruotano tutti gli altri istituti e le altre regole che lo riguardano. Ai nostri fini
è importante ricordare che la responsabilità giuridica si produce se e solo se si verifica un determinato fatto
predeterminato nelle sue caratteristiche astratte dal diritto. Cosa vuol dire che il governo è politicamente
responsabile davanti alle camere? Vuol dire che il governo deve rendere conto alle camere del suo operato, e
cioè deve rispondere alle richieste delle camere e spiegare come ha agito e perché ha agito in un modo
piuttosto che in un altro. A questo può seguire un giudizio delle camere. A questo giudizio può seguire una
conseguenza sfavorevole contro il governo. In questa vicenda ritroviamo gli elementi essenziali di ogni
giudizio di responsabilità in generale: un fatto imputabile al governo (la sua attività); un giudizio su questo
fatto; una conseguenza sfavorevole riconnessa a questo giudizio. Ma ritroviamo anche le caratteristiche
tipiche della responsabilità giuridica? Il governo viene giudicato per fatti predeterminati e subisce
conseguenze predeterminate dal diritto? L’esperienza comune e universale risponde di no. Quando il
Parlamento fa cadere un governo, non lo fa cadere perché commisura l’azione di questo governo ad un
criterio oggettivo predeterminato dal diritto, ma semplicemente perché essa persegue una politica diversa da
quella del governo in carica, o una politica per la cui realizzazione ritiene inadeguato e inadatto il governo in
carica. Il potere politico del governo è un potere derivato e non esiste alcun diritto ad essere investiti di tale
potere e dunque nessun diritto a rimanere in carica. Si diventa ministri perché il Parlamento lo vuole e si
cessa di essere ministri ugualmente perché il Parlamento così vuole. Il Parlamento nell’attribuire e nel
togliere la carica è vincolato a motivi politici e dunque è libero di agire in questo caso senza essere
condizionato ad alcun criterio predeterminato dal diritto. I ministri, proprio perché responsabili, rivendicano
il potere politico del cui esercizio devono rispondere, giacché si è responsabili per fatto proprio, e dunque si
è politicamente responsabili perché investiti di un proprio potere politico. Si risponde dunque perché si ha un
potere politico e questo spiega perché non si risponde in base a criteri predeterminati dal diritto. Avere un
potere politico significa avere il potere di individuare e perseguire liberamente fini, e mezzi adeguati a tali
fini, da imporre poi a tutta la comunità. Il politico risponde politicamente perché il suo compito non è quello
di eseguire semplicemente le leggi, ma è quello di scegliere per conto di tutti i fini da perseguire e i mezzi da
usare. In conclusione, il governo risponde politicamente perché è investito di un potere politico, e proprio per
questo può essere rimosso in qualsiasi momento per ragioni solamente politiche. I criteri sulla cui base viene
giudicato sono criteri soggettivi, propri di ciascuna forza politica e variabili liberamente. Il governo rivendica
continuamente la sua responsabilità politica per rivendicare il suo potere politico, e cioè il suo potere di
guida e di indirizzo e per questo motivo essere politicamente responsabili non è una diminuzione ma un
vantaggio. Il governo dunque, politicamente responsabile, per questa sua caratteristica non è subordinato al
Parlamento: al contrario la sua responsabilità lo pone nelle condizioni di guidare politicamente lo stesso
Parlamento. Lo schema di questo meccanismo è il seguente: il potere politico, cioè il potere di guidare il
paese, deriva dalla volontà popolare; il Parlamento, espressione diretta della volontà popolare, attribuisce e
toglie il potere politico; ma proprio perché si tratta di potere politico, chi ha questo potere, finché non gli
viene tolto, ha un potere di guida e di indirizzo anche rispetto al Parlamento. La responsabilità politica
riassume due caratteristiche essenziali dello Stato moderno (rappresentativo): il potere politico è sempre un
potere derivato dal consenso popolare; proprio per questo la responsabilità politica segue il potere politico e
viceversa: maggiore è la responsabilità politica, maggiore è il potere politico. Dunque: la responsabilità
politica è distinta da quella giuridica; la responsabilità politica si estende quanto si estende il potere politico;
la responsabilità politica è in tutto governata da ragioni politiche: se essa rientra nella generale figura della
responsabilità, essa si distingue da ogni altra perché è retta da leggi politiche e risponde ad esigenze della
lotta politica. Ne consegue che oggi tutti i soggetti politici sono politicamente responsabili, ma non tutti sono
responsabili politicamente allo stesso modo e con le stesse forme. Dobbiamo distinguere tra responsabilità
politica istituzionale e responsabilità politica diffusa. La prima si concreta in un rapporto istituzionalizzato,
cioè in qualche modo stabile e costante nei suoi elementi costitutivi e nel suo svolgimento. Il rapporto
governo Parlamento è l’unico esempio di responsabilità politica istituzionale nel nostro ordinamento a livello
costituzionale. Questo rapporto si individua rigorosamente perché corre tra due soggetti determinati,
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Parlamento e governo: il governo si ritiene di dover rendere conto soprattutto verso il Parlamento, e il
Parlamento rivendica a sé stesso il potere di fare responsabile il governo. In secondo luogo, questo rapporto
si articola in una serie di strumenti e momenti attraverso cui il Parlamento può far valere questa
responsabilità: strumenti e momenti che si riassumono in un potere privilegiato di critica. Privilegiato perché
il Parlamento dispone di strumenti di indagine e gode di particolari poteri nei confronti del governo che non
spettano a nessun altro soggetto. Tutti questi strumenti vengono o possono venire usati dalle forze politiche
presenti in Parlamento per rimuovere il governo. In questo senso essi rientrano nel rapporto di responsabilità
politica. Infine, questo rapporto culmina in un potere di rimozione garantito (la mozione di sfiducia), così che
in questo caso la responsabilità politica produce una conseguenza certa e garantita istituzionalmente. Tutti
questi aspetti rendono questo rapporto istituzionale, cioè permanente, conosciuto, garantito in tutti i suoi
aspetti e momenti. All’inverso la responsabilità politica diffusa designa un rapporto che è verso tutti
contemporaneamente e quindi verso nessuno in particolare. Un rapporto estremamente labile che si affida ai
mutevoli rapporti politici e in cui ogni aspetto è indeterminato: non sono predeterminati i soggetti tra cui
corre, perché possono essere tutti i soggetti politici; non sono precostituiti i modi, perché essi possono essere
i più vari e si riconnettono tutti ad una generica libertà di critica; non sono istituzionali le conseguenze,
perché dipendono da innumerevoli e non predeterminabili cause e si sostanziano in imprevedibili e non
predeterminati mutamenti nei rapporti di forza tra le forze politiche. Tale è il rapporto tra governo e opinione
pubblica, etc. Una più ravvicinata lettura della realtà politica suggerisce una terza responsabilità politica che
è quella che si recita attraverso i quotidiani, la televisione, la radio e mediante i nuovi strumenti telematici
come Facebook, Twitter, etc.; è a questo livello che si decide se un uomo politico acquista o perde potere e
influenza. Questa specifica forma di responsabilità politica presenta alcune caratteristiche di quella
istituzionale e alcune di quella diffusa: come quella istituzionale-formale, si svolge attraverso codici di
comportamento riconoscibili (i codici dei mezzi di comunicazione di massa); come quella diffusa si svolge in
forme libere dal punto di vista giuridico. In conclusione, si possono individuare tre responsabilità politiche:
responsabilità politica istituzionale-formale, responsabilità politica istituzionale-libera (quella che si svolge
attraverso i mezzi di comunicazione di massa), responsabilità politica diffusa.

5) La responsabilità politica del Governo: il governo è soggetto alla responsabilità politica diffusa. Il fatto
per cui il governo è responsabile innanzi al Parlamento vuol dire che il governo deve rendere conto al
Parlamento e può essere in ogni momento rimosso da questo; ma vuol dire anche che il governo è investito di
un potere politico, di un potere cioè che per sua natura è e deve essere indipendente e autonomo. Questa
caratteristica del governo si manifesta con la questione di fiducia, quando il governo, di fronte ad una
possibile decisione del Parlamento da lui non condivisa, pone la questione di fiducia su tale decisione e cioè
preannuncia ufficialmente che, se la decisione sarà contraria al suo parere, esso si dimetterà. In tal modo la
maggioranza parlamentare è posta di fronte ad un’alternativa: o cedere alla volontà del governo o provocare
una crisi di governo. In questo modo il governo dimostra di non essere un esecutore subordinato al
Parlamento, perché anche se il Parlamento è libero di far cadere il governo, il governo dimissionario in tal
modo ribadisce che nessun governo si piegherà a direttive da lui non condivise, appunto perché esso è un
organo di direzione politica. Come si vede, la responsabilità politica, in questo caso della questione di
fiducia, si manifesta come rivendicazione di responsabilità; come coscienza di responsabilità; e dunque come
pretesa di far valere il potere politico (cioè di direzione) che vi è connesso. Dunque, il governo, pur potendo
essere rimosso dal Parlamento, non è organo subordinato al Parlamento, ma un organo che in nome della sua
responsabilità politica pretende di dirigere lo stesso Parlamento. Questa responsabilità politica del governo è
essenzialmente una responsabilità solidale. La costituzione prevede: “Il presidente del Consiglio dei ministri
dirige la politica generale del governo e ne è responsabile… I ministri sono responsabili collegialmente degli
atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. La responsabilità del governo è
una responsabilità collegiale o solidale per le seguenti ragioni: a) il governo ha un solo programma unitario,
che vincola allo stesso modo tutti i ministri e tutto il governo in ogni momento. b) Per questa ragione il
governo deve essere omogeneo, cioè composto da uomini appartenenti tutti alla maggioranza politica. I rari

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casi in cui quest’ultima regola è stata derogata hanno portato rapidamente in crisi il governo, incapace di
perseguire una linea politica unitaria. La ragione della regola della omogeneità del governo sta nel fatto che
il governo, in regimi parlamentari, è un organo collegiale, e dunque un organo che per funzionare ha bisogno
di una sostanziale omogeneità politica al suo interno. Questa caratteristica spiega perché il governo, pur
essendo composto da molti soggetti, venga considerato come un unico soggetto. c) Il governo cade tutto
insieme. Se le dimissioni di un singolo ministro possono anche non toccare la vita del governo, le dimissioni
del presidente, che esprime la linea politica unitaria del governo, comporta automaticamente le dimissioni di
tutto il governo. d) I lavori del Consiglio dei ministri sono segreti. Non è ammesso il pubblico, non ci sono
resoconti delle discussioni, esiste la regola convenzionale per cui i ministri sono tenuti a mantenere il segreto
su quanto è avvenuto nel seno del governo. Questa regola serve a garantire l’unità del governo, in modo che
esso verso l’esterno presenti una faccia unica e che le sue interne divisioni non vengano sfruttate dagli
avversari politici. e) I ministri devono difendere la linea del governo, e non devono polemizzare
pubblicamente. La ragione è stata spiegata nel punto precedente. Questa regola viene disattesa perché i
governi italiani o sono di coalizione o risentono delle lotte tra le correnti organizzate del partito al governo,
così che i dissensi tra i diversi partiti della maggioranza e tra le diverse correnti diventano dissensi entro il
governo. f) Il ministro che dissente, o si dimette immediatamente o risponde dell’attività del governo, anche
se da lui non condivisa, e non può poi addurre a scusante il suo passato dissenso. Sul piano giuridico il
ministro risponde civilmente e penalmente degli atti approvati dal Consiglio dei ministri, se non si è dimesso,
e dei suoi propri atti di ministro; sul piano politico il ministro risponde di tutti gli atti del Consiglio dei
ministri, anche se da lui non condivisi se non si è dimesso, e risponde anche degli atti dei singoli ministri del
suo governo, se e finché i tali atti sono riconducibili alla medesima linea politica generale del governo. g)
Quest’ultima considerazione spiega perché è rara la responsabilità politica di un singolo ministro rispetto a
quella collegiale. Se l’attività di un singolo ministro è attuazione della linea del governo, allora la
responsabilità del singolo diventa responsabilità di tutto il governo: il governo tutto intero dunque, e la sua
maggioranza parlamentare, difenderanno il singolo ministro dagli attacchi e dalle critiche. Se l’attività di un
singolo ministro è fuori della linea, la responsabilità di tale ministro rischia ugualmente di travolgere l’intero
governo, perché si dimostra che il governo, e il suo presidente, non sono capaci di guidare unitariamente il
paese. Per questa ragione è probabile che il governo cerchi di risolvere al suo interno il contrasto, difendendo
all’esterno il singolo ministro. Se, come accade in Italia, il governo è di coalizione e i ministri appartengono
a diversi partiti, la responsabilità politica di un ministro coinvolge quasi automaticamente quella del suo
partito e dunque rischia di dividere i partiti della coalizione. Di fronte a questo rischio i partiti e il governo
difendono il singolo ministro. Queste osservazioni spiegano perché in Italia siano rarissimi casi di
responsabilità politica del singolo ministro (i casi in cui un singolo ministro si è dimesso per le critiche a lui
rivolte direttamente); ugualmente spiegano perché, fino al 1995, non sono mai state approvate formali
mozioni di sfiducia verso il singolo ministro. Nel 1995 il Senato ha approvato una mozione di sfiducia
individuale nei confronti del ministro di grazia e giustizia Mancuso. La vicenda ha provocato molto rumore.
Va ricordato: che il ministro Mancuso non apparteneva ad alcun partito, e non era un politico di professione;
che faceva parte di uno di quei governi, nati nel periodo turbolento 1992-1996 (governi Amato, Ciampi,
Dini), che avevano una qualificazione dichiaratamente tecnica, e cioè non rappresentavano le forze politiche
che pure li sostenevano, ed erano in qualche modo governi di emergenza; le vicende particolari del periodo
1992-1996 sembrano dovute più alla eccezionalità e provvisorietà della situazione politica che all’emergere
di nuove regole di ordine costituzionale. Tenendo presente la realtà italiana, con i frequenti dissensi tra i
partiti di governo, per cui i singoli ministri si sentono rappresentanti del proprio partito piuttosto che membri
solidali del governo unitariamente inteso, si comprende come molte delle regole, che si traggono dal
principio della responsabilità solidale del governo, in Italia non vengano rispettate: così accade della regola
sul segreto, della regola che impone di non criticare in pubblico gli altri ministri. Tutte queste questioni
rinviano al tema dei rapporti tra presidente del consiglio e singoli ministri. Il presidente del consiglio, in
quanto rappresentante dell’unità del governo, è istituzionalmente il garante di essa e dunque il soggetto
incaricato di assicurarla nella pratica. Di quali poteri dispone a questo fine? Non di poteri gerarchici in senso
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

proprio: tra presidente del consiglio e ministri non corre un rapporto di gerarchia. Quindi il presidente del
consiglio non può avocare a sé atti di competenza del singolo ministro, non può annullare tali atti, non può
sostituirsi al ministro, e non può dare ordini in senso proprio rispetto ad atti del ministro. Il presidente del
consiglio può assicurare l’unità di indirizzo con atti diversi da quelli prima elencati: può sollecitare il
ministro, può chiedere a lui informazioni, può portare dinanzi al consiglio di ministri una questione prima
che il ministro decida. Tutti atti che hanno efficacia sulla base dei rapporti politici e del momento politico.
L’unico vero potere decisivo sarebbe quello di revoca del ministro dissenziente o non pienamente disponibile
alla linea impersonata dal presidente del consiglio. Su questo punto il presidente del consiglio è quasi del
tutto privo di ogni potere: lo è rispetto ai ministri appartenenti a partiti diversi dal suo, poiché ogni eventuale
richiesta del presidente del consiglio di dimissioni verso costoro significherebbe un’intromissione del
presidente del consiglio entro il partito alleato e dunque provocherebbe una reazione negativa da parte di
quest’ultimo e una rottura dell’alleanza; il presidente del consiglio, quando apparteneva alla DC (fino al
1981), era privo di potere anche rispetto ai ministri del suo stesso partito, giacché in Italia il partito di
maggioranza dal 1948 al 1994 (la DC) era diviso in correnti e l’assegnazione dei diversi ministeri esprimeva
un equilibrio raggiunto tra le correnti. Dunque, una richiesta di dimissioni di un ministro avrebbe provocato
la rottura di questo equilibrio. Inoltre, il presidente del consiglio in Italia dal 1948 al 1993 mai o quasi mai è
stato il leader incontestato del suo partito, e dunque non aveva sufficiente autorità per guidare
contemporaneamente governo e partito di maggioranza. Le sue decisioni dovevano mediarsi con il capo del
suo partito. Dal 1993 ad oggi il tempo medio di durata in carica dei governi è aumentato e vi sono state due
legislature piene dal 1996 al 2001 e dal 2001 al 2006, però il potere politico dei presidenti del consiglio è
rimasto debole. Nella situazione inglese il leader del governo è contemporaneamente leader del partito; per
di più ha ricevuto un’investitura popolare con la vittoria nelle elezioni, e dunque ha un potere indipendente e
superiore al suo stesso partito che gli permette di scegliere i suoi collaboratori e di imporre le dimissioni.
Attraverso l’effettiva supremazia del leader si realizza anche l’unità e l’omogeneità politica di direzione di
tutto il governo.

6) Le crisi di Governo: distinguiamo tra crisi politiche e crisi non politiche: tra crisi cioè determinate da
ragioni politiche e crisi determinate da fatti naturali es. la crisi del governo si determina automaticamente con
la morte del presidente o il suo impedimento permanente. Si distingue tra crisi parlamentari e crisi
extraparlamentari. Le prime sono quelle determinate dalla mozione di sfiducia, e quindi dal Parlamento. Le
seconde sono quelle determinate da qualsiasi altro fatto politico (al di fuori di un’ufficiale decisione del
Parlamento). Queste seconde a loro volta possono essere determinate da atti accaduti entro il Parlamento (es.
voto contrario su una legge proposta dal governo o sulla questione di fiducia); o da atti accaduti fuori del
Parlamento (es. la decisione di un partito di uscire dalla maggioranza); o da decisioni unilaterali dello stesso
governo, e del suo presidente. Le crisi di governo possono accadere in qualsiasi momento per qualsiasi
ragione politica, senza possibilità di prevedere in anticipo e di porre limiti neppure procedurali. Esistono però
limiti negativi, nel senso che la crisi di governo non può essere determinata da alcuni specifici soggetti. Es. la
crisi non può essere determinata dal presidente della Repubblica, perché il governo non dipende dalla fiducia
di questo. Egualmente non è ammissibile una richiesta di dimissioni da parte della Corte costituzionale, e da
parte di tutti gli organi dello Stato diversi dal Parlamento, in quanto entro lo stato solo il Parlamento può
chiedere le dimissioni del governo. Oggi i principali soggetti che determinano le crisi di governo sono i
partiti. La decisione definitiva sulle dimissioni spetta al presidente del consiglio e non al Consiglio dei
ministri, fino al punto che in Italia il presidente del consiglio con sua decisione del tutto unilaterale,
dimettendosi, può determinare la caduta di tutto il governo. È uno dei pochi poteri veramente incisivi di cui
gode in Italia il presidente del consiglio. Dal punto di vista giuridico il governo dimissionario secondo le
leggi vigenti perde solo il potere di chiedere alla Corte dei conti la registrazione con riserva degli atti
amministrativi (la Corte dei Conti ha il compito di registrare alcuni atti della pubblica amministrazione
controllandoli sotto il profilo della legittimità: se essi sono legittimi appone il visto; se li ritiene illegittimi
nega il visto e gli atti non possono essere eseguiti. In questo caso il governo ha il potere di chiedere la

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

registrazione con riserva e cioè di imporre alla Corte di registrarli comunque e di farli divenire efficaci, salva
la riserva della Corte che ne informa il Parlamento). Dal punto di vista politico il governo dimissionario,
privo della maggioranza parlamentare, perde la sostanza del potere governativo, e cioè il potere di indirizzo e
di direzione. Non ha più un programma da attuare e dunque non può più proporre le misure adatte per
attuarlo. Gli resta il potere di ordinaria amministrazione, e cioè il potere di semplice esecuzione delle leggi
esistenti. Gli resta anche un potere di intervento in casi di urgenza, perché l’urgenza legittima l’intervento del
governo pena la compromissione irreparabile della situazione. In conclusione, il governo dimissionario dovrà
compiere gli atti obbligatori e tutti quegli atti la cui proroga comporterebbe un apprezzabile danno allo stato,
mentre dovrà astenersi da tutti quegli atti discrezionali che possono essere rinviati al futuro governo senza
apprezzabile danno. Si tratta di un criterio che lascia sempre un margine di arbitrio e di incertezza, risolvibile
solo sulla base degli apprezzamenti e della sensibilità politica degli interessati.

7) Le funzioni del Governo: il governo esercita i poteri che gli sono attribuiti dalla costituzione e le
iniziative politiche che decide di assumere in tutte le materie statali, e cioè oggi, dopo la l. cost. 3/2001, in
tutte le materie elencate nell’art. 117. Si possono raggruppare le funzioni del governo sotto tre categorie:
quelle che danno concretezza e attuazione alla sua funzione di indirizzo politico; quelle che esprimono la sua
funzione di capo di tutto l’apparato burocratico e militare; quelle che gli consentano di controllare i soggetti
pubblici formalmente esterni allo stato. A) Rientrano nel primo gruppo tutti quei poteri che permettono al
governo di guidare e indirizzare la politica generale del paese, e quindi il Parlamento, l’andamento
dell’economia, i rapporti con gli altri stati, l’opinione pubblica, etc. Tra essi vanno ricordati: 1) l’iniziativa
legislativa del governo, il potere di adottare i decreti-legge e di approvare decreti legislativi, il potere
regolamentare. Attraverso questi il governo partecipa alla produzione di nuove regole, affiancandosi e
sostituendosi al Parlamento. 2) Il potere di manovrare la spesa pubblica attraverso il bilancio dello Stato, sia
nella fase della determinazione astratta della previsione di spesa (ad es. con la fissazione del livello del
deficit pubblico) sia nella fase della gestione del bilancio (ad es. accelerando o ritardando alcune spese
pubbliche); il potere di controllare il credito attraverso il ministro dell’Economia e delle finanze e la Banca
d’Italia. Questo potere oggi, dopo la creazione del sistema europeo delle banche centrali e della banca
centrale europea, è ridotto, perché subordinato alle direttive di quest’ultima. 3) La direzione della politica
estera, che è nelle mani del governo, il quale ha bisogno solo del consenso di massima del Parlamento sulle
grandi scelte, ma gestisce poi in proprio la parte più incisiva di essa. B) Rientrano nel secondo gruppo tutti
quei poteri che confermano che il vero capo dell’apparato burocratico e militare è il governo. 1) Molte
decisioni amministrative definitive, e tutte quelle sulle questioni politicamente, socialmente ed
economicamente più importanti, spettano al governo. 2) Il governo controlla tutti gli altri gradi
amministrativi e militari attraverso il pieno controllo che esso ha sulle persone: è il governo che nomina tali
persone agli uffici più importanti dello Stato, che le trasferisce, che le promuove di grado, etc. In questo
modo il governo in carica si assicura che i posti chiave della pubblica amministrazione delle forze armate
vengano ricoperti da dipendenti statali di sua fiducia. 3) Il governo è il capo della gerarchia entro l’apparato
amministrativo e militare, così che tutte le questioni sulle cose e sugli uomini vengono condizionate da esso.
Molti atti rientranti nei compiti ora elencati vengono formalmente adottati mediante decreto del capo dello
Stato controfirmato dal governo. Grazie a questa forma il capo dello Stato viene informato preventivamente
di tali atti e può influire su di essi mediante consigli e osservazioni, ma la proposta e la decisione sostantiva
di questi spettano al governo. 4) Il governo comanda l’uso della forza armata che trova limiti nelle leggi, che
però lasciano ampio potere discrezionale al governo. Non è affatto ovvio che a comandare l’uso della Forza
armata sia sempre il governo: vi sono nella storia ripetuti tentativi del Parlamento di assumere in proprio
questa decisiva funzione, tentativi regolarmente soverchiati dalla riassunzione dell’uso della forza da parte
dello stesso apparato attraverso un soggetto non immediatamente rappresentativo del popolo (es. tentativo
dell’assemblea nazionale francese del 1848). C) Infine, il governo ha ampi poteri di controllo su quasi tutti
gli enti pubblici che agiscono in materie statali e che non fanno parte dello Stato: in questo modo il dirigente
generale dell’insieme dei poteri pubblici statali è il governo; non il Parlamento, che viene informato e può

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

chiedere rendiconto al governo, ma non può direttamente controllare né gli atti né le persone degli enti
pubblici. Più complicato appare oggi il rapporto tra governo da un lato e regioni, province, città
metropolitane e comuni dall’altro; dato che le nuove norme costituzionali introdotte dalla l. cost. 3/01 hanno
aumentato l’autonomia di questi enti rappresentativi nei confronti dello Stato, la direzione politica del
governo nei confronti di essi o non ha strumenti giuridici o ha strumenti più deboli. Non va sottovalutato il
potere sostitutivo che spetta al governo in forza del nuovo art. 120, secondo comma: il governo può
sostituirsi a organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nel caso di mancato
rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per
l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità
economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali,
prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i
poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale
collaborazione.

8) La responsabilità penale dei ministri: l’art. 96 della costituzione, dopo la modifica apportata dalla l.
cost. n. 1 del 1989, oggi dispone: il presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla
carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria,
previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite
con legge costituzionale. Prima di questa legge i ministri, per i reati commessi nell’esercizio delle loro
funzioni, venivano messi in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune e giudicati dalla Corte
costituzionale, che in questo caso aveva una composizione speciale, la stessa è rimasta nel caso in cui si
dovesse giudicare il presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla costituzione. Il
precedente regime aveva mostrato seri inconvenienti: l’estrema difficoltà della procedura; il comportamento
troppo politico della maggioranza del Parlamento in seduta comune, che ha dato impressione di voler
proteggere comunque ministri ed ex ministri, anche se colpevoli; il grave danno istituzionale prodottosi a
causa dell’unico giudizio verificatosi sotto il vecchio regime, che costrinse la Corte costituzionale a dedicare
tutte le sue energie per più di un anno al processo penale in corso, trascurando tutte le altre sue competenze.
Ora qualora l’autorità giudiziaria riceva notizia di un reato commesso da un ministro o un ex ministro
nell’esercizio delle sue funzioni, essa, se ritiene che si deve dar corso al processo, deve sospendere ogni
ulteriore indagine e trasmettere la questione alla camera a cui appartiene (o apparteneva) il ministro (o ex
ministro) (nel caso in cui non appartenga a nessuna camera, la questione va trasmessa al Senato); la camera
investita della questione può negare, con la maggioranza assoluta, l’autorizzazione a procedere, ma solo ove
reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato
costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio
della funzione di governo. Se non si raggiunge la maggioranza assoluta, l’autorizzazione si intende concessa
(c’è una differenza con l’autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari: per questi se non si
raggiunge la maggioranza l’autorizzazione è negata, per i ministri se non si raggiunge la maggioranza
assoluta, la metà più uno, l’autorizzazione è concessa). In tal caso il processo penale riprenderà il suo corso
davanti al giudice competente.

CAPITOLO 13

Il Presidente della Repubblica

1) L’elezione del Presidente della Repubblica: il presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento
in seduta comune integrato da tre delegati per ciascuna regione (tranne la VA che ne ha uno solo), e dura in
carica 7 anni. La partecipazione al collegio elettorale dei delegati regionali (eletti da ciascun consiglio
regionale) è simbolica, sia perché il loro numero complessivo è sproporzionatamente basso per poter influire
sul risultato, sia perché i partiti, dovendo rispettare la prescrizione costituzionale secondo cui almeno un
delegato su tre spetta alle minoranze, o si accordano preventivamente in sede nazionale in modo da ripartirsi
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

i delegati regionali in proporzione alle rispettive forze parlamentari o si dividono i delegati regione per
regione in modo consensuale. Dunque, i rapporti tra i partiti in Parlamento non vengono mutati dalla
presenza dei delegati regionali. Con la scelta di questo collegio elettorale (il Parlamento e i partiti in
Parlamento) il costituente ha voluto ribadire la sua volontà di istituire in Italia una forma di governo
parlamentare. Infatti, riconducendo anche l’elezione del presidente della Repubblica al potere di controllo dei
partiti in Parlamento, il costituente ha cercato di impedire che si costituisse un centro politico indipendente
dal Parlamento, e contrapposto ad esso. Il presidente della Repubblica italiana non ha una sua forza politica
da contrapporre ai partiti in Parlamento e quindi di fronte ad una solida maggioranza parlamentare e ad un
governo da questa sostenuto, svolge un ruolo politico secondario. Non esiste in Italia un partito del
presidente (come esiste ad es. negli USA): non esiste cioè un seguito elettorale e politico molto articolato che
guarda al presidente come alla sua guida, seguito che non coincide quasi mai con uno o più partiti organizzati
ma che è ugualmente efficace politicamente giacché costituisce la forza politica propria del presidente degli
USA. Nel dibattito politico è presente da tempo la proposta di far eleggere il capo dello Stato direttamente
dal corpo elettorale. Questa proposta non va confusa con l’altra di far eleggere direttamente dal corpo
elettorale il presidente del Consiglio dei ministri. Nel primo caso non è chiaro se con questa proposta si vuol
fare del presidente della Repubblica il capo dell’esecutivo, a somiglianza degli Stati Uniti, e quindi
introdurre in Italia la forma di governo presidenziale al posto di quella parlamentare; o se, accanto al
presidente della Repubblica eletto dal popolo, resta il governo fondato sulla fiducia del Parlamento (creando
una forma di governo simile a quella della V Repubblica francese). Nel secondo caso non è chiaro se questa
elezione diretta ha da essere contestuale a quella del Parlamento, e costruita in modo che l’elezione del primo
ministro trascina con sé la maggioranza politica (esiste cioè un premio in seggi al partito o ai partiti che si
sono collegati ufficialmente col primo ministro eletto, tale da dare ad esso o ad essi tanti seggi da assicurare
loro la maggioranza in Parlamento), o se è possibile che la maggioranza nelle camere sia diversa da quella
che ha eletto il primo ministro. In tutte queste ipotesi, la forma di governo attuale verrebbe sostituita da una
diversa forma.

2) Ruolo e significato della qualità di capo dello Stato: se i costituenti si sono preoccupati di non creare un
organo costituzionale che potesse svolgere un ruolo politico indipendente rispetto al Parlamento, nonostante
che esso sia positivamente chiamato capo dello Stato; se l’organo costituzionale che sta a capo dell’apparato
dello Stato e che per questa ragione è responsabile innanzi al Parlamento è il governo, perché questi stessi
costituenti hanno conservato la figura del presidente della Repubblica capo dello Stato? Innanzitutto, capo
dello Stato è una qualità dell’organo presidente della Repubblica, una qualità necessaria, per cui, se c’è
presidente della Repubblica, questo non può non essere capo dello Stato. Però il nome ufficiale dell’organo è
presidente della Repubblica e l’essere capo dello Stato è una sua qualità. Anche la nostra Costituzione
menziona tale qualità e l’attribuisce solennemente al presidente della Repubblica, riprendendo la tradizione
dello statuto albertino (art. 87 cost.; art. 5 statuto albertino); in generale però le costituzioni moderne non
usano questa denominazione (es. la costituzione della V Repubblica francese). In definitiva l’espressione
capo dello Stato designa uno specifico ruolo politico costituzionale. Contrariamente ad un pregiudizio
comune non è vero che capi di Stato hanno comunque da esistere: è dimostrabile che tale figura non è
necessaria, e sono esistiti ed esistono stati senza capo. Alle origini lo stato si presenta assoluto, e cioè come
un apparato monopolizzatore della forza svincolato da ogni controllo da parte di soggetti che derivino il loro
potere dalla società. La forma istituzionale tipica per realizzare questo risultato è stata la monarchia chiamata
assoluta. Essendo stabile nel tempo, indipendente da ogni altro soggetto e unitaria, la monarchia garantiva
l’unità e la stabilità dello stato. In questo periodo il re è il capo dello Stato. Egli comanda tutto l’apparato
civile e militare e ne garantisce sia la stabilità nel tempo che l’unità di indirizzo e di comando. La monarchia
assoluta però non costituiva la forma di governo più appropriata per lo stato, tanto che la borghesia, una volta
distrutto il potere feudatario con l’appoggio della monarchia, tende a dirigere direttamente il suo stato
attraverso quello che è il suo strumento peculiare: il Parlamento (censitario, e cioè borghese). La monarchia
assoluta era destinata a cedere il passo a forme di governo non più assolute, ma che rispondevano del loro

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

operato davanti ad organi rappresentativi. Questo processo mostra un andamento analogo e significativo in
quasi tutti i principali paesi: ad una prima fase di rottura violenta, che in alcuni casi abolisce la monarchia,
subentra una fase di compromesso, più stabile e duratura; ad una prima fase in cui il Parlamento concentra in
sé tutto il potere, subentra una fase in cui viene riconosciuta una relativa indipendenza dell’esecutivo.
L’espressione istituzionale di questo compromesso è data dalla coesistenza al vertice dell’apparato statale di
due soggetti: il re, non più assoluto e il governo. Il re non può più agire da solo, ma deve agire sempre con il
consenso dei ministri; i ministri a loro volta sono responsabili davanti al Parlamento, e dunque consigliano il
re in modo da rispondere alla volontà e alle tendenze predominanti in Parlamento. In tal modo si apre una
fase in cui il re non può decidere come vuole, ma neppure i ministri possono decidere contro la volontà del
re. Questa diarchia è instabile e transitoria. Con l’affermarsi della borghesia nella società la bilancia doveva
pendere a favore dei ministri e del parlamento. In conclusione, anche se dopo la fine della monarchia
assoluta i sovrani hanno mantenuto alcuni poteri, questi poteri si sono via via ridotti a pura forma a vantaggio
del potere effettivo dell’organo governo e dell’organo Parlamento, legati dal rapporto di fiducia. La
borghesia, nel prendere direttamente il potere, si è accorta che essa doveva conciliare due esigenze
contraddittorie: da un lato doveva garantire la concorrenza politica tra le sue diverse tendenze, e tra diversi
partiti rappresentanti diverse classi e diversi blocchi tra classi sociali, e quindi doveva garantire la possibilità
di mutare continuamente governo, in ogni momento; dall’altro lato però stava l’esigenza di garantire la
stabilità e l’unità dell’apparato statuale, impedendo che ogni crisi di governo si trasformasse in crisi dello
Stato. Questa esigenza era tanto più forte e imperiosa quanto più la società era divisa, come erano le società
europee. Il capo dello Stato serve a questo: a garantire l’unità e la stabilità dello Stato a fronte della continua
mutabilità del governo. Si ha quindi questa divisione dei compiti: il governo ha la direzione attiva
dell’apparato, e, finché è in carica, ha il monopolio quasi totale di questa direzione dell’apparato; il capo
dello Stato diventa attivo in periodi di crisi, perché a lui spetta risolverle, è lui lo strumento istituzionale di
riserva destinato a questo scopo. Su questa base è inevitabile che in ciascun paese si innestino tendenze
diverse e complicazioni molteplici, riconducibili a due filoni: nel primo, se e perché la pace sociale è stabile
e sicura, la funzione di capo dello Stato diviene sempre più simbolica, fino al punto che il capo dello Stato è
divenuto realmente simbolo vivente dell’unità dello Stato e nulla di più. Invece, in quei paesi dove i conflitti
sociali sono laceranti, la funzione di garante dello Stato esige un intervento continuo del capo dello Stato, e
quindi sia i costituenti, sia la pratica applicazione delle norme costituzionali tendono a dotare il capo dello
Stato di incisivi poteri, che spesso si scontrano con quelli del governo e del parlamento. In conclusione, la
qualità di capo dello Stato, spettante a quell’organo costituzionale che formalmente sta a capo dell’apparato
civile e militare mentre la direzione sostanziale dell’apparato spetta al governo, sta ad indicare il ruolo di
garante della unità e continuità dello Stato e quindi il ruolo di organo di riserva che costituisce l’ultimo
rimedio contro i pericoli della disgregazione e della crisi dello Stato. Negli USA invece manca proprio la
distinzione tra governo e capo dello Stato, tipica dei governi parlamentari; posto che la funzione principale
ed essenziale del presidente degli USA è quella di governare, nei governi presidenziali manca proprio la
specifica funzione di capo dello Stato nel senso europeo: manca proprio la funzione di garanzia istituzionale
nei confronti delle crisi politiche, funzione che nei governi parlamentari si incarna in uno specifico organo
distinto da tutti gli altri. Questa particolarità rinvia alle origini degli USA. La democrazia radicale, cioè un
regime politico che tende a rimettere tutto il potere al popolo, entra in conflitto con la figura del capo dello
Stato e ne impedisce la permanenza. Ogni esperienza storica di democrazia radicale ha abolito l’organo capo
dello Stato. Se il sovrano è il popolo, non c’è posto per un capo dello Stato, cioè per un altro sovrano,
neanche come simbolo. Capo dello Stato nelle democrazie radicali è lo stesso popolo, mentre lo stato viene
concepito come l’apparato al servizio del popolo. Garante dell’unità e continuità dello Stato è il popolo, non
un organo dello Stato. La costituzione americana non conosce il capo dello Stato in senso proprio (cioè un
organo distinto dal governo, incaricato di incarnare istituzionalmente lo stato nel suo insieme), perché tale
costituzione fu elaborata ed approvata in tempi in cui correnti di democrazia radicale erano abbastanza forti
da impedire la ricostituzione sotto mentite spoglie della figura del monarca. La costituzione sovietica prima
della riforma del 1988 non conosceva la figura del capo dello Stato nel senso proprio delle democrazie
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

occidentali, e solo per vaga analogia veniva definito tale il presidium del soviet supremo. In realtà il
presidium del soviet supremo era diverso da un qualsiasi capo dello Stato della tradizione europea
occidentale. Il presidium era contemporaneamente organo legislativo, governativo e giurisdizionale; però,
come tutti gli organi dello Stato sovietico, dipendeva dal partito comunista, che era il vero capo dello Stato,
in fatto e in diritto. Con la riforma del 1988 la figura di presidente dell’URSS aveva acquistato una certa
autonomia costituzionale, anche se l’autorità della carica dipendeva dal fatto che il titolare era anzitutto capo
del partito. Oggi, scomparsa l’URSS, si sono costituiti diversi stati, il più importante dei quali è la Russia.
Nella Russia esiste la carica di presidente della Federazione russa, e vige una forma di governo
apparentemente presidenziale (la confusione e l’incertezza sono tali che oggi è difficile caratterizzare
correttamente sul piano costituzionale questo stato). La Repubblica popolare cinese con la costituzione del
1975 abolì la figura del presidente della Repubblica (la reintrodusse però con la costituzione del 1982). In
ogni caso un qualche organo statale deve pur continuare ad esercitare alcune funzioni tipiche e tradizionali
dei capi di Stato: ad es. la rappresentanza dello Stato verso gli altri stati. In questo senso anche la Repubblica
popolare cinese del 1975 aveva un capo dello Stato, e precisamente il comitato permanente dell’assemblea
nazionale, che svolgeva funzioni di rappresentanza internazionale. Ma la peculiarità della figura del capo
dello Stato sta proprio nel fatto che ad uno specifico organo, distinto da tutti gli altri per questa essenziale
funzione, viene attribuita la funzione di ultimo garante dell’unità e continuità dello Stato. Questo specifico
ruolo, distinto da quello del governo e incarnato in un apposito organo, si ritrova in Gran Bretagna col
sovrano, in Italia o nella Repubblica federale tedesca e in altre repubbliche col presidente della Repubblica,
così che questi soggetti sono capi di Stato in senso proprio. Questa stessa funzione non si trova a proposito
del presidente degli USA o del presidium del soviet supremo: ricevono onori dovuti ai capi di Stato nei
rapporti internazionali, ma nel loro proprio ordinamento non svolgono quella funzione e non ricoprono quel
ruolo proprio dei capi di Stato (sono organi attivi di governo). Da questa vicenda problematica nasce
l’ambiguità della figura dei capi di Stato: essi sono organi che non dovrebbero agire se il sistema funziona
fisiologicamente; al contrario, quando agiscono molto, è segno di crisi e proprio per questo l’attività del capo
dello Stato si scontra con altri organi costituzionali e tende a scavalcarli. Questa duplice potenzialità dei capi
di Stato spiega il ruolo oscillante nel tempo di questo organo, e la sua sostanziale ambiguità politica, che non
dipende dalla qualità degli uomini, ma dalla natura della carica; carica che comunque svolge un ruolo
conservatore e di freno, giacché è nella sua natura quella di garantire lo stato, cioè l’equilibrio esistente, lo
status quo.

3) Caratteristiche significative della carica di Presidente della Repubblica: una prima caratteristica sta
nel fatto che si tratta di un organo monocratico, composto cioè da una sola persona. Un caso di capo dello
Stato non monocratico si trova nella Repubblica di San Marino, nella quale la carica di capo dello Stato è
ricoperta dai due capitani reggenti. Il capo dello Stato è organo monocratico perché solo essendo uno
fisicamente può materialmente impersonare l’unità dello Stato, e può svolgere la sua funzione di ultimo
garante. Inoltre, questa caratteristica permette di decidere rapidamente senza sottostare a lunghe e talvolta
disastrose mediazioni con altri soggetti. Seconda caratteristica della carica è la sua durata nel tempo: 7 anni,
tantissimo se paragonata al tempo medio di durata dei governi e in ogni caso superiore a quella delle camere.
Solo i giudici della Corte costituzionale durano di più (9 anni). Presidente della Repubblica e Corte
costituzionale sono stati costruiti e previsti come organi di garanzia, e proprio per questo come organi
duraturi nel tempo, affinché attraverso la loro stabilità venisse garantita la stabilità dello Stato e del suo
ordinamento. In base al principio democratico, anche la carica di presidente della Repubblica ha da essere
elettiva, e dunque deve durare non tanto a lungo da non essere in qualche modo sottoposta a controllo
popolare. Il punto di conciliazione tra le due contrastanti esigenze (principio democratico che vuole le
cariche a tempo determinato, e stabilità, che vuole le cariche quanto più durature possibile) è stato trovato
empiricamente in 7 anni, per volontà del costituente. Terza caratteristica è l’alta maggioranza richiesta per
l’elezione. La costituzione esige che nelle prime tre votazioni si debba raggiungere la maggioranza dei 2/3
dell’assemblea (di tutti gli aventi diritto a partecipare all’assemblea), e dalla terza in poi la maggioranza

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

assoluta (cioè la metà più uno, calcolata sugli aventi diritto). Attraverso questa maggioranza si vuole
impedire che il presidente della Repubblica sia un uomo imposto da un solo partito. La costituzione non
prevede un modo per risolvere il caso in cui il Parlamento in seduta comune non riesce a raggiungere la
maggioranza prescritta rispetto ad alcun candidato. Le votazioni proseguono ad oltranza finché una
maggioranza riesce a costituirsi. È accaduto così che per lungo tempo, fino al 1978, è aumentato il numero
delle votazioni necessarie e dei giorni richiesti. Nel 1985 con l’elezione di Cossiga dopo Pertini si è assistito
ad un mutamento: il nuovo presidente è stato eletto nella prima votazione con la maggioranza superiore ai
2/3. Mutato il clima politico, l’elezione del presidente della Repubblica è tornata ad essere una vicenda
tormentata, e il presidente Scalfaro è stato eletto con la maggioranza assoluta dopo numerosi giorni e
numerose votazioni che hanno visto scontri drammatici. Nel maggio del 1999 il nuovo presidente Ciampi è
stato eletto nella prima votazione. Nel maggio del 2006 è stato eletto Giorgio Napolitano, nella quarta
votazione con la maggioranza assoluta; nell’aprile 2013 Napolitano è stato eletto una seconda volta (a
testimonianza del difficile stato della situazione politica italiana) al sesto scrutinio (prima volta dal 1948 che
un presidente della Repubblica è stato rieletto). Napolitano ha accettato la rielezione al fine di superare un
impasse grave, ma non vuole concludere il secondo settennato, così diede le dimissioni due anni dopo, con
conseguente elezione (con la maggioranza assoluta) dell’attuale presidente Mattarella. Ogni cittadino
italiano, uomo o donna, purché abbia compiuto i 50 anni e goda dei diritti civili e politici (quindi sia iscritto
nelle liste elettorali), può essere eletto presidente della Repubblica: in fatto solo parlamentari sono stati eletti
presidente della Repubblica dal 1948 al 1999. La ragione di questa regola non scritta è facile da
comprendere: premesso che in Italia tutti gli uomini politici autorevoli siedono in Parlamento e non esiste
uomo politico di qualche peso che non sia parlamentare, i partiti potranno essere indotti a scegliere una
persona al di fuori del Parlamento e cioè al di fuori dei dirigenti di partito, solo in due ipotesi estreme: che la
carica sia a tal punto simbolica ed inefficace che nessun uomo politico di un certo peso voglia occuparla; o
che il sistema dei partiti versi in una tale crisi da dover ricorrere ad un arbitro al di fuori di essi, cosa che i
partiti normalmente evitano di fare finché è loro possibile, perché sarebbe una confessione di impotenza e
una perdita di forza di prestigio. Proprio questa seconda evenienza si è verificata nel 1999 e questo spiega
perché per la prima volta sia stato eletto presidente della Repubblica un non parlamentare (era stato però
governatore della Banca d’Italia e presidente del Consiglio dei ministri, dunque per essere eletti bisogna
essere comunque una persona ben conosciuta e di prestigio). Per la elezione a presidente della Repubblica
non sono richieste candidature legali, cioè non esiste alcun atto ufficiale da cui risulta che una certa persona
concorre alla carica (e in base al quale solo le persone legalmente candidate possono essere votate, come
accade nelle elezioni politiche generali). Questa particolarità genera un problema. Se è stata votata una
determinata persona e non un’altra che porta lo stesso nome, tenendo presente che i votati principali sono
sempre parlamentari, la convenzione universalmente accolta prescrive che si intende votato quel
parlamentare che ha quel nome scritto sulla scheda. Se poi vengono votate anche persone al di fuori del
Parlamento, il presidente dell’assemblea attribuisce il voto se il votato è una personalità nota; se il votato non
è univocamente individuabile per questa sua notorietà o è stato votato per scherno, allora il presidente
dell’assemblea dichiara nullo il voto. La mancanza di candidature legali ha lo scopo di non limitare la scelta
del Parlamento: questo può liberamente eleggere chi meglio crede. In questo modo si impedisce che si
scateni una concorrenza tra candidati per l’elezione e che la carica appaia in tal modo apertamente
politicizzata. Intenzione confermata dal fatto che né i partiti né i candidati ufficiosi enunciano programmi,
appunto perché il presidente della Repubblica deve apparire, e deve entro certi limiti realmente essere, al di
sopra dei partiti, giacché solo in tal modo può acquistare tanta autorità da svolgere la sua funzione principale
ed essenziale di garante dell’unità e continuità dello Stato. Un presidente della Repubblica che si candida
ufficialmente a tale carica, una lotta aperta e legalizzata per la carica, la formulazione di programmi
contrapposti e diversi, sono tutti fatti che denuncerebbero una precisa volontà politica, inevitabilmente di
parte, e quindi entrerebbero in aperta contraddizione con la carica, che invece deve apparire politica su un
piano superiore a quello delle lotte partitiche di ogni giorno. La politicità della carica deve riguardare gli
interessi fondamentali e permanenti dello Stato come ente unitario e stabile nel tempo. La carica di
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica, cioè non solo con le altre cariche
politiche, ma anche con qualsiasi altro ufficio pubblico, con attività private che comportano fini di lucro, o
comportano funzioni dirigenti o posizioni di subordinazione. La ragione di questa incompatibilità si spiega
appunto con il ruolo del presidente della Repubblica il quale, dovendo essere ed apparire al di sopra di ogni
interesse contingente e particolare, non può mescolare il suo ufficio con altri che in qualche modo facciano
nascere il sospetto di un suo esercizio non pienamente disinteressato e libero. Il presidente della Repubblica
decade da deputato, o da sindaco e simili, e alla scadenza del suo mandato di presidente della Repubblica
non riacquista la vecchia posizione; però viene sospeso da professore universitario o da avvocato, e simili, e
alla scadenza può riprendere l’esercizio di queste professioni.

4) Sulla responsabilità politica del Presidente della Repubblica: il presidente della Repubblica non è
responsabile politicamente in via istituzionale, e neppure in via diffusa. Non è responsabile istituzionalmente
perché nessuno può rimuoverlo dalla carica per ragioni politiche e nessuno può chiedergli rendiconto né lui è
obbligato a rendere conto a chicchessia. È stato sostenuto che una forma di responsabilità politica esiste
comunque e si manifesta alla scadenza del settennato, col giudizio implicito che il Parlamento in seduta
comune può dare sull’operato del presidente uscente non rieleggendolo. Questa opinione non appare fondata,
e vale la pena di confutarla. Per meglio comprendere la questione esaminiamo la responsabilità politica che
grava sul presidente degli USA. Anche il presidente degli USA viene eletto a tempo determinato (quattro
anni) e prima della scadenza non può essere revocato da chicchessia per ragioni politiche (può essere
destituito, ma se e perché ha commesso un reato). Apparentemente la posizione del presidente degli USA
sembra analoga a quella del presidente della Repubblica italiana per quanto riguarda l’aspetto che qui si
tratta. In realtà il presidente degli USA viene considerato universalmente responsabile per la sua politica e
per questa ragione: riceve continue critiche e deve continuamente rendere conto o attraverso pubbliche
dichiarazioni o attraverso i rendiconti davanti al congresso dei suoi subordinati e collaboratori; per questa
ragione, se egli si ripresenta candidato alle successive elezioni, la sua rielezione o non rielezione viene intesa
da tutti come giudizio negativo sulla sua politica, e quindi come concreta e ultimativa vicenda del rapporto di
responsabilità politica che lega il presidente al popolo americano; se egli non si ripresenta, allora il giudizio
negativo sul presidente uscente si ripercuote sul candidato del suo stesso partito, e tutti ammettono che la
vittoria e la sconfitta di quest’ultimo dipende per buona parte dal giudizio sul suo predecessore, così che
ugualmente in questo caso si ha una manifestazione di responsabilità politica. Il presidente della Repubblica
italiana riceve scarse e sporadiche critiche e non deve rendere conto a nessuno, né direttamente, né
indirettamente attraverso i suoi subordinati. Inoltre, il presidente uscente, di regola, non si candida neanche
ufficiosamente, e comunque esiste ormai un’opinione consolidata per cui è opportuno che egli non venga
rieletto. Infine, non esiste, e non deve esistere, alcuna continuità o rapporto politico tra presidente uscente e
nuovo eletto, così che in nessun caso il giudizio negativo su un candidato può essere interpretato come
giudizio anche rispetto al presidente uscente. Insomma, la elezione del successore è tutto meno che un
giudizio istituzionalmente previsto per far valere la responsabilità politica del presidente uscente. La
tendenza dominante tra le forze politiche è quella di sottrarre il capo dello Stato alle critiche per quanto è
possibile, e quindi di escluderlo anche dalla responsabilità politica diffusa. Questa regola è il risvolto di
un’altra regola convenzionale secondo cui il capo dello Stato deve comportarsi in modo da non ricevere
critiche (deve o limitarsi a funzioni puramente simboliche, o agire col consenso del governo che con la sua
responsabilità copre l’azione del capo dello Stato). Secondo il principio democratico la responsabilità
politica corrisponde al potere politico, e di tanto si estende il potere di quanto si estende la responsabilità
politica. Il fatto che le forze politiche tendono ad escludere dalla responsabilità politica anche diffusa il capo
dello Stato non è un vantaggio che esse intendono accordare a lui, ma il contrario: esse in tal modo chiedono
implicitamente al capo dello Stato di astenersi dall’intervenire nella politica attiva. Poiché è quasi inevitabile
che in questa o quella occasione il capo dello Stato incroci la politica dei partiti e prenda posizione, e poiché
è accaduto che i presidenti della Repubblica siano intervenuti nelle polemiche politiche con iniziative
giudicate, da alcuni partiti, di parte e non rispondenti alla funzione di capo dello Stato, inevitabilmente in tali

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

occasioni il capo dello Stato ha ricevuto delle critiche, cioè la tendenza ad escluderlo dalla responsabilità
politica diffusa ha subito delle eccezioni. È interessante notare però che in tali casi le critiche assumevano un
carattere più di legittimità che di merito: non tanto si contestava il contenuto di ciò che il capo dello Stato
sosteneva e proponeva, quanto l’ammissibilità stessa e la legittimità della iniziativa (differenza con le
critiche politiche rivolte all’organo governo: criticando il governo si critica il contenuto della sua azione).
Sembra che le forze politiche ragionino così: o il capo dello Stato si è mantenuto nei limiti della sua funzione
e allora non deve ricevere critiche, o ha ecceduto ma allora le critiche riguardano proprio questa violazione
di un principio costituzionale non scritto. La critica dunque da critica politica tende a divenire critica di
ordine giuridico formale. Se però la situazione politica diventa instabile, gli interventi del capo dello Stato
nelle questioni politiche all’ordine del giorno diventano più frequenti; in tal caso allora aumentano di
necessità le occasioni di dissenso da parte delle forze politiche nei confronti del capo dello Stato, e quindi le
critiche pubbliche, apertamente politiche. Si giunge quindi ad un punto in cui la differenza fra governo
(politicamente responsabile) e capo dello Stato (tendenzialmente irresponsabile perché al di sopra delle parti)
scompare, dunque anche il capo dello Stato diventa politicamente responsabile alla pari di altri soggetti
politici, e perciò non può più essere considerato al di sopra delle parti (è quanto si sta verificando dal 1992 ad
oggi).

5) La controfirma ministeriale: l’istituto che meglio caratterizza il ruolo del capo dello Stato nei confronti
del governo è la controfirma ministeriale. L’art. 89 della costituzione dispone: nessun atto del presidente
della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità.
Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal presidente del
Consiglio dei ministri. Dal punto di vista formale la controfirma si presenta come una firma apposta dal
ministro accanto a quella del presidente della Repubblica. Però quali poteri esercita o può esercitare il
ministro con l’apporre la sua firma accanto a quella del capo dello Stato? Per capire la realtà dell’istituto
bisogna rifarsi alla sua storia. La decisiva rottura del potere assoluto del sovrano si ebbe quando il
Parlamento inglese impose la regola secondo cui il re non poteva agire senza il consiglio di un ministro. In
tal modo il sovrano non poteva non mediare con questi altri. Successivamente si affermò una regola ulteriore
per cui non solo il sovrano doveva agire sempre col consiglio dei suoi ministri, ma tali ministri dovevano
godere la fiducia del Parlamento. In tal modo diviene istituzionale che i consiglieri del re rappresentavano la
maggioranza parlamentare. Questo peculiare modo di agire conobbe un evitabile sviluppo a vantaggio dei
ministri e quindi del Parlamento. Se i ministri erano responsabili penalmente, civilmente e politicamente
degli atti del sovrano da essi approvati, mentre il sovrano era irresponsabile (secondo la regola per cui il re
non può far male), era inevitabile che i ministri con la responsabilità rivendicassero il potere politico
corrispondente. Rivendicazione imposta da importanti ragioni politiche, connesse con l’affermarsi prima
dello Stato liberale e poi dello Stato democratico: il principio cioè per cui il potere politico deriva dal popolo
e dunque detiene il potere politico chi risponde del suo esercizio innanzi all’organo rappresentativo del
popolo. In conclusione, al termine di questo processo, l’atto formalmente continua a provenire dal re, ma in
sostanza viene deciso dal suo ministro. Quando questo sistema di governo fu ripreso in Europa, si stabilì che
ogni atto del capo dello Stato venisse controfirmato dal suo ministro, pena la sua invalidità: la controfirma
era la prova formale e la garanzia ad un tempo che effettivamente il ministro aveva collaborato all’atto. La
controfirma oggi significa esattamente il contrario di quello che appare: all’apparenza l’atto viene deciso dal
capo dello Stato e il ministro appare in posizione subordinata; nella sostanza il ministro nella quasi totalità
dei casi all’iniziativa dell’atto, lo propone, e la sua proposta di regola costituisce la decisione definitiva alla
quale il capo dello Stato si associa firmando l’atto che solo così diventa giuridicamente valido. Il solo fatto
che un atto non diventa valido se non è firmato dal capo dello Stato significa perlomeno che il capo dello
Stato viene informato di tale atto prima che esso divenga efficace (privilegio, rispetto ad altri soggetti, di non
piccolo peso). Però questa preventiva informazione significa che il capo dello Stato può far conoscere il
proprio parere al governo. Questa possibilità ha un minimo di efficacia perché un parere del capo dello Stato
ha pur sempre autorità morale ed esige una risposta; inoltre perché si tratta di un intervento tempestivo, che

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CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

avviene prima della perfezione dell’atto, e quindi con la possibilità che l’atto venga ritirato o modificato con
semplice rideliberazione del governo o del singolo ministro; infine il capo dello Stato di fatto può rifiutare la
firma, cioè bloccare la decisione, e contro questo suo rifiuto non esistono veri rimedi giuridici. Ammettiamo
che il rifiuto assoluto del capo dello Stato di firmare quel determinato atto non sia opportuno o sia
illegittimo: la semplice possibilità che il capo dello Stato abbia questa arma potenziale e che contro questa
arma non vi siano rimedi giuridici efficaci, basta se non altro a dare autorità alla sua carica, così che non è
vero che il suo intervento sia puramente formale: il capo dello Stato, se lo ritiene opportuno, può perlomeno
chiedere un riesame dell’atto, può presentare delle obiezioni, suggerire delle modificazioni (salvo poi a
cedere di fronte ad un’ultimativa decisione del governo). Ormai convinzione unanime è che, rispetto ad
alcuni determinati atti, il capo dello Stato può fare di più, nonostante la pur sempre necessaria controfirma.
Nello schema di rapporto fin qui delineato il capo dello Stato, pur potendo intervenire nel contenuto
dell’atto, si trova però in una posizione secondaria rispetto al ministro, giacché l’iniziativa dell’atto spetta
solo al ministro. Il capo dello Stato cioè deve aspettare una concreta proposta del ministro, e solo allora può,
se lo ritiene opportuno, far conoscere il suo parere e chiedere eventualmente modificazioni. Questo vuol dire
che il ministro ha una posizione di preminenza giacché: delimita i termini della discussione; cioè comanda il
gioco; proprio per questo spetta a lui fare nuove proposte di fronte alle obiezioni ed ai consigli del capo dello
Stato, con la conseguenza che di regola il capo dello Stato dovrà accettare la proposta ultima del governo. In
definitiva, se il governo è forte, non accadrà mai che esso non riesca ad imporre la sua decisione anche
contro il parere del presidente della Repubblica. Questa conclusione vale come regola generale rispetto alla
grande maggioranza degli atti del presidente della Repubblica. Gli atti del capo dello Stato che rientrano in
questa categoria vengono chiamati atti ministeriali per sottolineare che essi, pur essendo imputati
formalmente al capo dello Stato, per la sostanza sono atti la cui decisione spetta prevalentemente al ministro
proponente. La pratica e la dottrina però affermano che ci sono atti del capo dello Stato rispetto ai quali è
prevalente la decisione dello stesso capo dello Stato: questi atti vengono chiamati presidenziali. La Corte
costituzionale nella sua composizione ordinaria è composta da 15 membri, 5 dei quali vengono eletti dal
Parlamento in seduta comune, 5 dalle supreme magistrature dello Stato, 5 infine vengono nominati dal
presidente della Repubblica (art. 135 cost.). Secondo la costituzione è evidente che la quota dei giudici
spettante al Parlamento, e quindi ai partiti, è di 5 giudici. Se si affermasse la pratica per cui 5 giudici di
nomina presidenziale spettano in realtà al governo, allora i partiti di maggioranza, oltre ad eleggere
ovviamente una parte dei giudici spettanti al Parlamento, godrebbero, attraverso il loro governo, di un
vantaggio sproporzionato fino al punto da poter conquistare la maggioranza assoluta della Corte
costituzionale. La Corte allora, da organo imparziale, si trasformerebbe in organo di parte, e cioè in organo
della maggioranza parlamentare. Di fronte a un risultato così pericoloso, si è imposto abbastanza facilmente
il principio secondo cui la nomina dei 5 giudici spetta proprio al presidente della Repubblica, il quale rispetto
a questo atto ha iniziativa piena ed esclusiva, mentre al governo spetta un potere di controllo che deve cedere
di fronte alla prevalente volontà del presidente della Repubblica. La conferma di questo meccanismo si
ritrova nell’art. 4 della 1. 11 marzo 1953 n. 87 che attua questo punto della costituzione. In questo articolo è
significativo che prima si afferma che i giudici della Corte sono nominati con decreto del presidente della
Repubblica, e poi si dice che tale decreto va controfirmato dal presidente del consiglio, a sottolineare che la
controfirma interviene dopo che il presidente della Repubblica ha già deciso. Ragionamento analogo è stato
fatto a proposito della nomina dei 5 senatori a vita che, secondo costituzione (art. 59), spettano al presidente
della Repubblica, il quale può nominare senatori a vita 5 cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi
meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Il presidente della Repubblica prima di promulgare
la legge può rinviarla alle camere con messaggio motivato (e deve promulgare se queste la riapprovano: veto
sospensivo). Anche il rinvio delle leggi va controfirmato, come prescrive la costituzione. Ma che senso
avrebbe attribuire al governo la decisione ultima sulla opportunità o meno di rinviare la legge, dal momento
che questo stesso governo durante il procedimento legislativo entro le camere ha avuto in ogni momento la
possibilità di intervenire? In questo caso il costituente ha voluto dare un potere proprio al presidente della
Repubblica, il quale, non essendo presente e non potendo intervenire nel procedimento legislativo entro le
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

camere, ha solo questo mezzo per far conoscere il suo parere e le sue obiezioni. Di regola quindi l’iniziativa
dell’atto di rinvio e la decisione ultima su di esso spettano al presidente della Repubblica (però non si può
escludere in assoluto che l’iniziativa del rinvio della legge parta dal governo). Rispetto ai messaggi che, a
norma di costituzione, il presidente della Repubblica può inviare alle camere (messaggi che non
accompagnano il rinvio di una legge), valgono considerazioni in tutto simili a quelle svolte rispetto al rinvio
della legge. Gli atti più significativi rispetto ai quali è necessario porsi le domande fin qui esaminate sono la
nomina del governo e lo scioglimento delle camere. Per quanto riguarda la nomina del governo la
problematica della controfirma non può applicarsi a questo caso. Potremmo chiederci se nella nomina
prevale la volontà del capo dello Stato o quella del governo qualora la controfirma degli atti di nomina del
governo spettasse al vecchio governo, qualora cioè il capo dello Stato dovesse seguire le opinioni del vecchio
governo. Però questo è escluso per ragioni politiche ovvie, non avendo alcun senso che un governo privo di
fiducia e cioè non gradito alle camere condizioni la nascita di un nuovo governo che le camere dovranno
accettare. La pratica (resa ufficiale ora dall’art. 1 della l. 400/88) rende chiara questa verità col negare al
presidente del consiglio uscente la possibilità di controfirmare l’atto di nomina del nuovo presidente del
consiglio, che verrà controfirmato proprio da questo ultimo. Il problema peculiare che presenta questo atto è
che il nuovo presidente del consiglio, proprio perché nuovo, non può né proporre in senso proprio né
decidere l’atto di nomina, dal momento che proprio lui ne è l’oggetto e fino a che l’atto non è stato
perfezionato egli non è ancora presidente del consiglio. Questo problema politico si traduce sul piano
giuridico formale nel problema di chi è legittimato a controfirmare l’atto di nomina del presidente del
Consiglio dei ministri. Un autorevole studioso, Esposito, ha risolto questo rebus sostenendo che la nomina è
atto orale del capo dello Stato, come tale ovviamente non controfirmabile, e che il decreto di nomina è
successivo alla nomina e serve solo a certificarla ufficialmente. Nel procedimento di nomina del governo, il
capo dello Stato entra in rapporto essenzialmente con i partiti, soprattutto nella fase dell’incarico, la quale
costituisce quella fase in cui può esplicarsi un potere di condizionamento del presidente della Repubblica.
Nella fase dell’incarico dunque sarà la forza dei partiti a ridurre al minimo o ad annullare ogni influenza del
presidente della Repubblica rispetto alla nomina del nuovo governo; così come sarà l’inesistenza di una
previa maggioranza ad ampliare notevolmente il potere di scelta del presidente della Repubblica, fino al
punto che il governo può diventare presidenziale, e cioè deciso essenzialmente dal presidente della
Repubblica che nomina a presidente del consiglio un uomo scelto da lui, mentre i partiti in Parlamento si
limitano a votare la fiducia per impedire un vuoto governativo, ma non si riconoscono responsabili per tale
governo. In conclusione, la nomina del governo ha poco a vedere con l’istituto della controfirma perché in tal
caso il rapporto politico principale non verte tra presidente della Repubblica e governo (che ancora non c’è),
ma tra presidente della Repubblica e partiti. La controfirma ha in questo caso il valore di accettazione
ufficiale della nomina decisa dal presidente della Repubblica come conclusione di tutto il procedimento di
formazione del governo. Molto più complessa è la problematica della controfirma dell’atto di scioglimento
delle camere. Dello scioglimento delle camere la costituzione si limita a disporre che il presidente della
Repubblica può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le camere o anche una sola di esse. La costituzione
dunque non distingue esplicitamente tra due ipotesi di scioglimento: lo scioglimento normale alla scadenza
dei 5 anni, che è atto dovuto al quale il presidente della Repubblica, e con lui il governo che deve
controfirmare l’atto di scioglimento, non può sottrarsi, e che in sostanza costituisce atto formale privo di ogni
momento discrezionale; lo scioglimento anticipato (art, 88 della cost.) col quale il presidente scioglie le
camere prima del termine normale di scadenza, e cioè, quali che siano le ragioni, modifica il meccanismo
normale ed introduce nella vita politica un oggettivo momento di crisi. In Gran Bretagna per decenni, fino
alla legge del 2011, era la regina a sciogliere anticipatamente la Camera dei comuni, ma vigeva la
convenzione costituzionale per cui era il primo ministro a decidere se e quando sciogliere, e la regina dava
soltanto veste formale a questa decisione. Nel 2011 è stata approvata una legge che toglie al primo ministro
questo potere e stabilisce che la regina scioglie anticipatamente la Camera dei comuni soltanto in due casi: se
lo chiedono i 2/3 della stessa camera, o se, data la sfiducia al governo, i comuni non riescono a formare un
nuovo governo entro 14 giorni. Anche in altri stati a governo parlamentare le costituzioni di tali paesi
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stabiliscono con regole esplicite quando si può o si deve sciogliere anticipatamente il Parlamento. In Italia la
regola di fatto è che, dimessosi un governo, bisogna accertare se è possibile formare un altro governo. Se
questo risulta possibile, allora lo scioglimento anticipato delle camere è impraticabile, giacché
significherebbe da parte del capo dello Stato che firma il decreto di scioglimento e del vecchio presidente del
consiglio privo di fiducia che lo controfirma un atto di guerra contro la maggioranza parlamentare ormai
costituitasi e verificata, cioè una crisi istituzionale risolvibile solo o con la cacciata del presidente della
Repubblica ed il suo governo minoritario o con l’ufficiale subordinazione del Parlamento neo eletto al
presidente della Repubblica, cioè con il rovesciamento del meccanismo parlamentare. Questa stessa regola
convenzionale ci dice che lo scioglimento anticipato non può essere proposto e deciso autonomamente né dal
presidente della Repubblica né dal governo in carica, giacché sono i partiti in Parlamento i quali, constatando
l’impossibilità di formare una maggioranza, aprono la possibilità dello scioglimento anticipato. Nello stesso
tempo però questa possibilità aperta dai partiti deve incontrarsi con la volontà del presidente della
Repubblica, giacché dal punto di vista legale costituzionale è pur sempre il presidente della Repubblica con
atto controfirmato dal presidente del consiglio che decreta lo scioglimento delle camere. In definitiva, anche
nei confronti dello scioglimento vale quanto si diceva a proposito della nomina del governo: più forte è una
maggioranza politica, tanto minori sono le possibilità di influenza del capo dello Stato, e viceversa.
Ugualmente si verifica che rispetto allo scioglimento anticipato il rapporto principale corre tra presidente
della Repubblica e partiti, così che la controfirma del presidente del consiglio all’eventuale atto di
scioglimento rappresenta lo strumento attraverso cui i partiti di maggioranza controllano il capo dello Stato e
condizionano ogni sua decisione in merito, piuttosto che lo strumento attraverso cui l’organo governo,
direttamente e autonomamente, partecipa alla decisione circa lo scioglimento anticipato delle camere. Tutte
queste regole, che circoscrivono il potere di scioglimento del presidente della Repubblica e il connesso
potere di controfirma del governo, sono regole convenzionali. A causa della sentenza della Corte
costituzionale n. 200 del 2006 sulla grazia, bisogna approfondire il tema della controfirma per quanto
riguarda il significato e la portata giuridica di questo istituto fondamentale del diritto costituzionale.
L’opinione dominante dei giuristi ha ritenuto, fin dal 1948, che la controfirma non ha sempre il medesimo
valore giuridico, ed usa dividere gli atti del presidente della Repubblica a volte in due gruppi (atti governativi
ed atti presidenziali in senso stretto), a volte in tre (ai primi due gruppi ne viene aggiunto un terzo, gli atti
duumvirali o complessi eguali, per i quali due soggetti hanno gli stessi poteri), a volte in 4 (dai precedenti
gruppi vengono tolti gli atti dovuti, rispetto ai quali non si può parlare di poteri differenti, ma solo di doveri
eguali), a volte in altro modo ancora. L’aspetto comune a queste classificazioni è che sono di ordine
giuridico, quindi la diversità di potere dell’uno o dell’altro organo può divenire oggetto di controversia
giuridica e quindi di giudizio da parte di un giudice (in particolare della Corte costituzionale in sede di
conflitto tra i poteri). Nel testo Rescigno sostiene che le differenze di potere riscontrabili in base alla prassi
non sono di ordine giuridico ma convenzionale, e quindi non possono diventare oggetto di giudizio da parte
di un giudice: eventuali contrasti tra presidente della Repubblica e governo vanno risolti in sede politica.
Secondo questa interpretazione la controfirma si limita ad attestare ufficialmente che il ministro ha
collaborato con il presidente della Repubblica nella decisione dell’atto. Con la sentenza n. 200 del 2006 della
Corte costituzionale è intervenuto in materia un fatto nuovo di rilevante importanza. La sentenza si è
pronunciata sulla grazia, ma nella motivazione ha dovuto prendere posizioni sul tema generale della
controfirma degli atti del presidente della Repubblica. Era insorto un grave conflitto politico tra presidente
della Repubblica, che riteneva meritevole di grazia un condannato, ed il ministro della Giustizia, che si
dichiarava contrario e quindi non disponibile a controfirmare l’atto. Il presidente della Repubblica aveva
allora sollevato conflitto di attribuzione contro il ministro, sostenendo che la grazia rientrava tra gli atti
strettamente presidenziali, con la conseguenza che il ministro, terminata la fase istruttoria, avrebbe l’obbligo
di controfirmare l’atto di grazia deciso dal presidente della Repubblica. La Corte ha dato ragione al
presidente della Repubblica, collocando non solo l’atto di grazia tra quelli presidenziali, ma prendendo anche
posizione sulla controfirma in generale, accogliendo la tesi dominante che distingue giuridicamente più
categorie di atti del presidente della Repubblica, e distingue tra atti governativi, la cui decisione spetta al
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governo (che il presidente della Repubblica deve firmare), ed atti presidenziali, nei quali il rapporto si
inverte. Questa sentenza, portando alle estreme conseguenze quanto sostenuto dalla dottrina dominante,
dimostra paradossalmente dove sta l’errore di essa: la tesi secondo cui esistono atti presidenziali in senso
stretto rispetto ai quali prevale giuridicamente la volontà del presidente della Repubblica trasforma in questi
casi la controfirma in un parere obbligatorio non vincolante, contro la costituzione (che non dice questo) e
contro due secoli di storia costituzionale europea (che ha visto la controfirma come necessario bilanciamento
nei confronti dei poteri del capo dello Stato). In ogni caso giuridicamente il valore della controfirma è
sempre il medesimo, cioè attestazione che il ministro ha collaborato con il capo dello Stato nella decisione
contenuta nell’atto controfirmato, fermo restando che sul piano convenzionale è ben possibile, e provato
dalla prassi, che in alcuni casi il presidente della Repubblica si limita a svolgere funzioni di controllo ed a
consigliare il governo, ed in altri il rapporto si inverte.

