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APPUNTI DI MICROECONOMIA

A.A 2016-17

PER IL CORSO DI ECONOMIA DELLA PRODUZIONE

INDICE

02 Funzione di produzione
03 Funzione di costo
04 Massimizzazione del profitto
06 Profitti nel breve e nel lungo periodo
07 Offerta di breve e di lungo periodo
08 Domanda di merci
09 Monopolio
09a Monopolio e benessere
10 Concorrenza monopolistica
11 La_domanda_di_merci
12 Concorrenza e dinamica
13 Oligopolio
14 Non traditional prices
1

LA TEORIA TRADIZIONALE DELLA PRODUZIONE

2.1 Introduzione

Definiamo l' impresa come un'organizzazione di persone, ciascuna


in possesso di ben definiti skill lavorativi, e di strumenti di produzione
controllata e coordinata dall'imprenditore, rivolta alla produzione di
merci o servizi allo scopo di conseguire un profitto. Questa definizione,
che si applica a questo capitolo e tutti i successivi, poggia su due
elementi portanti. Il primo è la figura dell'imprenditore. Egli modella e
guida l'organizzazione, e ne detiene il diritto di proprietà. Il secondo
elemento è che il fine ultimo dell'organizzazione è massimizzare la
differenza tra i ricavi derivanti dalla vendita del prodotto e i costi
sostenuti per la sua realizzazione; questa differenza è un reddito
residuale che indichiamo con il termine di profitto. In quanto reddito
residuale il profitto può risultare anche negativo (perdita). Sulla base dei
diritti di proprietà sull'organizzazione il profitto (positivo o negativo) è
attribuito all'imprenditore.
Questa caratterizzazione dell'impresa è stata indicata come
impresa neoclassica o tradizionale perchè costruita nell'ambito e sui
principi della teoria economica neoclassica. In tempi recenti molte
critiche sono state mosse a questa impostazione, soprattutto sul versante
della rilevanza empirica riguardo alle ipotesi che la sorreggono e
all'assunzione della massimizzazione del profitto come obiettivo finale.
L'osservazione empirica suggerisce che questi rilievi sembrano
fondati. Molte organizzazioni di impresa, particolarmente quelle relative
alle grandi imprese, appaiono strutturate su modelli organizzativi assai
complessi, entro i quali molti soggetti si muovono e decidono con
relativa autonomia. L'attività di controllo e di coordinamento spesso non
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è più svolta dall'imprenditore, ma da altri soggetti che non possiedono


diritti di proprietà sull'organizzazione. L'imprenditore come figura
istituzionale sembra nascondersi dietro le quinte. Manager professionisti
lo sostituiscono nella gestione corrente dell'impresa e spesso anche nella
fase di costruzione delle strategie di sviluppo. L'obiettivo del massimo
profitto sembra sempre più spesso scendere alla dimensione di vincolo di
profitto positivo; altri obiettivi, la crescita dimensionale dell'impresa,
l'occupazione, la remunerazione dei manager, ..., sembrano prevalere su
quello del massimo profitto. L'imprenditore diventa azionista e
condivide con altri il diritto di proprietà sull'impresa. Esistono imprese
(imprese cooperative) che sono di esclusiva proprietà dei membri
dell'organizzazione che la sostiene e che producono merci e servizi per il
mercato in modo indistinguibile dalle imprese controllate
dall'imprenditore.
Queste osservazioni tuttavia non inficiano la logica di interazione
degli elementi fondanti l'organizzazione dell'impresa neoclassica.
Se le imprese sono grandi significa che l'attività di monitoraggio e
di coordinazione diventa più complessa, più professionalizzata, ma avrà
sempre come obiettivo quello di produrre merci nei tempi più rapidi
possibile, utilizzando senza sprechi materie prime, impianti, lavoro
umano, rispettando certi standard qualitativi. Se questo non avvennisse,
alla lunga, le merci realizzate non sarebbero acquistate perchè o troppo
costose o di qualità non adeguata.
Se l'imprenditore diventa non visibile perchè trasformato in
azionista insieme ad altri (ma può tuttavia essere l'azionista di controllo
o di riferimento) non per questo i manager potrebbero deviare a lungo
dall'obiettivo della massimizzazione del profitto. Se anche l'azionista di
riferimento non intervenisse sui manager sarebbe il mercato a farlo.
Profitti bassi o negativi non consentirebbero il rinnovo tecnologico degli
impianti, l'espansione dell'attività dell'impresa in comparti profittevoli;
l'impresa perderebbe progressivamente posizioni, entrerebbe in una fase
di regresso con riduzione nei livelli produttivi e perdite di occupazione.
Profitti bassi o negativi non consentono la distribuzione di utili adeguati
agli azionisti che per questo potrebbero esere indotti a cedere ad altri
soggetti le azioni in loro possesso. Si genererebbe così un mutamento
nell'assetto proprietario dell'impresa; un nuovo azionista di riferimento
3

potrebbe decidere di cambiare i manager con il che, insieme al lavoro,


essi perderebbero i lauti guadagni che i loro servizi comportavano.
Per queste e molte altre ragioni il modello rappresentato dalla
impresa neoclassica può ancora ritenersi uno strumento concettuale utile
per comprendere alcuni aspetti fondanti della logica di funzionamento
delle imprese.
Non sono state avanzate, salvo rare eccezioni, critiche interne alla
teoria di natura logico-analitica. Come apparirà chiaro in questo capitolo,
la teoria tradizionale presenta lacune gravi riguardo alla particolare
nozione di produzione che in essa si assume e che sta alla base della
successiva teoria dei costi di produzione, che insieme all'assunto della
massimizzazione del profitto, rappresenta la volta che sorregge l'intero
edificio teorico dell'impresa neoclassica.

2.2 Il modello della funzione di produzione

Un'impresa utilizza input, rappresentati da una pluralità merci e di


abilità lavorative, le cui quantità sono denominate z1 , z2 ,..., zn , per
produrre un output la cui quantità è indicata da y. Le possibilità tecniche
di trasformare collezioni di input in output sono descritte dalla funzione
di produzione

y = F(z1 , z 2 , ..., z n ) (2.1)

la quale mostra la massima quantità di output producibile da un insieme


di quantità di input.
Introduciamo alcune restrizioni sulla forma della funzione di
produzione.
a) La prima è che limitiamo y, z1 ,..., zn , a essere non negativi.
b) La seconda è che per produrre un prodotto positivo è
strettamente necessario impiegare parte di almeno uno degli input;
in simboli e assumendo l'esistenza di soli due fattori (input) di
produzione questa ipotesi può esprimersi come f (0, 0) = 0 .
4

Questa assunzione sta a significare che la produzione positiva di


una merce richiede sempre l'impiego di qualche risorsa.
c) La terza restrizione è che gli input e l'output sono divisibili.
d) La quarta restrizione è che la (2.1) indica il prodotto massimo
ottenibile da una data combinazione di input. Per quella data
combinazione è possibile tuttavia realizzare qualsiasi livello di
output compreso nell'intervallo 0 ≤ y ≤ ymax . Se l'impresa
produce meno di ymax essa compie una scelta inefficiente, in
quanto potrebbe realizzare lo stesso ammontare di prodotto con
l'impiego di quantità minori di uno o più input.
Di altre due assunzioni che caratterizzano la funzione di
produzione, la doppia differenziabilità e la positività del prodotto
marginale di un input, si dirà più avanti in questo e nel successivo
paragrafo.
Diverse imprese possono avere diverse funzioni di produzione. Un
esempio di funzione di produzione con soli due input è il seguente

y = z1 z2
1 1
2 3

la quale mostra che, ad esempio, con 4 unità del primo input e 1 unità del
secondo input si ottengono 2 unità di output.
Assumiamo che l'obiettivo dell'impresa sia la massimizzazione del
profitto e che i prezzi sia per gli input che per l'output siano ad essa noti.
Se gli input z1 , z2 , ...., z n hanno prezzi w1 , w 2 ,..., wn , rispettivamente, il
costo degli input dell'impresa è z1 w1 + z 2 w 2 + ... + z n wn ; in forma
compatta possiamo scrivere

∑w z
i=n
i i

Indichiamo con p il prezzo dell'output; i ricavi di vendita


dell'impresa sono dunque py e i profitti sono dati dalla differenza tra
ricavi e costi
5
n
py − ∑ w i zi (2.2)
i =1

L'impresa tenta di rendere questa differenza la più larga possibile.


Ricordando la relazione (2.1) tra output e input possiamo scrivere
l'obiettivo dell'impresa, che chiamiamo funzione del profitto, come
n
massimizzarez1 ,z 2 ,...z n py − ∑ wi z i (2.3)
i=1

I simboli z1 , z2 , ...., z n sotto la parola massimizzare indicano che


questi sono variabili che l'impresa può scegliere, al contrario dei prezzi
degli input e dell'output che sono dati.
La teoria elementare della ottimizzazione ci dice che la condizione
necessaria ma non sufficiente per un massimo è che le derivate parziali
siano tutte uguali a zero. Per una funzione di una sola variabile del tipo
y = f (x) , la condizione sufficiente per un massimo, posto che
f ′ (x 0 ) = 0 , è che f ′′ ( x0 ) < 0 . In tal caso la funzione è concava
nell'intorno di x0 . La condizione sufficiente per un massimo per una
funzione di una sola variabile non ha una agevole traduzione per il caso
di più variabili; sappiamo infatti che la condizione che le derivate
parziali seconde siano negative non è sufficiente ad assicurare che il
punto in cui le derivate prime sono nulle sia un massimo; in generale,
per una funzione di n variabili è necessario studiare gli autovalori della
matrice Hessiana.
Nel seguito ci limitiamo a studiare le condizioni di primo ordine,
relative alle derivate prime, supponendo sempre soddisfatte le condizioni
di secondo ordine, relative alle derivate seconde.
La soluzione del problema di massimo richiede che le n derivate
parziali siano uguagliate a zero, e ciascuna risolta per il prezzo del
fattore w i . Si ottengono perciò le seguenti n condizioni di primo ordine:

∂F
p = wi , i = 1, 2, ..., n (2.4)
∂zi
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Vi è una interpretazione economica abbastanza semplice per


queste condizioni. Il lato destro della (2.4) è il costo che si sostiene
nell'usare una unità in più dell'input i.esimo Il lato sinistro è la
variazione di prodotto causata da una variazione unitaria nell'impiego di
input i , moltiplicata per il prezzo dell'output. La derivata parziale
∂F / ∂zi è chiamata prodotto marginale dell'input i, e il prodotto tra il
prezzo e il prodotto marginale p∂F / ∂z i è la variazione di ricavo
conseguente. Se per un dato insieme di input z1 , z 2 ,...., zn , accade che
p∂ F / ∂ zi < wi , si possono aumentare i profitti riducendo l'ammontare di
zi impiegato, in quanto, in tal modo, si sottrae più ai costi che ai ricavi;
viceversa nel caso p∂ F / ∂ zi > wi .
Pertanto la quinta assunzione sulla funzione di produzione è che
e) la derivata prima rispetto ad un input, costante l'altro (o gli altri),
sia positiva ∂F / ∂zi > 0 .

2.3 Rendimenti degli input

Osserviamo ora più in dettaglio le proprietà della funzione di


produzione. Supponiamo per semplicità di notazione di avere a che fare
con una funzione di produzione con due soli input. La figura 1 mostra le
quantità di input z1 e z2 sugli assi cartesiani e alcuni possibili livelli di
output sulle curve del grafico. Queste curve sono chiamate isoquanti. La
curva y = 10 rappresenta tutte le combinazioni di z1 e z2 per cui
F (z1 , z2 ) = 10 . Gli isoquanti più lontani dall'origine, y = 20, y = 30 ,
indicano livelli di produzione più elevati. Si osservi che gli isoquanti,
seguendo la rappresentazione tradizionale, sono strettamento convessi
rispetto all'origine. In simboli, il generico isoquanto I0 , definito per un
0
livello y di output, è l'insieme

I0 = {(z , z ) f (z , z ) = y
1 2 1 2 max = y0 }
vale a dire l'insieme delle combinazioni di input che forniscono un dato
livello di output quando usati in modo efficiente, cioè quando l'output di
ogni combinazione di input è massimizzato. Ovviamente da una data
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combinazione di input si può realizzare un livello di output inferiore ma


vi sarebbe uno spreco di risorse. Poiché l'insieme I0 è strettamente
convesso, la funzione di produzione da cui esso deriva è strettamente
quasi-concava. La ragione economica la si vedrà fra un istante.
Chiediamoci ora come si modifica l'output quando varia un solo input,
tenuto costante il livello dell'altro.

C
D
z2

y=30

y=20

y=10

z1
0

FIGURA 2.1 Isoquanti

Si hanno due casi. Il primo è esemplificato dalla freccia da A a B


nel diagramma in figura 2.1. Con z2 costante, z1 viene incrementato.
Simmetrico è il caso rappresentato dal movimento della freccia da A a C,
dove z1 è tenuto costante e z2 viene incrementato. Nel caso generale
della funzione di produzione F(z1 , z 2 ,..., z n ) l'effetto di tale movimento
è misurato dalla derivata parziale. Se z1 cambia, con gli altri input tenuti
costanti, il cambiamento in y è dato da ∂F / ∂zi . Questa derivata
parziale, che può essere anche scritta ∂y / ∂z1 o F1 , è il prodotto
marginale dell'input 1 ( PM1 .) In generale si assume che il prodotto
marginale ∂y / ∂z1 sia positivo e che decresca al crescere dell'impiego di
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z1 . Questa proprietà è detta proprietà dei rendimenti decrescenti


dell'input 1 ed è illustrata nella figura 2.2, la quale mostra la relazione tra
y e z1 per dati valori di z2, ...., z n .
y

F(z1 ,z2 , ...,zn)

0 z1

FIGURA 2.2 Rendimenti decrescenti di z1

Se pensiamo al diagramma degli isoquanti come a una mappa di


una collina, dove il valore di y in ogni punto rappresenta l'altezza del
terreno in quel punto, allora la figura 2.2 rappresenta una sezione della
collina tracciata lungo l'asse est-ovest, come nel caso della freccia da A a
B della figura 2.1. Per accertare la direzione del cambiamento nel
prodotto marginale di un input, normalmente è sufficiente studiare il
segno della derivata prima della funzione di produzione rispetto ad un
input, ma in caso di dubbio si può derivare ∂y / ∂ zi rispetto a zi e
ottenere la derivata parziale di secondo ordine.
I rendimenti decrescenti richiedono

∂y / ∂z i 〉0 e ∂ 2 y ∂ zi2 〈0
La sesta assunzione riguardante la funzione di produzione è
pertanto la seguente:
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f) il prodotto marginale di un input deve essere positivo ma


decrescente al crescere dell'impiego di quell'input .
Ritorniamo alla figura 2.1. L'isoquanto è evidentemente il contorno
della funzione di produzione, poiché soddisfa la relazione

ymax = F(z1, z2 ) = y0
Differenziando totalmente otteniamo

dy max = dF1 z1 + dF2 z2 = 0


Questa relazione vincola le variazioni di z1 e di z2 a essere tali da
muoversi sull'isoquanto. Riordinando otteniamo

d z2 PM1
− = F1 F2 =
d z1 ymax costante PM 2

Il membro di sinistra di questa espressione, che fornisce il valore


negativo della pendenza dell'isoquanto nel punto di coordinate z1 , z2 ,
indica il tasso con cui z2 deve sostituirsi a z1 per mantenere costante
l'output. Per questa ragione il rapporto -dz2 dz1 è chiamato tasso
marginale di sostituzione tecnica dell'input 2 con l'input 1. I prodotti
marginali debbono essere entrambi positivi affinchè la pendenza
dell'isoquanto risulti negativa. Se per qualche ragione il prodotto
marginale di un input divenisse negativo, cioè se una ulteriore addizione
di quell'input, dati gli altri, diminuisse il prodotto (ad es., dosi
addizionali di fertilizzante, oltre un certo limite, impoveriscono e non
moltiplicano le capacità produttive di un terreno), l'isoquanto
presenterebbe tratti crescenti. Mentre si aumenta l'impiego dell'input il
cui prodotto marginale diviene negativo bisogna aumentare l'impiego
anche dell'altro input affinchè il prodotto marginale negativo del primo
sia controbilanciato dal prodotto marginale positivo del secondo. In
corrispondenza delle combinazioni di z1 , z2 per le quali ciò accade
l'isoquanto presenterà tratti crescenti. Escludiamo dall'analisi questi tratti
crescenti, tecnicamente ammissibili ma inefficienti in quanto esisterà
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sempre un punto nel tratto decrescente dell'isoquanto che rappresenta


meno di entrambi gli input. Per prezzi non negativi degli input
( w1 ,w2 ≥ 0 ) un'impresa produrrà con costi inferiori ( w1 z1 + w2 z2 )
scegliendo una combinazione di input nel tratto decrescente
dell'isoquanto.

z2
R R' y=y 4
z20 y=y 3
y=y 2
y=y 1
y=y 0
0 (a) z 1*
y4 z1

y3 y=F(z ,z 0)
1 2
y1
y0
0 z10 (b) z1' z1* z1
P Me
PM
P Me 1

PM 1
0
z10 z '
z1 *
(c) 1 z1
FIGURA 2.3 Variazioni in un input, data la quantità
disponibile dell'altro input

Per mezzo della figura 2.3 verifichiamo gli effetti sul livello di
produzione della variabilità delle proprorzioni tra gli input nel caso in
cui uno dei due input sia tenuto costante. Il grafico (a) rappresenta la
mappa degli isoquanti; è ora mostrato anche il tratto crescente di ciascun
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isoquanto. L'area efficiente della mappa degli isoquanti è compresa tra le


0
linee R ed R' . L'input z2 è tenuto costante al livello z2 .
Variazioni in z1 significano variazioni lungo la semiretta parallela
0
all'ascissa fissata all'altezza z2 ; verso destra si manifesta un aumento del
peso di z1 rispetto a z2 costante; finchè il prodotto marginale di z1 resta
positivo aumenta l'output. Gli incrementi di output si leggono sugli
isoquanti intersecati dalla semiretta z2 = z 2 . Il grafico (b) mostra la
0

curva di prodotto totale y = F(z1 , z 20 ) risultante. Il grafico (a) è la


mappa di contorno della forma collinare del prodotto totale; il grafico (b)
rappresenta pertanto una fetta verticale che taglia la collina in
corrispondenza di z2 = z 2 . Con z2 fisso a livelli diversi si ottengono
0

curve di prodotto totale diverse. Il grafico (c) mostra il prodotto medio


(PMe) e marginale (PM) di z1 in funzione di z1 , i quali sono derivati
dalla curva del prodotto totale del grafico (b). Il prodotto medio di z1 è il
prodotto totale diviso per z1 . Nel grafico (b) la pendenza dei raggi
uscenti dall'origine e tangenti in un punto la curva di prodotto totale
rappresentano il prodotto medio (la pendenza non è altro che il rapporto
tra quantità di prodotto e quantità dell'input z1 ). La derivata prima della
curva del prodotto totale è la produttività marginale di z1 . Come si nota
agevolmente il prodotto medio è dapprima decrescente, poi crescente ed
ammette un massimo in corrispondenza a z1′ . Il prodotto marginale
cresce fino al punto di flesso della curva del prodotto totale, poi
discende, viene a coincidere con il valore del prodotto medio per z1′ , e si

annulla in corrispondenza a z1 ; oltre diviene negativo. L'andamento del
prodotto medio e del prodotto marginale sono rappresentati nel grafico
(c). Si può anche notare la relazione tra prodotto medio e prodotto
marginale, con quest'ultimo che interseca il primo dall'alto nel suo punto
di massimo. La relazione non è casuale. Definiamo come segue il
prodotto medio:

y F(z1 , z 20 )
PMe1 = =
z1 z1

Differenziamo e uguagliamo a zero come condizione necessaria


per un massimo:
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d 1  ∂F 
[PMe1 ] = 2 =  z1 − y 
dz1 (z1 )  ∂z1 

e ricordando che ∂F / ∂z1 = PM1 e F / z1 = PMe1 si ottiene

d 1  ∂F y  1
dz1
[PMe1] =  −  = [PM1 − PMe1 ] = 0
z1  ∂z1 z1  z1

Pertanto, nel punto in cui il prodotto medio raggiunge il massimo


si verifica l'uguaglianza con il valore del prodotto marginale.

2.4 Rendimenti di scala

E' interessante considerare un secondo tipo di cambiamento negli


input, in cui tutti gli input variano insieme allo stesso tasso percentuale,
senza mutare le loro proporzioni relative.
Nella figura 1 questo tipo di cambiamento è rappresentato dalla
freccia da A a D, che esce direttamente dall'origine e indica un aumento
equiproporzionale in z1 e in z2 . Indicando con z il vettore degli input e
con k una costante positiva, possiamo indicare il cambiamento di tutti
gli input mediante il prodotto kz . Ad esempio il vettore 2z indica che
gli input sono esattamente doppi rispetto a quelli del vettore z .
Indichiamo con kF( z ) la produzione moltiplicata per k e con F (kz) il
risultato produttivo ottenuto dopo aver aumentato in modo
equiproporzionale tutti gli input del vettore z l. Se k 〉1 , e vale la
seguente relazione

F (kz) = kF(z)

la funzione di produzione F (z) esibisce rendimenti costanti di scala. Se

F (kz)〉 kF(z )
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la funzione esibisce rendimenti crescenti di scala; infine, se

F (kz)〈 kF(z )

la funzione ha rendimenti decrescenti di scala.


Così se incrementiamo tutti gli input di una stessa percentuale,
l'output crescerà della stessa percentuale nel caso di una funzione di
produzione a rendimenti costanti di scala, di una percentuale maggiore
nel caso di rendimenti crescenti di scala, di una percentuale minore nel
caso di rendimenti decrescenti di scala.
Il legame tra variazione della produzione e variazione della scala
di produzione può essere accertato anche in un altro modo. Riferiamoci
ancora alla figura 2.1. Lungo un qualsiasi raggio vettore uscente
dall'origine le proporzioni tra gli input rimangono invariate. Un qualsiasi
punto su un raggio vettore può essere scritto, come sappiamo, nella
forma ( kz1 , kz 2 ) scegliendo un valore appropriato del parametro di
scala k . con l'unica restrizione che k ≥ 0 . Ne segue che lungo un raggio
vettore il livello dell'output può essere pensato come funzione del
parametro di scala k :

y = F(kz 1 , kz 2 ) = y(k)

Possiamo ora definire l'elasticità di produzione E come la


variazione proporzionale in y divisa per la variazione proporzionale
nella scala di produzione k:

dy k dy k
E= =
y dk dk y

Si tratta di una misura del grado di risposta dell'output a variazioni


equiproporzionali negli input. Per E >1, E=1, E <1, si hanno rendimenti
di scala crescenti, costanti, decrescenti. E' possibile, in generale, che la
funzione di produzione esibisca rendimenti diversi lungo diversi raggi
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vettore uscenti dall'origine§, così come è pure possibile talvolta


individuare rendimenti differenti lungo diverse porzioni dello stesso
raggio vettore. I diagrammi in figura 2.5 riportano sugli assi l'output e il
parametro di scala e illustrano le tre possibilità sopra indicate. Il quarto
diagramma presenta il caso di rendimenti di scala variabili, crescenti nel
primo tratto, costanti e poi decrescenti.
1 2 12
Ad esempio, la funzione di produzione y = z1 z2 esibisce
rendimenti decrescenti per ciascun input, separatamente considerato, e
rendimenti costanti di scala per una variazione equiproporzionale di
23 12
entrambi gli input. La funzione seguente y = z1 z2 ha rendimenti
decrescenti per entrambi gli input e rendimenti di scala crescenti.
Questi due esempi chiariscono che rendimenti degli input e
rendimenti di scala sono proprietà diverse di una stessa funzione di
produzione.

_________________________
§ La figura 2.4 presenta questa situazione. Lungo il raggio OA la funzione esibisce
rendimenti costanti di scala. A raddoppi nell'impiego di entrambi gli input la produzione
raddoppia. Lungo il raggio OB vi sono rendimenti crescenti di scala. L'aumento della
produzione è più che proporzionale rispetto all'incremento degli input.
z2 I2
A

2z20 z2

I0

z2 0 z0 B
I1
y=2
1/2z2 0 z1
y=1
y=1/2
O z—1 0 z1 0 2z10 z1
2
FIGURA 2.4 Funzione di produzione a rendimenti variabili
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y y

y(k)
y'
y(k)

y0
k k
k0 2k0 0
rendimenti di scala crescenti rendimenti di scala costanti
y y

y'
y(k) y(k)
y0

0 k0 2k0 k0 k
rendimenti di scala decrescenti rendimenti di scala variabili
FIGURA 2.5 Esempi di di rendimenti di scala

E' bene a questo punto rendere esplicito che la definizione del


concetto di rendimento rispetto a un singolo input, dati gli altri input, è
possibile solo se tra gli input esiste sostituibilità. Il che sta a significare
che tecnicamente dovrebbe essere possibile o
(a) variare la quantità di un input nel processo produttivo, ferme le
quantità di tutti gli altri input, e ottenere una qualche variazione nel
livello dell'output, oppure
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(b) distrarre dal processo produttivo quantità di un certo input e


sostituirle con quantità addizionali di un altro (o di altri) input
mantenendo invariato il livello di output.
Se, viceversa, come l'osservazione empirica spesso suggerisce, e
come l'analisi del modello fondi-flussi conferma, tra gli input prevalgono
legami di complementarietà, vale a dire che la ricetta di fabbricazione di
un output non può subire modifiche nella composizione degli input, cioè
nelle proprorzioni con cui i diversi input devono essere combinati per
portare al risultato produttivo voluto, l'aumento dell'impiego di un solo
input ha evidentemente effetti nulli sul livello della produzione. La
nozione di rendimento rispetto a un input non può essere definita.
Nell'ipotesi di complementarietà tra input la produzione può aumentare
solo se aumenta l'impiego di tutti gli input a un tasso equiproporzionale:
la nozione di rendimento di scala conserva perciò la sua validità.
Vediamo quali implicazioni ha la nozione di complementarietà tra
input per la costruzione degli isoquanti di produzione. Gli isoquanti della
figura 2.1 sono convessi rispetto all'origine e la convessità dipende (a)
sia dalla sostituibilità tra gli input, (b) sia dal fatto che i prodotti
marginali di ciascun input sono positivi. La spiegazione economica è che
si suppone che la sostituibilità tra i due input non sia totale, e che la
progressiva riduzione di uno debba essere compensata da un incremento
proporzionalmente maggiore nell'altro per conseguire lo stesso livello di
output: guardando la figura 2.1, scegliendo un isoquanto e muovendo
dall'alto verso il basso, la riduzione di z2 è compensata da un aumento
più che proporzionale in z1 , e tale incremento è via via
proporzionalmente maggiore più ci si avvicina all'asse delle ascisse.
Si possono immaginare casi in cui valendo il principio della
sostituibilità la compensazione tra i due input avviene per così dire "alla
pari". La variazione in una direzione in un input viene compensata da
una variazione di segno opposto nell'altro input ma della stessa
proporzione, di modo che il rapporto tra le due variazioni dz 2 / dz1 di
segno opposto rimane costante. Si dice allora che i due input sono
sostituiti "perfetti" l'uno dell'altro. In tal caso l'isoquanto sarà un
semiretta con inclinazione negativa, come è rappresentato nella figura
2.6.
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z2
C D

B
y=10 y=20 y=30
0
z1
FIGURA 2.6 Isoquanti con input sostituti perfetti

z2

y=30
y=20
y=10

0 z1
FIGURA 2.7 Input complementari

Nel caso in cui via siano tra gli input rapporti di complementarietà
l'isoquanto "liscio" è sostituito da un punto nello spazio ( z2 , z1 ), o, come
alcuni amano rappresentarlo, da un isoquanto con un angolo a 90°, come
nella figura 2.7. In tale contesto nessuna nozione di rendimento rispetto a
un input è definibile, così come la nozione complementare di prodotto
marginale di un input.
37

LA FUNZIONE DI COSTO

3.1 Minimizzazione dei costi

Riprendiamo il problema della massimizzazione dei profitti del


capitolo precedente e supponiamo ora che l'impresa conosca il livello di
output che deve produrre; il suo obiettivo diviene allora minimizzare i suoi
costi di produzione. Formalmente il problema si pone nei termini seguenti

min z wz
(3.1)
sub F(z) = y

dove y è costante wz è il prodotto tra il vettore dei prezzi degli input e le


quantità di input.
Si tratta di un problema di ottimo vincolato: le variabili, gli elementi
del vettore z , devono essere scelte in modo da minimizzare la funzione
wz con il vincolo che il livello dell'output deve soddisfare la
funzione F(z) = y.
Per risolvere il problema definiamo una funzione Lagrangiana

L(z, λ)= wz + λ(y − F(z)) (3.2)

costruita sommando alla funzione da minimizzare il prodotto di una nuova


variabile λ (il moltiplicatore di Lagrange) con la funzione vincolo
uguagliata a zero.
La Lagrangiana è una funzione di n + 1 variabili, z1 , z 2 ,...,z n , λ .
Differenziamo la funzione rispetto a ciascuna di queste variabili,
uguagliamo la derivata a zero e otteniamo n + 1 equazioni:
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w i − λ∂F/ ∂zi = 0 i = 1, . . . , n
(3 3)
y − F( z) = 0

I valori di z1 , z 2 ,...,z n , che risolvono il problema (3.1) devono


soddisfare le equazioni nel sistema (3.3) per le ragioni di seguito esposte.
La prima della (3.3) può riscriversi come

wi
λ= i = 1, . . . , n (3.4)
∂F ∂z i

Ora w i è il costo di una unità extra di input i , mentre ∂F ∂z i è il


prodotto di quella unità extra di input. Così il loro rapporto misura il costo
per unità di prodotto per ottenere più output dall'impiego di una maggiore
quantità dell'input i ; tale costo è chiamato costo marginale. Supponiamo
che la (3.4) non sia soddisfatta così che, diciamo,

w1 / ( ∂F ∂z1 ) > w2 / ( ∂F ∂z 2 )

Se questo è il caso, il costo per produrre una quantità fissa di output


può essere ridotto riducendo un poco l'impiego di z1 e accrescendo
quanto basta l'impiego di z2 in modo da mantenere F(z1 , z2 ,...,zn )
costante. Abbiamo stabilito che il problema di ottimo vincolato (3.2) non è
risolto se le n equazioni in (3.3) più il vincolo non risultano soddisfatte.
Diciamo pertanto che in (3.3) le n + 1 equazioni rappresentano altrettante
condizioni necessarie per risolvere il problema di ottimo presentato nella
(3.2).

