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Essa è da intendere in riferimento non solo alla mole limitata dei libri e all'estensione modesta
dei singoli componimenti, ma anche alla concisione, ossia alla capacità di condensare in
breve i contenuti narrativi e gli insegnamenti morali, così da ottenere l'attenzione e il
consenso dei lettori grazie alla stringatezza e alla tensione stilistica.
La brevitas si manifesta specialmente nei dialoghi, essenziali e pregnanti, scritti in un linguaggio
colloquiale che talvolta assume movenze efficacemente realistiche. Essa ottiene
inoltre risultati assai felici in alcuni brevissimi componimenti che si presentano come rapide e
vivaci istantanee.
Esempio di applicazione pienamente riuscita del criterio della brevitas è questa illustrazione di
un detto proverbiale (citato anche da Orazio: la montagna che partorisce il topo), attuata in
termini che ricordano l'epigramma per la concentrazione espressiva:
Della potenziale carica di critica e di protesta sociale insita nel genere che ha scelto, Fedro
mostra piena consapevolezza nel prologo del libro III.
Il riferimento implicito è naturalmente allo schiavo Esòpo, inventore del genere; subito dopo il
poeta latino afferma di aver seguito l'esempio di Esòpo, allargando il sentiero che egli aveva
tracciato fino a farne una strada; e allude poi con amarezza alla calamitas che lo ha colpito, ossia
alla persecuzione di Seiano, causata dalla permalosità e dal dispotismo dei potenti; egli precisa a
sua discolpa di non aver mai avuto l'intenzione di attaccare personalmente qualcuno (notare
singulos), ma semplicemente di «mostrare la vita e i comportamenti degli uomini» (vv. 49 s.).
In effetti non troviamo mai nelle favole conservate un atteggiamento propriamente satirico,
ossia aggressivo, aspro e pungente. L'intento moralistico e pedagogico sembra piuttosto
rivolto genericamente contro i difetti e gli errori umani (in questo senso Fedro è vicino
all'atteggiamento di Orazio nelle Satire e nelle Epistole), senza peraltro che emergano la
volontà o la speranza di contribuire, denunciando i vizi e attaccando i colpevoli, a mutare
uno stato di cose insoddisfacente e ingiusto.
La "morale" che si ricava dal complesso delle favole è infatti piuttosto amara e pessimi-
stica, ma anche rassegnata, basata sulla constatazione che la legge del più forte domina
sovrana nel mondo (non è certo un caso che la raccolta si apra con la favola del lupo e
dell'agnello). Il povero e il debole, se vogliono sopravvivere evitando guai peggiori, devono
saper stare al loro posto, accettando le regole del gioco e cercando nella prudenza e nell'astuzia i
mezzi per difendersi dall'ingiustizia e dalla prepotenza.
Di questo atteggiamento disincantato, espressione di una saggezza popolare che nasce dal buon
senso e dall'esperienza, offre un esempio significativo e veramente emblematico la favoletta di
cui è protagonista l'asino, "figura" della povera gente:
Cambiando i governanti, spesso i poveri mutano solo il nome del padrone.
In Fedro uno degli accenti più sinceri e accorati viene dalla coscienza rassegnata dell'umile che
sa di non poter parlare apertamente contro i potenti; egli dice di aver fatto tesoro del verso di
Ennio appreso fin da fanciullo: Palam muttire plebeio piaculum est («Criticare apertamente per
un uomo della plebe è causa di rovina»).
La valutazione dell'arte di Fedro è inscindibile dai temi della satira politica e sociale; le sue
favole più vitali sono quelle dove si leva l'amara protesta dell'umile costretto a subire i soprusi
dei potenti, camuffati da una maschera di legalità (come la favola del lupo e dell'agnello).