6) I poteri del Presidente della Repubblica: la costituzione elenca i poteri del presidente della Repubblica,
sia in vari articoli sparsi, sia nell’art. 87. Mentre per i costituenti il Parlamento e il governo sono organi a
competenza generale, il presidente della Repubblica ha in principio solo quei poteri enumerati dalla
costituzione. La pratica ha trasferito al presidente della Repubblica tutti i poteri che prima le leggi davano al
re, anche quando tali poteri non erano in alcun modo riconducibili alla previsione costituzionale, e spesso
nuove leggi hanno attribuito poteri ulteriori al presidente della Repubblica. Grazie alla controfirma, si tratta
di poteri puramente formali, mentre la decisione sostanziale di tali atti spetta al governo, ma resta il fatto che
tali poteri non hanno base costituzionale. Dunque, mentre è facile elencare i poteri attribuiti dalla
costituzione al presidente della Repubblica, meno facile è enumerare i poteri che ad esso attribuiscono le
leggi. La l. 12 gennaio 1991, n. 13, ha portato ordine nella materia, elencando in modo tassativo tutti gli atti
amministrativi che vanno emanati con decreto del presidente della Repubblica. Rispetto al futuro, dal 1991 in
poi, la l. 13/91 non può impedire che leggi successive attribuiscono al presidente della Repubblica il potere
di emanare atti amministrativi ulteriori rispetto a quelli elencati in tale legge. Nel silenzio però tali atti
diversi da quelli elencati nella l. 13/91 non spettano al presidente della Repubblica. Dal punto di vista
politico costituzionale sono importanti solo quelli enumerati in costituzione, mentre quelli contenuti nelle
leggi hanno un carattere secondario. I poteri possono essere ordinati in base al criterio del potere su cui essi
incidono in qualche modo (potere legislativo, esecutivo, giudiziario); o in base al criterio della quantità di
potere decisionale che il presidente ha rispetto all’atto; etc. Qui si seguirà il criterio di dividere i poteri
enumerati dalla costituzione secondo la funzione dello Stato sulla quale incidono o con la quale appaiono in
qualche modo collegati, perché è il criterio che chiarisce meglio il ruolo politico-costituzionale di questa
carica. Rispetto al potere legislativo il presidente della Repubblica: convoca le camere in via straordinaria
(art.62); indice le elezioni delle camere e ne fissa la prima riunione (art. 87, terzo comma); nomina 5 senatori
a vita (art. 59, 2° comma); scioglie le camere (art. 88); promulga le leggi (artt. 73 e 87, 5° comma); può
rinviare le leggi alle camere (art. 74); invia messaggi alle camere (art. 87, 2° comma); indice i referendum
popolari (art. 87, 6° comma). Rispetto al potere esecutivo il presidente della Repubblica: ha il comando delle
forze armate, presiede il consiglio supremo di difesa, dichiara la guerra deliberata dalle camere (art. 87, 9°
comma); nomina il presidente del consiglio e i ministri (art. 92); nomina, nei casi indicati dalla legge, i
funzionari dello Stato (art. 87, 7° comma); emana i decreti legge (art. 77), i decreti legislativi e i regolamenti
(art. 87, 5° comma); autorizza il governo a presentare i disegni di legge al Parlamento (art. 87, 4° comma);
concede le onorificenze della Repubblica (art. 87, 12° comma); accredita e riceve i rappresentanti
diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa autorizzazione delle camere quando occorre (art. 87, 8°
comma); scioglie nei casi previsti dalla costituzione i consigli regionali (art. 126). Rispetto al potere
giudiziario il presidente della Repubblica: presiede il consiglio superiore della magistratura (art. 87, 10°
comma e art. 104); può concedere la grazia e commutare le pene (art. 87, 11° comma); nomina 5 giudici
della Corte costituzionale (art. 134 Cost.). Tutti gli atti che costituiscono esercizio dei poteri prima elencati
vanno controfirmati da un ministro o dal presidente del consiglio secondo i casi (sono esclusi dalla
controfirma gli atti che il capo dello Stato compie come membro di un collegio, e cioè come membro del

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

consiglio superiore della magistratura, e come membro del consiglio supremo di difesa: tali atti non sono atti
del presidente della Repubblica, ma atti del collegio a cui il presidente della Repubblica partecipa. Un altro
atto mai controfirmato sono le dimissioni perché si ritiene che esse non siano atto del capo dello Stato, ma
atto personale dell’uomo che ricopre la carica). Poiché la controfirma non ha sempre lo stesso valore, un
altro criterio per raggruppare i diversi poteri può essere quello che si riferisce al rapporto tra presidente della
Repubblica e governo. Così possiamo distinguere tra atti presidenziali, per i quali il presidente della
Repubblica ha iniziativa ed ha il potere decisionale ultimo, ed atti ministeriali, rispetto ai quali il rapporto si
inverte e l’iniziativa dell’atto e la decisione ultima spettano al governo, mentre il presidente della Repubblica
può solo avanzare dubbi e chiedere un riesame. Rientrano nella prima categoria la nomina dei 5 senatori a
vita, la nomina dei 5 giudici della Corte costituzionale, il rinvio delle leggi, i messaggi alle camere. Si
discute sul potere di grazia, sul potere di scioglimento anticipato e sulla nomina del governo: rispetto agli
ultimi due il rapporto principale corre tra presidente della Repubblica e partiti, e la controfirma nell’uno e
nell’altro ha un suo significato molto specifico e particolare, così che questi due casi sfuggono alla divisione
condotta secondo il criterio della controfirma. In ogni caso tutti gli altri atti rientrano nella seconda categoria,
sono cioè atti rispetto ai quali mediante la controfirma la preminenza nella decisione spetta al governo. Altri
criteri di distinzione: 1) atti dovuti, cioè atti che il presidente deve comunque compiere ogni volta che si
verifica il presupposto di fatto indicato dalla costituzione. Sono atti dovuti la promulgazione, dopo la
seconda approvazione delle camere, lo scioglimento ordinario, l’indizione delle elezioni e la fissazione della
prima riunione delle nuove camere, l’indizione dei referendum. 2) Atti discrezionali sia nell’an (se compierli
o no) che nel quantum (con quale contenuto): tale va considerata la nomina dei 5 senatori a vita: il presidente
può nominarli tutti e 5 o solo alcuni, e può nominare le persone che ritiene più degne secondo il suo giudizio.
Vi sono poi atti dovuti nell’an, discrezionali nel quantum: tale la nomina dei 5 giudici della Corte
costituzionale: il presidente deve nominare i giudici di sua spettanza ogni volta che si è reso vacante un
posto, ma può nominare chi vuole. Un altro criterio di divisione può essere quello basato sul fine tipico
dell’atto. Possiamo distinguere atti organizzatori rispetto alle persone (tutte le nomine); atti organizzatori
rispetto a collegi (gli scioglimenti, le convocazioni, l’indizione delle elezioni); atti di iniziativa (i messaggi
alle camere); atti di controllo (il rinvio delle leggi), etc. Vale la pena sottolineare che i poteri del presidente
della Repubblica riguardano contemporaneamente tutti i poteri dello Stato. Il capo dello Stato cioè è
collegato con tutti gli organi costituzionali e con quasi tutti i centri decisivi dello Stato, ed ha un raggio di
azione tanto ampio da ricoprire tutta l’attività più rilevante dello Stato. In tempo di pace sociale questi poteri
diventano tutti o quasi tutti puramente formali. Di fronte ad una solida e sicura maggioranza parlamentare e
ad un governo energico e deciso fondato su tale maggioranza, lo spazio di iniziativa politica e il margine di
libertà del presidente della Repubblica è ristretto. Se la maggioranza è divisa, il governo debole, allora cresce
lo spazio politico e il margine di potere del capo dello Stato, e tutti quei poteri elencati in costituzione
possono divenire lo strumento di una politica presidenziale estesa a tutto l’apparato dello Stato. Questo
spiega perché il capo dello Stato partecipa contemporaneamente a tutti i poteri dello Stato, e proprio per
questo è fuori di tutti.

7) La responsabilità penale del Presidente della Repubblica: la costituzione nell’art. 90 dispone: il


presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne
che per alto tradimento o per attentato alla costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento
in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. (L’art. 134 chiarisce che il presidente della
Repubblica messo in stato di accusa viene giudicato dalla Corte costituzionale). La costituzione prevede
questo regime di eccezione a favore del presidente della Repubblica e rispetto al diritto comune solo per gli
atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. Essa tace rispetto agli atti compiuti fuori dell’esercizio delle
funzioni e non dice nulla di eventuali reati compiuti prima dell’inizio del mandato. Secondo un’antichissima
tradizione i re erano sacri e inviolabili e quindi il re non poteva essere né processato né condannato da
nessuno e per nessuna ragione. Con alcune attenuazioni la sostanza dell’istituto è passata nelle repubbliche
rispetto a quell’organo che in esse ha lo stesso rango del re: il presidente della Repubblica. La ragione di ciò

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

è evidente: se il presidente della Repubblica è il garante dell’unità e continuità dello Stato, questa funzione
verrebbe compromessa se il presidente della Repubblica fosse esposto a condanna penale con conseguente
esecuzione della pena e ad incriminazioni formali, le quali lederebbero il suo prestigio, fino al punto che un
capo dello Stato sfiorato dal sospetto di un reato dovrebbe dimettersi a tutela dell’autorità, integrità e dignità
della carica. È più facile oggi esentare il presidente della Repubblica dalla responsabilità giuridica per atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, perché la gran parte di questi atti sono decisi in sostanza dai
ministri, i quali sono per questo pienamente responsabili anche penalmente. In questi casi dunque, se c’è
stato reato, chi lo ha veramente compiuto è il ministro che ha proposto l’atto. Dunque, il presidente della
Repubblica non sarebbe giuridicamente responsabile neanche se l’immunità di cui si sta trattando non
esistesse. Sta di fatto che questa immunità esiste e copre il presidente della Repubblica rispetto a tutti gli atti
compiuti nell’esercizio delle funzioni, anche rispetto a reati dolosi del ministro conosciuti dal presidente,
anche rispetto a quegli atti che spettano al presidente della Repubblica e non al ministro per quanto riguarda
iniziativa, proposta e decisione finale. Questa irresponsabilità penale è sostanziale; cioè non solo impedisce
che il presidente della Repubblica venga processato, ma impedisce anche che il fatto possa essere
considerato illecito, con la conseguenza che l’uomo presidente della Repubblica resta il responsabile
giuridicamente anche dopo che è cessato il suo mandato. Secondo costituzione l’irresponsabilità riguarda
solo atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, e cioè reati commessi esercitando i poteri e i doveri
previsti dalla costituzione e dalle leggi, o anche reati commessi abusando della sua qualità di presidente della
Repubblica. Non deve trattarsi del reato di alto tradimento e del reato di attentato alla costituzione. Per essi il
presidente della Repubblica risponde penalmente. La costituzione non definisce questi due reati, li nomina
semplicemente. Questo fatto costituisce una deroga al principio di diritto penale stabilito dalla stessa
costituzione con l’art. 25, secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata
in vigore prima del fatto commesso. Questa norma dice che nessuno può essere punito se il fatto per il quale
si pretende di condannarlo non è stato preventivamente individuato dalla legge secondo criteri oggettivi.
Poiché è la stessa costituzione a porre questa deroga a se stessa, lasciando indeterminate le figure del reato di
alto tradimento e attentato alla costituzione del presidente della Repubblica, la cosa non ha nulla di
incostituzionale. L’intenzione del costituente è chiara: colpire quegli atti del capo dello Stato che mettono in
pericolo l’esistenza stessa della Repubblica così come configurata dalla costituzione. Se l’irresponsabilità
penale del capo dello Stato è stata disposta a garanzia dell’unità e continuità dello Stato, è giusto che essa
cessi quando lo stesso capo dello Stato mette in pericolo proprio lui tale unità e continuità. La figura di reato
deve rimanere indeterminata, giacché è impossibile prevedere in anticipo quali specifici comportamenti
dolosi del capo dello Stato possono mettere in pericolo la Repubblica; quello che conta è il fine illecito
perseguito. Saranno il Parlamento in seduta comune in fase di incriminazione, e la Corte costituzionale in
fase di giudizio, a stabilire se certi comportamenti costituivano alto tradimento o attentato alla costituzione
oppure no. Torniamo ai casi in cui il presidente della Repubblica commetta un reato fuori dell’esercizio delle
sue funzioni oppure si sospetta abbia commesso un reato prima della carica. Di fronte a questi due casi non è
vero che il presidente della Repubblica è un cittadino qualsiasi e dunque va trattato come un cittadino
qualsiasi. Le vicende personali che lo riguardano, riguardano inevitabilmente la comunità statale e provocano
ripercussioni di ampia portata nel corpo sociale e nelle istituzioni. In questo caso ci sono due esigenze
contrastanti: una di eguaglianza e di giustizia, che tende ad assoggettare tutti, quindi anche il presidente della
Repubblica, al diritto comune a tutti; l’altra di politica delle istituzioni, che, in nome della stabilità e della
pace sociale, tende a sottrarre alcuni soggetti alla giustizia comune. Se un giudice incrimina il presidente
della Repubblica per un presunto reato commesso fuori dell’esercizio delle sue funzioni, dal punto di vista
politico o il presidente della Repubblica si dimette per tutelare il prestigio della carica non appena viene
incriminato, e dunque l’azione giudiziaria ha alterato un equilibrio politico; o il presidente della Repubblica
resta in carica, ma per tutto il periodo del processo non ha più pienezza di autorità, e dunque si altera il
funzionamento del meccanismo politico costituzionale. Se teniamo presente la ratio dell’istituto della
irresponsabilità, una soluzione che contempera le diverse esigenze può essere questa: il presidente non gode
del privilegio della irresponsabilità per reati commessi fuori dell’esercizio delle sue funzioni o prima del
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

mandato, ma gode del privilegio puramente processuale dell’improcedibilità, che dura finché resta in carica,
così che nessun processo penale può essere iniziato contro di lui. Cessato dalla carica, egli sarà processato
come chiunque. Questa regola mette al riparo la carica da iniziative giudiziarie che potrebbero rivelarsi
avventate e controproducenti; e nello stesso tempo non esenta il presidente della Repubblica dalla
responsabilità penale, giacché al termine del mandato potrà essere processato. Resta il problema tecnico
giuridico di fondare in qualche modo questa soluzione che non ha alcuna base testuale in costituzione. Si
potrebbe invocare l’analogia con i capi dello Stato stranieri. Secondo una regola consuetudinaria di diritto
internazionale i capi dello Stato stranieri non possono essere sottoposti a giudizio in un altro paese, così che
potrebbe estendersi per analogia questa regola allo stesso capo di Stato italiano. Va ricordato che la tesi ora
esposta è minoritaria: la tesi prevalente tra i costituzionalisti è che il capo dello Stato, per i reati commessi
fuori dell’esercizio delle sue funzioni, non gode di alcuna immunità.

8) La supplenza del Presidente della Repubblica: il presidente della Repubblica per una qualsiasi ragione
può essere oggettivamente impedito dall’esercitare le sue funzioni. In questo caso la costituzione (art. 86)
prevede che egli venga supplito dal presidente del Senato (il quale a sua volta viene sospeso dalla sua carica
e sostituito nelle sue funzioni dal vicepresidente del Senato più anziano, in cui l’anzianità è stabilita in base
all’età della carica). La costituzione distingue due tipi di impedimento: l’impedimento temporaneo, cioè
cesserà entro un tempo breve e comunque più breve del periodo di carica che ancora resta al presidente della
Repubblica; l’impedimento permanente, cioè si verifica quando il fatto impeditivo è irreversibile o è certo
che esso durerà più del periodo di carica che ancora resta. Quando si verifica l’impedimento temporaneo la
supplenza dura un tempo indeterminato fino a che il fatto impeditivo non cessa e il presidente della
Repubblica non riassume le sue funzioni (supplenza sede plena, cioè con carica ricoperta); quando si verifica
l’impedimento permanente la supplenza dura un tempo predeterminato, il tempo necessario al Parlamento in
seduta comune per eleggere il nuovo presidente della Repubblica, al qual fine il Parlamento in seduta
comune deve essere convocato entro 15 giorni dall’inizio della supplenza (supplenza sede vacante, cioè con
la carica priva di titolare). La costituzione ha previsto il caso che proprio in tale periodo di sede vacante le
camere siano sciolte o manca meno di tre mesi al loro scioglimento. Per comprensibili ragioni politiche
dettate dal desiderio di fare eleggere il nuovo presidente da camere rappresentative anziché da camere ormai
al termine del loro mandato, in questi due casi vengono prorogati i poteri del presidente supplente fino a che
non si riuniscono le nuove camere, che come primo loro compito dovranno eleggere il nuovo presidente della
Repubblica. L’impedimento può essere dichiarato dallo stesso presidente se è in grado di farlo. Più spinoso il
caso in cui il presidente non voglia o non possa dichiarare da sé tale stato. La costituzione non dice nulla al
riguardo. Questa lacuna è stata eliminata in modo ambiguo nell’unico caso di supplenza non dichiarata dallo
stesso presidente verificatosi fino ad oggi. Nel 1964 l’allora presidente Segni fu colpito da grave malattia, In
quell’occasione l’impedimento (che fu dichiarato temporaneo) fu accertato e dichiarato attraverso un
procedimento complesso, nel quale l’iniziativa venne presa dal segretario generale presso la presidenza della
Repubblica, un accertamento dell’impedimento fu fatto dal Consiglio dei ministri sulla base dei certificati
medici, la dichiarazione ultima di impedimento fu compiuta da un collegio composto dal presidente del
Consiglio dei ministri, dal presidente della Camera e dal presidente del Senato. L’ambiguità della procedura
allora seguita consiste in questo: non è chiaro se l’iniziativa debba partire sempre dal segretario generale e se
l’iniziativa può partire anche da altri, resta incerto da parte di chi e di quanti altri; non è chiaro se la
dichiarazione del collegio composto dal presidente del consiglio, dal presidente della Camera e dal
presidente del Senato si limita a dichiarare l’accertamento compiuto dal Consiglio dei ministri o compie esso
stesso un definitivo accertamento; infine non è chiaro se la procedura seguita, essendo stata applicata in un
caso accertato come impedimento temporaneo, si applica anche ai casi di impedimento permanente. Secondo
Rescigno: l’accertamento è sempre il medesimo in ambedue i casi perché scopo dell’accertamento è anche
quello di verificare se si tratta di un impedimento permanente o temporaneo e non si può scegliere una
procedura diversa in base alla conclusione dell’accertamento, perché nel momento in cui si inizia la
procedura non si può conoscere il risultato; l’accertamento spetta al governo, che è l’organo

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

istituzionalmente vicino alla presidenza della Repubblica e che risponde di ogni suo atto dinnanzi al
Parlamento, così che esso è l’organo che meglio può valutare la situazione e che risponde pubblicamente del
suo operato di fronte all’organo rappresentativo del popolo. La costituzione parifica all’impedimento
permanente la morte del presidente della Repubblica. Anche in caso di dimissione del presidente della
Repubblica si apre la supplenza sede vacante in attesa della elezione del successore. Nulla vieta che date le
dimissioni il presidente dimessosi resta in carica fino alla elezione del suo successore. La costituzione invece
vieta espressamente questa prorogatio, e dispone che anche in caso di dimissioni subentri il supplente. Perché
se anche il presidente della Repubblica potesse usare le dimissioni come un’arma politica, come ad es. il
governo, egli diverrebbe un uomo politico tra i tanti, e non più l’uomo al di sopra delle parti, garante
dell’unità e della continuità dello Stato tutto intero. Ecco perché le dimissioni dei capi di Stato, e del
presidente della Repubblica in Italia, sono irrevocabili e incondizionate, e cioè una volta annunciate
pubblicamente non possono più essere ritirate e non possono essere condizionate al verificarsi di alcun fatto.
Per questa stessa ragione le dimissioni impongono l’uscita di scena del non più presidente della Repubblica,
in modo che la sua presenza alla Suprema carica non intralci e condizioni la elezione del successore,
evitando sospetti, dubbi e timori che le dimissioni nascondano un gioco politico volto a favorire questo o
quel candidato. Si spiega dunque perché i costituenti hanno voluto tale regola ed hanno previsto la supplenza
anche in caso di dimissioni. La costituzione non limita i poteri del supplente. Ciò non toglie però che in via
convenzionale possano individuarsi alcuni limiti ai poteri del supplente, e che in particolare possa sostenersi
che il supplente, proprio perché non è il vero titolare della carica, dovrà rinviare quanto più è possibile tutti
quegli atti che non sono urgenti o doverosi e che possono aspettare senza apprezzabile danno per gli affari
dello Stato, in modo che sia o il presidente della Repubblica non più impedito o il successivo presidente della
Repubblica a deciderli. La posizione giuridica del supplente, affinché eserciti la supplenza, è simile a quella
del presidente supplito: si estendono a lui tutte le norme che riguardano il presidente della Repubblica, da
quella che prevede l’assegno personale a quelle che tutelano il suo onore, alla responsabilità penale
particolare, etc.

9) Assegno e dotazione – Il segretario generale della Presidenza della Repubblica: la costituzione


dispone che il Parlamento con legge attribuisca al presidente della Repubblica un assegno e una dotazione.
Assegno è una somma di denaro che il presidente riceve come fondamento materiale della vita sua e dei suoi
familiari durante il periodo della carica. Dotazione è un complesso di beni immobili e una somma di denaro
annua che vengono amministrati in totale autonomia dalla presidenza della Repubblica per svolgere i propri
compiti istituzionali. Quindi l’assegno viene dato alla persona e diventa sua proprietà privata, la dotazione
viene data alla carica e resta proprietà pubblica, sia pure amministrata dalla presidenza della Repubblica a
garanzia dell’indipendenza e del rango costituzionale dell’organo. La dotazione rinvia all’esistenza di un
piccolo apparato alle dirette dipendenze del presidente della Repubblica e per questa ragione separato da
tutto il resto dell’apparato dello Stato. Questo apparato costituisce lo strumento attraverso cui il presidente
può svolgere i suoi compiti con efficacia. Esso si chiama segretario generale della presidenza della
Repubblica, ed è diretto dal segretario generale alla presidenza della Repubblica, nominato dal presidente
della Repubblica, sentito il Consiglio dei ministri.

CAPITOLO 14

La Corte costituzionale

1) I giudici della Corte: la Corte costituzionale (nella sua composizione ordinaria) è composta da 15
giudici: 5 eletti dal Parlamento in seduta comune, 5 dalle supreme magistrature dello Stato (la l. 11 marzo
1953 n. 87, con l’art. 2 specifica che 3 sono eletti dalla Corte di Cassazione, e uno ciascuno dal Consiglio di
Stato e dalla Corte dei conti), e 5 sono nominati dal presidente della Repubblica. Solo pochi soggetti entro la
comunità sono eleggibili a giudici della Corte: i professori universitari ordinari in materie giuridiche, i
magistrati delle giurisdizioni superiori ordinarie e amministrative, gli avvocati dopo 20 anni di esercizio.
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

Questa regola è significativa perché sottolinea il carattere specialistico e professionale dell’organo, il quale
deve essere composto da persone specializzate rispetto a questa particolare tecnica. I giudici eletti dal
Parlamento in seduta comune devono essere eletti nelle prime 3 votazioni con la maggioranza dei 2/3 e nelle
successive con quella dei 3/5 (calcolata sugli aventi diritto): tale elevata maggioranza comporta che i giudici
vengano eletti solo mediante un accordo tra i partiti principali, così che essi diventano, almeno nelle
intenzioni, uomini al di fuori dei partiti. Nella realtà le cose sono andate diversamente. Di fronte a
maggioranze così alte i partiti avevano trovato l’accordo mediante una spartizione convenzionale dei posti,
con l’intesa che la designazione di ogni nuovo giudice spettasse allo stesso partito che aveva designato il
precedente scaduto. Secondo questo accordo, nel 1956, 2 giudici furono attribuiti alla DC, 1 al PCI, 1 al PSI
e 1 al PLI. Successivamente, avendo perso molto peso il PLI, la designazione spettava alternativamente al
PLI e al PRI. Importante notare che venivano esclusi il MSI e gli altri partiti considerati fuori dell’arco
costituzionale. Per un certo tempo era pacifico che tutti i partiti partecipi dell’accordo avrebbero votato la
persona designata dal partito a cui spettava. Negli anni successivi la convenzione venne mutata, perché prima
la DC contro una designazione del PSI, poi il PSI contro una designazione della DC, imposero la regola per
cui la designazione spettava ad un solo partito secondo gli accordi presi, ma gli altri avevano il diritto di
porre il veto e chiedere un’altra designazione. Dopo quanto accaduto negli anni 92-93, in cui si ha avuto la
distruzione di alcuni partiti, o alcuni sono stati costretti a cambiare nome, simbolo e linea politica, o sono
emersi nuovi partiti, non sembra si siano affermate nuove convenzioni per quanto riguarda la scelta dei
giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune, ma volta per volta i partiti in Parlamento
cercano un accordo, avendo come criterio guida che essi seguono nei fatti quello di garantire la parità tra il
blocco di destra e quello di sinistra. I giudici della Corte durano in carica 9 anni e non sono rieleggibili,
secondo l’art. 3 della l. cost. 9 febbraio 1948 n. 1, non possono essere rimossi, né sospesi dal loro ufficio se
non con decisione dalla Corte, per sopravvenuta incapacità fisica o civile o per gravi mancanze nell’esercizio
delle loro funzioni. La costituzione e le leggi applicative prevedono ampie incompatibilità tra la carica di
giudice della Corte e altre funzioni o attività, così ampie per cui in pratica i giudici della Corte devono
limitarsi a svolgere questa sola funzione (es. l’incompatibilità con ogni altra carica politica). Le immunità di
cui godono i giudici sono le stesse di cui godevano i parlamentari prima della l. cost. 3/93: non sono
perseguibili per i voti e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni (art. 5 l. cost. 11 marzo 1953 n.
1), non sono processabili penalmente se non dopo autorizzazione della Corte, non possono essere arrestati o
limitati nella loro libertà personale se non dietro autorizzazione della Corte, salvo che siano colti nell’atto di
commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura (art. 3 l. cost. 9 febbraio
1948 n. 1 che richiama l’art. 68 della costituzione nella formulazione anteriore alla l. cost. 3/93). A queste
garanzie di indipendenza della Corte vanno aggiunti: il fatto che la Corte elegge da sé stessa il suo presidente
tra i propri membri; che l’organizzazione interna della Corte spetta esclusivamente alla stessa; che essa può
emanare ed ha emanato molti regolamenti per disciplinare la propria organizzazione e le proprie funzioni;
che è unico giudice per quanto riguarda l’esistenza dei requisiti soggettivi di ammissione dei propri membri.
Ritroviamo quasi tutti quegli elementi che giustificano l’attribuzione ad un organo della qualità di organo
costituzionale, e cioè di organo che, essendo al vertice dell’apparato statale, è indipendente rispetto ad ogni
altro organo, e gode di una serie di immunità e garanzie che rendono concreta e visibile questa indipendenza.

2) Le funzioni della Corte: la Corte svolge quattro funzioni principali. Esse sono: 1) il giudizio sulla
costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle regioni; 2) il giudizio sui
conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, tra lo stato e le regioni e tra le regioni; 3) il giudizio sulle
accuse, promossa dal Parlamento in seduta comune contro il presidente della Repubblica per alto tradimento
o attentato alla costituzione; 4) il giudizio sulla ammissibilità del referendum abrogativo. Un’ultima
competenza è quella di giudicare sulle controversie di lavoro tra sé ed i propri dipendenti. Tutte le sentenze
della Corte costituzionale non sono appellabili né soggette a controllo da parte di altri giudici (Cassazione
compresa). In questa regola si manifesta la posizione di organo costituzionale della Corte e la sua natura di
organo giurisdizionale peculiare che sta fuori dell’ordine giudiziario. Inoltre, la Corte costituzionale non ha

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

iniziativa rispetto alle sue competenze: per esercitare i suoi compiti essa deve sempre aspettare che qualcun
altro le sottoponga la questione da decidere. È prevista un eccezione a questo principio: il caso in cui la
Corte, dopo essere stata investita di una questione, si accorga che dovrebbe applicare una disposizione di
dubbia costituzionalità: in tal caso è la stessa Corte che solleva la questione di costituzionalità davanti a sé
stessa. Collegata a questa caratteristica è quella per cui la Corte non può decidere su questioni diverse da
quelle che le sono state sottoposte (principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato). Anche rispetto
a questo principio è prevista un’eccezione: il caso in cui la Corte si accorga che la medesima disposizione
dichiarata incostituzionale ricorre in altre leggi, e ci sono le stesse ragioni di incostituzionalità: in tal caso la
Corte estende la dichiarazione di incostituzionalità anche a queste disposizioni.

3) Il controllo di costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni:
i cittadini (e ogni altro soggetto, tranne lo stato e le regioni) non possono ricorrere direttamente dinanzi alla
Corte. L’unica occasione nel corso della quale è possibile sollevare una questione di costituzionalità è un
processo in corso, non importa dinanzi a quale giudice. Nel corso di un processo le parti o lo stesso giudice
d’ufficio possono sollevare una questione di costituzionalità rispetto ad una norma purché questa norma sia
contenuta in una legge o atto avente forza di legge dello Stato o in una legge regionale; purché tale questione
sia rilevante e non manifestamente infondata. Rilevante vuol dire che la questione deve riguardare una norma
che il giudice dovrebbe applicare nel processo in corso. Non manifestamente infondata vuol dire che il
giudice, prima di rinviare alla Corte, deve esaminare se il dubbio ha una qualche ragion d’essere: se
all’inverso la questione appare immediatamente infondata, se cioè non può esistere alcun dubbio che la
norma incriminata è in realtà pienamente conforme a costituzione, allora il giudice in questo caso deve
respingere la questione. Lo scopo di questi due accertamenti (di rilevanza e di non manifesta infondatezza),
obbligatoriamente imposti dalla legge e di cui il giudice che rinvia alla Corte deve rendere conto nella
motivazione dell’ordinanza di rinvio, è evidente: impedire che i processi subiscano ritardi per questioni del
tutto infondate o per questioni magari fondate che però non riguardano tali processi e sono ad essi estranee.
Ragioni analoghe hanno sconsigliato di attribuire a tutti i cittadini o a soggetti non esperti di diritto il potere
di adire la Corte direttamente, e hanno consigliato di riservare questo potere ai giudici nel corso di processi.
La Corte costituzionale da alcuni anni ha modificato il senso e la portata dell’accertamento della non
manifesta infondatezza: essa sostiene che il giudice a quo (da cui proviene la questione) ha il dovere di
ricercare quella interpretazione che è coerente con la costituzione (interpretazione adeguatrice o
costituzionalmente orientata) e scartare quella incoerente, con la conseguenza che in tal caso il giudice a quo
non deve sollevare la questione, perché manifestamente infondata, e se invece la solleva perché la
disposizione comunque permette una interpretazione incostituzionale, la Corte dichiara inammissibile la
questione e quindi la respinge preliminarmente senza entrare nel merito, con una decisione di ordine
processuale. La Corte spesso dichiara inammissibile la questione perché il giudice a quo non ha fatto alcun
tentativo di interpretazione adeguatrice. Nel ragionamento della Corte è corretto dire che il giudice a quo ha
il dovere di interpretare le disposizioni impugnate e il dovere di scegliere, tra due o più interpretazioni
possibili, quella coerente con la costituzione; ma è scorretto dire che il giudice a quo non deve sollevare la
questione davanti alla Corte se è possibile l’interpretazione adeguatrice, perché la costituzione ha scelto di
attribuire alla Corte il compito di sciogliere i dubbi di costituzionalità ogni volta che la questione non è
manifestamente infondata, ed il fatto che la disposizione permetta un’interpretazione adeguatrice è la riprova
che essa permette anche un’altra interpretazione non adeguatrice, così che la questione è automaticamente
dubbia, e non invece manifestamente infondata. Ancora più inaccettabile che la Corte dichiari la questione
inammissibile perché il giudice a quo non ha fatto alcun tentativo di cercare un’interpretazione adeguatrice.
Esiste poi lo strumento della sentenza interpretativa di rigetto, mediante il quale la Corte respinge nel merito
la questione proprio perché essa ritiene sbagliata l’interpretazione seguita dal giudice a quo, ed offre al suo
posto una diversa interpretazione, conforme a costituzione. Il giudice accerta che la questione sollevata è
rilevante e non manifestamente infondata, egli, con un atto che si chiama ordinanza, sospende il giudizio in
corso e trasmette la questione alla Corte, motivando i due accertamenti compiuti e indicando esattamente sia

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

la norma incriminata sia la norma o le norme costituzionali che si ritengono violate. In tal modo il giudice
che rinvia delimita la questione di costituzionalità, cioè la questione a cui la Corte costituzionale deve
rispondere ma che nello stesso tempo non può ampliare o cambiare. I giudici quindi hanno un potere non
piccolo: essi aprono e chiudono le porte di accesso alla Corte; inoltre essi delimitano la questione su cui la
Corte giudicherà, così che la Corte potrà pronunciarsi solo su quello che i giudici le chiedono, e non su altro
non chiesto. Questo modo per giungere alla Corte si chiama in via indiretta o in via incidentale (indiretta
perché non si può andare direttamente davanti alla Corte ma bisogna passare attraverso un processo;
incidentale perché la questione sollevata costituisce un incidente processuale). Esiste anche un modo diretto
per giungere alla Corte, mediante un atto chiamato ricorso presentato dai soggetti indicati dalla costituzione.
Il nuovo art. 127, nel testo introdotto dalla l. cost. 3/2001, dispone che il governo, quando ritenga che una
legge regionale ecceda dalla competenza della regione, può promuovere la questione di legittimità
costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro 60 giorni dalla sua pubblicazione. Egualmente la
regione quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra regione leda la
sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente valore di legge. Il nuovo art.
127 ripete la formula già usata nel vecchio art. 127 “ecceda la competenza della regione”, la quale viene
interpretata dalla Corte costituzionale come se dicesse “sia contraria a costituzione”, producendo una
differenza di trattamento a vantaggio dello Stato, che può impugnare le leggi regionali per qualsiasi vizio di
legittimità, mentre la regione può impugnare una legge dello Stato o di un’altra regione solo se tale legge o
atto leda la sua sfera di competenza. Invece viene introdotta totale eguaglianza sia per quanto riguarda il
momento del ricorso che è sempre successivo, cioè può essere fatto solo dopo che la legge o l’atto avente
valore di legge è stato pubblicato (precedentemente quello dello Stato era preventivo), sia per quanto
riguarda il termine entro cui ricorrere, che oggi è sempre di 60 giorni dalla pubblicazione. L’art. 9 della l.
131/03 porta lievi modificazioni per quanto riguarda i ricorsi dello Stato e delle regioni alla Corte
costituzionale. Esso prevede che il Consiglio dei ministri possa deliberare di ricorrere alla Corte
costituzionale contro una legge regionale anche su proposta della Conferenza Stato-Città e autonomie locali,
o che la giunta regionale possa decidere di ricorrere alla Corte costituzionale contro una legge statale anche
su proposta del consiglio delle autonomie locali. La ragione di queste due disposizioni sta nel fatto che gli
enti locali (province e comuni) non possono ricorrere direttamente alla Corte costituzionale contro leggi
statali o regionali ritenute lesive delle competenze costituzionalmente loro garantite. Questo modo per
arrivare alla Corte si chiama in via diretta o di azione o principale. Resta un caso di controllo preventivo su
una legge regionale, quella che approva lo statuto delle regioni ordinarie. Secondo la legge costituzionale n.
1/99 il governo può ricorrere direttamente davanti alla Corte costituzionale contro la legge regionale che ha
approvato lo statuto entro 30 giorni dalla pubblicazione (pubblicazione che, come ha stabilito la Corte
costituzionale con sentenza n. 304 del 2002, deve essere fatta dopo la seconda deliberazione del consiglio
regionale in attesa che decorrano i tre mesi entro i quali un cinquantesimo degli elettori o un quinto del
consiglio regionale possono chiedere un referendum). Si tratta di un ricorso preventivo, e cioè di una
eccezione alla regola generale introdotta dalla l. cost. n. 3 del 2001 secondo cui il ricorso del governo contro
una legge regionale è successivo all’entrata in vigore della legge. Se la Corte dichiara incostituzionale la
legge o parte della legge che approva lo statuto, la legge o la parte dichiarata incostituzionale decade; se
dichiara non fondata la questione sollevata dal governo, l’approvazione definitiva dipende o dal risultato del
referendum, se richiesto, o dallo scadere del termine di tre mesi. La Corte costituzionale prima di giungere
alla decisione finale mediante cui si pronuncia sulla domanda posta dal giudice a quo, deve decidere
preliminarmente sulle questioni procedurali, se cioè sono state rispettate tutte le regole che disciplinano il
processo. Abbiamo così decisioni processuali e decisioni nel merito. Sono ad es. decisioni processuali quelle
che dichiarano inammissibile la questione o quelle che restituiscono gli atti al giudice a quo perché le
disposizioni impugnate sono state nel frattempo abrogate. Le decisioni di merito sono quelle che decidono
sulla domanda del giudice a quo, con l’avvertenza che, se la decisione dichiara l’incostituzionalità delle
disposizioni impugnate, essa viene adottata con sentenza, se invece la questione viene rigettata la Corte ora si
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

pronuncia con sentenza e più spesso si pronuncia con ordinanza. Il compito della Corte, quando decide nel
merito, deve paragonare la norma impugnata X (che costituisce l’oggetto del giudizio) con la norma
costituzionale Y (che costituisce il criterio o parametro del giudizio). Se, in seguito a questo giudizio, la
Corte arriva alla conclusione che la norma X è contraria alla norma Y della costituzione, la Corte, con un atto
chiamato sentenza, dichiarerà incostituzionale la norma X, e cioè accoglierà la questione che le è stata
sottoposta; nel caso contrario la Corte dichiarerà la questione di costituzionalità relativa alla norma X non
fondata costituzionalmente, e cioè rigetterà la questione che le è stata sottoposta (tale sentenza si chiama
sentenza di rigetto, ricordando che nella maggioranza dei casi la decisione di rigetto viene adottata sul piano
formale con ordinanza e non con sentenza). La sentenza di accoglimento ha efficacia per tutti, e dal giorno
successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale impone che la norma dichiarata incostituzionale
non venga più applicata in nessun caso e per nessuna ragione. La sentenza di rigetto invece ha efficacia solo
tra le parti, solo cioè rispetto o ai ricorrenti stato e regioni o rispetto a coloro che stavano in quel giudizio nel
corso del quale è stata sollevata la questione. La sentenza di rigetto dunque non impedisce che
successivamente chiunque in un altro giudizio possano risollevare la medesima questione davanti alla Corte.
È necessario che sia sempre possibile riproporre la questione di costituzionalità rispetto alla stessa norma
ordinaria già giudicata, perché la volta successiva il confronto può essere chiesto rispetto a profili diversi.
Ma anche se la questione riproposta è proprio la medesima, anche in questo caso possono sorgere degli
aspetti nuovi, magari rivelati dalla pratica, che la prima volta non erano stati esaminati e dunque può rivelarsi
un’incostituzionalità prima non veduta per ragioni la prima volta non avvertite. Inoltre, il giudizio della Corte
può cambiare, sia perché cambia la composizione della Corte, sia perché cambiano i tempi e con i tempi il
diritto che deve adeguarsi ad esso. Questa è la ragione per cui la Corte si limita a rigettare la questione
propostale, senza dichiarare che la norma impugnata è conforme a costituzione. È esperienza comune che le
proposizioni normative vanno interpretate e che di questa interpretazione non si può fare a meno. Questa
operazione dell’interpretare può condurre a risultati diversi: la medesima proposizione normativa, senza
mutare le parole scritte, per alcuni significa A, per altri significa B. Nel caso in cui il giudice a quo abbia
chiesto alla Corte di verificare se la norma X che egli interpreta nel significato A è o non è contraria alla
norma costituzionale Y e la Corte non accetta l’interpretazione della norma X fatta proprio dal giudice a quo,
ritenendo che invece essa significhi B, si conclude che la norma X non è contraria a costituzione (sentenza
interpretativa di rigetto). Dunque, il giudice a quo deve abbandonare la sua interpretazione, e fare propria
quella della Corte. Però la Corte non ha il potere di interpretare le norme con valore vincolante per tutti,
perché nessuna legge glielo ha conferito e dunque l’interpretazione della Corte potrebbe vincolare il giudice
a quo che si è rivolto ad essa, ma non potrebbe vincolare i cittadini, la pubblica amministrazione, gli altri
giudici. L’interpretazione autentica di una legge, cioè l’interpretazione con valore vincolante per tutti, spetta
al legislatore. La sentenza interpretativa di rigetto dunque produce un grave inconveniente: poiché la norma
X resta in vigore, e resta in vigore immutata nella sua formulazione letterale, essa potrà essere ancora
applicata da altri giudici ed altri soggetti proprio in quella interpretazione disattesa dalla Corte e che in
ipotesi è incostituzionale. Ricapitolando la Corte, data una norma X sottoposta al suo giudizio, la dichiara
incostituzionale se e in quanto interpretata nel significato A da essa giudicato incostituzionale, con la
conseguenza che questa stessa norma X resta in vigore se interpretata nel significato B (sentenza
interpretativa di accoglimento). Le sentenze interpretative rientrano in un genere più ampio che si chiama di
sentenze manipolative, cioè sentenze che in qualche modo non si limitano a togliere una disposizione dal
sistema, ma producono il risultato per cui la disposizione originaria, che formalmente rimane immutata, va
letta come se contenesse le precisazioni dette dalla Corte nella sentenza: tale il caso delle sentenze additive,
quando la Corte dichiara incostituzionale una disposizione perché non contiene qualcosa. Altre volte la Corte
non si limita a dichiarare incostituzionale la legge sottoposta al suo giudizio, ma si spinge fino a prescrivere
accuratamente i criteri che il legislatore dovrà seguire nel disciplinare ex novo la stessa materia. La Corte ha
dato il massimo di estensione possibile al principio di eguaglianza contenuto nel comma 1 dell’art. 3 della
costituzione, attribuendo a sé stessa il potere di dichiarare incostituzionale una legge se, confrontata con altra
legge, disciplina in modo diseguale situazioni sostanzialmente eguali, o disciplina in modo eguale situazioni
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

sostanzialmente disuguali. In tal modo la Corte giudica sulla legittimità di una disposizione di legge non
perché direttamente contraria a norma costituzionale, ma perché indirettamente contraria a costituzione,
attraverso l’ingiustificata diseguaglianza con altra disposizione di legge. Muovendo dal principio di
eguaglianza, la Corte costituzionale ha elaborato il principio della ragionevolezza, per cui, in casi evidenti la
Corte dichiara incostituzionale una disposizione perché priva di ogni ragionevole fondamento. Molti principi
costituzionali essendo generici e vaghi, ne consegue che la Corte ha un ampio margine di libertà nel decidere
se una norma è o non è conforme a tali principi. Però la Corte incontra pur sempre limiti severi che gli organi
dichiaratamente e pienamente politici non hanno, perché: essa non ha iniziativa e quindi non può scegliere da
sé i campi di intervento: la sua influenza politica è sempre casuale perché dipende dai ricorsi che le
pervengono; la Corte è sempre vincolata ad un precedente testo normativo che circoscrive rigidamente i
confini della sua libertà; essa deve motivare le sue decisioni, cioè giustificare pubblicamente perché e come è
giunta a determinate conclusioni, e quindi sarà costretta a seguire criteri relativamente oggettivi. Con questi
limiti, che pongono la Corte su un piano politico secondario diverso dagli altri organi costituzionali, la Corte
costituzionale partecipa in qualche misura alla vita politica e rientra dunque nel meccanismo politico
costituzionale. Nel caso in cui una norma viene giudicata incostituzionale la dichiarazione di
incostituzionalità non tocca tutti quei rapporti esauriti prima della sentenza della Corte, cioè che secondo le
norme vigenti non possono più essere portati davanti ad un giudice. Il caso classico è costituito dalla
sentenza passata in giudicato: si chiama così quella sentenza di un qualsiasi giudice che non può essere più
impugnata, o perché sono esauriti i mezzi di impugnazione previsti o perché sono scaduti i termini di
impugnazione; questa sentenza fa stato tra le parti, costituisce per esse la verità legale e inattaccabile. Questo
perché per la sicurezza e la certezza dei rapporti giuridici è necessario che alcuni atti mettano fine
definitivamente ad ogni contestazione: tale è la sentenza passata in giudicato, il cui contenuto non può essere
più rimesso in discussione dalle parti a cui essa si applica. Quando invece i rapporti nati prima della sentenza
della Corte costituzionale sono pendenti, e cioè sono ancora in corso o possono essere ancora portati davanti
ai giudici, allora anche ad essi si applica la dichiarazione di incostituzionalità, e cioè anche rispetto ad essi
non può farsi applicazione della norma dichiarata incostituzionale, nonostante che tali rapporti siano
cominciati prima della sentenza della Corte. È significativo però che la sentenza di incostituzionalità travolga
anche le sentenze passate in giudicato se essa dichiara incostituzionale una norma penale sfavorevole sulla
cui base qualcuno era stato condannato. A seguito della sentenza di accoglimento una norma fin qui in vigore
viene tolta dall’ordinamento. Alcuni sostengono che l’effetto abrogativo va considerato come un fatto
esaurito, il quale non viene toccato dalla dichiarazione di incostituzionalità della norma abrogante e dunque
resta fermo, impedendo la reviviscenza della norma abrogata. Per conseguenza o i giudici possono applicare
altre regole al caso concreto o si crea un vuoto legislativo colmabile solo dal legislatore. Altri sostengono
che, se una legge è illegittima costituzionalmente, essa è incapace di entrare validamente nell’ordinamento, e
dunque l’effetto abrogativo non si produce con la conseguenza che riprende vigore la norma in realtà mai
abrogata dalla norma dichiarata illegittima. Altri poi fanno distinzione fra vari casi. Il controllo di
costituzionalità delle leggi è stato costruito dalla nostra costituzione come un controllo accentrato: solo la
Corte costituzionale può giudicare se una legge è conforme o no a costituzione e decidere in conseguenza.
Però oggi il controllo sulla costituzionalità delle leggi in Italia non è sempre accentrato. Grazie ai trattati
istitutivi delle comunità europee e all’art. 11 della costituzione, e in forza della sentenza n. 170/84 della
Corte costituzionale, se esiste contrasto tra un regolamento comunitario e una legge italiana, è il giudice
comune che deve decidere, e applicare il regolamento comunitario e non applicare la legge italiana contraria.
In tal modo si è instaurato in Italia un parziale controllo decentrato sulla legittimità delle leggi, giacché in
questo caso non è più la Corte costituzionale a decidere, ma qualunque giudice nel corso della causa
pendente davanti ad esso. L’art. 267 del trattato sul funzionamento dell’unione europea prevede che i giudici
inferiori possono e quelle di ultima istanza devono sospendere il processo e rivolgersi alla Corte di giustizia
dell’unione europea per chiedere pregiudizialmente se una disposizione che essi dovrebbero applicare è o
non è conforme al diritto comunitario. Con l’ordinanza n. 103/08 la Corte ha deciso che anch’essa ha il
potere-dovere di sollevare una questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia dell’unione europea con
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

quel che ne consegue, ma solo in sede di giudizio in via principale su leggi regionali o leggi statali. Mentre in
tutti gli altri casi spetta al giudice comune della causa applicare il diritto comunitario e quindi, se necessario,
sollevare la questione pregiudiziale, nel caso di ricorso diretto dello Stato contro una legge regionale o di una
regione contro una legge statale la Corte costituzionale italiana è l’unico giudice previsto e dunque spetta ad
essa, e nessun altro potrebbe farlo al suo posto, sollevare la questione pregiudiziale.

4) Il giudizio sui conflitti di attribuzione: si ha conflitto di attribuzione (o di competenza) quando due


soggetti rivendicano ciascuno per sé la competenza a deliberare un certo atto, o attribuiscono ciascuno
all’altro la competenza di un certo atto. Nel primo caso il conflitto si dice positivo (perché ambedue
sostengono che l’atto spetta a sé e non all’altro); nel secondo si dice negativo (perché sostengono l’inverso).
Un ipotesi di conflitto si ha quando un soggetto lamenta contro un altro soggetto la menomazione della
propria competenza a causa del cattivo esercizio da parte del secondo di una competenza che spetta a tale
secondo (cioè il soggetto A riconosce che la competenza spetta a B, ma sostiene che B l’ha esercitata in
modo tale che è stata lesa una competenza di A). Il conflitto poi può nascere perché uno dei due o ambedue
hanno esercitato la competenza di cui si discute, o sono sul punto di esercitarla giudicando che sussistano
tutti i presupposti che legittimano tale esercizio, e in questo caso il conflitto si dice attuale; o il conflitto può
nascere anche prima quando si controverte in astratto e in linea di principio (conflitto potenziale o virtuale).
La distinzione tra attuale e virtuale non corrisponde a quella tra positivo e negativo. L’ordinamento non
ammette i conflitti puramente virtuali, perché tende a ridurre la conflittualità, e quindi ammette conflitti solo
quando si controverte in casi in cui si deve adottare una decisione, e quindi il conflitto è attuale.
Nell’ordinamento italiano vi sono molte specie di conflitti di attribuzioni (o di competenza). La Corte
costituzionale giudica solo su alcuni specifici e tassativi conflitti: la Corte giudica sui conflitti che presentano
come minimo questi due requisiti congiunti: sono conflitti relativi a competenze e attribuzioni stabilite dalla
costituzione o riconducibili alla costituzione; sono giudicati dalla Corte solo quei conflitti insorti tra i
soggetti indicati dalla costituzione, e fra i poteri dello Stato, tra stato e regione, tra Regione e regione. I poteri
dello Stato che possono sollevare tale conflitto sono il potere legislativo, esecutivo e giurisdizionale. Nel
caso del potere legislativo, questo potere è composto in sostanza di due organi, Camera e Senato, i quali sono
esattamente pari, così che ciascuno dei due può rappresentare davanti alla Corte l’intero potere. Nel caso del
potere esecutivo e del potere giudiziario le cose sono più complicate, perché ciascuno di essi è composto da
molti organi. L’art. 37 della l. 11 marzo 1953 n. 87 ha parzialmente risolto la questione disponendo che
legittimato a sollevare conflitto è l’organo competente a dichiarare in via definitiva la volontà del potere a
cui appartiene. Rispetto al potere esecutivo l’applicazione dovrebbe essere semplice: presidente del
consiglio, consiglio di ministri e singoli ministri, sono, ciascuno per le competenze costituzionalmente ad
essi garantite, gli organi di vertice del potere esecutivo e dunque possono sollevare conflitto per rivendicare
una competenza di questo potere garantita dalla costituzione contro la pretesa usurpazione da parte di un
altro potere. Rispetto al potere giudiziario la legge citata non può trovare applicazione, giacché è un principio
costituzionale, contenuto nell’art. 101, che ciascun giudice è subordinato solo alla legge, così che non può
esistere gerarchia in senso proprio tra i giudici e nessuno tra essi è il solo competente a dire in via definitiva
la volontà del potere. Dunque, ciascun giudice può sollevare davanti alla Corte conflitto di attribuzione
contro altri poteri dello Stato. Se il presidente della Repubblica viene considerato organo del potere esecutivo
e la Corte costituzionale organo del potere giudiziario il problema è facilmente risolto: poiché essi sono
organi costituzionali, e quindi pari formalmente a tutti gli altri organi costituzionali, anch’essi hanno il potere
di adire la Corte per rivendicare la propria competenza contro invasioni di altri poteri. Anche se l’opinione
prevalente afferma che essi non facciano parte né del potere esecutivo né di quello giudiziario, ma
costituiscano poteri a parte, proprio perché organi costituzionali, l’opinione unanime riconosce anche ad essi
il potere di adire la Corte per conflitto di attribuzioni con altri poteri dello Stato. La conclusione principale di
queste due diverse serie di argomentazioni è la medesima, ma le conseguenze sono diverse: nel primo caso il
presidente della Repubblica non può sollevare conflitto contro il governo, e la Corte contro i giudici, perché
farebbero parte del medesimo potere; nel secondo caso, che è quello che riceve i maggiori consensi, il

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

presidente della Repubblica può sollevare conflitto anche contro il governo, e la Corte anche contro altri
giudici, perché soggetti appartenenti a diversi poteri dello Stato. Oggi la Corte costituzionale ha confermato
in modo vincolante che un altro soggetto legittimato a sollevare conflitto tra i poteri è il consiglio superiore
della magistratura, non nella qualità di giudice, ma in quanto massimo organo amministrativo della
magistratura ordinaria istituito per tutelare l’indipendenza di questa, e quindi legittimato ad essere parte
attiva di un conflitto quando vengono lese da altri poteri le funzioni ad esso attribuite dell’art. 105 della
costituzione. Sulla base dell’esperienza, un altro soggetto legittimato a sollevare conflitto si è aggiunto ai
precedenti e si tratta del comitato promotore del referendum abrogativo, al quale la Corte costituzionale ha
riconosciuto la veste di soggetto legittimato a sollevare conflitto costituzionale per una pretesa lesione di
interessi costituzionalmente garantiti al corpo elettorale, di cui il comitato promotore diventa di necessità
espressione transitoria. Tutte le volte che la costituzione attribuisce un potere al corpo elettorale, quel gruppo
di persone, che secondo la legge si costituiscono in comitato promotore per l’esercizio di tale potere in una
concreta vicenda, diventa titolare del potere di adire la Corte per conflitto di attribuzione con altri poteri
dello Stato. In questo modo il comitato promotore diventa un potere dello Stato. Va ricordato che la l. n.
124/07 ha disciplinato un caso specifico di conflitto di attribuzioni tra giudici da un lato e presidente del
Consiglio dei ministri quando il presidente del consiglio ha posto il segreto intorno ad una notizia o
documento ed il giudice non ritiene che sussistano gli elementi che secondo legge giustificano l’apposizione
del segreto: se il giudice ricorre alla Corte, è questa che decide intorno al segreto. Fino alla sentenza 10
maggio 1995 n. 161 la Corte costituzionale aveva sempre negato la possibilità di un conflitto tra i poteri dello
Stato a causa di leggi aventi forza di legge, giacché per controllare la legittimità costituzionale di tali atti
esiste una specifica procedura prevista in costituzione e nelle leggi costituzionali. Con questa sentenza invece
si ammette che il conflitto tra i poteri dello Stato possa avere come suo oggetto, oltre che un qualsiasi atto
non legislativo lesivo della competenza costituzionalmente attribuita al ricorrente, anche un decreto legge, se
e quando il conflitto è l’unico strumento di cui il ricorrente dispone per difendere tempestivamente la
competenza a lui attribuita dalla costituzione. Poiché la legge statale o regionale eventualmente invasiva
della competenza rispettivamente di una regione o dello Stato o di altra regione è soggetta al controllo di
costituzionalità sulle leggi, il conflitto di attribuzioni tra stato e regione e tra regioni non può avere ad
oggetto leggi e atti con forza di legge. Tranne però questa eccezione, oggetto del conflitto di attribuzioni tra
stato e Regione e tra regioni può essere qualsiasi altro atto che invade o lede la competenza di uno dei
soggetti indicati. Abilitati a sollevare questo secondo tipo di conflitto entro i termini prescritti sono: per lo
stato il Consiglio dei ministri e per la regione la giunta regionale. La Corte costituzionale, investita di un
conflitto di attribuzione, deve dichiarare a chi dei contendenti spetta la competenza contestata. A questa
decisione può unirsi contestualmente l’annullamento dell’atto che ha dato origine al conflitto, se l’atto risulta
emanato dal soggetto incompetente, e dunque se esso è viziato.

5) Il giudizio sulle accuse: il presidente della Repubblica viene messo in stato di accusa dal Parlamento in
seduta comune a maggioranza assoluta. Una volta terminata la fase della messa in stato di accusa comincia il
processo innanzi alla Corte che è molto complesso. Bisogna sottolineare questi punti: 1) la Corte
costituzionale in questo caso non giudica nella sua composizione ordinaria di 15 membri, ma con una
composizione straordinaria, nella quale ai 15 membri ordinari vengono aggiunti 16 membri. Questi 16
giudici aggregati vengono estratti a sorte nell’occasione traendoli da una lista precostituita, composta da
persone aventi i requisiti della eleggibilità a senatore ed elette dal Parlamento in seduta comune ogni 9 anni
con le stesse modalità con le quali elegge i giudici ordinari. Il numero dei giudici aggregati è superiore a
quello dei giudici ordinari, così che la maggioranza spetta ai giudici aggregati, più legati ai partiti e più
sensibili alle ragioni politiche, dato il modo della loro elezione. La voluta politicità maggiore della Corte in
questa ipotesi è confermata dal fatto che i giudici aggregati devono comunque superare quelli ordinari: così il
collegio può riunirsi con un numero di membri inferiore al massimo, purché il minimo sia di 21 e, di questi
21, 11, cioè la maggioranza, siano giudici aggregati. Però la presidenza della Corte anche così allargata
spetta al presidente eletto dai giudici ordinari nel loro seno. 2) La Corte come ogni giudice penale, assolve o

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condanna. Poiché i giudici o le altre leggi penali, non prevedendo i reati di alto tradimento o di attentato alla
costituzione, non prevedono neppure le relative pene, la Corte nel condannare il presidente della Repubblica
applicherà l’art. 15 della l. cost. 11 marzo nel 1953 n. 1, il quale non prevede esso stesso la pena per quei
reati, ma stabilisce che la Corte potrà irrogare sanzioni penali a sua discrezione purché contenute entro il
massimo della pena possibile previsto dal diritto vigente nel momento del fatto.

6) Il giudizio sulla ammissibilità del referendum abrogativo: la costituzione non ammette che si possano
sottoporre a referendum abrogativo le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione
a ratificare trattati internazionali. È necessario, ogni volta che viene presentata domanda di referendum
abrogativo, verificare se la legge su cui si chiede il referendum non rientri tra quelle non sottoponibili ad esso
secondo l’art. 75 della costituzione. Il legislatore costituzionale (con la l. cost. n. 1 del 1953) ha attribuito
questo controllo alla Corte costituzionale. Secondo la legge sui referendum attuativa della costituzione il
giudizio della Corte avviene dopo che sono state raccolte e depositate le firme necessarie per chiedere il
referendum e dopo che l’ufficio centrale della Cassazione per il referendum ha verificato la legittimità
dell’iniziativa per ogni altro aspetto meno quello della ammissibilità secondo l’art. 75. La Corte decide con
sentenza e se la sentenza dichiara l’ammissibilità, il presidente della Repubblica dovrà indire il referendum,
nei modi e con i termini stabiliti dalla legge; se la sentenza dichiara la non ammissibilità del referendum
abrogativo, l’intero procedimento si blocca definitivamente. Sembrava tutto abbastanza semplice fino a che
la Corte costituzionale con la sentenza n. 16 del 1978 ha sconvolto ogni precedente. In quell’occasione,
erano stati richiesti 8 referendum contemporaneamente. La Corte ne ha dichiarati ammissibili solo quattro (i
referendum effettivamente svolti furono solo due), e gli altri quattro li ha dichiarati inammissibili perché
contrari a valori costituzionali desumibili dallo spirito della costituzione, con una decisione che ha spalancato
le porte all’arbitrio incontrollabile della Corte, legittimata ad assumere come base delle sue decisioni non
solo il testo scritto dalla costituzione, ma anche presunti valori costituzionali desunti per ragionamento da
essa stessa. Esaminiamo i valori non scritti addotti dalla Corte come fondamento della sua decisione nella
vicenda appena descritta. 1) La Corte ha deciso che non sono ammissibili referendum che abbiano per
oggetto articoli disparati di uno stesso atto normativo se tra di essi non esiste omogeneità per quanto riguarda
l’oggetto regolato, in quanto i cittadini sarebbero costretti a pronunciarsi con una sola risposta su questioni
diverse. Però bisogna tener presente che ogni referendum abrogativo limita i cittadini, perché li costringe a
dare un giudizio globale e unico. Ma appunto questo si chiede ad essi: non di pronunciarsi sulle singole
regole una per una, ma sul senso complessivo delle regole su cui verte il referendum. Inoltre, la costituzione
italiana nell’art. 75 dice abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge e
dunque ha specificato che oggetto del referendum non sono le norme, ma l’atto normativo, in tutto o in parte;
quindi o la legge con un determinato titolo, una individuata data di promulgazione, e uno specifico numero di
pubblicazione, o parti materialmente individuate di questo medesimo atto. 2) La Corte sostiene che vanno
preclusi quei referendum che hanno per oggetto disposizioni di legge il cui nucleo normativo non può venire
alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della costituzione
stessa. Per capire questa motivazione bisogna ricordare il caso concreto a cui è stata applicata. Era stata
chiesta l’abrogazione mediante referendum della legge che disciplina i tribunali militari di pace. La Corte ha
sostenuto che tale richiesta configura un tentativo di abolire i tribunali militari di pace e che dunque, poiché
questi sono previsti dalla costituzione, abrogare la legge su di essi equivaleva ad abolire i tribunali e quindi a
violare la costituzione. Però bisogna tener presente che i tribunali militari di pace essendo previsti dalla
costituzione, il referendum sulla legge che li regola toglie di mezzo questa specifica disciplina, ma non
impedisce che il legislatore disciplini con una nuova legge l’intera materia. Poiché in ormai numerose
sentenze successive la Corte ha ribadito la sua posizione, questo è oggi il diritto costituzionale vigente in
tema di giudizi di ammissibilità dei referendum abrogativi. Solo un eventuale legge costituzionale, o un
radicale mutamento di giurisprudenza della Corte, potrebbe mutare questa situazione e ristabilire criteri più
garantistici, pari a quelli presenti nella nuda lettera dell’art. 75 cost.

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CAPITOLO 15

L’ordinamento giudiziario e la funzione giurisdizionale

1) Definizione di giurisdizione: poiché i giudici applicano la legge e i processi sono lo strumento attraverso
cui i soggetti vengono costretti a rispettare le leggi, può sembrare che fra giurisdizione e amministrazione
non vi siano differenze concettuali, ma solo distinzioni di ordine pratico, imposte dalle norme giuridiche
vigenti: giurisdizione e amministrazione eseguono entrambi il diritto. In realtà una distinzione concettuale
esiste. La pubblica amministrazione esegue il diritto nel senso che l’esecuzione delle previe norme è il mezzo
attraverso cui perseguire e realizzare una modificazione della realtà oggettiva; la giurisdizione esegue il
diritto nel senso che l’esecuzione del diritto è il suo scopo, e non lo strumento per altro, così che la
giurisdizione non realizza alcuna modificazione materiale oggettiva dello Stato di cose esistenti; se si spinge
fino a imporre modificazioni oggettive, tali modificazioni costituiscono o un ristabilimento della realtà
preesistente o innovazioni considerate socialmente equivalenti alla realtà preesistente (es. il risarcimento del
danno). In entrambi i casi dunque lo scopo perseguito non è quello del mutamento, ma quello della
conservazione. Infatti il giudice nell’esercizio di funzioni giurisdizionali si riferisce sempre a fatti già
accaduti (egli ha il compito di conservare o restaurare il diritto); proclama solennemente e
incontrovertibilmente la conformità o la difformità dell’accaduto rispetto al diritto; se del caso, ordina che
siano compiute determinate operazioni materiali previste dal diritto come attività che ristabiliscono lo stato
di fatto che avrebbe dovuto esistere senza il comportamento illegittimo o instaurano uno stato di fatto
considerato equivalente al primo. In conclusione, la funzione giurisdizionale è, in prima approssimazione,
una forma di controllo dei comportamenti sociali a fini di conservazione e restaurazione dell’ordine
prescritto dal diritto. Ma non vale l’inverso, cioè non ogni forma di controllo sociale esercitata con strumenti
giuridici è giurisdizione: vi sono molti controlli giuridici che non sono esercizio di giurisdizione (es. il
controllo di legittimità degli atti amministrativi della Corte dei conti). Per individuare l’essenziale della
giurisdizione possiamo aggiungere che i giudici tutelano situazioni giuridiche soggettive, diritti soggettivi e
interessi legittimi, e sono l’ultima autorità a cui si ha diritto di ricorrere a difesa di tali situazioni. Può
ricorrere al giudice chi vanta una di tali situazioni giuridiche e, ritenendo che il comportamento di un altro
soggetto abbia leso tale situazione giuridica soggettiva, chiede al giudice di essere tutelato così come
prescrivono le norme. Il processo penale presenta uno schema analogo, ma il pubblico ministero
nell’esercitare l’azione penale, a cui è obbligato, non tutela una sua situazione giuridica, ma l’interesse
generale della collettività: l’imputato difende i suoi diritti di libertà, e l’offeso dal reato difende i propri diritti
violati dal reato. I giudici sono l’autorità ultima a cui un soggetto può rivolgersi per difendere i propri diritti
o interessi legittimi: la costituzione italiana (art. 24) prescrive che tutti possono agire in giudizio per la tutela
dei propri diritti e interessi legittimi, e cioè prescrive che le leggi non possono impedire che i soggetti, i quali
risultano in base alle norme titolari di diritti soggettivi o interessi legittimi, possano poi ricorrere ai giudici
per difendere tali situazioni di vantaggio. Di conseguenza i giudici si pronunciano sempre su casi concreti e
la decisione definitiva del giudice costituisce la disciplina ufficiale e incontrovertibile, rispetto al caso, dello
Stato di cose conforme a diritto: ciò che prescrive la sentenza passata in giudicato è il diritto vero e valido,
rispetto a quel caso deciso e a quei soggetti nei cui confronti è stata pronunciata la sentenza (le sentenze
hanno efficacia solo tra le parti del processo). In seconda approssimazione dunque la giurisdizione è una
forma di controllo esercitata con strumenti giuridici per tutelare, con pronunce definitive, situazioni
giuridiche soggettive. Per il nostro ordinamento sono necessariamente giurisdizionali quei controlli in cui ad
un tempo a) vi sia una lite tra almeno due parti, e quindi un conflitto tra due soggetti l’uno dei quali nega
quanto l’altro asserisce; b) almeno una delle parti del processo sia una persona fisica o una persona giuridica
o una associazione non riconosciuta. In base al punto a) le leggi possono escludere dalla funzione
giurisdizionale tutti quei casi di controllo di legittimità non costruibili o non costruiti dal diritto secondo lo
schema della lite. In base al punto b) possono egualmente venire esclusi dalla funzione giurisdizionale tutti i
conflitti interni ad un medesimo soggetto collettivo (es. possono venire esclusi dalla funzione giurisdizionale

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

i conflitti tra gli organi dello Stato). In conclusione, la funzione giurisdizionale è rivolta a dirimere liti tra due
o più soggetti, almeno uno dei quali sia una persona fisica o una persona giuridica o un’associazione non
riconosciuta, con lo scopo di tutelare con pronunce definitive situazioni giuridiche soggettive contro presunte
violazioni. I controlli sulle liti in cui almeno uno dei due litiganti sia un soggetto privato sono stati separati
dagli altri controlli e costituiti come categoria a parte perché proprio da tali conflitti interprivati è nato il
diritto, e cioè l’elaborazione sistematica delle regole da applicare rispetto a tali liti, così che l’interesse
storico politico della società era concentrato sul modo di condurre e risolvere queste liti, al punto che
esaurivano il diritto conosciuto; la formalizzazione del processo davanti ai giudici costituì oggetto
sistematico di una elaborazione imponente e continua. Era parte di questa elaborazione l’individuazione dei
giudici, cioè dei soggetti incaricati dalla comunità di guidare il processo e di dirimere la lite, assegnando
torto e ragione ai litiganti (guida del processo e decisione della lite erano originariamente separate, e restano
ancora separate in quei paesi che hanno mantenuto l’antica tradizione della giustizia amministrata dal
popolo, per cui il giudice professionale guida il processo e formula la questione da decidere, ma è la giuria
popolare a pronunciare la sentenza sulla questione che le viene sottoposta dal giudice). Poiché i giudici
dicono l’ultima parola sulle liti, per questo aspetto, sono i soggetti più potenti dell’ordinamento: chi comanda
o assolve è il giudice, chi riconosce o nega l’esistenza di un diritto è il giudice, e nessun altro. A bilanciare
questo potere ci sono altri aspetti: 1) il giudice applica sempre le leggi attraverso documenti pubblici perché
ritiene che le leggi che sta applicando siano quelle che vanno applicate, e perché esse vanno interpretate
come egli le sta interpretando. Conseguentemente, se il Parlamento si convince che ciò che i giudici vanno
decidendo non è opportuno, può cambiare la legge: i giudici, applicando la nuova legge, daranno vita ad una
serie di decisioni diverse dalle precedenti e, se la nuova legge è ben fatta, rispondenti alle intenzioni del
legislatore. 2) Le leggi disciplinano solo una parte delle infinite attività possibili agli uomini: una parte
molto grande di ciò che gli uomini fanno non è soggetta al controllo dei giudici. 3) I giudici sono molti: il
loro grande potere è intenso, ma poco esteso. Ciascuno è competente solo su alcuni tipi di controversie. Il
potere dei giudici non è un potere concentrato, quindi non può comandare su tutti contemporaneamente; i
diversi giudici possono dissentire gli uni dagli altri. 4) I giudici decidono sempre su questioni concrete, cioè
circoscritte nel tempo, nello spazio, e per le persone coinvolte: la loro decisione è definitiva, ma riguarda
solo le persone che stavano in quel giudizio e l’oggetto specifico su cui esisteva controversia. Va sottolineato
che non esiste perfetta corrispondenza tra ordine giudiziario (complesso dei giudici professionali) e funzione
giurisdizionale, perché alcune competenze incontestabilmente giurisdizionali spettano a soggetti che di per sé
non sono giudici (è il caso del Parlamento in seduta comune che incrimina il presidente della Repubblica); i
soggetti che appartengono all’ordine giudiziario non svolgono solo funzioni giurisdizionali, ma anche
compiti che di per sé giurisdizionali non sono (es. giurisdizione volontaria: il giudice che sovraintende alla
tutela dei minori e degli incapaci, scegliendo il tutore, etc.). Comunque è valido che: è individuabile, entro il
complesso dei compiti svolti dallo stato, una funzione giurisdizionale; esiste un ordine giudiziario, cioè un
complesso organizzato di specifici soggetti selezionati secondo regole determinate e governati nella loro
attività professionale da regole particolari proprie solo ad essi; il compito istituzionale di tali persone
inquadrate entro l’ordine giudiziario è quello di esercitare la funzione giurisdizionale. Dunque ogni indagine
deve cominciare dall’esame dell’ordine giudiziario e da quello della funzione giurisdizionale, e, solo dopo, è
possibile introdurre quegli altri aspetti della realtà statale che costituiscono eccezione rispetto a questo
nucleo principale (casi in cui soggetti, che non sono giuridici e non rientrano nell’ordine giudiziario,
svolgono però alcune funzioni giurisdizionali, e casi in cui soggetti che sono giudici svolgono anche funzioni
non giurisdizionali in senso stretto).