3.2. Un esempio

Verifichiamo quanto ora affermato mediante un esempio in cui


compaiono due soli input, di modo da consentirci di discutere il problema
della minimizzazione dei costi in forma grafica.
Supponiamo il seguente problema
39

minimizzare 2z 1 + (1/ 2)z 2


(3.5)
soggetto a z11 2 z 12 2 = 4

Nella figura 3.1 il vincolo z1 z 2 = 4 è messo in evidenza


12 12

dall'unico isoquanto che vi compare. Il valore del costo è 2 z1 + (1/ 2)z 2 ,


che varia con z1 e z2 . La semiretta che unisce il punto z1 = 2, z 2 = 0 al
punto z1 = 0, z 2 = 8 rappresenta il luogo dei punti in cui il costo degli
input è uguale a 4. Questa semiretta è chamata linea di isocosto. Essa è il
contorno della funzione C = 2 z1 + (1/2) z 2 come un isoquanto è il
contorno della funzione F(z1 , z2 ) . Nel diagramma sono tracciate anche
le linee di isocosto corrispondenti ai costi di 8 e di 12. Le linee di isocosto
sono un insieme di semirette parallele, e quelle più prossime all'origine
indicano più bassi livelli di costo.
Quanto specificato analiticamente in (3.5) può essere visto in termini
grafici come la ricerca del punto su un dato isoquanto che si trova sulla
linea di isocosto la più bassa possibile. Il punto è z1 = 2, z 2 = 8 sulla
linea di isocosto 2 z1 + (1/2) z 2 = 8. In quel punto la linea di isocosto è
tangente all'isoquanto.
E' facile confermare che la tecnica della funzione Lagrangiana
fornisce la stessa risposta. Nell'esempio la funzione Lagrangiana è

1
L( z1 ,z2 ,λ) = 2z1 + z2 + λ( 4 - z11 2 z12 2 )
2
le cui derivate uguagliate a zero danno le tre equazioni seguenti:

1
2 = λz1- 1 2 z 12 2
2
1 1 1 2 -1 2
= λz z
2 2 1 2
4 = z11 2 z 12 2
40

Eliminando λ dalle prime due equazioni, otteniamo z2 = 4 z1 ;


sostituendo nella terza equazione si ottiene z2 = 8 e z1 = 2 (e λ = 2 ), e
un valore di 8 per il costo che si trova sostituendo nella funzione di costo
2 z1 + (1/ 2) z2 i valori trovati per i due input.

z2

2
costo 4 costo 8 costo 12 y=4

0 2 4 6 8
z1
FIGURA 3.1 Minimizzazione dei costi con il
vincolo che y=4

3.1 Una generalizzazione

In generale una tipica linea di isocosto è data dalla relazione

C = w1 z1 + w2 z 2

Riscrivendo la relazione di costo come

z2 = C / w 2 − (w1 / w 2 )z1
41

e ricordando che w1 , w2 sono costanti, si può notare che l'inclinazione


della linea di isocosto è costante e uguale a −w1 / w2 , e l'intercetta in
ordinata è C / w 2 . L'intercetta cresce con C; così, se facciamo variare C,
otteniamo una famiglia di linee di isocosto tra di loro parallele, con le più
lontane dall'origine rappresentanti livelli di costo più elevati e viceversa.
La soluzione al problema di minimizzazione dei costi si ha nel punto
in cui una linea di isocosto è tangente all'isoquanto, perchè è l'isocosto
più vicino all'origine, rappresentante cioè il costo minimo.
Altre linee di isocosto toccano l'isoquanto ma rappresentano tutte
livelli di costo superiori.
La condizione di tangenza tra isocosto e isoquanto è una condizione
necessaria per l'ottimo ma non è sufficiente; se l'isoquanto fosse concavo
rispetto all'origine la condizione di tangenza rivelerebbe un punto in cui i
costi sarebbero massimizzati invece che minimizzati, come rappresentato
nella figura 3.2

z2
F(z1,z2 )=y

c=w 2z1+w2 z2

z1
0
FIGURA 3.2 Massimizzazione dei costi
con il vincolo F(z1,z2)=y
42

3.4 La definizione di funzione di costo

La (3.3) e la (3.4) rappresentano un sistema di n+1 equazioni nelle


variabili z1 , z2 , ..., zn , e λ . Quando le equazioni vengono risolte,
si ottengono n+1 variabili le quali dipendono dai valori di
w 1 , w2 ,..., wn , y del problema originale. Scriviamo queste soluzioni
come

z1( w, y) , z2 ( w, y) ,..., zn ( w, y) , λ( w, y)

per ricordare questa dipendenza. Notiamo che zi ( w, y) è il valore


ottimo di zi dati w e y .
Il costo di produrre y quando i costi sono minimizzati è pertanto

∑ ni= 1 w i zi ( w, y)

Questa funzione è chiamata funzione di costo e può essere scritta in


termini compatti come

c( w, y) = wz( w, y) (3.6)

dove

z( w, y) = z1( w, y) , z2 ( w, y) , ..., zn ( w, y)

Si può inoltre notare c(w, y) che è il costo minimo dati w e y .


Un sottoprodotto della soluzione della (3.3) e della (3.4) è il valore
del moltiplicatore di Lagrange λ(w, y) . Vediamo di coglierne il
significato economico. Si differenzi la funzione di costo c(w, y) rispetto
a y , ottenendo
43

∂c( w, y) ∂z ( w, y)
= ∑i=1 wi i
n
(3.7)
∂y ∂y
Dobbiamo ricordare le soluzioni della (3.3) al cambiare di y . La
soluzione al primo blocco di equazioni della (3.3) è il seguente

∂z i (w, y) ∂F ∂z i (w, y)
∑ ni= 1 w i = λ ∑ni=1 (3.8)
∂y ∂z i ∂y

Differenziando anche l'ultima della (3.3) rispetto a y si ha

∂F ∂zi (w, y )
1 = ∑ i=1
n
(3.9)
∂zi ∂y

Sostituendo la (3.9) nel lato sinistro della (3.8), e il risultato nel lato
sinistro della (3.7), si ottiene

∂c( w, y)
= λ( w, y) (3.10)
∂y
la quale dimostra che il valore del moltiplicatore di Lagrange è in effetti il
costo che si sostiene per variare il livello del prodotto y . Esso misura
perciò il costo marginale del prodotto; questo risultato è pertanto la
conferma di quello già individuato nella discussione della soluzione del
sistema (3.3).
45

FUNZIONE DI COSTO E MASSIMIZZAZIONE


DEL PROFITTO

4.1 Rendimenti di scala e funzione di costo

Il costo di produzione c( w, y ) dipende dal prodotto per la semplice


ragione che più output richiede più input. La forma esatta della relazione
tra costo e prodotto dipende da come in concreto cambiano livello e
composizione degli input al variare dell' output. Ma quali informazioni
sono rilevanti circa la funzione di produzione? Se sappiamo che vi sono
rendimenti decrescenti rispetto agli input, sappiamo qualcosa di quello che
succede se varia un solo input. Ma quando il prodotto aumenta,
normalmente tutti gli input aumentano; così che conoscere la natura dei
rendimenti di ciascun input diventa irrilevante.
D'altronde non è nemmeno certo che quando il prodotto varia tutti
gli input varino proporzionalmente così che nemmeno la conoscenza dei
rendimenti di scala potrebbe da sola essere rilevante.
La questione è tuttavia abbastanza semplice.
Con rendimenti crescenti di scala si può più che raddoppiare il
prodotto raddoppiando le quantità degli input. Il costo minimo per
produrre 2 y è perciò meno del doppio del costo per produrre y .
Se i rendimenti di scala sono decrescenti, dimezzando gli input il
prodotto diminuisce meno della metà; così il costo minimo di y 2 è
minore della metà del costo di y .
Nel caso di rendimenti costanti qualsiasi variazione negli input ha
come risposta una variazione analoga nel prodotto con la conseguenza che
un raddoppio o un dimezzamento della produzione comporta un raddoppio
o un dimezzamento dei costi; il costo di ogni unità prodotta rimane perciò
costante rispetto a variazioni nel livello di produzione.
Per rendere di più diretta comprensione la questione, semplifichiamo
46

la notazione sin qui impiegata. Rendiamo implicita la dipendenza della


funzione di scelta degli input a costo minimo z( w, y ) e della funzione di
costo c( w, y ) dai prezzi degli input. Poichè i prezzi degli input sono
costanti le due funzioni possono riscriversi semplicemente z( y ) e c( y ) .
Se la funzione di produzione y = F(z) ha rendimenti crescenti di
scala, allora per k > 1 per definizione F(kz) > kF(z). Perciò
n
kc(y)= kwz (y)= ∑ wi kzi(y) > c(ky) (4.1)
i= 1

La disuguaglianza segue dal fatto che per produrre una quantità ky


l'impresa sopporterà un costo minore di kc( y ) . Se l'impresa aumenta
l'impiego degli input di k volte, la produzione aumenterà più di k volte.
Pertanto se l'impresa desidera produrre una quantità ky di output
impiegherà ciascun input in quantità minore di kz . A prezzi degli input
dati, questo significa che i costi risulteranno minori di kc( y ) .
Se y = F(z) esibisce rendimenti decrescenti di scala, allora
F(kz)< kF(z) per k > 1. Poichè ciò vale per ogni elemeno in z , vale
anche per (1/k) z , così si può scrivere

F(z)< kF  z (4.2)
1
k 

ovvero

F(z)< F  z
1 1
k k 

da cui segue

c(y)= wz (y) = ∑ wi zi ( y) > c y (4.3)


n
1 1 1 1
k k i =1 k k 

La disuguaglianza si spiega con il fatto che (1/k) z (y) è


47

maggiore di (1/k)(y) a causa dei rendimenti decrescenti.Se si vuole


ridurre la produzione di k volte, è necessario ridurre gli input più di k
volte con la conseguenza che il costo risulterà minore di ((1/k)c(y).
Se y = F(z) ha rendimenti costanti di scala, allora
F(kz)= kF(z) per k > 1 e questo implica

kc(y)= kwz(y) ≥ c(ky) (4.4)

dato che kz(y) è un possibile metodo per produrre ky , il metodo


ottimo di produzione non può essere più costoso. Ma la (4.4) vale per
qualsiasi k e y così applicandola a 1 k e ky otteniamo

1
c(ky) ≥ c(y) (4.5)
k
Ma c(ky) ≤ kc(y) ≤ c(ky) implica che

c(ky) = kc(y) (4.6)

Data la funzione di costo c(y), definiamo il costo medio come


c(y)/y . Con rendimenti crescenti di scala la (4.1) implica che

c(y) c(ky)
> k > 1 (4.7)
y ky

vale a dire il costo medio cade al crescere di y . Con rendimenti


decrescenti, la (4.3) implica che

c(y) c(y/k)
> k > 1 (4.8)
y y/k

il che significa che il costo medio cresce al crescere di y . Con rendimenti


costanti la (4.6) implica
48

c(y) c(ky)
= k > 1 (4.9)
y ky

cioè che il costo medio resta costante al variare di y , non dipende


dall'output. I tre casi sono illustrati nella figura 4.1 seguente.

c c c
c(y)

c(y)
c(y)

y y y

c/y c/y c/y

c(y)/y
c(y)/y
c(y)/y

y y y
(a) rendimenti crescenti (b) rendimenti decrescenti (c) rendimenti costanti
FIGURA 4.1 Rendimenti di scala e costi medi

4.2 La massimizzazione del profitto

La discussione sulla minimizzazione dei costi riguarda come


produrre una data quantità di output; torniamo ora al problema di quanto
produrre. Se l'impresa che fronteggia il seguente problema di massimo:
49

massimizzare py - wz
y ,z
(4.10)
con vincolo y = F(z)

(che è un altro modo di rappresentare la (2.3)) ha già risolto il problema di


minimizzazione dei costi e derivato la sua funzione di costo c(w ,y),
allora il problema (4.10) si trasforma nel più semplice problema seguente
di massimizzazione del profitto:

massimizzare py -c(w,y) (4.11)


y

Questo è un problema in una sola variabile la cui soluzione si trova


immediatamente. Per un massimo è necessario che la derivata prima sia
nulla:

∂c(w,y)
p− = 0 (4.12)
∂y

e la condizione sufficiente, in aggiunta a quella necessaria, è che la


derivata seconda sia negativa:

∂ 2 c(w,y)
− < 0 (4.13)
∂y 2

Sebbene la matematica sia semplice, vale la pena di analizzare il


significato economico di queste condizioni. La (4.12) stabilisce che
l'impresa deve scegliere un livello di produzione in cui il costo marginale è
uguale al prezzo del prodotto, e inoltre il livello di produzione deve essere
tale che in quel punto il costo marginale sia crescente rispetto all'output.
50

E A

D B
p

0 y

FIGURA 4.2 Massimizzazione dei profitti

Guardiamo la figura 4.2. Al punto A, il costo marginale supera il


prezzo del prodotto, così che una unità extra di produzione aggiunge più ai
costi che ai ricavi. I profitti si possono dunque accrescere riducendo la
produzione. Il contrario accade al punto C in cui il costo marginale è
inferiore al prezzo dato del prodotto; ogni incremento di produzione
aumenta più i ricavi che i costi e qusto vale fino al punto B in cui il costo
al margine uguaglia il prezzo del prodotto. Il punto B indica il livello di
produzione che massimizza il profitto. Si osservi il punto D; in esso costo
marginale e prezzo sono uguali ma un incremento di produzione aumenta i
ricavi più dei costi e pertanto D non può essere un punto di massimo
profitto. Un esame di come l'impresa dovrebbe cambiare i livelli di
produzione a partire da punti come E e C rivelerebbe che D è un punto di
profitto minimo (o di massima perdita).
Se la condizione sufficiente (4.13) è soddisfatta allora l'equazione
(4.12) determina il valore di y che massimizza il profitto, e che è funzione
del prezzo p e del vettore w dei prezzi degli input; si può pertanto
scrivere che y( p, w ) . Chiaramente i valori di zi che minimizzano il costo
di produrre y( p, w ) sono quelli individuati dall'impresa nell'atto di
massimizzare i profitti; ne segue che il vettore di input che massimizza i
profitti z( p, w ) è legato al vettore degli input che minimizza il costo dalla
relazione seguente
51

z( p,w)= z[ w,y( p,w)](4.14)

Ricordiamo che zi ( y, w ) è il valore ottimo di zi , il valore scelto


nel processo di minimizzazione dei costi per un valore fisso del prodotto.
Ora zi ( p, w ) è certamente un valore ottimo di zi , ma ottimo per un
diverso problema, essendo il valore scelto nel massimizzare i profitti
quando sia l'output che gli input sono assunti variabili. Le due funzioni
sono diverse e vanno accuratamente distinte.
Le funzioni z(w ,y) indicano le quantità dei vari input che una
impresa che minimizza i costi desidera acquisire; tali funzioni sono perciò
dette funzioni di domanda di input di un'impresa che minimizza i
costi.
Le funzioni z( p,w) indicano le quantità dei diversi input che
un'impresa che massimizza i profitti decide di acquisire, e sono dette
funzioni di domanda di input di un'impresa che massimizza i profitti.
La funzione y( p, w ) mostra la quantità di output che un'impresa
che massimizza il profitto desidera vendere ed è percio detta funzione di
offerta dell'impresa che massimizza il profitto.
1

LA MASSIMIZZAZIONE DEI PROFITTI NEL BREVE


PERIODO

1 La nozione di breve e di lungo periodo

Una assunzione rilevante della teoria del comportamento dell'impresa


sviluppato in precedenza è che l'impresa possa liberamente scegliere quali input
impiegare e in che quantità.
Facciamo un esempio. Prendiamo un'impresa che utilizza tre input,
materie prime, lavoro e macchinario. La quantità di materie prime impiegata
varia facilmente, da un giorno all'altro. La quantità di forza lavoro, o più
precisamente il numero di lavoratori e/o il numero di ore per lavoratore, può
anch'essa variare, anche se non con la stessa facilità.
Per il macchinario la questione è più complicata. Esso è spesso progettato
per svolgere un compito specifico all'interno del processo lavorativo di
quell'impresa; altre imprese con processi produttivi diversi non saprebbero
come utilizzarlo.
Per installare nuove macchine è necessario che passi del tempo; la
macchina va ordinata all'impresa che la costruisce, o va costruita in economia
dalla stessa impresa che poi la utilizzerà, va collaudata e attrezzata. Se la
macchina è relativamente semplice, esiste uno specifico mercato in cui può
essere acquistata celermente, la sua installazione non richiede particolari
operazioni di adattamento al processo produttivo, l'intervallo temporale tra
decisione di acquisire la macchina e sua utilizzazione nel processo produttivo
può anche essere relativamente breve. Ma se la macchina è complessa dal punto
di vista tecnologico e soprattutto specifica per il processo produttivo di
quell'impresa, questo intervallo di tempo può essere lungo mesi e talvolta anni
(si pensi ai tempi per la realizzazione di un altoforno, ad esempio).
2
Quanto descritto non è tipico di tutte le imprese. Qualche impresa
ottiene materie prime mediante contratti a lungo termine che non possono
essere modificati immediatamente, e impiega forza lavoro che può opporsi a
cambiamenti dell'orario di lavoro o al licenzamento; per contro per qualche
impresa può essere facile acquistare una nuova macchina o venderla di
seconda mano, o prenderla in affitto.
La questione fondamentale è che l'impresa assume le sue decisioni in
circostanze in cui alcuni input sono fissi e altri sono variabili. Il costo degli
input fissi è chiamato costo fisso e il costo degli input variabili è chiamato
costo variabile.
Definiamo ora come breve periodo una situazione in cui l'impresa
assume decisioni che sono vincolate alle decisioni assunte nel passato. Per
contro definiamo lungo periodo una situazione in cui questi vincoli del
passato non operano.
Nel contesto nel quale ci muoviamo il breve periodo si configura come
una situazione decisionale in cui alcuni input sono fissi. In una situazione di
lungo periodo tutti gli input vengono considerati variabili e nessun vincolo
derivante da decisioni assunte nel passato è operante.
La distinzione tra breve e lungo periodo non ha pertanto a che vedere
con una divisione del tempo futuro in due parti, il futuro prossimo e quello
più lontano. In realtà qualsiasi decisione di impresa è assunta nel "breve
periodo". Ciò che importa rilevare è che prendere decisioni in un contesto di
breve periodo significa che gli atti conseguenti a tali decisioni hanno
rilevanza nell'immediato, sono condizionate dalle scelte passate, e
riguardano normalmente decisioni sul livello di utilizzazione della capacità
produttiva, se impiegare cioè integralmente o parzialmente gli input "fissi".
Le decisioni in un contesto di lungo periodo riguardano azioni che
sono scarsamente condizionate dalle scelte passate e che coinvolgono di
solito mutamenti della capacità produttiva e spesso anche mutamenti delle
tecniche di produzione. In tale ambito tutti gli input diventano variabili.
3
2 La funzione di costo di breve periodo

Un semplice modello che incorpora la distinzione tra input fissi e input


variabili è quello di un'impresa che produce il prodotto y mediante due input
z1 e z2 . Se z2 è fisso la funzione di produzione

y = F( z1 ,z 2 ) (6.1)

è una funzione di una singola variabile z1 . L'equazione (6.1) definisce z1


come una funzione implicita di y e di z2 che può essere riscritta come

z1 = z1( y, z 2 ) (6.2)

La funzione di costo di breve periodo è

c( w1 ,w2 ,y, z 2 ) = w1 z1(y, z 2 ) + w2 z 2 (6.3)

di modo che w1 z1( y,z 2 ) è il costo variabile e wz2 il costo fisso. Il costo
medio di breve periodo è c( w1 ,w2 ,y, z 2 )/y , il costo marginale di breve
periodo è ∂c( w1 , w 2 ,y, z 2 )/∂y ; il costo medio variabile è
w1 z1( y,z 2 )/y . (Si noti che il costo marginale di breve periodo e il costo
variabile medio sono entrambi indipendenti da w 2 e che il costo marginale di
breve periodo e il costo variabile marginale concidono). Queste tre funzioni
sono di seguito indicate mediante le sigle CMeB, CMaB, CMeV.

Per esempio, se y = z11/ 2 z 1/


2
2
con w1 = 2, w2 = 2 e z2 = 4, la funzione
1/ 2
di produzione è y = 2z1 da cui si ottiene z1 = 1/ 4(y 2 ) e la funzione
di costo di breve periodo risulta c = 1/2( y 2 ) + 8 , essendo il costo
variabile 1/2 (y 2 ) e il costo fisso 8. Il costo medio di breve periodo è
1/ 2 ( y) + 8/y , il costo marginale di breve è y, il costo variabile medio è
1/ 2 ( y) ; queste tre funzioni sono rappresentate nel grafico in figura 6.1.
4

costi CMaB
unitari
CMeB

CMeV

FIGURA 6.1 Curve di costo di breve periodo

Nell'esempio proposto il costo variabile medio cresce al crescere


dell'output perchè al crescere di z1 il prodotto cresce meno che
proporzionalmente; questo accade perchè la funzione di produzione
considerata nell'esempio ha rendimenti decrescenti rispetto all'input
variabile. Si potrebbe anche assumere che i rendimenti dell'input variabile
non siano decrescenti per livelli bassi dell'output e lo diventino solo dopo un
certo punto. Una funzione di produzione con queste proprietà è illustrata
nella figura 6.2a:
5
y

y2 F(z1 ,z2)

y
1

z z z1
11 12
(a)
(b)
CMaB
CMeB

CMeV
px

y
y1 y2

FIGURA 6.2 Funzione di produzione di breve periodo e


curve di costo di breve periodo
6
Fino a z12 , il prodotto marginale ∂F / ∂z1 è crescente con z1 e solo
oltre z12 si presentano rendimenti decrescenti rispetto a z1 ; il prodotto medio
y / z1 cresce con z1 fino a z12 per cadere subito dopo. Il prodotto marginale
è l'inclinazione della curva y = F( z1 ,z 2 ) misurata in un punto, ovvero la
sua derivata prima; il prodotto medio è l'inclinazione della linea che unisce
l'origine con quel punto sulla curva; prodotto medio e marginale sono uguali
in z12 . Il costo medio variabile è w1z1/y , che diminuisce quando il prodotto
medio aumenta e viceversa. Il costo marginale è w1/(∂F/∂z1 ), il quale
diminuisce quando il prodotto marginale cresce e viceversa. Abbiamo così le
curve del costo marginale di breve e del costo variabile medio a forma di U,
come mostrato nella figura 6.2b. Le due curve si intersecano in y2 ,
corrispondente all'impiego di un livello dell'input variabile pari a z12 . La
differenza tra il costo variabile medio e il costo medio (totale) di breve
periodo è data dal costo fisso medio w 2 z2 /y che decresce con y così che
anche la curva del costo medio di breve presenta l'andamento ad U.

6.3 La relazione tra costo medio e costo marginale

La relazione tra una qualsiasi funzione di costo medio e la


corrispondente funzione di costo marginale si ricava calcolando la derivata
della funzione di costo medio c(y)/ y .

d ( c( y)/y) ( d c( y)/dy) y- c( y)
=
dy y 2

ovvero

d (c(y)/y) c(y)
y = (d c(y)/dy) − (6.4)
dy y

Ricordiamo che il costo medio è c(y)/y e il costo marginale è


dc(y) / dy . Dove il costo marginale eccede il costo medio, il lato destro
7
della (6.4) è positivo e il costo medio è perciò crescente; dove il costo medio
eccede il costo marginale, il costo medio è decrescente; e il costo medio è
costante solo quando il costo marginale è uguale al costo medio. Per una
spiegazione intuitiva di questa relazione, si pensi che se una unità extra di
output costa più del costo mediamente sostenuto sulla produzione realizzata,
allora il costo medio crescerà con l'output, e viceversa nel caso opposto.
Nel caso in cui c(y) è il costo di breve periodo, la (6.4) diviene

d CMeB
y = CMaB- CMeB (6.5)
dy

mentre se c(y) è il costo variabile, la (6.4) diviene

d CMeV
y = CMaB - CMeV (6.6)
dy

Così CMaB taglia sia il CMeV che il CMeB da sotto e nel rispettivo
punto di minimo (per capire il legame tra la (6.5) e la (6.6) si provi a porre
w 2 = 0 , il costo fisso si annulla e il CMeB diviene uguale al CMeV).

6.4 La massimizzazione del profitto nel breve periodo

Supponiamo ora che l'impresa punti a massimizzare il profitto,


assumendo l'input z2 fisso. Precisiamo ulteriormente che cosa significa un
input fisso dal punto di vista economico.
Un primo significato è che l'utilizzo di z2 non può superare un certo
vincolo, ad esempio z2 ≤ z2 , ma può essere inferiore al vincolo se le
necessità produttive lo richiedono. Si ammette con ciò che l'input sia
divisibile e se l'impresa paga solo quanto dell'input utilizza il costo relativo
diventa fisso solo a partire dal momento in cui il vincolo diventa operativo.
Un secondo significato è che l'impresa per ragioni contrattuali o
tecniche deve sostenere per intero il costo relativo alla disponibilità
8
dell'input fisso anche se ne usa solo una parte; in tal caso il costo fisso è
uguale a w 2 z2 . Questo secondo significato è quello che è rilevante ai nostri
fini.
Il problema che affrontiamo è essenzialmente lo stesso della
massimizzazione del profitto nel lungo periodo, discusso nel capitolo 4. Si
ha infatti

max y py- c( w1 , w2 , y,z 2 ) (6.7)

con la condizioni di primo ordine e di secondo ordine seguenti

∂c( w1 , w2 ,y, z2 )
p- = 0 (6.8)
∂y

∂ 2 c( w1 , w 2 ,y, z 2 )
- < 0 (6.9)
∂y 2

Come nel problema di lungo periodo, l'impresa sceglie un livello di


output a cui corrisponde un costo marginale uguale al prezzo dell'output, nel
tratto crescente del costo marginale.
C'è tuttavia un problema che finora è stato rinviato. Nella figura 6.3a il
livello dell'output y1 è il solo nel quale le due condizioni (6.8) e (6.9) sono
soddisfatte mentre in y0 solo la (6.8) risulta soddisfatta. I profitti si riducono
procedendo da 0 verso y0 , crescono da y0 a y1 , si riducono oltre y1 .
Chiaramente y1 è un massimo locale, ma al cadere dell'output da y0 a 0 i
profitti si accrescono; ciò suggerisce la possibilità che produrre nulla può
essere preferibile che produrre y1 . (in y = 0 , i profitti sono crescenti al
ridursi del prodotto, ma il prodotto non può essere ridotto ulteriormente).
Abbiamo pertanto una terza condizione da aggiungere alla (6.8) e alla
(6.9): dobbiamo controllare che i profitti in y1 eccedano i profitti in y = 0 .
Si deve ricordare che il costo fisso w 2 z2 si sostiene a prescindere dal livello
9
dell'otput; pertanto per y = 0 i profitti risultano - w 2 z2 (le perdite sono
perciò w 2 z2 ).
Ne segue che la terza condizione è

py1 - w1 z1( y1 , z 2 ) - w2 z 2 ≥ -w 2 z2 (6.10)

cioè

py1 - w1 z1( y1 , z 2 ) ≥ 0 (6. 11)

la quale stabilisce che i ricavi debbono eccedere i costi variabili, ovvero che
il prezzo deve superare il costo variabile medio. Nella figura 6.3b la
questione è vista ponendo il profitto funzione dell'output, con i profitti
massimizzati (o le perdite minimizzate) in y1 .

La curva del profitto è diversa per ogni livello di prezzo. Se il punto di equilibrio tra prezzo e
costo marginale si situasse sopra il CMeB, la curva del profitto, dopo un breve tratto iniziale nell'area
negativa, di situerebbe nell'area positiva finchè il livello di produzione non supera il punto in cui il
ramo crescente del CMaB incrocia da sotto la semiretta del prezzo. Se il punto di equilibrio
coincidesse con una produzione y le perdite sarebbero le stesse anche per una produzione nulla
2
coincidendo con il costo fisso w z
2 2.

Per contrasto, se il prezzo dell'output uguagliasse il costo marginale in


un punto in cui la curva del CMaB si trovasse sotto la curva del CMeV,
allora la (6.11) non sarebbe soddisfatta e la soluzione ottimale sarebbe non
produrre nulla. Questo caso è illustrato nelle figure 6.3a e 6.3b con un
prezzo p2 e un livello di output y2 .
10
(a)
CMaB

CMeB

p
p CMeV
2

y y y y
0 2 1
(b)
π

y y y
+ 0 2 1
y
-
w2 z 2

FIGURA 6.3 Massimizzazione del profitto nel breve periodo

6.5 Il ruolo del costo fisso nel processo decisionale

L'aspetto importante di questa discussione è che il costo fisso è


irrilevante per la decisione se produrre o meno. Ciò che importa è la
relazione tra prezzo dell'output e costo variabile medio. La ragione è che
essendo il costo fisso lo stesso per entrambe le scelte possibili, esso non
influenza la profittabilità di una scelta rispetto all'altra. E per la scelta ciò
che conta è la profittabilità relativa delle due azioni.
11
La medesima questione viene talvolta espressa affermando che il costo
fisso non è un costo opportunità. Il costo opportunità è il costo che si
sostiene scegliendo una azione piuttosto che un'altra. Sebbene il costo
dell'input fisso sia w 2 z2 , nel senso che questa spesa si è già manifestata, il
costo opportunità di usare l'input fisso nella produzione piuttosto che non
impiegarlo è zero, perchè la spesa di w 2 z2 è fatta in entrambi i casi, dal
momento che l'impresa non può distogliere l'input fisso dal processo
produttivo e utilizzarlo per qualche altro uso o venderlo. Per converso il
costo opportunità di impiegare o meno l'input variabile nella produzione è
w1 z1 , perchè questo valore sarebbe risparmiato se la produzione fosse zero.
Pertanto in certe circostanze chi prende decisioni economiche tratta
alcune risorse come se fossero senza costo; il costo opportunità di una
risorsa dipende dalla corretta specificazione della situazione nella quale
decisioni tra azioni alternative vengono assunte. Se qualche macchinario non
ha impieghi alternativi, il costo opportunità di impiegarlo nella produzione o
meno è zero. Se tuttavia il macchinario può essere dato in affitto, il costo
opportunità del suo impiego nella produzione è il reddito dell'affitto a cui si
rinuncerebbe. Se i lavoratori possono essere licenziati quando la produzione
è nulla, il lavoro è un input variabile con un costo opportunità positivo. Al
contrario, se la possibilità di licenziare è preclusa e il salario va pagato
ugualmente nonostante la produzione sia nulla, il lavoro assume le
caratteristiche di input fisso di produzione con un costo opportunità nullo.
Anche in un contesto in cui lavoro e macchine sono input variabili, ci
possono essere altri costi come ad esempio spese già sostenute di ricerca e
sviluppo che non possono essere ridotte diminuendo l'output, e tali costi
diventano costi fissi.
Le equazioni (6.8), (6.9) e (6.11) definiscono il livello del prodotto che
massimizza i profitti, in corrispondenza a dati valori di p, w, e z2 .
L'equazione (6.8) mostra che la funzione di offerta di breve periodo
dell'impresa è data dalla funzione del costo marginale di breve: se p è il
valore del CMaB al livello di produzione y1 , allora y1 è il livello di
produzione dell'output che massimizza il profitto per un prezzo p. Si può
affermare che da un punto di vista analitico la (6.8) definisce implicitamente
la funzione y = y( p, w1 , z2 ) .
12
Due qualificazioni sono tuttavia necessarie: l'equazione (6.9) mostra
che solo la porzione crescente della funzione di CMaB è rilevante; la (6.11)
indica che il prezzo deve eccedere il CMeV. In tal modo solo la parte
crescente della funzione di CMaB che sta sopra la curva di CMeV
rappresenta la funzione di offerta di breve periodo: se il prezzo fosse
inferiore al costo variabile medio l'offerta sarebbe zero. La curva di offerta
dell'impresa è dunque la curva in grassetto nella figura 6.2b, verticale a
y = 0 per p≤px , coincidente con CMaB per p≥px , con una discontinuità al
prezzo px in corrispondenza del quale l'output può essere zero o y2 .
Matematicamente (6.9) e (6.10) mostrano che la (6.8) definisce la funzione
y = y( p, w1 , z2 ) solo per p≥px, altrimenti y( p,w1 , z 2 ) = 0
Il tratto della curva di costo marginale compresa tra il CMeV e il CMeB è talvolta
indicata come curva di offerta di brevissimo periodo. Un prezzo di mercato a cui
corrispondesse una situazione di equilibrio con un costo marginale compreso tra le due
curve di costo medio, sarebbe un prezzo che darebbe luogo a perdite. Ma una scelta di non
produrre nulla comporterebbe perdite superiori, uguali all'intero costo fisso. Pertanto, il
tratto di curva di offerta compreso tra le due curve di costo medio, è un insieme di punti di
ottimo, perchè la perdita è minimizzata rispetto alla situazione con produzione nulla. E'
chiaro, tuttavia, che una situazine del genere non può che essere transitoria, in quanto il
ricavato della vendita del prodotto coprendo appena i costi medi variabili non sarebbe
sufficiente per procedere al rinnovo degli impianti, qualora si rendesse necessario.

Come addendo, possiamo notare che la discussione nel capitolo 4 sulla


massimizzazione del profitto nel lungo periodo in realtà implica che sia
soddisfatta una condizione simile alla (6.10) del presente capitolo. Essa deve
assicurare che il livello di output risultante dalla (4.12) e (4.13) sia una scelta
migliore che produrre nulla. Poichè nel lungo periodo, per definizione, non
vi sono costi fissi in quanto tutti gli input sono variabili, la condizione
equivalente alla (6.10) è la seguente, assai più semplice

py- wz (w, y) ≥ 0 (6.12)

Le tre condizioni insieme, (4.12), (4.13) e (6.12) stabiliscono che la


curva di offerta di lungo periodo è la parte crescente della curva del costo
13
marginale di lungo periodo che sta al di sopra della curva del costo medio
di lungo periodo.
1
FUNZIONI DI OFFERTA

DI LUNGO E DI BREVE PERIODO

1 Funzioni di costo di lungo e di breve periodo

Finora abbiamo lavorato con un modello di impresa in cui compariva un


input fisso e un input variabile. All'interno delle imprese esistono ovviamente
molti input fissi e molti input variabili; il tenerne conto complicherebbe
l'analisi sul piano formale mentre nulla aggiungerebbe di rilevante per la
comprensione delle questioni di fondo. Tanto vale perciò proseguire con un
modello a due soli input.
Nel lungo periodo z1 e z2 sono scelti in modo da minimizzare
w1 z1 + w2 z2 , con il vincolo F(z1 ,z2 )= y e con i prezzi degli input dati. Nel
breve periodo z1 è scelto i modo da soddisfare il vincolo F(z1 ,z2 )= y , con
z2 = z2 . Di conseguenza si ha
w1 z1(w1 ,w2 ,y)+ w2 z2(w1 ,w2 ,y) ≤ w1 z1(y,z2 )+ w2 z2 (7.1)

perchè se la disuguaglianza non fosse soddisfatta zi (w1 ,w2 ,y) non sarebbe
la soluzione del problema di minimizzazione dei costi, cioè

c(w1 ,w2 ,y) ≤ c(w1 ,w2 ,y,z2 ) (7.2)

La figura 7.1 aiuta a capire la disuguaglianza (7.2). In essa sono


rappresentati gli isoquanti relativi a tre livelli di produzione. Dati i prezzi degli
input, si sono tracciate le semirette di isocosto e individuati i livelli di
impiego dei due input che minimizzano i costi per ogni assegnato livello di
output.
2
z2

C
z2(w1,w2,y1) E B D
y2
y1
A
y0
0 z1
FIGURA 7.1 Sentiero di espansione con un
input vincolato

La curva OABC che unisce i punti di tangenza tra isocosti e isoquanti è


il luogo di queste soluzioni di minimo costo ed è indicato con il termine di
sentiero di espansione. Va rammentato che l'input z2 , indicato come impianto
nel capitolo precedente è scelto nella dimensione opportuna, insieme all'altro
input, per rendere minimo il costo relativo a un certo livello di produzione. La
dimensione dell'impianto è variabile sia lungo un isoquanto che lungo il
sentiero di espansione. Assumiamo ora come data e non frazionabile la
dimensione dell'impianto; questo significa che l'impresa potrà minimizzare i
suoi costi variando solo la dimensione di z1 in funzione del livello di output.
Una semiretta al livello di z2 fissato taglia gli isoquanti orizzontalmente. Per
l'isoquanto y1 la combinazione non vincolata dei due input che rende minimo
il costo coincide con quella scelta in presenza del vincolo su z2 . Per un livello
di prodotto pari a y1 non vi è differenza alcuna tra decisione di lungo periodo
(assenza di vincolo) e di breve (presenza del vincolo). Il costo di lungo e di
breve sono uguali. Per valori del prodotto minori di y1 il costo di breve risulta
sempre più elevato; il punto E sta su una semiretta di isocosto più elevata di
quella tangente all'isoquanto y0 in A. Per valori maggiori di y1 il costo
sostenuto supera quello minimo di lungo periodo; per realizzare y2 si deve
scegliere la combinazione al punto D in cui passa una semiretta di isocosto più
elevata di quella minima passante in C.
3
C CTB

CTL
w2z2

0 y
y0 y1 y2
FIGURA 7.2 Costo totale di breve e di lungo periodo,
per un input vincolato

La figura 7.2 mostra da un diverso punto di vista la medesima


situazione. In essa sono rappresentati i costi associati agli stessi livelli di
produzione con il costo relativo a z2 fissato. CTB è la curva dei costi totali
con z2 vincolato (il costo fisso è 0F), chiamata curva dei costi di breve
periodo. CTL è la curva dei costi di lungo quando z2 è dimensionato sulla
produzione y1 . In y1 le due curve di costo totale risultano ovviamente
tangenti. Per livelli di prodotto diversi da y1 il costo di breve resta sempre più
elevato del costo di lungo periodo.
4
CTB2
C CTB1
CTB0
CTL

(a)
y
CMaB2

CMaB0 CMaL
CMaB1
C/y
CMeB2
CMeB0
CMeL
CMeB1

0
y0 y1 y2 y
(b)
FIGURA 7.3 Le curve dei costi di lungo periodo e l'inviluppo

La curva CTL è la curva dei costi totali minimi di lungo periodo relativa
ad una data funzione di produzione. All'interno della tecnologia che essa
rappresenta, la dimensione degli impianti è scelta in modo tale da minimizzare
il costo per un assegnato livello di output. Esistono conseguentemente tante
curve di costo totale di breve periodo per ciascuna dimensione di impianto
possibile entro quella tecnologia. Ciascuna di queste curve di breve sarà
tangente in un punto alla curva dei costi totali di lungo. Facendo variare con
continuità il livello di z2 otteniamo una intera famiglia di curve CTB.
Il contorno inferiore o inviluppo di tutte queste curve è la curva di costo
totale di lungo periodo (figura 7.3a). Può accadere che le diverse dimensioni di
impianto non presentino tutte la stessa efficienza tecnologica. Impianti piccoli
possono lavorare con più difficoltà rispetto a impianti di maggiori dimensioni;
possono avere velocità di funzionamento più basse, possono sprecare più
materia prima, possono comportare soluzioni organizzative più costose.
Analogamente per impianti di dimensioni troppo elevate. Si può pertanto
individuare una dimensione d'impianto ottimale, cioè una dimensione che rende
5
minimo il costo medio di produzione rispetto alle altre dimensioni possibili. Il
grafico in figura 7.3b, che discende analiticamente da quello 7.3a, è un esempio
di una simile situazione. La dimensione d'impianto per una produzione y1 è
quella più efficiente perchè presenta il costo medio minimo. Le curve in 7.3b si
ricavano facilmente dalla rappresentazione dei costi totali in 7.3a. Dividendo
per y si calcolano i costi medi per le diverse curve di costo di breve (CMeB)e
per la curva di lungo (CMeL). Studiando per le stesse curve l'andamento della
derivata prima si costruiscono le funzioni di costo marginale di breve (CMaB) e
quella di lungo periodo (CMaL).
In generale si può osservare che dividendo le funzioni di costo totale per y ,
abbiamo che CMeL<CMeB, eccetto che per y = y1 , in cui il livello dato di z2
è proprio quello che verrebbe scelto in un contesto di lungo. Per per questo
valore si riscontra che CMeL=CMeB. In termini analitici quanto sopra
presentato si può esprimere come segue. Sia

δ(y)= c(w1 ,w2 ,y,z2 )-c(w1 ,w2 ,y)

la differenza tra costi di breve e di lungo periodo, così che

δ(y) ≥ 0 e δ(y1 )= 0 .

Questa funzione è presentata nella figura 7.4.

CMeB - CMeL

δ(y)

0 y1 y
FIGURA 7.4 Differenza tra costi di breve e di lungo

δ(y) è minimizzata a y1 con δ (y 1 )= 0 e δ ’’(y1 ) ≥ 0 (assumendo


perciò la doppia derivabilità della funzione). Pertanto

∂c(w1 ,w2 ,y1 ,z2 ) ∂c(w1 ,w2 ,y1 )


= (7.3)
∂y ∂y
6
e

∂ 2 c(w1 ,w2 ,y1 ,z2 ) ∂ 2 c(w1 ,w2 ,y1 )


≥ (7.4)
∂y 2 ∂y 2

di modo che a y1 il CMaB è uguale al CMaL, ma l'inclinazione della curva di


CMaB è maggiore dell'inclinazione di quella del CMaL.
La figura 7.3b (in cui si può osservare che la relazione tra costi marginali
e costi medi è valida sia per i costi di breve che di lungo) illustra questa
situazione. Il significato economico della (7.3) e (7.4) è semplice: poichè i
costi di breve eccedono i costi di lungo quando y < y1, sono uguali per
y = y1, ed eccedono ancora i costi di lungo quando y > y1 , ne segue che i
costi di lungo crescono più rapidamente dei costi di breve (CMaL>CMaB)
quando y < y1, crescono meno velocemente dei costi di breve
(CMaL<CMaB) quando y > y1 , e crescono allo stesso tasso per y = y1
(CMaL=CMaB).

7.2 Il breve e il lungo periodo dal lato dell'offerta

Passiamo ora a considerare le proprietà della funzione di offerta di breve


periodo y = y( p,w1 ,z2 ) definita dalla (6.8), e la funzione di domanda di
input di breve periodo z1( p,w1 ,z2 ) ottenuta sostituendo la funzione di
offerta nella (6.2) nel modo seguente

z1( p,w1 ,z2 )= z1(y( p,w1 ,z2 ),z2 )

Consideriamo una derivazione alternativa di queste due funzioni


mediante il seguente problema di massimo

max y ,z1 py - w1 z1 - w2 z2
(7.5)
sub y = F(z1 ,z2 )

dal quale si ottengono le due equazioni

∂F(z1 ,z2 )
p = w1 (7.6)
∂z1

F(z1 ,z2 )= y (7.7)


7
la cui soluzione fornisce

y = y( p,w1 ,z2 ) (7.8)

z1( p,w1 ,z2 ) (7.9)

E' immediato osservare che queste due ultime equazioni rappresentano


un altro modo di scrivere la (6.8) e la (6.2) del capitolo precedente così che le
soluzioni sono effettivamente le stesse funzioni. In tal modo possiamo
affermare che l'impresa nel breve periodo sceglie il livello di output che rende
il costo marginale uguale al prezzo dell'output o sceglie il livello dell'input
variabile che rende il valore del prodotto marginale uguale al prezzo
dell'input: si tratta di due modi di affermare la stessa cosa.
Osserviamo il grafico in figura 7.5. Se, inizialmente, l'impresa è in
equilibrio di lungo periodo per p1 ,y1, una crescita del prezzo a p2 farà
aumentare l'output a y2 lungo la curva del CMaB. Ma quando l'impresa varia
tutti gli input, l'output si espanderà ulteriormente lungo la curva del CMaL a
y3 (naturalmente a y3 , z2 è cambiato e l'impresa avrà una nuova curva del
CMeB tangente alla curva del CMeL in corrispondenza a y3 e una nuova
curva del CMaB che interseca la curva del CMaL sempre in y3 ).

CMaB CMaL

p2
CMeB

p1 CMeL

0 y1 y 2 y 3 y
FIGURA 7.5 Curve dei costi di lungo e breve periodo

Le funzioni di offerta di lungo e di breve periodo hanno pertanto la


proprietà che

∂y( p,w1 ,w2 ) ∂y( p,w1 ,z2 )


≥ ≥ 0 (7.9)
∂p ∂p
8
Moltiplicando ambo i lati della (7.9) per p/y si cambiano le derivate
in elasticità e si ottiene che

∂y( p,w1 ,w2 ) p ∂y( p,w1 ,z2 ) p


≥ (7.10)
∂p y ∂p y

vale a dire che l'elasticità dell'offerta di lungo periodo è maggiore dell'elasticità


dell'offerta di breve periodo.
83

LA RELAZIONE TRA MASSIMIZZAZIONE DEI PROFITTI


NEL BREVE E NEL LUNGO PERIODO

1 La formulazione del problema

In questo capitolo svolgiamo l'esperimento di prendere sul serio la


distinzione tra breve periodo e lungo periodo discussa nei capitoli precedenti.
Proviamo perciò a calare il comportamento dell'impresa che massimizza il profitto
e che assume il prezzo del prodotto come un parametro fuori dal suo controllo, in
un ambito temporale esplicito. Mediante il modello che andiamo a discutere la
distinzione tra breve e lungo periodo assumerà una valenza operativa.
Supponiamo che le decisioni di produzione dell'impresa abbiano carattere
stagionale e che l'impresa all'inizio di ogni stagione o, per usare un termine più
appropriato, all'inizio di ogni periodo, debba assumere due tipi di decisioni:

(a) il livello di produzione da realizzare nel periodo, tenuto conto dei vincoli
che derivano dalla presenza di input produttivi fissi, come gli impianti ad esempio;

(b) programmare un livello di produzione per il periodo successivo in un


contesto in cui tutti gli input diventano variabili.

Questa seconda decisione equivale a scegliere la tecnologia futura di


produzione, cioè quali nuovi impianti installare. Questa scelta si effettua sulla base
di una duplice previsione: l'ampiezza che si stima assumerà il mercato della merce
che l'impresa realizza e quale quota di quel mercato la nostra impresa andrà a
coprire.
La prima decisione è il problema decisionale di breve periodo, la seconda
quello di lungo periodo. Vediamo ora come queste due decisioni siano in realtà
collegate.
84
2 Il modello

Introduciamo una nuova notazione per distinguere tra grandezze effettive e


grandezze previste:

yat : output effettivo al tempo t.

y tp : output pianificato per il periodo t, deciso al tempo t-1.

pta : prezzo effettivo dell'output al tempo t.

ptf : prezzo atteso dell'output per il periodo t, previsto nel tempo t-1.

Assumiamo che tutti gli input siano perfettamente variabili dopo il periodo
corrente; di conseguenza le aspettative e i piani relativi vanno formulati solo per il
periodo successivo; y tp e ptf si riferiscono pertanto a previsioni formulate
dall'impresa nel periodo t-1 sul prezzo e sulla quantità del periodo t. Supponiamo,
per semplificare l'esposizione, che i prezzi degli input siano noti e costanti nel
corso del tempo e che non via siano modifiche nelle conoscenze tecnologiche. Le
curve dei costi, assunte sempre ad U, con queste ipotesi semplificatrici non
modificano forma e posizione da un periodo all'altro. Supponiamo che z2 sia
l'input fisso e che consista in una misura della capacità produttiva dell'impianto.
All'inizio del periodo 0 l'impresa dispone di una data capacità produttiva che
non può modificare nel corso del periodo. Le sue curve di costo medio e
marginale di breve periodo sono indicate nella figura 8.1 con CMeB0 e CMaB0.
Nel periodo 0 la scelta ottima dell'impresa è di realizzare la produzione ya0 che
uguaglia il costo marginale di breve al prezzo di mercato osservato p0a . Nello
stesso periodo l'impresa formula una previsione di prezzo e quantità per il periodo
1 e decide conseguentemente di adeguare la dimensione dell'impianto all'output
previsto. Le curve di costo medio e marginali rilevanti per pianificare il livello di
output del prossimo periodo sono le curve di costo di lungo periodo (in grassetto
nella figura 8.1).
85
p
CMaB1
p1' CMaB0
a
CMaL
0
CMeB
pf 1= pa1 1
0 CMeB
p
a
CMeL

ya0 yp1 = ya1 ya1' y

FIGURA 8.1 Aggiustamento tra breve e lungo periodo

All'inizio del periodo 0 l'impresa formula una previsione sul prezzo del
periodo 1, supponiamo sia p1f ; sulla base di questa previsione programma di
massimizzare il suo profitto nel periodo 1 con una produzione pari a y1p ,
individuata applicando la condizione di primo ordine CMaL= p1f . Al livello
programmato di output per il periodo 1 va dimensionato l'impianto. Sia z12 la
nuova dimensione dell'impianto per il periodo 1; l'impresa provvede pertanto nel
corso del periodo 0 ad effettuare l'investimento di modo che la nuova capacità
produttiva entri in attività all'inizio del periodo 1 (si suppone che per la modifica
della capacità produttiva sia necessario un periodo).
Le decisioni che si devono prendere nel periodo 0 sono:

(a) la fissazione dell'output corrente per il periodo 0, sulla base del prezzo
corrente p0a e della dimensione corrente dell'impianto z20 ;

(b) la scelta della dimensione dell'impianto z12 per il periodo1, sulla base
dell'output programmato per il periodo 1, che a sua volta dipende dalla
previsione che l'impresa formula sul prezzo al periodo 1.

All'inizio del periodo 1 la dimensione dell'impianto sarà z12 con le curve di


86
costo di breve periodo CMeB1 e CMaB1. Si supponga che il prezzo corrente del
periodo 1 sia p1a ; il profitto è massimizzato producendo la quantità che uguaglia il
CMaB1 al prezzo corrente p1a , che nell'esempio risulta uguale al prezzo previsto
p1f . Poiché la previsione sul prezzo si è rivelata esatta il livello effettivo e
pianificato di output del periodo 1 sono uguali, y1p = y1a .
Si noti che in questa posizione di equilibrio in cui le previsioni dell'impresa
su prezzo e quantità sono state confermate dal mercato il CMaB1 =CMaL; pertanto
la dimensione effettiva dell'impianto z12 è quella ottimale per produrre la quantità
y1a .
Nel periodo 1 l'impresa programma inoltre un output per il periodo 2, e ciò
implica una decisione da assumere nel periodo 1 circa la dimensione dell'impianto
nel periodo 2, che indichiamo con z22 . Se l'impresa si attende che p2f sia uguale a
p1a , la quantità pianificata per il periodo 2 è uguale a quella realizzata nel periodo
1 ( y 2p = y1a ) e non vi è bisogno di adeguare la dimensione dell'impianto
(z 22 = z 12 ) . In questa situazione l'impresa si trova pertanto in equilibrio di lungo
periodo; il che significa che essa sta massimizzando il profitto nel periodo corrente
e il suo impianto attuale è ottimale anche per il prossimo periodo, poiché prevede
che il prezzo di mercato corrente prevarrà anche nel periodo successivo.
Se l'impresa al tempo 0 avesse previsto il prezzo al tempo 1 in modo errato,
fosse cioè prevalso ad esempio un prezzo corrente p1a' più elevato del prezzo
previsto p1f , la dimensione dell'impianto z12 nel periodo 1 decisa nel periodo 0
sarebbe risultata insufficiente. L'impresa avrebbe massimizzato comunque il
profitto corrente uguagliando il CMaB1 al prezzo corrente p1a' e realizzando un
output di y1'a .
Nel periodo 1 l'impresa decide anche la produzione del periodo
successivo, y 2p , sulla scorta della sua previsione di prezzo p2f ; essa aggiusta la
dimensione dell'impianto se p2f ≠ p 1f , nel caso cioè decidesse di cambiare il
prezzo previsto per il periodo futuro rispetto a quello che aveva previsto al tempo
0 per il periodo corrente.

3 Implicazioni del modello

Sulla base dell'output così pianificato, l'impresa decide l'effettiva dimensione


dell'impianto per il periodo successivo; se la previsione sul prezzo si rivela
scorretta, l'output effettivo di quel periodo sarà in generale differente da quello
programmato.
87
Il processo di previsione del prezzo e della quantità impone all'impresa la
scelta di una certa dimensione dell'impianto per il prossimo periodo ma non quella
di un dato livello di output. Quando l'impresa decide il livello corrente di output
all'inizio di un periodo, essa assume una decisione di breve periodo: la dimensione
del suo impianto è fissata dal piano formulato nel periodo precedente e non è
alterabile durante il periodo attuale. L'impresa quindi produce sempre la quantità
che rende pta =CMaBt allo scopo di massimizzare il profitto nel periodo corrente.
Se la previsione risulta corretta la dimensione corrente dell'impianto è anche
quello ottimale e l'impresa produce un livello di output per cui

CMaL=CMaBt= pta = p tf

Se la previsione si rivela scorretta, l'impresa non produrrà la quantità di


prodotto in cui CMaL=CMaBt; la dimensione dell'impianto non sarà pertanto
quella ottimale. Il costo marginale di breve periodo e il prezzo effettivo
determinano l'output effettivo del periodo corrente. Il costo marginale di lungo
periodo e il prezzo previsto determinano l'output programmato e l'impianto
effettivo del periodo successivo.
La relazione tra grandezze previste e osservate, pianificate e realizzate, si
può esprimere mediante lo schema seguente:

p1f → y 1p → z 12 → CMaB1

ya1

p1a → p 2f → y p2 → z22

Il costo marginale di breve periodo al tempo 1 e il prezzo effettivo sono le


variabili che impongono all'impresa la decisione sulla produzione effettiva al
tempo 1. Il passaggio cruciale del processo decisionale per il periodo successivo è
la formulazione del prezzo previsto per il tempo 2. L'impresa nel decidere ora una
dimensione di impianto per il periodo successivo si trova in una situazione di
incertezza di mercato, perchè deve basare la sua decisione su una previsione del
prezzo del periodo successivo, in quanto il prezzo vero non è conosciuto. Dalla
88
discussione fin qui condotta dovrebbe essere chiaro che quanto migliore è la
previsione del prezzo da parte dell'impresa, tanto più vicina all'ottimo risulterà la
dimensione dell'impianto nel periodo seguente.

4 Il costo dell'aggiustamento

Ne segue che l'impresa può trarre un effettivo vantaggio dall'impiego di


risorse per migliorare la sua capacità di formulare previsioni di prezzo attendibili.
Esistono diversi modelli previsivi, da quelli molto semplici, del tipo che il prezzo
atteso futuro viene assunto uguale al prezzo effettivo corrente, a quelli via via più
sofisticati che utilizzano, ad esempio, complesse funzioni statistiche per ricavare
dalle serie temporali dei prezzi passati previsioni su quelli futuri, oppure che
affiancano all'osservazione dei prezzi passati altri indicatori che hanno la proprietà
di fungere da anticipatori dei prezzi futuri. Questi metodi possono talvolta anche
risultare assai costosi.
Per l'impresa si pone pertanto il problema di scegliere se impiegare risorse,
che rappresentano un costo, per migliorare le previsioni, o accettare il rischio di
sbagliare le previsioni e di trovarsi in futuro con una dimensione di impianto non
ottimale. La scelta dipende dai costi di aggiustamento che l'impresa deve sostenere
per sanare una situazione di squilibrio tra produzione effettiva, a costi medi più
elevati, e produzione ottimale a costi medi più bassi. I costi di aggiustamento sono
i costi che l'impresa sostiene per adeguare la dimensione corrente dell'impianto a
quella ritenuta ottimale. Se questi costi sono bassi, l'impresa ha un incentivo
piccolo a investire risorse per migliora il processo di previsione. E' questa una
situazione in cui nella struttura dei costi dell'impresa i costi fissi dell'impianto
rappresentano una quota piccola rispetto ai costi variabili; oppure, se sono alti,
l'impianto può facilmente essere adibito a impieghi diversi rispetto a quelli previsti
o venduto nel mercato dell'usato. In tal caso si afferma che la struttura produttiva è
caratterizzata da flessibilità. Viceversa, se il peso dei costi fissi è rilevante e per le
sue caratteristiche tecniche l'impianto non è suscettibile di impieghi alternativi, i
costi di aggiusamento risultano elevati. La struttura produttiva appare in tal caso
caratterizzata da rigidità.
1

Il monopolio
Approfondimenti

1. Introduzione

Si è visto nel capitolo precedente che il monopolista realizza un livello di


output a cui corrisponde un prezzo sul mercato superiore al costo marginale. Non
desta sorpresa che questo livello di produzione sia inferiore a quello che si
realizzerebbe in un mercato perfettamente concorrenziale e che il prezzo di
monopolio risulti superiore al prezzo, uguale al costo marginale, che prevarrebbe in
concorrenza perfetta,. Dal punto di vista del consumatore l’equilibrio del
monopolista implica una perdita, detta perdita sociale, rispetto agli esiti di un
mercato di concorrenza perfetta. Esaminiamo più da vicino la questione.

2. Il surplus del consumatore

Introduciamo il concetto di “surplus del consumatore”. Esso rappresenta


una misura monetaria del beneficio che i consumatori ricavano dal consumo di un
merce. Consideriamo una funzione di domanda standard y=y(p). Ammettendo che
l’inversa esista la riscriviamo con il prezzo variabile dipendente p=p(y) (funzione
inversa di domanda). Questa funzione indica che il prezzo p può essere considerato
la misura monetaria del beneficio che il consumatore ricava dall’ultima frazione,
detta frazione marginale, del consumo della merce. Indichiamo con B(y) il valore
monetario del beneficio totale che il consumatore ricava dal consumo y, allora
2

dB(y)
= p(y)
dy
Da cui, immediatamente, per ogni quantità consumata tra 0 e y0 ,
dB ( y )
(y 0 ) ( y0 )

B(y0 ) = ∫0 dy
dy = ∫0
p(y)dy

Ovviamente B(0)=0. Il beneficio è rappresentato graficamente dall’intera


area sottostante la curva di domanda tra il livello di produzione 0 e il livello y0 ; la
somma delle aree A, B, D nella figura 9a.1 sottostante.

surplus del
A consumatore
p(y0)
B C
p(y1)
D
p(y)
0 y0 y1 y
FIGURA 9a.1 Surplus del consumatore

La quantità acquistata al prezzo p(y0 ) è y0 , così che la spesa del consumatore è


p(y0 )y0 rappresentata dalla somma delle aree B e D. Il beneficio totale del
consumatore eccede pertanto eccede la spesa dell’area A, la quale è chiamata
“surplus del consumatore”. Matematicamente si ha

[ p(y) − p(y )] dy
(y0 ) (y0 )
CS(y0 ) = ∫0 p(y)dy − p(y 0 )y0 = ∫0 0

Se il prezzo diminuisce a p(y1 ) il surplus del consumatore diventa la somma


delle aree A, B e C. Questo incremento deriva, per l’area B, dalla diminuzione del
prezzo da p(y0 ) a p(y1 ) su tutte le quantità già consumate al prezzo p(y0 ) e, per
l’area C, dall’incremento di consumo da y0 a y1 .
3

Una spiegazione più intuitiva del concetto di surplus del consumatore è la


seguente. Al prezzo p(y0 ) si acquistano tutte le quantità nell’intervallo “ 0 - y0 ”. La
curva di domanda indica che solo per l’ultima unità di merce acquistata il valore
che il consumatore vi attribuisce è uguale al prezzo del mercato. Su tutte le unità di
merce precedenti (y0 - 1, y0 - 2, y0 - 3, ..., 0) il valore ad esse attribuito dal consumatore
supera il prezzo unico p(y0 ) di acquisto. La somma di questi maggiori valori, diversi
per ciascuna unità della stessa merce nell’intervallo “0-y 0 ”, è il surplus del
consumatore. Il maggior valore, decrescente seguendo la curva di domanda, che il
consumatore attribuisce attribuisce a ciascuna unità di merce da 0 a y0 è un “prezzo
di riserva”, cioè il prezzo più alto che il consumatore è disposto a pagare per
ottenerla. Il prezzo di riserva si riduce man mano che la quantità acquistata aumenta
fino a diventare pari al prezzo p(y0 ) allorchè l’ultima unità acquistata sommata alle
precedenti da come risultato il livello y0 .