2) L’ordine giudiziario: bisogna distinguere tra giudici ordinari e giudici speciali. Giudici ordinari sono
quei giudici che per l’importanza e generalità dei loro compiti istituzionali, per la conformità alle regole
tradizionali della giurisdizione quali si sono affermate nei secoli, vengono considerati dalla società e dal
diritto come i giudici per antonomasia, e quindi fanno parte dell’ordine giudiziario in senso proprio e stretto.
Giudici speciali sono quei giudici che presentano eccezioni rispetto al tipo generale e canonico. I giudici

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

ordinari hanno una competenza generale in materia civile e in materia penale; i giudici speciali o hanno
competenza in materie diverse (tutela di interessi legittimi) o hanno competenze eccezionali in materia
penale e civile nei casi previsti dalle leggi e ammessi dalla costituzione. Quest’ultima detta norme generali
valide per tutti i giudici, così che se la legge, nel disciplinare i giudici, non si attiene a tali principi è
incostituzionale. Ci sono poi regole costituzionali specifiche per i giudici ordinari. Esaminiamo i principi
generali validi per tutti i giudici. 1) I giudici sono soggetti soltanto alla legge. Nessuno può dare ordini ai
giudici nel momento in cui esercitano legittimamente la propria funzione; le loro competenze sono garantite
dalla legge in via generale e astratta, e quindi, una volta stabilite, e fino a mutamento da parte del legislatore
con nuove norme generali e astratte, nessuno può sottrarre al giudice i processi a lui spettanti in base ai
criteri predeterminati dalla legge: il giudice il quale ritiene che la sua competenza sia stata invasa da altri ha
il dovere di rivendicare la sua competenza, usando le apposite procedure già previste davanti agli organi
incaricati di tutelare le competenze dei giudici (sono pochi i casi eccezionali in cui la Cassazione può
sottrarre ad un giudice ordinario un determinato processo e trasferirlo ad un altro). Inoltre, ogni giudice può
interpretare le leggi ed ha il diritto e il dovere di interpretarle secondo scienza e coscienza, anche in
difformità da altri giudici, Cassazione compresa, senza che questa difformità possa mai costituire causa e
motivo di sanzioni, quale che sia, a suo carico. Non deve trarre in inganno il fatto che le sentenze, tranne casi
eccezionalissimi (es. le sentenze della Corte costituzionale che non sono appellabili), sono tutte appellabili
entro termini tassativi. L’appello è un mezzo di impugnazione di una sentenza (chiamata di primo grado)
davanti ad un altro giudice (chiamato di secondo grado, così come la sentenza di appello). L’appello viene
previsto dall’ordinamento come possibilità per gli interessati di ricevere un secondo giudizio, senza che
questo comporti in alcun modo interferenza nei confronti del giudice del primo processo e quindi una sua
subordinazione ad un altro giudice; e infatti: finché il primo giudizio non è terminato non è possibile
ricorrere ad un altro giudice; la sentenza del primo giudice è, anch’essa, definitiva tanto è vero che se non
viene appellata entro i termini tassativi previsti, essa passa in giudicato e cioè al pari di ogni altra sentenza
definitiva di qualunque altro giudice, non appellata entro i termini o non appellabile, costituisce giudizio
irrevocabile che fa stato tra le parti; il secondo giudizio tocca solo il primo giudizio e non il giudice di primo
grado, il quale non subirà alcuna conseguenza sfavorevole qualunque sia l’esito del giudizio di appello. Una
questione oggi molto dibattuta riguarda l’eventuale responsabilità del giudice verso i terzi per gli errori
giudiziari. Il principio generale dell’ordinamento è che ognuno risponde dei comportamenti illeciti, subendo
le sanzioni conseguenti; nell’impiego pubblico il principio previsto dall’art. 28 della cost. stabilisce che i
dipendenti dello Stato rispondono civilmente, penalmente e amministrativamente per i comportamenti lesivi
dei diritti dei cittadini. Se un giudice può essere chiamato a rispondere dei suoi comportamenti da un altro
soggetto, il giudice non è più indipendente, ma dipende da questo secondo soggetto. Questa è la ragione per
cui in alcuni ordinamenti stranieri il giudice non risponde mai, e nella stragrande maggioranza risponde solo
in pochi casi eccezionali (così era anche in Italia prima della l. 13 aprile 1988 n. 117, essendo previsto che il
giudice rispondesse solo in caso di dolo e cioè se aveva giudicato in malafede, la quale è difficile da
provare). Il tema della responsabilità dei giudici è stato molto dibattuto fino a che un referendum del
novembre 1987 ha abrogato le norme del c.p.p. sulla responsabilità del giudice, con l’intento di costringere il
legislatore ad approvare una nuova legge che ampliasse i casi di responsabilità del giudice. La nuova legge
ha previsto che i giudici rispondano nell’adempimento dei loro doveri sia per dolo sia per colpa grave, salva
la loro libertà nell’interpretazione delle norme; per quanto riguarda la responsabilità civile che ha obbligato a
risarcire il danno al cittadino leso è lo stato e non il giudice, il quale potrà essere chiamato a rimborsare lo
stato, entro limiti massimi prestabiliti. Per ora la Corte costituzionale ha dichiarato questa legge non contraria
a costituzione perché ancora tutela la loro indipendenza garantita dalla costituzione. Questa indipendenza
viene chiamata esterna, perché riguarda il rapporto tra giudice (ufficio giudiziario) e giudice (altro ufficio
giudiziario), e tra i giudici e qualsiasi altra autorità. Siccome la competenza spetta all’ufficio giudiziario, e
non alla singola persona giudice, quando un ufficio è composto da più giudici, che si alternano, o quando
l’ufficio è collegiale, così che le persone giudici devono decidere congiuntamente, è inevitabile che si crei un
minimo di regole d’ordine all’interno dell’ufficio e che quindi vi sia almeno un giudice incaricato di
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

amministrare tali regole. Se si vuole garantire l’indipendenza dei giudici, si dovrebbe tutelare con norme
specifiche anche l’indipendenza interna, e cioè indipendenza delle singole persone giudici rispetto alla
interferenza e al comando di altri giudici entro il medesimo ufficio giudiziario. Su questi punti l’ordinamento
italiano è molto carente e permette il restaurarsi di un minimo di gerarchia all’interno della magistratura
nonostante la proclamazione di principio contenuta in costituzione. 2) L’organizzazione dell’ordine
giudiziario è garantita da una riserva di legge, quindi solo la legge del Parlamento può disciplinare l’apparato
della magistratura. 3) Altra garanzia rilevante disposta a favore dei giudici è quella della inamovibilità. I
magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o
funzioni se non in seguito a decisioni del consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con
le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso (art. 107 cost.). Questa
norma si riferisce solo ai giudici ordinari (lo prova il riferimento al CSM che amministra solo i giudici
ordinari). Siccome il principio di inamovibilità tutela la indipendenza dei giudici e l’art. 108, secondo
comma stabilisce che la legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, le leggi sulle
giurisdizioni speciali devono prevedere i meccanismi a tutela della inamovibilità analoghi a quelli previsti
per i giudici ordinari. Questo principio costituzionale vuol dire che i giudici possono essere spostati solo per
atto del CSM (nel caso di giudici ordinari) e solo o con il loro consenso o nei casi indicati tassativamente
dalla legge sull’ordinamento giudiziario. Questo perché lo spostamento da parte ad es. del potere esecutivo
(come avveniva un tempo in Italia) poteva costituire una facile arma di intimidazione e di ricatto verso i
giudici, e ledeva quindi la loro indipendenza. A garanzia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, tutti i
giudici ordinari sono soggetti per tutti i provvedimenti amministrativi che riguardano il loro rapporto di
impiego ad uno specifico organo: il consiglio superiore della magistratura (CSM). Questo organo è
presieduto dal presidente della Repubblica, e, in base alla l. 28 marzo 2002, n. 44, e alla costituzione, si
compone di 27 membri, di cui tre di diritto (il presidente della Repubblica, il primo presidente della Corte di
Cassazione e il procuratore generale della Corte di Cassazione) e 24 membri elettivi, di cui 1/3 (cioè oggi 8)
eletti dal Parlamento in seduta comune, e 2/3 (cioè oggi 16) da tutti i magistrati ordinari. Il Parlamento in
seduta comune elegge (con la maggioranza dei 3/5 dell’assemblea nelle prime due votazioni, e dei 3/5 dei
votanti dalla terza in poi) i membri a lui spettanti tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e
avvocati dopo 15 anni di esercizio; tutti i giudici ordinari eleggono gli altri 16 membri scegliendoli tra tutti i
giudici ordinari, sulla base di previe candidature presentate secondo i criteri stabiliti dalla legge. Tutti i
membri elettivi del CSM durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non
possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento di un
consiglio regionale (art. 104 u. c. cost.). Spettano al consiglio superiore della magistratura, secondo le norme
dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti
disciplinari nei riguardi dei magistrati (art. 105 cost.). È il CSM che bandisce i concorsi per ricoprire posti di
giudici ordinari; nomina le commissioni di concorso; decide sulle promozioni e sui trasferimenti dei
magistrati; adotta le sanzioni disciplinari a carico di magistrati. In tal modo le persone dei giudici, per quanto
riguarda il loro rapporto di servizio con lo stato, sono sottratte a controlli da parte di organi esterni alla
magistratura, e sono soggette ad un organo di autogoverno, dal momento che si tratta di un organo eletto in
maggioranza dagli stessi giudici e indipendente rispetto ad altri organi. Il CSM non è un organo
giurisdizionale, ma un organo amministrativo del potere giudiziario in quanto apparato: esso si occupa solo
di questioni organizzative interne al potere giudiziario relative al rapporto di lavoro delle persone che sono
giudici. Nel caso in cui il CSM decide sulle sanzioni disciplinari, l’opinione dominante è che esso svolge una
funzione giurisdizionale e che le sue decisioni sono sentenze. In questo caso decide non l’intero CSM, ma la
sezione disciplinare del CSM, che ha una composizione specifica prescritta dalla legge (non tutti i membri
del CSM ne fanno parte). Infine, ferme le competenze del consiglio superiore della magistratura, spettano al
ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 cost.). I
provvedimenti del CSM sono impugnabili davanti ai giudici come normali provvedimenti amministrativi. In
questo modo si è ritenuto che dovesse prevalere l’interesse delle persone sottoposte a questo organo ad
impugnare cioè provvedimenti davanti ad altri giudici nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali.
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

Poiché i giudici sono molti è prevedibile che i diversi giudici si trovino in contrasto tra di loro. In questi casi
i giudici ordinari sono sottoposti alla Corte di Cassazione. I giudici speciali sono soggetti alla Cassazione
solo nel conflitto di giurisdizione, quando si controverte sulla competenza tra i giudici ordinari da un lato e
un giudice speciale dall’altro o tra due giudici speciali rispetto alla medesima questione. Bisogna fare
distinzione tra giudici speciali, e giudici straordinari, cioè giudici nominati ad hoc per un particolare processo
(nominati già sapendo quali sono le parti del processo e quale è la questione che sarà giudicata nel processo).
I giudici straordinari sono sempre vietati, giacché l’essenziale garanzia dell’imparzialità dei giudici sta
almeno nel fatto che il giudice non viene scelto caso per caso per volontà di qualcuno ma in base a regole
generali e astratte, in modo tale che il giudice giudichi imparzialmente tutti i casi sottoposti al suo giudizio.
La costituzione di per sé è contraria ai giudici speciali e infatti in generale li vieta (art. 102). Però la stessa
costituzione nel mentre li vieta in generale, legittima e garantisce costituzionalmente l’esistenza di alcuni
giudici speciali, e precisamente: il Consiglio di Stato e altri organi di giustizia amministrativa a livello
regionale, la Corte dei conti, i tribunali militari in tempo di pace e in tempo di guerra; con l’art. VI delle sue
disposizioni transitorie e finali stabilisce in 5 anni dalla sua entrata in vigore il termine entro cui si sarebbe
dovuto procedere alla revisione delle altre giurisdizioni speciali esistenti oltre quelle prima ricordate. Poiché
questo termine di 5 anni è stato interpretato come un termine ordinatorio e non come un termine perentorio
(cioè come un termine che obbligava il legislatore a provvedere, ma che una volta scaduto non faceva
decadere le giurisdizioni speciali esistenti), l’interpretazione ormai pacifica ha condotto alla conclusione che
è vietata dalla costituzione l’istituzione di nuovi giudici speciali, ma che, fino a revisione, restano in funzione
i giudici speciali preesistenti alla costituzione. Siccome anche questi giudici devono essere conformi ai
principi costituzionali, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali molte delle leggi che li
prevedevano, così che molte giurisdizioni speciali prerepubblicane sono state abolite grazie alla Corte
costituzionale. Esse sono oggi molto poche e la più importante è costituita dalle commissioni tributarie che
sono competenti in materia di tributi. La specialità di tali giudici consiste in questo: 1) i giudici speciali
hanno ciascuno una propria specifica materia su cui giudicare. 2) I giudici speciali sono governati ciascuno
da specifiche leggi, non sono regolati dalla legge generale sull’ordinamento giudiziario e non sono soggetti
al consiglio superiore della magistratura. 3) Ciascun giudice speciale è retto da specifiche norme per quanto
riguarda il reclutamento, la carriera, le sanzioni disciplinari, l’organizzazione interna, la procedura. Dunque,
mentre i giudici ordinari possono essere studiati nel loro insieme, perché sono governati da regole uniformi, i
giudici speciali fanno ciascuno parte per sé, e non possono essere studiati nel loro insieme, ma ognuno
separatamente dagli altri, perché ognuno è governato da regole sue e soltanto sue. La distinzione più
importante tra giudici ordinari e giudici speciali, e tra i diversi giudici speciali, è quella che riguarda le loro
diverse competenze.

3) Principi generali relativi alla funzione giurisdizionale: l’art. 24 della costituzione, nel primo comma,
dispone che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La costituzione
accoglie e sanziona la distinzione esistente nel diritto italiano tra diritti soggettivi e interessi legittimi.
Secondo costituzione ogni volta che il diritto oggettivo (l’insieme delle norme vigenti) attribuisce ad un
soggetto un diritto soggettivo o un interesse legittimo, costui ha il potere di rivolgersi al giudice competente
dello Stato per tutelare tale diritto o interesse legittimo. Reciproca della regola contenuta nell’art. 24 cost. è
quella per cui i giudici dello Stato non possono rifiutarsi di giudicare e in ogni caso devono rispondere alle
domande ritualmente loro rivolte (divieto del non liquet). Normalmente chiunque adisce un giudice si fa
assistere da un avvocato. Considerando che l’assistenza dell’avvocato non provoca alcuna questione in tutti
quei casi in cui l’interessato, se vuole, è autorizzato dalla legge a gestire direttamente la causa che lo
riguarda, è da chiedersi se l’obbligo legalmente previsto dell’assistenza di un legale, imposto in particolare
nel processo penale, non violi la costituzione. Il secondo comma dell’art. 24 dispone: la difesa è diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Questa norma riguarda tutti i processi. Essa pone due
regole inderogabili: tutte le parti devono essere messe in grado di difendersi efficacemente in ogni momento
del processo che lo riguarda; ciascuna parte ha il diritto di essere legalmente assistita da esperti di sua fiducia

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

per potersi difendere efficacemente (il comma terzo dell’art. 24 dispone che sono assicurati ai non abbienti,
con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione). La regola generale valida
per tutti i processi è quella secondo cui le parti devono essere considerate eguali e quindi il giudice, prima di
decidere, deve prima sentire tutte le parti di tale processo. Questa regola si chiama principio del
contraddittorio, ed è stato introdotto nella costituzione dalla l. cost. 2/99, la quale nel nuovo secondo comma
dell’art. 111 stabilisce che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità,
davanti a un giudice terzo e imparziale. L’art. 25, nel suo primo comma, dice: nessuno può essere distolto dal
giudice naturale precostituito per legge. L’aggettivo naturale va inteso come oggettivamente individuato.
Dunque, tutti i giudici sono titolari di una competenza individuata in astratto da norme generali, le quali
fissano i criteri oggettivi sulla cui base è possibile meccanicamente decidere quale è il giudice competente
rispetto ad un determinato fatto. Solo in casi eccezionali, previsti dalle norme processuali, la Corte di
Cassazione può sottrarre un processo ad un giudice ed attribuirlo ad un altro. Secondo l’art. 111, sesto
comma, tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. La motivazione obbligatoriamente
imposta per tutti i provvedimenti li rende controllabili e permette la difesa. La funzione giurisdizionale si
svolge attraverso una sequenza di atti predeterminata e formalizzata che prende il nome di processo (si
chiama processo civile, penale, amministrativo, etc., secondo il tipo di giudice che lo svolge). Il processo
rientra nella figura generale del procedimento. Se ne differenzia per la minuziosità e complessità delle
regole, poste a tutela della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche soggettive. I giudici sono quei
soggetti che dicono la parola ultima e definitiva sul diritto; le loro sentenze, una volta che sono stati esauriti
tutti i mezzi di impugnazione o siano scaduti tutti i termini per impugnare, passano in giudicato e cioè fanno
stato in modo definitivo e irrevocabile tra le parti del processo, e non sono modificabili da nessuno. Quello
che il giudice ha ufficialmente pronunciato nella sentenza è il vero diritto del caso su cui egli ha giudicato.
Per questa ragione il processo è minuziosamente regolato: lo scopo è quello di impedire che si possa
giungere alla sentenza senza avere offerto a tutte le parti del processo di intervenire tempestivamente e con
cognizione di causa. Parti del processo sono quei soggetti che hanno titolo per intervenire in esso facendo
valere un proprio interesse. Il giudice non è una parte: egli deve ascoltare e raccogliere le prove addotte dalle
parti a sostegno delle rispettive posizioni, e poi giudicare in base a tali prove addotte. Le parti principali di un
processo sono l’attore, che inizia il processo prestando una domanda al giudice; il convenuto (nel processo
penale si chiama imputato, in quello amministrativo resistente), cioè colui contro il quale l’attore ha
presentato la domanda e che viene chiamato in giudizio. Terminata la istruttoria e la discussione pubblica (la
istruttoria, quando è prevista come fase distinta dal dibattimento, può essere segreta e nei processi penali
deve essere segreta, la discussione di regola deve essere pubblica) il giudice pronuncia la sentenza.

4) Principi relativi alla giurisdizione penale: la differenza tra il processo penale e quello civile è così
grande che esistono due distinti codici, il Codice di procedura civile e il codice di procedura penale, due
distinti sistemi giuridici, due distinte discipline accademiche. Il processo penale (rivolto ad accertare
l’esistenza di un reato determinato e la colpevolezza dell’imputato di esso) non dipende dalla volontà libera
di chicchessia, ma è obbligatorio: il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112
cost.). (Il pubblico ministero è l’organo dello Stato incaricato di iniziare l’azione penale ogni volta che le
leggi prescrivono che si debba iniziare, oltre ad avere altri compiti). Lo stato non può ammettere che la
punizione dei colpevoli di reati sia rimessa alla volontà libera di qualcuno. Il principio subisce qualche
eccezione, a volte giustificata (reati perseguibili solo su querela dell’offeso: reati che non mettono in pericolo
l’intera collettività, e dunque è lasciato all’offeso di chiedere o non chiedere la punizione del colpevole); a
volte meno (reati perseguibili solo dopo l’autorizzazione a procedere di un determinato soggetto: es. il caso
delle immunità dei giudici della Corte costituzionale). In occidente ci sono due tipi base di processo penale,
quello inquisitorio e quello accusatorio. In quello inquisitorio, il processo viene diviso in due fasi: nella
prima un giudice (in Italia veniva chiamato istruttore), a seguito della richiesta del pubblico ministero,
istruisce il processo, cioè compie tutte le indagini per appurare se esistono sufficienti prove di colpevolezza.
Questa fase viene condotta in segreto, e si conclude o con il proscioglimento, o con la sentenza di rinvio a

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

giudizio. Se c’è rinvio a giudizio, si apre una seconda fase, di fronte ad un giudice diverso, chiamata fase
dibattimentale, che è pubblica, in cui l’accusa, sostenuta dal p.m., e la difesa dell’imputato (più
eventualmente la parte civile e cioè chi ha subito l’offesa), espongono ciascuno le proprie ragioni, e il
giudice, al termine, ascoltate le parti, si pronuncia. Nel processo accusatorio esiste solo una fase davanti al
giudice, quella dibattimentale: spetta al pubblico ministero raccogliere le prove a carico ed esporle e
processo, e alla difesa controbattere le accuse. In Italia si praticava il processo inquisitorio. Siccome però la
costituzione nulla diceva a riguardo, era possibile introdurre anche l’altro tipo di processo. Dopo decenni di
discussioni, con un decreto legislativo pubblicato nell’ottobre del 1988 ed entrato in vigore l’anno
successivo, il processo penale italiano è stato modificato, da inquisitorio in accusatorio. Il nuovo processo
penale è organizzato secondo lo schema seguente: A) fase preprocessuale; A1) le indagini preliminari. Il
pubblico ministero, avuta notizia di un reato, conclude le indagini preliminari, avvalendosi della polizia
giudiziaria. In questa fase è previsto che alcuni atti, i quali limitano la libertà della persona sottoposta ad
indagini o possono influire sul futuro processo, vengano compiuti, su richiesta del p.m., da un particolare
giudice chiamato giudice per le indagini preliminari. A2) La chiusura delle indagini preliminari. Il pubblico
ministero, entro termini stabiliti dal codice di procedura penale, deve chiudere le indagini preliminari. Se
ritiene che non si debba celebrare il processo chiede al giudice l’archiviazione del caso. Nell’ipotesi opposta
da inizio all’azione penale. L’azione penale esercitata dal p.m. può dar luogo o al processo ordinario o ad
uno dei procedimenti speciali previsti (giudizio abbreviato; applicazione della pena su richiesta delle parti,
giudizio direttissimo, giudizio immediato, procedimento per decreto). Noi seguiremo il processo ordinario.
B) Fase processuale. B1) L’udienza preliminare. Entro termini molto brevi dalla richiesta di rinvio a giudizio
presentata dal p.m., sia l’accusatore sia la difesa dell’imputato illustrano le rispettive ragioni davanti al
giudice competente che deve valutare se sussistono sufficienti indizi per proseguire il processo o è necessario
fermarlo per mancanza di indizi o altre cause indicate dalla legge. In questo ultimo caso il giudice decide con
sentenza di non luogo a procedere (l’imputato viene prosciolto), mentre nel primo caso decide con un decreto
che dispone il giudizio. B2) Il dibattimento. Davanti al giudice, alla presenza del pubblico, l’accusatore
illustra le prove che a suo avviso dimostrano la colpevolezza dell’imputato; la difesa illustra le prove che
dimostrano l’innocenza dell’imputato o l’attenuazione della sua responsabilità. B3) La sentenza. Al termine
del dibattimento, sulla base delle prove esibite, il giudice pronuncia la sentenza, che può essere di
assoluzione o di condanna alla pena prevista dalla legge, secondo che il giudice ritiene non provata o provata
l’accusa. Non è più ammessa l’assoluzione per insufficienza di prove: l’insufficienza di prove comporta
assoluzione. Questo schema si applica solo ai processi davanti ai tribunali e alle corti di assise: il processo
penale davanti al giudice di pace (per reati di minore gravità elencati dalla legge) presenta alcune varianti. La
l. cost. 2/99 ha introdotto nuove disposizioni nell’originario art. 111, ha dato valore costituzionale ai seguenti
principi in materia di processo penale (non sono tutti, ma i più significativi): 1) la legge deve assicurare che
la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei
motivi dell’accusa; 2) l’accusato ha facoltà di interrogare o di far interrogare la persona che renda
dichiarazioni a suo carico; 3) l’accusato deve essere assistito da un interprete se non comprende o non parla
la lingua impiegata nel processo; 4) il principio del contraddittorio si applica anche nella fase della prova
(fase che precede il processo), salvi i casi, regolati dalla legge, per consenso dell’imputato o per accertata
impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita; 5) la colpevolezza dell’imputato
non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi si è volutamente sottratto all’interrogatorio da
parte dell’imputato o del suo difensore (quindi se un pentito non si presenta nel processo e non risponde alle
domande dell’imputato o del suo difensore, la sua testimonianza non può costituire prova a carico
dell’imputato). Nella giustizia penale vige il principio di irretroattività e legalità delle pene, contenuto
nell’art. 25, secondo comma della costituzione: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che
sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Normalmente una sentenza è retroattiva, perché prende in
esame fatti già accaduti, mentre di norma una legge non è retroattiva, perché disciplina fatti che debbono
ancora accadere. Dunque, una legge è retroattiva in prima approssimazione quando disciplina fatti già
accaduti. Per considerare tutti i casi nei quali una legge agisce rispetto al passato, si devono distinguere
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

queste ipotesi: a) la legge disciplina casi futuri e però dispone che essi, quando avverranno, producano effetti
rispetto al passato (la legge può imporre che l’accaduto venga considerato e produca conseguenze come se la
legge fosse già in vigore prima di questo); b) la legge disciplina casi presenti (già accaduti, anche se ancora
in corso), ma si limita a collegare a essi effetti giuridici nuovi da ora in poi; c) la legge disciplina casi
presenti, ma ricollega ad essi effetti nuovi imponendo che essi vengano considerati già esistenti nel passato
(es. concede aumenti di stipendio retroattivi: l’aumento viene percepito materialmente dopo la legge, ma
viene conteggiato come se fosse già dovuto); d) la legge si riferisce a questioni trascorse ed esaurite e
ricollega ad esse, da oggi in poi, effetti nuovi; e) la legge si riferisce a questioni trascorse ed esaurite e
ricollega ad esse effetti nuovi come se si fossero già prodotti in passato. I casi c) ed e) sono esempi di leggi
retroattive. Si discute se lo siano anche i casi a), b) e d). L’art. 11 delle disp. prel. del c.c. dice nel primo
comma: la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Dunque, in generale, le leggi
non sono retroattive. Siccome però questo principio è contenuto nel c.c., approvato con decreto legislativo e
quindi con atto con forza di legge ordinaria, esso è derogabile dalle leggi e dagli atti aventi forza di legge.
Quindi se le leggi lo vogliono, esse possono essere retroattive. Però la costituzione impone la regola della
irretroattività rispetto alle leggi penali. Appare ingiusto punire oggi un fatto che nel momento in cui fu
compiuto non era reato. Appare ugualmente ingiusto continuare a punire una persona per un fatto che prima
costituiva reato e oggi non è più considerato tale. Il principio di irretroattività della legge penale dunque si
traduce in due regole reciproche: irretroattività della legge penale sfavorevole e retroattiva di quella
favorevole (verso l’imputato). L’art. 25 dice anche che nessuno può essere punito se non in forza di una
legge. Così come l’art. 1 del Codice penale che afferma che nessuno può essere punito per un fatto che non
sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Dunque, i
reati devono essere espressamente previsti dalla legge e devono essere rigorosamente descritti, e le pene
ugualmente devono essere stabilite specificamente reato per reato, così che per ogni reato accertato vanno
applicate solo le pene espressamente e previamente previste per esso dalla legge. Questo principio di civiltà
giuridica va sotto il nome di principio di legalità dei reati e delle pene. Fondamentali anche i principi
contenuti nell’art. 27 cost.: la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino
alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte. Ovviamente la responsabilità
penale è personale perché appare ingiusto che qualcuno sia punito per fatti non commessi da lui ma da altri.

5) Principi relativi alla giurisdizione civile: l’azione civile non è obbligatoria, ma spetta agli interessati e
dunque dipende dalla loro volontà. Le parti inoltre sono libere di condurre il processo come ritengono più
opportuno nel loro interesse, salve le norme processuali inderogabili, e possono porvi termine anche prima
della sentenza, se così si accordano. Nel processo civile il giudice conosce solo i fatti allegati dalle parti,
mentre le norme giuridiche devono essere applicate indipendentemente da quello che hanno sostenuto le
parti. Il giudice civile infine deve pronunciarsi su quello che le parti hanno chiesto, quando anche egli fosse
convinto che la giustizia esigerebbe una pronuncia anche su altre possibili domande, che però gli interessati
non hanno presentato.

6) Organizzazione della giurisdizione ordinaria. La Cassazione: l’organizzazione della giurisdizione è


schematicamente questa: giudice di pace (processi civili e penali di minima entità); tribunale (processi sia
civili che penali): giudice unico di primo grado, che talvolta giudica in forma monocratica, talvolta in forma
collegiale, e che assorbe le competenze del pretore, che è stato abolito – Corte d’assise (solo penale); Corte
d’appello (sia civile che penale) - Corte d’assise d’appello (solo penale); Corte di Cassazione (giudice di
diritto nei processi sia civili che penali) alla quale si può ricorrere solo dopo il giudizio di appello. Quindi dal
tribunale si può rivolgere appello alla Corte d’appello; dalla Corte di assise alla Corte di assise d’appello.
L’appello è consentito solo una volta. Ne consegue che vi sono giudici solo di primo grado (il giudice di
pace e la Corte di assise), giudici solo di appello (Corte d’appello e Corte di assise d’appello) e giudici che
secondo il tipo di causa sono ora giudici di primo grado e ora giudici d’appello. Da ogni grado di appello si
può ricorrere in Cassazione (secondo costituzione contro i provvedimenti restrittivi della libertà personale è
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

ammesso ricorso alla Cassazione in qualsiasi grado del processo (art. 111, 7° comma)). La Cassazione non
giudica sui fatti, ma solo sul diritto: cioè non riesamina tutto il processo e non compie nuovamente indagini
sui fatti addotti nel precedente processo, ma, sul ricorso delle parti, si limita ad esaminare se nel precedente
processo il diritto è stato rettamente interpretato e applicato. L’art. 360 del c.p.c. prevede i motivi per i quali
è ammissibile il ricorso per Cassazione. La Cassazione si occupa sempre di questioni attinenti alla corretta
interpretazione delle norme, sia che si tratti di norme che disciplinano il processo sia che si tratti di norme
applicate nel processo dal giudice contro la cui sentenza si ricorre. Non è possibile chiedere alla Cassazione
di riesaminare i fatti su cui il giudice si è pronunciato. La stessa conclusione si trae dall’art. 606 del c.p.p.
che prevede i motivi del ricorso per Cassazione nel processo penale. Poiché la Cassazione è unica per tutto lo
stato italiano, e poiché è sempre possibile giungere davanti alla Cassazione, questo soggetto diventa l’organo
giurisdizionale che assicura l’uniformità dell’interpretazione del diritto per tutto l’ordinamento, almeno in
tutti quei casi (sono la maggioranza) che giungono davanti ai giudici ordinari. La Cassazione cassa le
sentenze non conformi alle norme giuridiche cioè le annulla, e secondo i casi cassa senza rinvio o con rinvio
ad un nuovo giudice dello stesso grado di quello contro cui le parti hanno proposto ricorso per Cassazione: la
Cassazione cioè, se il contenuto della sua decisione comporta la necessità di un nuovo giudizio, rimanda la
questione ad un giudice di merito (merito in questo caso significa, in opposizione a giudice di diritto, che il
giudice esamina anche i fatti, e non solo le norme) che riesaminerà la causa attenendosi alle prescrizioni
indicate dalla Cassazione. La decisione della Cassazione sul punto di diritto vincola solo le parti del processo
e l’eventuale giudice di rinvio, però è probabile che la Cassazione in casi uguali si pronuncerà nello stesso
modo, così che tutti i giudici si conformano alle interpretazioni della Cassazione (esiste infatti un ufficio
massimario della Cassazione che ha il compito di formulare, raccogliere e pubblicare le massime ricavabili
dalle sentenze della Cassazione). Di qui il ruolo centrale della Cassazione entro la giurisdizione ordinaria. La
Cassazione ha un potere importante anche rispetto ai giudici speciali perché, se in generale il ricorso per
Cassazione non è ammesso rispetto ai giudici speciali, esso è ammesso quando si controverte sulla
giurisdizione, cioè sulla questione se una determinata causa rientra nella competenza dei giudici ordinari o in
quella dei giudici speciali.

7) Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa: un’importante distinzione è quella tra


giurisdizione ordinaria (sia penale che civile) e giurisdizione amministrativa (è una delle giurisdizioni
speciali rispetto a quella ordinaria). Bisogna anzitutto comprendere la distinzione tra due diverse situazioni
giuridiche soggettive le quali fondano quella distinzione di giurisdizione: la distinzione tra diritti soggettivi e
interessi legittimi. Con situazione giuridica soggettiva intendiamo tutte le possibili situazioni in cui un
soggetto può venirsi a trovare nei suoi rapporti con altri soggetti: quindi le situazioni dello status; della
capacità giuridica e della capacità di agire; del diritto soggettivo, dell’interesse legittimo, del potere, della
facoltà, dell’obbligo, del dovere, dell’onere, della soggezione. Le situazioni più facili da capire vanno a
coppie e si comprendono entro l’opposizione-relazione di essere: ad una situazione di vantaggio di un
soggetto corrisponde in genere una di svantaggio di un altro soggetto, e viceversa. Esaminiamo le coppie
diritto soggettivo-obbligo; potere-soggezione. Allora la parola diritto designava il diritto oggettivo, cioè
l’insieme delle norme giuridiche vigenti. Ora la parola diritto viene intesa come diritto soggettivo, cioè come
pretesa di un soggetto verso un altro soggetto o come potere di disposizione di un soggetto nei confronti di
un bene. Quando il soggetto A vanta un diritto verso il soggetto B e A ha una pretesa legittima (fondata sul
diritto) verso B, cioè può esigere che B dia qualcosa ad A o faccia o non faccia qualcosa di determinato in
favore di A, si sta parlando del diritto di credito, espressione che si applica a tutti i diritti che comportano una
pretesa verso un altro soggetto, il quale correlativamente è obbligato verso il titolare della pretesa. La
situazione per cui il soggetto A può godere e disporre di un bene ad esclusione di ogni altro, si riferisce al
diritto di proprietà. In questo caso si ottiene direttamente, senza intermediazione di altri, il vantaggio insito
nel diritto. L’elemento che accomuna l’un tipo e l’altro tipo di diritto soggettivo sta nel fatto che il diritto di
credito viene considerato, come il diritto di proprietà, una ricchezza già presente nel patrimonio del creditore,
perché il creditore, vantando una pretesa legittima, ha la possibilità di vederla soddisfatta anche mediante

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

l’uso della forza che eventualmente sarà messa a disposizione dal diritto oggettivo (dall’ordinamento
giuridico), e dunque ha la certezza giuridica che l’otterrà. In conclusione, avere un diritto (soggettivo) vuol
dire secondo i casi vantare una pretesa legittima verso un soggetto determinato, il quale corrispondentemente
ha l’obbligo di dare o fare qualcosa di determinato nei confronti dell’avente diritto, o poter godere di un bene
ad esclusione di ogni altro e senza essere impediti da altri. Ecco perché si dice anche diritto al nome, dato
che, anche se il nome non è un bene economico, è comunque un bene fondamentale di ogni soggetto e diritto
al nome vuol dire diritto all’uso esclusivo del proprio nome; ecco perché si dice diritto di libertà: es. diritto di
libertà di riunione, diritto di manifestazione del pensiero, etc. Si vuole così dire che un soggetto, rispetto al
bene riunione o al bene libertà personale o al bene manifestazione del pensiero, vanta la possibilità di poterli
godere e usare senza essere impedito. All’interno della categoria diritto soggettivo si usano fare molte
distinzioni. Si fa distinzione tra diritti reali e diritti di credito. Diritti reali sono diritti che abilitano il titolare
a trarre da una cosa tutte o alcune delle utilità economiche e legalmente garantite. Il diritto di credito
attribuisce al creditore la pretesa di esigere una prestazione da uno o più persone determinate. Si distingue tra
diritti patrimoniali e diritti non patrimoniali, secondo che i diritti vertano su beni economicamente valutabili
o no. I diritti reali e di credito sono patrimoniali; i diritti della personalità sono non patrimoniali. Si distingue
tra diritti assoluti e diritti relativi: i primi verso tutti, i secondi solo verso soggetti determinati. I diritti reali e
quelli della personalità sono assoluti, i diritti di credito sono relativi. Si distingue tra diritti trasmissibili e
intrasmissibili, secondo che il titolare possa trasferire il suo diritto ad un altro o no. I diritti reali e di credito
sono ambedue trasmissibili, i diritti della personalità sono intrasmissibili. Molte volte correlativa alla
posizione di diritto soggettivo c’è una posizione d’obbligo: situazione giuridica soggettiva per cui un
soggetto B è obbligato a dare o fare o non fare qualcosa di specifico e di determinato a favore di un altro
soggetto A che detiene un diritto. Quando la prestazione a cui si è obbligati ha carattere patrimoniale il nome
dell’obbligo è quello di obbligazione. Altre volte si chiamano egualmente diritti soggettivi situazioni
giuridiche di vantaggio di fronte a cui non ci sono obblighi in senso proprio e possono esistere obblighi senza
corrispondente diritto di uno specifico soggetto, i quali, in quel caso, si chiamano doveri. Di fronte al diritto
di proprietà non c’è lo specifico obbligo di qualcuno, ma l’obbligo generale di tutti di astenersi
dall’interferire con la proprietà del soggetto titolare di tale diritto soggettivo. Il diritto soggettivo in questo
caso è una pretesa verso tutti e proprio per questo, finché il divieto non è turbato, il proprietario non vanta
alcuna pretesa verso qualcuno specificamente; reciprocamente tutti i non proprietari rispetto ad una specifica
proprietà hanno un generico dovere di non turbare la proprietà altrui. Lo stesso ragionamento si può ripetere
rispetto ai diritti di libertà. Questo obbligo astratto perché prescinde dai concreti soggetti essendo verso tutti
nello stesso tempo, per distinguerlo dall’obbligo che uno specifico soggetto ha verso un altro specifico
soggetto, si usa chiamarlo dovere. Passiamo ora alla coppia potere – soggezione. Sia nella configurazione
astratta delle norme che nella pratica si rinvengono molti casi in cui un soggetto può raggiungere
immediatamente e direttamente mediante la sua attività un risultato per lui vantaggioso nei suoi rapporti con
altri soggetti, così che questi secondi subiscono il risultato conseguente all’esercizio del potere senza che
possano o debbano far nulla. Questo potere di produrre unilateralmente conseguenze giuridiche nei confronti
di altri, talvolta è assolutamente libero; talaltra è doveroso: in questo secondo caso alcuni lo chiamano
diritto-dovere. Es. il presidente della Repubblica ha il diritto-dovere di promulgare; il proprietario di un
terreno ha il potere di venderlo. Gli elementi caratteristici di questa situazione di vantaggio sono: 1) il potere
è sempre potere verso altri ed è potere di imporre ad essi qualcosa. 2) Il potere non ha bisogno della
collaborazione di questi altri, ma si concreta in una loro soggezione ai risultati ottenuti mediante l’esercizio
del potere. In base alla prima caratteristica si può distinguere il potere dalla facoltà; in base al secondo si può
distinguere il potere dal diritto soggettivo. Si usa la categoria facoltà per designare qualunque delle molte
possibilità di fatto che il titolare di un diritto soggettivo possiede rispetto al godimento di tale suo diritto
indipendentemente da ogni rapporto con altri soggetti. Le facoltà non sono altro che frammenti del diritto
soggettivo che non danno luogo a rapporti giuridici. Per questa ragione in generale sono prive di rilevanza
giuridica anche se talvolta l’ordinamento assoggetta l’esercizio di alcune facoltà a controlli o autorizzazioni
(es. il proprietario se vuole dipingere la facciata della sua casa deve chiedere l’autorizzazione affinché la sua
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

scelta non generi brutture) e in tal modo diventano giuridicamente rilevanti. La facoltà si esaurisce nel poter
fare o non fare di un soggetto rispetto a sé stesso. Più difficile è capire la differenza tra diritto soggettivo e
potere. Anche il diritto soggettivo si rivolge verso gli altri; anche il diritto soggettivo consente spesso al
titolare di raggiungere da se stesso e direttamente risultati per lui utili; ma nel diritto soggettivo questi due
aspetti sono disgiunti, perché se usando il diritto soggettivo, si raggiungono risultati utili, ciò avviene perché
si usufruisce di tale diritto separandosi dagli altri; se invece in base al diritto ci si rivolge ad altri è perché si
esige la loro collaborazione: non si può raggiungere da soli il risultato voluto. Nel potere invece i due aspetti
sono congiunti, ci si rivolge ad altri e si impone direttamente ad altri il risultato dell’esercizio di questo
potere senza che questi possano o debbano fare nulla. La difficoltà di distinzione nasce dal fatto che spesso il
potere presuppone l’esistenza di un diritto soggettivo, es. si ha il potere di vendere se si è proprietari di una
cosa. Altre volte però il potere non presuppone affatto un preesistente diritto soggettivo che lo fonda. I poteri
pubblici non sono attribuiti ad un soggetto in quanto titolare di un diritto soggettivo e quindi come proiezione
di tale diritto soggettivo, ma nell’interesse della collettività a cui si rivolgono. Quando la possibilità
giuridicamente riconosciuta dal diritto oggettivo di raggiungere direttamente nei confronti degli altri un
risultato utile, non presuppone come suo fondamento un diritto soggettivo in capo al titolare del potere, la
distinzione tra potere e diritto soggettivo è semplice: il diritto soggettivo, sia come pretesa verso altri sia
come bene utile di cui godere direttamente ad esclusione di altri, è una ricchezza che si possiede; il potere di
per sé non è una ricchezza, ma è un poter imporre qualcosa ad altri. Quando la possibilità di raggiungere da
sé stessi nei confronti di altri un risultato utile presuppone un preesistente diritto come fondamento di tale
potere, la distinzione sembra svanire, perché il potere sembra lo stesso diritto soggettivo in una delle sue
possibili manifestazioni. Però il diritto soggettivo è un bene della persona; mentre il potere è una
manifestazione della persona. Al potere corrisponde la situazione di svantaggio della soggezione: qualcuno
può qualcosa verso altri perché questi altri si trovano in una situazione di pura passività, debbono subire il
potere del primo. Qui non c’è né obbligo né dovere, in quanto queste sono situazioni che presuppongono un
dover fare o non fare qualcosa di determinato, mentre la soggezione indica una situazione per cui un soggetto
stabilisce e non può non subire secondo diritto l’esercizio e il risultato di un’attività altrui. Si ha l’onere
quando un soggetto, per raggiungere un risultato a lui favorevole o da lui voluto, deve prima comportarsi in
un certo modo; se si comporta nel modo prescritto, raggiunge il risultato voluto. Esaminiamo infine la
situazione soggettiva di interesse legittimo. L’art. 4, comma secondo della l. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E,
dispone: l’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti
autorità amministrative: il giudice ordinario cioè ha il potere-dovere di disapplicare gli atti illegittimi che
hanno leso un diritto soggettivo (con conseguente condanna della pubblica amministrazione al risarcimento
del danno), ma non può né annullare né modificare l’atto che pure risulta illegittimo. Se l’interessato voleva
l’eliminazione dell’atto illegittimo, doveva, dal 1865 in poi e fino alla istituzione della IV sezione del
Consiglio di Stato, rivolgersi con un ricorso alla stessa pubblica amministrazione. Questa situazione deteriore
dei privati nei confronti della pubblica amministrazione dette luogo ad ampi dibattiti, che condussero nel
1889 alla istituzione di un giudice speciale, la IV sezione del Consiglio di Stato (alla quale poi negli anni si
aggiunsero la V e la VI sezione) che aveva il potere generale di annullare gli atti amministrativi illegittimi,
sul ricorso, entro termini molto brevi a pena di decadenza, di qualunque soggetto potesse vantare un interesse
diretto e attuale a tale annullamento. Questa organizzazione della giurisdizione è stata recepita dalla
costituzione che nell’art. 103 dispone: il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno
giurisdizione per la tutela nei confronti della p.a. degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate
dalla legge, anche dei diritti soggettivi. L’art. 113, terzo comma, chiarisce che la legge determina quali
organi di giurisdizione (quindi anche giurisdizione ordinaria) possono annullare gli atti della pubblica
amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa. Se poi teniamo presente anche il primo
comma dell’art. 100 nel quale si dice che il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-
amministrativa e di tutela della giustizia dell’amministrazione, si ricava da queste tre disposizioni i seguenti
principi coordinati (che si trovano esplicitati anche nel recente codice del processo amministrativo,
approvato con d. lgs. 2 luglio 2010 n. 104, e successive modificazioni): 1) se leggi specifiche in singoli casi
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

non dicono nulla, la giurisdizione a tutela degli interessi legittimi spetta ai giudici amministrativi (oggi Tar in
primo grado e Consiglio di Stato in appello); 2) in casi espressamente previsti dalla legge, i giudici
amministrativi possono avere giurisdizione anche nei confronti dei diritti soggettivi (giurisdizione esclusiva;
la Corte costituzionale con una sentenza del 2004 ha chiarito che il giudice amministrativo non può giudicare
su diritti soggettivi se non sussiste un legame tra questi e gli interessi legittimi coinvolti da questi stessi
diritti); 3) il giudice ordinario ha una competenza generale a tutela dei diritti soggettivi, tranne i casi
espressamente devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma nei casi espressamente
previsti dalla legge può annullare anche gli atti amministrativi. Giudici e giuristi in più di cento anni di
esperienza non hanno mai raggiunto un soddisfacente consenso intorno alla definizione di interesse
legittimo, così che ancora oggi il tema è oggetto di accanite dispute, con conseguente incertezza per tutti gli
interessati. A questo proposito conviene distinguere due casi molto diversi tra di loro: a) quello in cui
l’interessato vanta un diritto soggettivo e sostiene che la pubblica amministrazione con un suo atto
amministrativo lo ha leso, e quindi cerca di tutelare tale diritto con tutti gli strumenti che l’ordinamento gli
mette a disposizione; b) quello in cui l’interessato non vanta un diritto soggettivo nei confronti della p.a. e
dunque non ha titolo per chiedere nulla di positivo e determinato verso la p.a. ma ha interesse che l’atto
amministrativo a suo dire illegittimo venga annullato, così che, a seguito di tale annullamento, venga
ristabilita la situazione quale esisteva prima dell’atto annullato, con due possibili esiti ulteriori: b1)
l’interessato vede soddisfatto il suo interesse proprio dal ristabilimento della situazione anteriore, così che, se
l’amministrazione non deve far nulla a seguito dell’annullamento o non fa nulla, l’interessato vede
pienamente soddisfatto il suo interesse (interesse oppositivo: l’interessato si oppone al mutamento e chiede e
spera che la p.a. non faccia nulla); b2) se l’interessato sperava di ottenere qualcosa dalla p.a., l’annullamento
dell’atto illegittimo riapre per lui una seconda chance, perché può accadere che la p.a., questa seconda volta,
emanando un atto legittimo, soddisfi l’interesse del soggetto che ha fatto ricorso contro l’atto illegittimo
(interesse pretensivo: l’interessato chiede qualcosa alla p.a. e spera di ottenerla). Se un atto amministrativo
illegittimo lede un preesistente diritto soggettivo, vi sono casi nei quali il diritto soggettivo resiste all’atto
amministrativo illegittimo, così che bisogna rivolgersi al giudice ordinario per una sua tutela, e vi sono casi
nei quali il diritto soggettivo viene tolto e sostituito da un interesse legittimo, così che bisogna andare davanti
al giudice amministrativo. Va ricordato: a) che esiste la giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi e
che oggi due casi importanti sono costituiti dalle controversie in materia di servizi pubblici (sulla base
dell’art. 7 della l. 205/2000, disposizioni in materia di giustizia amministrativa) e in materia di contratti ad
oggetto pubblico, secondo la l. n. 241/90 nel testo attuale; b) che è pacifica la giurisdizione del giudice
ordinario, fatti salvi casi di giurisdizione esclusiva, per illeciti contrattuali ed extracontrattuali della p.a. Al
giudice amministrativo si chiede in principio l’annullamento dell’atto illegittimo. Il giudice ordinario, in
principio, non può annullare l’atto amministrativo illegittimo, ma lo disapplica (giudica come se l’atto non
esistesse rispetto al caso concreto su cui sta giudicando: l’atto continua ad avere efficacia nei confronti di
altri). Giudici amministrativi sono i tribunali amministrativi regionali e il Consiglio di Stato. I Tar sono
recenti (l. 6 dicembre 1971 n. 1034) e sono giudici amministrativi di primo grado. Il Consiglio di Stato è
oggi un giudice di appello a cui si ricorre contro le decisioni dei Tar (tranne pochi casi in cui il Consiglio di
Stato resta giudice di primo grado). Il Consiglio di Stato, in base alla l. n. 186/82, per un quarto può essere
composto da membri nominati in sostanza dal governo, traendoli da categorie predeterminate che danno
garanzia di preparazione professionale adeguata. Inoltre, esso si compone di sezioni giurisdizionali e di
sezioni consultive, le quali danno pareri alla p.a. e al governo, ogni volta che si tratta di questioni giuridiche
dubbie o complesse. Tra i giudici speciali va ricordato la Corte dei conti, che è giudice in materia contabile,
in materia di responsabilità amministrativa, in materia di pensioni pubbliche. Per quanto riguarda la
responsabilità contabile è previsto che tutti coloro che maneggiano il pubblico denaro o siano consegnatari di
cose e valori della p.a. debbano dare un rendiconto che viene esaminato dalla Corte e che, se questa non lo
riconosce regolare, da luogo automaticamente ad un giudizio davanti ad essa. Per quanto riguarda la
responsabilità amministrativa, il procuratore generale presso la Corte dei conti, di sua iniziativa o su
segnalazione dei capi servizio delle amministrazioni, promuove un giudizio di responsabilità civile contro
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

qualsiasi funzionario pubblico per ottenere il risarcimento del danno subito dallo stato per colpa del
funzionario. La Corte dei conti poi giudica al posto dei Tar sulle controversie in materia di pensioni relative
al rapporto di pubblico impiego. La Corte dei conti esercita anche funzioni di controllo. Essa controlla
preventivamente la legittimità degli atti della p.a. indicati dalla legge, che prima di divenire efficaci debbono
ricevere il visto della Corte dei conti. In altri casi la legge prevede controlli successivi. Tra gli altri giudici
speciali ricordiamo le commissioni tributarie, il tribunale superiore delle acque pubbliche, i tribunali militari
(la materia dei tribunali militari è stata organizzata dalla l. 7 maggio 1981 n. 180).

CAPITOLO 16

La pubblica amministrazione

1) Delimitazione della pubblica amministrazione dello Stato: l’apparato burocratico e militare è quella
parte dello Stato, costantemente presente nella vita quotidiana dei cittadini, che è caratterizzata: dalla sua
professionalità e dalla sua subordinazione ad un vertice politico (per questo si distingue dagli organi
costituzionali); dalla sua organizzazione interna gerarchica, per cui tutto l’apparato amministrativo è diretto
da un unico centro (per questo si distingue dal potere giudiziario); dalla sua integrale appartenenza allo stato-
soggetto (per questo si distingue dagli apparati degli enti pubblici distinti dello Stato, per quanto da questo
controllati). Questo complesso apparato si divide al suo interno in apparati minori, ma può essere ricostruito
unitariamente perché gerarchicamente ordinato e centralizzato da un unico vertice, il governo. Questa
unitarietà rende possibile riassumere le caratteristiche generali di tutto l’apparato amministrativo (burocratico
e militare). Gli aspetti fondamentali sono: esso deve essere organizzato, deve cioè corrispondere ad un
disegno organizzativo predeterminato, stabile e certo; esso deve disporre dei mezzi patrimoniali e finanziari
adeguati agli scopi che deve perseguire; esso ha bisogno di una moltitudine di persone fisiche che prestano la
loro opera al servizio dell’apparato, e dunque è necessario disciplinare tutti gli aspetti rilevanti di tale
rapporto di lavoro; esso per agire usa una serie di strumenti giuridici, cioè svolge un’attività giuridicamente
rilevante; attività che si sviluppa secondo schemi di comportamento legalmente precostituiti, come via
necessaria per raggiungere i fini voluti. Non solo lo stato ha un suo apparato burocratico, ma anche altri
soggetti pubblici, come gli enti pubblici territoriali (regioni, comuni, province e città metropolitane) e gli enti
pubblici funzionali (es. l’INPS, istituto nazionale della previdenza sociale), e quindi l’espressione p.a. si
estende anche ad essi.

2) Principi costituzionali sulle amministrazioni pubbliche: la costituzione contiene in modo sparso alcune
regole e principi ora relativi a tutte le amministrazioni pubbliche ora relative soltanto ad alcune tra di esse.
Esiste una partizione specifica intitolata “la pubblica amministrazione”, ma: a) si tratta di una sezione (la
sezione II) all’interno di un titolo (il titolo III della parte seconda), il quale si intitola “il Governo”: ne
consegue che questa sezione II si occupa principalmente dell’amministrazione pubblica alle dipendenze del
governo; b) le amministrazioni pubbliche degli enti regione, provincia, città metropolitana e comune sono
disciplinate, in maniera parzialissima, da regole e principi contenuti nel titolo V della parte seconda dedicato
proprio a tali enti (nella rubricazione del titolo V non figura la città metropolitana, che è prevista dalla l. cost.
3/2001 ed è stata introdotta da tale legge nel testo degli articoli che compongono il titolo V); c) principi
fondamentali, soprattutto riguardo ai rapporti tra pubbliche amministrazioni e soggetti esterni, sono contenuti
nel titolo IV della parte seconda, dedicato alla magistratura; d) altre regole importanti che riguardano in
generale tutte le amministrazioni pubbliche sono sparse nella parte prima della costituzione, intitolata “diritti
e doveri dei cittadini”; e) vi sono, dispersi in vari articoli del testo costituzionale, altre regole che riguardano
direttamente o indirettamente ora tutte le amministrazioni pubbliche, ora alcune di esse. Anche se non esiste
un insieme sistematico di regole costituzionali in tema di amministrazioni pubbliche, possiamo organizzare il
nostro tema secondo lo schema seguente: 1) dividere le regole ed i principi costituzionali in due grandi
gruppi: quelli che riguardano tutte le amministrazioni pubbliche e quelli che riguardano solo alcune
amministrazioni pubbliche (le amministrazioni dello Stato); 2) entro ciascun gruppo, individuare e
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

commentare principi e regole secondo che: a) riguardano i rapporti giuridici tra amministrazioni pubbliche e
soggetti esterni ad esse (riguardano sia gli strumenti giuridici di cui dispongono le amministrazioni pubbliche
nei confronti di altri, sia gli obblighi e le responsabilità che ricadono sulle pubbliche amministrazioni per i
loro atti e comportamenti, sia i diritti e poteri dei soggetti esterni nei confronti delle pubbliche
amministrazioni); b) riguardano il rapporto di lavoro tra amministrazioni pubbliche e loro dipendenti; c)
riguardano l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni; d) riguardano le risorse materiali e finanziarie
di cui dispongono le pubbliche amministrazioni. Seguendo questo schema cominciamo con i principi
costituzionali che riguardano i rapporti giuridici tra tutte le amministrazioni pubbliche ed i soggetti esterni. Il
primo principio è contenuto nell’art. 23: nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se
non in base alla legge. Il principio riguarda tutti i soggetti dell’ordinamento, ma esso coinvolge soprattutto
queste amministrazioni, che, in quanto pubbliche, sono spesso dotate di poteri di comando nei confronti dei
soggetti esterni, cioè hanno il potere di imporre e portare a compimento conseguenze che diminuiscono (o
aumentano) la sfera giuridica dei destinatari dell’atto dell’amministrazione pubblica: es. possono espropriare
un bene. L’art. 23 stabilisce che le amministrazioni pubbliche possono imporre un obbligo o un divieto di
fare o non fare, o un obbligo di dare, solo se a fondamento del loro atto di imposizione c’è una previa legge.
Questa riserva di legge è stata sempre interpretata come relativa: la legge quindi può limitarsi a porre i
principi fondamentali che individuano e configurano una determinata prestazione personale o patrimoniale
obbligatoria, e demandare ad altri atti normativi (ai regolamenti) la disciplina di dettaglio. Una delle
conseguenze più importanti che derivano da tale principio riguarda l’interpretazione dell’espressione
“funzioni amministrative proprie” di comuni, province e città metropolitane contenuta nell’art. 118 della
costituzione (come modificato dalla l. cost. 3/2001). L’espressione “funzioni proprie”, contrapposta a
“funzioni conferite”, designa funzioni che questi enti hanno direttamente in base a costituzione, e non in base
a legge statale o regionale, nel qual caso sarebbero appunto funzioni conferite da qualcun altro. Queste
funzioni proprie riguardano quelle funzioni che non si esercitano mediante atti di imposizione di prestazioni
patrimoniali o personali (es. le attività di prestazione di servizi gratuiti o a pagamento, che sono offerta di
servizi alla quale l’interessato può aderire o non aderire liberamente); quindi le funzioni amministrative che
consistono in imposizioni di prestazioni personali o patrimoniali, in forza dell’art. 23 della costituzione,
devono essere sempre funzioni conferite con legge statale o regionale, secondo i casi, e mai funzioni proprie.
Il secondo principio preso in esame è contenuto in via generale nell’art. 24 e in modo specifico per le
amministrazioni pubbliche nell’art. 113. Il primo dice che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei
propri diritti e interessi legittimi (anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni); il secondo conferma
quanto già contenuto nell’art. 24: contro gli atti della p.a. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei
diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela
giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate
categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della p.a. nei casi
o con gli effetti previsti dalla legge stessa. Richiamiamo l’attenzione su alcuni principi generali e
fondamentali che si ricavano da queste disposizioni: a) anzitutto non è ammissibile che un atto di una
qualunque p.a. lesivo di un diritto o interesse legittimo sia sottratto alla giurisdizione, cioè al controllo del
giudice su richiesta dell’interessato (questo principio non riguarda gli atti che non rientrano tra quelli
amministrativi, es. gli atti politici di organi pubblici, come camere e governo); b) l’annullamento degli atti
della p.a. può ricevere un trattamento giuridico particolare, rispetto all’annullamento di ogni altro atto
giuridico, in base alla legge statale: quindi da un lato la legge non potrebbe escludere l’annullabilità degli atti
amministrativi illegittimi, dall’altro però può stabilire un regime speciale per tale annullamento. Questa
disposizione non dice che solo il giudice amministrativo può annullare gli atti amministrativi illegittimi, ma
dice che spetta alla legge indicare quale giudice e con quali effetti può annullare gli atti amministrativi
illegittimi. La costituzione però in un diverso articolo (l’art. 103, 1° comma) prevede come regola generale
che la tutela degli interessi legittimi spetta al giudice amministrativo e non al giudice ordinario (come
continua a stabilire l’art. 4 della l. 20 marzo 1865 n. 2248, All. E, che vieta al giudice ordinario di annullare
gli atti amministrativi illegittimi e, se necessario, gli consente soltanto di disapplicarli); però specifiche leggi,
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

in casi particolari, possono derogare a questo divieto, ed attribuire al giudice ordinario il potere di annullare
l’atto amministrativo illegittimo o attribuendo al giudice ordinario il potere di annullare gli atti
amministrativi illegittimi. Collegati a questo principio ve ne sono altri 2: il primo si ricava da tutte quelle
disposizioni che riprendono l’espressione e l’istituto tradizionale del nostro ordinamento “interesse
legittimo” (artt. 24, 103, 113), le quali ribadiscono la distinzione tra la situazione giuridica soggettiva
chiamata diritto soggettivo e la situazione giuridica soggettiva chiamata interesse legittimo: in cosa consiste
questa distinzione è questione ancora oggi confusa, ma che questa distinzione debba comunque esservi è
principio costituzionale. Fino alla sentenza n. 500 del 1999 della Corte di Cassazione, Sez. Un., la violazione
dell’interesse legittimo non dava luogo a risarcimento dell’eventuale danno patito, mentre da quella sentenza
in poi la regola, recepita dalla legislazione vigente, è che anche la violazione dell’interesse legittimo dà
luogo a risarcimento del danno. Nell’art. 103 la costituzione prescrive che la tutela degli interessi legittimi si
chiede davanti al giudice amministrativo (Consiglio di Stato ed altri organi di giustizia amministrativa: oggi
tribunali amministrativi regionali come giudici di primo grado e Consiglio di Stato come giudice d’appello,
salve le eccezioni), e che però la legge può stabilire che in determinate materie i giudici amministrativi
possano tutelare anche diritti soggettivi, oltre che interessi legittimi (giurisdizione esclusiva o piena del
giudice amministrativo). Da questo si ricava che, salvi i casi di giurisdizione esclusiva previsti dalla legge, in
principio la tutela dei diritti soggettivi è compito dei giudici ordinari. Quindi alcuni casi di interesse legittimo
hanno da esservi, e, se alcune situazioni giuridiche soggettive sono da classificare come interessi legittimi,
esse vanno tutelate solo dal giudice amministrativo. Per il resto decide la legge, allargando o restringendo i
casi di giurisdizione esclusiva (allargando o restringendo la giurisdizione dei giudici ordinari sui diritti
soggettivi, però l’art. 24 e l’art. 113 impongono che comunque un giudice a tutela dei diritti degli interessi
legittimi deve esservi). Un altro principio costituzionale importante è contenuto nell’art. 28. Dalla sua
interpretazione si traggono alcuni criteri fondamentali: da un lato tutti i dipendenti dello Stato o di enti
pubblici, se con i loro atti e comportamenti violano diritti soggettivi di altri, rispondono direttamente per essi
secondo quanto prevede la legge, con le sanzioni o civili o penali o disciplinari; in secondo luogo, quando il
dipendente dello Stato o di ente pubblico è responsabile nel primo senso, la connessa responsabilità civile si
estende allo stato o all’ente pubblico alle cui dipendenze lavora il soggetto responsabile. Trattiamo ora dei
principi in materia di rapporto di lavoro con gli enti pubblici. Il principio fondamentale è stabilito nel 1°
comma dell’art. 51: tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle
cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. Legato a questa
disposizione è l’art. 97, 3° comma, in forza del quale agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede
mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. L’art. 98 stabilisce che in generale i pubblici impiegati
sono al servizio esclusivo della nazione, che essi se sono membri del Parlamento non possono conseguire
promozioni se non per anzianità, che infine la legge può, se vuole, stabilire limitazioni al diritto di iscriversi
ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i
rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. La costituzione non impone un regime giuridico particolare
al rapporto di lavoro tra lavoratori dipendenti ed enti pubblici: ecco perché è stato possibile passare da un
regime per cui dipendenti dello Stato e di enti pubblici prima del 1993 erano disciplinati da norme di diritto
pubblico, e dopo il 1993 la maggior parte sia oggi disciplinata dal diritto privato, comune a tutti i lavoratori
dipendenti sia che dipendano da soggetti privati sia che dipendano da soggetti pubblici. Per quanto riguarda
l’organizzazione delle amministrazioni pubbliche la costituzione dice pochissime cose, e molto generiche. Il
principio più importante è contenuto nell’art. 97 e nel primo comma si trovano due criteri che la Corte
costituzionale e la dottrina hanno ritenuto applicabili a tutti gli uffici pubblici: nell’organizzazione degli
uffici pubblici devono essere assicurati il buon andamento e l’imparzialità. Esiste dunque la possibilità che la
Corte costituzionale dichiari incostituzionale qualche disposizione di legge perché contraria ad uno di quei
due principi, e che altre autorità competenti dichiarino illegittime forme di organizzazione che non
rispondono ad essi. Dire però in che cosa consiste il buon andamento o l’imparzialità è questione che non
può essere risolta dalle semplici parole della costituzione; tanto che ci possono essere a riguardo
interpretazioni che entrano in conflitto con altre. Posto che le amministrazioni pubbliche sono strutture
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

serventi al servizio dello Stato e degli enti pubblici territoriali e funzionali, e che in ciascun ente vi può
essere una parte distinta dalla sua amministrazione (es. gli organi costituzionali ed i giudici nello Stato), le
risorse sono quelle dell’ente nel suo insieme, che poi vengono distribuite tra le diverse strutture che
compongono l’ente, ed amministrate e spese per la gran parte dalle amministrazioni al servizio dell’ente
pubblico. Dunque, possiamo considerare validi per tutte le amministrazioni pubbliche alcuni principi che si
ricavano dall’art. 81 della costituzione (anche nella nuova versione introdotta nel 2012), che a rigore tratta
solo del bilancio dello Stato. I principi ricavabili da questo articolo sono: 1) per ogni ente pubblico deve
esistere almeno un bilancio annuale preventivo, che elenchi in modo analitico tutte le entrate e tutte le spese;
2) ogni struttura amministrativa deve spendere le somme ad essa assegnate dal bilancio solo per l’oggetto o
gli oggetti indicati in ciascuna specifica voce del bilancio e fino al tetto massimo previsto in tale voce; 3)
negli enti pubblici territoriali, che sono anche enti rappresentativi, l’approvazione del bilancio spetta
inderogabilmente all’assemblea rappresentativa del corpo elettorale; 4) in base all’art. 103 della costituzione
la Corte dei Conti esercita il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato e partecipa al
controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo stato contribuisce in via ordinaria (quest’ultima
disposizione riguarda tutti gli enti, dunque anche quelli privati ed esclude solo le persone fisiche, si applica ai
casi in cui lo stato distribuisce somme di denaro a tali enti in base alle leggi, e cioè somme ricorrenti e
periodiche in modo tale che l’ente funziona solo perché finanziato in tutto o in parte dallo stato): quanto ora
detto non esclude che la legge ordinaria, se lo ritiene opportuno, possa allargare il controllo della Corte dei
conti, come massimo organo previsto dalla costituzione a tutela della buona gestione del denaro pubblico.
Altre disposizioni che tutelano le risorse delle pubbliche amministrazioni stanno: 1) nell’art. 42, dove la
costituzione dice che la proprietà può essere pubblica o privata; 2) nel comma 6° dell’art. 119, dove si
prescrive che i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni hanno un loro patrimonio, salva
l’applicazione ad essi dei principi generali determinati dalla legge dello Stato; 3) nell’art. 53, che presuppone
e conferma che le risorse finanziarie degli enti pubblici derivano dalle imposizioni tributarie, salva
l’applicazione dei principi costituzionali in questa materia; 4) dal nuovo comma 7° dell’art. 119 che per la
prima volta stabilisce direttamente in costituzione che i comuni, le province, le città metropolitane e le
regioni possono ricorrere all’indebitamento, ma nello stesso tempo pone due vincoli: a) lo possono fare solo
per spese di investimento e non per coprire spese correnti; b) lo stato non deve garantire i prestiti contratti da
questi enti. La costituzione italiana non contiene disposizioni specifiche, applicabili ad alcune
amministrazioni ma non a tutte, per quanto riguarda i rapporti tra amministrazioni pubbliche e soggetti
esterni. Da questa assenza possiamo ricavare un principio costituzionale generale implicito: in applicazione
del principio di eguaglianza, i rapporti giuridici tra tutte le amministrazioni pubbliche ed i soggetti esterni
sono governati da principi uniformi, per cui non può accadere che un soggetto, nei suoi rapporti con
un’amministrazione pubblica, riceva un trattamento giuridico deteriore se entra in rapporto con una certa
amministrazione rispetto al trattamento che riceverebbe se entrasse in rapporto con altra amministrazione in
riferimento al medesimo diritto soggettivo o interesse legittimo. Il principio viene confermato dal nuovo art.
117: ogni volta che vengono in gioco diritti civili, politici e sociali, sia per quanto riguarda la loro
configurazione essenziale sia per quanto riguarda la loro tutela davanti ai giudici, competente a legiferare è
solo lo stato, a garanzia di una normazione uniforme eguale per tutti i cittadini. Anche per quanto riguarda il
rapporto di lavoro dipendente da enti pubblici, la costituzione non contiene regole specifiche che si applicano
ad alcune amministrazioni e non ad altre, a conferma che il rapporto di lavoro non può ricevere una
disciplina giuridica differenziata secondo l’ente di appartenenza, fatte salve quelle questioni legate a
situazioni locali specifiche che la legislazione nazionale o la contrattazione nazionale demandano a livelli
decentrati. Regole costituzionali specifiche, limitate a particolari amministrazioni, si trovano invece per
quanto riguarda l’organizzazione e le risorse. Nei confronti dello Stato l’art. 95 prevede che la struttura
fondamentale dello Stato sul piano amministrativo sia incentrata sulle strutture chiamate ministeri, e
prescrive che solo la legge possa istituire i ministeri, stabilendo le attribuzioni e l’organizzazione di essi.
L’art. 95 poi stabilisce che spetta al presidente del consiglio mantenere l’unità dell’indirizzo amministrativo
e promuovere e coordinare l’attività dei ministri. Il comma 1° dell’art. 97, la lettera g) del 2° comma dell’art.
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

117, l’intero art. 117, permettono di stabilire in materia di organizzazione delle amministrazioni pubbliche
che: a) spetta alla legge dello Stato, con riserva relativa, disciplinare l’organizzazione delle amministrazioni
statali e degli enti pubblici nazionali; b) spetta alla legge regionale, con riserva relativa, disciplinare le
amministrazioni regionali e gli enti pubblici regionali; c) spetta ai regolamenti rispettivamente comunali,
provinciali e delle città metropolitane, salve le disposizioni poste con legge statale in materia di funzioni
fondamentali, disciplinare con propri regolamenti, subordinati ai rispettivi statuti, l’organizzazione delle
proprie amministrazioni, dirette o indirette. Regole particolari contiene l’art. 81 per quanto riguarda i bilanci
dello Stato.