Da quanto detto si intuisce che se un monopolista che volesse aumentare le


sue vendite fosse perfettamente in grado di non ridurre il prezzo anche sulle
quantità precedentemente vendute riuscirebbe ad appropriarsi del surplus del
consumatore. La nozione di ricavo marginale ci è d’aiuto. Esso rappresenta la
variazione di ricavo causata da una piccola (infinitesima) variazione del prodotto ed
è il risultato di due componenti di segno opposto: l’aumento di ricavo dovuto alla
maggiore quantità venduta ma a un prezzo minore di quello prima vigente e la
perdita di ricavo causata dal nuovo minor prezzo applicato alle quantità
precedentemente vendute a un prezzo più elevato. In simboli, il ricavo marginale,
nel discreto, è
⎛ Δp ⎞
ΔR = p(y1 )Δy + y0 Δp = ⎜ p(y1 ) + y 0 Δy
⎝ Δy ⎟⎠

con Δp/Δy<0. E’ evidente che se il prezzo che si applica alla quantità


precedentemente venduta non dovesse scendere (Δp/Δy=0) il ricavo marginale
risulterebbe p(y1 )Δy, dunque più elevato. La domanda che ci si può porre è se il
monopolista non dispone di modi di vendere le diverse unità di prodotto a prezzi
differenti. Il che significa discriminare il prezzo a seconda delle caratteristiche
dell’acquirente. E’ una questione che affrontiamo nell’ultimo paragrafo di questo
capitolo.
4

3. Perdita sociale causata dal monopolio

Il beneficio lordo per i consumatori è l'area sottostante la curva di domanda


fino all'ascissa, dall'origine fino al livello di produzione y. In simboli
y

BL (y) = ∫ p(y)dy
0

che rappresenta l'area Oy*ab del grafico nella figura 9a.2 la somma dell'area A, il
surplus del consumatore, e dell'area B, la spesa sostenuta dai consumatori.
p
b
area A = surplus del consumatore = beneficio
netto
area B = spesa sostenuta dai consumatori

area A + area B = beneficio lordo consumatori

A C’(y)
a
p

0 y y
*
FIGURA 9a.2 Beneficio netto del consumatore

Il costo sociale è l'area sottostante la curva di costo marginale C'(y). E' il


costo di produzione per il monopolista. E' anche detto costo sociale perché
rappresenta il costo per la società del non impiegare in altre produzioni le risorse
produttive, lavoro e altri input, utilizzati dal monopolista. Tale costo è
5

C(y) = ∫ C'(y)dy
0

Di conseguenza il beneficio sociale netto


y y y

BN (y) = ∫ p(y)dy − ∫ C '(y)dy = ∫ ( p − C ')dy


0 0 0
(α)

Il massimo beneficio netto si ha per y=y*tale che


B'N (y) = py * − C ' (y * ) = 0
Dal grafico nella figura 9a.3 seguente si osserva che per y=y’, BN(y’) è
minore di B N(y*) per l’area del triangolo (curvilineo) abc.
p

Surplus del
consumatore
Surplus del
produttore
a
CS d C’(y)
b
p*=C’(y*) PS
c
e

0 y’ y* y’’
FIGURA 9a.3 Massimo beneficio sociale

Il valore di una quantità marginale di prodotto py’ è maggiore del suo costo
C’(y) così che il beneficio aumenta all’aumentare di y → y * . Ugualmente nel caso
di y” perchè al valore massimo di Bn bisognerebbe sottrarre l’area bdc. Per
produzioni comprese nell’intervallo y*-y” il costo è maggiore del beneficio
sociale. Conviene dunque ridurre la produzione perchè così il costo sociale
verrebbe a ridursi e aumenterebbe il beneficio netto.
6

Se alla relazione (α) aggiungiamo e sottraiamo il ricavo delle imprese


(p(y)y)si ha
⎡y ⎤ ⎡ y

BN (y) = ⎢ ∫ p(y)dy − p(y)y ⎥ + ⎢ p(y)y − ∫ C'(y)dy ⎥ = CS + PS
⎢⎣ 0 ⎥⎦ ⎢⎣ 0 ⎥⎦

vale a dire il beneficio netto sociale è la somma del surplus del consumatore e
del surplus del produttore.
Dimostriamo ora, in maniera meno intuitiva, che la realizzazione della
condizione p(y) = C '(y) garantisce la massimizzazione di BN, la somma del surplus
del consumatore e del surplus del produttore. Per y=y* si ha
B'N (y*) = p(y*) − C '(y*) = 0
con
B"N (y*) = p' (y*) − C " (y*) < 0

Ma sia y la quantità ottimale del monopolista; allora

∧ 1
p(y )(1 − ) = C '(y)
e
∧ ∧
con e>1; ne segue che y <y* e p( y )>p(y*). La perdita di benessere risulterà essere

y* y
∧ ∧
BN (y*) − BN (y ) = ∫ p(y)dy − C(y*) − ∫ p(y)dy + C(y) =
0 0
y*

p(y)dy − ⎡⎢ C(y*) − C(y )⎤⎥



= ∫
0
⎣ ⎦


poichè C(y) = C'(y)dy si ha, alla fine,
0

y*

∫ [ p(y) − C '(y)] dy

y
7

che nella figura 9a.4 è l’area compresa tra la curva di domanda e la curva del costo

marginale nell’intervallo ( y , y* ),


p( y) C ' (y)
A B
p(y*)
∧ C
C '(y)

0 ∧
y y y*

FIGURA 9a.4 Perdita di benessere del consumatore

Questa perdita di benessere sociale la si coglie immaginando di passare da


una situazione concorrenziale in cui ilprezzo è uguale al costo marginale e la
coppia prezzo-quantità è ( p(y*), y * ) a una situazione di monopolio in cui la
∧ ∧
coppia prezzo-quantità diventa ( p(y ), y ) guardando sempre alla figura 9a.4

Passando al monopolio i consumatori si vedono sottrarre le aree A e B. Il


produttore acquisisce l’area A ma perde l’area C; egli aumenta il suo profitto
perchè A>C; ora infatti egli massimizza il profitto perchè sceglie di produrre la
quantita che è indicata dall’uguaglianza tra ricavo marginale e costo marginale. In
termini sociali l’area A si trasferisce dai consumatori al produttore. Ma l’area B, la
perdita dei consumatori, e l’area C, la perdita del produttore, non trovano
compensazione. La loro somma (B+C) è una perdita secca per la società imputabile
al monopolio.
8

4. La regolamentazione mediante sussidi

Tasse e sussidi sono strumenti per portare i mercati a un diverso equilibrio.


Applichiamo ora un sussidio per indurre il monopolista a offrire sul mercato la
stessa quantità di merce che egli offrirebbe se fosse un produttore concorrenziale;
vale a dire se determinasse la sua offerta in base all’uguaglianza tra costo marginale
e prezzo.
Il monopolista subisce una perdita di ricavo se taglia il prezzo per aumentare
le vendite. Questa perdita di ricavo è tuttavia un vantaggio per l’insieme dei
consumatori: è un trasferimento di reddito dal monopolista ai consumatori. Per
indurre il monopolista a produrre come in concorrenza perfetta si può pensare di
pagargli un sussidio s per ogni unità di prodotto realizzata. La funzione di profitto
del monopolista diventa
p(y) y + sy − c(y)
dove p(y) è il prezzo pagato dal consumatore. La condizione di primo ordine per
la massimizzazione del profitto è
p(y ) + p '(y)y + s − c '( y) = 0
ovvero
MR = c '(y) − s

La condizione di secondo ordine è 2 p '(y) + p ''( y)y − c ''(y) < 0 che assumiamo
soddisfatta.
La condizione di primo ordine, la derivata prima della funzione di profitto
uguagliata a zero, definisce y come una funzione implicita del sussidio s. Per capire
come varia la produzione al variare del sussidio calcoliamo la derivata della
produzione rispetto al sussidio (dy/ds) ottenendo
dy dy dy
c ''(y ) − 1− p'( y) − p ''( y)y =0
ds ds ds
che si può riscrivere più sinteticamente
dy
(c ''(y) − p '(y) − p ''(y)y) =1
ds
con dy/ds>0 se la condizione di secondo ordine è soddisfatta. I profitti crescono al
crescere del sussidio s. Nella figura 9a.5 l’offerta passa alla dimensione
9

concorrenziale dopo che la curva di costo marginale (per semplicità assunto


costante e uguale al costo medio) si abbassa dell’ammontare del sussidio s. Il
monopolista perde profitto da un lato per l’area A+B ma lo guadagna per l’area
C+D a causa del sussidio. Per accrescere la produzione e l’efficienza è necessario
trasferire reddito dai contribuenti che pagano il sussidio al monopolista che lo
incassa.
p

p
1
B
A
p c’=c/y
2
C

s
D
c’-s=(c-s)/y

0 y y
1
y
2
FIGURA 9a.5 L’offerta del monopolista con sussudio

Un conflitto dunque sembra emergere tra efficienza e distribuzione del reddito. Il


pagamento di un’imposta sui profitti da monopolio attenuerebbe parte del dissidio.

5. La discriminazione di prezzo in monopolio

Il monopolista non offre prodotto in quantità tale da portare all’uguaglianza


il costo marginale e il prezzo. Per aumentare le vendite il monopolista dovrebbe
ridurre il prezzo ma con la conseguenza che vedrebbe ridursi una parte di ricavo
sulle vendite che gli acquirenti già esistenti gli garantiscono.
Se il monopolista riuscisse a far accettare prezzi diversi a acquirenti diversi la
perdita di ricavo messa in luce potrebbe esser ridotta o annullata.
10

Supponiamo ora che il monopolista sappia il prezzo massimo che ciascun


potenziale acquirente che sarebbe disposto a pagare. Questo prezzo massimo è il
“prezzo di riserva”. L’abilità del monopolista sta nel far pagare ad ogni
consumatore il suo prezzo di riserva su ogni quantità, anche molto piccola, di
prodotto acquistata. Pertanto ogni consumatore potrà pagare prezzi diversi per
sottoinsiemi diversi del proprio consumo totale perchè i propri prezzi di riserva
decrescono per successive porzioni di consumo della merce offerta dal
monopolista.
Una condizione necessaria per la discriminazione di prezzo, oltre alla
conoscenza dei prezzi di riserva da parte del monopolista, è che l’arbitraggio non
sia possibile. Un consumatore non possa cioè rivendere a un prezzo più alto una
merce acquistata a un prezzo più basso guadagnando la differenza tra i due prezzi.
Nella pratica commerciale esistono tanti metodi per impedire l’arbitraggio:
l’isolamento geografico del mercato attraverso tasse o costi di trasporto; prezzi
diversi in base all’età dell’acquirente; prezzi più elevati di libri e riviste se
l’acquirente è una istituzione invece che un individuo; e così via.
Si è in presenza di “perfetta discriminazione” allorché ciascun consumatore
paga un prezzo diverso per ogni unità di prodotto consumata.
Il monopolista che massimizza il suo profitto fa pagare a ciascun
consumatore il suo prezzo di riserva. Questi prezzi, di riserva, si individuano sulla
curva di domanda (inversa, p=p(y)). Il ricavo totale si calcola sommando i ricavi
ottenuti su ogni quantità di merce venduta con il seguente integrale
y

R = ∫ p(y)dy
0

con R(0)=0 e R’(y)=p(y); così che i ricavi sono aumentati dalle extra vendite
moltiplicate per il prezzo, diverso, che si realizza su ciascuna di esse. I profitti sono
pertanto
y

π = ∫ p(y)dy − c(y)
0

che, ricordando R’(y)=p(y) sono massimizzati per il livello di produzione per cui
p(y) − c(y) = 0
la stessa condizione di I° ordine che vale per un’impresa in concorrrenza perfetta.
L’interpretazione è la seguente: poiché la vendita marginale è realizzata esattamente
11

al prezzo che il consumatore marginale è in grado di pagare (senza che il prezzo


delle vendite preesistenti si riduca) la funzione di domanda è la funzione di ricavo
marginale del monopolista che attua la discriminazione perfetta. Il livello di
produzione è così il livello efficiente ma con una redistribuzione del reddito a
favore del produttore. Il “surplus del consumatore”, per la sua totalità, accresce il
ricavo del monopolista. Un esempio serve a chiarire il punto. Supponiamo vi siano
cinque acquirenti potenziali con prezzi di riserva p 1> p 2> p 3> p 4> p 5 con ciascuno di
essi che consuma una unità di prodotto. Fissato il prezzo p i, per i=1, ..., 5, il
monopolista vende i unità di merce. Se il monopolista fissa il prezzo p 3 vende y=3.
Il surplus del primo consumatore sarà (p1-p3)* 1; per il secondo consumatore (p2-
p 3)* 1. Il terzo consumatore, l’acquirente marginale non realizza alcun surplus. La
figura 9a.6 indica che se il monopolista fosse in grado di trattare separatamente
ciascun acquirente facendogli pagare il suo prezzo di riserva si approprierebbe del
surplus dei primi due consumatori. Con un prezzo p 3 il ricavo risulterebbe 3p3.


3
Con discriminazione di prezzo il ricavo salirebbe a i= 1
pi e il profitto a


3

i= 1
(pi − c) . Il monopolista non fornirebbe prodotto agli ultimi due consumatori
perchè il loro prezzo di riserva risulta inferiore al costo marginale (costante). Se il
prodotto fosse fornito in concorrenza perfetta la quantità sarebbe pari a 3 al prezzo
p 3=c; come nel caso di discriminazione perfetta (con la variante che nel caso
discreto della figura 9a.6 solo casualmente il prezzo marginale coincide con il costo
marginale). Rispetto alla concorrenza perfetta l’unica differenza risiederebbe nel
fatto che il surplus del consumatore accrescerebbe il profitto del monopolista.
Consideriamo un caso più realistico in cui il monopolista si deve accontentare
di una discriminazione di prezzo parziale o imperfetta. Supponiamo che il mercato
possa essere segmentato in due parti con funzioni di domanda p1 (y1 ) e p2 (y2 ) .
12

p1
c=ay, il costo unitario è costante;
p2 costo medio e marginale sono
uguali
p3

p4

p5

y
0 1 2 3 4 5

FIGURA 9a.6 Perfetta discriminazione del prezzo

La differenziazione può emergere, ad esempio, aggiungendo un servizio al


prodotto nel primo segmento di mercato rispetto al prodotto offerto nel secondo (la
prenotazione anticipata e posticipata di un volo aereo o la prima e la seconda classe
nei treni). La funzione di profitto del monopolista è
π (y1 , y2 ) = p1 (y1 )y1 + p2 (y2 )y2 − c(y 1 + y2 )
Poiché il prodotto è y1 e y2 si hanno due condizioni di primo ordine per il
massimo profitto
∂π (y1 , y2 )
= p1 + p1' y1 − c' (y1 + y2 ) = 0
∂y1
∂π (y1 , y2 )
= p2 + p'2 y2 − c ' (y1 + y2 ) = 0
∂y2

da cui deriva la condizione di uguaglianza tra i due ricavi marginali


p1 + p1' y1 = p2 + p2' y2
o ancora, ricordando che ei = (yi / pi ) / (∂pi / ∂yi ) ,
13

⎛ 1⎞
p1 ⎜ 1 + ⎟
p1 ⎝ e1 ⎠
= =1
p2 ⎛ 1⎞
p2 ⎜ 1 + ⎟
⎝ e ⎠2

se e1 = e2 ; i due prezzi saranno perciò uguali; e

⎛ 1⎞ ⎛ 1 ⎞ 1 1
p1 > p2 se ⎜ 1− ⎟ < ⎜ 1− ⎟ , ovvero > ⇒ e1 < e2 .
⎝ e1 ⎠ ⎝ e2 ⎠ e1 e2

ricordando che in equilibrio di monopolio, ovviamente e1 1 , e2 > 1 .


Sarà dunque maggiore il prezzo che si riferisce al prodotto che si vende sul
segmento di mercato in cui l’elasticità della domanda è minore in valore assoluto. Il
grafico nella figura 9a.7 ci aiuta a capire queste proposizioni. I primi due grafici
rappresentano i due segmenti di mercato. Il terzo è il risultato dell’aggregazione
delle due curve di domanda segmentate e delle rispettive due curve di ricavo
marginale.

p1
p2 p

c ' (y1 + y2 )
* p1*
p2
D1 + D2

y*2 RM 1 y2 y1*
RM 2 y1 ∑
2

i
y ∑ RM y

FIGURA 9a.7 Discriminazione di prezzo su due mercati


segmentati

In esso si determina il livello complessivo offerto y1 + y2 . Tracciando una


semiretta orizzontale all’ascissa dal punto di intersezione tra la curva aggregata del
costo marginale e la curva aggregata del ricavo marginale si individuano nei primi
14

due grafici il livello comune del ricavo marginale e da qui le quantità vendute nei
due segmenti y1 + y2 . Dopo di che si individuano nel modo usuale i due prezzi
* *

p1* , p2* sulle curve di domanda. Si noti che p1* > p*2 perchè e1 < e2 .
1
IL MONOPOLIO

1 Introduzione al problema

L'aspetto di maggior rilievo della teoria dell'impresa finora studiata, è l'ipotesi


che l'impresa sia price taker, cioè che assuma come dati tutti i prezzi, dell'output e
degli input, indipendentemente dalle azioni che intrapprende. Produrre tanto o poco
non aveva influenza alcuna sul prezzo a cui la merce si supponeva poter essere
venduta. Questa significava che nella funzione di scelta dell'impresa in prezzo del
prodotto veniva trattato parametricamente. Un'impresa che esibisce un
comportamento simile si afferma sia un'impresa in concorrenza perfetta. A livello
intuitivo un'impresa in concorrenza perfetta dovrebbe essere così piccola rispetto alle
dimensioni del mercato sul quale vende la propria produzione che variazioni nella
sua offerta non dovrebbero essere percebili dal mercato stesso.
In realtà, in un contesto di concorrenza perfetta, l'idea che l'impresa sia un'isola
è solo parzialmente corretta.
Sappiamo che in generale la curva di domanda di mercato è discendente.
Per l'imprenditore concorrenziale l'idea che variazioni nelle quantità prodotte
non influenzano il prezzo è solo un assunto comportamentale. Egli prende le sue
decisioni come se il prezzo fosse dato. In realtà un aumento della quantità che egli
offre eleva l'offerta complessiva e questo incremento viene assorbito dal mercato solo
se il prezzo scende. La modifica del prezzo risulta inattesa all'imprenditore che non
lo sa collegare alla sua precedente scelta di quantità. Sulla base del nuovo prezzo di
mercato egli dovrà assumere una nuova decisione di quantità. Il comportamento
dell'imprenditore concorrenziale è basato solo su informazioni di prezzo che
provengono dal mercato e il rapporto tra singolo e mercato è percepito come
unidirezionale. Purtuttavia i movimenti di prezzo sul mercato conducono a coerenza
la decisione isolata dell'imprenditore di variare la sua offerta. Egli interpreta il
movimento del prezzo come il risultato dell'azione cosciente della mano invisibile del
mercato, quasi che il mercato non fosse una entità astratta ma presentasse sembianze
antropomorfe.
Sta di fatto che la logica di funzionamento del mercato di concorrenza perfetta
è estremamente complessa; la complessità risiede essenzialmente nell'interazione tra
le decisioni dei singoli imprenditori, gli esiti aggregati inattesi che da quelle decisioni
isolate scaturiscono a livello di sistema, il cambiamento dei parametri decisionali
percepeti dagli imprenditori a seguito degli esiti aggregati.
Per iniziare a cogliere la natura del legame tra l'impresa e il mercato in cui
2 essa opera, conviene partire dal caso concettualmente più semplice di un'impresa
che da sola soddisfa tutta la domanda del mercato. In tal caso si dice che l'impresa è
in monopolio. Si tratta di un contesto in cui l'impresa non può assumere il prezzo
come un dato del problema e sulla base di questo individuare la quantità che
massimizza il profitto. Essa infatti fronteggia l'intera curva di domanda del mercato
che è inclinata negativamente. La conseguenza analitica immediata è che il prezzo
non è più indipendente dalla quantità. Nel monopolio l'impresa diventa price-maker.
Vediamo come va reimpostato il problema decisionale.

2 Il problema del monopolista

L'impresa produce un output y e ha una funzione di costo c( y) . Il prezzo


dell'output p non è costante ma è una funzione di y ,. p = p( y) è la funzione di
domanda (inversa) nel mercato del prodotto perchè la produzione dell'impresa è la
quantità totale disponibile per i consumatori. Poichè p' ( y) < 0 , la curva di
domanda è inclinata negativamente. Il problema di massimo profitto per questa
impresa è

max y p( y) y -c( y) (1)

e la condizione di primo ordine

p( y) + p' ( y) y-c' ( y) = 0 (2)

e di secondo ordine

2 p( y) + p" ( y)y - c" ( y) < 0 (3)

Così la condizione necessaria per un massimo è che il costo marginale sia


uguale non al prezzo ma al ricavo marginale RM, che possiamo definire con

RM = R'( y) = p( y) + p' ( y) y (4)

e il ricavo totale con

R( y) = p( y) y (5)

Il ricavo marginale ha una interpretazione economica molto semplice. Quando


una impresa concorrenziale vende una unità extra di output incassa p , ma un
monopolista deve ridurre il prezzo per vendere di più, se tutto il prodotto deve essere
venduto ad uno stesso prezzo, così che il guadagno è ciò che riceve per l'unità extra
venduta p( y) , meno quanto si perde dalla riduzione del prezzo a cui l'output3
precedente viene venduto, p' ( y) y . (Si ricordi che p' ( y) < 0 .) Mediante semplici
passaggi otteniamo

 dp y   1 
RM = p( y) + p' ( y)y = p( y)  1+  = p( y)  1+  (6)
 dy p( y)   e xp 

con p' ( y) = dp dy e

1 dp y
=
e xp dy p( y)

Poichè la relazione di domanda inversa p( y) è ottenuta invertendo la


funzione di domanda x( p) e ponendo x = y , e xp rappresenta l'elasticità rispetto al
prezzo della domanda della merce. Si ha perciò che RM è positivo se e solo se

e xp < −1 ⇒ e xp > 1

Dalla (4) osserviamo che quando y = 0 , RM e p( 0) sono uguali, ma per


valori positivi dell'output RM< p( y) .
Si consideri a titolo di esempio la funzione lineare p = a-by . La funzione di
ricavo è R = ay + by e il ricavo marginale RM = a-2by . La curva del ricavo
2

marginale è una semiretta con inclinazione doppia della curva di domanda, quando
quest'ultima è essa stessa una semiretta, con medesima intercetta in ordinata.
Se

e xp = −1 ⇒ exp = 1

la (6) ci dice che il RM è nullo e se

e xp > - 1 ⇒ e xp < 1

che il RM risulta negativo.


Finchè produrre merci costa qualcosa il costo marginale non potrà essere nullo
o negativo; ne segue che la produzione potrà avvenire solo nell'intervallo in cui il
ricavo marginale assume valori positivi (in figura 9.1 nell'intervallo 0 − ye ); in
questo intervallo la curva di domanda presenta elasticità superiore all'unità.
Notiamo che al crescere dell'elasticità la divergenza tra RM e prezzo diviene
via via più piccola. Quando l'elasticità della domanda è infinita, il prezzo diventa
4 uguale al ricavo marginale e ricadiamo nel caso della concorrenza.

elasticità maggiore di uno

elasticità unitaria

pe elasticità inferiore a uno

RM p(y)

0 ye y

FIGURA 9.1 Curve di ricavo medio e marginale lineari

3 Quantità e prezzo che massimizzano il profitto

La figura 9.2 fornisce una rappresentazione grafica del problema di


massimizzazione del monopolista. I profitti sono massimi a y1 in corrispondenza del
quale costo marginale e ricavo marginale sono uguali, con il costo marginale che
taglia dal di sotto il ricavo marginale, come richiede la condizione del secondo ordine
(che può essere scritta d(RM − CMa) / dy < 0 .) Il prezzo, una volta determinato
la produzione che massimizza il profitto, si individua sulla curva di domanda, cioè
sulla curva del ricavo medio [ p(y1 )y1/y1 ]; si noti che al valore scelto dell'output
corrisponde un punto sulla curva di domanda in cui l'elasticità è superiore all'unità. Il
valore del profitto è pertanto

p( y1 ) y1 -c( y1 ) = ( p1 -CMe1 )y1

Notiamo infine che non è possibile definire una funzione di offerta o disegnare
una curva di offerta per il monopolista. L'equazione che rappresenta la condizione di
primo ordine, la (9.2), non può essere risolta per y funzione di p , perchè il prezzo
non è esogeno.
CMa 5
CMe
p1
CMe1 p
RM

0 y1 y
FIGURA 9.2 La massimizzazione del profitto in monopolio

Non possiamo dalla sola conoscenza della funzione di costo dell'impresa e dal
prezzo attualmente praticato dedurre quale quantità verrà offerta: la decisione del
monopolista dipende da ciò che egli pensa sia l'inclinazione e la posizione delle curve
di domanda e di ricavo marginale. Nei grafici sopra presentati si è ovviamente
supposto di conoscere le curve di ricavo medio e marginale.
Se combiniamo la condizione di massimizzazione del profitto (2) con la
relazione (6) che esprime il ricavo marginale in funzione del prezzo e dell'elasticità
puntuale della domanda, possiamo ricavare il margine di profitto del monopolista che
massimizza il profitto, cioè la differenza tra prezzo e costo marginale rispetto al
prezzo, che è una misura del grado di monopolio, ovvero della distanza da una
situazione di concorrenza in cui p( y ) = c ′ ( y) ; si ottiene la relazione (7) seguente:

 1 
p( y ) − p(y ) 1 − 
p( y ) − c ′ ( y)  e xp  1
= = (7)
p(y ) p( y ) e xp

che coincide con il reciproco del valore dell'elasticità in modulo della curva di
domanda. E' interessante osservare che per un valore dell'elasticità pari a infinito il
grado di monopolio si azzera e si ricade nella concorrenza.

4 Monopolio e concorrenza

Un confronto con il caso studiato nei capitoli precedenti può essere utile.
Confrontiamo due imprese con identica curva di domanda e funzione di costo
marginale, una che segue la logica concorrenziale, l'altra rappresentata da un
monopolista. Dalla figura 9.3 si può facilmente vedere che l'output sarà più basso in
monopolio. In concorrenza la curva di offerta è la curva di costo marginale dell'impresa,
supposta fronteggiare da sola la curva di domanda.
6

pm CMa
pc

p(y)
RM
0 ym yc y

FIGURA 9.3 Concorrenza e monopolio a confronto

L'output è scelto in modo tale che il prezzo uguaglia il costo marginale, perchè
l'impresa è price taker. Il monopolista è un price maker e sceglie la combinazione
output-prezzo che rende il ricavo marginale uguale al costo marginale. Si può osservare
che l'output del monopolista è inferiore (ym < yc ) e il prezzo più elevato (pm > pc ) .
La spiegazione economica è semplice: riducendo l'output, il monopolista può accrescere
prezzo e profitti. Anche una impresa concorrenziale potrebbe farlo; se non lo fa è perchè
la sua decisione isolata non influenzerebbe il prezzo e i suoi profitti si ridurrebbero.