3) L’organizzazione della p.a.: l’art. 95, 3° comma della costituzione dispone: la legge provvede
all’ordinamento della presidenza del consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei
ministeri. Questo articolo individua l’articolazione fondamentale della p.a. dello Stato, cioè il ministero;
inoltre stabilisce che solo con legge si può istituire un ministero; infine riserva alla legge la individuazione
delle attribuzioni dei ministeri e la loro organizzazione. L’art. 97 della costituzione (integrato con l’aggiunta
di un nuovo primo comma dalla l. cost. n. 1/2012, art. 2), nei commi primo, secondo e terzo, prescrive: le
pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’unione europea, assicurano l’equilibrio dei
bilanci e la sostenibilità dei debiti pubblici. I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge,
in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento
degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.
Questo articolo, col nuovo primo comma (divenuto operativo a partire dall’esercizio finanziario del 2014 e
che va letto insieme alle altre modificazioni apportate agli artt. 81, 117 e 119 della costituzione), esige che
tutte le pubbliche amministrazioni di regola non spendano oltre le entrate tributarie e patrimoniali e dunque
contraggano debiti solo nei casi previsti dall’unione europea, dalla costituzione, dalla legge generale sul
bilancio alla quale la legge costituzionale citata rinvia; inoltre l’art. 97 ribadisce il generale principio di
legalità, stabilendo che i pubblici uffici, quindi tutti i pubblici uffici dello Stato, sono organizzati secondo
disposizioni di legge. È il Parlamento che mediante legge istituisce gli uffici pubblici statali e determina la
loro struttura organizzativa; reciprocamente nessun ufficio pubblico statale può essere istituito e organizzato
a discrezione della stessa p.a. o del governo o di qualsiasi altro soggetto. L’art. 97 dunque, rispetto
all’organizzazione degli uffici statali, impone una riserva di legge, che per unanime interpretazione è stata
ritenuta una riserva relativa. L’apparato amministrativo dello Stato italiano si divide in ministeri. Ciascun
ministero ha una generale competenza amministrativa rispetto ad un settore della realtà sociale complessiva.
Il ministero degli affari esteri cura i rapporti tra lo stato italiano e gli altri stati; etc. Ciascun ministero ha al
vertice un ministro; il ministro è il soggetto che da unità verso l’esterno al ministero e che per questa ragione,
svolge funzioni di programmazione, indirizzo e controllo, cioè formula i programmi da attuare, sollecita e
orienta l’apparato del suo ministero, verifica se i programmi e gli obiettivi vengono correttamente eseguiti e
perseguiti. I ministeri sono organismi eccezionalmente complessi per il grande numero di persone che vi
lavorano e per la grande mole di atti che debbono compiere. La struttura di un ministero è di tipo piramidale,
per cui le partizioni di massimo livello si articolano in parti minori, e queste a loro volta in parti ancora
minori. Queste partizioni interne di ciascun ministero si dividono in due classi: le partizioni più ampie (es.
direzioni generali), le quali oggi, attraverso la diretta attribuzione di funzioni amministrative ai massimi
dirigenti, hanno rilevanza esterna (cioè decidono atti, provvedimenti e contratti con efficacia giuridica nei
confronti dei destinatari), e le partizioni interne alle prime, le quali, di regola, non hanno rilevanza esterna. In
tal modo si attua un decentramento amministrativo, perché solo pochi atti (di indirizzo e controllo, e politici)
spettano al ministro, mentre la grande maggioranza (atti di gestione) spettano ai dirigenti amministrativi.
Questo decentramento del potere decisionale si verifica o a livello centrale (nazionale) o a livello periferico.
Quasi tutti i ministeri hanno una doppia organizzazione: una centrale (nazionale), con sede a Roma, la quale
adotta decisioni con efficacia, di regola, per tutto il territorio nazionale; una periferica, con uffici decentrati
nelle singole province o in zone previamente delimitate dalle leggi vigenti in materia: gli atti di questi uffici
decentrati hanno efficacia limitata alla zona di loro competenza. Questi uffici periferici possono avere una

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

funzione preparatoria rispetto alle decisioni che continuano a spettare al centro, o possono essere investiti di
poteri decisionali propri, sia pure sotto il controllo del centro. La tendenza attuale è quella di trasferire
sempre più numerosi poteri decisionali sia agli uffici periferici, in modo da riservare al centro funzioni
prevalentemente di coordinamento, impulso e controllo, sia agli alti funzionari di ciascun ministero, in modo
da aumentare la responsabilità di questi e nel contempo consentire al ministro di concentrare l’attenzione
sugli affari più importanti. Il d. lgs. 300/99 prevede una riforma delle amministrazioni periferiche dello
Stato: le prefetture cambiano nome (diventano uffici territoriali del governo) e sostanza: diventano le
strutture periferiche che raccolgono e coordinano le altre strutture periferiche, salvo quelle degli affari esteri,
della giustizia, del tesoro, delle finanze, della pubblica istruzione, dei beni e delle attività culturali, e le
agenzie. Va distinto questo decentramento amministrativo, che resta interno all’apparato dello Stato, dal
decentramento agli enti locali, che consiste nello spostare alcune competenze dallo stato ad enti minori
politicamente rappresentativi di collettività di base. Una prima figura organizzativa è quella dell’ufficio che
decide nei confronti dei cittadini; ha funzioni di amministrazione attiva. Un medesimo centro decisionale
rispetto a certe competenze può avere compiti preparatori a vantaggio di un centro più alto di cui è parte,
rispetto ad altre competenze invece può avere compiti decisionali propri. Intorno a questi centri decisionali
esistono uffici con compiti particolari: vi sono così uffici che hanno il compito di dare pareri (organi
consultivi), cioè di offrire all’organo decidente una serie di valutazioni rispetto ad un certo aspetto
dell’oggetto su cui decidere e per il quale l’organo consultivo ha una particolare qualificazione tecnica. Così
un centro decisionale che ha la competenza per costruire edifici potrà chiedere agli uffici del genio civile un
parere sulla validità di un determinato progetto secondo i criteri tecnico-scientifici propri della ingegneria
civile. Sotto questo aspetto si distingue tra pareri obbligatori e facoltativi, secondo che è obbligatorio o no
chiederli, e pareri vincolanti e non vincolanti, secondo che, una volta chiesto il parere, il soggetto decidente
non può decidere contro il parere o può discostarsene. La l. 241/90, nell’intento di sveltire i procedimenti
amministrativi, ha previsto molti casi in cui, trascorso inutilmente il termine stabilito da questa stessa legge,
il procedimento prosegue ugualmente prescindendo dal parere, o il responsabile del procedimento è
obbligato a rivolgersi ad un altro soggetto con eguali o analoghe competenze tecnico-scientifiche. È sempre
più frequente il caso di leggi che, nel prevedere pareri, abilitano o obbligano il responsabile del
procedimento a proseguire anche senza il parere, una volta trascorso inutilmente il termine prefissato per la
comunicazione di esso. Vi sono uffici che devono controllare gli atti di un altro (organi di controllo), e cioè
rivedere secondo criteri predeterminati le decisioni adottate dagli altri, nei casi e secondo le procedure
previste. Tra gli organi consultivi va ricordato il Consiglio di Stato; tra quelli di controllo va ricordata la
Corte dei conti. Vi sono organi che possiamo definire ausiliari, perché il loro compito peculiare è quello di
aiutare le altre articolazioni dello Stato nello svolgimento di particolari compiti. Un organo ausiliario
previsto dalla costituzione è il CNEL (consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), che dovrebbe aiutare
Parlamento e governo in materia di economia e lavoro. La stessa Corte dei conti è concepita come organo
ausiliario rispetto al Parlamento, al quale fornisce continue informazioni sull’andamento della p.a. e di molti
altri enti pubblici quale risulta dal suo controllo istituzionale. È possibile costruire altre figure di rapporto tra
organi e tra uffici, e quindi altre categorie di organi o uffici: si parla di gerarchia, direzione, coordinamento,
indirizzo, strumentalità, etc. Importante ricordare che vi sono organi monocratici (il soggetto decidente è una
persona singola: es. il prefetto) e organi collegiali (il soggetto decidente è un insieme di persone che
decidono congiuntamente: ad es. il Consiglio di Stato, etc.). Una nuova forma di organizzazione delle
funzioni amministrative che sta dilagando è quella delle autorità indipendenti. Un interessante modo di
decidere (disciplinato dalla l. 241/90 nel testo vigente) è quello denominato conferenza dei servizi: non si
tratta di un organo, ma della riunione dei rappresentanti di più uffici, ciascuno dei quali deve svolgere un
compito specifico collegato a quello di tutti gli altri in vista di un risultato finale unitario. La decisione
adottata in tale conferenza sostituisce e assorbe tutte le decisioni dei singoli uffici. In questo modo viene
eliminato il procedimento e non si crea un collegio. Un’altra figura organizzativa è l’agenzia: un ufficio
pubblico con compiti molto particolari che esigono una forte specializzazione, una grande autonomia (è per
questo che quasi sempre ad esse viene data per legge la personalità giuridica), una marcata separazione dal
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

resto dell’apparato burocratico. Vanno ricordate l’Aran (agenzia per la rappresentanza negoziale delle
pubbliche amministrazioni), l’Anpa (agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente). Molte nuove
agenzie, che sostituiscono intere parti dei ministeri, sono previste dal d. lgs. 300/99. Per l’ordinamento
amministrativo italiano è una nuova forma di organizzazione, che accentua l’autonomia e la connessa
responsabilità di alcune strutture amministrative, e dovrebbe favorire la distinzione tra funzioni di indirizzo,
coordinamento e vigilanza (che restano ai ministri ed ai ministeri) e funzioni gestionali ed operative (che
vengono attribuite alle agenzie).

4) I mezzi: lo stato ha bisogno di mezzi finanziari (es. denaro per acquistare beni e servizi) e di mezzi
materiali (es. strade). Lo stato ha bisogno di mezzi finanziari molto ingenti per svolgere tutti i compiti che
via via si è dato. Mentre alle origini erano prevalenti i mezzi che lo stato traeva dal proprio patrimonio (es.
affitti), oggi i due principali strumenti di provvista dei mezzi sono le entrate tributarie e i prestiti. Le entrate e
le spese dello Stato e il bilancio dello Stato riguardano tutto lo stato, ivi compresi gli organi costituzionali e il
potere giudiziario, e non solo la p.a. Le entrate tributarie dello Stato vengono distinte in imposte e tasse. Le
imposte sono prestazioni in denaro che i cittadini devono obbligatoriamente allo stato (o ad altro ente
pubblico), secondo criteri e procedure legali. Le imposte si dividono in dirette e indirette: sono dirette quelle
commisurate alla qualità economica del soggetto obbligato (alla sua capacità contributiva: al suo reddito, al
suo patrimonio, etc.); sono indirette quelle commisurate al valore della transazione economica che ne
costituisce il presupposto, o dovute in occasione di un determinato fatto, indipendentemente dalle qualità
personali di chi concretamente è obbligato a pagarle. Le imposte rappresentano la grande maggioranza delle
entrate dello Stato. Le tasse sono pagamenti in denaro che i cittadini fanno allo stato (o ad altro ente
pubblico) come condizione per usufruire di un servizio pubblico (es. le tasse scolastiche). La tassa non è un
prezzo, perché non è commisurata al beneficio e al suo costo reale, ed anzi è inferiore. Le tasse non devono
essere pagate se il cittadino non usufruisce del servizio. La costituzione fissa alcuni principi generali in tema
di tributi: pone una riserva di legge (art. 23: riserva relativa) per cui nessun ente può imporre tributi se non in
forza di una propria legge; stabilisce che il sistema tributario è informato a criteri di progressività per cui,
crescendo il reddito o il patrimonio, deve crescere più che proporzionalmente il contributo fiscale del
cittadino alle spese dello Stato e degli altri enti pubblici. La costituzione dice che il sistema, cioè l’insieme
dei tributi, deve essere progressivo e non ogni singolo tributo: vi sono infatti imposte progressive e imposte
non progressive; il sistema oggi non è progressivo a causa della forte evasione fiscale, che coinvolge proprio
i redditi più alti; ma anche senza evasione fiscale il sistema, per la forte presenza di imposte fisse, soprattutto
indirette, è piuttosto regressivo e cioè paga di più percentualmente chi ha meno; la costituzione poi prevede
che, sempre in base a leggi dello Stato, possono esservi altri enti pubblici attributari di poteri di imposizione
fiscale (le regioni, le province, le città metropolitane, comuni). In base al nuovo art. 119 si deve ritenere che
la legge deve essere del Parlamento per quanto riguarda l’istituzione di un tributo, ma può essere regionale
per quanto riguarda la disciplina di quello stesso tributo; poiché vi sono poi anche i tributi comunali e
provinciali, vi possono essere anche regolamenti comunali e provinciali in materia tributaria, subordinati alle
leggi statali. Oggi gli Stati ricorrono spesso ai prestiti e in Italia una forma molto frequente di prestito è
costituita dall’offerta dei famosi BOT (buoni ordinari del tesoro), con scadenza molto breve (tre mesi, sei
mesi, un anno), prestiti, ad interesse, che i sottoscrittori di questi BOT fanno allo stato. Tutte le entrate dello
Stato confluiscono in un unico fondo generale, da cui lo stato trae tutte le risorse monetarie necessarie per le
sue spese. L’insieme delle entrate e delle spese costituisce il bilancio dello Stato. Il bilancio dello Stato
italiano è un bilancio annuale che comincia il 1° gennaio e termina il 31 dicembre di ogni anno. Si deve fare
distinzione tra il bilancio di previsione (o preventivo) e il bilancio consuntivo (viene chiamato nell’art. 81
della costituzione e nelle leggi “rendiconto consuntivo”). Il primo è il bilancio che si approva prima
dell’anno finanziario, il secondo è il bilancio che si approva dopo l’anno. Il bilancio è un documento
contabile che elenca in modo ordinato tutte le entrate nel loro complesso, e tutte le spese divise per
ministero. Vi sono molte partizioni interne al bilancio, ma quella più importante, disciplinata dalla l. 31
dicembre 2009, n. 196 (che ha preso il posto della precedente l. n. 94 del 1997) è l’unità di voto (nella legge

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precedente era chiamata unità previsionale di base), cioè l’unità elementare obbligatoria per il governo (il
governo non può spendere se non le somme iscritte in tale unità per l’oggetto da essa indicato, e non può
operare spostamenti da unità ad unità, o spendere per oggetti diversi da quelli indicati nell’unità). Il capitale
di spesa (precedentemente era l’unità elementare di base con gli effetti ora descritti), resta come partizione
dell’unità di voto, ma solo a fini di rendicontazione (nel rendiconto bisogna attestare quanto si è speso
capitolo per capitolo), ed il ministro del tesoro, d’intesa con le amministrazioni interessate, ha la facoltà di
spostare somme da un capitolo ad un altro (per spostare somme da unità di voto ad un’altra è necessaria una
legge di variazione del bilancio). Il nuovo art. 81, entrato in vigore con la l. cost. 20 aprile 2012, n. 1, ma
applicabile solo a partire dall’esercizio finanziario dell’anno 2014 (come prescrive l’art. 6 di tale legge
costituzionale), in parte riproduce disposizioni del precedente art. 81 e in parte introduce regole e principi
innovativi. Viene confermato, come in passato, che ogni anno deve essere approvato con legge il bilancio
(preventivo) e il rendiconto consuntivo dello Stato e che ambedue tali bilanci vanno presentati dal governo
(che ha l’obbligo di presentarli ed è il solo titolare dell’iniziativa della legge di bilancio). Viene anche
confermata la possibilità dell’esercizio provvisorio del bilancio, al massimo per quattro mesi, solo se
autorizzato dal Parlamento caso per caso con legge, qualora per una qualche ragione il bilancio preventivo
non sia stato approvato entro il 31 dicembre. Viene confermato il principio secondo cui ogni legge che
importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Viene tolto il precedente comma terzo del
vecchio art. 81 secondo cui con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e
nuove spese; siccome però l’ultimo comma del nuovo art. 81 demanda l’ulteriore disciplina generale sul
bilancio (cioè sulle modalità ed i criteri in base ai quali vanno costruiti i bilanci preventivi di ciascun anno)
ad una legge ordinaria rinforzata, approvata con la maggioranza assoluta dei componenti delle camere,
dipenderà da tale legge, sovraordinata alla singola legge annuale di bilancio, decidere se la legge annuale di
bilancio può o non può stabilire nuovi tributi e nuove spese. Anche se il titolo ufficiale della legge
costituzionale che ha introdotto il nuovo testo dell’art. 81 si chiama “introduzione del principio del pareggio
di bilancio nella carta costituzionale”, i primi due commi di tale nuovo articolo sono molto oscuri. Il primo
comma proclama: lo stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto
delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Se si tiene conto che il bilancio è per
definizione un conto che pareggia entrate e spese, che è del tutto ovvio che nel ridirigere il bilancio chi lo
redige tiene conto delle fasi avverse e di quelle favorevoli del ciclo economico, non si capisce quale regola,
traducibile in obblighi e poteri, si possa trarre da questa formulazione. Il senso nascosto del primo comma sta
nel secondo e nel sesto ed ultimo comma che spiega la portata giuridica anche del secondo comma. Premesso
che anche le risorse monetarie acquisite mediante accensione di debiti sono entrate, il secondo comma
dell’art. 81 si occupa dell’indebitamento e intende prescrivere in quali casi è ammesso ricorrere ai debiti per
pareggiare entrate e spese, e dunque per pareggiare entrate e spese nei casi che non consentono
indebitamento è necessario che le spese siano pari alle sole entrate tributarie o patrimoniali (pareggio di
bilancio, cioè pareggio tra entrate e spese senza debiti). I casi previsti dall’art. 81 sono due. Primo caso: il
ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico; secondo
caso: il ricorso all’indebitamento è consentito al verificarsi di eventi eccezionali, ma previa autorizzazione
delle camere adottata a maggioranza assoluta (cioè la metà più uno dei componenti di Camera e Senato).
Dunque, se le camere con la maggioranza assoluta dichiarano che uno o più eventi sono eccezionali e
giustificano l’indebitamento per un ammontare giudicato da essa sufficiente al fine di fronteggiare tali eventi,
questa decisione è politica e non ammette controlli giuridici da parte di nessuno in Italia. Diventa misterioso
il primo caso: non è chiaro cosa significhi che l’indebitamento può essere giustificato soltanto dagli effetti
del ciclo economico. La vera nuova regola costituzionale sta nell’ultimo comma del nuovo art. 81, il quale
chiarisce chi, come e perché dà attuazione ai principi dei primi due commi. La legge annuale di bilancio con
le prescrizioni dell’ultimo comma dell’art. 81 diventa una legge gerarchicamente subordinata ad una legge
generale sul bilancio, da approvare a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nel rispetto
dei principi definiti con legge costituzionale. Dunque: i principi sul bilancio vengono definiti con legge
costituzionale e sono i principi contenuti nel nuovo art. 81, fatta salva la possibilità che una successiva legge
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costituzionale li modifichi o li integri; ci deve essere una legge sul bilancio dello Stato, da approvare con la
maggioranza assoluta: questa legge generale sul bilancio deve stabilire il contenuto della legge di bilancio, le
norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la
sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni; la legge annuale di bilancio con la
maggioranza semplice, cioè la metà più uno dei votanti, quantifica entrate e spese dell’anno avvenire senza
poter derogare a quanto stabilito nella legge generale sul bilancio. Questa legge generale sul bilancio grazie
al primo comma dell’art. 117 (secondo cui le leggi statali e regionali non possono violare gli obblighi
comunitari e internazionali) dovrà essere conforme al trattato che impone agli stati aderenti il pareggio di
bilancio (senza indebitamento) come principio inderogabile, salve le eccezioni e le modalità previste dallo
stesso trattato, col conseguente controllo dell’unione europea, corte di giustizia compresa, a garanzia del
rispetto del principio. In conclusione, il nuovo art. 81 può essere così riscritto: è conforme a costituzione
qualunque vincolo l’unione europea adotterà in riferimento al bilancio dello Stato, o la legge annuale che
approva il bilancio dello Stato deve essere conforme ai vincoli, criteri, principi e regole stabiliti dall’Unione
europea. Poiché oggi l’unione europea esige che il bilancio dello Stato sia in pareggio senza indebitamento,
si spiega il titolo della legge costituzionale. Il procedimento di approvazione del bilancio preventivo è
complesso e si conclude con la deliberazione delle camere con legge su un disegno (progetto di legge del
governo) di legge deliberato dal Consiglio dei ministri. La legge di bilancio si divide in due parti. La prima
riproduce il contenuto di quella che in precedenza era una legge che veniva approvata prima di quella di
bilancio e si chiamava prima legge finanziaria e poi legge di stabilità. Si tratta di una parte che, tra le molte
cose: determina il tetto massimo del ricorso dello Stato al mercato finanziario per l’anno a venire (stabilisce
cioè qual è il deficit massimo possibile del bilancio dell’anno a venire e quindi quale la cifra massima per la
quale lo stato può indebitarsi); determina quale sarà la spesa massima per l’anno a venire delle leggi di spesa
poliennali già approvate; può modificare leggi precedenti prescrivendo nuove entrate e nuove spese. La
seconda parte contiene il bilancio vero e proprio, che elenca entrate e spese secondo classificazioni
complesse al cui centro stanno le unità di voto, cioè quelle partizioni che indicano entrate e spese sulle quali
verte il voto del Parlamento e che vincolano la p.a. ed il governo. La legge di bilancio (preventivo) va
approvata entro il 31 dicembre. Se il Parlamento non riesce ad approvare in tempo, è previsto dalla
costituzione che esso, con legge, possa concedere al governo l’esercizio provvisorio, per un periodo non
superiore a quattro mesi, cioè possa concedere al governo di riscuotere e spendere somme mese per mese per
un dodicesimo di quelle previste nel bilancio. Negli anni ’80 sono state apportate incisive modificazioni ai
regolamenti delle camere al fine di consentire l’approvazione della legge di stabilità e della legge di bilancio
in tempi utili: a tal fine è stata istituita la sessione di bilancio, un periodo di tempo indicato nel regolamento
entro cui l’assemblea e le commissioni possono discutere e deliberare solo la legge finanziaria, la legge di
bilancio e i bilanci. Lo stato ha imposto a regioni, province, comuni e altri enti pubblici la predisposizione e
l’approvazione di bilancio uniformi e comparabili, così che oggi la contabilità di quasi tutti gli enti pubblici è
disciplinata da una normativa omogenea. Accanto ai bilanci annuali, le leggi prevedono anche i bilanci di
competenza poliennali, in genere triennali, per consentire alle pubbliche amministrazioni di meglio
programmare la loro attività. Anche il bilancio consuntivo dello Stato va approvato con legge, ma è un atto
di scarsissima rilevanza politica, e senza effetti giuridici di un qualche rilievo. Al contrario, il bilancio di
previsione ha grande importanza sia politica che giuridica. Politicamente esso riassume l’indirizzo politico
del governo e della maggioranza del Parlamento, i quali, decidendo quali spese accrescere e quali ridurre e
mantenere costanti, chiariscono gli obiettivi che perseguono e gli interessi che intendono favorire.
Giuridicamente il bilancio costituisce limite per la pubblica amministrazione, la quale può accertare e
incassare solo tipi di entrata previsti e può spendere solo le somme previste e solo per gli scopi e gli oggetti
previsti. Nelle imprese private il bilancio preventivo, se esiste, ha solo rilevanza interna e non è imposto
dalle norme, mentre invece obbligatorio ed essenziale è il bilancio consuntivo; negli enti pubblici
fondamentale è il bilancio preventivo, scarsamente significativo anche se obbligatorio è il bilancio
consuntivo. Questo perché nelle imprese private l’obiettivo primario è il profitto e la sua distribuzione, che
può essere rilevato e distribuito solo a fine esercizio; negli enti pubblici primaria è la valutazione politica
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della distribuzione delle risorse di cui l’ente disporrà, e questa valutazione va fatta prima. L’ordinamento
italiano distingue tre tipi di beni dello Stato: i beni demaniali, quelli patrimoniali indisponibili e quelli
patrimoniali disponibili. La distinzione si applica a tutti gli enti territoriali, cioè anche a regioni, province,
città metropolitane e comuni. Mentre gli altri enti pubblici non territoriali non hanno beni demaniali, ma si
applica anche ad essi la distinzione tra beni patrimoniali indisponibili e beni patrimoniali disponibili (art.
830, secondo comma, c.c.). Il codice civile anzitutto elenca i beni che fanno parte del demanio dello Stato
(art. 822) e li divide in due categorie: demanio necessario, in cui rientrano il lido del mare, la spiaggia, i
fiumi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia, le opere destinate alla difesa nazionale, etc.
(questi beni appartengono necessariamente allo stato); demanio eventuale, in cui rientrano le strade, le strade
ferrate, gli acquedotti, etc., se essi appartengono o allo stato o alle regioni o alle province o ai comuni, danno
luogo rispettivamente al demanio statale, regionale, provinciale o comunale (per ricomprenderli tutti si dice
demanio pubblico); il codice civile poi stabilisce la caratteristica giuridica essenziale di tali beni rispetto a
tutti gli altri (art. 823): essi sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non
nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. Successivamente il codice civile definisce i beni
patrimoniali: sono tutti quei beni che appartengono allo stato e non rientrano tra quelli demaniali (art. 826,
primo comma). Infine, nel secondo comma di questo stesso articolo il c.c. elenca, tra i beni patrimoniali,
quelli che esso chiama indisponibili, cioè quei beni che, come prescrive il successivo art. 828, secondo
comma, non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li
riguardano. Da queste regole si trae la conclusione che esistono beni dello Stato, i quali non sono né
demaniali, né patrimoniali indisponibili: la dottrina e la pratica, per designarli, li ha chiamati beni
patrimoniali disponibili. La condizione giuridica di tali ultimi beni è quella di essere soggetti alle regole
particolari che li concernono e, in quanto non è diversamente disposto, alle regole del presente codice (art.
828, primo comma). Da ciò si traggono due regole: che tutti i beni dello Stato, anche quelli disponibili,
possono essere assoggettati a regole specifiche diverse da quelle applicabili ai beni privati; i beni
patrimoniali, sia disponibili che indisponibili, in tutte quelle ipotesi in cui regole specifiche e particolari
mancano, sono soggetti alle normali regole del codice civile, cioè costituiscono proprietà dello Stato nello
stesso senso e con la stessa ampiezza dei beni privati. Lo stato italiano dunque è proprietario in tre modi: è
proprietario in maniera simile al privato (beni patrimoniali disponibili); rispetto a certi beni è proprietario
subordinato al particolare vincolo, che lega anche i terzi, di non poter distogliere dalla loro destinazione
alcuni beni, così che ogni negozio giuridico relativo a questi beni o rispetta tale vincolo o è nullo o inefficace
(beni patrimoniali indisponibili); è proprietario con un vincolo anche maggiore, quando non può in alcun
modo essere privato di certi beni, che restano dello Stato qualunque cosa accada (beni demaniali). Per
concludere i beni demaniali sono valori d’uso, cose utili che lo stato amministra nell’interesse di tutti, ma
non ne costituiscono una ricchezza in valore dello Stato (non fanno parte del suo patrimonio). I beni
patrimoniali invece sono valori, cose che hanno un valore di scambio, oltre che un valore d’uso, e quindi
costituiscono patrimonio in senso proprio dello Stato. Il fatto che alcuni di essi siano indisponibili vuol dire
che, finché non cessa la loro specifica destinazione, ogni vicenda giuridica che li riguarda non può mettere in
pericolo questa destinazione, che è fatta nel pubblico interesse; ma proprio per questo lo stesso fatto
conferma che: lo stato può in ogni momento far cessare tale destinazione e dunque recuperare tali beni alla
piena disponibilità; tale vincolo non impedisce che lo stato ne disponga come valore di scambio, sia pure
soggetto a quei particolari limiti di destinazione del bene. Ecco perché i beni demaniali sono valori d’uso e
non valore di scambio: essi sono proprietà comune di tutti e lo stato è l’ente incaricato di amministrare tale
proprietà comune. Esattamente al contrario, i beni patrimoniali fanno parte del mondo delle merci, sia pure
sottoposti a vincoli particolari: essi sono realmente la proprietà dello Stato. Gli esperti dubitano che si possa
ancora fare distinzione tra demanio, patrimonio indisponibile, patrimonio disponibile. La ragione di questi
dubbi sta nel fatto che tra il 2002 e il 2003, sulla base di decreti-legge convertiti in legge, sono state costituite
tre società per azioni, cioè soggetti di diritto privato sia pure con partecipazione pubblica, le quali possono
acquisire, mediante trasferimento o conferimento, diritti pieni o parziali sui beni facenti parti sia del
patrimonio indisponibile, sia di quello disponibile, sia anche del demanio. Queste tre società per azioni sono
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patrimonio dello Stato Spa, infrastrutture Spa e Anas Spa. Anche se le norme istitutive di tali società
affermano che nulla viene cambiato rispetto alle norme del codice civile, il solo fatto che al posto dell’ente
stato vi siano enti di diritto privato modifica il regime giuridico dei beni in proprietà di tali società per azioni,
fino al punto che qualcuno sostiene che di fatto le norme del codice civile sono state in tutto o in parte
abrogate. Al riguardo gli esperti non sono giunti a conclusioni certe e consolidate.

5) Il rapporto di impiego pubblico: un apparato così complesso come lo stato ha bisogno, per funzionare,
di molti uomini al suo servizio. Allo stesso modo regioni, province, comuni, unità sanitarie locali ed altri enti
pubblici funzionano mediante il lavoro di persone fisiche al loro servizio. E infatti i dipendenti di tutti gli enti
pubblici, stato compreso, sono circa 4 milioni. Dunque, è necessario disciplinare questo rapporto di lavoro
tra dipendenti degli enti pubblici ed enti pubblici datori di lavoro. Tutta la materia è stata modificata dal d.
lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993 (che oggi è stato assorbito dal d. lgs. 165/2001, fatte salve le future probabili
modificazioni). Prima di questo decreto legislativo veniva fatta una distinzione tra i dipendenti degli enti
pubblici economici (cioè degli enti pubblici che producono e vendono beni e servizi secondo le regole del
mercato), e tutti gli altri dipendenti da enti pubblici non economici: i primi erano ricompresi entro il rapporto
di lavoro privato; i secondi erano disciplinati da una legislazione particolare di diritto pubblico. Oggi bisogna
operare una tripartizione: a) restano disciplinati come prima i dipendenti di enti pubblici economici (sono
divenuti pochi, essendo stati gli enti pubblici economici più importanti trasformati in società per azioni); b)
restano disciplinati come prima dal diritto pubblico una parte dei dipendenti pubblici: i magistrati ordinari,
amministrativi e contabili; gli avvocati e procuratori dello Stato; il personale militare e delle forze di polizia;
il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia; c) tutti gli altri dipendenti pubblici (di tutti
gli enti pubblici non economici) sono disciplinati dal diritto privato: si tratta di un diritto privato speciale che
distingue dipendenti da enti pubblici, non economici, dai dipendenti da soggetti privati. Le persone del
gruppo b e quelle del gruppo c sono chiamate dalla legge dipendenti pubblici e il loro rapporto di lavoro
viene chiamato impiego pubblico. Per il passato con quest’ultima espressione si indicava il fatto che alcuni
lavoratori erano al servizio degli enti pubblici, o il regime particolare della disciplina a loro applicabile (che
era di diritto pubblico); mentre oggi indica il fatto che si tratta di un rapporto di lavoro tra una persona ed un
ente pubblico, senza alcuna implicazione per quanto attiene alla disciplina di tale rapporto. Siccome però
continuano ad esistere rapporti di lavoro con enti pubblici disciplinati dal diritto pubblico, ed esistono oggi
prevalentemente rapporti disciplinati dal diritto privato, si suggerisce di usare le espressioni impiego
pubblico di diritto pubblico e impiego pubblico di diritto privato. Per esporre gli aspetti principali di questa
materia seguiremo questo metodo: 1) indicheremo quegli aspetti che restano comuni a tutti i dipendenti
pubblici, in base a quanto prescrive la costituzione; 2) indicheremo quegli aspetti principali che
caratterizzano il rapporto di impiego pubblico di diritto pubblico; 3) indicheremo quegli aspetti principali che
caratterizzano il rapporto di impiego pubblico di diritto privato. Rientrano nel primo gruppo la regola
costituzionale sui concorsi pubblici e quella sulla responsabilità dei dipendenti pubblici. Di regola si diventa
impiegati pubblici solo mediante concorso pubblico (art. 97 u. c.: agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge). A tali concorsi, come
prescrive l’art. 51 della costituzione, possono accedere tutti i cittadini italiani, maschi e femmine, in
condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. I concorsi sono disciplinati dalle leggi, che
prescrivono i presupposti del bando di concorso, i criteri di composizione delle commissioni esaminatrici, le
procedure di esame, etc. Esaminiamo ora la responsabilità civile e penale dell’impiegato pubblico
nell’esercizio delle sue funzioni. L’art. 28 della costituzione dispone: i funzionari e i dipendenti dello Stato e
degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti
compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo stato e agli enti pubblici.
Da esso si trae la regola per cui in tutti i casi in cui il pubblico dipendente provoca danno ingiusto,
responsabile civilmente per tale danno non è solo il pubblico dipendente ma anche lo stato. Rientra
nell’impiego pubblico di diritto pubblico la caratteristica per cui tutto il rapporto di lavoro è disciplinato
unilateralmente dalla legge, o da atti normativi e amministrativi sulla base della legge, così che è esclusa in

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materia ogni contrattazione tra ente pubblico e sindacati dei dipendenti pubblici (cioè sul piano giuridico tali
accordi non hanno efficacia, e per divenire obbligatori devono essere recepiti in leggi o altri atti normativi e
amministrativi subordinati alle leggi). Le controversie di lavoro relative al rapporto di lavoro di questi
dipendenti disciplinati dal diritto pubblico restano affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo (TAR in primo grado, Consiglio di Stato in appello). Ognuna delle categorie ricomprese in
questo gruppo è sottoposta ad una specifica e complessa normativa. Gli aspetti principali del gruppo dei
dipendenti pubblici di diritto privato sono: 1) ad essi si applicano le norme del diritto privato in quanto
compatibili con la specialità del rapporto e con il perseguimento degli interessi generali nei termini definiti
dal presente decreto; 2) i dipendenti pubblici di diritto privato vengono assunti mediante un contratto, come
quelli privati, fatta salva la regola costituzionale già illustrata che esige il previo concorso; 3) si applicano
anche ad essi le comuni regole di diritto privato in tema di contrattazione collettiva, e quindi i contratti di
lavoro una volta stipulati dalle parti legittimate a farlo, diventano obbligatori come i contratti collettivi nei
confronti delle imprese private; 4) giudice delle controversie di lavoro non è più il giudice amministrativo,
ma quello ordinario. 5) Delle molte e complesse altre regole conviene ricordare: a) il fatto che la
contrattazione collettiva viene affidata, per la parte pubblica, non più ai dirigenti politici, ma ad un’agenzia
professionale (agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, ARAN)
appositamente istituita; b) che i dipendenti pubblici, prima di adire il giudice ordinario, dovranno esperire un
tentativo di conciliazione, secondo le regole previste dalle norme in vigore.

6) Compiti e attività delle pubbliche amministrazioni: quando parliamo di compiti delle pubbliche
amministrazioni intendiamo riferirci agli obiettivi ed ai risultati che le pubbliche amministrazioni devono
perseguire e raggiungere. I compiti delle pubbliche amministrazioni sono tanto numerosi e diversi quanto
prescrivono le norme. Essi variano nel tempo e secondo gli ordinamenti. Possiamo così riassumere i compiti
delle pubbliche amministrazioni oggi in Italia: a) compiti di conservazione: quelle attività rivolte a
proteggere la sicurezza e la incolumità delle persone e delle cose; b) compiti di benessere: quelle attività
dirette ad aumentare e migliorare le condizioni di vita delle persone; a loro volta possono essere suddivisi in:
b1) compiti di regolazione e sviluppo dell’economia; b2) compiti di istruzione, promozione della cultura e
del tempo libero; b3) compiti di tutela dell’ambiente; b4) compiti di tutela della sicurezza sociale; c) compiti
strumentali: quelle attività strumentali rispetto alle precedenti, diretta ad organizzare uffici, reclutare
personale, reperire mezzi. Al fine di perseguire i compiti assegnati ciascuna p.a. si avvale di dipendenti, di
mezzi materiali, e svolge un’attività. Le attività delle pubbliche amministrazioni sono gli insiemi di
comportamenti che ciascuna di esse tiene per svolgere i compiti ad esso assegnati. Questi comportamenti
sono tanto numerosi e tanto diversi quanto esigono gli obiettivi perseguiti e quanto impongono le norme.
Possiamo classificare così queste attività: 1) le pubbliche amministrazioni, nei casi e con le modalità previste
dalle leggi, comandano nei confronti di altri soggetti, cioè si comportano come autorità che hanno il potere
legale di produrre con una propria decisione unilaterale conseguenze giuridiche, favorevoli o sfavorevoli, nei
confronti di altri soggetti, i quali si trovano in una posizione di subordinazione nei confronti della prima. In
questo caso la p.a. si presenta come soggetto sovraordinato, ed usa strumenti giuridici che esprimono questo
rapporto di dipendenza della p.a. da un lato e soggetti esterni dall’altro. Quando la p.a. esercita poteri di
questo genere diciamo che svolge un’attività di diritto pubblico. 2) Le pubbliche amministrazioni, nel
perseguire i loro obiettivi previsti dalle norme, possono anche presentarsi su un piano di parità con gli altri
soggetti, se le leggi lo permettono, così che essi perseguono tali obiettivi attraverso il consenso di altri.
Quando le pubbliche amministrazioni svolgono i loro compiti usando gli strumenti giuridici del diritto
privato (i contratti) possiamo dire che essa svolge un’attività di diritto privato. 3) Ci sono poi comportamenti
strumentali delle pubbliche amministrazioni produttivi di effetti giuridici che sono utili, sia per esercitare i
poteri autoritativi sia per iniziare e svolgere rapporti diritto privato, ma che non possono essere definiti né di
diritto pubblico né di diritto privato (es. quando le pubbliche amministrazioni comunicano ad altri le proprie
intenzioni). Dunque, questi comportamenti vengono definiti comportamenti giuridicamente neutri, che
formano una terza attività, neutra rispetto alle precedenti. Queste tre attività sono giuridiche perché

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produttive di effetti giuridici. 4) Le pubbliche amministrazioni svolgono anche attività non giuridiche: es. ci
sono pubbliche amministrazioni che organizzano le scuole, la cui attività principale è quella di impartire
istruzioni per mezzo dei docenti. Bisogna distinguere tra fatto giuridico e fatto giuridicamente rilevante: fatto
giuridico è un fatto che le norme configurano come fatto diretto a produrre effetti giuridici; fatto
giuridicamente rilevante è qualsiasi fatto che viene preso in considerazione dalle norme, in circostanze date,
per ricollegare ad esso conseguenze giuridiche, ma che di per sé non produce conseguenze giuridiche.
L’insegnamento impartito da un docente vale per i risultati che riesce a raggiungere, ma di per sé non
produce alcun effetto giuridico; può accadere che tale insegnamento venga esaminato per verificare se
corrisponde ai programmi ministeriali e, in caso di non corrispondenza, può dar luogo a sanzioni disciplinari:
le sanzioni disciplinari però sono prodotte, dal punto di vista giuridico, dal provvedimento sanzionatorio
dell’autorità competente, e l’attività di insegnamento resta il fatto oggettivo che giustifica il provvedimento
ma non diventa né fatto né tantomeno atto giuridico e cioè produttivo di effetti giuridici. Questo tipo di
attività delle pubbliche amministrazioni, poiché di per sé non è produttiva di effetti giuridici, la chiamiamo
materiale o oggettiva. Per i cittadini l’attività materiali della p.a. è la più importante e la più conosciuta: al
cittadino importa poco sapere mediante quali atti giuridici funzionano le unità sanitarie locali, importa che le
prestazioni sanitarie siano adeguate, tempestive, complete. Invece per i giuristi l’attività materiale non ha
quasi alcuna importanza, perché di per sé non produce effetti giuridici.

7) Gli atti delle pubbliche amministrazioni: se chiamiamo comportamenti qualsiasi fare delle pubbliche
amministrazioni, questi si dividono in atti e operazioni. Questa distinzione non riguarda solo il diritto
amministrativo ma tutti i rami del diritto. Per atti intendiamo dichiarazioni (scritte o orali), cioè
manifestazioni di pensiero o mediante parole o segni equivalenti, e quindi per atti delle pubbliche
amministrazioni intendiamo dichiarazioni provenienti dalle pubbliche amministrazioni; con la parola
operazione designiamo qualsiasi altro comportamento non traducibile in una dichiarazione (es. una visita
medica). Le operazioni sono la manifestazione di attività materiale, e le dichiarazioni sono la manifestazione
delle attività giuridiche, di diritto privato, o pubblico, o neutre. Tutti gli atti giuridici possiamo dividerli in: 1)
dichiarazioni di scienza (es. un certificato mediante il quale una p.a. attesta che un certo fatto è vero: il
certificato di nascita); 2) dichiarazioni di desiderio (es. una proposta); 3) dichiarazioni di giudizio (es. un
parere); 4) dichiarazioni di volontà (es. un contratto o un provvedimento amministrativo): con il contratto la
p.a. si accorda con un altro soggetto per creare, modificare o estinguere un rapporto giuridico; con il
provvedimento amministrativo la p.a., unilateralmente, nei casi previsti dalle leggi, modifica la situazione
giuridica di un altro soggetto o di altri soggetti, a vantaggio (es. con una sovvenzione in denaro), o a
svantaggio (es. togliendo la proprietà di un bene). Gli atti più incisivi sono le dichiarazioni di volontà:
costituiscono gli strumenti giuridici attraverso cui le pubbliche amministrazioni modificano la realtà
giuridica, e quindi ad essi devono ricorrere ogni volta che per perseguire i propri compiti c’è bisogno di tali
modificazioni. L’espressione atti delle pubbliche amministrazioni comprende tutti gli atti provenienti dalle
pubbliche amministrazioni, quindi non bisogna confondere questa espressione con atti amministrativi che
sono una parte degli atti delle pubbliche amministrazioni. Gli atti delle pubbliche amministrazioni possiamo
dividerli secondo altri criteri; ritorna la distinzione tra atti di diritto privato, atti di diritto pubblico, atti neutri.
Combinando questo criterio di classificazione con quello precedente avremo atti di diritto privato che
consistono in dichiarazioni di scienza, etc., e atti di diritto pubblico che egualmente consistono in
dichiarazione di volontà, etc. (gli atti neutri non si prestano a questa classificazione e chi li vuole classificare
deve ricorrere ad altri criteri).

8) L’attività di diritto privato delle p.a.: oggi, in forza del nuovo comma 1-bis introdotto nell’art. 1 della l.
241/90 dalla l. n. 15/05 è necessario aggiungere alla tradizionale attività di diritto privato delle pubbliche
amministrazioni altri atti non autoritativi della p.a. È opinione pacifica che, se la legge non lo vieta ed è
nell’interesse pubblico, le pubbliche amministrazioni possono agire nei rapporti con soggetti esterni ad esse
come un qualsiasi privato: possono vendere, comprare, etc. A questi atti, di diritto privato perché già previsti
dal diritto privato, bisogna aggiungere altri atti della p.a. se essi non sono autoritativi, perché la p.a.,
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nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge
disponga diversamente. Dunque, bisogna distinguere tra atti che la p.a. adotta nei confronti di soggetti ad
essa esterni come potrebbe fare un qualunque privato e atti rivolti a soggetti esterni alla p.a. che specifiche
norme prevedono come propri della p.a. ma che non hanno carattere autoritativo (es. una comunicazione),
cioè non sono manifestazioni di autorità in base alla quale la sfera giuridica del destinatario dell’atto viene
unilateralmente modificata per effetto dell’atto della p.a. Se un atto della p.a. ha natura non autoritativa, a
questo atto si applica in principio il diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. Prendiamo ora
in esame i tradizionali atti di diritto privato della p.a. In questi casi è necessario fare distinzione tra regole
che disciplinano il rapporto tra p.a. e privato e regole che disciplinano il modo che la p.a. deve seguire per
instaurare e svolgere tale rapporto col privato. Le prime sono le regole contenute nel codice civile e in altre
leggi che disciplinano i rapporti giuridici interprivati. Le seconde prescrivono alla p.a. il cammino che essa
deve seguire obbligatoriamente prima di adottare una qualunque decisione produttiva di effetti giuridici di
diritto privato. Il diritto in tali casi distingue nettamente tra rapporto intersoggettivo e regolamentazione del
soggetto pubblico che contrae tale rapporto. Di regola il diritto privato non si preoccupa di quelle attività di
fatto che le persone svolgono prima di stipulare un contratto o di quelle attività che accompagnano lo
svolgimento del rapporto senza però costituirne parte integrante. Però dato che la p.a. svolge compiti non
nell’interesse privato suo o di altri, ma nell’interesse della collettività, le attività che, se svolte da privati, di
regola sono irrilevanti, diventano invece rilevanti se svolte dalla p.a., perché coinvolgono interessi pubblici e
non privati. Questo spiega perché i contratti pubblici (o ad evidenza pubblica) sono normali contratti per
quanto attiene al rapporto contrattuale tra p.a. e privato, e sono accompagnati da una normativa di diritto
pubblico minuziosa che disciplina fase per fase il modo attraverso cui la p.a. deve stipulare il contratto,
determinare le clausole contrattuali, svolgere gli opportuni controlli, etc. Dunque, non sempre la p.a. può
scegliere liberamente la controparte: talvolta deve seguire un solo modo precostituito, talaltra può scegliere
tra più modi ma, una volta deciso questo, deve poi seguirlo rigorosamente. Es. se si sceglie il modo dell’asta
pubblica (o la procedura aperta), esiste una complessa procedura da seguire; lo stesso se si sceglie il modo
della licitazione privata (o la procedura ristretta). La vicenda si svolge su due piani giuridici distinti: da un
lato il comune rapporto di diritto privato tra p.a. e controparte; dall’altro, in ogni fase di svolgimento di tale
rapporto, si svolge un procedimento amministrativo che regola i diversi comportamenti che la p.a. deve
tenere in relazione a tale rapporto di diritto privato. Questa disciplina pubblicistica che si integra con quella
privatistica per tutelare interessi pubblici (es. per garantire che gli amministratori pubblici, nello stipulare
contratti con privati, non abusino del denaro pubblico per fini illeciti), comporta la conseguenza che i vizi dei
procedimenti e dei provvedimenti mediante i quali la p.a. contratta ed esegue i contratti si ripercuotono sui
rapporti giuridici ad essi collegati, in modi talmente complicati e con conseguenze così diversificate che non
è possibile riassumerli in poche parole. Nella scelta del contraente le amministrazioni dello Stato, delle
regioni, dei comuni, delle province e di altri enti pubblici devono seguire alcune strade obbligatorie. Queste
diverse strade sono cambiate in forza del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163. I nomi e gli istituti tradizionali sono:
1) l’asta pubblica: è una gara, aperta a tutti gli interessati che hanno i requisiti richiesti dalla legge o dal
bando di gara, mediante la quale chi offre la contropartita più vantaggiosa si aggiudica il contratto. I modi
attraverso cui si deve svolgere l’asta pubblica sono diversi e piuttosto complessi. 2) La licitazione privata: si
distingue dall’asta pubblica perché la p.a. seleziona preventivamente coloro che sono ammessi alla gara,
invitandoli: per il resto è simile all’asta. 3) La trattativa privata: la scelta è libera e informale, anche se in
linea di principio i giudici richiedono che la p.a. prima di scegliere confronti diverse offerte: è ammessa dalla
legge solo in casi eccezionali tassativamente indicati. 4) L’appalto concorso: la p.a. indice una gara per la
realizzazione di un’opera pubblica e sulla base del risultato del concorso stipula con il vincitore un contratto
di appalto a questo scopo. I nomi nuovi sono: in generale gara (a sottolineare che la scelta avviene in una
competizione tra più di uno); sono previste poi più forme di gara sulla base della procedura seguita,
obbligatoriamente o facoltativamente secondo i diversi casi previsti dalle norme del codice prima citato:
procedura aperta (che corrisponde all’asta); procedura ristretta (che corrisponde alla licitazione privata);
procedura negoziata (che corrisponde alla trattativa privata); vi è poi una procedura che viene chiamata
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

dialogo competitivo; sono previsti e disciplinati i concorsi di progettazione e i concorsi di idee, ed altri casi
ancora. I contratti ad evidenza pubblica sono una categoria di contratti della p.a. individuata in base al modo
che la p.a. deve tenere per stipulare il contratto e svolgere il rapporto contrattuale fino alla sua estinzione. Vi
sono poi casi che non presentano alcuna differenza rispetto alla situazione propria dei privati, e dunque sono
contratti senza evidenza pubblica. Entro la categoria dei contratti senza evidenza pubblica si distinguono due
sottocategorie principali: a) le pubbliche amministrazioni stipulano contratti e intrattengono rapporti di
diritto privato in tutto e per tutto eguali a quelli che stipulano e intrattengono i privati; b) alcune pubbliche
amministrazioni stipulano contratti che, in forza di leggi speciali, presentano una disciplina in parte diversa
da quella propria dei corrispondenti contratti comuni. Nella pratica si erano moltiplicati i casi di accordo tra
p.a. e privato che o prefiguravano il contenuto del successivo provvedimento o addirittura lo sostituivano. La
caratteristica comune a tutti questi casi sta nel fatto che nel corso del procedimento amministrativo, o in
collegamento con esso, o talvolta in sostituzione di esso, l’autorità decidente si accorda col privato su alcuni
punti interni o collegati col provvedimento che si intende adottare (o sostituendo l’accordo allo stesso
provvedimento). In questo modo la p.a. introduce elementi convenzionali all’interno di procedure che
restano amministrative e cioè di diritto pubblico. Oggi la l. 241/90, come integrata dalla l. 15/05 e dalla l.
80/05, disciplina questo caso in via generale. La partecipazione al procedimento da parte degli interessati può
dar luogo a due esiti importanti. 1) La p.a. e gli intervenuti possono approvare un accordo mediante il quale
determinano il contenuto del provvedimento finale o sostituiscono il provvedimento; in tali casi la
stipulazione dell’accordo è preceduta da una determinazione positiva dell’organo che sarebbe competente
per l’adozione del provvedimento (comma 4-bis introdotto nell’art. 11 della l. 241/90 dalla l. 15/05). 2) Può
anche accadere che all’accordo non si arrivi, e che la p.a. nell’interesse pubblico decida unilateralmente
secondo quanto ritiene opportuno o necessario: in questo caso deve motivare le ragioni del dissenso. Questi
accordi vengono dalla l. 241 avvicinati per quanto possibile ai contratti del diritto privato, salvo un punto
importante: ad essi si applicano ove non diversamente previsto dalle leggi, i principi del codice civile in
materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili; però i giudici delle controversie relative a tali
accordi sono solo i giudici amministrativi (altro caso di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).

9) L’attività di diritto pubblico. Gli atti amministrativi. I provvedimenti amministrativi: siccome gli
atti amministrativi più importanti, cioè le dichiarazioni di volontà, ricevono il nome specifico di
provvedimenti, l’espressione atto amministrativo viene usata in due sensi diversi: talvolta indica tutti gli atti
amministrativi; altre volte indica gli atti amministrativi che non sono provvedimenti, e in questo caso si usa
l’espressione atti amministrativi in senso stretto; egualmente si trova l’espressione atti amministrativi in
senso lato per indicare tutti gli atti amministrativi compresi i provvedimenti. Dopo la l. n. 15 del 2005 (che
ha modificato la l. 241/90) la tradizionale distinzione prima descritta si complica perché questa legge ha
introdotto la distinzione tra atti autoritativi e atti non autoritativi della p.a., ed ha assoggettato gli atti non
autoritativi al diritto privato. Dunque, è lecito chiedersi se esistono atti amministrativi autoritativi che non
sono definibili provvedimenti e se possiamo chiamare atti amministrativi gli atti non autoritativi delle
pubbliche amministrazioni. Per capire il senso di queste due domande, che si pongono oggi, è opportuno
ricordare che per designare un qualunque atto proveniente dalla p.a. si usa l’espressione atto della p.a.,
mentre l’espressione atto amministrativo designava l’insieme di tutti gli atti di diritto pubblico della p.a.: se,
come prescrive la nuova disposizione introdotta dalla l. 15/05, l’atto della p.a. non autoritativo è disciplinato
dal diritto privato, come possiamo chiamarlo atto amministrativo alla luce della precedente definizione?
Possiamo notare che la stessa l. 15/05 descrive un tipo di atto che non è autoritativo ma neppure può essere
definito di diritto privato, ed è anzi chiaramente di diritto pubblico: essa col nuovo art. 11 della l. 241/90
come integrato dalla l. 15/05, prescrive che la p.a., prima di stipulare un accordo con altri soggetti che integra
o sostituisce un provvedimento, deve essere autorizzata da una determinazione dell’organo che sarebbe
competente ad adottare quel provvedimento che viene integrato o sostituito dall’accordo: questa
determinazione non è atto autoritativo, perché non impone nulla al soggetto con cui la p.a. intende giungere
all’accordo; nello stesso tempo non è un atto di diritto privato, trattandosi di determinazione di un organo

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

della p.a., in tutto disciplinato dal diritto pubblico. Questa constatazione ci permette di dare una definizione
di atto non autoritativo di cui si occupa la l. 15/05 più ristretta di quella apparente: la divisione tra atti
autoritativi e atti non autoritativi non comprende tutti gli atti della p.a., ma solo quelli che la p.a. rivolge a
soggetti esterni a sé stessa; ciò di cui si preoccupa la l. 15/05 è distinguere i casi nei quali la p.a. si rivolge ai
privati come autorità, cioè impone unilateralmente qualcosa, dai casi nei quali la p.a. si rivolge ai privati
senza imporre e poter imporre nulla, e dispone che in questi casi si applica in principio il diritto privato. Però
i casi in cui la p.a. si rivolge ai privati non esauriscono gli atti della p.a. A questi casi nei quali la p.a. non si
rivolge a soggetti esterni ad essa non si applica la distinzione atti autoritativi e atti non autoritativi, e diventa
così possibile chiamare questi atti, se non sono provvedimenti, atti amministrativi. In conclusione, Rescigno
sostiene che ci sono ancora atti amministrativi in senso stretto, cioè atti di diritto pubblico della p.a., che non
sono atti autoritativi ma nello stesso tempo restano atti di diritto pubblico, così che resta anche la categoria
degli atti amministrativi in senso lato, che si articola al suo interno nella sottocategoria dei provvedimenti
amministrativi e nella sottocategoria degli atti amministrativi in senso stretto. Anche gli atti amministrativi in
senso stretto producono effetti giuridici. Il parere espresso da una p.a. nell’esercizio della funzione consultiva
a essa attribuita dalle norme impone a chi deve decidere sulla base del parere o di adottare una decisione
conforme al parere (parere vincolante) o di discostarsi dal parere sulla base di fondati motivi di cui deve
rendere conto (parere non vincolante). La domanda rivolta da una p.a. ad un’altra nel caso in cui la legge
prevede che la prima abbia un potere di iniziativa obbliga la seconda a prenderla in esame. Quindi gli atti
amministrativi sono tali perché producono effetti giuridici, ma, a differenza degli atti privati, tali effetti sono
prodotti unilateralmente nei casi previsti dalle leggi da autorità amministrative per perseguire fini pubblici
nell’interesse della collettività. Il provvedimento amministrativo si caratterizza per il fatto che non produce
solo un qualche effetto giuridico, ma produce lo specifico effetto di creare, modificare o estinguere situazioni
giuridiche nei confronti di altri soggetti esterni alla p.a. Continuando a parlare degli atti amministrativi in
senso lato, un’altra importante distinzione è quella tra atti dovuti e atti facoltativi: ci sono casi in cui la p.a.,
al verificarsi di certi accadimenti previsti dalle leggi, deve agire, e altri in cui è previsto che la p.a. possa
anche astenersi dall’agire. Si fa distinzione tra atti che la p.a. produce su domanda di un interessato (si
presuppone che una norma abbia dato all’interessato il potere di fare domanda; dunque bisogna distinguere
tra una mera sollecitazione di per sé non produttiva di effetti giuridici e una domanda nel senso tecnico
giuridico, cioè un atto previsto dalle norme mediante il quale la p.a. viene attivata ed è obbligata a
rispondere) e atti che la p.a. produce per sua iniziativa (in questo caso ritorna la distinzione tra atti dovuti e
atti facoltativi). Questa classificazione è giuridica, in quanto prevista dalla l. 241/90, modificata dalla l.
15/05. Questa legge prescrive che nei casi in cui un procedimento è stato iniziato su domanda o d’ufficio ma
obbligatoriamente nei casi previsti dalla legge (esclusi i procedimenti iniziati per mera iniziativa della p.a.),
la p.a. deve concludere il procedimento entro termini tassativi, che la legge divide in tre tipi a cascata (se
manca il primo, si applica il secondo; se manca il secondo, si applica il terzo): o il termine è previsto
espressamente dalla legge; o, in subordine, il termine è previsto espressamente con regolamento deliberato
con la procedura prevista dalla l. 241/90; o, in subordine e a chiusura, il termine è di 30 giorni. Più
importante la distinzione tra atti discrezionali e atti vincolati. Ci sono casi in cui la p.a. deve agire
esattamente come prescrivono le norme, senza nessun margine di variazione; o può agire o non agire, ma, se
decide di agire, il contenuto dell’atto è totalmente vincolato a ciò che le norme prevedono. Ci sono altri casi
in cui le leggi lasciano alla p.a. un margine più o meno ampio di scelta, così che il concreto atto contiene
prescrizioni decise volta a volta dalla p.a. secondo quanto la p.a. ritiene più opportuno in quel determinato
caso nell’interesse pubblico. Questa libertà può riguardare uno o più aspetti dell’atto (all’inverso uno o più
aspetti dell’atto possono essere vincolati), e riceve il nome di discrezionalità amministrativa. La ragione di
questo nome sta nel fatto che la p.a., anche quando possiede margini di scelta, è libera solo nei limiti in cui lo
permette l’interesse pubblico; mentre il privato, poiché produce conseguenze giuridiche che ricadono nella
sua sfera giuridica, è libero di agire come meglio crede, salvi i divieti della legge. Quando la legge permette
alla p.a. di scegliere tra diverse soluzioni, il legislatore ha ritenuto che il contenuto dell’atto capace di
tutelare l’interesse pubblico doveva essere configurato caso per caso in base ad indagini accurate sullo stato
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

delle cose: la p.a. dunque, a cui è stato attribuito questo potere di determinare come è più opportuno
perseguire l’interesse pubblico in un certo momento, in un certo luogo, rispetto a certe persone, all’obbligo di
mettere a confronto i vantaggi e gli svantaggi che, considerati gli interessi pubblici in gioco, sono provocati
da una determinata soluzione, e scegliere quella che appare la più opportuna. La discrezionalità
amministrativa si caratterizza per due aspetti complementari: si tratta di una sfera di libertà che esiste se e
finché la legge la prevede; questa libertà ha un suo limite non solo esterno, ma interno perché è sempre
libertà in vista di un fine pubblico: è libertà di valutare l’opportunità e la congruità di un aspetto dell’atto
rispetto al fine pubblico che la legge esige venga perseguito da quella autorità amministrativa e se questa
valutazione è scorretta, rispetto al fine da perseguire, la valutazione della p.a. può essere soggetta a controllo.
La libertà del privato viene definita in negativo (e non in positivo come la discrezionalità amministrativa):
cioè è libertà indeterminata rispetto a tutto, salvi i limiti imperativi della legge (mentre la libertà contenuta
nella discrezionalità amministrativa è libertà solo rispetto a certe questioni predeterminate dalle leggi); il
fatto che la p.a. deve perseguire fini pubblici, predeterminati, comporta che deve assumere un
comportamento adeguato rispetto al fine prefissato e quindi la motivazione dell’atto diventa essenziale,
perché attraverso la motivazione la p.a. rende conto delle ragioni della sua scelta; inoltre la discrezionalità
spiega perché rispetto agli atti amministrativi sia previsto un particolare vizio di legittimità, chiamato eccesso
di potere. La discrezionalità sopradescritta viene chiamata anche discrezionalità amministrativa per
distinguerla dalla discrezionalità tecnica: si parla di quest’ultima quando la p.a. decide sulla base di
prescrizioni imposti da giudizi a carattere tecnico-scientifico. Alcuni atti amministrativi in senso stretto e
quasi tutti i provvedimenti vengono adottati in base ad un procedimento amministrativo, cioè attraverso una
sequenza preordinata di atti. Una sequenza tipica che ricorre quasi sempre è la fase dell’iniziativa
(individuazione del soggetto che può proporre qualcosa e dei modi di questa proposta); fase preparatoria o
istruttoria (individuazione dei soggetti che esaminano preliminarmente sotto i diversi aspetti il
provvedimento da adottare); fase decisionale (individuazione del soggetto che decide il contenuto dell’atto e
dei modi di questa decisione); fase integrativa dell’efficacia (individuazione dei soggetti e dei modi del
controllo in senso lato). Il momento fondamentale sta nella fase decisionale, quella in cui un soggetto della
p.a. adotta la decisione vincolante verso l’esterno. Questo è il provvedimento, l’atto attraverso cui la p.a.
decide imperativamente qualcosa rispetto ad altri. Tutte le altre fasi esistono in quanto servono a preparare o
ribadire il momento decisionale, tanto è vero che la fase decisionale può stare da sola, se la legge così
prevede, e dunque il provvedimento può essere adottato senza procedimento, mentre tutte le altre fasi
esistono solo se esiste il momento decisionale. Si può concludere che esistono atti amministrativi che non
sono provvedimenti, ma atti strumentali rispetto ad un provvedimento. Così si ritrova la distinzione tra
provvedimenti e atti amministrativi in senso stretto, con l’avvertenza che ci sono atti amministrativi in senso
stretto che sono parte di un procedimento, ma anche atti amministrativi in senso stretto che esistono da soli
indipendentemente da un procedimento. Tali sono tutte le dichiarazioni, gli accertamenti, le ispezioni, le
inchieste, i processi verbali, le notificazioni, le comunicazioni, etc. La l. 241/90 disciplina (per la prima volta
in Italia) il procedimento amministrativo nel suo insieme e garantisce in termini generali il diritto di accesso
ai documenti amministrativi (cioè cerca di superare il segreto di fatto di cui da sempre si avvalgono le
amministrazioni pubbliche e private). La legge non disciplina tutti i procedimenti amministrativi, ma detta
alcuni principi fondamentali in tema di procedimenti, imponendo da un lato che su molte questioni le
amministrazioni debbano emanare regole particolari attuative dei principi enunciati, e lasciando dall’altro
che altre leggi disciplinino in modo più particolare singoli procedimenti. Rispetto a questo secondo caso si
possono dare queste ipotesi: 1) un procedimento è già disciplinato da una legge anteriore alla l. 241/90: se
questa legge contiene regole contrarie a ciò che stabilisce la l. 241/90, si applicano le regole di questa
seconda legge, e quelle anteriori incompatibili devono ritenersi abrogate; restano in vigore quelle regole più
specifiche non incompatibili con la l. 241/90. 2) Un procedimento viene disciplinato da una specifica legge
successiva alla l. 241/90, e non contiene alcuna norma incompatibile con questa: per ogni aspetto particolare
si applica la specifica legge particolare, per gli aspetti disciplinati in modo vincolante e non derogabile dalla
l. 241 si applica questa seconda. 3) Un procedimento viene disciplinato da una legge successiva alla l.
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

241/90, e tale legge contiene alcune norme incompatibili con questa: il problema nasce per la presenza di tali
norme incompatibili, giacché in ogni altra ipotesi si applicano le regole enunciate nel punto 2; per le regole
contrastanti con la l. 241, bisogna distinguere i casi in cui il legislatore successivo intendeva abrogare un
principio della l. 241, dai casi in cui intendeva derogare per un procedimento particolare. Nel primo caso i
principi della l. 241/90, anche se contenuti in una legge ordinaria, vengono ritenuti dalla Corte costituzionale
i principi attuativi dei principi costituzionali del buon andamento e della imparzialità della p.a. contenuti
nell’art. 97 della costituzione, così che è possibile modificare le disposizioni della l. 241/90 solo se anche le
nuove disposizioni sono attuative dei principi costituzionali citati; se è così, si applicano i principi comuni in
materia di successione nel tempo tra leggi, per cui prevale la legge posteriore. Nel secondo caso può
accadere che l’eccezione violi indirettamente un principio costituzionale e in tal caso spetta alla Corte
costituzionale dichiarare l’incostituzionalità di questa disposizione successiva (il che vuol dire che la legge
241 in alcuni casi prevale sulle leggi successive derogatorie); ma può anche accadere che l’eccezione non
presenti alcuna illegittimità costituzionale, ed allora si applica la legge successiva. 4) Può accadere che una
legge preveda un certo atto della p.a., e però non disciplini il procedimento di formazione di tale atto: si
applicano, per tutti gli aspetti non disciplinati, i principi e le regole della l. 241. L’art. 1 della l. 241/90
prescrive che anche i procedimenti siano tipici, e cioè siano in principio solo quelli previsti dalle norme e per
questo si presuppone che siano tipici i provvedimenti finali. La p.a. può aggravare un concreto procedimento
rispetto a quello prefigurato dalle leggi, ma solo per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo
svolgimento dell’istruttoria. Di conseguenza la p.a. deve motivare questo aggravamento procedimentale e
questi motivi devono corrispondere al vero altrimenti è annullabile. Un’importante principio è stabilito
nell’art. 2, comma primo: se un procedimento deve essere iniziato obbligatoriamente, o su istanza, o
d’ufficio, la p.a. obbligata ad iniziare è obbligata anche a concludere il procedimento mediante l’adozione di
un provvedimento espresso (e se non adotta questo provvedimento, vi saranno le sanzioni del caso). A
garanzia di questo obbligo l’art. 2 prescrive una regola importante: per ciascun tipo di procedimento il
governo stabilisce i termini entro i quali i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali devono
concludersi, ove non siano direttamente previsti per legge. Se il governo non provvede, il termine è di 30
giorni (salve le eccezioni e le complicazioni previste dalla l. 241). Si possono avere tre casi, l’uno in
subordine all’altro: 1) il termine per concludere il procedimento è stabilito dalla legge; 2) il termine di cui
sopra è stato stabilito per ciascun tipo di procedimento dal provvedimento del governo; 3) il termine di cui
sopra, se non ricorre né il primo né il secondo caso, è, di massima, di 30 giorni. Il termine finale si calcola
dal ricevimento della domanda, quando il procedimento inizia su domanda, o dal momento in cui si è
verificata la situazione che ha generato l’obbligo di provvedere, per quelli di ufficio. I provvedimenti in
principio vanno tutti motivati, tranne gli atti normativi e quelli a contenuto generale. La l. 241 non si limita
ad esigere l’obbligo di motivazioni, ma indica anche che cosa la p.a. deve indicare nella motivazione: deve
spiegare quali sono i presupposti di fatto; le ragioni giuridiche; deve illustrare i risultati dell’istruttoria
condotta (raccontare quali studi ed indagini sono state condotte e i risultati che esse hanno fornito); e deve
mostrare il legame razionale che esiste tra risultati dell’istruttoria e contenuto della decisione finale. A
garanzia dell’applicazione sia dei principi posti dalla l. 241/90, sia delle altre regole rispetto a specifici
procedimenti poste da altri atti normativi, la l. 241 istituisce la figura del responsabile del procedimento,
individuato in base alle procedure prescritte nel capo II della l. 241. Questo funzionario responsabile del
procedimento deve garantire la piena legittimità del procedimento, soprattutto nei riguardi degli interessati, e
subisce le sanzioni previste dalle norme per un suo comportamento omissivo o colpevolmente contrario alle
prescrizioni delle disposizioni sul procedimento amministrativo. La l. 241/90 introduce il principio per cui
chiunque ha interesse può partecipare ad un procedimento amministrativo, e ha diritto di prendere visione
degli atti del procedimento e di presentare documenti che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare, se essi
sono pertinenti all’oggetto del procedimento. La conseguenza sta nel fatto che, a parte eventuali sanzioni a
carico di chi non ha rispettato tali regole, un atto amministrativo approvato senza che gli interessati potessero
esaminare gli atti del procedimento che hanno condotto a quell’atto, o deliberati senza motivare le ragioni del
non accoglimento delle osservazioni degli intervenuti con memorie scritte e documenti, è annullabile. La
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

legge distingue due classi di interessati a partecipare al procedimento: a) quelli nei cui confronti il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, o che hanno diritto per legge a partecipare al
procedimento, o che possono subire un pregiudizio dal provvedimento finale e nello stesso tempo sono già
individuati o facilmente individuabili; b) altri soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i
portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal
provvedimento. I primi devono essere informati dalla p.a. dell’inizio del procedimento mediante una
comunicazione personale; i secondi non hanno questo diritto, ma hanno facoltà di intervenire. Tutte le regole
precedenti in materia di partecipazione ai procedimenti amministrativi non si applicano alle attività della p.a.
dirette all’emanazione di atti normativi, di atti amministrativi generali, di atti di pianificazione e di
programmazione ed ai procedimenti tributari: a tutte queste attività si applicano le regole specifiche che le
riguardano (l’esclusione riguarda il capo III della l. 241 che disciplina la partecipazione ai procedimenti). Vi
è una parte della l. 241/90 (il capo IV) che inventa vari congegni per semplificare e sveltire le procedure
amministrative: es. per certi tipi di provvedimento la l. 241 prevede che, trascorso un certo tempo dalla
domanda dell’interessato, il provvedimento si intende approvato; in generale è previsto che il responsabile
del procedimento ha l’obbligo di proseguire, se l’autorità competente non ha inviato il parere richiesto entro
un certo termine, prescindendo da questo parere. L’atto amministrativo, consistendo in una dichiarazione,
possiede una sua forma esteriore. Analizziamo l’atto amministrativo che si manifesta attraverso un
documento scritto. Questo documento scritto ha una sua struttura, e alcune parti di questa struttura sono
costanti e necessarie. Il documento contiene all’inizio un’intestazione che dice qual è l’autorità
amministrativa che lo ha emesso; in secondo luogo contiene un preambolo, che enuncia quali sono le norme
che stanno a fondamento dell’atto, descrive gli stati di fatto che giustificano la sua emanazione, e dà conto
del procedimento seguito prima di giungere all’atto; segue la motivazione, con cui la p.a. spiega perché il
contenuto dell’atto è quello e non altro; viene poi il dispositivo, la parte sostanziale dell’atto, in cui la p.a.
enuncia la sua decisione; infine la sottoscrizione di quel funzionario che è legittimato ad agire per la p.a. da
cui proviene l’atto. Oggi è possibile formare, archiviare e trasmettere i documenti con strumenti informatici e
telematici. A queste parti del documento corrispondono le parti in cui può essere diviso ogni atto
amministrativo. Il documento contiene l’atto, l’atto è il pensiero espresso nel documento che consiste in una
dichiarazione o di volontà o di scienza o di desiderio o di giudizio. Bisogna quindi fare distinzione tra atto
amministrativo e documento che manifesta l’atto. Per questa ragione le nozioni di parti del documento ed
elementi dell’atto sono distinte: vi sono atti senza documento scritto (es. gli atti orali), che egualmente
possono essere scomposti nei loro elementi. Si distingue tra elementi essenziali ed elementi eventuali. Per
ogni atto amministrativo deve esserci un soggetto che lo ha voluto. Questo soggetto è da un lato quell’unità
amministrativa a cui le norme hanno attribuito la competenza ad emettere l’atto considerato, e
contemporaneamente quella persona fisica, o quell’insieme di persone fisiche che manifestano le decisioni
dell’unità amministrativa competente. L’atto amministrativo può essere emanato solo nei casi previsti dalle
norme e in occasione di quei fatti indicati da esse. L’atto si dirige verso uno o più oggetti (riguarda una
persona, una cosa, un precedente atto). Secondo i casi esprime un parere, avanza una proposta, decide una
modificazione, etc. Questo è il contenuto dell’atto, ciò che nell’atto e mediante l’atto un soggetto autorizzato
dice rispetto ad un certo oggetto, provocando in tal modo quelle conseguenze di ordine giuridico che sono
proprie di quell’atto particolare. L’atto deve manifestarsi, e perciò ha una sua forma esteriore, che permette
di conoscerlo: questa forma talvolta è vincolata, altre volte libera, il più delle volte scritta, altre volte orale;
quasi sempre mediante parole, ma talvolta anche mediante un mero comportamento che ugualmente
manifesta una dichiarazione. Ogni atto amministrativo dunque può essere scomposto nei suoi elementi
costitutivi, sempre presenti e necessari: il soggetto, i presupposti, l’oggetto, il contenuto, la forma. Agli
elementi essenziali in certi casi possono aggiungersi altri elementi detti eventuali. Tali sono: a) la condizione,
cioè il fatto futuro e incerto a cui viene subordinato l’inizio di efficacia dell’atto (condizione sospensiva) o la
cessazione della sua efficacia (condizione risolutiva); b) il termine, cioè un fatto futuro certo, a cui è
subordinato l’inizio di efficacia dell’atto (termine iniziale) o la cessazione di efficacia (termine finale): il
termine può consistere in una data o in un fatto futuro che sicuramente accadrà senza sapere quando (es. la
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

morte). Si distingue perciò tra termine certus an e certus quando e termine certus an, incertus quando (è certo
il se, è incerto il quando). Sia la condizione che il termine sono elementi la cui presenza o assenza dipende
sempre dalla previsione della legge.