5 Il monopolista fa sempre profitti?

La condizione di primo ordine, ricavo marginale=costo marginale, è solo


necessaria per ottenere il massimo profitto. Se vi sono alti costi fissi è possibile che la
soluzione di equilibrio per il monopolista sia la produzione nulla. Può accadere infatti
che sostituita nella funzione di profitto la quantità corrispondente alla condizione di
primo ordine, il profitto risulti negativo. Una produzione nulla garantirebbe almeno un
profitto non negativo. I due grafici nella sottostante figura 9.4 sottostante rappresentano
il primo una situazione normale in cui la domanda sufficientemente elevata indica un
prezzo che copre il costo medio, il secondo una situazione opposta di insufficienza di
domanda con conseguente profitto negativo. In questo caso solo un sussidio dall'esterno
a coprire la la differenza tra prezzo di monopolio e costo medio garantirebbe una
produzione positiva. E' questo il caso dei monopoli naturali o dei monopoli decisi da
una concessione delle autorità pubbliche, come nella fase di avvio delle produzioni di
alcune public utilities nei trasporti, nelle telecomunicazioni e nell'erogazione di altri
servizi di pubblica utilità.
p p
m m
7

domanda elevata che copre il costo fisso domanda troppo bassa e conseguente y =0
con produzione positiva m

6 Perchè esiste il monopolio

Possiamo ora chiederci quali potrebbero essere le ragioni che spiegano perchè
può esistere una impresa monopolista.
L'analisi ora svolta suggerisce che ogni imprenditore che massimizza il profitto
dovrebbe vedere con favore la possibilità di trasformarsi in monopolista, in quanto il
suo profitto aumenterebbe L'osservazione empirica conferma questo assunto. La gran
parte delle imprese perseguono sistematicamente politiche atte a configurare un
situazione esterna tale da garantire loro scelte "quasi monopolistiche". In termini
analitici queste politiche hanno l'obiettivo di rendere più rigida (meno elastica) la
curva di domanda per l'impresa. Una ispezione alla figura 9.3 mostra che un aumento
dell'inclinazione della curva di domanda, costanti i costi, produce una soluzione di
equilibrio con maggior profitti.
D'altro canto l'esistenza di profitti attira l'attenzione di altri imprenditori. Taluni
saranno indotti a entrare in un mercato che garantisce profitti elevati. Chi è già dentro
al mercato metterà in atto dei comportamenti che impediscono o rendono difficile o
molto costosa l'entrata per i concorrenti potenziali. Se questi entrassero la posizione
di favore del monopolista verrebbe meno.
Quanto detto non spiega tuttavia come può nascere una impresa monopolista.
Si hanno due insiemi di possibilità.
Il primo riguarda i monopoli naturali.
Supponiamo che per realizzare un prodotto o un servizio un'impresa debba
sostenere ingenti costi fissi. Se la produzione può avvenire in grandi numeri il costo
fisso per unità di prodotto può diventare piccolo riducendo di molto i costi medi.
Tecnicamente questo consentirebbe di far scendere i prezzi di offerta. Ma se il
mercato in cui opera quella impresa è piccolo, essa non è in grado di ridurre
sufficientemente il costo per unità di prodotto e così i costi medi. Il suo livello di
produzione sarebbe lontano da quello efficiente, cioè da quello che rende minimi i
costi medi. Se più imprese di questo tipo insistessero su un mercato piccolo,
8 ciascuna sosterrebbe un costo medio più elevato rispetto al caso in cui una sola
impresa operasse e gli acquirenti della merce o del servizio pagherebbero un prezzo
più elevato. La combinazione di un mercato "piccolo" e di una scala di produzione
efficiente "elevata" spiana la strada ad una soluzione in cui una sola impresa può
stare convenientemente sul mercato, ove stavolta il concetto di convenienza
riguarda anche gli acquirenti. Una situazione come quella descritta si manifesta
spesso nella erogazione di servizi di pubblica utilità, come la distribuzione del gas,
dell'elettricità, la produzione di servizi telefonici, l'erogazione dell'acqua e molti altri,
nei quali si sostengono ingenti costi fissi che possono essere ragionevolmente coperti
dai prezzi solo se le quantità del servizio erogato superano certe soglie dimensionali.
Per questo tipo di mercati sono le autorità di governo che impongono un regime di
monopolio legale a vantaggio dei consumatori.
Poichè tuttavia il monopolista potrebbe in seguito alzare i prezzi senza il
timore di concorrenti, le stesse autorità che hanno concesso il monopolio legale
istituiscono forme di controllo sistematiche sulla qualità e sul prezzo del servizio
erogato.
L'altra insieme di ragioni che spiegano l'affermarsi di un'impresa monopolista
riguardano la creazione di un nuovo prodotto o l'innovazione tecnica.
Quando un'impresa inventa un nuovo modo di soddisfare un bisogno mediante
la creazione di una merce prima mai realizzata si crea un suo proprio mercato nel
quale è monopolista. La posizione di monopolio è necessariamente temporanea. La
nuova merce potrebbe essere facilmente imitabile da altri produttori. Un brevetto
fornisce una copertura per qualche anno ma non è di solito uno strumento efficace
per prevenire l'entrata. Potrebbe accadere che la tecnologia per la produzione della
nuova merce sia caratterizzata da costi medi decrescenti rispetto alle scala produttiva.
L'esser partiti per primi crea un vantaggio dinamico in termini di costi via via calanti
che allontanerebbe il pericolo di entrata di potenziali concorrenti.
Anche una innovazione tecnica potrebbe condurre al sorgere di imprese
monopolistiche. La riduzione dei costi che segue all'innovazione dovrebbe tuttavia
trasferirsi in una riduzione dei prezzi. Qualora i concorrenti non siano in grado di
seguire il ribasso dei prezzi, l'impresa innovativa finirebbe per coprire l'intera offerta
di quel mercato.
Questi ultimi esempi mostrano come in realtà il monopolio, ad eccezione di
quello legale, sia una situazione di mercato che non è data una volta per tutte e che è
in gran parte il risultato, spesso transitorio, del comportamento delle imprese.
Se il monopolio è una forma di mercato transitoria, il quesito che subito si pone
è verso quali altre forme si trasformerà.
Si possono indicare due direttrici.
Se la merce che si produce è una merce facilmente differenziabile, la sua
tecnologia non esibisce economie di scala rilevanti, i costi di trasporto non sono
indifferenti rispetto al valore del prodotto, si affermerà una situazione in cui molte
imprese staranno sul mercato, ma ciascuna, mediante la differenziazione del prodotto,
alla stregua di un piccolo monopolista, controllerà una parte della domanda del9
mercato. Tuttavia non potrà fissare un prezzo della sua merce troppo elevato perchè
permane una certa sostituibilità con le merci simili degli altri produttori. Una
situazione così caratterizzata è chiamata di concorrenza monopolistica.
Nel caso in cui il prodotto non sia facilmente differenziabile, le economie di
scala abbiano un certo peso di modo che le imprese non possano essere di piccole
dimensioni, lo sbocco sarà una situazione con poche imprese che si dividono il
mercato e che nell'assumere decisioni debbono di necessità congetturare le risposte
delle imprese rivali. Questa situazione è l'oligopolio. Infine, se da un lato la
tecnologia è diventata conosciuta, facilmente applicabile, con costi fissi limitati e,
dall'altro, il prodotto è sufficientemente omogeneo, si va nella direzione di un
mercato perfettamente concorrenziale.
Vi sono degli effetti sociali negativi derivanti dall'esistenza di monopoli, in
special modo di quelli derivanti da specifici comportamenti delle imprese che si
concretizzano in uno spreco di risorse. Solo a titolo di esemplificazione si
rammentenao le spese per la pubblicità persuasiva che incidono sulla posizione della
curva di domanda, le spese per prevenire l'entrata di potenziali concorrenti, come ad
esempio i sovrainvestimenti in capacità produttiva, i costi di lobbing per strappare
privilegi al legislatore, le spese eccessive e in competizione in Ricerca e Sviluppo per
creare nuovi brevetti, e cosi' via.
1

TRA MONOPOLIO E CONCORRENZA

1 Le barriere all'entrata

L'analisi condotta nel capitolo precedente suggerisce che il monopolista ottiene di


norma profitti in eccesso rispetto a una situazione di concorrenza. L'esistenza di questi
profitti attira l'attenzione di potenziali concorrenti che potrebbero essere indotti a tentare
l'entrata in quel mercato. Il potere di monopolio contiene in sé i germi del proprio
superamento e un monopolista cosciente non potrà tenerne conto.
Per capire in che cosa consiste il problema della entrata di nuove imprese
dobbiamo dapprima chiederci se esistono o meno barriere all'entrata sul mercato.
Abbiamo logicamente tre casi. L'inesistenza di barriere all'entrata, le barriere
all'entrata assolute, le barriere all'entrata relative. Concentriamoci su queste ultime.
Barriere relative possono dipendere da difficoltà di reperimento di capitali a costi
ragionevoli, da vantaggi di costo e da lealtà del consumatore.
Le barriere legate alle condizioni del mercato dei capitali significano che
differenti imprenditori godono di condizioni diverse in termini di tassi di interesse e di
ammontare dei debiti contraibili. I finanziatori potrebbero considerare particolarmente
rischiosa l'entrata in un mercato monopolistico ed essere propensi a concedere prestito
solo facendo pagare al potenziale entrante tassi particolarmente elevati. Poichè il costo
relativo al finanziamento va incorporato nella funzione di costo dell'entrante, potrebbe
accadere che il suo costo medio per la scala di produzione progettata risulti più elevato
di quello sostenuto dal monopolista. Il vantaggio atteso dall'entrata potrebbe in tal modo
venir meno.
Le barriere dovute ai vantaggi di costo sono rappresentate da un insieme di
elementi come la conoscenza specifica del mercato, la disponibilità vantaggiosa di input
dovuta a contratti a lungo termine, la diffusione geografica dei punti di vendita, ecc., ...,
che il monopolista controlla e che rendono i suoi costi più bassi di quelli che dovrebbe
sostenere una impresa che si affaccia per la prima volta su quel particolare mercato.
Infine, il nuovo entrante dovrebbe sostenere costi per vincere la naturale fedeltà
degli acquirenti nei confronti del monopolista. Questa dipende dall'atteggiamento
conservatore degli acquirenti e dalla loro avversione al rischio. Il nuovo entrante
dovrebbe pertanto spendere molto, almeno inizialmente, in spese di promozione del
prodotto per spostare a suo vantaggio la lealtà del consumatore.
Queste barriere significano un costo per il potenziale entrante. Una volta
incorporato nella funzione di costo totale, la funzione di costo medio si posizionerebbe
sopra quella del monopolista. Il che significa che l'entrata potrebbe anche non avvenire
se i profitti così stimati non sono ritenuti sufficienti. Il fatto dunque che il monopolista
goda di profitti positivi non è sufficiente di per sè per determinare l'entrata. Se l'entrata
avviene e purtuttavia l'ex-monopolista continua a godere profitti in eccesso rispetto a
quelli realizzati dall'impresa entrata, quei profitti possono essere inputati come rendita
agli elementi che creano la barriera relativa e della quale essi misurano il valore.
Conviene notare che la misura di una barriera relativa all'entrata dipende anche
2

dalle caratteristiche del potenziale entrante. Una impresa di grandi dimensioni, attiva in
mercati contigui, avrà poche difficoltà a recuperare i capitali necessari per l'entrata,
potrà sfruttare la sua rete di vendita per commerciare la sua nuova produzione, usare la
reputazione di cui gode sul suo mercato per convincere la clientela della qualità del
nuovo prodotto. Si pensi ad esempio all'entrata sul mercato dei personal computer di
una grande impresa che già costruisce sofisticate macchine per scrivere. Essa può
sfruttare la rete di vendita di cui già dispone e la sua reputazione per convincere i suoi
vecchi clienti ad acquistare il suo personal computer invece di quello realizzato dal
monopolista. In realtà buona parte delle nuove entrate assumono la forma di una
qualche diversificazione e/o integrazione tra le imprese esistenti.
Le barriere assolute escludono l'entrata per un certo periodo. Esse dipendono
dall'esistenza di un brevetto, dalla proprietà di qualche risorsa essenziale per la
produzione del prodotto o del servizio. In tal caso i profitti del monopolista si possono
interpretare come una rendita derivante dal godimento di queste risorse o diritti legali
(brevetti).
Nel caso infine di assenza di barriere all'entrata, nuove imprese sono in grado di
entrare sul mercato e produrre a costi uguali a quelli del monopolista. Vi sarà entrata
finché i profitti in eccesso saranno annullati.

2 L'entrata di nuove imprese e la concorrenza monopolistica

Supponiamo che per effetto dell'affermarsi di una situazione di assenza di barriere


all'entrata un largo numero di imprese sia indotta ad entrare in un mercato in cui
un'impresa in monopolio godeva di elevati profitti. Supponiamo inoltre che i nuovi
entranti siano in grado di differenziare il proprio prodotto rispetto a quello degli altri
produttori, ma non in modo tale da configurarlo come una merce diversa. Esiste
pertanto un certo grado di sostituibilità tra i prodotti simili di imprese diverse. Questo
mercato, in cui convivono aspetti del monopolio e della concorrenza, è detto di
concorrenza monopolistica. Attraverso un semplice modello ne studiamo la
caratterizzazione di equilibrio, situazione in cui nessuna altra impresa sarà indotta ad
entrare.
La generica impresa in questo mercato avrà una curva di domanda per il suo
prodotto che è funzione del suo prezzo e del prezzo dei prodotti delle imprese rivali

yi = yi ( p1 , p2 ,..., pn ) (1)

con
∂yi / ∂pi < 0 e ∂yi /∂p j ≥ 0
L'impresa ha molti concorrenti, ma assume che essi non reagiscono alle proprie
decisioni. Il suo obiettivo sarà

max p i pi yi ( p1 , p2 ,..., pn ) − c i (y i ( p1 , p2 ,..., pn )) (2)

dove ci ( yi ) è la sua funzione di costo. La condizione di primo ordine è


3

∂yi ∂y
yi + pi − ci ′ ( yi ) i = 0 (3)
∂pi ∂pi

e ricordando che che l'elasticità della domanda di yi rispetto al suo prezzo pi è data da

pi ∂yi
ei =
yi∂pi (4)

possiamo riscrivere la (3) come

 1
ci ′ (y i ) = pi 1 +  (5) con ei<0
 ei 

così che come un monopolista l'impresa uguaglia costo maginale a ricavo marginale,
che è ora definito per valori costanti dei prezzi di tutte le altre imprese.
In equilibrio una ulteriore condizione deve essere soddisfatta. Se l'impresa sta
conseguendo profitti positivi, nuove imprese saranno indotte ad entrare dalla prospettiva
di guadagnare un profitto analogo producendo un prodotto simile. Il mercato sarà
pertanto in equilibrio con un numero costante di imprese solo se il prezzo è uguale al
costo medio:

pi = ci (yi ) y i (6)

Le equazioni (5) e (6) insieme implicano, dato che ei < 0 , che il costo marginale
sia inferiore al costo medio, con la conseguenza che la funzione di costo medio è
decrescente nell'output.

p(y)
costo marginale

costo medio

di
RMi

y i* yi
FIGURA 10.1 Concorrenza monopolistica

L'equilibrio dell'impresa è illustrato nella figura 10.1, nella quale la curva di


domanda di indica la combinazione di prezzo e quantità per l'impresa, costanti i prezzi
delle altre imprese, RMi è il ricavo marginale costruito sulla stessa assunzione di
costanza degli altri prezzi, yi* è la produzione scelta dall'impresa. Osserviamo che a yi*
la curva di domanda è tangente alla curva di costo medio e l'impresa non consegue
4

profitti. Se di intersecasse la curva di costo medio, l'impresa farebbe profitti e nuove


imprese entrerebbero. La curva di domanda si sposterebbe verso sinistra fino a che si
ripristina la condizione di tangenza. Se di stesse al di sotto della curva di costo medio,
l'impresa uscirebbe dal mercato e la curva di domanda si sposterebbe verso destra.
In equilibrio, il prezzo supera il costo marginale e la produzione avviene con
eccesso di capacità produttiva, cioè l'impresa produce un output inferiore al punto di
minimo dei suoi costi medi. Si può affermare che la produzione si realizza in modo
inefficiente.
Un ulteriore aspetto dell'equilibrio di concorrenza monopolistica va sottolineato.
Poichè le imprese presenti sul mercato sono molte, ciascuna impresa può sperimentare
una elevata elasticità della sua domanda, così che quando la (5) e la (6) sono soddisfatte,
prezzo e costo medio sono molto vicini al costo marginale. Il risultato che si ricava è
che la caratterizzazione dell'equilibrio in questo tipo di mercato non sarà molto
dissimile da quello di concorrenza perfetta.
Probabilmente i mercati di concorrenza monopolistica sono i più diffusi nella
realtà. I settori del commercio al dettaglio, dei prodotti dell'elettronica di consumo, dei
prodotti tessili e dell'abbigliamento, certi servizi, sono quelli in cui più frequentemente
si riscontra questa forma di mercato. Altri settori, come quello della produzioni di
automobili, dei componenti essenziali di computer, degli apparecchi televisivi, dei
grandi elettrodomestici, sono caratterizzati da differenziazione del prodotto ma da un
numero piccolo di imprese in essi operante. In questi settori le imprese assumono
decisioni sapendo che le loro azioni non saranno prive di conseguenze sul
comportamento delle altre poche imprese sul mercato e delle potenziali imprese
entranti. Un mercato di questo tipo è chiamato mercato di oligopolio.

3 Strategie per impedire l'entrata

Il caso in cui l'entrata di nuove imprese su un mercato monopolizzato determina,


dopo l'entrata, una situazione di oligopolio è forse più importante del caso in cui si crea
una situazione di concorrenza monopolistica.
Finora si è ipotizzato un comportamento del monopolista di tipo passivo e
miopico. Non prestava attenzione alla minaccia di entrata potenziale, né poneva in atto
qualche contro azione allorchè quella minaccia diventava reale.
Abbandoniamo queste ipotesi e assumiamo che il monopolista adotti una politica
di prezzo tale da rendere non conveniente l'entrata per i potenziali concorrenti. In altri
termini assumiamo che egli individui un prezzo tale da massimizzare il suo profitto, con
il vincolo che a quel prezzo nessun altro produttore possa entrare nel mercato
conseguendo un profitto positivo. Tale prezzo, se esiste, è indicato con il termine di
prezzo limite. Sviluppiamo l'analisi mediante l'ausilio della figura 10.2.
5

pm
pm* b

a
pa
CMeLE
pb
d

d'

0 y ea yeb ym * ym* + yea ym


ye
FIGURA 10.2 Il prezzo limite

Introduciamo le ipotesi seguenti: a) il monopolista conosce la curva di costo


medio con cui il potenziale entrante opererà; b) conosce anche la curva di domanda di
mercato; c) sa che il prodotto dell'entrante non è differenziabile dal suo di modo che i
due prodotti debbano essere venduti allo stesso prezzo; d) sulla base dell'ipotesi a), il
monopolista sa anche che esistono economie di scala per un tratto non piccolo della
curva di costo medio di lungo periodo dell'entrante.
Nella figura 10.2, d è la curva di domanda del monopolista e CMeLe è la curva
di costo medio di lungo periodo dell'entrante. Il prezzo che esclude l'entrata e che
massimizza il profitto è p*m al quale corrisponde una quantità ym* . Ovviamente il
prezzo ottimale dovrà essere inferiore al prezzo che massimizza i profitti di breve
periodo del monopolista, altrimenti il problema dell'entrata non si porrebbe. p*m è il
prezzo limite più alto possibile, pertanto è quello ottimale. Questa affermazione può
esser facilmente provata. La curva di domanda d ′ è ottenuta spostando a sinistra e
parallelamente la curva d finché non sia esattamente tangente in a la curva CMeLe . Il
prezzo p*m è individuato in ordinata nel punto in cui d ' la interseca. Introduciamo
l'ipotesi che il monopolista sia in grado di far credere al potenziale entrante che se
entrasse il suo livello di produzione non si muoverebbe da ym* , in modo tale che se
l'entrata avviene l'offerta su quel mercato sarebbe pari a ym* più la produzione
dell'entrante. Il potenziale entrante capisce allora che il prezzo di mercato si ridurrà in
funzione della sua offerta aggiuntiva lungo il tratto bd della curva di domanda. Dal che
segue che la semiretta pm d ′ è effettivamente la curva di domanda che fronteggerebbe
*

l'entrante potenziale se decidesse di entrare, in quanto indicherebbe il prezzo a cui


potrebbe vendere la quantità di prodotto che decidesse di realizzare. Ma poiché la curva
di domanda non sta mai sopra la CMeLe , il potenziale entrante non entrerà sul mercato
perchè al massimo conseguirebbe profitti nulli in a.
La fissazione del pezzo limite a p*m e l'affermazione credibile che la produzione
*
ym non varierà dopo l'eventuale entrata, escludono la possibilità di entrata.
Questo risulato dipende crucialmente dalla percezione che il potenziale entrante
ha della credibilità della minaccia del monopolista di non variare la produzione dopo
l'entrata. Se non la reputa credibile ed entra nel mercato ad esempio con una quantità
yeb > yea , incorrerebbe in una perdita; il prezzo di mercato potrebbe tuttavia essere
basso anche per l'ex-monopolista e causargli una contrazione drastica di profitto o una
perdita. In questa evenienza chi esce dal mercato? Esce per prima l'impresa che non è in
6

grado di fronteggiare per alcuni periodi situazioni di perdita. Se l'entrante è una grande e
solida impresa con ampie riserve finanziarie, potrebbe essere l'impresa ex-monopolista
quella costretta ad abbandonare. Va da se che, in queste condizioni, la soluzione
migliore per le due imprese è di trovare un accordo per riportare il mercato a condizioni
più ordinate in cui entrambe possano guadagnare profitti. Casi più complicati si possono
costruire. Ma i risultati dipendono essenzialmente dal tipo di risposte che i partecipanti
al gioco formulano e da come anticipano i comportamenti dei rivali. Quando il numero
delle imprese coinvolte è piccolo diventa forte la propensione a trovare un accordo per
"regolare" il mercato.
Abbiamo finora discusso il problema dell'entrata in un mercato monopolistico di
una o più imprese e di come si può generare un mercato oligopolistico. Nulla si è detto
su come funziona un oligopolio. Si tratta di un tema difficile e che richiederebbe la
conoscenza di strumenti formali avanzati. Si otterrebbero comunque risultati non
generali e dipendenti dalle ipotesi particolari che stanno alla base dei diversi modelli di
interazione strategica tra le imprese.

4 L'entrata di un numero elevato di imprese

Supponiamo che il monopolista non riesca ad attuare una politica efficace di


prevenzione all'entrata; supponiamo anche che non vi siano barriere all'entrata, che il
livello di produzione efficiente sia piccolo e che il prodotto sia omogeneo.
Intuitivamente un processo di entrata nel mercato non si bloccherà finchè le imprese
presenti conseguono un profitto positivo.
Ricordiamo le relazioni (4) e (6) del capitolo precedente. Riprendiamo la
definizione di ricavo marginale del monopolista e adattiamola al caso di una pluralità di
imprese sul mercato:

RM = p( y) + p' ( y)y i

dove con yi si indica la produzione della impresa iesima. Moltiplichiamo il secondo


addendo del membro di destra per [ ]
( p(y) y ) ( p(y) y) ; raccogliendo
opportunamente e ricordando che

dp y
e yp =
dy p( y)

e definendo con s i = y i y la quota di mercato coperta dall'impresa iesima, otteniamo la


relazione seguente

 si 
RM = p( y)  1− 
 eyp 

Ricordando infine che la condizione di primo ordine per un massimo richiede che
costo marginale e ricavo marginale siano uguali
7

 si 
RM = p( y)  1−  = c ′ (y)
 eyp 

e esprimendo il prezzo in funzione del costo marginale si ottiene la (7)

c ′(y)
p( y) = (7)
 1 
 1 − 
 eyp si

la quale indica che il prezzo è tanto maggiore del costo marginale, quanto più elevata è
la quota di mercato dell'impresa. Per un numero di imprese crescente s i si riduce
tendendo a zero e il prezzo si avvicina al costo marginale. Analogamente anche
l'elasticità della domanda per la singola impresa, cioè il rapporto tra elasticità in modulo
della curva di domanda del mercato e la quota coperta dall'impresa, tenderà ad infinito
al crescere di s i e il prezzo si uguaglierà al costo marginale. Ma proprio questa è la
caratterizzazione dell'impresa in un mercato concorrenziale.
Siamo ora in grado di indicare le caratteristiche di un mercato di concorrenza
perfetta:
1) esistono molte imprese, ciascuna delle quali possiede una quota di mercato
infinitamente piccola;
2) non esistono barriere all'entrata (o all'uscita);
3) tutte le imprese producono la stessa merce omogenea;
4) vige per tutte le imprese perfetta informazione sul prezzo e sulla opportunità di
conseguire profitti.
1

LA FUNZIONE DI DOMANDA

La domanda individuale di merci

Finora abbiamo implicitamente assunto che al prezzo di mercato


l'imprenditore sia sempre in grado di vendere la quantità di merce che massimizza
il suo profitto. E' questa una delle ipotesi che caratterizza un mercato di
concorrenza perfetta

Le merci sul mercato si dividono in due ampie categorie: merci che sono
domandate dagli imprenditori e merci che sono domandate dalle famiglie, dette
anche merci per il consumo finale.

Le prime sono mezzi di produzione e sono richieste per la produzione di


altre merci. La loro domanda deriva dalla domanda che viene espressa dal mercato
sulla merce in cui entrano come mezzi di produzione. Data la tecnologia di
produzione, un aumento della domanda della merce in cui entrano come mezzi di
produzione determina un aumento della loro domanda e della domanda dei loro
mezzi di produzione da parte di imprese che operano in settori che li realizzano. E
cosi' via. E questo vale sempre quando la pruduzione di una merce si svolge
mediante altre merci a loro volta prodotte. La ragione della domanda di merci
come mezzi di produzione dipende dalla tecnologia e dai legami di
interdipendenza tecnica tra i settori produttivi. Non dipende dai loro prezzi se la
tecnologia è data e non ammette la possibilità di sostituzione tra input.

La seconda categoria di merci si rivolge al consumatore, cioè a una persona


che utilizza la merce acquistata non per un uso produttivo, realizzare altre merci,
ma per soddisfare una sua necessità. Sono molte le merci che appartengono a
questa categoria: i cibi, il vestiario, il riscaldamento domestico, il consumo
domestico di energia elettrica, i consumi culturali in genere. Esistono merci per le
quali la specificazione merceologica non è sufficiente per catalogarle tra i mezzi
di produzione o tra i consumi finali. Pensiamo all'energia elettrica o ai mezzi di
trasporto che rientrano o tra i mezzi di produzione o tra i consumi finali a seconda
che siano utilizzati dalle imprese o dalle famiglie. Con il termine famiglia si
2

indica di fatto una o più persone la cui funzione economica è domandare merci
per il consumo finale.

Operata questa distinzione ci si deve chiedere ora perché un individuo


domanda merci per il consumo.

Innazitutto va indicato che non si discute di un individuo 'isolato' dal mondo


in cui vive. Ogni individuo è parte di una società. Da essa assorbe un modello di
consumo che è il prodotto della evoluzione storica e culturale di quella società.
Individui appartenenti a società diverse esprimono modelli di consumo diversi.
Un italiano del sud e un tedesco del sud soddisfano i loro bisogni alimentari e
culturali mediante merci diverse (ad esempio la dieta mediterranea basata sulla
cultura dell'olio e la dieta centro europea basata sulla cultura del burro). Più una
società è isolata maggiore di solito è la differenza tra i modelli di consumo. Le
diversità si attenuano se le informazioni circolano con facilità, se un modello di
consumo viene percepito come dominante, se gli strumenti di induzione al
consumo, come la pubblicità delle grandi imprese globali, risultano
particolarmente efficaci.

In secondo luogo il modello di consumo, all'interno di una data società, si


differenzia spesso sulla base dei livelli di reddito. Individui o famiglie ad alto
reddito, pur all'interno di un dato modello di consumo, tendono a consumare
merci di più alto livello qualitativo rispetto a individui con reddito più basso e
anche a presentare una composizione dei consumi più orientata a certe tipologie di
merci. Più alto è il reddito maggiori sono i consumi di merci culturali o di merci
per il tempo libero, ad esempio.

Delimitato cosi' l'ambito entro cui ci muoviamo per discutere la questione


del consumo, siamo ora in grado di enunciare l'aspetto che più ci interessa per
studiare la strategia dell' impresa che cerca di massimizzare il profitto.

Come un individuo varia la sua domanda di una merce, dato il reddito di


cui dispone e il suo modello di consumo, al variare del prezzo di quella merce?

Gli economisti si sono a lungo occupati di fornire risposte a questa


domanda. Nei due secoli di storia dell'economia politica la questione della
domanda individuale di merce ha occupato il ruolo di primo attore sulla scena
della teoria economica. Solo per una minoranza sparuta di studiosi, spesso
eterodossi o critici dell'economia di mercato, questo tema ha ricevuto un peso
minore rispetto ad altri temi come quelli della crescita, della distribuzione del
reddito, del progresso tecnologico e sociale.
Gli economisti, per fornire una risposta circostanziata alla questione, hanno
elaborato una sofisticata teoria della scelta basata su alcune ipotesi di razionalità
del comportamento dell'individuo da cui deriva una teoria generale della domanda
di merci come funzione inversa del prezzo. E' un tema che occupa di solito una
parte rilevante dei testi di microeconomia.
3

2. La funzione di domanda e l'elasticità

Per quello che qui ci interessa ci limitiamo a una spiegazione sperimentale


della domanda di merci. Andiamo ad osservare il comportamento effettivo di un
campione di individui che hanno caratteristiche simili quanto a reddito
disponibile, modello di consumo, fascia di età, livello culturale.
Immaginiamo che la prima merce di cui studiamo la domanda sia
rappresentata da panini, tutti della stessa qualità e appetibilità. L'acquirente sia
uno studente nella pausa pranzo. Egli dispone di un certo reddito e ne destina una
certa parte per l'acquisto di due panini al prezzo di mercato. Supponiamo accada
che un giorno il prezzo dei panini si dimezzi. In astratto egli potrebbe ora
acquistare e mangiare (perche' il panino non si può stoccare) quattro panini
spendendo lo stesso reddito che destinava a due. E' ragionevole supporre che così
p

y
c q d

egli farà? Nella nostra società la fame è solo un ricordo dei più anziani, per nostra
fortuna. I due panini che giornalmente lo studente acquista soddisfano in media il
suo bisogno alimentare. Se la sua fame fosse stata maggiore ne avrebbe consumati
già più di due. Un dimezzamento del prezzo dei panini non induce lo studente ad
acquistare quattro panini; molto probabilmente continuerà ad acquistarne due
destinando il reddito risparmiato ad altri consumi. Se il prezzo dei panini salisse,
poiché due panini gli forniscono le energie sufficienti per l'altra metà di giornata,
in mancanza di alternative egli continuerebbe ad acquistarli. Per un certo campo di
variazione del prezzo dei panini la sua domanda non muterebbe o muterebbe di
pochissimo. La figura sottostante rappresenta questo comportamento. Intorno al
prezzo di mercato p la quantità domandata di panini varia molto poco, certamente
in modo meno che proporzionale della variazione del prezzo. Questa caratteristica
si riassume con l'affermare che intorno al prezzo di mercato p la curva di domanda
è rigida. Analiticamente {dist(p-b)/p}>{dist(q-d)/q} nel caso di riduzione del
prezzo e {dist(p-a)/p}>{dist(q-c)/q} nel caso di aumento. Gli economisti
chiamano questa reattività delle quantità domandate rispetto a variazioni del
prezzo elasticità della domanda rispetto al prezzo. In generale e in valore assoluto,
l'elasticità si esprime con

dy
y dy p
e p = dp =
dp y
p
4

che rappresenta la misura puntuale (in un punto) dell'elasticità in quanto


dy/dp altro non è che la derivata della quantità rispetto al prezzo.
Nel caso ora esaminato, in un opportuno intorno del prezzo di mercato,
l'elasticità della domanda di panini risulta inferiore ad uno. Una curva di domanda
rigida, in un intorno di un prezzo, significa che l'elasticità assume valore inferiore
ad uno.
Nel caso limite in cui la reattività della domanda è nulla rispetto a variazioni
del prezzo (dy=0) l'elasticità risulterebbe nulla {ep =(0/dp)(p/y)=0} e la curva di
domanda, nel tratto i cui questo accade, sarebbe assolutamente rigida.
p

b
y
c q
Il grafico soprastante esemplifica il caso.

Consideriamo ora una merce particolare a cui nessuno può fare a meno,
almeno nel breve periodo, come potrebbe essere il petrolio inteso come fonte di
energia. Se il suo prezzo sale non si assiste a nessuna, o al più a una piccola,
riduzione della sua domanda. Se il suo prezzo scende è assai probabile che la sua
domanda aumenti e, per un certo intervallo, in modo più che proporzionale alla
riduzione del prezzo. Se scende ulteriormente è ancora probabile che la domanda
non cresca più perché subentra una forma di saturazione. Non si sa più che farne
di una energia abbondante e a buon mercato. Il grafico sottostante illustra questi
andamenti. Per variazioni del prezzo al rialzo rispetto al prezzo corrente di
mercato p la domanda non scende o scende di pochissimo. Per riduzioni di prezzo
sotto quello corrente di mercato la domanda cresce ampiamente; una ulteriore
discesa sotto il prezzo b non induce però altri incrementi di domanda.
p

a
p
b

y
c q d
5

Nel tratto di variazione del prezzo compreso tra p e b, punti d'angolo esclusi,
la curva di domanda si dice elastica perché la reattività della domanda al prezzo è
elavata, vale a dire {dist(p-b)/p}<{dist(q-d)/q}. In termini di misura dell'elasticità
ep =(dy/dp)(p/y)>1, in quanto dy>dp supponendo, come il grafico suggerisce, che
il rapporto p/q non sia molto lontano dall'unità. Dopo b la curva torna rigida.