10) Il provvedimento amministrativo: vengono chiamati provvedimenti amministrativi tutti quegli atti
autoritativi della p.a. con la quale essa incide sulla sfera giuridica del destinatario aumentandola o
diminuendola o modificandola. Il provvedimento individua tutti i momenti decisionali attraverso cui la p.a.
impone legittimamente la sua volontà verso l’esterno, a vantaggio o a svantaggio di altri soggetti (es. è un
provvedimento l’atto col quale la p.a. espropria il bene di un privato). Ci sono innumerevoli provvedimenti
amministrativi tra cui le autorizzazioni, le concessioni, le ablazioni, gli ordini e i provvedimenti di secondo
grado. Vengono raggruppati nella categoria delle autorizzazioni quei provvedimenti con i quali la p.a.
consente che un privato eserciti un suo (del privato) diritto, o una specifica facoltà contenuta in un suo (del
privato) diritto o una sua libertà. Si presuppone che il privato abbia già un diritto soggettivo o un potere di
fatto, ma che questo, secondo la legge, non può essere esercitato se prima una determinata autorità pubblica
non autorizza tale esercizio. Tale autorizzazione serve ad accertare l’esistenza di quei presupposti di fatto che
legittimano l’esercizio del diritto e che sono posti a tutela dell’interesse pubblico (es. la licenza di caccia, la
patente di guida, etc.). Sotto la categoria delle concessioni si riuniscono tutti i casi in cui la p.a. trasferisce ad
altri soggetti propri diritti o poteri o attuando la legge attribuisce ad essi diritti e poteri nuovi che prima
dell’atto di concessione essi non avevano. Le prime vengono anche chiamate concessioni traslative, le
seconde costitutive. Sono tali ad es. le concessioni di suolo pubblico. Le ablazioni o provvedimenti ablatori,
sono quei provvedimenti con i quali la p.a. sottrae ad un privato un suo diritto, in genere patrimoniale, salvo
indennizzo. Tali le espropriazioni per pubblica utilità, etc. Gli ordini sono comandi di fare o non fare, quali la
chiamata alle armi, il divieto di transito, etc. Gli ordini sono fra i più tipici esempi di provvedimenti che
vengono spesso adottati senza previo procedimento. Così il vigile urbano che ferma il traffico, impartisce
ordini che si esauriscono in un unico contestuale atto. I provvedimenti di secondo grado sono quei
provvedimenti che hanno per oggetto precedenti provvedimenti e che quindi li annullano (con effetto ex
tunc: cioè fin dall’inizio); o li revocano (con effetto ex nunc: cioè dal momento in cui il provvedimento viene
revocato); li modificano, li prorogano nel tempo, li confermano, etc. Questi provvedimenti di secondo grado
possono essere adottati di ufficio, cioè su iniziativa della stessa p.a., o solo su ricorso degli interessati, o sia
in un modo che nell’altro, secondo quanto dispongono le norme. Questi vanno considerati i principali tipi di
provvedimento, ma ci sono altri tipi come le ammissioni; le nomine, etc. I provvedimenti presentano alcune
caratteristiche peculiari. Anzitutto la tipicità: i provvedimenti amministrativi sono tipici, cioè tutti previsti
dalla legge. In secondo luogo, caratteristica di molti provvedimenti amministrativi è la esecutorietà: la p.a.
nei casi previsti dalla legge può eseguire i propri provvedimenti da sé stessa, anche mediante la forza, senza
bisogno di ricorrere previamente al giudice. Oggi questa caratteristica è disciplinata dall’art. 21-ter introdotto
dalla l. 15/05 nella l. 241/90: nei casi e con le modalità stabilite dalla legge, le pubbliche amministrazioni
possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento
costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato.
Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere
all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge (si richiama di nuovo
l’attenzione su queste importanti limitazioni). Nel secondo comma di questo stesso articolo viene disposto: ai
fini dell’esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano le disposizioni per
l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato. In terzo luogo l’inoppugnabilità, per cui gli interessati hanno a
disposizione termini brevissimi (di regola 60 giorni) per ricorrere contro il provvedimento amministrativo, o
davanti alla stessa p.a., o davanti al giudice amministrativo o al presidente della Repubblica. Trascorso
questo termine brevissimo il provvedimento diventa inattaccabile dagli interessati e quindi continua a
produrre i suoi effetti anche se illegittimo. La particolare efficacia per cui in generale il provvedimento
amministrativo produce immediatamente i suoi effetti imperativi, anche se invalido (e fino ad annullamento),
e di regola degrada i diritti soggettivi su cui incide ad interessi legittimi: il privato colpito in un suo diritto

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

soggettivo da un provvedimento amministrativo non vanta più un diritto, ma un interesse legittimo, e dunque
non può rivendicare il diritto davanti al giudice ordinario, ma deve ricorrere al giudice amministrativo
chiedendogli che annulli l’atto a suo dire illegittimo.

11) Vizi e controlli dei provvedimenti amministrativi: distinguiamo tra perfezione; efficacia; validità
dell’atto amministrativo. L’atto è perfetto quando il processo volitivo rispetto al contenuto dell’atto è
concluso. Il provvedimento amministrativo è perfetto quando il soggetto decidente enuncia la sua decisione,
o oralmente o per iscritto, sottoscrivendo il documento che lo contiene. Es. la legge è perfetta quando la
seconda camera approva il medesimo testo approvato dalla prima. L’atto, nel momento stesso in cui è
perfetto, comincia a produrre i suoi effetti; ma spesso l’atto comincia a produrre i suoi effetti solo dopo che
sono avvenuti altri fatti, che non riguardano più il contenuto della decisione, ma sono necessari o utili per
soddisfare altri interessi: es. spesso è previsto dalle norme che l’atto debba essere conosciuto, o da tutti o da
alcuni soggetti determinati: nel primo caso sarà pubblicato, e solo con la pubblicazione acquista efficacia; nel
secondo caso l’atto dovrà essere comunicato ai soggetti interessati, e solo con la comunicazione comincia a
produrre i suoi effetti. Un altro caso un tempo molto frequente che condiziona l’inizio di efficacia di un atto
amministrativo è costituito dalla previsione di una fase di controllo, per cui l’atto amministrativo deve essere
controllato da un altro organo amministrativo, e solo dopo che questo controllo si è concluso positivamente
può cominciare a produrre i suoi effetti; bisogna sottolineare che il controllo a cui è subordinato l’inizio di
efficacia dell’atto amministrativo è in questo caso un controllo amministrativo. L’efficacia può definirsi
come la qualità dell’atto amministrativo di produrre i propri effetti giuridici. Questa efficacia può coincidere
temporalmente con la perfezione, ma può rimanere distinta. L’atto amministrativo può essere privo di
qualsiasi vizio, o presentare dei vizi: nel primo caso si dice valido, nel secondo invalido. Può accadere che
l’atto amministrativo sia efficace anche se invalido, che resti efficace finché non venga annullato, e, se non è
più possibile chiederne l’annullamento, che produca interamente i suoi effetti nonostante la sua invalidità.
Può darsi che l’atto efficace sia valido o invalido, che l’atto inefficace sia valido o invalido, che l’atto valido
sia efficace o inefficace, e l’atto invalido sia efficace o inefficace. L’atto amministrativo è invalido se
presenta uno o alcuni di questi vizi descritti in astratto dalle norme di diritto. Bisogna distinguere tra vizi di
opportunità (o di merito) e vizi di legittimità. Un atto è inopportuno quando il suo contenuto è inadeguato
rispetto al compito che deve perseguire, ma è difficile distinguere tra atto opportuno e atto inopportuno
perché il giudizio è fortemente soggettivo. Questo spiega perché i casi in cui un’autorità può giudicare
sull’opportunità degli atti di un’altra autorità pubblica sono rari, e si risolvono spesso nella richiesta che la
seconda rivolge alla prima di esaminare di nuovo la questione, fermo restando che se la prima autorità
conferma il suo atto, questo atto diventa efficace e non può più essere giudicato da altra autorità pubblica sul
piano dell’opportunità. In generale i giudizi sull’opportunità- inopportunità delle decisioni di pubbliche
autorità costituiscono una questione pubblica, e il controllo su questo aspetto dei comportamenti dei poteri
pubblici è un controllo politico, che si manifesta attraverso discussioni, critiche, valutazioni di partiti e altre
forze sociali, e si conclude o con proposte di modificare le norme e le procedure o con mutamenti elettorali
per punire vecchi dirigenti politici e cercarne di nuovi, etc.: in conclusione la responsabilità politica è il
principale strumento che hanno i cittadini per cercare di controllare i comportamenti dei poteri pubblici dal
punto di vista dell’opportunità dei loro atti. Sul piano del diritto il caso più frequente è quello in cui l’atto è
viziato per illegittimità, cioè per il fatto che non è conforme alle norme giuridiche. Nel diritto privato si fa
distinzione tra nullità e annullabilità del contratto: la nullità è un vizio che comporta conseguenze più
radicali: es. la nullità è insanabile, l’annullabilità è sanabile. Per quanto riguarda i provvedimenti
amministrativi, dopo decenni durante i quali la distinzione tra nullità e annullabilità veniva ora negata ora
invece ammessa, interviene ora la l. n. 15/05, che introduce entro la legge 241/90 il nuovo capo IV bis
intitolato “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso” e tratta della nullità
nell’art. 21-septies e dell’annullabilità nell’art. 21-octies. È nullo il provvedimento amministrativo che
manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in
violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge. Dunque, oggi è

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

ufficiale e incontestabile che in alcuni casi i provvedimenti sono nulli. I casi di nullità sono in parte elencati
in questo stesso articolo, in parte saranno indicati da successive leggi. Quanto ai casi elencati, essi sono 3:
mancanza degli elementi essenziali; difetto assoluto di attribuzione; violazione o elusione del giudicato. Nel
primo caso si tratta di stabilire quali sono gli elementi essenziali. Nel secondo caso il difetto assoluto di
attribuzione comprende il caso che veniva chiamato carenza di potere, cioè il caso di un provvedimento che
nessuna autorità avrebbe potuto adottare; però la giurisprudenza e la dottrina avevano elaborato anche il caso
chiamato di incompetenza assoluta, cioè il caso per cui il provvedimento era stato adottato da un’autorità
amministrativa del tutto estranea alla branca dell’amministrazione incaricata delle tutele degli interessi
pubblici implicati nel provvedimento; è da ritenere che questa distinzione rimanga ancora oggi, e che
l’incompetenza assoluta rientri nel difetto assoluto di attribuzione (e dia luogo quindi a nullità), mentre
l’incompetenza relativa resti vizio che dà luogo soltanto ad annullabilità. L’art. 21-octies ripete che è
annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o
da incompetenza. Nel secondo comma aggiunge che non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Lo scopo di queste
disposizioni è quello di impedire che i destinatari approfittino di eventuali errori compiuti
dall’amministrazione che però non hanno leso diritti soggettivi o interessi legittimi, perché l’atto sarebbe
stato lo stesso anche se forme e norme sul procedimento fossero state rigorosamente rispettate. Si ha
incompetenza quando l’atto è stato deciso da un’autorità diversa da quella a cui le norme attribuiscono il
relativo potere (diversa dal soggetto competente). Si tratta dell’incompetenza relativa. Si ha violazione di
legge in tutti quei casi, diversi dall’incompetenza e dall’eccesso di potere, in cui l’atto amministrativo non è
conforme alle prescrizioni inderogabili contenute nelle norme giuridiche, diverse da quelle norme che
determinano invece nullità. Si dice che la violazione di legge è un vizio residuale, perché comprende tutti i
vizi di legittimità meno gli altri due (incompetenza ed eccesso di potere). L’eccesso di potere è un vizio
tipico degli atti amministrativi che si lega e si spiega con la discrezionalità amministrativa: l’atto
amministrativo è un atto sempre subordinato al pubblico interesse, così che anche nei casi in cui la p.a. ha
margine di scelta, questi margini devono essere usati in modo conforme all’interesse pubblico, o agli
interessi pubblici, che secondo le norme bisogna perseguire in quel determinato caso. Ipotizziamo dunque
che un determinato atto amministrativo che stiamo esaminando, se ci limitiamo a leggere il solo documento
che lo contiene, si presenti apparentemente in tutto conforme alle norme; se però esaminiamo ciò che sta
intorno all’atto, ci rendiamo conto che vi sono degli aspetti i quali inducono a ritenere che l’autorità, anziché
perseguire gli interessi pubblici indicati dalle norme, abbia perseguito un interesse diverso, e quindi abbia
ecceduto rispetto al suo potere. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha elaborato diverse figure di
eccesso di potere, tra cui: l’errore sui fatti, qualsiasi erronea rappresentazione dei fatti che stanno a base
dell’atto e che intervengono nel corso del suo procedimento di formazione (travisamento dei fatti); mancanza
del motivo primario allorché l’autorità emette l’atto per un fine diverso da quello indicato dalle norme
(sviamento di potere); illogicità manifesta che risulta dalla motivazione o dal procedimento, perché ad es. la
p.a. non ha considerato motivi, atti istruttori o simili che sarebbe stato logico e normale considerare;
inspiegabile deviazione da una direttiva o da una prassi seguita per lungo tempo o seguita in casi simili
(disparità di trattamento). Vediamo ora quali sono i rimedi nei confronti dell’atto illegittimo. Distinguiamo i
rimedi attivabili dalla stessa p.a. nei confronti di atti illegittimi, suoi o di altra p.a., dai rimedi attivabili dai
soggetti lesi dall’atto amministrativo in una propria situazione giuridica soggettiva. Vi sono casi di controlli
di legittimità sugli atti, o preventivi (l’atto prima di entrare in vigore viene sottoposto ad un controllo, e
diviene efficace solo se supera questa fase) o successivo (l’atto cessa di essere efficace se viene
successivamente annullato dall’autorità alla quale la legge ha attribuito tale potere). Mentre in passato i
controlli preventivi di legittimità erano sistematici, oggi sono stati ridotti e riservati solo a pochi atti
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Riassunto di Gaia Paoloni
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importanti. Al posto dei controlli di legittimità vengono oggi sviluppati controlli successivi sulla gestione,
che si preoccupano di verificare se la p.a. è stata efficiente, efficace, economica. Vi sono poi veri e propri
casi di annullamento dell’atto amministrativo illegittimo, o decisi dalla stessa autorità che lo aveva emanato,
o da altra autorità. Il primo caso si chiama annullamento d’ufficio. Oggi vige l’art. 21-nonies della l. 241/90
(introdotto dalla l. 15/05), il quale trasfonde in disposizioni di legge quanto già stabilito dai giudici. Secondo
questo articolo il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’art. 21-octies può essere annullato
d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei contro interessi, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto
dalla legge. Nel secondo comma viene ribadito che è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento
annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. Di conseguenza
l’autorità che intende annullare di sua iniziativa un atto amministrativo a suo dire viziato, o convalidarlo,
deve in motivazione spiegare quali sono le ragioni di interesse pubblico che giustificano la sua decisione, e
deve spiegare che la decisione appare ragionevole quanto al tempo della decisione. Conseguenza ulteriore è
che gli interessati possono ricorrere ai giudici, i quali decideranno se sussistono le ragioni indicate
dall’autorità. Chi è stato leso da un atto amministrativo illegittimo in un suo diritto soggettivo, o in un suo
interesse legittimo, può ricorrere agli organi indicati dalle leggi per chiedere che questi adottino il rimedio
previsto. Si deve poi distinguere tra rimedi amministrativi e rimedi giurisdizionali. Con i primi l’interessato
si rivolge ad un’autorità amministrativa, con i secondi ai giudici. Non sempre è possibile all’interessato
ricorrere alle autorità amministrative contro un atto illegittimo: bisogna distinguere tra atti amministrativi
definitivi e atti amministrativi non definitivi. Ci sono atti amministrativi che possono essere impugnati dagli
interessati solo davanti ai giudici: questi atti si chiamano definitivi; e ce ne sono altri che possono essere
impugnati davanti al giudice, ma permettono anche di ricorrere alla stessa p.a. affinché riesamini il suo atto.
Gli atti non definitivi ammettono indifferentemente sia il ricorso al giudice sia il ricorso alla stessa p.a. I
ricorsi amministrativi (cioè gli atti con i quali l’interessato chiede alla p.a. di rivedere un suo precedente atto
perché illegittimo o perché inopportuno) sogliono dividersi in opposizione, che è un ricorso rivolto alla
stessa autorità che ha esaminato l’atto impugnato; ricorso gerarchico, che è un ricorso rivolto all’autorità
gerarchicamente sovraordinata a quella che ha emanato l’atto impugnato; ricorso gerarchico improprio, che è
il ricorso rivolto ad un’autorità indicata dalla legge diversa da quella che ha emanato l’atto impugnato e che
però a rigore non è gerarchicamente sovraordinata a questa. A parte sta il ricorso straordinario al presidente
della Repubblica, rimedio che può essere usato solo contro provvedimenti definitivi in alternativa al ricorso
al giudice amministrativo e solo per motivi di legittimità (gli altri ricorsi possono essere usati non solo contro
atti illegittimi, ma anche contro atti viziati nel merito). Infine, contro gli atti amministrativi il soggetto leso in
un suo interesse legittimo o in un suo diritto soggettivo può ricorrere al giudice amministrativo o al giudice
ordinario.

CAPITOLO 17

Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni

1) Caratteristiche comuni a Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni: tutti gli ordinamenti
moderni, accanto al potere centrale (lo stato), conoscono poteri pubblici locali. Il nostro ordinamento
conosce da secoli l’ente chiamato comune e, dal regno d’Italia in poi, l’ente chiamato provincia; la
costituzione del 1948 ha istituito le regioni; il titolo V della seconda parte della costituzione, modificato dalla
l. cost. 3/2001, oltre a disciplinare in modo diverso rispetto al passato regioni, Province e Comuni, istituisce
le città metropolitane, le quali vengono costituite nell’ottobre del 2014; infine la l. 7 aprile 2014, n. 56 ha
introdotto nuove norme per quanto riguarda le città metropolitane, le province e le unioni di comuni. Il
comune è l’ente pubblico rappresentativo e territoriale di base (in Italia i comuni sono poco più di 8000, di
dimensioni diversissime sia per estensione territoriale che per popolazione). La provincia è l’ente territoriale
che comprende al suo interno più comuni (in Val d’Aosta esiste solo la regione che assorbe la provincia e
che la città metropolitana assorbe l’originaria provincia) e la regione l’ente territoriale che comprende più
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

province (le regioni sono 20, 5 regioni speciali e 15 regioni ordinarie: le province di Trento e Bolzano hanno
una disciplina particolare che le parifica alle regioni, così che nelle leggi che riguardano le regioni sono
sempre ricomprese anche le province di Trento e Bolzano). Le città metropolitane sono elencate nella l. n.
56/2014 e sostituiscono le originarie province (es. al posto della provincia di Milano subentra la città
metropolitana di Milano, con poteri e funzioni diversi dalla provincia). Dopo la l. n. 56/2014 gli organi di
governo sia delle province che delle città metropolitane non vengono eletti direttamente dal corpo elettorale,
ma indirettamente, tra i propri membri, dai consigli comunali (sindaci compresi) dei comuni che fanno parte
della provincia o della città metropolitana (si determina così una diminuzione in peso politico di province e
città metropolitane, contro quanto continua a prevedere l’art. 114 della costituzione che mette tutti gli enti ivi
menzionati sullo stesso piano). Anche rispetto a questi quattro tipi di enti si possono ripetere alcune
osservazioni già fatte a proposito dello Stato. Come la parola stato ha un duplice significato e ora indica un
intero popolo stanziato su un determinato territorio e organizzato intorno ad un potere centrale, ora invece
indica l’apparato centrale monopolizzatore della forza, così regione, provincia, città metropolitane e comune
ora indicano un’intera collettività residente su un territorio determinato con una sua specifica organizzazione
che la rappresenta, ora invece indica quell’apparato che, entro i confini della regione, della provincia e del
comune, svolge le funzioni proprie dell’ente. Il nuovo art. 114, nel 2° comma, dispone che i comuni, le
province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i
principi fissati dalla costituzione. Tali soggetti sono enti e cioè persone giuridiche di diritto pubblico:
soggetti di diritto distinti da ogni altro, disciplinati da norme di diritto pubblico, con un proprio patrimonio,
un proprio bilancio, una propria responsabilità giuridica. L’aggettivo autonomi ha una duplice valenza, in
negativo ed in positivo: in negativo ribadisce la differenza tra lo stato da un lato, che è ente sovrano, e gli
altri enti dall’altro, che non sono sovrani ma autonomi (non possono fare alcune cose caratteristiche della
sovranità); in positivo stabilisce che tali enti autonomi devono godere di spazi di libertà rispetto a se stessi, e
cioè devono poter essere capaci di autodeterminarsi rispetto a varie questioni fondamentali che li riguardano.
Questa autonomia è in generale garantita dalla costituzione, quindi non può essere tolta dalle leggi dello
Stato e da nessun altro atto entro l’ordinamento; le diverse forme di autonomia sono diversamente garantite
secondo che la stessa costituzione le disciplina direttamente (come fa soprattutto nei confronti delle regioni)
o ne rimette la disciplina ad altre fonti (accade rispetto a comuni, province e città metropolitane che sono
quasi del tutto disciplinati con leggi dello Stato). Regioni, province, città metropolitane e comuni sono enti
pubblici, cioè godono di autonomia politica. Dunque, i loro organi dirigenti non sono obbligati ad obbedire
agli indirizzi politici dello Stato, ma possono darsi programmi politici propri diversi dallo stato (salvo
sempre il rispetto della costituzione). Tanto che le maggioranze politiche che governano tali enti possono
essere diverse da quelle che governano nello stesso momento lo stato. Questa caratteristica è necessariamente
legata ad un’altra: il fatto che questi enti sono rappresentativi ed elettivi, cioè esprimono la volontà, i bisogni
della maggioranza della collettività che essi organizzano e dirigono: la regione dunque rappresenta ed
esprime politicamente tutta la popolazione regionale, la provincia quella della provincia, la città
metropolitana quella della metropoli, il comune quella comunale. Per questa ragione i massimi organi
dirigenti di ciascun ente non possono non essere elettivi, direttamente o indirettamente, scelti cioè dalla
stessa collettività che essi rappresentano. In questo aspetto sta la differenza tra questi enti locali e le
articolazioni locali dello Stato: gli organi locali dello Stato sono parti interne dello Stato e quindi subordinate
al potere centrale; gli enti locali rappresentativi di cui stiamo parlando hanno dirigenti elettivi, sono
rappresentativi della popolazione, godono di autonomia politica. La rappresentatività e la elettività è diversa
se gli organi di governo sono eletti direttamente dal corpo elettorale e sono ricoperti da persone diverse da
quelle che dirigono gli enti che compongono l’ente maggiore, o sono eletti indirettamente dagli organi
elettivi degli enti minori e composti da persone che sono anche componenti degli organi di governo di tali
enti minori (es. la stessa persona è sia sindaco della città metropolitana sia sindaco del comune capoluogo).
Poiché gli organi di governo di città metropolitane e province sono eletti indirettamente e vengono scelti tra
persone che già ricoprono cariche negli organi di governo degli enti minori, la rappresentatività ed elettività
di città metropolitane e province è minore di quella di regioni e comuni. Sono tutti enti territoriali, cioè enti
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

la cui esistenza è individuata dal loro territorio. Dunque: essi hanno il diritto-dovere di difendere
giuridicamente il proprio territorio (es. di rivendicarlo rispetto ad un altro ente che ne usurpa una parte); le
variazioni territoriali sono disciplinate anzitutto dalla costituzione (l’art. 132 per le regioni e l’art. 133 per
Province e Comuni) e poi dalle leggi statali e regionali applicative della costituzione; questi enti hanno una
generale competenza, ad esclusione di altri enti, per quanto riguarda la disciplina e l’assetto del proprio
territorio. Sono enti necessari, cioè tutti i cittadini appartengono necessariamente ad un comune, ad una
provincia o città metropolitane e ad una regione. La costituzione garantisce a tutti questi enti l’autonomia
statutaria (salvo le regioni speciali, i cui statuti sono approvati direttamente dallo stato con legge
costituzionale): tutti questi enti hanno il potere di darsi un proprio statuto, mediante il quale, attenendosi ai
principi e alle disposizioni della costituzione (tutti) ed a quelli delle leggi ordinarie (province, città
metropolitane, comuni), i diversi enti stabiliscono come devono essere organizzati e come vanno svolte le
proprie funzioni e introducono ogni altra regola che essi ritengono fondamentale per la propria esistenza e la
propria attività. Tutti questi enti hanno un’autonomia normativa, cioè hanno il potere di disciplinare con
regole generali e astratte oggetti e materie della vita sociale. Tutti questi enti hanno autonomia
amministrativa, cioè, in base alle attribuzioni della costituzione (e delle leggi quando la costituzione
demanda alle leggi la specificazione delle attribuzioni di province, città metropolitane e comuni), essi nelle
materie in cui sono competenti hanno il potere di emanare provvedimenti ed atti amministrativi e svolgere
tutte le attività amministrative necessarie per raggiungere i fini previsti dal diritto. In base al nuovo art. 119
tutti questi enti devono avere risorse proprie, cioè devono poter contare su entrate tributarie gestite
direttamente da essi, con un gettito sufficiente al loro funzionamento. L’art. 119 è confuso sul potere di
istituire tributi: chi ha il potere di fare ciò? In base all’art. 23 della costituzione sicuramente non possono
farlo le province, le città metropolitane, i comuni: essi non possono decidere quali tributi gestire, poiché la
istituzione e l’assegnazione della gestione dei tributi spetta alle leggi, o statali o regionali. Possono farlo le
regioni, ma coordinandosi con lo stato. Oggi è entrata in vigore la l. n. 42/09 intitolata delega al governo in
materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della costituzione: una legge di delegazione, così
che per sapere come effettivamente sono disciplinati i tributi e le altre risorse di tutti gli enti territoriali si
dovranno leggere i relativi decreti delegati.

2) I rapporti tra Stato, Regioni, Province e Comuni: stato, regioni, città metropolitane, Province e
Comuni, ciascuno per la propria parte, si occupano di cose che le leggi ritengono vantaggiose e necessarie
per tutta la collettività. È inevitabile che le loro funzioni siano in qualche modo collegate: anzitutto perché
spesso si occupano, sia pure a diversi livelli, delle medesime cose (es. della sanità), sia perché nell’attività
politica e amministrativa l’azione di uno influenza e condiziona quella degli altri e viceversa. Per meglio
comprendere i molteplici strumenti praticati nel nostro ordinamento per collegare i diversi enti pubblici
territoriali, bisogna analizzare due modelli tipici, per verificare a quale dei due si avvicina il sistema vigente
e a quale dei due va prevalentemente ricondotto il singolo strumento. Il primo modello, della separazione
indipendenza, è il modello che ripartisce orizzontalmente le funzioni tra i diversi enti in modo che ciascuno
sia competente su una determinata porzione della realtà, senza sovrapposizioni e intromissioni. Il secondo
modello, dell’integrazione, è il modello che ripartisce verticalmente le funzioni tra i diversi enti pubblici in
modo che l’oggetto finale della loro attività è il medesimo, ma ciascun ente interviene rispetto a tale oggetto
curando aspetti specifici, i quali sono i più generali per l’ente sovraordinato, e diventano via via più specifici
a mano a mano che si scende a considerare l’attività e le competenze di enti minori. Seguendo il primo
modello, se la costituzione attribuisce alla regione una competenza amministrativa su una materia X e allo
stato una competenza amministrativa sulla materia Y, né l’uno nell’altro possono intromettersi nell’attività
amministrativa dell’altro. Però non vengono meno le esigenze di collegamento e di coordinamento, affinché
l’ordinamento resti unitario e la Repubblica una e indivisibile (art. 5 della costituzione), ma questo
collegamento a fini di omogeneità si realizza in sede di normativa generale, allorché ciascun livello superiore
detta norme generali a cui il livello inferiore si deve attenere nella sua pratica quotidianità, e in sede di
controllo, allorché il soggetto del livello superiore controlla che il soggetto del livello inferiore non abbia

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

violato le norme per lui vincolanti. Sono invece assenti quei meccanismi di coordinamento e collegamento
che consentono ai diversi livelli di decidere insieme i programmi da attuare e gli atti di attuazione dei
programmi. Nel modello dell’integrazione la materia da disciplinare e gestire viene considerata comune a
tutti i livelli e sarà il risultato di una serie di interventi a cascata in cui il primo livello stabilisce le regole più
generali e il programma base, il livello immediatamente successivo stabilisce regole più specifiche e
programmi più dettagliati, e così via fino all’ultimo livello che concretamente esegue l’insieme della catena
di prescrizioni e programmi elaborati in sequenza dai livelli superiori. In questo modello prevalgono
meccanismi di reciproca informazione, di indirizzo e coordinamento, di controllo di gestione (rivolto a
verificare la corrispondenza dei risultati ottenuti rispetto a quelli previsti); la normazione si presenta nella
forma della catena normativa per cui ad un primo atto normativo A più generale ne segue uno B più specifico
e così via, fino a che, terminata la catena normativa, cominciano gli innumerevoli atti concreti di esecuzione.
Nessuno di questi due modelli può realizzarsi allo stato puro, ci sarà sempre una commistione di essi; è
possibile però che prevalga, più o meno nettamente, l’uno o l’altro. L’art. 114, 1° comma proclama che la
Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo stato. Per
comprendere il senso di questa nuova disposizione bisogna metterla a confronto col vecchio art. 114, nel
quale stava scritto che la Repubblica si riparte in regioni, province e comuni. In precedenza, lo stato non era
trattato come una parte alla pari delle altre parti, invece oggi è un ente eguale agli altri, e tutti insieme
costituiscono la Repubblica. La Repubblica è un’entità puramente ideale che risulta dal concorso e dalla
cooperazione degli enti elencati, tra cui anche lo stato. Precedentemente la Repubblica era rappresentata
dallo stato, in posizione di supremazia rispetto agli altri enti, che erano ripartizioni interne; oggi la
Repubblica non è rappresentata da nessuno, e lo stato è uno tra gli enti che la compongono. Per quanto
riguarda la funzione normativa e quella amministrativa gli enti rappresentativi elencati nel primo comma
dell’art. 114 sono posti su un piano di tendenziale eguaglianza, perché tutti hanno o dovrebbero avere una
sfera di attività a loro garantita direttamente dalla costituzione, e i rapporti tra di essi dovrebbero essere
governati dal principio della competenza piuttosto che da quello della gerarchia, e da quello di sussidiarietà.
Quanto alla giurisdizione, poiché i giudici sono soggetti soltanto alla legge, cioè a tutto il e solo al diritto,
sempre che esso sia conforme a costituzione, i giudici non sono né statali né regionali né di altri enti, ma
organi dell’intera comunità (cioè della Repubblica). Il secondo principio che regola i rapporti tra tutti questi
enti rappresentativi è quello universalmente chiamato della sussidiarietà, che viene introdotto per la prima
volta nel testo costituzionale dal primo comma del nuovo art. 118 (insieme al principio di differenziazione ed
adeguatezza). Questo principio, introdotto nell’Unione europea dai trattati recenti, designa il criterio basilare
che dovrebbe guidare il legislatore nel ripartire i compiti tra i diversi enti pubblici (sussidiarietà verticale) e
tra gli enti pubblici da un lato, ed i privati dall’altro (sussidiarietà orizzontale): il criterio per cui nessuno,
neppure i pubblici poteri, dovrebbero sostituirsi e sovrapporsi agli individui se essi si dimostrano capaci di
tutelare i propri interessi senza danno per gli altri; se gli individui non si dimostrano capaci, allora la
preferenza va data alle forme associative private; se neppure queste si rivelano adeguate, allora è opportuno
che intervengano i poteri pubblici; ma tra questi, la preferenza va data a quelli più vicini ai cittadini, quindi ai
comuni; solo se l’ente inferiore si dimostra inadeguato, si possono attribuire poteri, compiti e funzioni
all’ente immediatamente superiore, e così via fino all’unione europea. L’art. 118 prevede sia la sussidiarietà
verticale sia quella orizzontale (stato, regioni, città metropolitane, Province e Comuni favoriscono
l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio di sussidiarietà). Però di per sé il principio di sussidiarietà non dice a chi
specificamente spetta una determinata funzione, o compito, o potere: ci vorrà sempre qualcuno che in
concreto dovrà stabilirlo. Diventa inevitabile ricostruire il sistema nel suo complesso, per cercare volta per
volta di individuare chi ha il potere di attribuire funzioni, compiti, poteri, competenze. Questo non vuol dire
che il principio di sussidiarietà non ha alcun valore operativo e non produce alcuna conseguenza: mentre non
deve giustificarsi l’attribuzione di libertà e diritti ai cittadini o di funzioni e poteri ai comuni quando solo enti
pubblici possono provvedere ai bisogni della collettività, ogni attribuzione ad enti superiori va giustificata
razionalmente, dimostrando che l’ente inferiore non è in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze ed
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

ai bisogni meritevoli di tutela. Anche se è un criterio molto elastico, fornisce pur sempre un orientamento ed
un’indicazione, giustificando ad es. che nei casi macroscopici di violazione del principio la Corte
costituzionale dichiari illegittime leggi statali o regionali per violazione di tale principio. Il secondo nuovo
comma dell’art. 114 smentisce il primo: esso non accomuna più lo stato agli altri enti, e si riferisce solo ai
comuni, alle province, alle città metropolitane, alle regioni, stabilendo che tali enti sono autonomi, con propri
statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla costituzione. Gli atti fondamentali di tali enti si
chiamano statuti, e non costituzione, e tali enti sono autonomi e solo lo stato resta ente sovrano (come
continua a dire l’art. 7). Questa differenza spiega perché in successive disposizioni vengono affidati allo stato
una serie di poteri, anche nei confronti di regioni ed altri enti locali rappresentativi, che, per quanto inferiori
rispetto al passato, ribadiscono pur sempre che lo stato è l’ente che guida e coordina l’insieme, inevitabile se
la Repubblica vuole rimanere una società unitaria, e non diventare una mera alleanza tra enti diversi. Questo
complesso intreccio tra enti si riflette nella complessità della distribuzione delle funzioni normative e di
quelle amministrative. La costituzione distingue tra funzioni legislative e funzioni normative. Rispetto alla
prima poi, la funzione legislativa, rovescia il rapporto tra leggi statali e leggi regionali, giacché oggi lo stato
può legiferare solo nelle materie elencate nel nuovo art. 117, e le regioni legiferano in tutte le altre. Però
nelle materie, elencate nel terzo comma dell’art. 117, le regioni possono legiferare purché si attengano ai
principi fondamentali posti in ciascuna materia da leggi statali. Altri limiti a favore dello Stato nei confronti
delle regioni si trovano in altre disposizioni della costituzione. La funzione normativa, cioè la possibilità di
emanare atti normativi senza forza di legge, quindi subordinati ora alle leggi statali, ora alle leggi regionali,
ora ad ambedue, viene attribuita dalla costituzione a tutti gli enti rappresentativi elencati, cioè, oltre che allo
stato e alle regioni, anche a province, città metropolitane, comuni, mediante i regolamenti di tali enti.
Rispetto alla funzione amministrativa cioè a quella attività che consiste nell’emanare atti e provvedimenti o
compiere operazioni che attuano in concreto le leggi e gli atti normativi, il nuovo titolo V appare
contraddittorio. Il nuovo art. 118, nel primo comma, enuncia il principio secondo cui tutte le funzioni
amministrative, meno quelle attribuite ad altri enti, spettano ai comuni: “le funzioni amministrative sono
attribuite ai comuni salvo che ...”. Nel secondo comma enuncia un principio diverso: i comuni, le province e
le città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o
regionale, secondo le rispettive competenze. Ci sono le funzioni conferite o da leggi statali o da leggi
regionali, secondo le rispettive competenze, cioè le competenze delle leggi statali e di quelle regionali.
Poiché le leggi statali sono competenti in materie tassativamente elencate, lo stato, mediante legge statale,
può conferire (ma anche non conferire) funzioni amministrative ora a comuni, ora a province, ora a Città
metropolitane nelle stesse materie nelle quali la legge statale è competente; tra le materie riservate alla legge
statale il secondo comma del nuovo art. 117, nella lettera p), ricomprende anche le funzioni fondamentali di
comuni, province e città metropolitane (oltre che la legislazione elettorale e gli organi di governo di tali enti),
così che, se la legge statale ritiene che alcune questioni siano fondamentali per tali enti, la legge statale può
attribuirle ad essi anche quando tali competenze rientrano nelle materie regionali. Invece le leggi regionali
sono competenti in qualsiasi materia tranne quelle riservate allo stato, così che la regione può conferire (ma
anche non conferire) funzioni amministrative ora a province, ora a Città metropolitane, ora a comuni, in tutte
le materie, escluse solo quelle riservate allo stato. In base alle parole del primo comma del nuovo art. 118,
stato e regioni, nel distribuire poteri amministrativi agli enti locali minori (province, città metropolitane e
comuni), devono attenersi ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, ma chi deciderà se le
leggi statali o regionali si sono attenute a tali principi? Anzitutto vi sarà una continua trattativa tra i diversi
enti se e quando ciascuno rivendicherà a sé alcune funzioni e compiti qualora non vi sia accordo tra di essi,
prima o poi la questione andrà davanti alla Corte costituzionale, e sarà questo organo a decidere nel caso
specifico. In ogni caso le funzioni amministrative di tutti questi enti minori della regione, comuni compresi,
sono per la maggior parte conferite mediante legge, o statale o regionale. Restano quelle che l’art. 118
chiama funzioni proprie: funzioni proprie sono quelle non conferite da nessuno, cioè funzioni amministrative
che comuni, province e città metropolitane si auto attribuiscono, se e solo se rispetto a tali funzioni non esiste
una legge statale o regionale. Poiché la l. cost. 3/2001 deve coordinarsi con tutte le altre disposizioni
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

costituzionali, e poiché l’art. 23 della costituzione continua a prescrivere che si possono imporre obblighi e
doveri ai soggetti dell’ordinamento solo con legge, a tutto ammettere comuni, province e città metropolitane
possono attribuire a se stessi di propria iniziativa solo funzioni amministrative che danno vantaggi, e non
pongono obblighi o doveri o soggezioni a carico dei destinatari, e sempre che la materia non sia riservata alla
legge o non sia stata disciplinata con legge. Le funzioni proprie saranno dunque nettamente minoritarie
rispetto a quelle conferite. In generale, le funzioni amministrative di comuni, province, città metropolitane
saranno quelle previste da leggi statali e, in via residuale, da leggi regionali. L’autonomia di comuni,
province e città metropolitane non viene garantita e disciplinata dalle regioni (salve alcune competenze ad
esse attribuite dalla costituzione: es., in base all’art. 133, secondo comma, per quanto riguarda l’istituzione e
soppressione dei comuni e la modificazione dei loro territori), ma direttamente dallo stato che in tal modo,
attribuendo compiti e funzioni a tali enti, può corrispondentemente diminuire compiti e funzioni
amministrative delle regioni (nelle materie regionali, cioè tutte meno quelle riservate allo stato, comuni,
province e città metropolitane, anche quando hanno competenze amministrative, sono subordinati
nell’esercizio di tali competenze alle relative leggi regionali (in base al nuovo art. 114 entrato in vigore nel
2001, Roma è proclamata ufficialmente capitale della Repubblica e riceve una disciplina speciale con legge
dello Stato)). Il secondo comma dell’art. 120 prevede un generale potere sostitutivo del governo nei confronti
di organi delle regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni: se questi enti non rispettano
norme dei trattati internazionali e della normativa comunitaria; se vi è pericolo grave per l’incolumità e la
sicurezza pubblica; qualora lo richiedano la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e la tutela dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Secondo lettera, potere sostitutivo non
vuol dire potere che viene tolto ad un soggetto e trasferito definitivamente ad un altro, ma potere che viene
esercitato da un altro se il titolare non lo esercita e fino a quando questo titolare non lo esercita; dunque ogni
atto del potere sostitutivo è provvisorio, destinato a perdere efficacia nel momento in cui il titolare del potere
lo esercita. Dato che l’ultimo periodo dell’art. 120 demanda alla legge statale il compito di definire le
procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del
principio di leale collaborazione, si deve ritenere che tale legge debba prevedere che il governo, prima di
esercitare il potere sostitutivo, avvisi il soggetto competente e gli dia un termine ragionevole per provvedere,
scaduto il quale, senza che il soggetto abbia provveduto, il governo è legittimato a sostituire
provvisoriamente una propria decisione a quella che avrebbe dovuto esserci e non vi è stata. Si tratta di un
grande potere attribuito al governo. L’art. 8 della l. 131/03, nell’attuare l’art. 120 della costituzione sul potere
sostitutivo, sembra confermare quanto detto: prevede che il presidente del consiglio, su proposta del ministro
competente per materia assegni un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari; scaduto
tale termine, il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente o del presidente del Consiglio dei
ministri, adotta i provvedimenti necessari, anche normativi (normativi sembra includere i regolamenti ed
escludere le leggi regionali), o nomina un apposito commissario (che adotterà i provvedimenti necessari). Lo
stesso meccanismo procedurale viene previsto nel caso di inadempimenti rispetto alla normativa comunitaria,
ma proponente può essere, oltre al ministro competente o al presidente del Consiglio dei ministri, anche il
ministro per le politiche comunitarie. Il comma 4 dello stesso art. 8 prevede che il potere sostitutivo, in caso
di urgenza, possa esercitarsi, con una procedura particolare, senza assegnare preventivamente un termine
all’ente interessato. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 43 del 2004, ha stabilito che il potere
sostitutivo può essere esercitato, nei casi e nei modi previsti dalla legge regionale, anche dalla regione nelle
materie regionali e nei confronti degli enti locali. Poiché un potere sostitutivo rispetto alle leggi regionali è
già previsto nel comma quinto dell’art. 117 (le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle
materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari
e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’unione europea, nel
rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del
potere sostitutivo in caso di inadempienza), bisogna concludere che il potere sostitutivo dell’art. 120 riguarda
tutte le funzioni meno quella legislativa delle regioni. Poiché attua il principio di leale collaborazione,
previsto dall’art. 120, ultimo periodo della costituzione, deve ritenersi ancora in vigore la legislazione (come
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

conferma oggi la l. 131/03) che prevede sia la Conferenza Stato regioni, sia quella stato città e autonomie
locali, sia la conferenza congiunta delle due entità (d. lgs. 281/97): si tratta di tre organismi che discutono e
nei casi e nei modi previsti dalle leggi danno pareri rispetto ad atti che li riguardano ma che devono essere
adottati dallo stato o costituiscono la sede per raggiungere vere e proprie intese (alcuni atti non possono
essere adottati se non sussiste accordo tra tutti gli enti interessati). Il nuovo art. 123 prevede nell’ultimo
comma che in ogni regione lo statuto disciplina il consiglio delle autonomie locali, quale organo di
consultazione fra la Regione e gli enti locali. La costituzione vuole che a livello regionale venga costituito un
organo consultivo analogo a quello esistente a livello statale, in modo che gli enti locali siano ascoltati
preventivamente su questioni che li riguardano e sulle quali è competente a decidere la regione. Il nuovo art.
117 prevede nel penultimo comma che le regioni possono stipulare intese tra di loro e costituire anche organi
comuni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, purché le intese vengano ratificate con legge
regionale. Sempre l’art. 117, nell’ultimo comma, prevede che la regione, nelle materie di sua competenza,
possa concludere accordi con stati ed intese con enti territoriali interni ad altro stato, però nei casi e con le
forme disciplinati da leggi dello Stato italiano (oggi l’art. 6 della l. 131/03, che sottopone questo potere delle
regioni a limiti molto stringenti). Ci sono i collegamenti politici, per cui tutti questi soggetti contrattano le
reciproche posizioni, e si accordano politicamente sul contenuto delle leggi, della ripartizione dei fondi, dei
piani di settore, etc. Essi, essendo più di uno (tranne lo stato), hanno costituito associazioni di categoria
(ANCI per i comuni, UPI per le province) le quali svolgono per conto dei loro associati importantissime
funzioni, fino al punto che sempre più spesso le leggi attribuiscono direttamente a tali associazioni la
designazione dei membri di collegi, la formulazione di pareri, etc. Le regioni non hanno costituito una
associazione, ma da tempo si riunisce periodicamente una conferenza dei presidenti.

3) Le Regioni in generale: le regioni come enti pubblici (con una propria organizzazione e proprie
funzioni), costituiscono un’importante innovazione della costituzione repubblicana rispetto al precedente
ordinamento statutario. Nel 1800 era prevalso un modello di Stato accentrato, a tal punto che anche le minori
autonomie locali (Province e Comuni) venivano considerate e disciplinate più come enti ausiliari dello Stato
che come veri e propri enti politici rappresentativi. L’Assemblea costituente, rimanendo fedele all’idea di
una Repubblica indivisibile, ha ritenuto opportuno attribuire alle collettività regionali compiti e poteri tali da
permettere ad esse forme di governo. La l. cost. 3/2001 ha grandemente accresciuto poteri e funzioni delle
regioni, rispetto all’originaria previsione. In questo sta la prima significativa differenza rispetto a Città
metropolitane, Province e Comuni, che hanno ambiti territoriali molto limitati, popolazioni
corrispondentemente poco numerose, e quindi possono affrontare problemi e terreni limitati, di interesse
locale. Una seconda caratteristica distintiva sta nel fatto che la costituzione non solo prevede le regioni, ma
per molti aspetti essenziali le disciplina direttamente, offrendo ad esse una garanzia maggiore di quelle che
offre a Comuni e Province. Per modificare la disciplina delle regioni è necessaria una legge di revisione
costituzionale. L’esistenza delle regioni è ineliminabile, giacché l’abolizione dell’ente regione, sia pure con
legge costituzionale, cioè in modo formalmente corretto, costituirebbe una modificazione dell’attuale
costituzione di tale portata da dover essere considerata, più che una modificazione, un suo totale
sovvertimento. Le regioni speciali sono in buona parte disciplinate non direttamente dalla costituzione, ma
dagli statuti speciali, i quali, essendo approvati con legge costituzionale, confermano l’osservazione prima
fatta sulla maggiore garanzia disposta a favore delle regioni. I confini delle regioni non sono modificabili se
non con la speciale procedura prescritta dall’art. 132 cost. nelle due ipotesi ivi previste. Nella prima si
prevede la fusione di regioni esistenti o la creazione di una nuova regione scorporandola da un’altra o da
altre purché abbia come minimo un milione di abitanti; nella seconda ipotesi si prevede la scorporazione di
Province e Comuni da una regione e la loro aggregazione ad un’altra regione; nel primo caso è necessaria la
legge costituzionale dopo aver sentito i consigli regionali interessati e solo se lo hanno richiesto tanti consigli
comunali che rappresentino un terzo delle popolazioni interessate e solo se la proposta sia stata approvata
con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse (la XI disposizione transitoria della costituzione
prevedeva che entro 5 anni dalla sua entrata in vigore fosse possibile derogare alla procedura prevista

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

dall’art. 132 citato nel testo; questo termine fu prorogato fino al 31 dicembre 1963 dalla l. cost. 18 marzo
1958 n. 1, e secondo tale procedura derogatoria fu disposta nel 1963 la costituzione della Regione Molise,
scorporandola dalla Regione Abruzzo con cui era prima fusa. Da allora non è possibile più alcuna deroga
all’art. 132), nel secondo caso la richiesta deve partire dai comuni e dalle province che chiedono la
riaggregazione, bisogna sentire i consigli regionali interessati, fare svolgere un referendum che ottenga
l’approvazione della maggioranza delle popolazioni interessate e solo al termine una legge ordinaria del
Parlamento può sanzionare questo spostamento. Una quarta caratteristica sta nel fatto che le regioni hanno
potestà legislativa in tutte le materie, salvo quelle riservate allo stato e salvo il rispetto dei principi
fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato nelle materie della competenza concorrente. Tranne le province
di Trento e Bolzano, che eccezionalmente hanno ricevuto anch’esse la potestà legislativa dallo statuto TAA,
nessun altro ente in Italia approva le leggi. Le regioni sono 20. Di queste, 5, espressamente nominate dalla
costituzione, sono regioni speciali (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Valle
d’Aosta), cioè regioni che godono, in base agli statuti speciali approvati con legge costituzionale, di
un’autonomia maggiore e diversa rispetto alle altre regioni ordinarie. Va ricordato che le regioni ordinarie
furono concretamente costituite solo nel 1970 (hanno cominciato a funzionare solo nel 1972), mentre 4
regioni speciali (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige) nacquero contestualmente alla
costituzione, e una quinta (il Friuli-Venezia Giulia) nel 1963.

4) Le funzioni delle Regioni: mentre la disciplina delle regioni ordinarie è contenuta in costituzione ed è per
questa ragione uniforme nei suoi aspetti generali e fondamentali, la disciplina di ciascuna regione speciale è
contenuta in ciascuno statuto speciale e dunque può essere diversa da regione speciale a regione speciale.
Fermo restando che oggi regioni, città metropolitane, Province e Comuni sono configurati come enti (che
possono disciplinare e amministrare qualunque oggetto essi ritengono opportuno, purché sia collegato al loro
territorio e non sia riservato ad altro ente), appare opportuno dividere i compiti delle regioni e degli enti
locali in tre grandi settori, più un quarto strumentale: il primo settore riguarda la promozione e lo sviluppo
economico, il secondo i servizi sociali, il terzo l’assetto del territorio, il quarto infine riguarda
l’organizzazione e il funzionamento dello stesso ente che cura i compiti compresi negli altri tre settori. Nel
primo collocheremo tutte quelle attribuzioni e quelle competenze destinate a promuovere e controllare lo
sviluppo economico; nel secondo settore collocheremo le diverse forme di assistenza, prima fra tutte
l’assistenza sanitaria, e le attività di promozione culturale; nel terzo settore collocheremo l’urbanistica e tutti
quei compiti rivolti alla disciplina di tutti gli aspetti dell’organizzazione del territorio (parchi, acque, etc.).
Sia la costituzione che gli statuti regionali e le leggi statali attribuiscono alle regioni svariati compiti di
partecipazione ad attività dello Stato. a) Iniziativa legislativa semplice o costituzionale, spettante al consiglio
regionale (art. 121). b) Nomina dei delegati per la elezione del presidente della Repubblica (spettante al
consiglio regionale: art. 83). c) Pareri sulle modifiche di circoscrizioni regionali e sulla variazione del
numero delle regioni (art. 132). d) Intervento del presidente delle regioni a statuto speciale al Consiglio dei
ministri, con voto consultivo, quando il consiglio deve deliberare su questioni riguardanti in modo specifico
quella stessa regione (per le regioni ordinarie deve ritenersi che i presidenti possano essere invitati dallo
stesso Consiglio dei ministri); nel caso in cui il governo eserciti il potere sostitutivo, il presidente della giunta
della regione interessata ha diritto di partecipare, secondo l’art. 8 della l. 131/03; il d. lgs. 21 gennaio 2004,
n. 35, in attuazione dell’art. 21, 3° comma dello statuto della Regione Sicilia, prevede non solo il diritto del
presidente della Regione Sicilia di partecipare al Consiglio dei ministri nei casi in cui l’ente sia interessato,
ma il diritto di voto. e) Potere di chiedere il referendum abrogativo e il referendum approvativo delle leggi
costituzionali da parte di 5 consigli regionali. f) Partecipazione alle decisioni dirette alla formazione degli atti
normativi comunitari (art. 117, 5° comma). g) Un accordo permanente e organizzato tra stato e regioni è
costituito dalla Conferenza Stato-regioni. Della funzione amministrativa è sufficiente rammentare: 1) il
nuovo art. 118 non dice più che la regione ha funzioni amministrative nelle stesse materie in cui ha
competenza legislativa (principio chiamato del parallelismo), ed anzi proclama il principio secondo cui la
funzione amministrativa generale spetta ai comuni, salvi i casi nei quali questa funzione, secondo il criterio

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

della sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, viene attribuita o alle province, o alle città
metropolitane, o alle regioni o allo stato. La ripartizione delle funzioni amministrative tra tutti questi enti
dipende anzitutto dalle leggi statali, le quali a) nelle materie riservate allo stato possono attribuire funzioni
amministrative o a strutture amministrative statali o a comuni, Province e città metropolitane, ma b) possono
altresì attribuire direttamente a comuni, province e città metropolitane funzioni amministrative in qualunque
materia se lo stato ritiene che tali funzioni siano fondamentali per tali enti (art. 117, 2° comma, lett. p). Una
volta chiarito quali funzioni amministrative di province, comuni e città metropolitane sono state disciplinate
dalle leggi statali, in tutte le altre materie diventa competente la legge regionale, la quale può attribuire le
funzioni amministrative alla stessa regione o a provincie, o città metropolitane o comuni attenendosi al
principio di sussidiarietà. 2) Il nuovo testo costituzionale sembra aver abolito anche la figura della
delegazione amministrativa (per cui un ente, pur restando titolare di una funzione amministrativa, incarica un
altro ente di esercitarla fino a revoca e con i limiti indicati) e della subdelegazione (l’ente delegato a sua
volta subdelega ad un altro); quando la legge statale attribuisce funzioni amministrative a provincie, città
metropolitane o comuni, come le attribuisce così può toglierle; la legge statale che attribuisce funzioni
amministrative a questi enti può stabilire limiti e vincoli per il loro esercizio e con una nuova legge può
stabilire nuovi limiti e nuovi vincoli; lo stesso deve dirsi allorché la legge regionale attribuisce funzioni
amministrative a province, comuni e città metropolitane; in conclusione, in tutti questi casi, si ha la stessa
configurazione che precedentemente veniva chiamata delegazione; è da chiedersi però se sono ancora
ammissibili due casi prima possibili: a) il caso in cui è lo stato che con legge statale delega alla regione
funzioni amministrative in materie che sono però riservate allo stato sul piano legislativo; b) il caso in cui un
ente delegato subdelega ad altro ente le funzioni a lui delegate. Non sembra che vi sia in costituzione nessuna
norma che impedisca l’uno e l’altro caso, se la legge statale o quella regionale, secondo le rispettive
competenze, li prevedono espressamente. Quanto detto vale solo in riferimento alle funzioni amministrative:
per quanto riguarda la funzione legislativa, l’art. 117, letto insieme all’art. 76, non ammette né delegazione
legislativa da parte dello Stato verso le regioni (ammette la delegabilità della potestà regolamentare) né il
caso di una delegazione della regione verso lo stato. 3) Anche la regione ha un demanio, un patrimonio
indisponibile e uno disponibile, a somiglianza dello Stato. 4) La regione approva un bilancio preventivo e
uno consuntivo simili a quelli dello Stato. 5) Per quanto riguarda il pubblico impiego regionale, poiché
questa materia non rientra nella legislazione concorrente, ogni regione può legiferare come meglio crede per
quanto riguarda gli aspetti amministrativi, esclusi quegli aspetti che rientrano in altre materie (es. la regione
non può decidere che le controversie di lavoro dei suoi dipendenti non vengono giudicate dal giudice
ordinario ma da altro giudice, perché la materia giurisdizione è di esclusiva competenza statale): di
conseguenza l’attuale normativa statale, che pretende di valere anche nei confronti delle regioni, potrà essere
derogata e modificata negli aspetti amministrativi da successive leggi regionali per quanto riguarda i
dipendenti dell’ente Regione e degli enti pubblici regionali. 6) Gli atti amministrativi, se invadono la
competenza dello Stato, possono dar luogo ad un conflitto di attribuzione tra stato e regione costituendo
oggetto di giudizio della Corte costituzionale sotto tale profilo; vale anche l’inverso, per cui la regione può
sollevare conflitto di attribuzione nei confronti di un atto amministrativo dello Stato o di altra regione che
invade la sua competenza. 7) Gli atti amministrativi regionali, come i provvedimenti amministrativi statali,
possono violare secondo i casi diritti soggettivi o interessi legittimi, e dunque sono rispettivamente soggetti
al controllo giurisdizionale dei giudici ordinari nel primo caso e dei giudici amministrativi nel secondo.

5) Gli organi della Regione: la l. cost. 22 novembre 1999, n. 1 ha modificato la precedente disciplina
costituzionale in materia di organi della regione. Essa ha stabilito (art. 123 cost. nel nuovo testo) che la forma
di governo nelle regioni ordinarie viene stabilita e regolata dallo statuto della stessa regione. In attesa
dell’approvazione degli statuti, la l. cost. 1/99 ha dettato una disciplina transitoria, destinata a cessare non
appena regione per regione entreranno in vigore i rispettivi statuti. Resta fermo, in base all’art. 121, che ogni
regione ordinaria ha tre organi di vertice: il consiglio regionale, la giunta, ed il suo presidente. Spetta allo
stato stabilire con legge: a) i principi fondamentali in materia di sistema di elezione del presidente della

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giunta e dei consiglieri regionali; la l. n. 165/04 nell’art. 4 ha stabilito in materia alcuni principi: a)
individuazione di un sistema elettorale che agevoli la formazione di stabili maggioranze nel consiglio
regionale e assicuri la rappresentanza delle minoranze; b) se il presidente della giunta viene eletto a suffragio
universale e diretto, le elezioni di questo e del consiglio regionale devono essere contestuali, cioè nello stesso
giorno; se lo statuto ha scelto un diverso meccanismo per la elezione del presidente della giunta, ci devono
essere termini tassativi, comunque non superiori a 90 giorni, per la elezione del presidente e per l’elezione o
la nomina degli altri componenti della giunta (se i termini sono tassativi la conseguenza dovrebbe essere,
anche se non viene detto, che il superamento del termine stabilito determina lo scioglimento del consiglio);
c) divieto di mandato imperativo; b) i principi fondamentali in materia di ineleggibilità e di incompatibilità
degli stessi (indicati negli artt. 2 e 3 della l. 165/04); c) la durata degli organi elettivi (decisione sottratta alla
potestà statutaria: la durata è di 5 anni), fatta salva la possibilità di uno scioglimento anticipato del consiglio
nei casi previsti (art. 5 della l. 165/04). Spetta alla regione, con legge conforme al proprio statuto: a) stabilire
come vengono eletti il presidente della giunta (solo lo statuto può stabilire che il presidente, anziché essere
eletto con suffragio universale e diretto, venga eletto in altro modo), i componenti della giunta (salvo il caso
in cui la regione scelga l’elezione diretta del presidente della giunta, nel qual caso spetta a questo nominare e
revocare i membri della giunta), i consiglieri regionali, attenendosi ai principi fondamentali stabiliti nella
legge statale di cui sopra; b) disciplinare i casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei soggetti di cui sopra,
attenendosi ai principi fondamentali contenuti nella legge statale (tranne i casi stabiliti direttamente in
costituzione per cui nessuno può appartenere contemporaneamente a un consiglio o a una giunta regionale e
ad una delle camere del Parlamento, o ad un altro consiglio regionale ad altra giunta regionale, o ancora al
Parlamento europeo). Di conseguenza: 1) da ora in poi per sapere in che modo vengono eletti consiglieri
regionali, è necessario studiare la legge regionale specifica; 2) per sapere come viene eletto il presidente
della giunta bisogna verificare se lo statuto conferma la preferenza mostrata dal nuovo art. 123 per la
elezione a suffragio universale e diretto, o dispone in modo diverso; poi bisogna studiare la legge regionale
specifica che attua in materia le disposizioni statutarie; 3) i componenti della giunta, se lo statuto regionale
ha confermato la elezione a suffragio universale e diretto del presidente della giunta, sono nominati e
revocati da questo; se lo statuto ha optato per un diverso modo di elezione del presidente della giunta, spetta
alla regione (con lo statuto, e poi, se del caso, con legge, anche se il nuovo art. 123 nel comma uno prevede
solo la legge regionale: errore compiuto dal legislatore nello scrivere la nuova normativa) stabilire come
vanno nominati o eletti e revocati i membri della giunta. È stabilito direttamente in costituzione (nuovo art.
126): 1) che il consiglio regionale e il presidente della giunta che abbiano compiuto atti contrari alla
costituzione o violazioni di legge vengono rispettivamente l’uno sciolto o l’altro rimosso con decreto
motivato del presidente della Repubblica, sentita una commissione di deputati e senatori costituita, per le
questioni regionali, nei modi stabiliti con legge della Repubblica; lo scioglimento o la rimozione possono
essere disposti anche per ragioni di sicurezza nazionale; 2) il consiglio regionale può esprimere sempre la
sfiducia nei confronti del presidente della giunta mediante mozione motivata, sottoscritta da almeno 1/5 dei
suoi componenti, messa in discussione non prima che siano trascorsi tre giorni dalla sua presentazione, e
approvata per appello nominale a maggioranza assoluta dei componenti; 3) se la mozione di sfiducia è stata
approvata nei confronti di un presidente della giunta eletto a suffragio universale e diretto, questo fatto
determina le dimissioni della giunta e lo scioglimento del consiglio; il medesimo effetto, se il presidente
della giunta viene eletto a suffragio universale e diretto, si determina nei casi di rimozione, impedimento
permanente, morte o dimissioni volontarie dello stesso; se la mozione di sfiducia riguarda un presidente della
giunta eletto in altro modo stabilito dallo statuto, spetta allo stesso statuto stabilire le conseguenze di tale
atto, che comunque determina l’obbligo di dimissioni della giunta sfiduciata; la costituzione non dice quali
conseguenze si determinano in caso di rimozione, impedimento permanente, morte o dimissioni del
presidente della giunta non eletto con suffragio universale e diretto e quindi rispetto a tali casi decide lo
statuto; 4) le dimissioni della giunta e lo scioglimento del consiglio vengono anche determinate dalle
dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti del consiglio. Altre regole poste direttamente in
costituzione sono quella che prescrive che il consiglio abbia un suo presidente e un ufficio di presidenza
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

eletto tra i suoi componenti, e quella che ribadisce che i consiglieri regionali non possono essere chiamati a
rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (stessa immunità prevista
dall’art. 68 cost. per i parlamentari). Per quanto riguarda le funzioni dei tre organi, ed i rapporti tra di essi, la
costituzione si limita a ribadire che spetta al solo consiglio regionale approvare le leggi e fare proposte di
legge alle camere; il nuovo art. 121 non conferisce più al consiglio la potestà regolamentare, e quindi spetta
allo statuto stabilire chi e come delibera i regolamenti regionali e quali sono i tipi di regolamento ammessi
(salvo il regolamento del consiglio regionale, che spetta allo stesso consiglio); altre funzioni del consiglio
vengono stabilite o dalla costituzione o dalle leggi (soprattutto regionali). Alla giunta spetta la direzione
dell’apparato regionale (è l’organo esecutivo): se però gli statuti confermeranno l’elezione con suffragio
universale e diretto del presidente, poiché è in potere di questo nominare e revocare i membri della giunta, è
prevedibile una supremazia del presidente sui componenti della giunta, i quali, se dissentono dal presidente,
devono o piegarsi o dimettersi; se lo statuto opta per un modo diverso di elezione del presidente, spetta allo
stesso statuto disciplinare i rapporti tra presidente e giunta, tra presidente e consiglio, tra giunta e consiglio,
salvo quanto già stabilito direttamente in costituzione. Le norme prima illustrate riguardano soltanto le
regioni ordinarie. Per quanto riguarda le regioni speciali bisogna leggere i rispettivi statuti speciali, approvati
con legge costituzionale, in particolare gli statuti così come sono stati modificati dalla l. cost. n. 2 del 2001.
Da tenere presente che tutti gli statuti speciali oggi attribuiscono alla legge regionale, approvata con
particolari maggioranze e procedure, la determinazione della forma di governo e tutti danno la preferenza
alla elezione diretta del presidente della Regione.

6) Città metropolitane e Province: dal 1° gennaio 2015 esistono le città metropolitane (previste sulla carta
da decenni, prima in leggi ordinarie e poi in costituzione nell’art. 114 entrato in vigore nel 2001). L’elenco di
tali città si trova nella l. n. 56 del 2014. Gli organi di governo delle città metropolitane sono il sindaco
metropolitano, il consiglio metropolitano, la conferenza metropolitana. Il primo è il sindaco del comune
capoluogo (non viene eletto e continua a ricoprire la carica di sindaco del comune capoluogo); il consiglio
metropolitano è composto da persone in numero variabile secondo i criteri stabiliti dalla legge statale in
riferimento alla popolazione; queste persone sono o sindaci o consiglieri dei comuni che compongono la città
metropolitana e vengono elette dai consigli comunali, compresi i sindaci, secondo le modalità previste dalla
legge statale. La conferenza metropolitana è composta da tutti i sindaci dei comuni che compongono la città
metropolitana, ed ha il compito di deliberare lo statuto della città metropolitana. Si tratta di una elezione
indiretta, aggravata dal fatto che gli eletti continuano a svolgere le loro funzioni di sindaci e di consiglieri
comunali presso i rispettivi comuni e non sono retribuiti. La l. n. 54 citata prevede per il futuro la possibilità
dell’elezione diretta del sindaco e del consiglio metropolitano ma soltanto se verrà disciplinata da una legge
statale (che per ora non c’è) e se lo prevede lo statuto della città metropolitana. La provincia, in base ad un
progetto di leggi costituzionali e deliberato dalle camere con la maggioranza assoluta dovevano essere
abolite. Il 4 dicembre 2016 però il popolo italiano, con ampia maggioranza, ha bocciato la riforma proposta
(la quale riguardava anche altri oggetti come la riforma del Senato), così che per ora le province restano enti
necessari in base al testo costituzionale e continuano ad esistere. Però la l. n. 56 del 2014, che disciplina oggi
le province per quanto riguarda gli organi di governo e le loro funzioni, aveva già per parte sua provveduto a
ridurle ad un simulacro di ente locale. Lo strumento rimane il medesimo di quello usato per le città
metropolitane. Gli organi di governo della provincia sono tre: il presidente, il consiglio provinciale,
l’assemblea dei sindaci. Il presidente è eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni della
provincia e dura in carica quattro anni; il consiglio provinciale viene eletto dai sindaci e dai consiglieri
comunali dei comuni della provincia tra i membri i tali organi e dura in carica due anni. L’assemblea dei
sindaci è composta dai sindaci dei comuni della provincia ed ha il compito di deliberare lo statuto della
provincia. Si tratta dunque di una elezione indiretta con persone che continuano a ricoprire nei comuni la
carica per la quale sono stati eletti, persone che anch’esse non ricevono alcuna retribuzione per l’incarico
ulteriore ricevuto. Enti di scarso significato politico, se non nullo.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

7) Comuni: i comuni sono enti di origine molto antica. Gli statuti dei comuni, seguendo l’art. 6 del t.u. 267
2000, sono approvati e modificati dai consigli comunali in due modi, l’uno in subordine all’altro: nella prima
votazione è necessaria la maggioranza dei 2/3 dei consiglieri assegnati all’ente; se nella prima non si
raggiunge tale maggioranza, è necessaria la maggioranza assoluta ripetuta per due volte consecutivamente in
uno spazio di tempo non superiore a 30 giorni. Lo statuto, nell’ambito dei principi fissati dal presente testo
unico, stabilisce le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente, e in particolare specifica le attribuzioni
degli organi, le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della
rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio. Lo statuto stabilisce, altresì, i criteri generali in materia di
organizzazione dell’ente, le forme di collaborazione fra Comuni e Province, della partecipazione popolare,
del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, lo stemma e
il gonfalone e quanto ulteriormente previsto dal presente testo unico (art. 6 del t.u. sugli enti locali). Sul
piano giuridico la conseguenza più importante è che tutte le successive deliberazioni degli organi dei comuni
e delle province diventano illegittime non solo se violano le leggi statali e regionali, ma anche se violano il
proprio statuto. Una seconda innovazione, introdotta dalle leggi ordinarie a partire dal 1990 ed oggi garantita
dalla stessa costituzione, sta nel fatto che i comuni sono in principio enti a fini generali, che incontrano
molteplici limiti negativi ma che, salvi tali limiti negativi, possono perseguire quanti scopi ritengono
opportuno nell’interesse della popolazione da loro governata. Una terza innovazione consiste nel fatto che la
potestà regolamentare di Comuni e Province viene riconosciuta in termini generali (tutto ciò che tali enti
possono fare diventa possibile oggetto di loro regolamenti), e tali regolamenti sono soggetti solo alle leggi,
ma non ai regolamenti di altri enti. Dunque, tra regolamenti comunali e provinciali da un lato, e regolamenti
statali, regionali e di altri enti dall’altro, non c’è gerarchia, ma divisione di competenza. Un’innovazione è
costituita dalla possibilità che gli statuti ammettano referendum comunali, i quali però devono riguardare
materie di esclusiva competenza locale e non possono aver luogo in coincidenza con operazioni elettorali
provinciali, comunali e circoscrizionali. La legge divide i comuni in due classi: quelli al di sotto e quelli al di
sopra dei 15.000 abitanti. Nel caso dei comuni al di sotto dei 15.000 abitanti, sulla scheda elettorale figurano
i nomi dei candidati a sindaco, ciascuno con un simbolo a cui corrisponde una lista di candidati al consiglio
comunale. Chi vota per un candidato a sindaco vota anche per la lista corrispondente. L’elettore se vuole può
anche esprimere un voto di preferenza per uno dei candidati compresi nella lista da lui votata insieme al
candidato a sindaco. Diventa sindaco il candidato che ottiene la maggioranza dei voti, e questa sua vittoria
determina l’attribuzione alla sua lista dei 2/3 dei seggi di consigliere. I restanti seggi vengono distribuiti tra
le altre liste in modo proporzionale, usando il sistema d’Hondt: poiché i seggi da distribuire in tal modo sono
molto pochi (secondo i comuni, da 4 a 6), tale ripartizione non riesce ad essere proporzionale, e attribuisce
seggi solo a 2, raramente 3 partiti. Nei comuni sopra i 15.000 abitanti l’elettore si trova davanti una scheda
contenente tanti rettangoli quanti sono i candidati a sindaco; ciascun rettangolo è diviso in due parti: a
sinistra è scritto il nome del candidato a sindaco, a destra sono riportati il simbolo o i simboli della lista o
delle liste di candidati al consiglio comunale, le quali si sono collegate al candidato a sindaco. L’elettore,
votando un simbolo di lista, vota il candidato a sindaco collegato a quella lista; egli però può separare i due
voti, e votare una lista e un candidato a sindaco non collegato con la lista che ha votato. Diventa possibile
(oggi, con le modificazioni introdotte dopo il 1993 la cosa è improbabile) che il sindaco e il consiglio siano
espressione di due maggioranze diverse, e quindi o si paralizzano a vicenda o sono costretti a continue e
faticose trattative su ogni questione. È previsto un primo turno e, eventualmente, un secondo turno di
votazione due domeniche dopo. Nel primo turno viene eletto sindaco il candidato che ottiene la metà più uno
dei voti validi. Se nessuno ottiene tale percentuale, si procede ad una seconda votazione due domeniche
dopo: vengono ammessi al voto nel secondo turno solo i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero
di voti nel primo turno. Tra il primo e il secondo turno resta fermo il collegamento già stabilito nel primo
turno, però si possono aggiungere a tale collegamento nuove liste. I collegamenti si possono stabilire solo se
si dichiarano d’accordo tutti i rappresentanti di tutte le liste da collegare. L’elettore, al voto per la lista e per
il sindaco, può aggiungere un voto di preferenza per uno dei candidati contenuti nella lista da lui votata.
Vediamo come vengono eletti i consiglieri nei comuni sopra i 15.000 abitanti: a) se un candidato a sindaco
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

viene eletto nel primo turno, la lista o il gruppo di liste a lui collegato ottiene il 60% dei seggi in consiglio
purché però tale lista o tale gruppo abbia superato il 40% dei voti validi (modificazione introdotta dalla l.
120/99, assorbita dal testo unico più volte ricordato; precedentemente era necessario il 50%). Si tratta di un
premio di maggioranza che non si applica se la lista o il blocco di liste ha già raggiunto per suo conto tale
60% dei seggi, secondo il meccanismo descritto nel punto e). Se scatta il premio, il restante 40% viene
ripartito tra gli altri collegamenti usando il sistema d’Hondt. b) Se la lista o il blocco di liste collegate col
sindaco eletto nel primo turno non ha raggiunto il 40% dei voti, si applica la ripartizione che sarà descritta
nel punto e). c) Se il sindaco viene eletto nel secondo turno la lista o il gruppo di liste a lui collegate ottiene il
60% dei seggi, purché però nel primo turno una lista o un gruppo di liste collegate con diverso candidato non
abbia già superato il 50% dei voti validi. Se le liste collegate col sindaco eletto hanno vinto il premio del
60% dei seggi, il restante 40% viene ripartito tra gli altri collegamenti usando il sistema d’Hondt. d) Se il
sindaco viene eletto nel secondo turno, e però nel primo turno una lista o blocco di liste ha ottenuto il 50%
dei voti, si applica il meccanismo del punto e). e) Se non si può applicare il premio, o nel primo turno, o nel
secondo turno, la ripartizione dei seggi viene fatta assegnando a ciascun blocco di liste collegato con un
candidato a sindaco tanti seggi quanti ne risultano usando il sistema d’Hondt, che è proporzionale. Resta da
risolvere il problema dell’attribuzione dei seggi alle singole liste quando esse si sono presentate collegate: si
ripete l’operazione del sistema d’Hondt, ripartendo secondo questo sistema tra le singole liste i seggi
assegnati globalmente al gruppo di liste. Se una lista o un gruppo di candidati non ha ottenuto il 3% dei voti
validi e non appartiene ad un gruppo di liste o di candidati che abbia superato tale soglia, non ottiene alcun
seggio (innovazione introdotta dalla l. 120/99). Quanto alla elezioni dei singoli candidati entro ciascuna lista,
valgono le preferenze, con precedenza per coloro che sono stati candidati a sindaco e non sono stati eletti. I
consigli, e relativi sindaci, durano in carica 5 anni. La legislazione vigente prevede che le elezioni comunali
e provinciali si svolgano in un solo turno annuale ordinario da tenersi tra il 15 aprile ed il 15 giugno, così che
la durata dei consigli potrà risultare un po’ più breve o più lunga di 5 anni secondo che il consiglio scada
prima o dopo il turno elettorale. Inoltre, i sindaci, dopo due mandati consecutivi (cioè dopo 8 anni di carica),
non sono immediatamente rieleggibili. Però la legislazione vigente consente un terzo mandato consecutivo se
uno dei due mandati precedenti ha avuto durata inferiore a due anni, sei mesi e un giorno, per causa diversa
dalle dimissioni volontarie. Nei comuni sopra i 15.000 abitanti il consiglio viene presieduto da un presidente
eletto tra i consiglieri nella prima seduta del consiglio (modificazione introdotta dalla l. 265/99; prima della l.
142/90 il consiglio comunale era presieduto dal sindaco); nei comuni sotto i 15.000 abitanti è lo statuto a
decidere se il consiglio deve essere presieduto da un presidente eletto o dal sindaco. Nelle elezioni comunali
la lista o le liste collegate devono presentare prima delle elezioni un programma amministrativo da affliggere
all’albo pretorio. La giunta comunale è nominata dal sindaco. Nei comuni sopra i 15.000 abitanti vi è
incompatibilità tra la carica di assessore e quella di consigliere. Se viene nominato assessore un consigliere,
questo decade dalla seconda carica (viene sostituito dal primo tra i non eletti della sua lista). Il sindaco può
nominare tutti gli assessori, o una parte, al di fuori del consiglio. Il numero massimo di assessori viene deciso
dagli statuti attenendosi ai principi ed ai limiti massimi stabiliti dalla legge statale. La mozione di sfiducia
nei confronti del sindaco, se approvata dalla maggioranza assoluta dei consiglieri, determina lo scioglimento
del consiglio, la nomina di un commissario e la necessità di nuove elezioni. Così come le dimissioni del
sindaco. In generale l’organo più importante diventa il sindaco, che nomina e revoca liberamente i
componenti della giunta. Poiché il comune è un ente a fini generali, le funzioni dei comuni non sono
numerabili. Si può ricordare ciò che l’ente comune non deve fare, ciò che deve fare obbligatoriamente in
base alle leggi dello Stato, e descrivere ordinatamente ciò che generalmente fanno tutti i comuni. Per quanto
riguarda ciò che non rientra nelle competenze dell’ente comune (o provincia), il comune ha una limitata
funzione normativa rispetto alle sue competenze amministrative: questo vuol dire che non ha alcuna
competenza normativa al di fuori di questo campo. In altre parole, il comune è in principio un ente che
svolge funzioni amministrative e gestisce servizi pubblici: prima si individuano i compiti amministrativi che
esso può svolgere, e dopo si individuano i corrispondenti compiti normativi a lui spettanti, strumentali
rispetto ai compiti amministrativi. Il comune non ha alcuna competenza in materia giurisdizionale; in materia
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

di politica estera; in materia militare; in materia di sicurezza pubblica, fatta salva qualche ipotesi marginale;
in materia di scuola, salvi alcuni compiti puramente strumentali (es. costruzione di edifici scolastici) rispetto
ad alcuni tipi di scuole. L’ente comune deve svolgere alcuni compiti amministrativi: prima della l. 142/90
esisteva un elenco di tali compiti. Oggi l’art. 13 del testo unico sugli enti locali (che riproduce alla lettera
l’art. 9 della l. 142/90) usa una formula di carattere generale: spettano al comune tutte le funzioni
amministrative che riguardino la popolazione ed il territorio comunale precipuamente nei settori organici dei
servizi sociali, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia
espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
Però sono e restano in vigore molteplici leggi (es. in materia urbanistica) che indicano i diversi compiti
amministrativi che ciascun ente deve svolgere. Dunque, per sapere quali sono i compiti amministrativi
obbligatori dei comuni, bisogna conoscere le leggi statali e regionali vigenti nelle diverse materie. In base ai
singoli statuti ciascun comune dovrà svolgere quei compiti che lo statuto prevede come obbligatori. Infine, vi
sono tutti quegli svariati interventi che l’ente decide di compiere, anche se non obbligato, e sempre che non
gli sia vietato dalle leggi. Per ordinare questi molteplici compiti, possiamo riprendere la classificazione usata
per le regioni (e ripresa nella stessa l. 142/90 e dal vigente testo unico): 1) compiti nel campo dei servizi
sociali: istruzione (es. asili nido); assistenza, sia mediante trasferimenti in denaro (sussidi ai poveri), sia
mediante assegnazione di cose (es. alloggi) sia mediante servizi (es. assistenza domiciliare agli anziani);
cultura (gestione di teatri); sport e tempo libero (gestione di impianti sportivi). 2) Compiti in materia di
assetto e utilizzazione del territorio: approvazione di piani regolatori; autorizzazioni e concessioni edilizie;
costruzione e manutenzione di strade; costruzione e manutenzione di parchi, giardini e in generale verde
pubblico; vigilanza e controllo su ogni utilizzazione del territorio, affinché sia conforme alle norme. 3)
Compiti in materia di sviluppo economico: costruzione di aree attrezzate per industrie, etc.; sussidi alle
iniziative economiche, etc. 4) Compiti di organizzazione e gestione del personale e dei mezzi materiali
necessari a svolgere le funzioni di cui sopra, raccolta e gestione dei mezzi finanziari (attraverso lo strumento
fondamentale del bilancio). 5) Gestione di servizi pubblici, come trasporto urbano delle persone,
distribuzione e vendita di elettricità e gas, costruzione acquedotti e distribuzione acqua potabile, costruzione
e manutenzione di fognature, costruzione e manutenzione dei cimiteri, costruzione e gestione di mercati
pubblici. Le modalità mediante le quali i comuni gestiscono o cercano di garantire l’erogazione di servizi
pubblici sono diverse, ma prevale oggi, incentivata dalle leggi e dall’unione europea, la forma della società
per azioni o a responsabilità limitata, nelle quali l’ente può essere in minoranza per quanto riguarda la
proprietà delle azioni o delle quote, e quindi non avere potere di gestione. Quanto alle risorse materiali e
finanziarie dei comuni (e delle province), e al modo di gestirle, va ricordato: 1) comuni e Province hanno
beni demaniali, patrimoniali indisponibili, patrimoniali disponibili, come gli altri enti pubblici territoriali
(stato, regioni). 2) Le risorse finanziarie dei comuni derivano anzitutto da trasferimenti annuali dello Stato (i
comuni dipendono finanziariamente dallo stato), da trasferimenti poco rilevanti delle regioni e altri eventuali
soggetti, da imposte e tasse che la legge ha assegnato ai comuni (es. la tassa sui rifiuti solidi urbani), dai
proventi che l’ente ricava dai suoi servizi, quando essi non sono, o non sono totalmente, gratuiti: rette per
asili nido, etc. (per molti di tali servizi, e in particolare quelli a domanda individuale, cioè che vengono
erogati se l’interessato li richiede, oggi la legge statale prevede una percentuale minima di copertura dei
costi). 3) L’insieme delle entrate e delle spese viene gestito mediante bilanci annuali e pluriennali in tutto
simili a quelli degli altri enti pubblici non economici. Bisogna ricordare la distinzione tra entrate e spese
correnti, ed entrate e spese in conto capitale. Con la l. cost. n. 3/01 sono stati aboliti i controlli amministrativi
sugli atti sia delle regioni sia degli enti locali. In principio chi si ritiene leso in un suo diritto o interesse
legittimo da atti amministrativi di tali enti si deve rivolgere ai giudici competenti. La legislazione vigente
lascia irrisolto un problema nodale: l’autonomia tributaria e finanziaria degli enti locali, giacché questi enti
gestiscono pochi tributi propri, e dipendono dai trasferimenti che ogni anno lo stato decide col proprio
bilancio.

CAPITOLO 18
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

I diritti di libertà

1) La libertà personale: la costituzione prevede anzitutto la libertà personale (art. 13). La costituzione sotto
questo nome disciplina una specifica libertà tra le altre. D’altronde sarebbe difficile garantire la libertà in
generale: l’unica vera garanzia sta nel fatto che l’ordinamento pone precisi e invalicabili limiti al potere
coercitivo dello Stato rispetto a specifici interessi di tutti gli individui (la propria persona fisica, il proprio
domicilio, etc.), e nel fatto che tali interessi sono molto numerosi e quindi corrispondentemente le concrete
garanzie di libertà sono altrettanto estese. La libertà personale è storicamente e logicamente la condizione
indispensabile di ogni altra libertà: poter disporre del proprio corpo è la condizione per poter godere altre
possibilità e facoltà umane; non poter disporre della propria persona fisica all’inverso significa non avere
nessun’altra libertà; in secondo luogo questa libertà, stando alle stesse parole della costituzione, possiede un
carattere aperto, e per così dire residuale perché ogni qualvolta non è possibile invocare una specifica libertà
a difesa di un proprio interesse, diventa spesso possibile invocare la garanzia della libertà personale. “La
libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione
personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che
devono essere comunicati entro 48 ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive
48 ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle
persone comunque sottoposte a restrizione di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione
preventiva” (art. 13 cost.). La costituzione dice che non è ammessa, se non nei casi e nei modi specificati,
forma alcuna di detenzione: per detenzione deve intendersi qualsiasi forma di costrizione sulle persone
fisiche, non vietata dalla costituzione in assoluto, tale che impedisca la libertà dei movimenti: si va dalla
costrizione nel senso più letterale del termine (es. l’incatenamento) a quelle forme di detenzione considerate
universalmente come equivalenti alle prime, quale la detenzione forzosa entro un locale chiuso (es. il
carcere). La costituzione nomina poi l’ispezione o perquisizione personale: con il primo termine si indica
un’indagine compiuta direttamente sul corpo di una persona, col secondo un’indagine compiuta su qualsiasi
altra cosa una persona abbia indosso. La costituzione prosegue dicendo: né qualsiasi altra restrizione della
libertà personale. La costituzione elenca tre casi tipici e certi di limitazione della libertà personale
(detenzione, ispezione e perquisizione), ma fa intendere che per essa la libertà personale è qualcosa di più
ampio. Ma cosa è questo qualcosa di più ampio? Una prima interpretazione è questa: qualsiasi attività umana
che, oltre i casi espressamente preveduti nell’art. 13 e al di fuori dei casi previsti in altre garanzie di libertà,
limita in qualche modo la libera disponibilità del corpo di una persona, rientra nella previsione dell’art. 13 e
quindi è sottoposta ai limiti e alle garanzie ivi previste (es. il vestire a forza la recluta con abiti militari).
Dunque, qualsiasi attività che in qualche modo limita la libera disponibilità del corpo di una persona e che
non rientra nella previsione di altre garanzie costituzionali (nell’altra garanzia della libertà di circolazione e
soggiorno), può ricadere sotto l’art. 13, il quale conferma la sua natura di norma generale sulla libertà fisica,
invocabile ogni qualvolta non si può invocare una norma più specifica. Fino alla dichiarazione di
incostituzionalità da parte della Corte costituzionale (n. 11 del 1956) il testo unico di pubblica sicurezza
prevedeva l’istituto dell’ammonizione disposta dal prefetto (autorità amministrativa). Questa ammonizione
comportava varie conseguenze, tra cui quella per cui non si poteva uscire di casa prima e rientrare in casa
dopo una certa ora. Questa, e altre limitazioni simili a questa, non erano costrizioni della persona fisica: pure
la Corte ha ritenuto che fossero lesive della libertà personale perché diminuivano talmente la dignità di una
persona di fronte a tutte le altre che si risolvevano in una diminuzione di libertà. (La Corte l’ha ritenuta
illegittima in conformità a quanto prevede l’art. 13 perché a disporre tale limitazione di libertà era il prefetto
e non il giudice). In conclusione, l’art. 13 tutela non solo la libertà fisica delle persone, ma anche la loro
libertà morale, ogni volta che obblighi di fare o non fare diminuiscono la dignità di una persona nei confronti
delle altre. Però non tutti gli obblighi di fare o non fare, ma solo quelli che, secondo la comune coscienza
sociale, diminuiscono l’immagine e la dignità di una persona. Si tratta di un criterio generico affidato in
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

buona parte alla valutazione discrezionale della Corte. Poiché i diritti di libertà devono garantire i singoli
contro prepotenze e soprusi, la regola di interpretazione da applicare rispetto ad essi è che, di fronte a due o
più possibili interpretazioni di una regola, va preferita quella più favorevole alla libertà, quella cioè che
aumenta l’area della garanzia. Abbiamo esaminato fin qui l’oggetto della garanzia (che cosa viene garantito)
esaminiamo ora il contenuto della garanzia, l’insieme delle regole che la sostanziano: 1) la riserva di legge:
le restrizioni della libertà personale possono essere imposte solo nei casi e nei modi previsti dalla legge, dove
per legge deve intendersi legge dello Stato o atto avente forza di legge dello Stato. Per unanime convinzione
la riserva dell’art. 13 come in generale quelle previste per i diritti di libertà, è una riserva assoluta, cioè una
riserva che non ammette, neppure in via subordinata, altre norme disposte da fonti diverse dalla legge. Dato
che la legge è un atto del Parlamento, cioè dell’organo rappresentativo del popolo, mentre il regolamento è
atto del potere esecutivo, cioè di un potere non immediatamente rappresentativo, secondo l’ideologia
dominante, la legge del Parlamento costituisce una garanzia di libertà perché in tal modo la limitazione
proviene dallo stesso popolo attraverso il suo organo rappresentativo: la libertà dunque viene limitata in base
non ad una decisione arbitraria dei poteri costituiti, ma in base ad una decisione libera di tutti. Le limitazioni
alla libertà, dovendo provenire dal Parlamento, ottengono il massimo di garanzia istituzionalmente possibile,
giacché sarà la maggioranza del momento a predisporre tali limitazioni. La stessa maggioranza deve
rispettare i limiti e le garanzie disposte direttamente in costituzione. 2) La seconda garanzia è costituita dal
fatto che le limitazioni devono essere disposte volta a volta, nei casi e nei modi previsti in astratto dalla
legge, solo da autorità giudiziarie (c’è una differenza tra autorità giudiziaria e giudice: il p.m. è autorità
giudiziaria ma non giudice: svolge le funzioni di una parte, non di un terzo imparziale; quando si dice
autorità giudiziaria si vuol dire che la legge può attribuire certi poteri anche al pubblico ministero oltre che al
giudice). Né il governo, né il presidente della Repubblica, che pure sono organi costituzionali, potrebbero
ordinare l’arresto di una persona. Né il Parlamento, né un qualsiasi altro soggetto che non sia giudice. Perché
tutti ritengono che riservare solo ai giudici l’applicazione concreta delle leggi limitative della libertà
personale, e in generale dei diritti di libertà, costituisca una garanzia? Perché, nella convinzione generale, i
giudici vengono considerati i soggetti imparziali per eccellenza, coloro che hanno istituzionalmente il
compito di far rispettare le leggi e che dunque offrono la maggiore garanzia istituzionale che essi stessi,
nell’eseguire le leggi, ne saranno i fedeli interpreti. A tal fine i giudici godono di particolari garanzie a difesa
della loro indipendenza, così che esiste la convinzione che essi, nel limitare i diritti di libertà, si atterranno
alle leggi vigenti senza essere condizionati da minacce, o timori, o legami politici, o pressioni economiche e
ideologiche, etc. All’interno del quadro istituzionale previsto dalla costituzione, affidare solo ai giudici il
potere concreto di limitare le libertà è una garanzia, giacché, dovendo necessariamente scegliere tra
l’attribuzione di questo potere ai soli giudici o anche ad altri soggetti diversi dai giudici o addirittura a tutti i
soggetti pubblici, i giudici offrono maggiori garanzie rispetto a tutti gli altri (in particolare rispetto al potere
esecutivo). 3) Infine, l’ultima garanzia prevista in costituzione è che il provvedimento del giudice deve
essere motivato, deve indicare per iscritto i fatti che giustificano il provvedimento restrittivo e le norme che
stanno a fondamento di esso, così che sia possibile immediatamente un controllo della sua legittimità. A tal
fine l’art. 111 prevede che contro i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso ricorso in
Cassazione per violazione di legge. Per tutelare più rapidamente la libertà personale l’art. 309 del c.p.p. (che
recepisce con modificazioni la l. 12 agosto 1982 n. 532 istitutiva del tribunale della libertà) prevede la
possibilità di richiedere al tribunale il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale prima del
processo; questo giudice ha 10 giorni di tempo per pronunciarsi; se entro i termini prescritti non si pronuncia,
il provvedimento restrittivo della libertà decade. La costituzione ha previsto il caso in cui non è possibile
attendere la decisione del giudice per limitare la libertà personale, pena l’avverarsi di un danno irreparabile.
La costituzione non elenca i casi in cui un soggetto non giudice è autorizzato a intervenire senza il previo
ordine del giudice, ma indica i criteri generali a cui devono attenersi le leggi ordinarie nel prevedere e
disciplinare casi del genere. La costituzione dice che in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che
devono essere comunicati entro 48 ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

48 ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. Dunque, non solo i casi devono essere indicati
dalla legge (del Parlamento: viene disposta la riserva assoluta di legge), ma devono essere indicati
tassativamente, cioè in modo così preciso che non sia possibile all’autorità di pubblica sicurezza estenderli a
sua discrezione; devono poi riguardare ipotesi di necessità ed urgenza, cioè fatti i quali oggettivamente si
presentano tali che è necessario intervenire subito (es. ladro che fugge). Anche in questi casi, non tutti
possono sostituirsi ai giudici, ma solo l’autorità di pubblica sicurezza, cioè quei soggetti che
istituzionalmente hanno il compito di garantire la sicurezza pubblica. L’autorità di p.s. si sostituisce ai
giudici solo provvisoriamente, in attesa che entro termini tassativi e rigorosi si pronuncino definitivamente
sulla questione i giudici. Se la p.s. non comunica entro 48 ore il provvedimento restrittivo da essa adottato, o
il giudice non pronuncia alcuna decisione entro le successive quarantott’ore o nega espressamente la
convalida del provvedimento restrittivo, questo decade automaticamente e immediatamente e non ha alcun
effetto di nessun genere. Queste osservazioni ci introducono in un problema molto dibattuto, il fermo di
polizia. Nel nostro ordinamento viene punito non solo il reato, ma anche il tentativo di reato, cioè
quell’attività, oggettivamente provata, che precede e prepara la commissione di un reato (es. il rapinatore
che, prima della rapina, si procura le armi). Nel nostro ordinamento se vi è necessità e urgenza, l’autorità di
p.s. può e deve impedire il reato e quindi può e deve fermare anche colui che tenta di compiere il reato. In
questo caso il fermo giudiziario non è che un normale provvedimento che anticipa quello del giudice.
Quando è che il fermo non è più giudiziario, ma di polizia? Quando la pubblica sicurezza ferma qualcuno
non sulla base di indizi che provano che sta per commettere un reato e quindi è colpevole del tentativo di
reato, ma sulla base di qualità personali del fermato che fanno ritenere soggettivamente che egli potrebbe
commettere un reato. In altre parole indipendentemente dalle prove oggettive viene operato un fermo
preventivo sulla base delle convinzioni della stessa autorità di p.s. In questi termini il fermo di polizia è
incostituzionale, perché si attribuirebbe all’autorità di pubblica sicurezza un potere di limitare la libertà
personale che i giudici non hanno, mentre l’art. 13 cost. consente che in casi eccezionali e urgenti venga
attribuito alla pubblica sicurezza un potere che in via di principio spetta ai giudici. Però un legislatore furbo e
attento potrebbe cercare di aggirare l’ostacolo. Es. può stabilire che i giudici possono fermare per
accertamenti le persone che per le loro qualità personali potrebbero commettere un reato, e poi stabilire che
in casi di urgenza questo potere spetta all’autorità di p.s., con quel che segue secondo l’art. 13 cost. Secondo
Rescigno, sulla base dell’art. 25 cost., o vi è reato (e connesso tentativo) con conseguente potere di limitare
preventivamente e successivamente la libertà personale, o non c’è, con conseguente divieto di limitazione
della libertà personale: quindi un provvedimento che dà se stesso dichiara che non vi è reato, neppure nella
forma del tentativo, non può poi pretendere di assoggettare una persona alle stesse misure o a misure
analoghe a quelle che si adottano per prevenire e perseguire i reati. Dunque, in ogni caso il fermo di polizia,
in ipotesi di mero sospetto soggettivo e non oggettivamente probabile, non è costituzionalmente ammissibile.
Il legislatore ordinario però con l’art. 6 del decreto l. 15 dicembre 1979 n. 625 (convertito in l. 6 febbraio
1980 n. 15) ha istituito il fermo di polizia: e però lo stesso legislatore, dubbioso sulla sua costituzionalità, lo
ha ammesso solo a termine, e infatti l’istituto non è più in vigore dal 1° gennaio 1982.

2) La libertà di domicilio: l’art. 14 della costituzione prescrive: il domicilio è inviolabile. Non vi si possono
eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie
prescritte per la tutela della libertà personale. Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di
incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali. La costituzione usa la parola
domicilio perché è quella del linguaggio comune. Il diritto privato fa distinzione tra residenza e domicilio
(art. 43 c.c.): residenza è il luogo in cui una persona dimora abitualmente; domicilio è il luogo in cui essa ha
stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. Si chiama dimora il luogo in cui una persona sta
temporaneamente. La costituzione non usa la parola domicilio nel significato tecnico specifico del diritto
privato. La ragione della norma costituzionale è quella di tutelare la riservatezza della vita privata di ognuno,
e dunque è necessario che essa si estenda sia alla casa di abitazione che al proprio ufficio privato che alla
camera di albergo, nella quale si risiede occasionalmente, perché in ognuno di questi tre diversi domicili si

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

svolge una parte della propria vita privata. In tema di diritti di libertà, nel dubbio, le regole vanno interpretate
a vantaggio della libertà. In conclusione, qualsiasi luogo chiuso e privato nel quale, anche temporaneamente,
una persona abbia il diritto di stare costituisce domicilio ai fini dell’art. 14 cost., e per questa ragione rientra
nella garanzia prestata da questo articolo. Per motivi di sanità o di incolumità pubblica, o a fini economici e
fiscali, leggi speciali possono disciplinare accertamenti e ispezioni nel domicilio: ciò significa che in questi
casi le leggi speciali possono derogare all’art. 14, e quindi ad es. attribuire il potere di ispezione anche ad
autorità amministrative.

3) La libertà e segretezza delle comunicazioni e della corrispondenza: l’art. 15 dispone: la libertà e la


segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione
può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Bisogna
distinguere tra comunicazione (e corrispondenza) (art. 15) e manifestazione del pensiero (art. 21).
Corrispondenza (per iscritto) e comunicazione con qualsiasi altro mezzo implicano un rapporto tra due
soggetti determinati, il primo dei quali invia e il secondo riceve la comunicazione a lui indirizzata. Il criterio
di distinzione sta nel fatto che ciò che si manifesta è indirizzato a determinati destinatari, usando mezzi e
strumenti che nella società vengono considerati come riservati ai soli destinatari; nella semplice
manifestazione del pensiero o ci si rivolge a tutti, o a nessuno in particolare, o anche rivolgendosi a persone
determinate si usano strumenti che per loro natura sociale comportano una divulgazione a tutti. Solo nel
primo caso ha senso porsi un problema di segretezza, in quanto nel secondo caso il pensiero viene
manifestato proprio per farlo conoscere al più gran numero di persone. La costituzione garantisce sia la
libertà che la segretezza di ogni forma di comunicazione. Libertà vuol dire che nessuno può essere impedito
dal dare e ricevere comunicazione a chiunque e da chiunque. Segretezza vuol dire che il contenuto della
comunicazione non può essere oggetto di conoscenza da parte di altri, ma se viene ugualmente conosciuto
per un qualsiasi motivo, il contenuto della comunicazione non può essere divulgato senza il consenso degli
interessati (sia del mittente che del ricevente, basta l’opposizione di uno per impedire la divulgazione). La
costituzione, se dispone anche in questo caso una riserva assoluta di legge e attribuisce ai giudici il potere di
limitare la libertà e la segretezza nei casi previsti dalla legge, non prevede un potere di urgenza a favore delle
autorità di p.s. sostitutivo in via provvisoria di quello del giudice. Per questo aspetto la costituzione appare
maggiormente garantista verso questa libertà particolare. Non vi sono ragioni di urgenza che giustificano una
violazione di questa libertà senza un previo intervento del giudice.

4) La libertà di circolazione e soggiorno: art. 16: ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in
qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi
di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è
libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge. Di questa regola va
ricordato che le limitazioni devono essere previste in astratto con legge generale (cioè con legge che indica in
via ipotetica e preventiva fatti oggettivi, verificandosi i quali è ammissibile porre le limitazioni nei casi
concreti) e sono ammissibili solo per motivi di sanità o di sicurezza, tanto che la costituzione ribadisce che le
restrizioni non possono essere mai ammesse per motivi politici. Il primo comma tutela solo i cittadini e si
riferisce alla circolazione e soggiorno entro i confini. Il secondo comma si riferisce alla circolazione al di
fuori dei confini. La libertà di espatrio è garantita meno di altre perché la costituzione rinvia totalmente alla
legge e non pone alcun limite sostantivo a questa. Però se questa libertà di espatrio garantita in via di
principio dalla costituzione ha da essere reale, è necessario che la legge, nello stabilire gli obblighi alla quale
essa è subordinata e i casi in cui l’espatrio è vietato, non attribuisca ai pubblici poteri un potere discrezionale.
È assoluto il diritto dei cittadini di stare o rientrare in Italia.

5) La libertà di riunione: l’art. 17 prevede: i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.
Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico
deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di
incolumità pubblica. In questo caso la costituzione garantisce la possibilità di incontrarsi e stare insieme in
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

un determinato luogo, indipendentemente dalle ragioni per cui ci si riunisce. Si tratta di una libertà
strumentale, con la quale si garantisce il mezzo attraverso cui i cittadini intendono raggiungere lo scopo che
si sono liberamente prefissi. Le riunioni garantite sono quelle senza armi e pacifiche, quindi quelle non
pacifiche e armate sono vietate. Sono armate quelle riunioni in cui siano presenti armi non casualmente e non
perché portate da persone estranee ai riuniti. Riunione non pacifica è quella che fa ragionevolmente
prevedere che essa metterà in pericolo l’integrità fisica di persone o di cose. Non pacifica è la riunione in cui
effettivamente vengono messe in pericolo od offese persone e cose. La costituzione accoglie la distinzione
tra riunioni private, riunioni aperte al pubblico, e riunioni in luogo pubblico. Le prime sono riunioni a cui si
può accedere solo su consenso espresso di colui che ha la giuridica disponibilità del luogo (es. un circolo
privato); le seconde avvengono in luoghi non destinati per loro natura all’uso pubblico, ma in concreto aperti
al pubblico per volontà del titolare del luogo (es. un cinema); le terze in luoghi destinati all’uso pubblico
secondo le leggi, ai quali tutti possono liberamente accedere (es. una strada). Solo per queste ultime riunioni
la costituzione esige che gli organizzatori diano un preavviso alle autorità almeno tre giorni prima. Dunque,
neanche queste riunioni in luogo pubblico devono essere autorizzate: i cittadini non devono aspettare alcuna
autorizzazione per riunirsi in luogo pubblico, ma, una volta assolto l’obbligo del preavviso, possono
senz’altro riunirsi. Spetterà alla pubblica autorità avvisata vietare tale riunione in caso di comprovati motivi
di sicurezza o di incolumità pubblica, e quindi con provvedimento motivato che indichi espressamente le
circostanze che fanno temere per la sicurezza delle cose e l’incolumità delle persone. Il mancato preavviso
costituisce reato per i promotori della riunione che avevano questo obbligo, e quindi giusta causa di una loro
incriminazione penale, ma non rende di per sé illecita la riunione. La riunione presuppone una decisione
consapevole di riunirsi: solo così ha senso l’obbligo di preavviso tre giorni prima per le riunioni in luogo
pubblico. Però esistono anche quelli che sono chiamati dalle norme assembramenti, cioè riunioni spontanee
di persone, per le ragioni più varie. L’assembramento per definizione non consente il preavviso, ma il fatto
che esso manchi non toglie che anche l’assembramento sia una specie del genere riunione, caratterizzata dal
fatto che per ragioni oggettive insuperabili non può essere preavvertita: per questa ragione ad essa, delle
regole costituzionali, non si applicherà quella parte che riguarda il preavviso, ma si applicheranno tutte le
altre regole, come quella che consente il divieto o lo scioglimento della riunione solo per comprovati motivi
di sicurezza e incolumità pubblica. C’è da chiedersi se il corteo rientri anch’esso sotto la garanzia dell’art.
17. Il corteo è una riunione itinerante che si sposta lungo un percorso. Il corteo adempie al medesimo
compito strumentale della riunione, e dunque la garanzia costituzionale è la medesima.

6) La libertà di associazione: i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per
fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che
perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare (art. 18 cost.).
Bisogna distinguere tra riunione e associazione. La riunione è lo stare insieme in un medesimo luogo per un
periodo molto limitato di tempo; l’associazione è un rapporto sociale e designa il fatto di più persone che
perseguono il medesimo fine e che a questo scopo uniscono le proprie forze mettendo in comune sia parte
della propria attività che i mezzi materiali necessari. Oggi la società è composta soprattutto di associazioni. I
soggetti sociali più importanti sono soggetti collettivi: i partiti, i sindacati, le associazioni culturali, sportive,
etc. La nostra Costituzione, che già nell’art. 2 ha proclamato che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, assegna
al diritto di associarsi volontariamente e liberamente il massimo di libertà possibile, parificando le
associazioni ai singoli sotto l’aspetto dei fini perseguibili: tutto ciò che può perseguire in modo lecito il
singolo può essere perseguito dalle associazioni, che possono liberamente costituirsi senza autorizzazione nel
numero che si vuole, con l’organizzazione che si vuole, per fini liberamente scelti, purché non si violino
divieti penali posti ai singoli. La costituzione vieta due soli tipi di associazioni: le associazioni segrete e
quelle che perseguono anche indirettamente fini politici mediante organizzazioni di carattere militare, a
causa delle camicie nere fasciste e di altre simili bande pronte in ogni momento ad usare violenza contro
altre forze sociali e politiche. Lo sfavore contro le associazioni segrete si spiega per la loro antidemocraticità,

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

giacché non consentono alcun controllo popolare sulla loro attività. È facile individuare le organizzazioni a
carattere militare: l’indice più significativo è l’esistenza di una gerarchia tra i membri dell’organizzazione
simile a quella in uso nelle forze armate. Una definizione legislativa del carattere militare di un’associazione
si trova nel d. lgs. 14 febbraio 1948, n. 43. Insieme all’art. 18 va letta la XII disposizione finale della
costituzione secondo cui è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.
Quindi qualsiasi associazione che in qualche modo si ricollega al movimento fascista è vietata secondo la
costituzione, e per ciò solo va sciolta e i suoi membri vanno puniti penalmente. Anche questa, come le
affermazioni costituzionali che stabiliscono doveri a carico dei pubblici poteri, ha bisogno di una legge per
poter divenire operativa. Le leggi ci sono, ma sono state applicate solo raramente, e col risultato che per
decenni è esistito un partito, il MSI (movimento sociale italiano), che era il dichiarato continuatore del
partito fascista, ed anche oggi esistono movimenti che si ricollegano idealmente al fascismo. Più difficile
definire l’associazione segreta. Bisogna ritenere segreta un’associazione che, sistematicamente e per
programma, si adopera affinché la pubblica opinione sappia della sua esistenza e attività solo ciò che la
stessa associazione decide di divulgare, tenendo nascoste anche quelle informazioni che tutte le normali
associazioni non si preoccupano invece che vengano conosciute. Questa disposizione della costituzione è
rimasta a lungo inattuata perché il legislatore non aveva approvato una legge di attuazione che chiarisce la
nozione di associazione segreta in modo sufficientemente operativo. A causa di vicende clamorose (scandalo
della P2, dal nome di una loggia massonica segreta che avrebbe favorito attività illecite), la questione ha
richiesto un intervento legislativo (l. 25 gennaio 1982 n. 17, intitolata: norme di attuazione dell’art. 18 della
costituzione in materia di associazioni segrete e scioglimento dell’associazione denominata loggia P2).
Questa legge definisce nell’art. 1 le associazioni segrete in questo modo: si considerano associazioni segrete,
come tali vietate dall’art. 18 della costituzione, quelle che, anche all’interno di associazioni palesi,
occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali ovvero
rendendo sconosciuti, in tutto od in parte ed anche reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad
interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad
ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse
nazionale. Il criterio principale adottato dalla legge per definire segreta un’associazione non è quello del
mero fatto che una associazione sia in tutto o in parte non conosciuta, ma dal fatto che l’associazione abbia
predisposto e usato particolari cautele volte a non far conoscere alcune caratteristiche indicate dalla legge. La
legge però esige altri requisiti per aversi segreta, cioè che si tratti non di qualsiasi associazione, ma di
associazione che svolge attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, etc.
In base a questa legge sono sicuramente segrete quelle associazioni che presentano i requisiti indicati da essa.
Secondo Rescigno sono segrete anche quelle che, sistematicamente e per programma, si adoperano affinché
la pubblica opinione sappia della loro esistenza e attività solo ciò che la stessa associazione decide di
divulgare. Però, fino a nuova legge, oggi possono essere perseguite per la loro segretezza solo le associazioni
previste dalla l. 17/82, nei casi e nei modi ivi predisposti. La libertà di associazione, come tutte le libertà,
comporta la libertà di fare come quella di non fare: quindi sia la libertà di associarsi, sia la libertà di non
aderire. Questa regola vale per le associazioni private, non si applica a quegli enti pubblici a struttura
associativa che eventualmente lo stato costituisce per perseguire un fine pubblico. In questo caso la natura
del fine pubblico perseguito può esigere l’iscrizione obbligatoria a tale ente associativo come condizione per
svolgere una determinata attività. È da ritenere che non rientrino nella previsione dell’art. 18 le società
commerciali: in quanto esse, come loro fine istituzionale e principale, svolgono un’attività economica,
ricadono sotto la disciplina dell’art. 41 della costituzione e dunque sono assoggettabili a tutti i limiti, vincoli
e controlli che questo articolo consente.

7) La libertà religiosa: la libertà religiosa è penetrata così a fondo nella coscienza civile dei principali paesi
dell’occidente capitalistico che la garanzia costituzionale ad essa riservata appare oggi quasi superflua. Però
in passato la libertà religiosa è stata la prima libertà per la quale e contro la quale grandi masse di uomini
hanno combattuto una lotta secolare. Le guerre di religione erano anche e soprattutto lotte sociali combattute

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Riassunto di Gaia Paoloni
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sottoveste religiosa. Questo legame tra professione religiosa e lotta di classe spiega un aspetto centrale delle
lotte di religione combattute in Europa dal 1400 al 1700: il fatto che una professione di fede rivendicava la
libertà per sé contro tutte le altre. Solo quando apparve chiaro che lo stato non poteva costituirsi sulla base
dell’oppressione religiosa subentrò il principio di tolleranza, e tanto più presto quanto prima la borghesia
conquistò direttamente il potere. La tolleranza religiosa costituì un passo in avanti, ma era appunto
tolleranza, cioè assenza di persecuzione violenta e sistematica, ma non eguaglianza tra i diversi culti. Si è
trattato della premessa per una progressiva laicizzazione dello Stato e della società, così che successivamente
si è affermato nella coscienza dominante di molti paesi il principio che la religione è un fatto essenzialmente
privato, separato dall’economia e dalla politica. Questo processo è lontano dall’essersi compiuto allo stesso
modo in tutti i paesi, ma in tutte le democrazie occidentali si è affermata la regola per cui tutte le confessioni
religiose sono eguali rispetto alla libertà di professare apertamente la propria fede, di fare propaganda e di
esercitare il culto in privato e in pubblico. L’art. 19 della costituzione proclama: tutti hanno diritto di
professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne
propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon
costume. Con l’art. 20 la costituzione vuole impedire che vengano compiute persecuzioni e vessazioni
indirette a danno delle confessioni religiose. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una
associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami
fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività (art. 20). Ad es. imporre tasse
abnormi per la costituzione di enti religiosi significa scoraggiare e al limite impedire la concreta possibilità
dei seguaci di una determinata confessione di professare adeguatamente la loro fede e si risolve quindi
indirettamente in violazione della libertà religiosa. L’art. 20 dice che limiti legislativi o gravami fiscali
rispetto alla costituzione o attività di enti religiosi non devono essere speciali, cioè diversi da quelli imposti
in generale dalle leggi a tutte le associazioni. Diventa a questo punto necessario comparare la proclamata
libertà religiosa eguale per tutti con il trattamento di favore che la stessa costituzione con l’art. 7 riserva alla
chiesa e quindi alla religione cattolica. L’art. 7 della costituzione dispone: lo stato e la chiesa cattolica sono,
ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai patti lateranensi. Le
modificazioni dei patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. I
patti tra stato e chiesa cattolica che disciplinano i reciproci rapporti si chiamano concordati. Essi sono
analoghi a trattati internazionali, così che anche per questo aspetto la chiesa cattolica, dove riesce ad imporre
concordati, riafferma la sua natura di ente per lo meno pari ordinato allo stato. La regola costituzionale
dell’art. 7 va così interpretata: la costituzione esige che i rapporti tra stato e chiesa siano regolati con
concordato. Le modificazioni del concordato, sia di quello stipulato nel 1929 (patti lateranensi) richiamato
direttamente dalla costituzione e rimasto in vigore fino al 1984, sia di quello stipulato nel febbraio 1984, sia
eventualmente di altri e successivi concordati, non possono essere disposte unilateralmente dallo stato
italiano, ma solo bilateralmente mediante accordo. Questo accordo per divenire operante entro l’ordinamento
italiano ha bisogno di una legge ordinaria: questa norma contenuta nell’art. 7 è necessaria perché, se non vi
fosse, essendo stati i patti lateranensi recepiti in costituzione mediante rinvio, ogni modificazione di tali patti
e dei successivi concordati, in base all’art. 138 della costituzione, dovrebbe essere recepita nell’ordinamento
italiano mediante legge costituzionale; dunque l’art. 7 in questo modo consente una deroga a norme
costituzionali non mediante il comune procedimento di revisione costituzionale disciplinato dall’art. 138, ma
mediante una legge ordinaria. Però una legge di revisione costituzionale potrebbe ben abolire l’art. 7 ed
eliminare la situazione di privilegio della chiesa cattolica che automaticamente verrebbe ricompresa tra le
confessioni religiose previste dal successivo art. 8 e dagli artt. 19 e 20. Dunque, l’obbligo al regime
concordatario discende dall’art. 7 della costituzione e sussiste finché resta in vigore tale articolo: lo stato
italiano potrebbe però abrogare mediante legge di revisione costituzionale l’art. 7 per quanto riguarda tale
obbligo, e dunque affermare il principio che lo stato italiano può ma non è obbligato a stipulare concordati
con la chiesa cattolica. Finché però resta in vigore l’attuale art. 7, e quindi resta per lo stato italiano l’obbligo
di attenersi al regime concordatario, il concordato in vigore può essere modificato solo nel modo prescritto in
costituzione. L’art. 8 dispone che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge,
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

dando alla parola libertà il significato etimologico di assenza di impedimenti. Il 2° e 3° comma dell’art. 8
dicono: le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in
quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo stato sono regolati per
legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. La regola dice che, se lo stato ritiene opportuno
regolare con legge i rapporti con una specifica confessione religiosa, lo deve fare previa intesa con i
rappresentanti di questa, altrimenti se ne deve astenere. Tra l’art. 8 (e l’art. 7) e gli artt. 19 e 20 della
costituzione esiste lo stesso rapporto che corre tra libertà (assenza di impedimento) e diritto o dovere (pretesa
garantita o reciprocamente obbligo positivamente imposto). Gli artt. 19 e 20 concernono la libertà di
professare la propria fede, di praticare i riti, di fare proseliti: questo contenuto minimo e generale, uguale per
tutte le confessioni religiose, non può essere ridotto da nessuna legge. L’art. 8, a somiglianza dell’art. 7,
prevede che a determinate organizzazioni religiose venga attribuita una serie di diritti e doveri, concordati
con lo stato, e quindi venga fatto un trattamento di favore che nulla toglie alla libertà di base di tutte le
religioni. Allora lo stato ha queste possibilità: o non disporre nulla oltre quanto già previsto e garantito dalle
libertà di base; o addivenire ad accordi con specifiche organizzazioni religiose e approvare leggi sulla base di
tali intese (tali accordi non ricevono il trattamento privilegiato dei concordati, perché possono essere abrogati
con altra legge ordinaria, mentre il regime concordatario può essere abolito solo con legge di revisione
costituzionale); o approvare una legge, necessariamente generale, che disciplini tutte le confessioni religiose
senza nulla togliere alla libertà di base garantita dagli artt. 19 e 20. Dunque questo qualcosa in più consentito
dall’art. 8 a favore delle confessioni religiose non cattoliche è possibile perché gli artt. 19 e 20 hanno come
oggetto la libertà religiosa come libertà di professare la fede religiosa, e hanno quindi come oggetto la
religione come attività religiosa; l’art. 8 riguarda l’organizzazione religiosa (sono 2 cose distinte e così si
spiega il fatto che mentre l’art. 19 pone come unico limite alla libertà di culto che i riti non siano contrari al
buon costume, l’art. 8 riconosce alle confessioni religiose acattoliche il diritto di organizzarsi secondo i
propri statuti purché non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano: cioè pone un limite più ampio del
semplice buon costume).

8) La libertà di manifestazione del pensiero: art. 21: tutti hanno diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Sono vietate le pubblicazioni a
stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce
provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni. Per interpretare adeguatamente la regola
costituzionale appare opportuno scindere la manifestazione del pensiero in tre momenti principali: a)
informazione o cronaca, cioè attività volta a produrre negli altri conoscenza di fatti; b) critica dell’esistente;
c) proposta di mutamento. Per quanto il terzo aspetto sia quello finale, e il più importante, esso è quello
meno contestato e meno represso; il potere non teme le proposte di mutamento in sé per sé, ma quelle
proposte documentate e suffragate dalla previa critica e dall’esatta conoscenza dei fatti, perché sono le
proposte che possono convincere e quindi creare movimenti di opinione e di lotta; il potere si preoccupa di
bloccare la conoscenza dei fatti e la loro critica. Di qui l’importanza rispetto a questa materia della disciplina
positivamente vigente in tema di segreto. L’art. 21 della costituzione non offre alcuna difesa contro il segreto
di fatto e non da alcuno strumento per vincere il rifiuto ad informare. La costituzione garantisce il diritto di
informare, ma non tutela il diritto ad essere informati. Di nuovo opposizione tra libertà e diritto soggettivo:
l’art. 21 tutela anche, all’interno della libertà di manifestazione del pensiero, la libertà ad essere informati,
cioè la possibilità di ricevere informazioni, se e quando altri comunicano informazioni; ma non tutela il
diritto ad essere informati, cioè il diritto a ricevere o ad acquisire informazioni, diritto tutelato in caso di
inadempimento nei confronti di chi, di fronte a tale diritto, si trova nella situazione dell’obbligo di informare.
La costituzione garantisce la manifestazione del proprio pensiero, e dunque non garantisce la riproduzione
del pensiero di altri e neppure la manifestazione di un pensiero espresso con la convinzione di dire il falso.
Su questa base si giustifica, dal punto di vista costituzionale, il diritto d’autore, cioè il diritto di un autore di
sfruttare in esclusiva il prodotto del proprio ingegno e il corrispondente divieto fatto ad altri di riprodurlo
senza il consenso dell’autore; si giustifica anche la punizione del pensiero menzognero, purché però si tratti

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

di una menzogna voluta, di falso soggettivo. Su questo punto la legislazione ordinaria vigente viola la
costituzione, perché l’art. 656 del c.p. punisce la diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare
l’ordine pubblico, cioè non solo le notizie consapevolmente false ma anche quelle tendenziose, cioè che
interpretano i fatti, sia pure in modo sbagliato. Quanto alla proclamazione che tutti hanno diritto di
manifestare con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, essa non significa che tutti hanno
garantita la possibilità di usare tutti i mezzi in condizioni di uguaglianza: esattamente al contrario ci sono
mezzi veramente liberi ed uguali (la parola), mezzi per i quali la libertà dipende dalla ricchezza (lo scritto),
altri ancora per i quali l’accesso avviene a discrezione di altri (es. la televisione). Anche in questo caso la
parola libertà va intesa come assenza di impedimento: nessuno viene legalmente impedito dal parlare, dallo
scrivere, dal distribuire un manifesto, dal fondare un giornale: ma il non impedimento non vuol dire garanzia
in positivo che veramente possa rivolgersi con efficacia alla grande massa. La costituzione si limita a
garantire che non vi siano impedimenti legali rispetto al manifestare il proprio pensiero con i mezzi che
ciascuno riesce ad usare senza ledere i diritti e le proprietà di altri: che poi in pratica una persona riesca a
manifestare con efficacia il proprio pensiero dipende dalla proprietà e dai diritti di altri. La costituzione non
pone alcun argine al pericolo che i mezzi di comunicazione divengano proprietà di una sola persona o di
poche persone con conseguente fatale limitazione della libertà di tutti i non proprietari. Se questo monopolio
si crea di fatto, dal punto di vista costituzionale non è possibile invocare alcuna norma. È possibile, ma
dipende dalla volontà della maggioranza politica, che leggi ordinarie disciplinino questo aspetto. Se il
monopolio viene creato dalla legge, diventa possibile rivolgersi alla Corte affinché si pronunci sulla
legittimità costituzionale di un tale monopolio legale. Così è accaduto nei confronti del monopolio legale
radiotelevisivo, per decenni garantito dalla legge ad un’impresa di proprietà pubblica (Rai-tv). Monopolio
più volte impugnato davanti alla Corte costituzionale, dal 1960 in poi, con risultati via via diversi, fino ad
una sentenza del 1974, che da un lato dichiarava illegittimo il monopolio via cavo, dall’altro confermava il
monopolio via etere a livello nazionale, ma toglieva il monopolio per quanto riguarda le trasmissioni a livello
locale, fino alla l. 223/90 che legalizza la situazione di fatto creatasi nel frattempo, per cui accanto alla
radiotelevisione pubblica operavano ed operano alcune imprese radiotelevisive private, anche con raggio
nazionale. La recente l. n. 112/2004 si aggiunge alla l. 223/90 perché disciplina prevalentemente le nuove
possibilità offerte dalla tecnica di trasmissione cosiddetta digitale, col conseguente notevole aumento dei
canali disponibili e la possibilità di unificare e collegare i diversi mezzi di comunicazione di massa. La
complessa vicenda relativa al monopolio radiotelevisivo chiarisce e conferma che, se una legge istituisse
monopoli legali nel campo dei mezzi di comunicazione di massa, la Corte sarebbe legittimata a controllare se
questo monopolio è costituzionale o incostituzionale, e, nel caso lo ritenesse incostituzionale, la Corte
sarebbe legittimata a imporre al legislatore quelle misure necessarie a ristabilire una situazione
costituzionalmente corretta. Oggi sia nel campo dell’editoria che nel campo della radiotelevisione il
Parlamento è intervenuto con leggi rivolte a porre alcuni limiti e vincoli in materia. La legge sull’editoria (l.
416/81, più volte modificata) a rigore non pone limiti assoluti alla possibilità che una sola impresa domini il
mercato, se questa impresa riesce mediante le vendite a sbaragliare gli avversari. La legge pone invece i
limiti alla possibilità di acquisti e fusioni tra imprese editoriali, stabilendo la nullità di concentrazioni che
superino un determinato limite, e prevede misure dirette a scoraggiare l’acquisizione da parte di una sola
impresa, mediante incrementi delle vendite e nuovi investimenti, di una posizione dominante nel mercato
editoriale. Nel settembre 2017 la quasi totalità delle norme in materia è raccolta nel d. lgs. 31 luglio 2005, n.
177 - testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici. La disciplina vigente conferma la necessaria
esistenza di un’impresa radiotelevisiva pubblica (Rai-tv), che riceve con questa legge una serie di garanzie e
di limiti. Viene ammessa la possibilità che privati esercitino imprese nel campo radiotelevisivo con alcuni
vincoli: data la limitatezza delle radiofrequenze utilizzabili in Italia, lo stato deve prima predisporre un piano,
e, all’interno di questo piano, per le frequenze attribuite ai privati, concedere l’uso di tali frequenze a imprese
che lo richiedono; tali imprese private non possono detenere più di certe quote, stabilite dalla legge, quote
diverse secondo che l’impresa cumuli attività radiotelevisive e altre attività nel campo delle comunicazioni di
massa o eserciti solo attività radiotelevisive. I mezzi di diffusione più importanti, quotidiani e mezzi
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

radiotelevisivi, non sono egualitariamente a disposizione di tutti, ma solo di pochi, così che la proclamazione
di principio della costituzione, per quanto riguarda i mezzi di diffusione, in pratica va letta come se dicesse:
tutti possono manifestare liberamente il proprio pensiero con quei mezzi di diffusione che riescono ad usare
col consenso dei proprietari di tali mezzi. L’art. 21 pone un solo limite di contenuto: quello del buon
costume, per cui sono vietate le manifestazioni del pensiero contrarie al buon costume. Per buon costume si
intende in questo caso l’insieme delle pratiche e delle convinzioni legate alla sfera della vita sessuale, per
cui sono punibili quelle manifestazioni del pensiero che vanno contro ciò che nella comunità si crede giusto e
si pratica rispetto a tale sfera. Si tratta di un limite estremamente vago e generico, variabile da zona a zona e
da periodo a periodo: rispetto a tale limite è decisivo l’atteggiamento dei giudici, che hanno in questo come
in altri campi un larghissimo margine di apprezzamento. Di qui l’importanza delle reazioni dell’opinione
pubblica, perché è solo attraverso queste che si riesce a dimostrare che il senso comune in materia sessuale è
mutato e si riesce quindi a costringere progressivamente i giudici ad adeguarsi al mutamento. Il buon
costume è il solo limite espresso, ma la costituzione ne pone o ne consente molti altri impliciti. Nella pratica
esistono molti limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, che dottrina e giurisprudenza hanno
giustificato costituzionalmente fondandoli su principi impliciti desunti ora da quello ora da quell’altro
articolo della costituzione. Es. le leggi ordinarie puniscono la manifestazione di pensieri ingiuriosi o
diffamatori verso altre persone; il fondamento della punizione della ingiuria e della diffamazione è stato
trovato nell’art. 3, dove la costituzione proclama che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale (l’ingiuria e la
diffamazione diminuiscono la dignità sociale dell’ingiuriato e del diffamato). In conclusione, l’art. 21 va
letto come se dicesse: tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo
scritto e quegli altri mezzi che in fatto e legittimamente riescono ad usare, con l’esclusione delle
manifestazioni contrarie al buon costume e di tutte quelle altre manifestazioni contrarie a principi desumibili
dalle norme costituzionali. I restanti commi dell’art. 21 trattano di un particolare mezzo di diffusione: la
stampa. I commi dal 2° al 5° dell’art. 21 dicono: la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o
censure (vuol dire che altri mezzi di diffusione possono essere assoggettati ad autorizzazioni o censure
preventive). Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di
delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che
la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non
sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere
eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre 24 ore, fare denunzia
all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle 24 ore successive, il sequestro si intende revocato e
privo di ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di
finanziamento della stampa periodica. Il legislatore, con l. 5 agosto 1981 n. 416, modificata più volte con
successive leggi, dopo un lunghissimo periodo di inerzia colpevole, ha approvato norme che si propongono
di rendere trasparente l’effettiva proprietà dei quotidiani, di disciplinare i rapporti tra imprese editoriali e altri
soggetti, etc. Non sembra però che con tali leggi si sia raggiunto un’efficace controllo democratico
dell’editoria, soprattutto dei quotidiani. La legge citata ha istituito la figura del garante dell’attuazione della
legge, figura nuova, che rientra nella più grande famiglia delle autorità indipendenti, cioè di strutture
amministrative che, avendo compiti di garanzia, sono relativamente indipendenti dal restante apparato
amministrativo e dal governo. Rientrano in questa categoria la CONSOB, cioè la commissione di vigilanza
sulle borse valori, la commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici, la commissione antitrust,
cioè la commissione che dovrebbe garantire la libertà di concorrenza economica, e qualche altra. A seguito
della l. 223/90 il garante dell’editoria è divenuto garante anche nei confronti dell’applicazione di tale legge
che regola la radiotelevisione, e quindi il nome ufficiale di esso è divenuto fino alla l. 249/97 garante per la
radiodiffusione e l’editoria. Con la l. 31 luglio 1997, n. 249 è stata istituita l’autorità per le garanzie nelle
comunicazioni che sostituisce il precedente garante e assorbe le sue funzioni all’interno di competenze molto
più ampie.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

9) Diritto al nome, alla cittadinanza, alla capacità giuridica, alla riservatezza: l’art. 22 dispone: nessuno
può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome. La costituzione
garantisce tali beni contro diminuzioni determinate da ragioni politiche. Questa norma denuncia in modo
trasparente la sua origine: poiché il fascismo aveva privato molti cittadini della capacità giuridica e della
cittadinanza per motivi politici, la costituzione italiana nata in opposizione al fascismo ha inteso impedire per
il futuro una tale inciviltà. Questi tre diritti, insieme ad altri previsti da altre leggi vengono ricompresi nella
categoria dei diritti della personalità, cioè di quei diritti rivolti a garantire l’insieme delle qualità umane e
morali di una persona e la sua identità sociale. Ci si è chiesti se dall’ordinamento complessivo non possa
ricavarsi l’esistenza e la tutela di un diritto alla riservatezza, per cui la vita privata di ciascuno non può
costituire oggetto di indagini, di divulgazione, di commento e di notizie da parte di altri. Una legge, con un
ritardo di oltre 20 anni rispetto ad altri paesi, consente di tutelare le informazioni relative alle persone nei
confronti delle straordinarie possibilità di diffusione e manipolazione consentite oggi dalle macchine
informatiche: è la l. 31 dicembre 1996, n. 675 (tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento
dei dati personali, oggi rifusa, insieme con le molte modificazioni nel frattempo intervenute, nel d. lgs. n. 196
del 2003, codice in materia di protezione dei dati personali). I punti essenziali di essa sono: A) oggetto della
legge: la legge disciplina il trattamento dei dati personali al fine di tutelare la riservatezza e l’identità
personale; tutela sia le persone fisiche sia le persone giuridiche sia ogni altro ente o associazione; la legge
definisce le espressioni base in essa ricorrenti ed in particolare: banca dati; trattamento (qualunque
operazione effettuata anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, la
comunicazione, la diffusione di dati anche se non registrati in una banca di dati); dato personale (qualunque
informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione); titolare e responsabile della
banca dati. B) Sono esclusi dall’ambito della legge: B1) il trattamento di dati personali da parte di persone
fisiche per uso esclusivamente personale; B2) trattamenti particolari disciplinati da leggi speciali (es. per la
difesa dello Stato, a fini di sicurezza pubblica, etc.), ma con applicazione anche in questi casi di alcuni dei
principi introdotti della l. 675/96. C) La legge, per la gestione delle molte regole previste, e per la tutela dei
soggetti protetti, istituisce e disciplina una nuova autorità indipendente, chiamata garante per la tutela delle
persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali (composta da quattro persone elette due
dalla Camera dei deputati e due dal Senato, con voto limitato). D) La legge disciplina gli obblighi del titolare
e del responsabile del trattamento dei dati ed i diritti degli interessati. E) Una disciplina particolare è stabilita
per i dati sensibili (idonei a rivelare le convinzioni religiose, le opinioni politiche, etc.). F) La tutela degli
interessati viene assicurata o dalle autorità giudiziarie o prima dal garante e poi dalle autorità giudiziarie. G)
La legge prevede sanzioni di vario genere, anche penali, in caso di inosservanza della legge.

10) Il principio di legalità: art. 23 cost.: nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se
non in base alla legge. Per prestazione personale si intende un qualsiasi fare che venga coattivamente
richiesto ai cittadini (es. il servizio militare); per prestazione patrimoniale si intende un qualsiasi dare in
oggetti materiali cui i cittadini vengano obbligati unilateralmente (es. pagare le imposte). Lo stato, e qualsiasi
altro soggetto autorizzato, possono esigere un fare o un dare, ma solo sulla base di una previa legge (non su
tutti gli atti normativi, ma solo sugli atti chiamati ufficialmente leggi). Questa regola costituzionale,
proclamando che nessun obbligo di fare o di dare può essere preteso unilateralmente e coattivamente se non
esiste una previa legge che lo autorizzi, codifica un principio fondamentale tipico dello Stato moderno e cioè
il principio di legalità. Secondo questo principio nessun potere autoritativo può esistere se non si fonda sulla
legge e così viene garantita la preminenza costituzionale del Parlamento rappresentativo del popolo entro lo
stato, e, attraverso il Parlamento, la preminenza politica di quelle forze che volta a volta ottengono la
maggioranza. L’affermazione contenuta nel principio di legalità per cui la legge, e cioè il Parlamento, è il
fondamento di ogni potere coercitivo, non resta meno vera dopo aver scoperto che la preminenza politica in
concreto non spetta al Parlamento, ma anzitutto ai partiti, e poi al governo. Queste affermazioni
apparentemente contraddittorie coesistono perché i partiti possono dirigere a patto di conquistare la
maggioranza in Parlamento e il governo può sviluppare la sua direzione a patto di essere sostenuto da una

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

maggioranza di governo in Parlamento. Dunque, per quanto il ruolo attivo spetti ai partiti e al governo
piuttosto che al Parlamento, pure bisogna sempre arrivare a questo organo come ultima autorità che legittima
le altre, e dunque bisogna sempre fondare su una legge ogni potere, e sempre bisogna adottare previamente la
forma della legge. Il principio di legalità può ricevere due interpretazioni diverse. La prima, principio di
legalità formale, stabilisce che tale principio viene rispettato quando vi sia una legge purchessia a
fondamento di un potere pubblico, quand’anche la legge si limitasse ad attribuirlo semplicemente senza
delimitarlo. Immaginiamo una legge, la quale attribuisce al governo i pieni poteri (vicenda che oggi la
costituzione italiana vieta, tranne in caso di guerra in base all’art. 78), e cioè trasferisce al governo un potere
legislativo totalmente indeterminato quanto agli oggetti da regolare e quanto ai limiti. In un caso del genere il
principio di legalità dal punto di vista formale viene rispettato, perché a fondamento del potere governativo
c’è pur sempre una legge del Parlamento. Dal punto di vista della sostanza il Parlamento in questo modo non
ha disciplinato nulla in alcun modo, e quindi i cittadini giudici dovranno applicare regole decise in tutto dal
governo, e per niente dal Parlamento: il contenuto delle imposizioni governative si trova nella volontà non
del Parlamento ma del governo. Questa conclusione spiega l’esistenza di una diversa interpretazione del
principio di legalità, interpretazione sostanziale. Il principio di legalità viene rispettato solo quando la legge,
nell’attribuire un potere imperativo a chicchessia, delimita sufficientemente questo potere e cioè indica sia
l’oggetto su cui il potere può esercitarsi sia il contenuto dei provvedimenti che possono essere adottati
rispetto a tale oggetto, sia il fine per il quale il potere viene attribuito, sia i presupposti di fatto e di diritto che
legittimano l’esercizio in concreto del potere, sia il soggetto competente ad esercitare il potere così
configurato, sia il modo attraverso cui tali provvedimenti vanno adottati. Per quanto si cerchi di delimitare
questo sufficientemente, è impossibile dire con assoluta esattezza quando una legge è al di sotto (quindi viola
il principio di legalità sostanziale) e quando al di sopra del limite. La conseguenza è che chi decide in ultima
istanza questa questione sono i giudici, e nel nostro ordinamento la Corte costituzionale che potrà stabilire
quando una determinata legge delimita il potere attribuito ad altri in modo tale da rispettare il principio di
legalità sostanziale, e quando invece no. Si dà per scontato che nell’ordinamento italiano viga il principio di
legalità sostanziale e non quello formale. In quanto il principio di legalità sostanziale è l’unico compatibile
con un regime democratico: la legalità sostanziale si è affermata ogni volta che si sono affermati i principi
democratici, mentre la legalità formale è stata il contrassegno di regimi in cui il potere esecutivo autofondato
si opponeva al pieno dispiegarsi di principi democratici e riusciva a relegare il Parlamento ad organo
subordinato. Il principio di legalità in senso sostanziale rende incerta la categoria della riserva relativa di
legge. Per quanto giudici e giuristi continuino ad usare come distinti i due nomi, è difficile dire in che cosa
stia la differenza, così come è ragionevole il sospetto che in pratica si usi ora l’uno ora l’altro nome senza
piena consapevolezza. Inoltre stando alla lettera, l’art. 23 non contiene il principio di legalità, né formale né
sostanziale, perché non rientrano nella previsione letterale dell’art. 23 tutti quei provvedimenti i quali non
impongono prestazioni di alcun genere, né personali né patrimoniali; però resta vero che l’art. 23 è quello
che formula nei termini più generali un principio che si ricava da tutta la costituzione, in diversi altri articoli.
Ad es. l’art. 3, dicendo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge dice anche implicitamente che non
sono ammessi provvedimenti di favore concessi per legge che non siano fondati su ragioni oggettive
apprezzabili, e quindi a maggior ragione deve ritenersi che provvedimenti di favore non fondati in alcun
modo sul legge siano per definizione contrari al principio di eguaglianza davanti alla legge. Dunque, se la
legge deve informarsi al principio di eguaglianza, allora solo la legge è garante dell’eguaglianza, e quindi
ogni atto imperativo deve fondarsi sulla legge come condizione necessaria per rispettare il principio di
eguaglianza. L’art. 81 cost. non consente allo stato di disporre spese che non siano fondate su legge, e
dunque ogni volta che provvedimenti di vantaggio comportano spese, essi devono comunque fondarsi su
legge. L’art. 97 impone che tutti i provvedimenti organizzatori siano fondati su una previa legge. Tutte le
riserve relative di legge contenute in costituzione garantiscono che in quelle materie coperte da riserva ci sia
sempre una previa legge, quale che sia il contenuto dei poteri attribuiti. Si può concludere che in tutta la
costituzione ricorrono applicazioni implicite del più generale principio di legalità sostanziale, così che l’art.
23 che, pur non formulandolo neanch’esso in tutta la sua estensione, ne offre però un esempio che è il più
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

generale di tutti, costituisce il luogo privilegiato in cui si ritrova il principio di legalità sostanziale del nostro
ordinamento.