Una curva di domanda non presenta in genere lo stesso valore di elasticità in


ogni suo punto, ne' la curva è sempre rigida o sempre elastica. Vediamo meglio la
questione mediante una funzione di domanda lineare, con α e β parametri positivi,
del tipo

y = y( p) = α − βp

Per una prassi che risale alla fine dell’ottocento nella rappresentazione
grafica della funzione di domanda la variabile indipendente, il prezzo, si indica in
ordinata e la variabile spiegata, la quantità, in ascissa. Pertanto, più propriamente,
la funzione di domanda che rappresentiamo in grafico è la funzione inversa di
domanda, vale a dire
α 1
p= − y
β β

Supponiamo β=1, così la funzione diventa p=α-y, una semiretta inclinata di


45° con intercetta α in ordinata e in ascissa.

p
e =∞
α

e >1

e =1
p

e <1

e =0
0
q α y

Per la funzione indicata l'elasticità è

p dy p p
ep = = (−1) =
y dp y y
Questo in quanto la dy/dp, la derivata della funzione rispetto al prezzo,
assume in modulo valore unitario. Se p=y l'elasticità è unitaria. Per p>y l'elasticità
6

supera l'unita e pertanto in quel tratto la curva di domanda si dice elastica. Per
p<y l'elasticità è minore dell'unita e pertanto, in quel tratto, la curva di domanda si
dice rigida. Nei punti d'angolo, per y=0 l'elasticità è infinita e per p=0 l'elasticità è
nulla. Pertanto anche con una curva di domanda lineare con inclinazione unitaria
l'elasticità passa da valori prossimi all'infinito a valori prossimi allo zero.
Solo con la funzione di domanda della forma seguente
y( p) = αp −η

l'elasticità è costante. Infatti


pα (−η) p−η −1
ep = = −η
αp −η
Se η=1 l'elasticità è costante e pari all'unità.

3. La domanda di mercato.

Sommando, per livelli diversi del prezzo di mercato, le quantità domandate


di una merce da tutti gli individui che agiscono come acquirenti su un mercato, si
ottiene la funzione di domanda di mercato per quella merce.

p1

p2

0 3 5 7 3 4 10 16
4

La forma della domanda di mercato riflette la forma delle funzioni di


domanda individuale di quella merce. Se queste sono in media discendenti anche
la funzione somma lo è. Ad essa si applicano i medesimi criteri di elasticità già
discussi per la funzione individuale.
Nell'economia industriale vi sono diverse varietà di merce che rispondono in
maniera variegata a variazioni del prezzo corrente di mercato. Merci come i cibi
di base non sono molto reattivi sia a rialzi che a ribassi di prezzo. Altre merci,
specialmente quelle legate all'effetto moda, i prodotti dell'elettronica di consumo ,
i prodotti dell'industria musicale o dell'industria informatica, reagiscono con
vigore a modificazioni dei prezzi sia al rialzo che al ribasso. Per evitare o ridurre
una reazione negativa forte sulle vendite ad incrementi dei prezzi su questi
p
d1

p
1
p

d1
d
7

mercati agisce con efficacia la pubblicità. Si tratta di mercati in cui i


consumatori non sono 'consumatori esperti'; essi sono facilmente preda di
fenomeni di induzione al consumo abilmente indotti dai produttori.
L'effetto della pubblicità è di spostare verso destra la curva di domanda di
mercato per queste merci in modo da vendere di più a parità di prezzo o di non
ridurre le vendite per rialzi di prezzo.
Vi sono prodotti, come quelli energetici, il cui consumo non si riduce al
crescere dei prezzi mentre cresce quando i prezzi calano, come rappresentato nel
grafico sottostante che simboleggia il migliore dei mondi possibile per i
produttori.

p d

p
d

q y

La situazione peggiore per i produttori si ha quando il mercato risponde


riducendo fortemente gli acquisti quando il prezzo si alza e non aumentandoli
quando il prezzo si flette, come nel grafico seguente.

d
q y
8

Le definizioni finora fornite di elasticità della domanda di mercato si


adattano perfettamente al caso di un singolo produttore che fronteggia il mercato
particolare della merce che produce. Quando ci si pone in questa ottica significa
che il produttore ha il potere di influenzare il mercato manovrando o il prezzo o la
quantità offerta. E si tratta ovviamente di casi lontani dalla concorrenza perfetta
canonica.

4. La funzione di ricavo marginale

La funzione di domanda inversa indica il massimo ammontare che il


consumatore è disposto a pagare per unità di consumo a un dato livello di acquisti.
La funzione del ricavo totale mostra l'ammontare di ricavo del produttore per ogni
data combinazione prezzo-quantità. Vediamo come la prima influenza la seconda
considerando che il produttore trae un vantaggio da una variazione del prezzo
quando il suo ricavo aumenta, ovvero quando la differenza tra il ricavo prima e
dopo la variazione del prezzo è positiva. Chiamiamo questa differenza ricavo
differenziale e quando la variazione del prezzo è infinitesima ricavo marginale.
Definiamo il ricavo R=py(p). Supponiamo una variazione del prezzo dp. La
variazione del ricavo è uguale a dR=ydp+pdy+dpdy. L'ultimo addendo è prossimo
allo zero. Pertanto, dividendo ambo i membri per dp e sviluppando otteniamo


dR
dp
=y+
dy
dp
p= y 1 +

dy p 
dp y 
(
= y (1+ e p ) = y 1 − ep )
La variazione del ricavo dovuta ad una data variazione del prezzo, dR/dp, è
positiva se y(1−|ep |)>1, cioè se per quella variazione del prezzo la curva di
domanda è rigida, |ep |<1. Se la curva di domanda fosse elastica, |e p |>1, q(1−|ep |)<1
e dR/dp<0.
Chiediamoci ora come variano i ricavi se invece di controllare il prezzo si
controllano le quantità e si lascia al mercato stabilire il prezzo, data la curva di
domanda. Come abbiamo fatto sopra scriviamo la relazione del ricavo marginale
dividendo ora per dy. E sviluppiamo in modo analogo.

dR dp  dp y 
=p+ y= p 1 +
dy dy  dy p 

Ricordiamo che

dp y 1 1
= dy p =
dy p ep
dp y

e pertanto
9

dR  1  1
= p 1 +  = p 1 − 
dy  ey   ey 

Il cambiamento del deponente della elasticità (da p a y) indica solo che che
ora si sta studiando la variazione del ricavo dovuta a una variazione della quantità.
Se |ey |<1allora dR/dy<0. La variazione del ricavo marginale risulta negativa
allorquando variazioni nella quantità offerta si scontrano con una curva di
domanda nel suo tratto rigido. Viceversa se |e y |>1; in tal caso dR/dy>0. E' questa
la situazione di privilegio che godono alcuni produttori di particolari merci che
attraverso degli accordi riescono a controllare le quantità da collocare sul mercato
e di conseguenza il prezzo. L'Opec, l’organizzazione dei paesi produttori di
petrolio, ne rappresenta un esempio.
Non si sia tratti in inganno sul significato di elasticità della domanda. La
definizione originaria è rispetto al prezzo. La variazione positiva del ricavo a
fronte di un aumento della quantità offerta significa che l’aumento della quantità
comporta una riduzione del prezzo che induce un aumento nella domanda più che
proporzionale alla variazione del prezzo. Ciò che conta resta sempre l’elasticità
della domanda a variazioni di prezzo, anche se cio’ che varia all’origine è la
quantità offerta.
Così, per riprendere l’esempio dell’Opec, una riduzione dell’offerta di
petrolio genera sul mercato un aumento del prezzo del petrolio che non riduce la
domanda o la riduce di molto poco. Come conseguenza la variazione del ricavo
risulta positiva. La curva di domanda è rigida (elasticità inferiore all’unità)
rispetto al prezzo (si veda l’effetto su dR/dp). Inoltre va considerato che per
aumenti o riduzioni di prezzo la curva di domanda può evidenziare andamenti
dell’elasticità diverse; ad esempio rigida per aumenti, elastica per riduzioni.

5. Ricavo medio e ricavo marginale

Studiamo ora quale relazione esiste tra ricavo medio e ricavo marginale.
Assumiamo la curva di domanda y(p)=α−βp, lineare. La curva di domanda
inversa p(y)= (α/β)−(1/β) y è la curva del ricavo medio; cioè R/y, con
R=ricavo=py.
Il ricavo si può pertanto indicare con

R=p(y)y={(α/β)−(1/β)y}y=(α/β)y−(1/β)y2 .

Il ricavo marginale è la derivata prima della funzione di ricavo; ovvero:


dR/dy=(α/β)−(2/β)y. La curva di ricavo marginale è sottostante a quella di ricavo
medio; nel caso lineare l'inclinazione della semiretta è doppia (2/β in luogo di
1/β) ma l'intercetta in ordinata è la stessa α/β. Tracciamo su un grafico curva del
ricavo medio (curva di domanda inversa) e curva del ricavo marginale. Per
comodità poniamo β=1.
10

Ricordiamo innanzitutto che le elasticità indicate nel grafico sono


elasticità rispetto alla quantità. Osserviamo che la curva di ricavo marginale

α e =∞

e>1

e=1

e<1

+
e=0
0
α/2 α y
-

taglia l'ascissa nel punto mediano tra l'origine e α. Prima di α/2 il ricavo
marginale è positivo. Oltre α/2 il ricavo marginale diviene negativo. Pertanto il
produttore che ha il controllo delle quantità prodotte agirà solo nell'intervallo
0− α/2 perché solo in tale intervallo il ricavo marginale risulta positivo. Ma a un
ricavo marginale positivo corrisponde un tratto di curva di domanda, o ricavo
medio, in cui l'elasticità è maggiore dell'unità. Se pensiamo alla condizione di
primo ordine per
il massimo profitto, prezzo o ricavo marginale uguale al costo marginale,
immediatamente constatiamo, dato che il costo marginale è sempre positivo, che
essa è soddisfatta solo nel tratto di curva di domanda a cui corrisponde un ricavo
marginale positivo,ovvero |ey |>1. Al crescere dell'elasticità la divergenza tra
ricavo marginale e prezzo (ricavo medio) diviene più piccola fino a scomparire
per |ey |=∞. Questo accade per un mercato di concorrenza perfetta in cui il singolo
produttore che massimizza il suo profitto non si preoccupa degli effetti sul prezzo
di mercato degli aumenti o delle riduzioni dell’offerta che decide.
1

CONCORRENZA PERFETTA E DINAMICA

1. La caratterizzazione dell'equilibrio di mercato

Per caratterizzare un mercato di concorrenza perfetta consideriamo un certo


numero di imprese che producono e offrono tutte una merce omogena. Con tale
termine si intende una merce priva di differenze qualitative o di altra natura e
immediatamente riconoscibile come tale dai potenziali acquirenti.
Stabiliamo quattro prerequisiti che devono essere soddisfatti per
caratterizzare un mercato perfettamente concorrenziale, altrimenti detto di
concorrenza perfetta.

a) I consumatori sono indifferenti rispetto a chi vende; acquistano dall'impresa


che fa il prezzo più basso.
b) I consumatori sono perfettamente informati dei prezzi praticati dai venditori. Il
mercato è quindi del tutto trasparente.
c) I venditori (le imprese) vendono a chiunque sia disposto ad acquistare al
prezzo più alto. Essi sono anche informati se qualche venditore concorrente
pratica prezzi più bassi.
d) Ogni merce acquistata può essere rivenduta senza altri costi. Tali possibili
costi sono detti 'costi di transazione'. Pertanto in mercati perfettamente
concorrenziali i 'costi di transazione' sono nulli.

Questi prerequisiti o condizioni, se sussistono, conducono a una


configurazione di mercato in cui vige un prezzo unico e lineare nelle quantità (se
compro 1 unità pago p, se compro n unità pago np).

Introduciamo ora due condizion informali, o ipotesi comportamentali, che


riguardano i consumatori e i produttori.
e) Ciascun consumatore considera il prezzo di acquisto come dato e ritiene
inutile la contrattazione.
f) Ciascun produttore considera il prezzo di vendita come dato e ritiene che la
sua decisione sulla quantità da offrire sul mercato non lo possa influenzare.

Siamo percio' in grado di definire l'equilibrio di un mercato perfettamente


concorrenziale.

Definizione: l'equilibrio è dato da un prezzo "p";


da una certa quantità acquistata da ciascun consumatore;
da una certa quantità prodotta da ciascuna impresa;
al prezzo dato:
2

ciascun consumatore acquista la quantità che desidera ottenere;


ciascun produttore massimizza il profitto;
la somma delle quantità prodotte è uguale alla somma delle
quantità acquistate.

Data una funzione di domanda di mercato rappresentata da una curva


discendente rispetto al prezzo e una funzione di offerta di mercato, ottenuta come
somma orizzontale delle funzioni di offerta delle imprese, rappresentata da una
curva crescente rispetto al prezzo, l'intersezione della curva di domanda e della
curva di offerta nel quadrante positivo indica la coppia prezzo-quantità che mette
in equilibrio il mercato. La figura sottostante lo illustra.

p p

domanda offerta

∑ = yj (p)
j

∑ = y j (p) y y
j
Dal grafico è evidente che i costi marginali delle singole imprese (tre
nell'esempio) sono crescenti. Il che implica che la tecnologia adotta sia a
rendimenti decrescenti di scala.
L'equilibrio cosi' rappresentato, nella figura, è di per sé una situazione che
non necessariamente indica un equilibrio di concorrenza perfetta. Per interpretarlo
come tale bisogna, per così dire, animarlo.

2. Equilibrio del mercato di concorrenza perfetta nel lungo periodo

Supponiamo di partire da una situazione di mercato in cui imprese


concorrenziali, ovvero imprese i cui imprenditori ragionano secondo la condizione
f), offrono una certa quantità sul mercato, individuata mediante la regola del
primo ordine (massimizzazione del profitti), conseguendo profitti positivi (il
prezzo è maggiore del costo medio).

Introduciamo ora l'ipotesi importante che esistano un certo numero di


imprese esterne al settore che al prezzo esistente potrebbero entrarvi se
guadagnassero un profitto positivo e che imprese operanti nel settore potrebbero
uscire senza costi se accusassero perdite. Questa ipotesi consente di introdurre
nell'analisi aspetti dinamici. La libertà di entrata e uscita, senza vincoli, delle
3

imprese ci fa pensare a una situazione di movimento. L'equilibrio del mercato


diventa necessariamente una situazione di quiete in cui nessuna impresa esterna
percepisce un incentivo a entrare e nessuna impresa interna percepisce l'incentivo
opposto. L'incentivo neutrale è ovviamente il profitto nullo. Uno stato di quiete,
inteso come assenza di movimenti in entrata e in uscita, è un equilibrio di lungo
periodo del mercato.

Siamo ora in grado di qualificare meglio il concetto di equilibrio di lungo


periodo. E' una situazione in cui:

a) Tutti i produttori offrono la merce omogenea al medesimo unico


prezzo;

g) esiste un insieme di imprese operanti sul mercato che appartengono


a un insieme più ampio che include anche le imprese potenziali entranti;

h) ciascuna impresa operante consegue profitti non negativi in


corrispondenza al piano di produzione prescelto e al prezzo vigente;

i) le imprese potenziali entranti conseguirebbero profitti non positivi


al prezzo vigente se decidessero di entrare;

j) l'offerta delle imprese operanti è pari alla domanda del mercato al


prezzo vigente.

Ricordiamo che tutta l'analisi si svolge nell'assunzione generale di equilibrio


parziale; il che significa che i prezzi dei fattori produttivi e in generale delle altre
merci sono assunti come dati.
In termini realistici l'assunto di equilibrio parziale si può accettare se il
mercato di cui si discute è "piccolo" rispetto all'insieme degli altri mercati; ovvero
quando la variazione delle quantità offerte non modifica in modo percettibile la
domanda derivata di fattori produttivi (inputs) nei rispettivi mercati. Se cosi'
accade, si possono assumere come dati i prezzi degli inputs che entrano nella
funzione di costo delle imprese del mercato di cui ci si occupa.

Ricordato questo, in un mercato perfettamente concorrenziale in cui vi è


totale trasparenza le imprese operanti e potenziali entranti assumono le loro
decisioni di produzione sulla base di una medesima funzione di costo e di
produzione. Tutte conoscono e tutte sanno applicare la tecnologia migliore.
Come conseguenza, se le imprese operanti conseguissero un profitto π ≥0 e
quelle potenziali entranti un profitto non positivo π ≤0, le potenziali entranti
sarebbero indotte ad entrare e il profitto di lungo periodo si assesterebbe a π =0.
Ma un'impresa attiva sul mercato e che massimizza il suo profitto consegue
un profitto nullo con una produzione positiva se il livello di produzione è quello
che minimizza il costo medio. La condizione di primo ordine richiede che il
prezzo sia uguale al costo marginale. Un profitto nullo si ha solo se il costo
marginale è uguale al costo medio e questo accade solo nel punto di minimo del
costo medio. Pertanto il prezzo di mercato è uguale al costo medio minimo.
4

Questo è l’esito di un precesso di entrata di nuove imprese sul mercato attratte da


un π ≥0 delle imprese già operanti. L’offerta di mercato aumenta e per assere
assorbita dalla domanda il prezzo non può che non scendere. La discesa del
prezzo si arresta a pe, e così l’entrata di nuove imprese, quando esso raggiunge il
livello del costo medio minimo, uguale per tutte le imprese operanti (le imprese
sono uguali).
Per questo esito i rendimenti di scala devono essere costanti o decrescenti.
p
p

p
e B

y ye y , yo
A=π>0; B=π=0 d

Si può pertanto affermare che un equilibrio di lungo periodo è una


situazione in cui ciascuna impresa produce un output y* che minimizza il costo
medio e quel livello di output è quello socialmente efficiente perché la capacità
produttiva (o scala di produzione) è utilizzata al meglio tecnico.

p
e
0=π=(p -CMeL)y*
e

y
5

3. Approccio formale: generalizzazione

Da un punto di vista formale possiamo affermare che un compratore (o


venditore) esibisce un comportamento competitivo se egli assume o crede che il
prezzo di mercato sia dato e che le sue decisioni di acquisto (di vendita) non
influenzino il prezzo di mercato.
Sia y un prodotto omogeneo e la seguente

p(Y ) = a − b(Y ) a,b > 0 e Y = y1 + y2

la funzione di domanda inversa di mercato. Supponiamo anche che i


rendimenti di scala siano non crescenti. Ci allontaniamo dalla forzatura delle
curve di costo a U. Sul mercato stanno 2 sole imprese, non “n”, e con funzione di
costo CTi(yi)=ciyi, con i=1,2. Per realismo supponiamo anche che esse non siano
uguali perchè c2 ≥ c1 ≥0; la prima impresa è più efficiente della seconda.
La funzione di costo ha un andamento lineare e costo medio e marginale di

∂CTi ( yi ) CT ( y )
CMai ( y i ) = = c i = i i = CMei ( y i )
∂yi yi
ciascuna impresa sono uguali e costanti, pur diversi tra le due.
Pertanto i rendimenti di scala sono costanti con l'impresa 2 con un costo
unitario maggiore dell'impresa 1. Il mercato è descritto dal grafico sottostante con
la curva di domanda di mercato e le curve costo unitaro costanti delle due
imprese. Cerchiamo la caratterizzazione dell’equilibrio in questo contesto.

c2

c1

y
a-c1
a
b b
In equilibrio ciascuna impresa sceglie il livello di output che massimizza il
profitto al prezzo di equilibrio e al medesimo prezzo e la domanda di mercato
assorbe tutta l'offerta. Formalmente:

Definizione: la trippletta (pe, ye1 , ye2 ) è detta equilibrio competitivo se

1. dato pe, yei risolve

maxy i π i ( y i ) = pe y i −CTi ( y i ) i =1,2


6

2. pe=a-b(ye1 +ye2 ); pe, ye1 , ye2 ≥0.

Calcoliamo l'equilibrio a partire dalla funzione di offerta del mercato:

yi=∞ se p>ci; yi=0 se p<ci; yi={0, ∞) se p=ci.

Prova: ciascuna impresa considera il prezzo come un dato; allora p-ci=πi è


costante; se π i>0 questo implica yi=∞; se πi<0 si ha y i=0. Pertanto qualsiasi prezzo
p>ci non è un prezzo di equilibrio perché yi=∞ e questo contraddice la funzione di
domanda che esprime valori finiti e positivi. Poiché se p>c i la quantità offerta (∞)
supera la quantità domandata {Yd (p)}, si viola il punto 2. della definizione; se
a>c2 ≥c1 ≥0 l'unico equilibrio competitivo è pe=c1 e
1. se c2 ≥c1 , ye2 =0 e ye1 =(a- c1 )/b;
2. se c2 =c1 , allora Ye= (ye1 +ye2 ) con ye1 , y e2 >0; la produzione
complessiva è positiva ma la divisione del prodotto tra le due imprese è
indeterminata.
3. Se, infine, a<c1 , nessuna impresa produce (la domanda è troppo
bassa).
4. Per un numero di imprese crescente, solo le imprese con il costo
unitario di produzione più basso stanno sul mercato.
5. Dalla 4) segue che può esistere un equilibrio competitivo anche con
una sola impresa sul mercato. Se c>0 allora pe=c e ye=Ye=(a-c)/b rappresenta
un equilibrio competitivo.

4. Rendimenti di scala crescenti

Cosa accade all'equilibrio competitivo se i rendimenti di scala sono


crescenti? Assumiamo la funzione di domanda inversa p=a-bY. Osserviamo la
figura sottostante che definisce anche la funzione di costo con una componente di
costo fisso

F + cy se y > 0
CT(yi ) 
0 se y = 0
7

pe
2
F
CMe= +c
y

c CMa=c
pe
1
y
A

Se a>c (ricordando Y=(a-c)/b) allora un equilibrio competitivo non esiste.


Prova: pe= p e1 ≤c ⇒ pe1 ≤CMe per ogni y; pertanto l'impresa produce ye=0
che non può essere una quantità di equilibrio perché a pe1 la domanda è positiva.
pe=pe2 >c ⇒ pe2 >Cme per y>A; pertanto π=(pe2 -Cme) cresce con y e implica che
ye=+∞ che non può essere una produzione di equilibrio perché a p e2 la domanda è
finita.
La conseguenza è che un equilibrio competitivo non può esistere quando le
imprese esibiscono tecnologie a rendimenti crescenti di scala con curve di costo
medio decrescenti al crescere della quantità prodotta. Finchè il prezzo supera il
costo marginale e il costo medio scende l’incentivo è di aumentare la produzione
perchè il profitto continua ad aumentare. Se non intervengono limiti nella capacità
produttiva la dinamica di mercato porta verso il monopolio.
Questo esito spiega perchè le funzioni di costo in precedenza assunte per
analizzare gli equilibri di mercato di breve e lungo periodo, sia in concorrenza che
in monopolio, esibivano costi unitari crescenti nel tratto economicamente
rilevante in cui si studiava la condizione di primo ordine per un massimo profitto.

5. Benessere sociale e equilibrio competitivo

Osserviamo la figura sottostante nella quale compare una curva di domanda


di mercato lineare e una curva di costo marginale costante a simboleggiare
l’offerta. Ricordiamo che un equilibrio competitivo può sussistere anche con una
sola impresa. Se il prezzo di mercato p0 scende verso il costo marginale “c”
aumenta la quantità posta sul mercato, da Y0 a Yc e in un significato ampio
aumenta il benessere dei consumatori. Per fornire solo una intuizione di questo
incremento di benessere si osservi che al prezzo p0 acquistano merce anche i
consumatori che sarebbero stati disposti a pagare di più per le quantità comprese
tra l’origine e Y 0 . Questo vantaggio è misurato dal triangolo α. Se il prezzo
scende al livello del costo marginale al triangolo α si aggiunge, per il medesimo
ragionamento, il triangolo γ e il reattangolo β che rappresenta la perdita di profitto
dell’impresa causato dall’essersi il prezzo livellato al costo marginale.
8

p=a-bY

α
0
p
β γ
c
y
Yc
0
Y

Questo risultato, l’aumento di benessere dei consumatori misuratodalla quantità


offerta al prezzo più vicino al costo marginale, è la base per la politica contro i
monopoli e di incentivo alla concorrenza che tutti i paesi occidentali stanno
praticando, con risultati non sempre lineari, a partire dallo Sherman Act
statunitense del 1890.
9

6. Significato e funzione del profitto

In alcuni dei casi discussi finora, specialmente per i mercati concorrenziali e


di concorrenza monopolistica, l'equilibrio di lungo periodo di un'industria
comportava profitti nulli per le imprese. In altri casi, almeno per qualche impresa i
profitti erano positivi nel lungo periodo. Nel breve periodo le imprese possono
conseguire profitti e anche perdite. Questa situazione merita un breve
approfondimento.
Nel mondo reale le imprese sembrano conseguire profitti positivi come
regola e le perdite rappresentare eccezioni; questo sembra contraddire l'argomento
dei profitti zero per tutte le imprese in equilibrio concorrenziale di lungo periodo.
La contraddizione svanisce se ammettiamo che nella funzione di costo sia
sommato anche un profitto minimo che le imprese intendono comunque
conseguire, definito o come livello o per unità di prodotto. In tal modo il profitto
nullo nel lungo periodo significa assenza di un profitto (o extraprofitto) che eccede
il livello minimo richiesto.
Ma vi sono situazioni di equilibrio di lungo periodo in cui qualche impresa
ha profitti (o extraprofitti) positivi e altre no, a causa dei costi di produzione assai
più bassi rispetto alle concorrenti, o quando i potenziali entrati sono tenuti fuori
dall'industria a causa di barriere legali all'entrata. Ma perchè un'impresa ha costi di
produzione più bassi di un'altra? Questo accade perchè quell'impresa ha accesso a
qualche particolare conoscenza tecnologica o organizzativa, a un input che le altre
imprese non possiedono e che non possono acquisire. Questo profitto maggiore
dipende dalla possibilità di utilizzare un input particolare che l'impresa controlla e
che è negato alle altre imprese concorrenti; questo profitto maggiore, in quanto
legato all'utilizzo di un input esclusivo, lo indichiamo come rendita. In generale il
possessore di un input particolare, non disponibile liberamente per tutti, riceve per
questo una remunerazione che è una rendita. Che la rendita si manifesti come
profitto, salario, canone di affitto, dipende solo dalle circostanze. Si supponga che
vi siano molti produttori di acciaio in competizione l'uno contro l'altro, e che esista
una particolare localizzazione per la produzione di acciaio che è migliore di tutte le
altre possibili, ma solo un impianto vi può essere installato. Se il possessore di quel
terreno decide di costituire un'impresa per produrre acciaio, questa impresa avrà
costi più bassi dei concorrenti e farà profitti di lungo periodo, diciamo di un
miliardo di lire per anno. Se invece il possessore del terreno decide di darlo in
affitto al migliore offerente, qualche produttore di acciaio si troverà a pagare la
cifra di un miliardo di lire annue per l'utilizzo di quel luogo privilegiato. Il costo di
produzione dell'acciaio da parte di questo produttore sarà allora esattamente uguale
a quello dei suoi concorrenti, nessuna impresa farà profitti nel lungo periodo, ma il
possessore del terreno riceverà un miliardo di lire annue come affitto. Ugualmente,
se c'è una persona dotata di particolare competenza nella produzione di acciaio,
essa riceverà una particolare remunerazione per questa sua competenza; se questa
persona possiede un'impresa che produce acciaio, questa remunerazione apparirà
come profitto; se essa lavora alle dipendenze di un'impresa la remunerazione
apparirà come un salario più elevato di quello pagato agli altri lavoratori. In
entrambi i casi questa persona riceve una rendita per questa sua particolare
10

competenza, la cui offerta è limitata.


Pure i profitti di breve periodo sono associati a input che sono in offerta
fissa; tali profitti assumono di conseguenza la natura di rendita. Nel breve periodo
le imprese utilizzano gli input variabili pagandoli al loro prezzo di mercato.
L'impresa possiede un dato ammontare di input fissi, e l'ammontare dei ricavi al
netto dei costi variabili, il guadagno sugli input fissi, è una rendita. Qualsiasi
ricavo sia percepito in eccesso ai costi variabili, non stimola un'offerta aggiuntiva
di input fissi, in quanto la loro offerta è costante, nel senso che gli input fissi sono
utilizzati solo se i ricavi superano i costi variabili.
La figura seguente presenta il mercato di una merce. Supponiamo che i
prezzi di tutti gli input siano fissi. Ciascuna impresa offre output al livello che
rende il costo marginale uguale al prezzo. La curva di offerta è la curva di costo
marginale dell'industria.
Matematicamente, il costo totale è la somma dei costi delle singole imprese:

c= ∑c
f =1
f f
(w, y )

dove cf(w,yf) è la funzione di costo della impresa f.

∂c f (w,y f )
p= f = 1,... ,F
∂y

La relazione precedente risulta dalla massimizzazione del profitto . Il


prodotto totale è dato da

F
y= ∑yf
f =1

Se si integra la funzione ∂c (w, y)/∂y con w costante otteniamo

y2 ∂c (w, y)
∫0 ∂y
∂y = c(w, y2 )- c(w, 0)

la quale, poichè c(w, 0) è il costo fisso, fornisce il costo variabile che si


sostiene per produrre y2 .
11

p
O

p2

V
p
1
D
W

y1 y x,y
2
Profitti e rendita

In termini grafici, l'integrale di una funzione è dato dall'area sottostante il


grafico della funzione, e poichè la curva di offerta O nella figura rappresenta il
costo marginale come funzione dell'output, l'area indicata con la lettera W è il
costo totale variabile per produrre y2 . Il ricavo p2 y2 è rappresentato dall'intera
area V + W , e il profitto

∂c (w, y)  ∂c (w, y)


∫ ∫
y2 y2
p2 y2 - ∂y =  p2 -  ∂y
0 ∂y 0
 ∂y 

è l'area V . Il ricavo è stato diviso dunque in costo variabile di produzione, l'area


W , e in rendita (il profitto, area V ).
1

L’OLIGOPOLIO

1. Caratteri del mercato di oligopolio

L’oligopolio, poche imprese sul mercato, è una forma di mercato in cui


ciascuna impresa ritiene che il risultato delle proprie decisioni dipenda in modo
significativo dalle decisioni assunte dalla altre imprese.
Il numero delle imprese presenti non basta a definire una forma di mercato.
Perchè l’essenza delle forme di mercato dipende sta nella natura delle relazioni
competitive tra le imprese.
Ciascuna impresa, in condizioni di interdipendenza, cerca di massimizzare il
proprio profitto, tenendo conto delle possibili reazioni dei suoi competitori. Essa
deve assegnare un profitto a ogni decisione possibile così da poter ordinare i
risultati e scegliere quello migliore.
La teoria dell’oligopolio punta a predire o a spiegare le decisioni delle
imprese in condizioni di interdipendenza strategica; situazione in cui si deve
immaginare la reazione dei competitori ad una certa scelta e a seguito della
reazione intuita aggiustare la scelta iniziale. In altri termini l’impresa in oligopolio
deve tentare di incorporare la reazione dei rivali entro il proprio modello
decisionale, cioè nella funzione di profitto.
Ovviamente le reazioni possibili dei competitori davanti a una stessa scelta
possono essere diverse. Ad ogni reazione possibile cambia l’esito della scelta e la
configurazione di equilibrio sul mercato. Questa osservazione ci fa capire come
non esista un’unica teoria dell’oligopolio. Ma se ne possano indagare diverse.
D’altronde questo è legato alla varietà dei comportamenti e delle reazioni sul
mercato. L’analisi empirica è di grande aiuto per selezionare i comportamenti e le
reazioni più rilevanti e più frequenti.
Piuttosto la domanda che ci si dovrebbe porre è : perchè se le imprese sul
mercato sono poche e interdipendenti esse non cercano di trovare un accordo
invece di farsi concorrenza ? In effetti quando la concorrenza tende ad abbassare i
profitti di tutti lo stimolo per un comportamento collusivo o cooperativo diventa
fortissimo. Ma qui si apre un capitolo del tutto nuovo che riguarda la tendenza
quasi spontanea delle imprese a tentare di costruirsi una situazione di monopolio o
a colludere per dominare il mercato. E l’insieme delle politiche della concorrenza
che gli stati nazionali nel mondo occidentale mettono in atto per impedire la
formazione di monopoli o collusioni tra imprese in uno stesso mercato.
In questo capitolo ci occupiamo di alcuni semplici modelli di oligopolio, i
primi storicamente concepiti, che hanno il pregio, oltre a quello della semplicità,
di mettere in luce i caratteri fondamentali su cui si basa l’interdipendenza del
comportamento delle imprese, e che sono alla base di tutti gli sviluppi successivi,
talvolta assai complicati.
2

Il primo modello che affrontiamo è quello di Cournot (A. Cournot),


economista matematico francese che in un libro del 1938 espose un modello di
oligopolio in cui operavano due sole imprese, per questo detto di duopolio. Il
modello di Cournot è l’archetipo su cui si sono innestati, con modifiche, gran
parte dei contributi successi dei quali esaminero qui quelli di Bertrand e di von
Stackelberg.

2. Il modello di duopolio di Cournot

Due imprese costituiscono insieme l’offerta di un mercato. Ciascuna di esse


compete sul mercato stabilendo il livello della sua offerta ipotizzando, o meglio
congetturando, che il livello di produzione dell’altra rimanga costante. La curva di
domanda di mercato è data e una variazione di offerta di un’impresa, se non
compensata da una variazione di segno opposto dell’altra, si riflette inversamente
sul prezzo di mercato. Esiste perciò un legame di interdipendenza nelle azioni
delle due imprese sul mercato. A seconda delle scelte dell’altra impresa la curva
di domanda di ciascuna evidentemente cambia. Eppure ciascuna impresa assume
le proprie decisioni di produzione ignorando questa interdipendenza. O, come
spesso si afferma, ogni impresa congettura (immagina) che la reazione dell’altra
impresa di fronte a una variazione della propria offerta sia nulla ; cioè non
reagisca e si comporti come se quella variazione non ci fosse stata. Questa ipotesi,
estrema nella sua semplicità o miopia, è necessaria per costruire e risolvere il
problema della massimizzazione del profitto per l’impresa duopolista.
Il modello presenta un contesto in cui l’interdipendenza tra le due imprese, i
duopolisti, è esattamente riconosciuta. Ma assegna ai duopolisti un
comportamento che tende a negarla. Ciascuno di essi si comporta come una
impresa in concorrenza perfetta la quale ritiene che variazioni nella sua offerta
non modifichino l’offerta di mercato e in forza di questo assunto adotta un
comportamento anarchico. Nel caso del duopolio è evidente che il mercato
reagisce a variazioni nell’offerta di una delle due. Ma due sole imprese potrebbero
anche accordarsi o colludere su come ripartirsi il mercato. Nel modello questo non
accade. E il duopolio alla Cournot, per questa assenza di collusione, è
l’antesignano dei modelli di oligopolio non cooperativi.

Esaminiamo come si costruisce il problema di massimo profitto per il


duopolista.
Sia la seguente la funzione di domanda di mercato

p(Y)=a-bY a,b>0

Y=y1 + y2

La funzione di costo per i due duopolisti è

ci(yi)= ciyi i=1,2


ci>0
3

Siamo in grado di descrivere la funzione di profitto


π i(y1 ,y2 )=p(y1 + y2 ) yi- ci(yi)

Dalla massimizzazione di questa funzione si ricavano le condizioni di


equilibrio del modello.

1. Fissato y2 = y2 C e y1 = y1 C, ove c all’esponente indica livello di produzione


dell’altro duopolista congetturato in base all’assunto del modello di Cournot,
massimizziamo la funzione del profitto del primo e del secondo duopolista

Max π 1 = p(y1 +y2 ) y1 - c1 (y1 )={a-b(y1 +y2 )}y1 - c1 y1

Max π 2 = p(y1 +y2 ) y2 - c2 (y2 )={a-b(y1 +y2 )}y2 - c2 y2

2. Il prezzo di equilibrio di Cournot risulta

pC= a-b(y1 C+ y2 C) pC, y1 C, y2 C≥0

Pertanto l’equilibrio di Cournot è un insieme di livelli di output di ciascuna


impresa, con il prezzo di mercato collegato alla somma di coppie di livelli, tali che
nessuna impresa può aumentare il suo profitto variando il suo livello di
produzione.

Siamo ora in grado di calcolare la posizione di equilibrio. Esplicitiamo la


condizione del primo ordine per la prima impresa (analogamente per la seconda).

∂π1 ( y1, y2 )
0= = a − 2by1 − by2 − c1
∂y1

Quella del secondo ordine è

∂ 2π1
= −2b ≤ 0 per ogni yi
∂(y1 )2

Risolvendo y 1 in funzione di y2 si ottiene la funzione di reazione della


impresa R1 della prima impresa

a − c1 1
y1 = R1(y2 ) = − y2
2b 2

E per la seconda impresa

a − c1 1
y 2 = R2 (y1) = − y1
2b 2
4

La figura sottostante rappresenta l’equilibrio di Cournot (y iC). La produzione


di un’impresa che sta massimizzando il proprio profitto deve stare sulla curva di
reazione dell’impresa rivale. Vale a dire quando un’impresa sceglie un livello di
produzione che massimizza il suo profitto, il livello di produzione lasciato
all’impresa rivale deve essere tale che anch’essa si trovi in una posizione di
massimo profitto. Il grafico, per c2 ≥c1 , mostra che un equilibrio di mercato con
queste caratteristiche esiste.
y
1
a-c 2
b R2

a-c 1
2b
yc
1
R1

0 a-c 2 a-c y
2
yc 1
2 2b b

Le due funzioni di reazione hanno inclinazione negativa. Se una delle due


imprese aumenta la sua offerta il prezzo di mercato, seguendo la curva di
domanda di mercato, scende. Per frenarne la discesa l’altra impresa dovrebbe
ridurre la propria offerta a compensare l’aumento della prima.
La produzione di equilibrio per ciascuna impresa si calcola risolvendo il
seguente sistema

a − c1 1
y1 = − y2
2b 2
a − c2 1
y2 = − y1
2b 2

da cui si ottiene

a − 2c1 + c2
y1C =
3b
a − 2c 2 + c1
y C2 =
3b

L’offerta di mercato è

2a − c1 −c2
Y C = y1C + y C2 =
3b
5

e il prezzo di equilibrio

2a −c1 − c2 a + c1 + c2
pC = a − bY C = a − b =
3b 3

Dalla soluzione per le quantità si può osservare che l’impresa con costi più
bassi produce di più. Vale cioè il seguente lemma : se c2 ≥c1 ⇒ y1 ≥ y2 .
Ricordiamo che per ipotesi vale a1 >ci. Riscriviamo la relazione per y 1 e y2 .

a − 2c1 + c2 a − 2c2 + c1
y1C = = yC2
3b 3b

Osserviamo il numeratore. a − 2c1 ≥ a −2c2 perchè c2 ≥c1 . c2 aggiunto a


(a − 2c1 ) determina che a − 2c1 + c2 ≥ a −2c2 + c1 e pertanto che y1 ≥ y2 .
L’implicazione di questo lemma è immediata. Se l’impresa 1 sviluppa una
innovazione di processo che riduce il costo unitario da c 1 a c1 * (c1 >c1 * ) allora y1
aumenta e y2 diminuisce. Il prezzo di equilibrio diminuisce perchè il numeratore
diminuisce per la componente di costo della prima impresa

a + c1* + c 2
pC * = < pC
3

La medesima innovazione che aumenta la produzione della impresa 1 e


diminuisce il prezzo di mercato non può non avere conseguenze sui profitti delle
due imprese. Per l’impresa 1 il profitto aumenta perchè il prezzo di mercato
diminuisce meno del suo costo di produzione. Poichè la sua produzione aumenta,
cresce anche il suo profitto. Il contrario accade per l’impresa 2. La figura
sottostante mostra lo spostamento della curva di reazione dell’impresa 1 a seguito
dell’innovazione verso l’esterno e un nuovo di equilibrio di Cournot, con una
produzione maggiore per l’impresa 1 e minore per la 2 resta individuato.

y
1

R2
c
y
1

R1

0 y
yc 2
2
6

3. Aggiustamento all’equilibrio nel modello di duopolio alla Cournot

L’analisi del paragrafo precedente ci dice che un equilibrio può esistere. Ma


quell’equilibrio può essere effettivamente raggiunto attraverso aggiustamenti
successivi se una delle due imprese massimizza e l’altra no ? Partiamo da una
situazione in cui la seconda impresa massimizza determinando un suo livellodi
produzione a cui non corrisponde una produzione dell’impresa 1 che sia essa
stessa massimizzante. La seconda impresa massimizza il suo profitto
congetturando che l’impresa 1 non modifichi la sua produzione ; ma la congettura
dell’impresa 2 sulla produzione dell’impresa 1 non è detto che rappresenti una
situazione di massimo profitto per la 1. Le imprese massimizzano scegliendo
livelli di produzione per se e per l’impresa rivale che stanno sulla propria curva di
reazione. Ma solo all’equilibrio di Cournot le due curve si intersecano e le
congetture di ciascuna impresa sul livello di produzione dell’impresa rivale si
realizzano simultaneamente. Ma l’equilibrio si può individuare per caso. La
domanda da porsi è se nel modello siano assegnabili comportamenti alle imprese
fuori dall’equilibrio tali che le scelte di produzione che esse esplicitano
conducano il mercato verso l’equilibrio di Cournot. Come si muovono le
imprese ? Ciascuna impresa se per effetto di scelte dell’impresa rivale si trova
fuori dalla propria curva di reazione, non sta cioè massimizzando, ridetermina per
se un nuovo livello di produzione che massimizzi il suo profitto ; cioè sceglie di
ritornare sulla propria curva di reazione. Il grafico seguente fornisce una
illustrazione di questa dinamica verso l’equilibrio di Cournot.

y
1

R 2(y1)

C
B
E R 1(y )
2
A
0 y
2

La seconda impresa massimizza sulla sua curva di reazione nel punto A.


L’impresa 1 in A non sta massimizzando e decide di rideterminare la sua
produzione prendendo come data la produzione in A della seconda impresa. Di
conseguenza essa aumenta la sua produzione, fissa quella di 2, salendo
verticalmente fino a incontrare la sua curva di reazione in B. Ora è la seconda
impresa ad essere fuori dalla sua curva di reazione e decide di ritornare su di essa
congetturando che la produzione dell’impresa 1 non cambi. Per questo l’impresa 2
riduce la sua produzione e si porta in E sulla propria curva di reazione e in E essa
7

massimizza il suo profitto. Ma in E è la prima impresa ad essere fuori equilibrio.


Essa aumenta la sua produzione spingendosi verso la propria curva di reazione.
Come si osserva agevolmente le scelte delle due imprese conducono il sistema
proprio verso il punto C che rappresenta l’equilibrio di Cournot.
Si può agevolmente osservare che se le inclinazioni delle curve di reazione
fossero rovesciate in luogo di un processo di convergenza verso C si metterebbe
in luogo un processo di allontanamento da C. In tal caso l’equilibrio in C avrebbe
avuto caratteristiche di instabilità. La condizione che garantisce la stabilità
dell’equilibrio di Cournot è che la pendenza della curva di reazione R2 sia
superiore (in valore assoluto) a quella della curva di reazione R1 , ovvero che la R 2
tagli la R1 dall’alto.

4. L’equilibrio di Cournot con un numero elevato di imprese

Cosa cambia nel modello se il numero delle imprese passa da due ad n>2 ?
Supponiamo che tutte le imprese abbiano la stessa funzione di costo (c1 = c2 = …
=cn ).
Calcoliamo il livello ottimo di ciascuna impresa come funzione dell’output
delle altre imprese. Sviluppiamo l’analisi per la 1. Per le altre n-1 il ragionamento
è uguale. Costruiamo la funzione di profitto e da essa, mediante la condizione di
primo ordine per un massimo, ricaviamo la funzione di reazione.
 
maxπ 1 = p(Y)y1 −cy1 = a − b∑1 y i y1 − cy1
n

  
∂π  n 
0 = 1 = a −2by1 − b∑2 yi  − c
∂y1
a−c 1 n
R1 (y2,...,y n ) = − ∑ yi
2b 2 2

Se le imprese sono identiche, in equilibrio tutte produrranno lo stesso livello


di output y1 C= y2 C= … =y n C. Indichiamo con y tale livello.
Scriviamo il livello di produzione per la prima impresa
a−c 1 n

y= − (n −1)y con ∑ = (n -1)


2b 2 2
Esplicitiamo rispetto a y :
8

1 a−c
y + (n −1)y =
2 2b
 1  a−c
y1+ (n −1) =
 2  2b
 2 + n −1 a − c
y =
 2  2b
 n +1 a − c
y =
 2  2b
a −c
y=
 n +1
 2b
 2 
L’offerta di tutte le imprese sul mercato è
a−c  n 
Y = ny =  
b  n +1
Nota l’offerta si ottiene il prezzo di mercato
 a − c  n  a − nc
pC = a − bY C = a − b  =
 b  n + 1 n +1
e il profitto della generica impresa i
( a −c)
2
 a + nc  a − c
πi = (p − c)y =  − c = = by 2
C

 n +1  (n + 1)b (n +1)2 b
Ricordiamo quantità offerta dalla singola impresa, offerta di mercato, prezzo e
profitto

y=
(a − c ) Y=
( a − c)  n 
 
(n +1)b b  (n + 1)

(a − c ) = by2
2
a + nc
p = πi =
C

n +1 (n +1) b
2

e chiediamoci come cambiano quantità prodotta e livello di profitto quando cresce


il numero delle imprese sul mercato.
Se n=1 ricadiamo nel monopolio. Se n=2 siamo nel duopolio. Il caso
interessante si ha quando n tende a infinito. Calcoliamo il limite della funzione di
offerta singola, dell’offerta di mercato e del prezzo al crescere del numero delle
imprese.

a −c
lim y = =0
n →∞ (n +1)b
perchè il denominatore tende a zero.
a−c n a−c
lim Y C = lim =
n →∞ n →∞ b (n +1) b
Il livello di produzione di ogni impresa tende a zero e la produzione totale
tende al livello di quella che si otterrebbe in concorrenza perfetta.
Per il prezzo si ha
9

a nc
lim pC = lim + = c = pe
n →∞ n →∞ n + 1 n +1
un risultato in linea con quello per l’offerta globale : il prezzo tende al costo
marginale, cioè al prezzo più basso che prevarrebbe in concorrenza perfetta. E i
profitti sarebbero nulli.
Facciamo notare che per ottenere questo risultato non è necessario che le
imprese siano tante, bensì che si comportino come se lo fossero. Vale a dire che il
risultato concorrenziale si conseguirebbe solo se le imprese, poche o tante che
siano, assumessero come un dato la situazione di mercato e scegliessero il loro
livello di offerta sulla base degli esiti della massimizzazione della funzione di
profitto.
Per concludere l’esposizione del nucleo del modello di duopolio alla
Cournot un breve commenti appare necessario. Se interpretiamo il modello in una
dimensione temporale multiperiodale, come si è fatto per la questione
dell’aggiustamento, ciascuna impresa dovrebbe apprendere con l’esperienza che
non può ignorare le implicazioni delle sue decisioni di produzione sulle scelte
dell’impresa concorrente. Ciò significa che le imprese dovrebbero riconoscere che
vi è interdipendenza tra le loro azioni. Ma se questo avvenisse capirebbero che
attraverso la cooperazione o la collusione potrebbero conseguire profitti più
elevati.
Il confronto esplicitato in chiusura tra un modello di duopolio e un modello
a molte imprese ma con comportamenti di tipo duopolistico mostra che nel primo
caso entrambe le imprese realizzano profitti positivi e nel secondo i profitti
tendono a zero, configurando così un mercato molto prossimo a quello
competitivo puro.

5. Il modello guida-satellite

Questo modello è dovuto all’economista tedesco H. von Stackelberg (1934),


In esso si generalizza l’analisi alla Cournot delle curve di reazione. Si definisce
una curva di reazione supponendo che la quantità prodotta dall’impresa rivale sia
funzione della quantità prodotta dal duopolista che costruisce la curva e non fissa
come in Cournot. La curva di reazione indica ora ciò che un’impresa pensa il
rivale produrrà come risposta per ogni proprio livello di produzione.
A differenza del modello di Cournot si intuisce che in questo emerge una
immagine delle imprese come agenti che contrattano, che riconoscono la loro una
mutua dipendenza, che tengono conto degli effetti indiretti delle proprie azioni.
Il modello prevede una asimmetria tra le due imprese. Una svolge la
funzione di guida (leader), l’altra di satellite (follower).
L’impresa guida, la prima, decide il livello di produzione che massimizza il
suo profitto sulla base della congettura che la seconda impresa accetti come un
dato la sua decisione di produzione. La seconda, assunto quel dato come un
vincolo, decide il livello della sua produzione che massimizza il suo profitto.
L’impresa satellite reagisce dunque passivamente alle decisioni di
produzione dell’altra e ritiene che le sue decisioni di produzione non ne
influenzino le scelte. L’impresa satellite agisce come un’impresa nel modello di
10

Cournot. L’impresa guida basa le sue scelte sulla congettura che l’altra impresa si
comporti come un’impresa satellite, come nel modello di Cournot.
Sul piano logico sono tre le situazioni possibili :
a) entrambe le imprese si comportano come satelliti ;
b) entrambe le imprese si comportano come guida ;
c) una opera come guida, l’altra come satellite.

Nel caso a) ricadiamo esattamente nel modello di Cournot. Nel caso b) la


situazione è instabile. Si manifesterà una lotta tra le due imprese perchè nessuna
accetta di assumere un ruolo passivo. L’esito del conflitto è indeterminato. Alla
fine una delle due prevarrà.
Il caso c) è quello che si esamina.

L’impresa 1 (guida) incorpora la funzione di reazione della 2 nella propria


funzione di reazione. E’ questo un primo esempio di comportamento strategico.
Pertanto l’impresa 1 riesce sempre a stabilire a priori quale livello di produzione
l’impresa 2 mette sul mercato e massimizza il suo profitto assumendo la
produzione della 2 come un dato.
Il profitto di un’impresa dipende, dato il costo marginale per semplicità
preso come costante, da quanto vende e a quale prezzo. Sia la seguente
l’espressione del profitto della impresa 1, dove d1 rappresenta la funzione di
ricavo:

π1 = y1d1( y1,y 2 ) −cy1

_
Si fissi il profitto a π1 = π 1 e si individuino le coppie di y1, y2 che danno lo
stesso profitto. Il differenziale totale della funzione di profitto è lo strumento
analitico che consente di ottenere l’insieme di queste coppie. Queste curve
combinazione di y1, y2 sono dette curve di isoprofitto. La forma a U che esse
esibiscono dipende dalla concavità dei contorni della funzione di profitto.
La figura sottostante rappresenta l’equilibrio di Cournot, le curve di
reazione della impresa 1 e impresa 2, con l’aggiunta delle curve di isoprofitto
dell’impresa 1. Le curve più elevate rappresentano profitti maggiori, sono legate a
maggiori produzioni di y1 .

y
1

R2(y 1)

C
R1(y2 )

0 y
2
11

La mossa migliore per l’impresa 1 è scegliere un livello di produzione che


non alteri il suo profitto e che consenta alla impresa 2 di stare e di produrre sulla
propria curva di reazione, curva che l’impresa 1 assume di conoscere. La figura
fornisce la soluzione. L’impresa 1 fissa la sua produzione sulla curva di reazione
dell’impresa 2 su una sua curva di isoprofitto tangente alla R2 in S. Essa
massimizza il suo profitto perchè quella curva di isoprofitto tangente a R2 è la più
elevata possibile tra quelle tracciate che massimizza anche il profitto della impresa
2 (quella più interna non tocca la R2 ). Anche la curva di isoprofitto che passa per
il punto C , l’equilibrio di Cournot, massimizza i profitti di entrambe le imprese
ma essa indica un livello di profitto meno elevato per l’impresa 1. Ma in C il
profitto sarebbe più elevato per la 2. In forza dell’ipotesi che l’impresa 2 sia un
satellite, la 1 preferirà il punto di coordinate S perchè il suo profitto è il maggiore
compatibile con la massimizzazione (non con il profitto più elevato) del profitto
della 2.
Questo modello presenta un maggior realismo rispetto a quello di Cournot
perchè in esso almeno un’impresa agisce riconoscendo l’interdipendenza tra le
due e traendone un vantaggio.

6. Il modello di Bertrand

Nel 1883 J. Bertrand recensendo il libro di Cournot del 1838 avanza la tesi
che la variabile strategica o decisionale in duopolio e in oligopolio non sia la
quantità ma il prezzo. Allo scopo sviluppa un interessante modello in cui le due
imprese (sempre restando al caso del duopolio come caso particolare di
oligopolio) si fanno concorrenza attraverso il prezzo. Il mercato determina poi la
quantità che le due imprese offriranno.
L’idea che le imprese si facciano concorrenza sul prezzo discende
dall’assunto che i prezzi siano più flessibili delle quantità. Inoltre si ipotizza che
le due imprese utilizzano la medesima tecnologia a rendimenti costanti di scala,
senza limite di capacità produttiva. Valgono inoltre, nel modello, due regolette di
buon senso : a) i consumatori acquistano sempre al prezzo più basso (prodotto
omogeneo) ; b) se i prezzi delle due imprese sono uguali i consumatori
distribuiscono la loro domanda 50% all’una, 50% all’altra.
In questo contesto ciascun imprenditore sa che fissando il suo prezzo di un
infinitesimo più basso di quello del rivale riuscirà ad ottenere l’intera domanda di
mercato. La conseguenza è che il prezzo si stabilirà al livello del costo marginale,
uguale al costo medio, assunto per semplicità costante al variare della produzione
(con funzione di costo del tipo c=ay, con a>0).
La funzione di domanda dell’impresa i avrà le seguenti caratteristiche :

y i ( pi , p j ) = 0 se pi > p j
1
y i ( pi , p j ) = ( p) se pi = p j = p i =1,2 j ≠ i
2
y i ( pi , p j ) = ( pi ) se pi < p j
12

Il risultato è dunque che la competizione di prezzo condurrà ad una


configurazione di mercato strettamente concorrenziale con un prezzo uguale al
costo medio minimo e profitti nulli anche con due sole imprese. Un risultato assai
diverso da quello di Cournot nel cui modello le due imprese conseguono profitti
positivi.
La figura sottostante ci aiuta a comprendere la logica di questo modello.

domanda di mercato
f(Y)
p
c domanda impresa 1

pb CMe=CMa
e
0 1 Y
Y Ye
2
La figura si concentra sull’impresa 1. Il prezzo di partenza osservato è pc.
Ciascuna impresa ipotizza che l’altra impresa non vari il suo prezzo come risposta
ad una variazione del proprio. Con un prezzo p< p c la prima impresa si prende
tutto il mercato. L’impresa 2 però reagisce abbassando il suo prezzo per non
perdere il mercato. Se l’impresa 1 insiste nell’abbassare il prezzo e l’altra risponde
abbassandolo a sua volta il prezzo che alla fine prevarrà sarà pcb , al livello del
costo medio e marginale costante, uguale per le due imprese.
E’ però possibile che l’equilibrio sul mercato emerga da un accordo con un
razionamento delle quantità offerte sul mercato inferiori a Ye.
Introduciamo ora l’ipotesi che esista un vincolo di capacità produttiva per le
due imprese. E’ questa ipotesi del tutto ragionevole.
Ciascuna impresa è vincolata a produrre la quantità 3 come massimo. Il
mercato è al più di dimensione 6. Adottiamo la regola che la scelta del livello di
produzione sia dettata dall’uguaglianza tra ricavo marginale e costo marginale.
Il grafico qui sotto replica il precedente accogliendo il vincolo della capacità
produttiva. Per pc>CMa supponiamo la prima impresa riduca il suo prezzo sotto pc
per coprire tutto il mercato. Quando si arriva a peb =CMa la prima impresa, che ha
fatto scendere il prezzo, incontra il vincolo e arresta la sua offerta. La seconda
impresa che è stata costretta a seguire la prima nella discesa del prezzo è allora
tentata di rialzare il suo prezzo seguendo la regola RM=CMa, dunque a pc, perchè
comunque i consumatori dovranno pur acquistare quello che l’altra impresa non è
in grado di offrire (la domanda residuale). La prima impresa riallinea il suo prezzo
a pc. Ma così si ritorna all’inizio e così via. Non vi è dunque una situazione di
equilibrio stabile.
In sintesi si può affermare che nel modello di Cournot la variabile strategica
è la quantità ; in quello di Bertrand è il prezzo. I due modelli conducono a esiti
molto diversi. In Cournot le imprese conseguono profitti positivi mentre in
Bertand i profitti sono nulli come in concorrenza perfetta.
13

f(Y)

p
c

CMe=pb
e
0 Y
3 6
RM
1

TEORIE NON TRADIZIONALI DEI PREZZI

Prezzi non competitivi: come si formano?

Nella impostazione teorica fin qui seguita il soddisfacimento della


condizione di primo ordine per il massimo profitto, l’uguaglianza tra prezzo o
ricavo marginale e costo marginale, è il principio su cui si basa la
determinazione del livello di produzione che massimizza il profitto
dell’impresa.
Il presupposto per questo risultato è che la funzione di costo marginale
esibisca un andamento “opportuno”; che nel caso della concorrenza perfetta
deve essere crescente in corrispondenza al livello di produzione soluzione
dell’equazione che deriva dalla condizione di primo ordine.1
Il punto in discussione è che le funzioni di produzione e le funzioni di
costo che da esse derivano che esibiscono l’andamento appropriato (le curve
di costo unitario a U) hanno un riscontro empirico del tutto marginale. Le
funzioni di costo reali, come documentate ricerche empiriche hanno rivelato,
non presentano in genere quelle caratteristiche e sul piano analitico raramente

1 In monopolio non è necessario che la funzione di costo marginale sia crescente in


corrispondenza di RM(y)=c’(y) perchè necessariamente RM’(y)<0 e c’’(y) può essere
negativo o nullo purchè [RM’(y)-c’’(y)]<0. Il grafico sottostante mostra che con una funzione
di costo lineare con c(0)=0 e con c’’(y)=0 è sufficiente che la derivata seconda del ricavo
totale (RM’’) in y* (livello di produzione per cui RM=c’(y))sia negativa per massimizzare il
profitto.
2

ammettono la doppia differenziabilità. Pertanto la logica di fissazione della


quantità che massimizza il profitto deve di necessità mutare.
Due economisti inglesi, Hall e Hitch, in una famosa ricerca empirica,
condotta nel 1939 su un campione ampio e significativo di imprese inglesi,
mostrano che gli imprenditori non adottano il criterio “marginale”
dell’uguaglianza tra costo marginale e ricavo marginale e che la struttura di
mercato predominante nel settore industriale è quella dell’oligopolio. In tale
ambito le imprese non agiscono in modo atomistico ma tengono conto, nelle
loro scelte di produzione, della possibile reazione dei concorrenti. Inoltre si
scopre che le imprese mirano alla massimizzazione del profitto nel lungo
periodo e fissano il prezzo del prodotto seguendo il principio del costo medio,
non dunque sulla base dell’intersezione tra costo marginale e ricavo
marginale; bensì decidono un prezzo che copre il costo variabile medio, il
costo fisso medio legato a un livello di utilizzazione “normale” degli impianti,
inferiore alla capacità produttiva massima, e un profitto per unità di prodotto
ritenuto “normale” per il settore in cui operavano. In simboli

p=CVM+CFM+margine di profitto

La ragione fondamentale per abbandonare il principio marginalistico


sta nel fatto che le imprese conoscono solo una piccola porzione della loro
curva di domanda e così di ricavo marginale; così come non conoscono con
sicurezza l’intera funzione di costo marginale. Inoltre le imprese ritengono che
il prezzo derivato dal costo medio sia un prezzo “giusto” perchè consente un
profitto equo quando l’impianto è utilizzato nel modo “normale”. La
differenza tra capacità produttiva massima e quella normale rappresenta un
volano per far fronte a punte inattese di domanda. Le imprese o assumono
come un dato il prezzo dei concorrenti in un mercato del tutto omogeno o lo
fissano in base al principio del costo medio e vendono a quel prezzo quanto il
mercato è in grado di assorbire. I prezzi, se non intervengono modificazioni
significative dei costi e generalizzate anche ai concorrenti, rimangono stabili e
l’offerta si adegua a variazioni della domanda. Ciò nondimeno se si intendono
incrementare le proprie vendite le imprese possono usare il prezzo come
strumento accettando una riduzione del margine del profitto. O attuare una
politica di spesa in pubblicità, che alza il costo medio fisso, senza toccare il
prezzo. Oppure, se si riesce a introdurre una innovazione di processo che
3

riduce i costi medi variabili, il prezzo può scendere senza intaccare il margine
di profitto e i profitti complessivi aumentano se la curva di domanda è
sufficientemente elastica al prezzo.