11) Diritti di libertà e poteri dello Stato: gli artt. 24, 25 e 27 sono stati commentati esponendo i principi
generali che governano la funzione giurisdizionale in Italia. L’art. 26 concerne un istituto, l’estradizione, che
è stato trattato a proposito dei rapporti tra stati. L’art. 28 che disciplina la responsabilità degli impiegati dello
Stato e degli enti pubblici è stato trattato nel capitolo dedicato alla p.a. L’art. 33 della costituzione tutela la
libertà dell’arte e della scienza e del relativo insegnamento. Questa libertà si divide secondo due aspetti: uno
prevalentemente individuale, cioè la libertà di praticare individualmente le arti e la scienza senza alcun
vincolo (non ha senso applicare il limite del buon costume previsto per la manifestazione generica di
pensiero). L’aspetto più importante dell’arte e della scienza sul piano giuridico non riguarda tanto questa
libertà individuale, quanto l’organizzazione pratica della ricerca scientifica e dell’insegnamento artistico, e
sotto questo aspetto tale libertà è strettamente legata alla scuola (infatti l’art. 33 e l’art. 34 disciplinano i
principi in materia di scuola). Andiamo ora ad esaminare i diritti di libertà nel loro complesso. Esaminiamo
la qualità dell’inviolabilità di tali diritti. La costituzione definisce inviolabili alcuni diritti di libertà (i diritti
garantiti dagli artt. 13, 14 e 15). Poi parla genericamente nell’art. 2 dei diritti inviolabili dell’uomo. Il
pensiero dominante sostiene che inviolabile vuol dire non eliminabile neppure con legge di revisione
costituzionale. I diritti di libertà, inviolabili, si sottraggono al potere di revisione, sono considerati così
importanti ed essenziali che una loro abolizione costituirebbe alterazione qualitativa dell’ordinamento
repubblicano e il suo sovvertimento. Non è seriamente pensabile che in tema di diritti di libertà non è
modificabile assolutamente nulla, quand’anche si tratti solo di aggiustamenti, miglioramenti, etc. La tesi vuol
dire che tutte le modificazioni apportate ai singoli diritti di libertà devono però essere tali che essi,
nell’essenziale, restino garantiti, e che dunque libertà personale, di domicilio, di riunione, etc., non verranno
mai eliminate, per quanto possa cambiare nei particolari la concreta disciplina. Tutti i diritti di libertà, e non
solo quelli così definiti espressamente, sono inviolabili, e cioè non sono eliminabili dall’ordinamento
neppure con legge costituzionale, perché essi sono coessenziali allo stato democratico voluto dalla
costituzione; una loro eliminazione non sarebbe modificazione di questo ordinamento repubblicano, ma sua
distruzione. Esaminando l’inviolabilità abbiamo esaminato il rapporto tra diritti di libertà e potere di
revisione costituzionale. Esaminiamo ora il rapporto tra diritti di libertà e potere legislativo. A questo fine
operiamo la seguente classificazione: 1) diritti di libertà non limitabili in alcun modo neanche con legge (art.
19: libertà religiosa; art. 18, 1° comma: libertà di associazione); 2) diritti limitabili solo sulla base di una
previa legge, ma con limiti costituzionali invalicabili anche dalla stessa legge, e quindi diritti garantiti
direttamente in costituzione: cioè la maggioranza dei diritti di libertà: artt. 13, 14, 16, 21; 3) diritti limitabili
solo sulla base di una previa legge ma non direttamente garantiti dalla costituzione: la legge in questo caso
non incontra limiti costituzionali (art. 15: libertà e segretezza della corrispondenza e comunicazione; art. 23:
le prestazioni personali e patrimoniali vanno disposte con legge); 4) diritti di libertà che non sopportano
limiti legislativi ma solo limiti concreti disposti volta per volta dall’autorità amministrativa (art. 17: libertà di
riunione). Una seconda classificazione dei più importanti diritti di libertà può essere fatta sulla base del
criterio del rapporto tra la legge e le autorità statali. Cioè quando secondo costituzione per limitare un diritto
di libertà è necessaria la mediazione di una legge, possiamo poi chiederci quali ulteriori distinzioni la stessa
costituzione pone all’interno di questo caso rispetto alle autorità statali incaricate di applicare tali leggi
limitative dei diritti di libertà. Dunque la costituzione distingue questi casi: a) casi in cui solo il giudice, e
nessun altro in assoluto, può decidere le limitazioni previste dalla legge (art. 15: libertà di comunicazione e
corrispondenza); b) casi in cui in principio soli giudici possono limitare i diritti di libertà sulla base di una
previa legge, ma in casi eccezionali specificati dalla costituzione e dalle leggi applicative della costituzione
altre autorità statali possono sostituirsi provvisoriamente al giudice, salva però la successiva convalida di
quest’ultimo (artt. 13; 14; 21, 4° comma); c) casi in cui la legge può abilitare direttamente la p.a. a porre
limiti ai diritti di libertà (fatto salvo il principio generale sancito dall’art. 24 secondo cui tutti possono
ricorrere in giudizio per la difesa dei propri diritti; però in questi casi il giudice interviene dopo che la p.a. ha

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

provveduto e solo eventualmente, su ricorso del soggetto interessato che ha subito una limitazione del diritto
di libertà; nei casi precedenti invece il giudice interviene per primo o deve necessariamente intervenire per
convalidare il provvedimento di altra autorità): art. 14, 2° comma; art. 16; 18, 2° comma; 19; 21, 5° comma.

12) Diritti di libertà ed estensione dei soggetti garantiti: classifichiamo ora i diritti di libertà sulla base del
criterio dell’estensione di coloro che ne godono. La costituzione talvolta attribuisce tali diritti a tutti (artt. 19,
21, 22); altre volte li riserva ai soli cittadini (artt. 16, 17, 18); altre volte la formulazione è tale che non è
possibile stabilire se il diritto di libertà spetta a tutti o solo ai cittadini. Però se c’è piena corrispondenza tra la
lettera della costituzione e la realtà, quando la costituzione dice tutti, allora il diritto di libertà si estende
effettivamente a tutti (stranieri e apolidi compresi) e quando dice cittadini il diritto si estende solo ai
cittadini; mentre nei casi in cui non esiste corrispondenza, quando la costituzione dice tutti deve leggersi i
cittadini e dove dice cittadini deve leggersi tutti; i casi in cui la lettera della costituzione non dice nulla sono
gli interpreti a decidere se il diritto di libertà si estende a tutti o solo ai cittadini. La distinzione tra droit de
l’homme e droit du citoyen risale alla Rivoluzione francese e faceva distinzione tra diritti di libertà che
spettavano agli uomini in quanto tali e diritti invece che spettavano agli uomini in quanto membri della
comunità statale (cittadini). La distinzione è carica di implicazioni che rinviano alla nascita del
giusnaturalismo e dell’illuminismo come basi giuridiche della moderna società borghese incentrata sugli
individui, sulla loro indipendenza e sulle loro libertà prestatali. È su queste basi che nasce la distinzione tra
società civile in cui tutti gli uomini sono liberi ed eguali, e società politica, a cui sono ammessi solo alcuni, e
solo i cittadini. Bisogna ribadire che quando la costituzione dice espressamente tutti bisogna intendere questa
espressione alla lettera, sia perché, nei casi in cui la costituzione dice così, vengono garantiti diritti che dalla
rivoluzione francese in poi vengono considerati universalmente propri di ogni uomo e quindi indipendenti
dalla cittadinanza; sia perché, facendo anche in questo caso applicazione del canone generale di
interpretazione valido in tema di diritti di libertà, va applicata sempre l’interpretazione più favorevole
all’estensione della garanzia di libertà, così che l’estensione a tutti è più favorevole alla libertà
dell’estensione ai soli cittadini, e quindi nel dubbio va preferita. Ugualmente alla lettera va interpretata la
costituzione quando usa espressamente la parola cittadini perché si tratta di diritti riservati ai cittadini, in
quanto essi garantiscono non l’uomo singolo, ma l’uomo nel suo rapporto con altri e dunque diritti già
politici o rilevanti politicamente (i diritti politici sono riservati ai soli cittadini, in tutte le democrazie
borghesi; solo la rivoluzione russa, in nome dell’internazionalismo proletario, dava i diritti politici anche ai
proletari stranieri residenti). La limitazione della garanzia ai soli cittadini significa che le leggi ordinarie
possono limitare questi diritti rispetto agli stranieri e agli apolidi in modo più restrittivo di quanto possano
fare rispetto ai cittadini; cioè le garanzie costituzionali valide per i cittadini non valgono rispetto agli stranieri
e agli apolidi. Dato che rispetto all’art. 16 l’esclusione degli stranieri dalla garanzia non solleva gravi
obiezioni, nessuno stato può oggi accettare che gli stranieri entrino e soggiornino liberamente nel proprio
territorio, per i molti problemi economici e sociali che un aumento della popolazione residente
inevitabilmente comporta. L’esclusione degli stranieri dalla garanzia degli artt. 17 e 18 risente dei principi
dello Stato di polizia, quando agli stranieri si impedivano molti diritti di libertà per la paura del contagio di
idee e programmi non graditi al potere costituito. Bisogna considerare che poiché riunioni e associazioni
sono classici strumenti collettivi, è ragionevole sostenere che impedire a qualcuno di riunirsi o associarsi
significa impedirlo anche a coloro che vogliono riunirsi o associarsi con lui, così che impedire allo straniero
di riunirsi o associarsi con cittadini significa impedire anche a questi cittadini di riunirsi e associarsi
liberamente. Seguendo questa interpretazione si limita grandemente la portata odiosa e, oggi, ingiustificata
della lettera della costituzione nei casi degli artt. 17 e 18. In tutti gli altri casi è da ritenere che i diritti di
libertà spettano a tutti, e non solo ai cittadini. Es. i casi in cui il diritto è proclamato inviolabile (artt. 13, 14,
15): se sono inviolabili, hanno da esserlo per tutti. Inoltre, nel dubbio è preferibile l’interpretazione più
favorevole alla libertà. I diritti di libertà possono essere esaminati nel loro complesso sotto il diverso profilo
della loro spettanza solo ai singoli individui fisici o anche agli enti collettivi. In qualche caso la questione
non si pone neppure, perché non avrebbe senso. Così ad es. l’art. 17 garantisce la riunione come fatto fisico

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

materiale, e poiché a riunirsi sono sempre uomini fisici, quand’anche a convocare la riunione fossero enti
collettivi, così la garanzia riguarda sempre e solo singoli individui, perché non avrebbe senso estendere la
garanzia anche ad enti collettivi. Ragionamento analogo va fatto rispetto all’art. 13. In molti altri casi la
domanda ha senso: ci si può chiedere se l’associazione di associazioni è garantita allo stesso modo che
l’associazione di singoli; se la libertà di manifestare il pensiero riguarda anche enti collettivi; se il dominio
degli enti collettivi è tutelato come quello delle persone fisiche; etc. Tutta la costituzione è permeata dalla
giusta convinzione che la personalità dell’uomo si sviluppa tanto attraverso la sua attività individuale quanto
attraverso l’attività collettiva. Così nell’art. 2 la costituzione dice: la Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. A
rigore l’art. 2 garantisce pur sempre i diritti dell’uomo entro le formazioni sociali, non i diritti di libertà delle
formazioni sociali come tali. Però la constatazione che il non estendere le garanzie di libertà direttamente
anche alle formazioni sociali significa di fatto mettere in pericolo gli stessi diritti di libertà del singolo,
conduce a ritenere che i diritti di libertà riguardano anche enti collettivi. Ma tutti gli enti collettivi? Bisogna
ricordare che enti collettivi sono anche i comuni, le scuole, le imprese. Se teniamo presente che lo scopo
principale dei diritti di libertà è quello di difendere i cittadini, come singoli e come associati, da ingiuste
prevaricazioni dei poteri costituiti, i diritti di libertà si riferiscono agli uomini, come individui o come
associazioni di individui, in quanto separati e indipendenti rispetto allo stato. Ogni volta che invece enti
collettivi sono costituiti per volontà dello Stato e di altri enti pubblici, la ragione della garanzia viene meno.
Questi enti collettivi saranno tutelati sulla base delle leggi che li istituiscono e li regolano, non per
l’applicazione ad essi dei diritti di libertà. Escludiamo così tutti gli enti pubblici. Tra gli enti privati esistono
anche le imprese. Queste sono coperte dalle garanzie costituzionali dei diritti di libertà? Per capire la
questione, si pensi che una risposta positiva renderebbe incostituzionali per violazione dell’art. 16 tutte
quelle leggi che danno allo stato il potere di vietare alle imprese di stabilirsi in questa o quella zona del paese
per ragioni di opportunità economica e sociale. La costituzione dà sufficienti elementi per escludere le
imprese dalla garanzia dei diritti di libertà. Sia l’iniziativa economica che la proprietà sono disciplinate dalla
costituzione in una parte diversa e separata rispetto ai diritti di libertà, cioè non vengono considerati dalla
costituzione pari ordinati a questi o organicamente legati ad essi. La costituzione rispetto all’iniziativa
economica e alla proprietà consente limiti che sono più ampi di quelli applicabili ai diritti di libertà: es. l’una
e l’altra possono essere limitate in nome dell’utilità sociale (art. 41) o della funzione sociale (art. 42), limiti
che non si trovano negli articoli relativi ai diritti di libertà. Questo vuol dire che, secondo costituzione,
iniziativa economica privata e proprietà privata ricevono tutela, ma solo quella specificamente prevista negli
articoli della costituzione che le riguardano, e non quella dei diritti di libertà, che non si estendono ad esse.
Dunque, i diritti di libertà non si estendono a tutti gli enti economici. In conclusione, i diritti di libertà
garantiti dalla costituzione si estendono in generale agli enti collettivi, oltre che applicarsi ai singoli, ma non
si estendono agli enti pubblici e agli enti economici.

13) Diritti di libertà e soggetti contro cui è rivolta la garanzia: il fatto che le garanzie dei diritti di libertà
nella costituzione scritta fanno un continuo riferimento ai poteri degli organi dello Stato relativi a tali diritti e
ai limiti che questi organi incontrano nell’esercitare tali poteri fa chiaro che i diritti di libertà sono
principalmente diritti nei confronti dello Stato e delle autorità pubbliche. La ragione di ciò è ben evidente:
storicamente i diritti di libertà sono nati come rivendicazioni contro il potere dello Stato; nei fatti chi può
offendere tali diritti è anzitutto lo stato, che ha il monopolio della forza. I diritti di libertà all’apparenza
esprimono momenti di libertà, nella realtà si convertono nel loro contrario, in diritti dello Stato contro la
libertà. Infatti, è facile vedere che gli artt. da 13 a 23 non fanno altro che fondare poteri coercitivi dello Stato
contro la libertà dei singoli e delle loro forme di organizzazione spontanee. In questa costruzione due aspetti
devono colpire: anzitutto che questa possibilità legale di offesa contro la libertà viene riservata al solo stato.
Può apparire ovvio che l’omicida vada in galera, ma non è ovvio, e storicamente è molto recente, che il
potere di punire l’omicida sia stato riservato ad uno specifico apparato separato dalla società. Inoltre, i diritti
di libertà, in quanto garanzia anzitutto contro lo stato, confermano che è dallo stato prima di ogni altro che

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

gli uomini hanno da temere maggiormente per la propria libertà, perché è lo stato che in fatto e in diritto ha
le maggiori possibilità di offendere. La proclamazione di tali diritti è la confessione che lo stato deve essere
limitato nei suoi poteri, che dunque lo stato ha la potenza per opprimere ed è, potenzialmente, un nemico
delle libertà. Le libertà democratico borghesi sono una conquista storica che però reca in sé stessa il proprio
limite; la confessione che ogni libertà è esposta al pericolo di essere distrutta dalla forza dello Stato;
l’ammissione che il potere è stato limitato e circoscritto ma resta potere separato e contrapposto agli uomini,
realtà da cui bisogna garantirsi con meccanismi formalizzati. La proclamazione dei diritti di libertà è la
conferma più clamorosa della separazione e opposizione tra stato e società, tra potere e cittadini. La società
ha conferito ogni suo potere ad un apparato separato da sé, e proprio per questo deve trovare garanzie
affinché questo apparato rispetti una sfera minima di autonomia e libertà. Se storicamente i diritti di libertà
sono nati per difendersi dallo stato, essi sono diritti verso tutti, anche verso altri privati. I diritti di libertà
sono diritti assoluti, cioè diritti verso tutti contemporaneamente. Infatti, i comportamenti di privati o di
pubbliche autorità non autorizzate, che limitano le libertà costituzionalmente garantite, sono trattati
dall’ordinamento come reati e puniti penalmente. I comportamenti lesivi della libertà garantite in
costituzione si dividono in due categorie: quelli tenuti da soggetti previsti dalla costituzione nei casi e con i
modi ivi disciplinati, e questi sono legittimi; tutti gli altri, e questi sono illegittimi e di regola puniti
penalmente. Non è possibile punire penalmente un comportamento, anche se lesivo dei diritti di libertà, se
esso non è specificamente previsto dalla legge penale. La costituzione proclamando nell’art. 25 il principio di
legalità dei reati e delle pene, non ammette la costruzione di nuove figure di reato oltre quelle espressamente
previste dalle leggi del Parlamento, neanche quando si tratti di difendere diritti di libertà. Fino a che punto è
possibile invocare direttamente le regole costituzionali in tema di diritti di libertà per difendersi da
comportamenti che in fatto diminuiscono tali libertà, anche quando simili comportamenti non sono previsti e
regolati da specifiche norme? Portando alle logiche conseguenze la ragione interna del sistema dei diritti di
libertà la risposta dovrebbe essere: il più possibile, fino a che la difesa della libertà non si scontra con un
diritto altrui espressamente e positivamente garantito. Il principio, così formulato, resta del tutto
indeterminato perché si scontra con la complessità della vita associata e dunque con tutte quelle
organizzazioni che tendono a reprimere e limitare i diritti di libertà degli organizzati in nome delle esigenze
del proprio funzionamento come istituzioni sociali.

14) Diritti di libertà e rapporti di supremazia speciale: questi diritti di libertà si applicano all’individuo
isolato, all’individuo che non sta in rapporto organico e permanente con altri. Si tratta dunque di una parte
minima del tempo di ciascun uomo, giacché la grande maggioranza degli uomini vive la maggior parte del
suo tempo entro organizzazioni che limitano la sua libertà (la famiglia, la scuola, la fabbrica, etc.). Le
persone che maggiormente sfuggono a forme di subordinazione sono i proprietari, coloro che hanno
un’indipendenza economica e che, una volta maggiorenni, non avranno mai più uno specifico superiore
diretto (saranno subordinati solo allo stato, superiore generale). I lavoratori dipendenti invece avranno
sempre un superiore particolare durante il loro tempo di lavoro e cioè durante la maggior parte della loro
vita. Essi possono essere liberi fuori del lavoro. La categoria che ci permette di raccogliere unitariamente le
situazioni di subordinazione prima elencate è quella di supremazia speciale. Il rapporto di supremazia per
eccellenza è il rapporto tra stato e cittadini per cui lo stato comanda e i cittadini obbediscono. Però oltre
questo generale rapporto di supremazia (generale in due sensi: riguarda tutti i cittadini e riguarda un numero
indeterminato di comportamenti), vi sono rapporti speciali di supremazia. Speciali in due sensi: perché
riguardano non tutti i cittadini, ma solo alcuni o alcune categorie in relazione a loro specifiche qualità o
situazioni; perché non riguardano un numero indeterminato di comportamenti, ma solo quelli relativi ad una
predeterminata sfera. Questi rapporti di supremazia speciale sono legittimati in vista di un fine specifico,
perché considerati necessari per il suo raggiungimento, e dunque sono ammessi se e fino a che perseguono
questo fine specifico. Nella famiglia i genitori hanno il compito di educare e mantenere i figli: a questo fine
essi hanno tutti i poteri coercitivi socialmente ritenuti necessari. Qui la supremazia speciale corre tra genitori
e figli e riguarda solo quella sfera di comportamenti che rientrano nel fine perseguito. Il genitore che abusa

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

dei mezzi di correzione è punito. Nella scuola vi è un rapporto di supremazia speciale tra insegnanti e alunni,
e tra autorità scolastiche da un lato e insegnanti e alunni dall’altro, al fine di garantire l’ordinato svolgimento
dell’attività di istruzione prevista. Nella scuola, una volta determinato il fine e la funzione di essa, restano
circoscritti i soggetti superiori e inferiori tra cui corre questo specifico rapporto di supremazia speciale e la
sfera di comportamenti che possono essere oggetto di tale supremazia. Nella fabbrica l’imprenditore, che ha
il compito di organizzare la produzione, possiede a questo fine un potere di comando sui lavoratori e può
irrogare sanzioni disciplinari in caso di inosservanza dei suoi comandi. La resistenza operaia e la
contrattazione sindacale cercano di ridurre tale potere e di renderlo meno arbitrario e dispotico, ma non lo
eliminano. Queste diverse forme di supremazia, per le quali a certi fini e rispetto a certe sfere un soggetto
può comandare su altri, sono accomunate dal fatto che la legge, per la natura stessa delle cose, si limita a
porre limiti negativi a tale potere: si limita a stabilire che cosa il superiore non può comandare; ma la legge
non pone limiti positivi, non precisa cioè che cosa volta a volta può comandare. Si possono tracciare i confini
oltre cui gli ordini non possono andare, ma entro tali confini il potere libero del superiore è amplissimo. Per
questa stessa ragione le leggi, o non citano i diritti di libertà come limite del potere del superiore o, se
richiamano tali diritti, li limitano fortemente, così che entro i rapporti di supremazia speciale i diritti di
libertà godono di garanzie e tutele minori di quelle di cui godono entro l’ordinamento generale. Es. un
operaio non può abbandonare a sua discrezione il posto di lavoro. Leggi relativamente recenti (l. 20 maggio
1970 n. 300 (statuto dei diritti dei lavoratori); l. 26 luglio 1975 n. 354, modificata sull’ordinamento
carcerario; l. 11 luglio 1978 n. 382 (legge sui principi della disciplina militare, più volte modificata)) hanno
cercato di porre rimedio all’assoluta inerzia del precedente legislatore, a causa della quale i diritti di libertà
erano lettera morta nelle istituzioni che comportano rapporti di comando. Però: queste leggi riguardano solo
alcune e non tutte queste istituzioni; anche quando si preoccupano dei diritti di libertà, limitano tali diritti in
misura più o meno grande rispetto alla previsione costituzionale generale; viene confermato per altra via che
di per sé i diritti di libertà costituzionalmente garantiti riguardano solo gli individui astratti, in quanto liberi e
indipendenti, ma non riguardano le persone non più libere e indipendenti a causa della loro inserzione in
organizzazioni strutturate secondo il rapporto di comando: i diritti di libertà, per entrare in questi organismi,
hanno bisogno della legge, e quindi entrano in essi se e nella misura in cui la legge lo prevede. Si ridimostra
l’origine e il limite dei diritti di libertà: essi sono stati concepiti a misura dell’uomo borghese, cioè dell’uomo
proprietario, libero e indipendente, dell’uomo isolato in concorrenza con tutti gli altri. È questa la ragione per
cui i diritti di libertà, così come sono formulati in tutte le costituzioni, non contemplano tutte quelle
situazioni particolari nelle quali, a causa di specifici rapporti, un soggetto si trova subordinato ad un altro. I
diritti di libertà così come sono conosciuti dagli ordinamenti moderni si preoccupano solo dei rapporti tra
cittadini e stato e tra cittadino e cittadino in quanto tali, astraendo da ogni altra loro qualità e posizione. Oggi
libertà e proprietà non costituiscono un complesso indissolubile, a differenza di ciò che si credeva nell’800,
quando dominava il pensiero liberale classico secondo cui non c’è libertà senza proprietà, e la difesa delle
libertà era legata a quella della proprietà. La costituzione italiana non colloca la proprietà tra i diritti di
libertà, e non dichiara la proprietà inviolabile. Anzi la costituzione la priva di diretta garanzia costituzionale.
Però i diritti di libertà, così come sono formulati in costituzione, risentono ancora oggi della loro origine, e
restano diritti di individui indipendenti e isolati. Non appena gli individui sono costretti a inserirsi in
organizzazioni strutturate secondo rapporti di comando, i diritti di libertà non li comprendono più, e
l’estensione anche ad essi di tali diritti è possibile solo attraverso specifiche leggi. Dato che rispetto a
questioni che toccano profondamente interessi importanti e vitali della popolazione si è costretti a constatare
che o non esistono forme di garanzia o le garanzie a disposizione non sono efficaci quanto è necessario, ci
sono stati vari tentativi di costruire figure e meccanismi nuovi di garanzia che vanno in questa direzione: 1)
l’emanazione di carte dei diritti da parte di amministrazioni ed enti pubblici, ma anche di privati, mediante le
quali gli utenti di determinati servizi vedono riconosciuti diritti analiticamente indicati, con possibili rimedi
di ordine amministrativo e giurisdizionale, e possibili sanzioni nei confronti di coloro che violano tali diritti;
2) il difensore civico e cioè un soggetto, giuridicamente previsto e disciplinato, incaricato in via informale di
difendere coloro che si rivolgono a lui rispetto a comportamenti omissivi o scorretti della p.a.: questa difesa
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

si esercita attraverso indagini, richieste di informazioni, sollecitazioni, etc.; la legislazione dal 1990 prevede
che tutte le province e tutti i comuni, se vogliono, possono istituire un difensore civico; il difensore civico è
previsto in quasi tutte le regioni, o perché così vuole lo statuto o perché così hanno disposto leggi regionali:
oggi la l. 127/97 ha attribuito ai difensori civici regionali anche il compito di tutelare i cittadini nei confronti
delle amministrazioni statali, tranne alcune, in attesa dell’istituzione del difensore civico nazionale (art. 16 di
tale legge); 3) l’emanazione con la l. 212/2000 dello statuto del contribuente e la istituzione del garante del
contribuente, organo che svolge le funzioni tipiche del difensore civico all’interno delle amministrazioni
finanziarie e tributarie statali a tutela dei diritti del contribuente previsti da tale legge; 4) il tentativo di
estendere la tutela giurisdizionale anche a quelle organizzazioni che difendono gli interessi diffusi
(l’ambiente, le bellezze naturali e artistiche, etc.) e che quindi, quando ricorrono al giudice contro
comportamenti privati o pubblici lesivi di tali interessi, non difendono interessi propri in senso stretto ma
interessi appunto di tutti. Un riconoscimento legale degli interessi diffusi viene compiuto nella pratica dalla l.
241/90 per quanto riguarda sia la possibilità di far valere tali interessi entro un procedimento amministrativo
sia la possibilità di conoscere documenti amministrativi: tale legge prevede che gli interessati, e quindi anche
i rappresentanti di interessi diffusi, possono partecipare al procedimento amministrativo e possono accedere
ai documenti amministrativi. Un’importante legge (30 luglio 1998, n. 281) si propone oggi di tutelare i diritti
dei consumatori e degli utenti in generale. Vanno nella stessa direzione e rispondono ad esigenze analoghe le
molte autorità indipendenti, e soprattutto quella che tutela la riservatezza dei dati personali.

15) I diritti di libertà come conquista storica di civiltà: sarebbe però un errore diminuire l’importanza
storica dei diritti di libertà e il carattere di conquista universale di civiltà, nonostante la limitatezza del loro
raggio di azione. I diritti di libertà hanno comunque costituito una garanzia contro gli arbitri e i soprusi del
potere; per quanto voluti e ritagliati a misura dei borghesi, hanno costituito uno strumento di difesa di tutti.
Non a caso i regimi dittatoriali aboliscono immediatamente i diritti di libertà. In base alla sciagurata pratica
dell’URSS, si sostiene che il collettivismo, che il comunismo non tollera i diritti di libertà. Se questo è vero
empiricamente rispetto agli esistenti paesi collettivistici, lo è però in contraddizione con l’obiettivo
dell’estinzione dello Stato che pure contraddistingueva il progetto originario da cui sono partiti. Il progetto
proletario si propone di superare il conflitto di classe eliminando non la manifestazione del conflitto ma le
cause di esso, così che non vi saranno più conflitti di classe non perché la società e lo stato mettono in opera i
più diversi meccanismi per reprimerli e prevenirli, ma perché vengono a mancare le ragioni del conflitto di
classe. Tutte le forme politiche fin qui sperimentate, quando riescono ad attenuare o eliminare il conflitto,
attenuano o eliminano le manifestazioni esteriori di esso, ma lo lasciano inalterato nelle radici strutturali: da
un lato questa presenza invisibile o rimossa è destinata o prima o poi a ripresentarsi, dall’altro essa si
manifesta indirettamente come repressione, nel senso più ampio del termine (repressione carceraria, etc.). Il
progetto proletario intende rimuovere le radici del conflitto di classe, così che la riprova del suo successo non
starà solo nel fatto che non vi sono più conflitti di classe ma che non vi sono mezzi repressivi per prevenirlo
o reprimerlo: il conflitto di classe non vi sarà nonostante o perché non vi sarà più repressione. Costituisce
parte essenziale del progetto proletario che la prova dell’assenza reale del conflitto di classe sta nell’assenza
di macchine e strumenti di repressione; se ci sono ancora strumenti repressivi è segno che permane il
conflitto di classe. Si spiega perché il progetto proletario contempla l’estinzione dello Stato, cioè l’estinzione
dello specifico apparato che concentra la violenza sociale. Il progetto proletario si propone di estinguere i
conflitti di classe, cioè i conflitti legati alla produzione e alla distribuzione della ricchezza materiale. Il
progetto proletario dice che, estinto il conflitto di classe, si estingue la necessità della violenza sociale
organizzata e che, in questo senso, si estingue lo stato. La società comunista (senza conflitti di classe)
conoscerà anch’essa contraddizioni e conflitti, ma, secondo la ricostruzione proletaria delle leggi che
governano la vita associata, poiché solo il conflitto tra le classi esige la violenza organizzata, sparito quello si
estingue anche questa, e gli inevitabili conflitti della futura società saranno risolti in forme e modi che
escludono la violenza sociale concentrata in specifici apparati che la esercitano sui singoli e sulla società
tutta. Il progetto proletario comprende al suo interno, come elemento ineliminabile, l’estinzione dello Stato.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

Ma proprio perché lo stato è concepito come uno strumento che deve deperire, le garanzie di libertà nei
confronti dello Stato non vengono abolite dallo stato proletario conseguente al suo progetto, ma deperiscono
col deperire dello Stato perché diventano inutili. Il fatto che le libertà diventino inutili col deperire dello
Stato vuol dire che esse, di fatto e spontaneamente, non verranno più invocate e non costituiranno più
struttura significativa delle istituzioni, perché non ci sarà più bisogno di invocarle. Scompaiono non perché
abolite dalla volontà di chicchessia ma perché la società sarà organizzata in modo tale che non ve ne sarà più
bisogno. Lo stesso argomentare si applica al diritto di sciopero. Lo sciopero è un’effettiva lacerazione della
cooperazione, della società, e dunque nella società comunista non ha da esserci, se la realtà è conforme al
progetto: ma lo sciopero nella società comunista non vi sarà più non perché vietato, ma perché, se la società è
realmente comunista, nessuno avrà ragione di ricorrervi: dunque, proprio per questo, lo sciopero non sarà
proibito. Anche il diritto di sciopero si estingue. Quindi nello stato socialista coerente con i suoi obiettivi le
garanzie di libertà non vengono tolte, abolite; esse restano, ma, conformemente alla legge di tendenza
prevista della società socialista, col deperire dello Stato divengono inessenziali. Bisogna chiedersi se i diritti
di libertà sono diritti individuali o diritti funzionali. Nel primo caso lo stato non pretende di sindacare l’uso
che di tali libertà fa l’individuo, e quindi non pretende di entrare nelle sue intenzioni. Il diritto si limita a
definire i comportamenti vietati, e al di fuori di questi lascia piena e totale libertà all’individuo. Nel secondo
caso lo stato pretende di controllare l’uso che delle libertà fa in concreto il soggetto, vuole entrare nelle sue
intenzioni. Allo stato non basta che il singolo si astenga dal compiere certe azioni, lo stato vuole che il
singolo aderisca attivamente a certi valori e usi delle libertà solo in funzione di tali valori: in caso contrario
lo punisce. In nome della società, travestendosi spesso da progressisti, si pretende di usare il potere per
restringere le libertà, affidando allo stato il diritto di decidere quale uso delle libertà è lecito e quale illecito.
Ogni garanzia scompare perché la legge viene fatta in modo tale che dà il potere di controllare intenzioni e
non atti, cioè attribuisce un potere arbitrario usabile a discrezione del soggetto che lo detiene. Questo non è il
superamento dello Stato liberale; questo è il regresso verso lo stato di polizia (variante dello Stato assoluto
affermatasi in alcuni paesi europei come risposta all’ideologia dell’illuminismo e alle pressioni borghesi di
cui l’illuminismo era espressione), e la restaurazione del potere assoluto del leviatano contro lo stato di
diritto. Il superamento dello Stato liberale consiste nella creazione di una società che nella pratica rende
inutili i diritti di libertà e proprio per questo li mantiene, perché solo il loro non uso nella pratica, pur
potendoli usare, è la riprova pratica che la società è nuova e diversa. L’abolizione dei diritti di libertà o il
loro svuotamento da parte dello Stato è la riprova che non solo la società è divisa, ma è divisa a tal punto da
regredire anche rispetto allo stato liberale. I diritti di libertà sono borghesi perché la limitatezza della società
borghese dimostra che la loro universalità è apparente, mentre la loro realtà è limitata dal diritto di proprietà;
allora la critica va rivolta alla loro mancanza di universalità reale, non ai diritti in sé e per sé. Qualsiasi
società che pretende di essere più avanzata dell’attuale, non deve abolire i diritti di libertà, ma renderli per la
prima volta realmente universali come mai la società borghese è riuscita a fare.

16) Il principio di eguaglianza: l’art. 3 della costituzione nel primo comma dice: tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È da chiarire se l’espressione tutti i cittadini sono eguali
davanti alla legge riassume i successivi divieti, così che l’eguaglianza viene rispettata se non esistono
discriminazioni per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali; o se le
successive specificazioni di possibili disuguaglianze costituiscono esempi della regola generale senza
esaurirla, così che vi possono essere violazioni del principio di uguaglianza senza che queste siano
necessariamente ricomprese nelle categorie espressamente citate dalla costituzione. È opinione unanime e
pacifica che il principio di uguaglianza è più ampio delle successive esemplificazioni. Partiamo dalla ragione
originaria e dal significato storico della proclamazione dell’uguaglianza nella Rivoluzione francese. Essa era
diretta contro la pluralità di sistemi giuridici secondo gli ordini sociali, per cui i nobili erano assoggettati ad
una legislazione diversa da quella degli ecclesiastici, e tutti e due ad una diversa da quella dei borghesi. Il
medesimo fatto poteva essere punito diversamente se commesso da un aristocratico o da un popolano, perché

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

si applicavano leggi diverse in base allo status sociale dell’imputato. Questi status si acquistavano per nascita
e così essi attribuivano privilegi permanenti a minoranze. Una prima applicazione storica del principio di
uguaglianza è quella per cui la nascita non dà luogo ad alcuno status particolare, ma tutti hanno la medesima
capacità giuridica; se, successivamente, alcuni soggetti acquistano status particolari che li distinguono da
altri cittadini, questi status devono essere tali che tutti i cittadini, volendo e ricorrendo le medesime
circostanze, potrebbero acquisirli. Altro obiettivo della Rivoluzione francese era quello di creare un mercato
unico con leggi uniformi per tutto il territorio francese in modo da garantire l’uguaglianza nella concorrenza.
Dunque, si dovevano distruggere tutte quelle leggi particolari, diverse da luogo a luogo, che rendevano
difficili i traffici assoggettando i rapporti commerciali a regole diverse. Una seconda applicazione storica del
principio è quella per cui in tutto il territorio dello Stato deve valere una sola e medesima legge per i rapporti
privati. Conformemente al principio liberale di una società di liberi ed eguali, la legge doveva essere
formulata in modo da regolare il medesimo fatto con le medesime regole per tutti. Qualunque fatto doloso o
colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno
(art. 2043 c.c.): la regola si rivolge a tutti allo stesso modo, e dunque è eguale perché la sua previsione
abbraccia tutti gli uomini senza distinzione. Il diritto privato si presta particolarmente a questa così assoluta
generalità. Quando la regola non si rivolge a tutti, ma a categorie, il principio di eguaglianza è salvo se le
regole si riferiscono bensì agli appartenenti ad una categoria e non a tutti gli uomini, ma solo perché
disciplinano comportamenti propri e tipici di quella categoria, e dunque non pongono alcuna norma di
privilegio perché la particolarità della disciplina è la conseguenza della particolarità dell’oggetto disciplinato.
Ugualmente l’uguaglianza è salva se, pur esistendo discipline diverse, la diversità è la conseguenza di una
scelta libera dei privati che dunque non viola la loro eguaglianza (es. il modo di costituzione delle società
commerciali è diverso secondo i tipi, ma i privati possono scegliere il tipo che preferiscono e dunque restano
eguali). Con l’intervento statale nella vita economica e sociale questa forma di eguaglianza davanti alla legge
non può più essere garantita, perché l’intervento dello Stato è determinato dalla necessità di differenziare la
disciplina da gruppo a gruppo, per compensare e correggere squilibri, ingiustizie, conflitti. In questi casi le
categorie destinatarie della legge non sono individuate seguendo criteri oggettivi socialmente pacifici; la
legge crea essa stessa le differenze, divide secondo criteri politici categorie per l’innanzi disciplinate
unitariamente, per favorire alcune a danno di altre. Es. tra le imprese privilegia quelle situate in certe zone o
con un certo numero massimo di addetti, con la conseguenza che imprese dello stesso settore produttivo ma
collocate in zone diverse o con più addetti ne risultano svantaggiate. In questi casi bisogna chiedersi dove
finisce e dove comincia la violazione del principio di uguaglianza voluto dalla costituzione. La Corte
costituzionale ha elaborato il criterio della ragionevolezza. Il principio di eguaglianza è violato quando le
differenze di disciplina disposte dal legislatore appaiono prive di ogni ragionevolezza. Data la vaghezza e
indeterminatezza del criterio, sarà la Corte a decidere volta per volta se la differenza di disciplina, in ipotesi
che si pretende siano uguali, o reciprocamente il trattamento eguale di ipotesi che si pretende siano diverse,
sono ragionevolmente fondati. Le successive specificazioni dell’art. 3 sono meno problematiche in quanto
una legge che pone regole diverse rispetto al medesimo fatto in base al sesso, o alla razza, o alla lingua o alla
religione o alle opinioni politiche o alle condizioni sociali e personali, è in principio incostituzionale. In
generale però sono ammissibili differenziazioni in deroga all’art. 3 se queste distinzioni trovano fondamento
in altri valori costituzionali contenuti, magari implicitamente, in altre norme costituzionali (es. ai concorsi a
cui possono accedere solo uomini o solo donne: caso dei posti di sorvegliante nelle carceri maschili e
rispettivamente femminili, giustificato da ragioni attitudinali oggettivamente determinate dal tipo di lavoro,
per cui il sesso, in questo caso, è un requisito attitudinale, e non una discriminazione odiosa o requisito
deciso soggettivamente).

17) Eguaglianza sostanziale e principio di sussidiarietà: l’art. 3 della costituzione è composto da due
commi. Il primo contiene il principio dell’eguaglianza formale e si chiama così perché si occupa delle
possibilità che ciascun individuo ha sul piano meramente legale, anche quando non ha i mezzi per esercitare
in pratica i diritti, i poteri, le libertà che pur astrattamente potrebbe usare secondo la legge. Il secondo

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

contiene il principio dell’eguaglianza sostanziale e si chiama così perché esso si preoccupa proprio
dell’esistenza o della mancanza di quelle condizioni economiche e sociali che consentono oppure
impediscono nei fatti l’esercizio di diritti, poteri e libertà astrattamente previsti dalla legge. Quest’ultimo
comma dice: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.
Dunque, il testo costituzionale presuppone che vi siano condizioni economiche e sociali tali per cui la libertà
e l’eguaglianza dei cittadini vengono di fatto limitate, viene impedito il pieno sviluppo della persona umana
(perché ad esempio alcuni sono analfabeti), ed egualmente viene impedita l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. La costituzione italiana può essere
divisa in tre momenti distinti. Una prima parte comprende le regole mediante le quali la costituzione struttura
nelle sue grandi linee l’ordinamento giuridico italiano. Si tratta della parte giuridicamente più importante, per
efficacia pratica e per estensione. Una seconda parte comprende quelle formulazioni della costituzione che di
per sé non dispongono nulla, ma indicano degli obiettivi, molto generici, dei programmi, molto vaghi,
impegnando il legislatore a dare corpo a tali obiettivi e programmi. Si tratta delle promesse della
costituzione. Nel migliore dei casi queste formule sul piano giuridico hanno un’efficacia negativa, nel senso
che rendono illegittime e quindi controllabili dalla Corte costituzionale quelle eventuali leggi in contrasto
con le promesse contenute in costituzione. In positivo possono essere utilizzate in sede di interpretazione,
come argomento per preferire, tra due interpretazioni possibili della medesima disposizione o legge, quella
che appare maggiormente coerente con le promesse della costituzione. Però di per sé tali promesse non
hanno la forza di realizzarsi senza la mediazione del legislatore, e si realizzano se e nella misura in cui il
legislatore decide. In tutte queste promesse è presente un tentativo della costituzione di rappresentare la
società secondo un modello ideale. Si pensi al diritto al lavoro (art. 4): la Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro. Nel nostro ordinamento il diritto al lavoro in senso proprio non esiste. Nessun
disoccupato in Italia riuscirà mai ad ottenere lavoro rivolgendosi ad un giudice come se rivendicasse un suo
diritto. La formula costituzionale è un modo retorico per dire che la costituzione riconosce che tutti
dovrebbero poter lavorare; nello stesso tempo è la confessione che la Repubblica ha solo strumenti indiretti
per dare lavoro ai cittadini che lo vogliono, dal momento che il lavoro dipende da tutto il sistema economico
e il sistema economico è fondato sull’iniziativa e la proprietà privata. Del resto, l’art. 4, primo comma, dice
che la Repubblica riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto
e cioè conferma che la Repubblica non ha l’obbligo di dare lavoro a chiunque lo richieda, ma può solo,
sempre che i poteri pubblici lo vogliano, promuovere le condizioni affinché coloro che chiedono lavoro
trovino quelli che sono disposti a dare lavoro. Vi è poi una terza parte della costituzione nella quale essa
svolge la funzione di accreditare una determinata immagine della società e dello Stato (es. l’art. 1: l’Italia è
una Repubblica democratica fondata sul lavoro). Le promesse della costituzione da un lato sono
proclamazioni ufficiali e solenni di impegni per il futuro, dall’altro vogliono essere descrizione dei caratteri
morali e civili della società italiana. In quanto promesse, l’adempimento di tali promesse dipende dalla
volontà dei rappresentanti del popolo, se e nella misura in cui essi credono in tali promesse, si sentono
vincolati da esse, e traducono coerentemente in leggi operative tali promesse. Egualmente, in quanto
descrizioni della società italiana, esse valgono come argomenti retorici per coloro che continuano ad usarle,
ma sul piano scientifico sono descrizioni corrette se in qualche modo la realtà sociale effettiva cerca di
conformarsi a quegli ideali, altrimenti sono inganno o autoinganno, cioè ideologia. L’art. 3, 2° comma, è
stato per decenni una parte importante della costituzione vivente, perché i milioni di persone, e
organizzazioni sociali, hanno creduto nelle promesse di questo articolo e hanno cercato di tradurre in realtà
quelle promesse. Qualcosa nella direzione auspicata dall’art. 3, 2° comma, è stata compiuta, soprattutto negli
anni 60 e 70 (es. negli anni 60: la scuola media unica; negli anni 70: l’istituzione del servizio sanitario
nazionale), e soprattutto la lotta per la progressiva attuazione del programma disegnato nella costituzione, e
disegnato anzitutto nel 2° comma dell’art. 3, è stata viva e presente fino agli anni 80. Oggi, prima una parte
dell’opinione pubblica, poi l’unione europea, poi alcune leggi ordinarie, infine lo stesso testo costituzionale,
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

nel nuovo art. 118 introdotto dalla l. cost. 3/2001, dicono di volere il principio della sussidiarietà, cioè un
principio che sta in opposizione col principio dell’uguaglianza sostanziale, che si trova ancora scritto nel 2°
comma dell’art. 3. Con sussidiarietà si definisce una relazione tra due o più soggetti per cui uno interviene a
sostegno o al posto di un altro o di molti altri se e solo se i secondi non sono in grado di provvedere a sé
stessi. Applicato ai rapporti tra gli individui e le libere associazioni di individui da un lato e gli enti pubblici
dall’altro, il principio di sussidiarietà dice che l’ente pubblico deve astenersi dall’invadere o disciplinare la
libera iniziativa dei privati se essi sono in grado di tutelare i propri interessi, e deve intervenire se e quando
soltanto un intervento pubblico può soddisfare gli interessi ed i bisogni dei singoli (sussidiarietà orizzontale).
Applicato ai rapporti tra i diversi livelli di enti pubblici, il principio dice che l’ente di livello più alto può
sostituirsi o aggiungersi all’ente di livello inferiore solo se questo si dimostra incapace di curare
efficacemente gli interessi per la tutela dei quali è stato istituito (sussidiarietà verticale). Il criterio della
sussidiarietà orizzontale dice che se la produzione di beni e servizi, compresa l’assistenza sanitaria,
l’istruzione, la previdenza, può essere assicurata dalla iniziativa dei privati, gli enti pubblici devono astenersi
dal produrre tali beni e tali servizi e lasciare campo libero all’iniziativa privata (l’ente pubblico, se
necessario, regola la produzione di beni e servizi, ma non produce beni e servizi). Il criterio della
sussidiarietà verticale dice che, una volta stabilito che un certo compito non può essere svolto dai privati,
bisogna individuare il livello di intervento, ed in questa indagine la preferenza va data all’ente più vicino ai
destinatari dell’azione pubblica, e, solo se l’ente di questo livello si dimostra incapace di svolgere il compito
ad esso affidato con efficacia, diventa legittimo l’intervento di un ente di livello superiore. Dunque, in Italia
l’ente che viene per primo in considerazione è il comune, poi viene alternativamente o la città metropolitana
o la provincia, poi la regione, poi lo stato, infine l’unione europea. Il principio della sussidiarietà verticale è
un criterio che si limita a dire che ogni attribuzione di funzione a livello o comunale, o provinciale, o
regionale, o statale, o comunitario, va giustificata, spiegando perché è opportuno collocare tale funzione a
quel livello piuttosto che ad un altro. Dunque, vi dovrà essere sempre qualcuno che dovrà decidere a chi
spetta una determinata competenza. Compito del diritto pubblico è quello di indicare chi e come ha il potere
e il dovere di decidere questioni del genere. Il principio di sussidiarietà verticale tende a spacciare come
oggettivamente necessarie ripartizioni di poteri e funzioni tra diversi enti pubblici le quali sono invece il
risultato di combattute scelte politiche. In nome della sussidiarietà si cerca di privilegiare le posizioni
acquisite di ricchezza e di potere, e togliere per quanto è possibile ad enti di livello superiore il potere di
governare l’economia e redistribuire la ricchezza. Due esempi: dividere la funzione legislativa tra enti di
diverso livello e privilegiare l’ente di livello inferiore (riforma introdotta dalla l. cost. 3/2001) vuol dire
favorire la disuguaglianza contro l’uguaglianza: più generale è la legge, maggiore diventa il possibile
eguagliamento tra i soggetti sottoposti alla legge; 21 leggi regionali e provinciali in Italia al posto di una sola
legge nazionale creano 21 situazioni diverse, per cui i cittadini italiani non sono più eguali davanti alla legge,
ma tanto disuguali quanto sono disuguali le 21 leggi territorialmente competenti; la richiesta esplicita dei
sostenitori del principio di sussidiarietà per quanto riguarda il sistema tributario è quella di conservare le
risorse presso l’ente nel cui territorio sono state prodotte: es. le tasse lombarde dunque alla Lombardia,
permettendo l’aumento delle differenze esistenti tra regione e regione, anziché l’eguagliamento tra le
condizioni economiche e sociali delle diverse regioni. Dunque, il principio di sussidiarietà verticale entra in
conflitto col principio di uguaglianza sostanziale contenuto nel 2° comma dell’art. 3: il primo favorisce le
differenze, laddove il secondo chiede interventi attivi degli enti pubblici per uguagliare tutti i cittadini.
Ancora più distruttivo di ogni tentativo di eguagliamento è il principio di sussidiarietà orizzontale. Chiedere
la riduzione dell’intervento dei poteri pubblici a favore dell’iniziativa dei privati vuol dire allargare lo spazio
del mercato, e quindi del denaro, e quindi delle disuguaglianze che il mercato e la concorrenza creano ed
accrescono. Compito degli enti pubblici diventa quello di favorire la competizione tra i cittadini in modo che
ciascuno riesca a conquistare quanto più è possibile di ricchezza economica e di potere politico e sociale, in
lotta contro tutti gli altri. La costituzione italiana è divenuta un documento apertamente contraddittorio,
perché contiene al suo interno due principi in conflitto tra di loro. La costituzione italiana, come tutte le
costituzioni del mondo capitalistico, si basa su due principi fondamentali non scritti. Questi due principi
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

possono essere così formulati: non c’è limite alla quantità di proprietà che ciascun individuo può riuscire ad
acquisire (con mezzi giuridicamente leciti); non c’è limite al reddito che ciascun individuo può raggiungere
in modo giuridicamente lecito. Dati questi principi fondamentali, possiamo meglio caratterizzare il principio
di uguaglianza sostanziale come formulato nell’art. 3, 2° comma, ed il principio di sussidiarietà quale oggi
contenuto nell’art. 118: il primo consente al potere politico, se esiste una maggioranza sufficiente, di
introdurre leggi che redistribuiscono parzialmente proprietà e reddito, senza toccare la possibilità che,
nonostante tali leggi, le differenze in proprietà e reddito crescano senza limiti e divengano sempre più grandi;
il secondo, se esiste una maggioranza politica che lo sostiene, accoglie con favore questa crescente
differenziazione in proprietà e reddito, e vede con sfavore ogni intervento legislativo volto a limitare l’uno e
l’altro e a redistribuire proprietà e reddito. In qualunque costituzione che tutela la proprietà privata e la
ricchezza privata, ambedue i principi hanno scarso significato, giacché nel migliore dei casi riescono a
determinare piccole compensazioni entro la società tra più ricchi e meno ricchi, ma non si pongono il
problema di aggredire alla radice la disuguaglianza economica e sociale tra gli uomini, e quindi di modificare
la struttura sociale che viene determinata dalla proprietà privata e dalle enormi differenze in proprietà e
potere.

CAPITOLO 19

Stato ed economia

1) Premessa: lo stato, le sue diverse forme storiche, il suo rapporto con la società, le sue articolazioni
interne, i suoi compiti, non sono comprensibili se isolati dal loro necessario rapporto con la base economica
della società, cioè con il modo storicamente determinato verso cui gli uomini in società producono e
distribuiscono la ricchezza materiale. Se si considera il rapporto tra stato e società, dalla crisi della società
feudale all’emergere delle monarchie assolute, alle rivoluzioni borghesi, al dominio dello Stato liberale, alla
sua crisi, al primo affermarsi e al successivo dispiegarsi di tentativi divaricanti di risposta a tale crisi
(democrazia pluralista, fascismo, socialismo), si vede che tutti questi momenti e passaggi sono stati
ricostruiti in diretto rapporto con le modificazioni che avvenivano nel mondo della produzione e
distribuzione della ricchezza. Oggi è impossibile capire l’attuale stato democratico pluralistico, se non si
hanno presenti i gruppi sociali che entrano in concorrenza tra loro anzitutto sul terreno economico. Inoltre,
tra potere politico e potere economico si svolge quotidianamente una lotta per l’egemonia ed in alcuni
periodi o in specifici settori il potere politico guadagna spazi di manovra e impone obiettivi nei confronti del
potere economico, ed in altri periodi o in altri settori, è il potere economico che guida ed orienta il potere
politico. Così se negli anni 60 e 70 è sembrato, ed in parte è realmente accaduto che il potere politico,
sospinto da forti movimenti di massa e ispirandosi agli ideali della carta costituzionale del 1947, sia riuscito
a condizionare e guidare il potere economico (negli anni 60 ad es. si cercò di affermare il principio e la
pratica della programmazione economica guidata dal governo), oggi, al culmine di una tendenza che ha
cominciato a manifestarsi nei primi anni 80, e si è affermata negli anni 90, vediamo che il potere economico,
non più nazionale ma internazionale, si è liberato dei condizionamenti della politica e impone al potere
politico temi e tempi dell’azione, in contrasto con lo spirito animatore della costituzione scritta.

2) Diritto pubblico e diritto privato: questo intreccio tra mondo della produzione e distribuzione della
ricchezza materiale da un lato e stato dall’altro complica il rapporto diritto pubblico-diritto privato, ma non
ne annulla la differenza; anzi il rapporto esiste proprio perché tale differenza viene mantenuta. Diritto privato
è il diritto che regola i rapporti tra privati, cioè tra soggetti formalmente eguali che si vincolano gli uni
rispetto agli altri per loro volontà, e quindi se e nei limiti in cui liberamente decidono di vincolarsi. Diritto
pubblico è il diritto che regola i rapporti tra un soggetto dotato di un potere di comando e soggetti subordinati
al primo, così che questo può unilateralmente vincolare i secondi con un suo atto di volontà. Si comprende
perché nel diritto privato domina la categoria del lecito (è possibile fare tutto ciò che le norme non vietano) e
nel diritto pubblico domina la categoria del legittimo (è possibile fare solo ciò che le norme permettono). Nel
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

primo caso prevale il momento della libertà, nel secondo il momento dell’autorità. È avvenuto che il diritto
privato è stato invaso da caratteri propri del diritto pubblico, e reciprocamente il diritto pubblico è stato
invaso da aspetti un tempo propri del diritto privato. Per quanto riguarda il primo caso, interi settori
contrattuali sono stati compressi e ridotti da minuziose regole imperative che limitano e al limite annullano la
libertà dei privati: ciò accade quando il diritto impone di contrattare (ad es.: assicurazione obbligatoria sugli
autoveicoli); pone vincoli alla proprietà; etc. Sono sempre esistiti vincoli di diritto pubblico nei confronti
dell’autonomia dei privati, ma ormai sono così numerosi e incisivi che in molti settori e rispetto a molti
aspetti il rapporto tra libertà del privato e norme imperative si è rovesciato a sfavore della libertà ed a
vantaggio del potere pubblico. La libertà del privato nell’economia vuol dire libertà del privato di perseguire
i propri interessi egoistici contro gli interessi della maggioranza; in particolare, dato che oggi domina il modo
di produzione capitalistico, libertà del privato vuol dire libertà dei capitalisti a danno dei lavoratori (libertà ad
es. di licenziare). Però l’irrompere del diritto pubblico nel diritto privato va considerato non come una
limitazione di libertà in assoluto, ma esattamente al contrario: è limitazione di libertà per pochi con
l’intenzione o la speranza che si risolva in aumento di concreta e sostanziale libertà per molti (libertà dal
licenziamento, dalla disoccupazione, etc.). Sull’altro versante lo stato e gli enti pubblici in generale, se
decidono di entrare nel mercato, producendo e vendendo beni e servizi, sono costretti ad usare gli strumenti
giuridici propri del mercato, e cioè gli strumenti propri del diritto privato (es. contratto). Se invece decidono
di regolare dall’esterno il mercato, limitandosi a porre regole agli operatori economici ed a verificare se esse
vengono rispettate, spesso sono costretti o indotti ad avviare trattative con tutti i privati interessati e, dopo
aver raggiunto l’accordo con essi, a tradurre questo accordo negli strumenti legali necessari per raggiungere
il fine: così accade quando lo stato contratta con le imprese i nuovi investimenti, in cambio di finanziamenti
pubblici; o il comune si accorda con i proprietari di case e con tutti gli interessati in vista del risanamento di
centri abitati; etc.

3) Costituzione italiana e mercato: la costituzione italiana presuppone una società mercantile, una società
cioè in cui le cose utili sono merci, il soddisfacimento dei bisogni si realizza mediante lo scambio sul
mercato di queste merci attraverso la mediazione del denaro. Non sempre la società umana si è basata sullo
scambio mercantile, anzi il dominio di questo modo di circolazione della ricchezza prodotta è piuttosto
recente. La società italiana (insieme a moltissimi altri paesi) non solo si fonda sulla produzione e sullo
scambio mercantile, ma sul modo di produzione e di scambio capitalistico, che del primo costituisce uno
sviluppo e una diversificazione profonda (produzione mercantile è produzione per il mercato, dunque anche
una produzione realizzata da produttori indipendenti proprietari dei mezzi di produzione; produzione
capitalistica è una produzione per il mercato, ma realizzata mediante lo scambio tra capitale, che si appropria
del prodotto del lavoro, e lavoro salariato, che riceve una retribuzione in cambio dell’attività lavorativa
prestata. Dunque, non ogni produzione mercantile è produzione capitalistica, mentre ogni produzione
capitalistica è produzione mercantile). La costituzione presuppone il modo capitalistico sia quando menziona
e disciplina il lavoro salariato (tale perché ha di fronte a sé il capitale), sia quando prevede e disciplina il
credito, cioè il capitale finanziario, sia quando garantisce l’iniziativa privata e la proprietà privata, che sono
iniziativa e proprietà privata capitalistica, giacché la costituzione, non distinguendo tra proprietà dei mezzi di
produzione e proprietà dei mezzi di consumo e tra diversi tipi di iniziativa economica, per ciò solo legittima
e presuppone quella proprietà (proprietà privata dei mezzi di produzione) e quella iniziativa (iniziativa
capitalistica) che storicamente e di fatto sono predominanti. La costituzione conosce anche altri modi di
produzione. Menziona la produzione non capitalistica condotta da lavoratori che sono proprietari dei propri
mezzi di produzione, cioè i contadini proprietari e gli artigiani; presuppone l’esistenza delle libere
professioni. La costituzione italiana, anche se conosce diversi modi di produzione non capitalistici,
presuppone che il modo di produzione dominante sia quello capitalistico e la piccola proprietà contadina e
artigianato vanno difesi (artt. 44 e 45, 2° comma, cost.). Questa dominanza del modo di produzione
capitalistico si riflette nelle norme costituzionali: dei 12 articoli espressamente dedicati ai rapporti
economici, 7 (artt. 35-40 e 46) trattano del lavoro salariato, cioè del polo necessario di ogni produzione

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Riassunto di Gaia Paoloni
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capitalistica, 1 tratta della cooperazione e dell’artigianato (art. 45), e tutti gli altri trattano dell’impresa
capitalistica (artt. 41-44 e 47).

4) La libertà del capitale: rilevante è il rapporto capitale-salario, cioè, in termini costituzionali, il rapporto
tra l’art. 41, che disciplina l’iniziativa economica privata, e gli artt. 36-40 che disciplinano il salario e il
rapporto di lavoro subordinato in generale (ivi compreso il diritto di organizzazione sindacale e il diritto di
sciopero). Art. 41: “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i
programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e
coordinata a fini sociali”. L’art. 41 parla di iniziativa economica in generale, garantisce anche quella del
libero professionista, dell’artigiano, del contadino proprietario, del commerciante al minuto. Però, poiché la
stragrande maggioranza della ricchezza prodotta viene prodotta dalle imprese capitalistiche, ne consegue che
l’art. 41 disciplina e garantisce anzitutto l’iniziativa capitalistica. A primo impatto sembrerebbe che ci sia
una contraddizione tra 1° e 3° comma. Il primo sostiene che l’iniziativa economica privata è libera, il terzo
esige che venga controllata e indirizzata, cioè che non sia affatto libera. Ma in realtà il 1° comma riguarda
l’iniziativa, cioè si riferisce al momento della decisione di investire; mentre il 2° e il 3° riguardano l’attività
economica, cioè si riferiscono all’attività che si svolge in seguito a questa originaria decisione. Il primo dice
che nessun privato può essere obbligato ad investire, e nessuno può essere obbligato ad investire in un settore
piuttosto che in un altro. Lo stato può impedire o limitare gli investimenti in quel settore, ma non può
costringere ad investire (libertà di non fare). Ogni capitale, in ogni momento dato, si presenta diviso in tre
cicli contemporanei, per cui una parte del capitale si presenta in forma monetaria, una parte si presenta
trasformata in mezzi di produzione e salari, un’altra è incorporata nelle merci prodotte e pronte per la
vendita. Nello stesso tempo ciascuna frazione del capitale temporaneamente fissata in una di queste forme è
destinata a ripercorrerle tutte, se e finché il capitale sviluppa normalmente il suo ciclo di valorizzazione.
Ogni parte del capitale, per quanto transitoriamente fissata in cose materiali, o prima o poi si ripresenta come
denaro, ricchezza astratta. A questo punto del ciclo, quando il capitale si ripresenta come capitale monetario,
il processo può interrompersi: anziché reinvestire le somme ricavate dalle vendite, il capitalista può lasciare
inattivo il suo capitale monetario; anziché rinnovare gli impianti, può spostare il capitale monetario (la
libertà del capitale monetario è la libertà di tutto il capitale). Che cosa determina questo temporaneo ritrarsi
dalla produzione del capitale e questo suo continuo spostarsi? Il profitto. Il capitale si ritrae dalla produzione
perché il profitto ottenuto è nullo o comunque inferiore a quello atteso o sperato: esso si reinveste se e perché
il tasso di profitto torna positivo o si spera possa esserlo; esso si sposta perché i nuovi settori offrono un
profitto maggiore. Il potere pubblico potrebbe sostituire la propria iniziativa a quella privata, in modo da
bilanciare le conseguenze negative derivanti dai movimenti dei capitali privati. Però, sostituendosi a quella
privata, lo stato tiene fermo il principio che l’iniziativa economica privata è libera; questa sostituzione è
apparente, perché nel suo movimento è costretta ad adeguarsi alle stesse leggi del profitto che guidano il
capitale in genere: muta dunque il titolo della proprietà del capitale, ma non muta la sua legge interna di vita.
Questa sostituzione, diminuendo l’area privata, incontra dei limiti politici insuperabili perché delle due l’una:
o si giunge ad un compromesso, mobile quanto si vuole, ma delimitato in ogni istante, e dunque questo
compromesso costituisce il limite invalicabile dell’iniziativa pubblica sostitutiva; o lo stato forza la mano
oltre il compromesso tollerato dal capitale privato e allora è costretto rapidamente ad inseguire lo sciopero
del capitale, con tutte le conseguenze economiche, sociali e politiche che questo comporta. Ogni attività
economica, nel suo svolgersi, incontra limiti di vario genere: sanitari; limiti di sicurezza; limiti relativi al
processo lavorativo; etc. Tutti questi limiti però non possono essere tali da rendere non profittevole
l’iniziativa economica privata, pena la crisi, così che il capitale ha un’arma formidabile di contrattazione al
fine di bloccare vincoli da esso giudicati intollerabili; essi non toccano in nulla la primordiale libertà del
capitale di cui si è prima parlato: riguardano il capitale in attività, non il capitale monetario e non quindi
l’iniziativa privata in senso proprio e rigoroso. Tanto è vero che le forme di controllo previste dall’art. 41,
affinché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali, si

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risolvono quasi tutte in un potenziamento dell’iniziativa privata, perché l’unico modo efficace per stimolare
l’iniziativa economica privata e per indirizzarla è quello di offrirle dei vantaggi. Lo stato conosce diversi
meccanismi a questo fine: i crediti agevolati (lo stato si accolla parte degli interessi sui mutui richiesti per
intraprendere un’attività economica); gli sgravi fiscali (investendo in una certa zona o in un certo settore si
pagano minori imposte); i contributi a fondo perduto (regali), etc.

5) Il sistema bancario: la disciplina del credito e delle banche è stata negli ultimi anni mutata, sia per
adeguarsi alle direttive dell’unione europea sia per introdurre regole favorevoli all’espansione della libertà
del mercato e del capitale e al restringimento dei poteri di intervento e controllo dei poteri pubblici. La nuova
normativa è contenuta nel testo unico approvato con d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385, che sostituisce tutte le
norme precedenti in materia, e abroga i testi normativi base anteriori che risalivano al 1936. Viene abolita la
distinzione tra risparmio (credito) a breve e risparmio a medio e lungo termine: gli enti creditizi possono
svolgere indifferentemente, se il loro statuto lo prevede, tutte le attività bancarie descritte nel testo unico.
Viene introdotta l’espressione ente creditizio per indicare qualsiasi soggetto che svolge attività bancaria. I
nuovi enti creditizi possono avere solo la forma della società per azioni, o della società cooperativa per
azioni a responsabilità limitata. La costituzione di un ente creditizio italiano deve essere autorizzata dalla
Banca d’Italia con un atto che è dovuto se ricorrono le condizioni previste dalla legge. Regole diverse
valgono per gli enti creditizi comunitari e per quelli extracomunitari. Precedenti leggi consentono agli enti
creditizi che non avevano la forma della società per azioni di trasformarsi in questa figura, anche attraverso
fusioni. Questa operazione può avvenire con lo scorporo dell’attività bancaria, che viene trasferita ad una
società per azioni, da altre attività, che l’ente originario continua a svolgere: così le casse di risparmio
continuano ad esistere, come fondazioni proprietarie di azioni di enti creditizi, e come tali amministrano
questa proprietà e destinano gli utili ai fini previsti dal loro statuto. In sintesi, il governo e il Parlamento negli
ultimi anni stanno cercando di rendere omogenei gli enti creditizi, trasformandoli tutti in società per azioni
che hanno tutti gli stessi poteri e gli stessi obblighi. Tutte le banche sono soggette alle direttive e al controllo
del comitato interministeriale per il credito, del ministro del tesoro e della Banca d’Italia, che è l’ente
incaricato di dirigere il sistema bancario secondo le direttive politiche del Cicr e del ministro del tesoro. Dato
che la Banca d’Italia è a sua volta subordinata oggi alla banca centrale europea, in realtà Cicr, ministro del
tesoro e Banca d’Italia hanno l’obbligo di attuare le decisioni e le direttive della banca centrale europea e del
sistema europeo delle banche centrali, e mantengono quei limitati poteri di ordinaria amministrazione che
non vengono toccati dagli atti della banca centrale europea. La Banca d’Italia, istituto di diritto pubblico
costituito è disciplinato con legge: a) è il cassiere dello Stato: quasi tutte le somme in denaro incassate e
spese vengono maneggiate dalla Banca d’Italia per conto dello Stato. b) È sotto la direzione della banca
centrale europea, la Banca delle banche: la Banca d’Italia non svolge funzioni di credito verso i privati ma
solo verso altre banche, e dunque è la banca prestatrice di ultima istanza. c) Ha poteri di direzione, controllo
e vigilanza su tutte le banche, in esecuzione delle direttive e dei regolamenti della banca centrale europea. La
Banca d’Italia, a seguito dell’istituzione della moneta unica europea (euro), non è più istituto di emissione
delle banconote con valore legale; anche quando stampa le banconote e vigila sulla loro circolazione, lo fa
come struttura esecutiva della banca centrale europea. Oggi il principale soggetto della politica economica ed
uno dei centri dirigenti decisivi per l’unione europea, e quindi anche per l’Italia, è la banca centrale europea,
con uno spostamento di sovranità dallo stato italiano alla banca centrale (la quale è indipendente da qualsiasi
autorità, anche quelle dell’unione europea).

6) Il lavoro salariato: l’art. 35 della costituzione parla del lavoro in generale e quindi anche del lavoro
autonomo, svolto da soggetti proprietari dei propri mezzi di produzione. L’art. 36 cost. disciplina nei suoi
termini più generali il lavoro dipendente, cioè il lavoro svolto alle dipendenze di un altro soggetto che si
appropria del prodotto di tale lavoro in cambio di una retribuzione. L’art. 36 stabilisce a favore del lavoratore
dipendente tre garanzie: il diritto alla retribuzione, in denaro corrispondente ai valori storicamente
determinati; il diritto non rinunciabile alle ferie annuali e al riposo settimanale; la durata massima della
giornata lavorativa che va stabilita con legge (e quindi non è derogabile). Nel primo comma dell’art. 36 la
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Riassunto di Gaia Paoloni
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costituzione italiana si preoccupa di garantire quella che è la condizione minima per la riproduzione della
forza lavoro, e cioè quel minimo salariale storicamente determinato che permette al lavoratore di vivere e
prolificare, riproducendo sé stesso come forza lavoro attuale e futura. La costituzione usa la formula
esistenza libera e dignitosa, ma la giurisprudenza ha sentenziato che questo minimo salariale percepito va
rapportato ai minimi contrattuali esistenti e non risulta che i lavoratori dipendenti ritengano queste tariffe
sindacali sufficienti per una esistenza libera e dignitosa, tanto è vero che lottano continuamente per superare
tali tariffe. Nella realtà dunque la retribuzione sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa, risulta dalle correnti tariffe sindacali, cioè quel salario che in un dato
momento storico è normale per quel determinato lavoro, tale da impedire da un lato la degradazione fisica e
morale del lavoratore e dall’altro lato qualsiasi accumulazione che sottragga il lavoratore alla sferza del
bisogno e quindi alla necessità di vendere la sua forza lavoro sul mercato. Gli altri aspetti contenuti nell’art.
36 risultano chiari: da un lato vi è il riconoscimento dell’esistenza di forze lavoro complesse (retribuzione
proporzionata alla qualità del lavoro) e quindi salarialmente differenziate; dall’altro vi è la previsione della
possibilità di un salario superiore al minimo storicamente determinato in un periodo dato (se la retribuzione
deve essere sufficiente, questo significa che può essere superiore a questo minimo). Questo possibile salario
superiore al minimo storico però resta del tutto indeterminato nella costituzione e affidato invece ai rapporti
di forza. Subito dopo nel testo costituzionale vengono gli artt. 39 e 40 che prevedono la libertà di
organizzazione sindacale e la garanzia del diritto di sciopero, cioè gli strumenti attraverso cui si esprime la
lotta dei lavoratori dipendenti per determinare da un lato il minimo salariale, dall’altro le differenze salariali
corrispondenti alle diverse qualità del lavoro, dall’altra ancora quel tanto di salario superiore al minimo
storicamente determinato. Da tenere presente che il lavoro intanto è salariato in quanto esiste, contrapposto
ad esso, il capitale, e il capitale intanto esiste in quanto è remunerato, cioè ottiene un profitto. Nel rapporto di
lavoro dipendente vanno distinti due aspetti: il primo è il rapporto contrattuale che stabilisce diritti e doveri
del lavoratore e del datore di lavoro prima e comunque all’esterno del processo lavorativo; in questo rapporto
le due parti si presentano formalmente libere ed eguali (alle origini questa libertà e indipendenza si estendeva
non solo alla libertà di concludere il contratto, ma anche al contenuto di esso, che era rimesso alla
stipulazione fra le parti, cioè alla volontà del più forte economicamente: oggi il contenuto del contratto di
lavoro per moltissima parte è deciso dalla legge con norme inderogabili e per il resto dei contratti collettivi di
lavoro). Il secondo aspetto è il rapporto lavorativo, in cui il lavoratore dipendente lavora concretamente sotto
il comando del datore di lavoro. In questo secondo rapporto non c’è più eguaglianza, ma dipendenza anche
formale giuridica: il lavoratore deve lavorare, perché si è liberamente obbligato a lavorare, e deve lavorare
agli ordini del datore di lavoro, perché in ciò sta la caratteristica essenziale del lavoro dipendente. Questa
distinzione tra rapporto contrattuale e rapporto lavorativo corrisponde alla distinzione tra rapporto di scambio
tra capitale e forza lavoro e rapporto di scambio tra mezzi di produzione e attività lavorativa: nel rapporto di
scambio tra capitale e forza lavoro il lavoratore vende la sua astratta capacità di lavoro contro una parte del
capitale monetario; nel rapporto di scambio tra mezzi di produzione e attività lavorativa il lavoro vivo mette
in moto il lavoro morto, accumulato e oggettivato nelle macchine e nelle materie prime, producendo al
termine di questo processo un valore superiore a quello anticipato, valore in più su cui si fonda sia il
consumo dei non lavoratori sia l’allargamento della produzione o investimento netto. È interessante notare
che lo stato, sotto la spinta operaia di fronte all’evidenza della sproporzione di forza economica tra capitalista
e lavoratori, anche associati, ha progressivamente limitato la libertà contrattuale nel determinare il contenuto
del contratto di lavoro, ma solo recentemente e parzialmente, sotto una nuova spinta operaia, ha osato
aggredire anche il rapporto lavorativo, consentendo ai giudici di entrare dentro la fabbrica e tutelare l’operaio
nel momento della esplicazione della sua attività lavorativa. Per quante garanzie i lavoratori e le loro
organizzazioni sindacali riescano ad imporre nel contratto di lavoro, è nella natura del rapporto che nessun
contratto può prevedere gli infiniti problemi che si porranno nel concreto svolgimento dell’attività lavorativa.
Il capitalista perciò ha un generale potere di comando sul lavoratore entro il processo lavorativo: questo
potere potrà incontrare limiti negativi posti dalle leggi, dai contratti, dal costume, ma resta sempre
indeterminato e generale per la sua estensione e incidenza. Di conseguenza lo stato può tutelare il lavoratore
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Riassunto di Gaia Paoloni
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seguendo due diverse strade: può stabilire con legge clausole inderogabili per ogni contratto di lavoro,
restringendo la libertà del datore di lavoro sia per quanto riguarda il contenuto del contratto, sia per quanto
riguarda il suo potere gerarchico sul lavoratore nel processo lavorativo; indipendentemente dal contratto di
lavoro lo stato può emanare una serie di norme a tutela del lavoratore in modo che gli indeterminabili atti di
comando dell’imprenditore, anche quando non violano specifiche norme contrattuali, siano egualmente
controllabili. La resistenza dello Stato a recepire le rivendicazioni operaie in queste due direzioni è forte,
poiché ad esse si contrappone la reazione dei capitalisti decisi a difendere la loro libertà e storicamente è
stato meno difficile costringere il legislatore a restringere la libertà contrattuale dell’imprenditore piuttosto
che a convincerlo a restringere la sua libertà manageriale. Tra le regole che limitano la libertà contrattuale
vanno ricordate quelle che vietano il licenziamento individuale senza giusta causa; quelle che vietano di
adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle per cui è stato assunto; che fanno decorrere la prescrizione
per la rivendicazione dei propri diritti dalla fine del rapporto di lavoro e non dal momento in cui sono nati: è
normale che il lavoratore, nel timore di essere licenziato, non rivendichi i suoi diritti nel corso del suo
rapporto di lavoro; quindi, se questi dovessero prescrivere a far tempo dalla loro nascita, come è la regola
generale, c’è la forte probabilità che il lavoratore, a rapporto di lavoro cessato, non possa più farli valere a
causa dello scadere del termine di prescrizione); le norme che tutelano la lavoratrice madre; etc.: pochi
rapporti contrattuali ormai sono così fittamente regolati direttamente dalle leggi come quello di lavoro, fino
al punto che la libertà contrattuale si è ridotta alla libertà di assumere o meno lavoratori dipendenti e alla
libertà, non più individuale ma collettiva, di regolare quegli aspetti del contratto che non sono già stati
regolati da leggi. Per quanto riguarda le limitazioni alla libertà manageriale dell’imprenditore, fondamentale
è la l. n. 300 del 20 maggio 1970 (statuto dei diritti dei lavoratori), che, per quanto privato di alcune norme a
tutela del lavoratore dipendente, ha sottratto all’assoluta disponibilità padronale una serie di questioni
relative alla vita interna di fabbrica di grande rilevanza sociale. Es. la legge garantisce la libertà di
manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro (art. 1), disciplina le guardie giurate di fabbrica (art. 2),
vieta e disciplina in casi eccezionali l’installazione di impianti audiovisivi di controllo sui lavoratori (art. 4),
etc., fino all’art. 28, che vietando la condotta antisindacale, offre al giudice un potere molto vasto di
intervento nelle questioni interne ai luoghi di lavoro.

7) I sindacati: la legislazione di favore a difesa del lavoratore nei confronti del potere padronale è il risultato
di una secolare lotta organizzata collettivamente, per cui al singolo lavoratore, la cui forza individuale è
troppo impari rispetto a quella del datore di lavoro, si è sostituita l’organizzazione collettiva di molti
lavoratori, cioè il sindacato. L’art. 39 della costituzione nel primo comma dice l’organizzazione sindacale è
libera. Nei commi successivi l’art. 39 contiene altre regole relative ai sindacati: prevede che i sindacati
possano registrarsi; che i sindacati registrati debbano avere un ordinamento interno a base democratica e
siano persone giuridiche; e che i contratti di lavoro stipulati da tali sindacati persone giuridiche abbiano
efficacia non solo per gli iscritti, ma per tutti gli appartenenti alla categoria a cui il contratto si riferisce. Tutte
queste regole però sono rimaste lettera morta, giacché quasi tutti i sindacati italiani, e i tre più importanti e
quelli determinanti (CGIL, CISL, UIL), hanno sempre rifiutato ogni legge di attuazione di tali regole
costituzionali. Dunque, è probabile che questa parte del testo costituzionale resti inattuata (è certo che questa
parte non fa parte della costituzione vivente, e quindi neppure è parte della costituzione). Le ragioni di questa
opposizione sindacale sono 3: a) le regole costituzionali scritte di cui stiamo parlando esigono una legge di
attuazione, perché di per sé non sono operative. Qualsiasi legge, per il solo fatto di disciplinare il sindacato,
dà la possibilità allo stato di entrare dentro le organizzazioni sindacali, cioè di limitare la loro libertà. b) La
concessione della personalità giuridica ai sindacati è uno svantaggio; irrigidisce e formalizza
un’organizzazione che resta molto più libera se trattata come associazione di fatto; trascina con sé controlli
statali e analoghi a quelli che lo stato esercita su tutte le persone giuridiche. c) Il meccanismo previsto
dall’ultimo comma dell’art. 39, per cui i sindacati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti,
stipulano contratti collettivi con validità erga omnes si scontrerebbe con problemi insormontabili se, come
spesso avviene, i sindacati per ciascuna categoria sono più di uno in concorrenza fra loro. Questo era

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

particolarmente vero negli anni 50, quando CGIL, CISL e UIL erano più divise di quanto lo siano oggi, ma
resta il fatto che stabilire i criteri per la rappresentanza unitaria di ciascuna categoria non è davvero facile e
riduce in ogni caso la libertà di movimento dei sindacati. Dunque, i sindacati hanno preferito rinunciare ai
problematici vantaggi loro offerti dall’art. 39, secondo comma e seguenti, per meglio garantire la loro totale
e piena indipendenza. È certo che le numerose organizzazioni che unificano e guidano le diverse categorie di
lavoratori indipendenti (es. coltivatori diretti per i contadini proprietari) di per sé non sono sindacati nel
senso dell’art. 39, perché i lavoratori indipendenti (liberi professionisti, etc.) non devono stipulare contratti di
lavoro con una controparte padronale (non entrano in conflitto con una specifica controparte contro cui
rivendicano nuove condizioni di lavoro). È esperienza comune però che anche i datori di lavoro si coalizzano
in organizzazioni unitarie a cui demandano il compito di stipulare i contratti collettivi di lavoro e ogni altra
vertenza con i sindacati dei lavoratori dipendenti. È da chiedersi perciò se anche queste organizzazioni (e
quindi anche le precedenti, se e in quanto artigiani, etc., hanno dipendenti e quindi stipulano anch’essi, come
datori di lavoro, contratti collettivi) sono sindacati e rientrano nella previsione dell’art. 39. La risposta
pacifica è positiva. È certo che, se esistono sindacati di lavoratori dipendenti e sindacati di datori di lavoro,
non esistono oggi nei fatti sindacati misti, cioè sindacati composti contemporaneamente da datori di lavoro e
lavoratori dipendenti. Sindacati misti possono esistere, e sono esistiti, solo dove e quando lo stato ha vietato
la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero, ed ha sovrapposto un suo schema organizzativo
unitario alla realtà conflittuale esistente nei fatti. Tale la situazione durante il fascismo, in cui le corporazioni
erano enti di diritto pubblico che rappresentavano legalmente (non volontariamente) sia datore di lavoro che
lavoratori dipendenti di uno stesso settore. La libertà di organizzazione sindacale per i lavoratori è una
conquista abbastanza recente. Lo stato liberale e lo stato fascista punivano penalmente le coalizioni operaie,
in nome della libertà della concorrenza che le coalizioni avrebbero turbato. In effetti è vero che le unioni
operaie sostituiscono la forza dell’organizzazione all’estrema debolezza dei singoli operai e in questo senso
turbano la spontanea concorrenza che in mancanza di organizzazione si determinerebbe tra i singoli operai.
Però si tratta di una strada obbligata per contrapporre alla forza oggettiva dei proprietari una forza perlomeno
comparabile, che non può esistere nei singoli operai individualmente. In questo caso si riscopre come la
libertà e l’indipendenza garantita dallo stato liberale era la libertà e la indipendenza dei proprietari, cioè dei
borghesi, e solo apparentemente di tutti. La più famosa legge contro le coalizioni operaie è la legge Le
Chapelier del 1791, in piena Rivoluzione francese. La persecuzione contro le organizzazioni operaie rimaste
per buona parte dell’Ottocento, si attenuò verso la fine, ma solo nel ventesimo secolo, la libertà sindacale
ottenne ampio riconoscimento (si tratta di una minoranza di paesi). La libertà di organizzazione sindacale in
Italia è dal punto di vista legale la più ampia immaginabile. Essa è libertà negativa, cioè libertà di non
associarsi a nessun sindacato. Nessuno può essere obbligato ad iscriversi ad un sindacato. Questa regola
renderebbe illegali in Italia esperienze presente negli USA e in Gran Bretagna in cui si rinvengono i closed
shops, cioè fabbriche in cui non si può essere assunti senza essere iscritti al sindacato. Questa esperienza è
una forma di garanzia per i lavoratori contro il dispotismo padronale, ma può tradursi in una garanzia del
potere sindacale contro il singolo lavoratore il quale, se minacciato di espulsione dal sindacato e quindi di
automatico licenziamento, sarà costretto a piegarsi alla volontà del sindacato. Egualmente garantita, dal
punto di vista legale, la libertà di iscriversi a qualunque sindacato con conseguente illiceità di qualunque
misura negativa da chiunque adottata a causa di tale iscrizione. Questa libertà oggi è tutelata sul piano legale
dalla l. n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori), mentre in passato continue erano le rappresaglie padronali per
l’iscrizione a questo o a quel sindacato. Dunque, di per sé la garanzia costituzionale è illusoria: o esiste una
specifica legge con precise e azionabili garanzie, e con la volontà dello Stato di far rispettare queste regole, o
la libertà di associazione sindacale resta facilmente una frase vuota, per quanto contenuta in costituzione.
L’art. 39, primo comma garantisce la libertà non solo di iscriversi a qualsiasi sindacato esistente, ma anche di
fondare nuovi sindacati, senza alcuna limitazione (salvo i sindacati gialli, cioè quei sindacati di lavoratori
fondati, finanziati o sostenuti dai datori di lavoro, che oggi l’art. 17 dello statuto dei lavoratori vieta, con
regola coerente con lo spirito della costituzione e conforme a giustizia). Dunque, è possibile che per la
medesima categoria esistano molti sindacati ed è possibile che i criteri di delimitazione delle categorie siano
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

stabiliti con grande libertà dallo stesso sindacato. Infine, in base all’art. 39 l’attività sindacale è libera quanto
quella di qualsiasi associazione. Per conseguenza i fini del sindacato sono liberi, la sua organizzazione è
rimessa totalmente agli stessi organizzati, i mezzi che può usare sono tutti quelli leciti agli altri soggetti di
ordinamento statali, etc. Affermare che i sindacati sono liberi, e sono egualmente liberi, non vuol dire che,
secondo costituzione, essi devono essere uguali anche nel potere. Tanto che lo stesso art. 39 enuncia
implicitamente il principio per cui non qualsiasi sindacato può stipulare contratti collettivi, ma solo
rappresentanze unitarie composte in proporzione agli iscritti ai diversi sindacati (sindacati con più iscritti,
quindi più potere, e sindacati con meno iscritti, quindi meno potere). Questa distinzione tra libertà e potere
giuridico si ripropone nelle leggi e nella pratica. Tutti i sindacati sono egualmente liberi dagli impedimenti,
ma non tutti possono raggiungere gli stessi risultati giuridici: alcuni possono usare strumenti giuridici non
riconosciuti ad altri. Due sono i principali casi nei quali si verifica una disparità di trattamento tra i sindacati:
l’ammissione al tavolo delle trattative per la stipulazione dei contratti collettivi, con l’ammissione di alcuni e
l’esclusione di altri; la possibilità di costituire nei luoghi di lavoro rappresentanze sindacali con i relativi
poteri, o di diversi sindacati o unitarie tra più sindacati in rappresentanza di tutti i lavoratori di quella unità di
lavoro.

8) I compiti del sindacato: scopo principale del sindacato è quello di stipulare contratti collettivi di lavoro.
Questi contratti vincolano solo gli iscritti al sindacato. In punto di stretto diritto dunque: il contratto
collettivo, una volta stipulato, diventa automaticamente contenuto di ciascun contratto di lavoro individuale
degli iscritti al sindacato stipulante; i non iscritti non vengono toccati da tale contratto di lavoro appunto
perché il sindacato stipulante giuridicamente non li rappresenta. In fatto il contratto collettivo si estende
automaticamente a tutta la categoria considerata nel contratto collettivo, sia perché i sindacati confederali in
Italia si considerano rappresentanti anche dei non iscritti, sia perché i datori di lavoro trovano conveniente a
fini di uniformità e pace interna, estendere anche ai non iscritti i risultati del contratto, sia perché spesso i
giudici tendono a considerare i contratti collettivi il minimo retributivo storicamente determinato cui si
riferisce l’art. 36 cost. Il sindacato assume su di sé tutte quelle iniziative necessarie per assicurare il rispetto
del contratto collettivo, ma il sindacato sempre più è costretto ad investire con la sua azione altri campi, e a
non limitarsi al rapporto di lavoro. Come lo stato e gli enti pubblici intervengono nell’economia, così il
sindacato si rende conto che la condizione generale dei lavoratori è determinata solo in parte dall’immediato
rapporto di lavoro, e per grande parte è determinata da decisioni politiche generali. Il livello dei prezzi,
l’occupazione, etc., dipendono anche da scelte governative e politiche, non solo imprenditoriali. Per questa
ragione il sindacato non solo stipula contratti collettivi di lavoro, ma interviene su tutte le questioni politiche
più importanti e sui programmi governativi, apre vertenze con lo stato per riforme legislative, contratta col
governo e con le pubbliche autorità per ottenere determinate misure e provvedimenti. Questa pratica è stata
legittimata anche dalla Corte costituzionale (sentenze n. 1 e n. 290 del 1974). Infine, i sindacati, di fronte ai
molti enti pubblici che si occupano a vario titolo degli interessi dei lavoratori, hanno ottenuto di entrare a far
parte dei loro organi dirigenti con propri rappresentanti, fino ad essere talvolta maggioranza negli organi
dirigenti di alcuni di essi. Questa tendenza, dominante negli anni 70 e 80, oggi si è invertita, e sempre più
spesso i sindacati hanno deciso di abbandonare queste posizioni di potere.

9) Lo sciopero: l’arma che i lavoratori usano per strappare migliori condizioni di vita e di lavoro è lo
sciopero, cioè l’astensione collettiva dal lavoro. Lo sciopero è in sostanza una guerra (incruenta). I lavoratori
rompono unilateralmente un patto liberamente sottoscritto e, mediante l’astensione dal lavoro
deliberatamente rivolta ad infliggere un danno economico al datore di lavoro, cercano di imporgli nuove
clausole contrattuali a loro più favorevoli. Agli occhi dei borghesi e dei loro giuristi lo sciopero era due volte
illecito: perché costituiva inadempimento di un contratto, e perché costituiva violenza morale diretta a
costringere un contraente a sottoscrivere clausole che egli liberamente non avrebbe sottoscritto e dunque
doveva essere punito come reato. Secondo il giurista liberale, a giustificazione dell’inadempimento dei
lavoratori scioperanti non stavano le cause che giustificano una sospensione della prestazione obbligatoria.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

Così lo sciopero non viene proclamato come ritorsione a causa di un adempimento del padrone (in questo
caso sarebbe giustificato, art. 1460 c.c.); ma lo sciopero è rivolto a rinnovare il contratto modificando le
clausole precedenti. Neppure si può invocare come giustificazione dello sciopero la scadenza del precedente
contratto: spesso lo sciopero viene proclamato prima della scadenza, per concludere il nuovo contratto di
lavoro prima della scadenza del precedente; inoltre è pacifico che la scadenza indicata nei contratti collettivi
di lavoro fissa il termine rispetto a cui sindacati e datori di lavoro si impegnano a non chiedere modifiche del
contratto, ma non significa in alcun modo che alla scadenza il contratto si risolve; anzi, anche se è scaduto, il
vecchio contratto resta in vigore fino a che non venga sostituito. È evidente che né i lavoratori né gli stessi
datori di lavoro hanno interesse a questa risoluzione del contratto di lavoro alla scadenza: i primi vogliono un
nuovo contratto ma intanto preferiscono continuare a lavorare col vecchio piuttosto che trovarsi senza
lavoro; i secondi resistono alle modifiche, ma intanto preferiscono che i dipendenti continuino a lavorare
sulla base del vecchio contratto piuttosto che fermare gli impianti. Dunque, nel momento in cui lo sciopero
viene proclamato, che il vecchio contratto sia o non sia scaduto, non fa differenza perché in ogni caso esiste
un valido contratto di lavoro in corso. Per un giurista liberale inoltre lo sciopero costituiva un tipico caso di
violenza morale: una costrizione a contrattare sotto la minaccia di un danno, comportamento che in generale
rende annullabile il contratto sottoscritto a causa del timore generato da questa violenza (art. 1434 e art. 1435
c.c.). La definizione dello sciopero come astensione collettiva dal lavoro descrive lo sciopero in quanto
comportamento di fatto. Altra cosa è la qualificazione giuridica di questo fatto. Posto che non si ha sciopero
in senso proprio se non c’è concreta astensione collettiva dal lavoro, l’ordinamento giuridico di fronte a
questo fatto può reagire in più modi. L’ordinamento potrebbe qualificare questo comportamento come fatto
penalmente illecito. Se lo sciopero è punito penalmente, lo scioperante va incontro a sanzioni civili per aver
rotto unilateralmente senza giusta causa un contratto da lui sottoscritto e subisce anche conseguenze penali
(es. il carcere). Inoltre, l’ordinamento potrebbe qualificare lo sciopero come fatto solo civilmente illecito: lo
scioperante evita la prigione, ma non evita le ritorsioni di ordine civile da parte del datore di lavoro e quindi
può essere licenziato e può essere condannato a risarcire il danno economico prodotto. In passato dunque lo
sciopero o era punito penalmente (in Italia durante il periodo fascista e in un primo periodo liberale), o (in un
secondo periodo liberale) non riceveva alcuna tutela e quindi lasciava esposto lo scioperante a tutte le
ritorsioni di ordine civile da parte del datore di lavoro. L’ideologia liberale per giustificare la punizione dello
sciopero o la sua qualificazione come illecito civile, doveva muovere dalla finzione del contratto liberamente
sottoscritto da persone uguali ed egualmente indipendenti. La realtà invece era in contrasto con l’ideologia; il
lavoratore non era né libero né uguale né indipendente, in quanto dall’ottenimento di un lavoro subordinato
dipendeva la vita sua e dei suoi cari, mentre invece il datore di lavoro poteva permettersi di non dare lavoro
senza subire danni personali immediati e gravi, o poteva scegliere tra molti postulanti. La sproporzione tra i
due era e resta enorme: nella contrattazione il lavoratore aveva ed ha possibilità di resistenza minori del
datore di lavoro. Per questa ragione i lavoratori hanno sfidato per secoli le leggi repressive dello sciopero, e,
hanno imposto la liceità dello sciopero, come l’unica arma capace di bilanciare lo strapotere padronale, e
capace dunque di offrire ad essi possibilità contrattuali almeno paragonabili a quelle della controparte. Non
solo hanno imposto nei fatti lo sciopero, ma lo hanno imposto come diritto costituzionalmente garantito e
riconosciuto. Dire che lo sciopero è un diritto comporta sul piano legale: a) che non è ammissibile una
sanzione penale; b) che non sono ammissibili neppure sanzioni civili; c) che nessuna conseguenza
sfavorevole può essere adottata a carico dello scioperante (oltre il non pagamento delle ore di sciopero). In
conseguenza il rapporto contrattuale resta valido e lo scioperante non può essere licenziato a causa dello
sciopero. Il diritto di sciopero è come minimo un diritto potestativo mediante il quale un soggetto impone
unilateralmente alla controparte la sospensione del rapporto di lavoro, così che di fronte all’esercizio del
potere sta la soggezione del datore di lavoro che deve subire questo effetto giuridico (rapporto potere
soggezione). Molti contestano la precedente collocazione perché riduttiva: il diritto di sciopero è anche
potere di sospendere il rapporto di lavoro, ma non è solo questo: mediante lo sciopero i lavoratori possono
proporsi anche altri obiettivi: es. premere sul Parlamento affinché approvi una legge per tutelarli. Poiché la
Corte costituzionale ha riconosciuto come costituzionalmente garantito anche lo sciopero politico, non c’è
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

dubbio che il diritto di sciopero è più di un diritto esclusivamente rivolto verso i datori di lavoro. Si tratta
però di uno strano diritto. Lo sciopero è un conflitto. Il diritto di sciopero dunque è il diritto al conflitto. Lo
stato non potendo più vietare la lotta di classe, l’accoglie, ma accogliendola la mistifica. Quello che dovrebbe
essere un male, sia pure necessario, diventa nell’ideologia dominante un bene; il conflitto viene visto come il
modo d’essere necessario della società e per questo viene potenziato a carattere positivo. La società
conflittuale diventa così il modello di ogni società. Il diritto di sciopero viene considerato la più alta libertà
possibile. La società borghese, proclamando lo sciopero come un diritto, e quindi come un diritto al conflitto,
eleva il conflitto, la divisione in classi, a fatto positivo, e quindi tende a perpetuare come positiva la stessa
lacerazione, la stessa divisione in classi. Dunque, lo sciopero non significa il massimo possibile di libertà e di
progresso sociale, ma con la sua esistenza denuncia la crisi della società e la necessità del suo superamento.
Il comunismo, nel progetto proletario, è una società senza sciopero perché la società deve essere così
organizzata che non ve n’è bisogno. L’assenza di scioperi, se costituisce il frutto di una volontà libera, è il
segno di una reale assenza di conflitto sociale: ma l’unica prova effettiva di questa raggiunta pacificazione
sociale rispetto al conflitto di classe sta nel fatto che lo sciopero non è vietato, ma garantito come un diritto.
Solo il non uso liberamente deciso di uno strumento di lotta, che legalmente sarebbe possibile usare,
costituisce la prova che i conflitti di classe sono estinti. Reciprocamente, se l’ordinamento punisce lo
sciopero, è segno che ove mancasse questa punizione lo sciopero vi sarebbe, e dunque è segno che il
conflitto di classe permane, anche se complesso. Il superamento dunque del diritto di sciopero, cioè della
situazione sociale che rende necessario lo sciopero come arma di difesa dei lavoratori, non si avrà
eliminando il diritto di sciopero, ma rendendolo tanto libero quanto si vuole in una struttura sociale che rende
in pratica inutile scioperare, e quindi rovescia questo diritto così esteso quanto si vuole in un non diritto.
Questo è il superamento reale dello sciopero e del diritto di sciopero, perché è il superamento reale del
conflitto che lo genera. Qualsiasi altro tentativo non è che repressione del conflitto, senza eliminarne le
cause. Vedere nello sciopero anziché un conflitto l’esercizio di un diritto è lo strumento ideologico attraverso
cui si cerca di rendere razionale ed evidente la necessità di delimitare il conflitto. La società, legittimando il
conflitto come se fosse un diritto, cerca di esorcizzarlo mediante le regole. Poiché invece lo sciopero non è
un diritto ma una lotta, la legge, che nelle intenzioni dichiarate nell’ideologia dovrebbe essere la misura di un
diritto, e quindi una garanzia per il titolare del diritto, nella realtà diventa la repressione della lotta. Poiché
invece per gli scioperanti lo sciopero deve offendere se vuole essere efficace, ogni legge sullo sciopero
diventa un’arma contro di essi nelle mani dei padroni, ma nello stesso tempo è esposta in ogni momento alla
prospettiva di essere travolta e violata, non appena i rapporti di forza lo permettono. In tutti gli ordinamenti
moderni esistono leggi limitative del diritto di sciopero. Nello stesso tempo, in tutti i paesi, ogni volta che la
lotta lo esige e le forze sono sufficienti, la pressione operaia travolge questi limiti e infrange le leggi
limitative del diritto di sciopero. La realtà cioè si vendica della ideologia. La misura del diritto di sciopero
non sta nelle legge, ma nei rapporti di forza tra le classi. L’art. 40 della costituzione dispone: “il diritto di
sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Il diritto di sciopero nel momento stesso in cui
viene riconosciuto è affidato per la sua misura alle leggi; viene riconosciuto come diritto proprio per essere
regolato. Attualmente è in vigore una legge che limita il diritto di sciopero: la l. 12 giugno 1990, n. 146
(modificata dalla l. 83/2000). Poiché si tratta della prima legge organica approvata dal Parlamento dall’inizio
della Repubblica ad oggi, si constata che per oltre 40 anni il legislatore italiano non ha voluto approvare
leggi organiche sul diritto di sciopero. Nel periodo precedente a questa legge non mancavano limiti al diritto
di sciopero e questi bisogna distinguerli tra limiti posti dalle leggi e limiti ricavati direttamente dalla
costituzione. Per quanto riguarda i limiti posti da leggi, il legislatore repubblicano non aveva abrogato le
norme del codice penale (fascista: entrato in vigore nel 1930) che puniva lo sciopero come reato. Si pose
dunque il problema di come conciliare queste norme con la nuova costituzione che tutelava il diritto di
sciopero. La Corte costituzionale, con ripetute sentenze, o ha dichiarato incostituzionali alcuni articoli, o ha
reinterpretato in modo restrittivo altri articoli, in modo che essi restavano in vigore ma con un raggio di
applicazione molto ristretto (in particolare gli artt. 330 e 333 del codice penale, che hanno consentito di
punire gli scioperi nei pubblici servizi essenziali, sia pure in casi più ristretti rispetto all’intenzione originaria
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

del legislatore fascista, che li voleva punire sempre e comunque). Oggi gli artt. 330 e 333 del c.p. sono stati
abrogati dalla l. 146/90 (lo sciopero nei pubblici servizi essenziali viene limitato da questa legge, ma esso
non comporta più sanzioni penali); qualche altro articolo del c.p. resta in vigore, ma, in forza di una sentenza
della Corte costituzionale, diventa applicabile in casi così eccezionali da apparire quasi di scuola (è punibile
lo sciopero che, per le sue modalità, attenta violentemente alla libertà degli organi costituzionali). Limiti al
diritto di sciopero sono stati posti successivamente per alcune categorie particolari di lavoratori: l’art. 49 del
d.P.R. 13 febbraio 1964, n. 185, pone limiti allo sciopero negli impianti nucleari; l’art. 4 della l. 242/80 pone
limiti allo sciopero dei controlli del volo aereo; l’art. 8 della l. 382/78 vieta lo sciopero degli appartenenti al
corpo della Polizia di Stato. Lo sciopero degli appartenenti alla Polizia di Stato intanto viene vietato in
quanto con la legge citata del 1978 il corpo della pubblica sicurezza fu trasformato da corpo militare in corpo
civile. Lo sciopero non è ammesso per gli appartenenti alle forze armate ed è pacifico che a queste non si
applica l’art. 40 della costituzione. I giudici italiani si sono chiesti che cosa vuol dire sciopero, quindi quando
c’è sciopero, e tutela costituzionale, e quando non c’è sciopero, e quindi assenza della tutela prevista dall’art.
40 cost. I giudici hanno cercato di delimitare lo sciopero costituzionalmente legittimo attraverso due criteri:
scioperi illegittimi per il fine perseguito, perché diverso da quello implicitamente tutelato dalla costituzione;
scioperi illegittimi per la loro modalità, perché giudicati contrari al modo giusto di scioperare previsto
implicitamente dalla costituzione. Rispetto al primo punto vi sono state molte sentenze che hanno giudicato
non tutelati dalla costituzione gli scioperi di solidarietà (perché rivolti a difendere non gli interessi economici
degli scioperanti, ma gli interessi di altri lavoratori in aiuto dei quali si decideva di scioperare), gli scioperi
economico sociali (fatti per chiedere riforme legislative, quindi diretti non contro i datori di lavoro, ma nei
confronti del legislatore), quelli politici (gli scioperanti non chiedono vantaggi economici, ma intendono
sostenere con lo sciopero lotte politiche). Con la sentenza n. 290/74 la Corte costituzionale ha dichiarato che
l’art. 40 della costituzione tutela anche lo sciopero politico e quindi quello di solidarietà e quello economico
sociale. In conclusione oggi sono tutelati gli scioperi di solidarietà, quelli economico sociali, quelli politici.
Per quanto riguarda le modalità dello sciopero, spesso alcuni giudici hanno sostenuto e sostengono che lo
sciopero non deve procurare al datore di lavoro danni eccessivi, o che le modalità dello sciopero devono
essere leali: in nome di questi principi quindi vengono dichiarati illegittimi gli scioperi a scacchiera (quando
scioperano piccoli gruppi di lavoratori a turno, scelti in modo da bloccare di fatto il lavoro anche di altri che
non sono in sciopero in quello stesso momento); quelli a singhiozzo (quando i periodi di sciopero e di non
sciopero sono molto brevi e ravvicinati, così che la produzione non ha mai il tempo di riprendere); quelli a
rendimento (quando si lavora, ma abbassando i ritmi); etc. Passiamo ora ad una breve illustrazione della
legge 146/90 (modificata dalla l. 83/00). Per decenni i sindacati e i lavoratori dipendenti hanno impedito che
i partiti approvassero in Parlamento leggi organiche e generali sul diritto di sciopero. Negli anni
l’atteggiamento dei partiti e degli stessi sindacati è cambiato perché gli scioperi nei servizi pubblici sono
divenuti sempre più costosi, ingovernabili e perché soprattutto nei servizi pubblici si sono moltiplicati i
sindacati autonomi, con conseguente incapacità di direzione dei lavoratori di tali settori da parte delle
confederazioni. La l. 146/90 è il risultato di questo diverso atteggiamento. Essa riguarda solo i lavoratori dei
servizi pubblici definiti essenziali dalla legge, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto di
lavoro, se di diritto pubblico o di diritto privato: riguarda i dipendenti di imprese private e i dipendenti di enti
pubblici, i quali lavorano nei servizi pubblici essenziali. La legge elenca i servizi pubblici essenziali e li
divide in 5 gruppi: a) quelli diretti a tutelare la vita e la salute, quali l’assistenza sanitaria, la raccolta lo
smaltimento dei rifiuti, etc.; b) quelli diretti a tutelare la libertà di circolazione: es. tutti i tipi di trasporto
delle persone; c) quelli diretti a tutelare l’assistenza e previdenza sociale (l’assegnazione di pensioni); d)
quelli che riguardano l’istruzione (es. gli scrutini scolastici a fine anno); e) quelli che riguardano la libertà di
informazione e comunicazione: poste, radiotelevisione, telecomunicazioni. I lavoratori di questi servizi
possono scioperare, ma devono rispettare tre limiti fondamentali: 1) devono garantire l’erogazione di
prestazioni minime indispensabili, questo vuol dire che i lavoratori della sanità o dei trasporti possono
scioperare, ma alcuni servizi essenziali (es. il pronto soccorso), devono continuare a funzionare; 2) devono
dare un preavviso minimo al pubblico, e quindi esiste divieto di scioperare prima che sia trascorso questo
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

periodo minimo (10 giorni dice la legge); 3) devono indicare preventivamente la durata dello sciopero. Il
punto più delicato riguarda il modo di determinare le prestazioni minime indispensabili che devono
comunque essere garantite. La legge prevede che siano i datori di lavoro e le organizzazioni sindacali a
concordare queste prestazioni che, una volta valutate idonee da una commissione di garanzia prevista dalla
legge, diventano obbligatorie per tutti. In caso di mancato accordo, o di accordo non soddisfacente dal punto
di vista degli utenti, la legge prevede che intervenga la commissione di garanzia con regolamentazioni
provvisorie, le quali restano in vigore fino a che le parti non raggiungono un accordo valutato idoneo sempre
dalla commissione. La l. 83/00 ha esteso la disciplina sui servizi pubblici essenziali anche ai lavoratori
autonomi, con regole e meccanismi uguali o simili a quelli ora visti.

10) Il diritto di proprietà: l’art. 42 dispone che: “la proprietà è pubblica o privata. I beni economici
appartengono allo stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne
determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di
renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo,
espropriata per motivi di interesse generale. La legge stabilisce le norme e i limiti della successione legittima
e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità”. Dunque, la costituzione riflette il processo storico per cui
diritti di libertà e proprietà non sono più considerati termini inscindibili, come invece accadeva nello stato
liberale. Mentre lo statuto albertino garantiva la proprietà insieme agli altri diritti di libertà e la definiva
inviolabile (art. 29), la nostra Costituzione separa la proprietà dai diritti di libertà anche nella collocazione
materiale entro il testo costituzionale, e mentre continua a definire i secondi inviolabili, non definisce più
inviolabile la proprietà. Si può concludere che la proprietà privata, secondo costituzione, è meno garantita
dei diritti di libertà, o può incontrare limiti maggiori. La costituzione dicendo che la legge determina i modi
di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di etc., conferma e legittima quello che la legislazione
ordinaria ha reso evidente, il fatto cioè che non esiste oggi una forma uniforme e unitaria di proprietà, ma
molte forme di proprietà, quante sono le categorie di beni individuate e diversamente disciplinate dal
legislatore. Riconosciuto dunque che spetta alla legge ordinaria conformare le diverse forme di proprietà, la
garanzia della proprietà privata non sta solo nella legge ordinaria, perché la costituzione pone pur sempre
alcune regole inderogabili. In particolare: a) l’esistenza della proprietà privata è ammessa e garantita dalla
costituzione: la legge ordinaria non può abolire la categoria proprietà privata; nonostante i limiti che voglia
imporre ad essa. b) A tutela di questo principio la costituzione dispone direttamente una garanzia
costituzionale a vantaggio della proprietà: la proprietà privata può essere espropriata solo nei casi previsti
dalla legge e salvo indennizzo, cioè il pagamento di una somma di denaro che compensi il danno economico
subito dall’espropriato. La proprietà privata secondo costituzione non può essere tolta coattivamente senza
ricostituirla immediatamente in altra forma. L’istituto dell’espropriazione dunque mentre sembra essere il
limite maggiore e più incisivo della proprietà privata, si rivela una garanzia fondamentale della sua esistenza.
Due sono le questioni più importanti e delicate che si pongono: 1) quando c’è espropriazione della proprietà
privata? 2) Quale deve essere la misura dell’indennizzo? Espropriazione in senso stretto è il provvedimento
amministrativo col quale un soggetto pubblico che ne ha il potere sottrae un bene al proprietario privato per
attribuirlo in proprietà ad un altro soggetto a fini di pubblica utilità. Con l’espropriazione si annulla uno
specifico diritto di proprietà di un concreto soggetto privato e sorgono al suo posto due diverse proprietà:
una, pubblica o privata secondo i casi, del soggetto a cui viene assegnato il bene espropriato, e una seconda,
privata, del soggetto espropriato che, attraverso l’indennizzo, può acquistare una nuova proprietà equivalente
a quella espropriata. Ci sono altre possibili vicende che diminuiscono in modo rilevante il valore e la
disponibilità di un bene in proprietà. Il bene non viene tolto, ma, a causa del provvedimento di una pubblica
autorità competente, il suo valore economico o la possibilità di goderlo diminuiscono. I provvedimenti che
limitano il diritto di proprietà privata, temporaneamente o definitivamente, pur senza toglierlo, sono
espropriazioni ai sensi dell’art. 42 cost. Le autorità pubbliche non possono indennizzare tutti i proprietari che
subiscono un qualche danno a causa dei provvedimenti e delle leggi da esse adottate. Se esse dovessero
indennizzare tutti i proprietari di aree a causa dei limiti di edificabilità previsti dai piani regolatori, non

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

basterebbe il bilancio dello Stato. D’altra parte, appare ingiusto indennizzare il proprietario spogliato della
sua proprietà e non lo stesso che temporaneamente si vede sottratta la disponibilità del bene di cui resta
proprietario. La Corte costituzionale distingue tra due tipi di limiti: i limiti generali, relativi ad ogni proprietà
o a intere categorie di beni, che costituiscono modo d’essere di tali proprietà, così che la proprietà in questi
casi nasce contestualmente limitata: queste limitazioni del diritto di proprietà non sono indennizzabili perché
rientrano in quei limiti alla proprietà privata previsti dalla costituzione (categorie di beni che secondo la
legge incontrano per loro natura limiti specifici che altre proprietà non incontrano); i limiti del secondo tipo,
indennizzabili, sono quelli che vengono imposti di volta in volta, discrezionalmente, dalla p.a. rispetto a
specifiche proprietà, così che entro la stessa categoria di beni, le proprietà di alcuni vengono diminuite
rispetto a quelle di altri (es. l’imposizione di servitù militari). Per quanto riguarda la misura dell’indennizzo
la nostra costituzione non ripete la formula dello statuto albertino (art. 29) e quella del codice civile (art.
834), secondo cui l’indennizzo doveva essere corrispondente al valore di mercato del bene espropriato;
l’indennità, come ritiene anche la Corte costituzionale, può essere inferiore al valore di mercato del bene,
purché però non sia puramente simbolica, ed anzi costituisca un serio ristoro. La Corte costituzionale, che
inizialmente adottava il criterio dell’indennizzo non simbolico, negli ultimi anni ha adottato il criterio del
serio ristoro, schierandosi dalla parte dei proprietari contro i timidi tentativi del legislatore di limitare la
proprietà privata (significativa in questa direzione la sentenza 5/80). La costituzione, come il codice civile,
non distingue espressamente tra proprietà dei mezzi di produzione e proprietà dei beni di consumo. Non si
tratta di distinguere tra beni che sono per loro natura mezzi di produzione e beni che per loro natura sono
mezzi di consumo, in quanto la distinzione sarebbe impossibile, ma distinguere tra quei beni che in concreto
sono stati destinati a fungere da mezzi di produzione, e quei beni che concretamente vengono usati come
mezzi di consumo privato. Questa distinzione, di enorme importanza nei rapporti economici, è sconosciuta al
diritto, che tratta allo stesso modo tutte le proprietà. Così la definizione di proprietà contenuta nel codice
civile (art. 832) ignora la distinzione: “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno
ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. La
distinzione si ripresenta in casi particolari. L’art. 43 della costituzione muove da questa distinzione perché
esso prevede una particolare espropriazione, che non è soltanto di beni ma di imprese, cioè di attività
economiche organizzate, dunque di beni necessari a svolgere tali attività. Sono sempre più frequenti i casi in
cui il legislatore deve scegliere tra tutela della proprietà e tutela dell’impresa, ogni volta che l’impresa si
avvale di mezzi di produzione in proprietà di persone estranee all’impresa. La tendenza è quella di favorire
l’impresa (quindi la produzione e il lavoro subordinato) anche a danno della proprietà. Indirettamente dunque
la distinzione tra mezzi di produzione e beni di consumo si fa valere attraverso i maggiori o diversi limiti che
la proprietà dei mezzi di produzione incontra rispetto ai limiti cui vanno soggette le proprietà dei beni di
consumo. Nell’art. 832 la proprietà viene definita in negativo come signoria (quasi) assoluta e (quasi)
esclusiva su una cosa: il proprietario rispetto alla cosa in proprietà può tutto, eccetto quei pochi e tassativi
comportamenti vietati dall’ordinamento giuridico. Il codice civile concede al proprietario il più ampio potere
immaginabile, perché configura questo potere come indeterminato, non circoscritto in positivo, ma solo in
negativo. Il codice civile non elenca ciò che il proprietario può fare, ma dice al contrario che può fare tutto
rispetto alle cose in sua proprietà, salvo ciò che è vietato. Ricorre qui la classica figura del lecito
contrapposta a quella del legittimo. Il codice civile poi coglie i due aspetti fondamentali di ogni diritto di
proprietà: l’aspetto interno, col quale il rapporto tra proprietario e cosa in proprietà si esaurisce nel
godimento esclusivo della cosa da parte sua; e l’aspetto esterno, col quale il proprietario può disporre della
sua proprietà, cioè entrare in rapporto con altri soggetti attraverso la cosa di cui è proprietario; col quale la
cosa in proprietà diventa oggetto di scambio. Questi due aspetti del diritto di proprietà corrispondono in
termini marxiani al valore d’uso della cosa e al suo valore di scambio, cioè la qualità utile di una cosa per chi
la usa e il rapporto in termini di prezzo tra la cosa e le altre cose utili. In questo modo si coglie il duplice
carattere della proprietà borghese, che separa il proprietario da tutti i non proprietari rispetto alla medesima
cosa e dunque garantisce l’indipendenza del primo rispetto a tutti gli altri; dall’altro lato la proprietà
borghese mette in rapporto il proprietario con tutti gli altri proprietari mediante lo scambio, così garantisce
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

una specifica forma di legame tra tutti e dunque una specifica forma di società. Come si vede si tratta di una
società fondata sullo scambio, e dunque sulla proprietà delle cose da scambiare: la società borghese è fondata
sullo scambio universale. Questa universalità dello scambio è divenuta reale quando anche la forza lavoro è
divenuta una merce, così che lo scambio caratterizza non solo la circolazione delle merci, ma la loro stessa
produzione attraverso lo scambio tra capitale e forza lavoro; però lo scambio non è un qualsiasi dare ed avere
tra due soggetti, ma quel dare e avere mediato dal mercato ed espresso in termini di prezzo delle cose
scambiate. Una tale società fondata sullo scambio esige come sua condizione di equilibrio che tutti siano
proprietari, e tutti abbiano proprietà equivalenti, perché solo così viene garantita sia indipendenza di tutti sia
l’uguaglianza di tutti nello scambio. Questa esigenza si manifesta ideologicamente ancora oggi allorché la
proprietà privata viene proclamata un valore, che ha una funzione sociale e a cui tutti devono poter pervenire.
Tutte le rivoluzioni borghesi hanno distrutto la proprietà della chiesa e le proprietà nobiliari, perché queste
particolari forme di proprietà precapitalistiche impedivano lo scambio delle cose in loro proprietà e
sottraevano al mercato immense ricchezze congelate in patrimoni che non circolavano più tra gli individui.
Nello stesso tempo, attraverso il mercato e a causa del mercato, nascono i non proprietari. Si tratta di un
movimento contraddittorio che ha costituito il motore interno della moderna società borghese. L’esigenza
della società fondata sullo scambio mercantile che tutti siano ugualmente proprietari conduce al suo
contrario: solo pochi sono realmente proprietari e tutti sono profondamente disuguali. Con l’affermarsi del
modo di produzione capitalistico, anche la forza lavoro viene trattata come una merce sul mercato. I proletari
non hanno alcuna reale proprietà sulle cose utili, e l’unica loro proprietà, la forza lavoro, è cosa diversa dalla
proprietà sulle cose, come l’esperienza dimostra ogni giorno, nonostante la pretesa dell’economia e della
borghesia di parificare proprietà sulle cose e proprietà della forza lavoro: la lotta operaia fa riemergere con
forza la verità, per cui nella società borghese esiste non uguaglianza nella proprietà, ma profonda
diseguaglianza. Vi è stato un moltiplicarsi dei limiti alla proprietà privata; poiché tali limiti non sono quasi
mai generali per tutte le proprietà, ma alcuni riguardano le proprietà su determinate categorie di beni, altri
limiti riguardano altre proprietà su altre categorie di beni, etc., ne risulta non più una categoria unitaria e
generale proprietà, ma tante proprietà diverse quante sono le categorie di cose individuate dalle leggi,
ciascuna con limiti particolari e specifici, sia per quanto riguarda il godimento sia per quanto riguarda il
potere di disposizione delle cose in proprietà. Va ricordato il grande sviluppo della distinzione tra proprietà e
controllo, che dalla realtà economica si è trasferita nelle leggi e nella riflessione teorica. Sono sempre più
frequenti i casi in cui i proprietari dei beni usati sono certe persone, e i reali utilizzatori di essi sono altre
persone, con i connessi problemi di rapporti e conflitti tra le due serie di soggetti (si pensi alle società per
azioni e alla distinzione tra azionisti e dirigenti della società).

11) Proprietà e iniziativa pubbliche: l’art. 42 della costituzione, dicendo che la proprietà è pubblica o
privata è ingannevole. Esso dice che anche lo stato e gli altri enti pubblici possono essere proprietari, ma non
dice nulla quanto alla qualità della proprietà degli enti pubblici. Lo stato e gli enti pubblici sono proprietari in
due modi diversi. L’ente pubblico può essere proprietario allo stesso modo di un privato, e quindi la sua
proprietà è una proprietà privata dell’ente pubblico, che segue il regime giuridico proprio di tutte le proprietà
private. Viceversa, l’ente pubblico può usare e/o disporre di alcune categorie di beni secondo un regime
giuridico diverso da quello proprio della proprietà privata, così che in questo caso la proprietà è una proprietà
pubblica dell’ente pubblico. Va fatta distinzione tra proprietà pubblica in senso soggettivo e proprietà
pubblica in senso oggettivo: nel primo caso la proprietà, che è in sé privata, appartiene ad un ente pubblico;
nel secondo caso è la stessa proprietà a rivestire un carattere pubblicistico. La distinzione ora esposta si
ritrova rispetto all’iniziativa economica pubblica. Che questa possa esistere è pacifico e garantito dalla
costituzione (art. 41, 3° comma). Ci riferiamo non a qualsiasi potere dell’ente pubblico nei rapporti
economici, ma a quella specifica forma di intervento per cui lo stato, e gli enti pubblici in generale,
producono e vendono beni e servizi sul mercato, o in concorrenza con i privati o in regime legale di
monopolio. Le figure principali attraverso cui lo stato e gli enti pubblici rappresentativi possono entrare nel
mercato sono tre. A) Strutture produttive formalmente interne allo stato, dotate di ampia autonomia

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

gestionale: le imprese-organo, che a livello statale ricevono il nome di aziende o amministrazioni autonome
(es. l’ANAS); a livello comunale vi erano le aziende municipalizzate, che oggi sono o enti pubblici dotati di
personalità giuridica, e rientrano quindi nel secondo gruppo o società per azioni. B) Enti pubblici, e quindi
persone giuridiche pubbliche formalmente separate dallo stato, sia pure sotto controllo statale nei modi
previsti dalla legge istitutiva: imprese-enti (vi rientrava l’ENEL, oggi trasformata in società per azioni e
privatizzata). C) Imprese formalmente private, costituite nella forma delle società per azioni, le cui azioni
sono in proprietà o direttamente dello Stato o di apposito ente pubblico sotto controllo dello Stato: le imprese
con partecipazione statale. In conclusione: 1) mentre dal 1929 al 1992 si è avuto dapprima l’ingresso di
soggetti pubblici entro la produzione ed il mercato, e poi l’accrescimento e il rafforzamento di tale intervento
diretto, dal 1992 si assiste allo smantellamento di questo modo di intervento statale nell’economia. 2)
Restano le partecipazioni statali come nome che indica il fatto che talvolta lo stato è proprietario di azioni di
società per azioni. 3) È cessato il sistema delle partecipazioni statali, e sono pressoché scomparsi gli enti
pubblici economici. 4) È iniziata la politica di progressiva diminuzione delle partecipazioni statali, con la
vendita ai privati delle azioni di proprietà pubblica. 5) In principio le figure dell’ente pubblico economico e
dell’azienda autonoma statale restano, sia perché rimangono esempi di tali figure sia perché esse restano
come possibilità, se domani un nuovo indirizzo politico volesse usare questi strumenti di intervento e creare
nuovi soggetti pubblici economici, uguali o simili a quelli precedenti.

12) Il mercato, la concorrenza, le autorità indipendenti: la costituzione italiana, tutelando la proprietà


privata, soprattutto la proprietà privata dei mezzi di produzione, e la libertà di iniziativa economica privata,
ha sancito quanto è necessario per riconoscere l’esistenza ed il dominio in campo economico del mercato,
della concorrenza nel mercato, del capitalismo. Nessuno ha mai potuto dubitare che l’Italia fosse inserita a
pieno titolo entro il mercato internazionale e che in Italia fosse dominante un modo di produzione del tutto
simile a quello esistente negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, e cioè in quello che viene chiamato il
mondo occidentale. Oggi però sta mutando sempre più il rapporto tra settore pubblico e settore privato, tra
spazio del mercato e spazio non di mercato, tra ideologie ed ideali che dominavano in assemblea costituente
ed hanno dominato per decenni nella storia repubblicana ed ideologie e valori che dominano oggi. Mentre in
passato forze politiche e sociali esaltavano il momento politico dell’intervento pubblico al fine di correggere
i guasti che il mercato a loro parere inevitabilmente avrebbe prodotto, e quindi sostenevano tutta quella parte
della costituzione che prevede gli strumenti di intervento pubblico, e tutte quelle forme organizzative che
erano state storicamente create, in Italia; oggi un poderoso vento neoliberista addita al pubblico disprezzo
tutte quelle forme, ed è riuscito a smantellare quasi del tutto l’imponente sistema di intervento pubblico
precedente, cercando di imporre il dominio incontrastato del mercato, anche in campi e settori che erano stati
sottratti ad esso. Il mercato però ha bisogno di regole, affinché resti libero e concorrenziale, e di guardiani
affidabili di tali regole. Questo spiega il moltiplicarsi delle autorità indipendenti, e di figure che sono molto
simili ad esse, e la scomparsa di figure organizzatorie proprie del precedente sistema di governo
dell’economia. Sono autorità indipendenti quelle autorità pubbliche che da un lato hanno poteri di
regolazione, e/o di sorveglianza, e/o di controllo preventivo e successivo, e/o poteri sanzionatori
relativamente a soggetti, atti ed attività entro specifici settori, e dall’altro sono quasi totalmente svincolate
dagli organi rappresentativi, non solo da quelli direttamente rappresentativi, ma anche da quelli
indirettamente rappresentativi quale il governo. Queste autorità diventano soggetti che rispondono non più al
popolo ed ai suoi rappresentanti, ma agli interessi settoriali che esse regolamentano ed amministrano, e
realizzano un’automatizzazione del potere economico rispetto al potere politico, tanto più grande quanto più
tali autorità solo apparentemente sono nazionali, e si collegano con le corrispondenti autorità di altri stati,
fino a creare una rete sovranazionale di poteri che devono corrispondere alle attese ed ai bisogni dei mercati
finanziari ed industriali internazionali. Oggi il potere economico si libera dello Stato sociale (cioè del
tentativo in parte riuscito da parte del potere politico di governare l’economia a fini sociali), e tenta di
affermare il proprio dominio totalitario anche sulla politica. Questo vuol dire ritorno alla politica
ottocentesca intesa come tutela dell’ordine pubblico nazionale ed internazionale; significa tornare allo stato

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

guardiano di notte, il cui compito è quello di mantenere l’ordine mediante la forza, essendo tutto il resto
compito del mercato, libero ed indipendente. Vanno considerate autorità indipendenti almeno le seguenti: la
Banca d’Italia, la quale, anche se non riceveva questo nome, costituisce il modello ed il primo e risalente es.
di tale figura (la Banca d’Italia se resta indipendente nei confronti delle autorità italiane, non lo è nei
confronti della banca centrale europea); l’autorità garante della concorrenza e del mercato (l. 10 ottobre
1990, n. 287); la commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB): l. 7 giugno 1974, n. 216 e
modifiche successive; l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni (l. 31 luglio 1997, n. 249, che prende il
posto del garante per la radiodiffusione e l’editoria disciplinato dalla l. 223/90) anche se questa autorità ha
compiti che vanno oltre il mercato; la commissione di garanzia sull’esercizio del diritto di sciopero nei
servizi pubblici essenziali (l. 12 giugno 1990, n. 146); le autorità per i servizi di pubblica utilità previsti dalla
l. 14 novembre 1995, n. 481.

13) Conclusioni riassuntive sul rapporto tra Stato ed economia nel diritto: riassumendo i modi e le
forme di intervento dello Stato nell’economia: 1) lo stato può usare la leva fiscale, aumentando o diminuendo
le imposte, gravando di più su certe imposte e forme di reddito e meno su altre, etc. Si tratta di uno strumento
che in Italia funziona prevalentemente verso l’alto (aggravando le imposte) e sempre a danno delle fasce di
reddito più basse, sia per la rigidità del bilancio dello Stato che non consente diminuzioni delle imposte, sia
per l’evasione fiscale, sia per l’ingiusto carico dell’imposta che pesa molto di più sui redditi da lavoro
dipendente. 2) Lo stato può manovrare le sue spese, aumentando o diminuendo gli investimenti, controllando
la loro direzione, aumentando o diminuendo i consumi pubblici, i trasferimenti, etc. 3) Lo stato italiano
poteva agire attraverso la Banca d’Italia ed il sistema bancario, e cioè usando lo strumento monetario e
creditizio (oggi non è più nella disponibilità dello Stato italiano). 4) Lo stato può intervenire attraverso il
diretto intervento sul mercato, producendo e vendendo merci e servizi, dirigendo e controllando i diversi tipi
di enti pubblici economici e le partecipazioni pubbliche in imprese formalmente private. 5) Lo stato
interviene attraverso svariati meccanismi di controllo ora sui prezzi, ora sulle localizzazioni delle imprese,
etc., strumenti attraverso i quali il potere pubblico introduce dentro il mercato diversi momenti autoritativi al
fine di prevenire o correggere effetti del mercato ritenuti dannosi e inopportuni (es. aumento eccessivo dei
prezzi). 6) Lo stato affida ad autorità indipendenti la regolazione ed il controllo di interi settori economici.
Un tempo, tutti gli strumenti da 1 a 5 venivano visti come parti essenziali della programmazione, cioè di un
previo piano generale che doveva indicare per un certo periodo obiettivi e mezzi, come schema di
riferimento al quale rapportare volta a volta i singoli strumenti di intervento pubblico e rispetto al quale
misurare la loro coerenza ed efficacia. Oggi, in tempi di esaltazione del libero mercato, la parola
programmazione è scomparsa.

APPENDICE 1

Sugli strumenti di ricerca

1) Come si cercano le norme giuridiche: dato che in un paese come l’Italia la norma giuridica è quella
scritta dal legislatore, ogni indagine deve partire dalla lettura e interpretazione delle proposizioni vincolanti
scritte dal legislatore negli atti ufficiali destinati a questo scopo. Distinguiamo tra pubblicazioni legali e
pubblicazioni di fatto (senza valore legale). Le pubblicazioni legali sono quelle a cui l’ordinamento
attribuisce l’efficacia di testo ufficiale per cui: a) le regole approvate dal legislatore non diventano
obbligatorie se prima non sono state pubblicate in quella forma legale predeterminata; b) le regole
obbligatorie sono solo quelle scritte in tale pubblicazione. Qualsiasi altra pubblicazione di fatto riporta il
testo contenuto nella pubblicazione legale. Pubblicazioni legali sono: 1) per gli atti normativi dello Stato
(leggi costituzionali, leggi ordinarie, etc.) la raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica Italiana
(pubblicazione annuale; il nome attuale, e la nuova disciplina, sia per questa raccolta che per la Gazzetta
Ufficiale, sono stati introdotti con la l. 11 dicembre 1984 n. 839: prima si chiamava raccolta ufficiale delle
leggi e dei decreti della Repubblica italiana) e la Gazzetta Ufficiale, che è un giornale quasi quotidiano il
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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

quale riporta i testi di tutte le leggi ordinarie, dei decreti con forza di legge, dei decreti amministrativi più
importanti, di avvisi e comunicazioni ufficiali di autorità statali, etc. (dunque non si trovano solo atti
normativi). Ogni volta che è necessario risalire al testo ufficiale vigente, si consulta la Gazzetta Ufficiale. Gli
inconvenienti di questo tipo di ricerca sono di due tipi: se non si conosce già il numero e/o la data della legge
o del decreto ricercato, diventa difficile ritrovare l’atto normativo che ci interessa, giacché bisogna scorrere a
ritroso tutte le gazzette; in genere nella ricerca si muove dal fatto che non si sa se e quante norme vigono in
una certa materia, così che il ricercatore, specie se inesperto, dovrebbe leggere alla lettera tutte le norme
contenute nelle gazzette del più gran numero di anni andando a ritroso. Per queste ragioni nell’uso
quotidiano si ricorre a strumenti predisposti da editori privati, molto più maneggevoli. 2) Per i regolamenti e
gli altri atti delle comunità europee la pubblicazione legale è la Gazzetta Ufficiale dell’unione europea. 3)
Per le leggi e i regolamenti regionali la pubblicazione legale è quella sul bollettino ufficiale di ciascuna
regione, che costituisce nella regione l’equivalente della Gazzetta Ufficiale. 4) A livello provinciale e
comunale le pubblicazioni legali avvengono sull’albo pretorio della provincia o su quello del comune (è
relativamente facile trovare la G.U. e i bollettini ufficiali delle regioni, è molto difficile invece reperire
pubblicazioni che riportano atti degli enti locali minori). 5) Le consuetudini vengono pubblicate nelle
raccolte ufficiali curate dal ministero dell’industria e dalle camere di commercio; dato che le consuetudini
sono fonti non scritte, le raccolte ufficiali hanno solo valore conoscitivo e processuale, fino a prova contraria.
Vi sono pubblicazioni periodiche che riportano gli atti normativi dello Stato e delle regioni accompagnandoli
con indici: indici per numero dell’atto, per data, per materia. Quest’ultimo consente di trovare l’atto
normativo che ci interessa quando non se ne conosce né data né numero. Vi sono poi i codici. Bisogna
distinguere tra i codici in senso proprio e i codici curati da privati. I primi sono atti complessi ufficialmente
chiamati così dal legislatore che li ha approvati: codice civile, codice penale, codice di procedura civile,
codice di procedura penale, codice della navigazione, codice penale militare di pace, codice penale militare
di guerra. Vi sono poi pubblicazioni a cui di regola si dà il nome di codice che sono però raccolte ordinate
sistematicamente di molte leggi vertenti su una stessa materia, curate da specialisti. Queste pubblicazioni
presentano grandi vantaggi: danno la quasi certezza di riportare tutte le leggi vigenti in una certa materia,
aggiornate fino all’anno di pubblicazione del volume e riportano queste leggi in modo ordinato, secondo un
filo logico quale risulta dall’indice sistematico e dalla disposizione tipografica; infine sono corredate da
indici che consentono il rapido reperimento delle norme che interessano. Trattandosi di comodi volumi ben
ordinati, costituiscono lo strumento principale di uso quotidiano degli operatori del diritto. Queste
pubblicazioni invecchiano: vengono bensì pubblicate frequentemente appendici di aggiornamento o nuove
edizioni aggiornate, ma è impossibile che esse seguano giorno per giorno la produzione normativa. Per
questa ragione quando si compie una ricerca bisogna integrare i codici curati da privati con la consultazione
di quelle pubblicazioni che coprono il periodo più recente che va dall’edizione del codice al momento della
ricerca. Vi sono anche raccolte generali di legislazione continuamente aggiornate. Si tratta di pubblicazioni
in molti volumi che riportano tutte le leggi più importanti e usuali. Gli atti normativi si citano ricordando
almeno l’anno e il numero, ma più spesso riportando per intero la data. Se si cita una specifica regola
contenuta in un atto normativo, bisogna citare anche l’articolo che la contiene, e spesso è bene citare anche il
comma. Si chiama articolo ciascuna parte interna all’atto normativo individuata dal legislatore mediante un
numero progressivo. Si chiama comma ciascuna parte dell’articolo che comincia graficamente con un “a
capo” (l’ultimo comma si cita con le iniziali u.c.).

2) Come si cercano le sentenze dei giudici: anche rispetto alle sentenze bisogna distinguere tra la
pubblicazione legale della sentenza e quella a fini puramente conoscitivi curata da privati. In generale le
sentenze, atti scritti e sottoscritti dal giudice, sono pubblicate con il deposito in cancelleria (ufficio servente
presso ciascun ufficio giudicante). Da quel momento decorre l’efficacia della sentenza e tutti possono
chiedere copia di essa per conoscenza. Fanno eccezione le sentenze della Corte costituzionale che, pur
venendo anch’esse depositate in cancelleria, vengono però pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale. La
pubblicazione mediante deposito in cancelleria nei fatti interessa solo i diretti interessati (ad es. da essa

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

decorrono i termini per impugnare la sentenza); per tutti gli altri questa pubblicazione è inesistente, dato che
non si tratta di una vera e propria pubblicazione in molte copie generalizzabile al pubblico. Siccome però gli
operatori del diritto hanno interesse a conoscere le sentenze dei giudici, da secoli i privati hanno provveduto
a questo bisogno mediante pubblicazioni periodiche. Vi sono dunque moltissime riviste che riportano le
sentenze dei giudici. Vengono pubblicate tutte o quasi tutte le sentenze della Cassazione perché le
interpretazioni della Cassazione diventano quelle che si impongono agli altri giudici ordinari; e tutte o quasi
tutte le sentenze di quei giudici speciali che egualmente svolgono compiti analoghi alla Cassazione (es. il
Consiglio di Stato). Degli altri giudici vengono riportate le sentenze più significative, per i problemi nuovi
che sollevano, per il conflitto con altre interpretazioni che mostrano, etc. Ci sono riviste generali, che
pubblicano sentenze di diverse giurisdizioni e su qualsiasi materia, e riviste specializzate, che pubblicano
solo le sentenze relative a certe materie o provenienti da un solo giudice. Ogni sentenza si divide nella
motivazione in fatto (il giudice ricostruisce i fatti), nella motivazione in diritto (il giudice motiva la sua
decisione sulla base dei fatti e delle norme), e nel dispositivo, che conclude la sentenza ed è la vera
decisione. Dal dispositivo e dalla motivazione in diritto viene tratta la massima, cioè il principio o i principi
di diritto che si ricavano dalla sentenza e che rappresenta l’aspetto più importante. Queste massime vengono
in genere ricavate dai redattori della rivista e vengono stampate in testa alla sentenza che si pubblica; ci sono
però massime per così dire ufficiali, elaborate dall’ufficio massimario della Cassazione. Le massime della
Cassazione sono state e vengono oggi memorizzate mediante elaboratore elettronico ed è possibile, mediante
terminali autorizzati, ottenere l’indicazione e la stampa delle massime relative ad una certa materia. Vediamo
come si conduce una ricerca di giurisprudenza. Ipotizziamo che il ricercatore non sappia se e quali sentenze
esistono rispetto alla questione che gli interessa. Tutte le riviste giurisprudenziali hanno un indice in cui
indicano le sentenze secondo la legge a cui si riferiscono, ordinate per data di leggi. Se il ricercatore cerca le
sentenze relative ad una certa legge che egli già conosce, usando questo indice troverà le sentenze che gli
interessano. Se il ricercatore cerca le sentenze relative ad una certa materia, egli consulterà l’indice analitico-
alfabetico che, sotto la voce cercata o (se non c’è) sotto una voce che ricomprende la prima (è necessario
dunque conoscere già la materia), indica la sentenza o le sentenze utili e rinvia alle pagine della rivista in cui
tali sentenze sono riportate per esteso. Molto spesso il ricercatore vuole conoscere il più rapidamente
possibile tutte le massime relative ad un certo oggetto negli ultimi anni. A questo fine esistono i repertori (o
massimari), pubblicazioni annuali che si affiancano ad alcune riviste giurisprudenziali e che riportano in
modo ordinato, sotto ciascuna voce di un ricco indice analitico-alfabetico, tutte le massime significative
pubblicate nel corso dell’anno relative a tale voce. Tali repertori sono utili perché spesso segnalano tutti o
quasi tutti i libri e gli articoli pubblicati in quell’anno relativi alla voce consultata. Indispensabili anche le
raccolte sistematiche di giurisprudenza, pubblicazioni in volumi nelle quali ciascun autore, intorno ad un
oggetto principale, raccoglie, ordina e commenta in modo sistematico la giurisprudenza sul tema. Tutte le
sentenze hanno una data. Solo quelle di alcuni giudici hanno anche un numero (quelle della Corte
costituzionale, della Cassazione, del Consiglio di Stato). Per questa ragione si cita il nome del giudice; la
sezione dell’ufficio giudicante, se l’organo è diviso in sezioni; la data per esteso e, se c’è, il numero, o, se c’è
il numero, solo il numero e l’anno. Giuste convenzioni scientifiche vogliono che citando la sentenza si citi
anche il luogo in cui è possibile trovarla.

3) Come si cerca la dottrina: ipotizziamo che il ricercatore sappia poco o nulla di una certa materia che
intende conoscere, si può servire delle enciclopedie. Le più importanti ed usate sono 3: l’enciclopedia del
diritto edita da Giuffrè; il digesto italiano, diviso in varie sezioni, pubblicato dalla Utet; l’istituto della
enciclopedia italiana (Treccani) ha pubblicato l’enciclopedia giuridica, che viene aggiornata continuamente.
Si tratta di pubblicazioni collettive in molti volumi ordinate secondo il criterio delle voci analitiche. Molto
utili sono i commentari, cioè pubblicazioni di un solo autore o di molti autori che commentano articolo per
articolo una legge o un intero codice. Più utili di tutti per una prima e ordinata informazione sono i manuali.
Partendo da tali manuali è possibile raccogliere rapidamente una prima ed essenziale bibliografia
sull’argomento di diritto costituzionale o pubblico che ci interessa.

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Riassunto di Gaia Paoloni
CORSO DI DIRITTO PUBBLICO (Giuseppe Ugo Rescigno)

APPENDICE 2

Sul metodo dialettico

Nel libro è stato usato un modo di ricostruzione ed esposizione che, nella tradizione marxista, viene chiamato
dialettico.

264
Riassunto di Gaia Paoloni

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