La curva di domanda a gomito

Questa relativa rigidità dei prezzi viene spiegata, in oligopolio,


mediante il modello della curva di domanda a gomito per l’impresa.
Supponiamo che con il principio del costo medio si sia in passato fissato il
prezzo per la merce offerta dall’impresa i. Supponiamo che la merce sia
differenziabile e che di conseguenza il mercato assorba, a quel prezzo, una
certa quantità di merce. I concorrenti vendono merci analoghe, non
necessariamente allo stesso prezzo, trattandosi di merce differenziabile. Sul
mercato si osserva pertanto una situazione in cui ciascuna impresa
oligopolistica vende a un dato prezzo una certa quantità del suo prodotto. Con
profitti positivi per tutte le imprese. Supponiamo anche che la differenziazione
via sia, dunque i prezzi possono essere diversi, ma al contempo sia lieve così
che un certo grado di sostituibilità tra le merci offerte dalle diverse imprese si
possa ammettere.
Se la generica impresa i aumenta il prezzo di vendita, confidando per
questa via di aumentare i suoi profitti, potrebbe viceversa registrare una caduta
elevata delle sue vendite se i propri concorrenti diretti non la seguissero
nell’aumento del prezzo. Se questo accade significa che per aumenti del
prezzo al disopra del prezzo corrente, il prezzo d’angolo nel grafico della
figura 1, la curva di domanda dell’impresa i è molto elastica. All’opposto, una
riduzione di prezzo al disotto del prezzo corrente giocata per incrementare le
vendite potrebbe non sortire effetto alcuno se i concorrenti seguissero
l’impresa i riducendo anch’essi i loro prezzi nella stessa proporzione per non
vedersi ridurre le loro quote di mercato. In tal caso la curva di domanda della
nostra impresa presenta una curva di domanda rigida per riduzioni di prezzo
rispetto al prezzo corrente. In altri termini la curva di domanda dell’impresa i
presenta un punto d’angolo in corrispondenza del prezzo p* e della produzione
corrente y*.
4

Per incrementi di prezzo la curva di domanda rilevante è la sezione dE


di dd’; per riduzioni di prezzo la domanda rilevante è ED, la sezione inferiore
della curva D’D. Il tratto dE presenta elasticità assai più elevata del tratto
ED. L’equilibrio prezzo-quantità dell’impresa i è definito nel punto d’angolo.
In corrispondenza del punto E il ricavo marginale non è definito: presenta un
tratto di discontinuità. La curva di costo marginale passa necessariamente per
il tratto discontinuo AB perchè a sinistra del punto d’angolo il costo marginale
è minore del ricavo marginale e a destra è maggiore. I profitti totali sono
massimizzati per quel livello di prodotto che corrisponde al punto d’angolo.
L’aspetto interessante di questa analisi è che la quantità di equilibrio è
compatibile con costi marginali di livello diverso. Nella figura 1 sono
rappresentati due livelli di costo marginale c1’>c2’. La discontinuità della
curva di ricavo marginale implica l’esistenza di un intervallo di variazione dei
costi che non influisce sul livello di equilibrio della produzione y* e del prezzo
p*. Il punto d’angolo spiega, sul piano analitico, perchè, a fronte di variazioni
dei costi, prezzo e quantità prodotta non variano. Più accentuata è la differenza
tra l’elasticità del tratto superiore e l’elasticità del tratto inferiore della curva
5

di domanda più ampio è la discontinuità del ricavo marginale; e quindi


l’intervallo dei costi compatibili con un prezzo p* e una quantità y*
d’equilibrio.
In un solo caso un aumento dei costi può indurre un aumento del
prezzo anche se questi maggiori costi passano per il tratto di discontinuità
della curva di ricavo marginale. Che si verifica se l’aumento del costo è
generalizzato a tutte le imprese del settore, come un incremento del costo delle
materie prime, del lavoro o l’aumento di una imposta sulla produzione. Se
l’impresa i decide di trasferire il maggior costo sul prezzo è quasi certa che
anche le imprese sue concorrenti la seguiranno perchè anch’esse l’hanno
subito in ugual misura. Il punto d’angolo si sposta verso l’alto a sinistra perchè
il maggior prezzo sul mercato significa una riduzione della domanda dei
consumatori.
Se si verifica uno spostamento della curva di domanda di mercato,
verso l’alto ad esempio, per l’impresa i aumenta la propria domanda; così
come per le altre imprese. Ma il prezzo rimane invariato se l’aumento di
produzione che segue all’incremento di domanda non modifica il costo
unitario di produzione o se la variazione nei costi rimane entro l’intervallo di
discontinuità del ricavo marginale.
Lo schema logico della curva di domanda a gomito appare assai
realistico per un contesto oligopolistico di forte competizione tra le imprese.
Ma esso non è una spiegazione, in quel contesto, di come un’impresa decide
quantità e prezzo. E’ piuttosto una spiegazione della rigidità del prezzo in un
oligopolio assai competitivo. Il punto d’angolo nella curva di domanda è il
corollario della incertezza che l’impresa i assegna alla reazione dei suoi
concorrenti a fronte di variazioni del prezzo del proprio prodotto.

Il costo medio nella pratica

E’ tempo dunque di approfondire come una generica impresa i fissa il


prezzo del suo prodotto seguendo il criterio del costo medio. Definiamo il
prezzo p come

p=CVM+MPL=CM
6

ove CVM è il costo medio variabile, MPL il margine di profitto lordo, CM il


costo medio. L’obiettivo dell’impresa è sempre quello di massimizzare il
profitto di lungo periodo. Per ottenere tale esito bisognerebbe conoscere le
curve di costo di lungo periodo in modo da avere una indicazione di come
aggiustare la capacità produttiva a costi minimi rispetto a previsioni di prezzo
e di domanda. L’incertezza sul futuro, che investe l’evoluzione della domanda,
della tecnologia e i prezzi dei fattori produttivi, rende del tutto aleatoria ogni
previsione di domanda e di costo di lungo periodo. Si conoscono molto meglio
i costi correnti, cioè i costi di breve periodo. Ed è su questi che si basano le
decisioni di produzione e di prezzo. Inoltre la funzione di produzione da cui
deriva la funzione di costo di breve periodo incorpora delle indivisibilità.
L’impianto è dato: di conseguenza la capacità produttiva dell’impresa è data. I
costi totali incorporano una componente significativa di costo fisso.
L’impianto è progettato per realizzare al massimo un certo ammontare di
prodotto nell’unità di tempo considerata. L’utilizzo ottimale dell’impianto,
cioè ai costi minimi, copre un certo intervallo di produzione, abbastanza
ampio, fino in prossimità della massima capacità produttiva. Questo consente
di operare normalmente non utilizzando del tutto la capacità installata per
lasciare un margine di capacità con cui l’impresa, ad esempio, fronteggia
picchi imprevisti di domanda, andamenti stagionali, e anche una crescita
stabile della domanda fino a quando non si realizza un investimento che
allarga la capacità produttiva. Il grafico nella figura 2 sottostante interpreta
queste considerazioni nelle curve di domanda di breve periodo.
Il costo medio totale CTMB scende fino al livello di piena utilizzazione
della capacità produttiva per poi salire repentinamente; il costo variabile
medio CVMB scende al crescere della produzione in un primo tratto per effetto
di un miglior dimensionamento con gli input fissi, e resta poi costante per un
lungo intervallo di produzione fino al limite della piena utilizzazione degli
impianti. Dopo quel limite i costi si impennano perchè la sovrautilizzazione
degli impianti, dove è possibile, induce una crescita significativa dei costi per
manutenzione, un aumento degli scarti di lavorazione, il pagamento di ore di
lavoro straordinarie, più costose, ai lavoratori. Anche il costo marginale ha un
andamento simile a CVMB e coincide con esso nell’intervallo di produzione in
cui CVMB è costante. L’impresa stabilisce un livello normale di produzione y*
inferiore alla utilizzazione massima dell’impianto. La differenza è una riserva
di capacità produttiva che l’impresa ritiene necessario avere a disposizione,
7

sulla base della propria esperienza, per fronteggiare aumenti non previsti di
domanda. La produzione effettiva può anche essere inferiore, per un certo
tempo, a quella normale nell’intervallo in cui il costo medio variabile è
costante, tuttavia con un peggioramento nel costo medio totale.
Al livello della produzione ritenuto normale si calcola il costo fisso
medio. A tale costo si aggiunge un ammontare desiderato di profitto per unità
di prodotto o, il risultato non cambia, si applica una percentuale di ricarico al
costo variabile (costante) data dal rapporto tra la somma del costo fisso al
livello normale di produzione e il margine di profitto desiderato e il costo
variabile medio.

In formula

p=CVM+MPL

con MPL=CFy*+MPNy*, ove il primo addendo è il costo fisso medio


misurato per il livello di produzione normale e il secondo è il margine di
profitto netto per unità prodotta. Nella formula del prezzo raccogliamo al
secondo termine CVM. Si ottiene
8

⎛ MPL ⎞
p = CVM ⎜ 1 + = CVM (1 + π )
⎝ CVM ⎟⎠

MPL
con π = . π è il margine lordo percentuale che si ricarica sul costo
CVM

medio variabile per ottenere il prezzo desiderato. Si tratta di un margine di


profitto che non è il risultato di un processo di massimizzazione di una
funzione di profitto. Nel contesto ora discusso una funzione di profitto non è
nemmeno definibile, sul piano analitico. Pertanto il margine di profitto lordo
non può essere altro che il risultato dell’esperienza passata, o delle
consuetudini del settore o semplicemente l’espressione del desiderio di profitto
dell’impresa. Non necessariamente il prezzo così stimato sarà il prezzo
effettivo dell’impresa sul mercato. E’ necessario tener conto dello stato della
concorrenza nel settore. Se ci sono alte barriere all’entrata il prezzo effettivo
può anche superare quello desiderato o normale. Con effetti di rialzo del
margine del profitto su quello ritenuto normale. Se la concorrenza è vivace o
se vi è minaccia concreta di entrata sul mercato di concorrenti potenziali sarà
necessario adottare una strategia di prezzo limite e il prezzo effettivo sarà
stabilito sotto il prezzo normale. La geometria di questa situazione si può
leggere nel grafico della figura 3.
Il prezzo normale corrisponde a un ricarico lordo pari a bd; se la
posizione dell’impresa è sufficientemente protetta il prezzo può, ad esempio,
salire a pb e il ricarico salire a ad; se, viceversa, vi è minaccia potenziale di
entrata di concorrenti si può accettare un prezzo pc inferiore a quello normale
con un sacrificio sul margine ridotto, nel grafico, a cd. Se su un mercato le
imprese presentano costi medi diversi la fissazione del prezzo sulla base del
costo medio in modo indipendente può determinare un mercato instabile e
sfociare anche in guerre di prezzo.
La regolazione del mercato, in tali casi, avviene spesso attraverso
l’operare di una impresa leader che appartiene al gruppo delle grandi imprese,
9

come vedremo in dettaglio nel modello di oligopolio di Sylos Labini.


L’impresa leader, che gode di norma di costi medi più bassi, fissa il prezzo di
mercato in dipendenza dalle condizioni della concorrenza. Se vi sono barriere
all’entrata il prezzo risulterà superiore al normale e le imprese con costi medi
più alti, che sono price takers, potranno conseguire profitti positivi.
Con condizioni di mercato stringenti l’impresa leader fisserà un prezzo
tale da guadagnare al più i profitti normali. E le imprese meno efficienti
rischiano di non conseguire guadagni positivi. In periodi di espansione del
mercato il margine di profitto tende a salire; mentre nei periodi di contrazione
il margine si aggiusta su livelli inferiori. In definitiva il profitto effettivo tende
ad aggiustarsi in alto o in basso rispetto a quello desiderato a seconda delle
condizioni di mercato. Pertanto il profitto effettivo non è il risultato di una
massimizzazione ma di un aggiustamento alle condizioni di mercato. Al
prezzo accettato dal mercato le imprese sono in grado di produrre e vendere
quanto richiesto fino alla piena utilizzazione degli impianti.
10

Tentiamo di riannodare l’analisi ora svolta con la tradizionale analisi


marginale. Osserviamo che nel tratto orizzontale della curva di costo medio
variabile si ha CVM=c’. La condizione di primo ordine per il massimo profitto
è c’=RM. Pertanto potremmo scrivere:

⎛ 1 ⎞ ⎛ ep − 1⎞
CVM = p ⎜ 1 − ⎟ = p⎜ ⎟
⎜⎝ e p ⎟⎠ ⎜⎝ e p ⎟⎠

Risolvendo rispetto a p si ottiene


⎛ ep ⎞
p = CVM ⎜ ⎟
⎜⎝ e p − 1 ⎟⎠

Poichè ep >1 il termine tra parentesi è maggiore di uno. Così da poter


scrivere
⎛ ep ⎞
⎜ ⎟ = 1+ k
⎜⎝ e p − 1 ⎟⎠

con k>0. Infine

p=CVM(1+k)

dove k è il margine di profitto lordo. Se l’impresa fissa tale margine al


20%

⎛ ep ⎞
1 + k = 1 + 0, 20 = ⎜ ⎟
⎜⎝ e p − 1 ⎟⎠

e ep =6. La fissazione del margine di profitto lordo equivale,


implicitamente, a stimare l’elasticità della domanda rispetto al prezzo. A più
alti margini di profitto richiesti corrispondono valori impliciti dell’elasticità
sempre più bassi, da valori + ∞ , fino al limite inferiore unitario. Più il mercato
è competitivo più l’elasticità della domanda è elevata e minore il margine di
profitto lordo che il mercato consente.
Dalla precisione geometrica del criterio marginalista si è passati
all’incertezza dei mercati veri e all’approssimazione delle scelte.
11

Il modello di oligopolio di Sylos Labini

Presentiamo il modello di oligopolio di Sylos Labini, basato sulle


barriere all’entrata originate dalle economie di scala. Sylos concentra la sua
attenzione sull’oligopolio omogeneo. Le imprese presentano funzioni di
produzione caratterizzate da discontinuità tecniche e da economie di scala.
Le ipotesi del modello sono:
a) La curva di domanda è data e presenta elasticità unitaria. La regola
di massimizzazione del profitto RM=c’(y) non si potrebbe applicare perchè
RM=0 e c’(y)>0. Il prodotto è omogeneo, dunque non differenziabile, e
venduto a un medesimo prezzo da tutte le imprese sul mercato.
b) La tecnologia presenta la specificità di associare a impianti di
piccole dimensioni un costo variabile costante piu elevato rispetto a impianti
di dimensioni maggiori con la conseguenza che i costi medi (unitari) sugli
impianti maggiori scendono più velocemente rispetto ai piccoli. Ci sono
dunque economie di scala. Nel modello si introduce anche il vincolo che
ciascuna impresa possa espandersi aggiungendo agli impianti già posseduti
solo impianti dello stesso tipo. Una impresa che nasce piccola perchè adotta
un impianto piccolo può crescere aumentando la sua capacità produttiva con
impianti piccoli dello stesso tipo di quello (i) già impiegati. Così un’impresa
media e un’impresa grande. Si ipotizza l’esistenza di tre imprese: una piccola,
una media, una grande. Ciascuna caratterizzata per la tecnologia che adotta.
L’impresa grande presenta un costo medio di produzione più basso della
media e la media della piccola. Il grafico nella figura 4 sottostante rappresenta
i costi dei tre tipi di imprese, ciascun tipo indicato per la sua capacità
produttiva.
12

c) Il prezzo viene fissato dall’unica impresa maggiore, impresa leader,


che ha il costo medio, costante, più basso. Tale costo basso consente
all’impresa leader di fissare un prezzo limite remunerativo per essa ma
sufficientemente basso da impedire l’entrata di altre imprese. Le altre imprese
minori sono presenti sul mercato in un certo numero. Ciascuna è comunque
troppo piccola per influenzare il prezzo di mercato della merce omogenea. Ma
insieme, attraverso la loro politica di offerta, riescono a porre un limite alla
discrezionalità della impresa leader nel fissare il prezzo che deve risultare
accettabile, cioè profittevole, anche per le altre imprese minori e al tempo
stesso non troppo alto in modo tale da non rendere profittevole l’entrata.
d) Nel settore prevale un saggio di profitto normale, individuato dalla
consuetudine.
e) L’impresa leader conosce la struttura dei costi delle imprese minori e
la domanda di mercato.
f) Il potenziale entrante può entrare solo con l’impianto di piccole
dimensioni.
g) L’impresa entrante si aspetta che le imprese esistenti non
modifichino la loro produzione se l’entrata si realizza. Il che significa che il
prezzo di mercato, con una curva di domanda inclinata negativamente, dovrà
scendere.
h) Le imprese esistenti si aspettano che l’entrante non entrerà se si
accorgesse che dopo l’entrata e il relativo incremento di offerta il prezzo di
mercato scenderà al disotto del suo costo medio.
13

Discutiamo il funzionamento del modello mediante un esempio


numerico.
Al prezzo di 20 i profitti delle imprese presenti risultano dell’8,1% per
le piccole, dell’11,1% per le medie, del 17,6% per la grande. Se il saggio del
profitto ritenuto normale fosse del 5% (come nell’esempio originale di Sylos)
altre imprese esterne al mercato potrebbero essere indotte ad entrarvi. Ma
quale tipologia di imprese?

Struttura di mercato iniziale


dimensione capacità numero di domanda di
offerta totale prezzo iniziale
impianto produttiva imprese mercato

piccolo 100 20 2000 20 40.000

medio 1000 2 2000 20 40.000

grande 8000 1 8000 20 160.000

mercato totale 23 12.000 240.000

Una grande impresa entrerebbe con un’offerta di 8000 unità. Sul


mercato troveremmo un’offerta complessiva di 20.000 unità di merce e il
prezzo (l’ipotesi di elasticità unitaria della domanda significa che la spesa dei
consumatori, cioè il ricavo totale delle imprese, resta immutata al livello
assegnato di 240.000) scenderebbe a 12 (240.000/20.000). Un livello troppo
basso per tutte le imprese operanti sul mercato. Dalla tabella seguente si ricava
che il prezzo minimo accettabile è di 19,4 per le imprese che utilizzano un
impianto di piccole dimensioni, di 18,9 per le imprese medie e di 17,85 per
l’impresa leader. Una nuova impresa media incrementerebbe le vendite a
13.000 unità e il prezzo scenderebbe a 18,4, troppo basso per le piccole e
medie imprese. Le prime conseguirebbero un profitto negativo, le seconde
positivo ma inferiore al saggio ritenuto normale.
Possono entrare sul mercato fino a tre piccole imprese. Le vendite
salirebbero a 12.300 e il prezzo scenderebbe a 19,5, livello accettabile per tutte
e tre le categorie di impresa.
Il prezzo che previene l’entrata è dunque quello appena superiore al
prezzo accettabile dalle imprese piccole meno efficienti.
14

Struttura di costo delle imprese con data tecnologia

saggio
dimen profit
di
sione out to prez ricavo
CFT CFM CTV CVM CT CTM profitto
di put unita zo totale
% su
impianto rio
CTM

8,1 1,5 20,0 2000


piccola
100 100 1 1750 17,5 1850 19 5,4 1,0 19,5 1950
impresa
5,0 0,9 19,4 1940

11,1 2,0 20,0 20.000


8,3 1,5 19,5 19.500
media
1000 2000 2 16.000 16 18.000 18 7,8 1,4 19,4 19.400
impresa
6,7 1,2 19,2 19.200
5,0 0,9 18,9 18.900

17,6 3,0 20,0 160.000


14,7 2,5 19,5 156.000
grande
8000 24.000 3 11.200 14 136.000 17 14,1 2,4 19,4 155.000
impresa
12,9 2,2 19,2 153.000
5,0 0,85 17,85 142.800

Vi saranno diversi prezzi minimi accettabili, tanti quanti gli impianti di


diverse dimensioni perchè ciascuno da luogo a un costo medio totale diverso.
Per ciascun tipo di impianto i il prezzo minimo accettabile si determina in base
al principio del costo medio

pi = CMTi (1 + r)

dove pi è il prezzo minimo accettabile per l’impianto i-esimo, CMTi è il costo


medio totale per l’impianto i-esimo ed r è il saggio di profitto considerato
normale del settore.
L’impresa leader fisserà dunque il prezzo limite che previene l’entrata a
livello tale da garantire alle imprese meno efficienti almeno il profitto
normale. Nel modello l’entrata è ammessa solo per una piccola impresa.
Qualora essa entrasse sul mercato la sua offerta aggiuntiva determinerebbe una
caduta del prezzo di mercato al disotto del prezzo minimo accettabile per le
imprese piccole. E dunque anche per l’entrante stessa, posto che la sua
capacità di calcolo sia sufficiente. Con l’imposizione del giusto prezzo limite
l’entrata non dovrebbe avvenire.
15

La figura 5 mostra che l’ingresso di una impresa piccola abbassa il


prezzo di mercato da pL a ps, al livello appena al di sotto del costo medio totale
delle imprese piccole per effetto dell’incremento dell’offerta da YL a Y (pari a
Ys).

Va precisato che nel modello tutte le imprese, eccetto l’impresa leader,


sfruttano totalmente la capacità produttiva. L’impresa leader colma la
differenza per raggiungere un livello di offerta pari a YL, associato al prezzo
pL, tale da prevenire l’entrata. Ogni livello di produzione inferiore a YL non
previene l’entrata perchè consentirebbe un prezzo di mercato maggiore di pL.
Pertanto un equilibrio di mercato, assenza di entrate e di uscite, è
compatibile con imprese di diversa dimensione, di diversa efficienza e con
saggi di remunerazione sui costi positivi ma differenziati in base all’efficienza.
In sintesi, nel modello di Sylos i fattori che determinano il livello del
prezzo limite si possono indicare in: a) la dimensione assoluta del mercato; b)
l’elasticità della domanda di mercato; c) la tecnologia del settore industriale;
d) i prezzi degli inputs produttivi che, con la tecnologia, determinano i costi
medi totali delle imprese.
16

Un aumento esogeno della dimensione del mercato non induce entrata


se le imprese esistenti sono in grado velocemente di adeguare la loro capacità
produttiva. Altrimenti, se il prezzo limite non viene fatto calare, mettendo
tuttavia a rischio la tenuta economica delle piccole imprese già sul mercato,
nuove imprese potrebbero affacciarsi. Se l’incremento di domanda è notevole
è pure possibile, abbandonando l’ipotesi restrittiva che solo piccole imprese
possano entrare, che via sia spazio per nuove imprese di media dimensione. Il
che metterebbe in crisi le piccole imprese meno efficienti le quali potrebbero
anche uscire dal mercato se il prezzo di mercato si assestasse in un piccolo
intorno superiore del costo medio totale delle imprese medie. Che è il risultato
plausibile della concorrenza delle nuove imprese medie entrate per farsi spazio
a danno delle imprese piccole. In generale un accrescimento della domanda
induce a un abbassamento del prezzo limite.
Anche una elevata elasticità della domanda, se si abbandona l’ipotesi
dell’elasticità unitaria, induce un abbassamento del prezzo limite. Un suo
repentino aumento allarga lo spazio per l’ingresso di nuove imprese, anche
medie o grandi. L’incremento dell’offerta non può non indurre una riduzione
del prezzo.
I miglioramenti nella tecnologia portano allo stesso risultato. Si
abbassano i costi medi totali a parità di domanda prezzi minori possono offrire
remunerazioni invariate. Anche il prezzo limite, che segue i costi delle imprese
minori, se anch’esse beneficiano del progresso tecnico, si ridurrà. La riduzione
nel costo degli inputs ha lo stesso effetto dei miglioramenti tecnologici. Si
abbassano i costi medi e così anche il prezzo limite.
Il modello di Sylos Labini è costruito per l’oligopolio omogeneo. Nel
caso di oligopolio differenziato le barriere all’entrata saranno di maggior
rilievo a causa dei costi di pubblicità che i potenziali entranti dovrebbero
sostenere per accedere al mercato. E questi costi, rispetto al fatturato, sono più
rilevanti per le imprese piccole rispetto a quelle grandi a causa della scala di
produzione limitata e delle indivisibilità che li caratterizzano.
17

Un po’ di contabilità marginalista con il modello di Sylos

Svolgiamo l’esercizio di interpretare il rapporto che lega grande e


piccole imprese nel modello di Sylos con una semplice contabilità
marginalistica.
Sia Yd = Dd ( p) la domanda residuale dell’impresa dominante, al netto
cioè dell’offerta delle imprese piccole, dette marginali. Pertanto
Dd ( p) = D( p) − S( p) , con S( p) offerta delle imprese marginali vincolata
superiormente. Differenziamo totalmente la domanda residuale.
dDd dD dS
= −
dp dp dp

Moltiplichiamo ambo i membri per p/Y e il primo membro per Yd Yd e


l’ultimo addendo del secondo membro per Y f Y f dove con f si indicano le

imprese marginali. Si ottiene


Yd dDd p dD p Y f dS p
= −
Y Yd dp Y dp Y dp Y f

dDd p
Definiamo = ed l’elasticità della domanda residuale per
Yd dp

dD p
l’impresa dominante; =e l’elasticità della domanda di mercato;
Y dp

dS p
= η f l’elasticità dell’offerta delle imprese marginali; Yd Y la quota di
dp Y f

mercato dell’impresa dominante e Y f Y la quota delle imprese marginali.

Pertanto
Yd Yf
ed = e − η f
Y Y
Da cui
Y Yf
ed = e − ηf
Yd Yd
L’elasticità della domanda per l’impresa dominante è tanto più alta, e il
prezzo tanto più basso, quanto più elevata è l’elasticità dell’offerta delle
imprese marginali e la quota di mercato delle imprese marginali.Se η f = 0 ,
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allora ed = e perchè l’offerta delle imprese marginali sarebbe nulla. L’impresa


dominante diverrebbe un monopolista.

I mercati contendibili

Un modello che si pone in alternativa a quello di concorrenza perfetta


come formulazione logico-analitica ma che ne condivide gli esiti è il modello
dei mercati contendibili.2
In questo modello si descrive un equilibrio che è l’esito della minaccia
costante di una possibilità di entrata da parte di potenziali entranti su un
mercato in cui è attiva una sola impresa. La particolarità del modello sta
nell’ipotesi che il(i) potenziale(i) entrante(i) non debba sostenere costi fissi
non recuperabili (sunk cost) per rendere effettiva l’entrata. Non debba cioè
accollarsi dei costi specifici per poter entrare, come pagare una tassa o dotarsi
di particolari strumenti che non possono essere usati in altro modo o in altra
produzione, costi che non sarebbero recuperabili se l’entrante decidesse di
uscire dal mercato dopo poco tempo.
L’assenza di sunk-cost rende possibile da parte dell’entrante una
strategia del tipo mordi e fuggi (hit and run). Può entrare se intravvede la
possibilità di guadagnare profitti sopra il livello normale; ed uscire senza costo
quando la situazione ritorna alla normalità. L’impresa attiva sul mercato non
gode di nessun vantaggio di costo sull’impresa entrante perchè entrambe
adottano la stessa tecnologia. Pertanto l’equilibrio su un simile mercato
implica che l’impresa che vi opera non possa godere di profitti superiori a
quelli normali (o zero profitti come in concorrenza di lungo periodo).
Assumiamo un prodotto omogeneo. Una impresa è attiva su questo
mercato e all’esterno ci sono un certo numero di potenziali entranti. Tutte le
imprese sfruttano una identica tecnologia a rendimenti di scala non decrescenti
che da luogo alla funzione di costo c(y)=F+cy, ove F è il costo fisso e cy il
costo variabile con c>0. La funzione (inversa) di domanda è p=a-y.

2 Proposto originariamente da Baumol W., Panzar J. and Willig R., Contestable Markets and
the Theory of Industry Structure, New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1982.
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Una configurazione industriale è la coppia di prezzo e quantità ( p I , y I )

del prezzo e della quantità prodotta dall’impresa attiva (incumbent). Una


configurazione industriale è detta ammissibile se al prezzo pI la domanda del
mercato è uguale all’offerta, cioè se p I = a − y I e se l’impresa attiva consegue
profitti non negativi p I y I ≥ F + cy I . Una configurazione ammissibile è detta
sostenibile se nessun potenziale entrante può conseguire un profitto positivo
entrando con un prezzo più basso dell’impresa attiva. Vale a dire se non esiste
un prezzo pe che sia p ≤ p tale che alla offerta dell’entrante ye si verifichi
e I

che y e ≤ a − p e con p y > F + cy .Una configurazione ammissibile è un


e e e

equilibrio di mercato contendibile se è sostenibile.


In termini più semplici una configurazione è sostenibile se nessuna
impresa entrante può realizzare un profitto strettamente positivo a un prezzo
minore o uguale del prezzo corrente producendo la quantità richiesta dal
mercato.
La figura 6 mostra un equilibrio di mercato contendibile in cui prezzo
pI e quantità offerta yI soddisfano la domanda di mercato e in più le loro
coordinate stanno sulla curva di costo medio totale; con ciò indicando che
l’impresa attiva non subisce perdite: la configurazione è dunque sostenibile.

p=a-y
p

pI
c

0 yI y
FIGURA 6
Di questo modello va sottolineato l’affinità dei risultati con quelli di
concorrenza perfetta. La perfetta liberta di entrata dei concorrenti potenziali
induce l’impresa attiva a praticare un prezzo che è uguale al costo medio. Con
rendimenti crescenti di scala questo costo medio non è necessariamente quello
minimo perchè al crescere della produzione esso si riduce con continuità. Ma è
il minore compatibile con le condizioni del mercato; tanto che è la curva di
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domanda del mercato a individuare la quantità da produrre. Il risultato


principale della concorrenza è che induce le imprese a produrre in modo
efficiente, cioè ai costi medi minimi. Con costi medi totali sempre decrescenti
la configurazione di equilibrio di un mercato contendibile con una sola
impresa attiva genera lo stesso risultato. Se il prezzo fosse di poco superiore al
costo medio un potenziale entrante, con la stessa curva di costo medio,
potrebbe conseguire profitti positivi con un prezzo di un infinitesimo inferiore
al prezzo corrente. Per impedire l’entrata il prezzo deve dunque essere uguale
al costo medio.
Nel modello di Bertrand si è visto che per conseguire risultati
concorrenziali bastavano due imprese. Qui è sufficiente una impresa vincolata
nel suo comportamento da una minaccia credibile e costante di entrata.
Un esempio può chiarire la portata di questo modello. A cavallo tra gli
anni 70’ gli anni 80’ negli USA si sviluppa un dibattito sulla opportunita di
deregolamentare il trasporto aereo civile. Ci si rende conto che il costo di un
aereo è un costo non recuperabile se l’aereo non può essere usato in altre linee,
cioè in altri mercati. I costi recuperabili nel trasporto aereo sono invece quelli
connessi alla fornitura dei servizi a terra. Separando i servizi a terra dal
servizio aereo in senso stretto e liberalizzando le linee, cioè consentendo a più
compagnie di offrire il servizio su linee in precedenza affidate a un solo
vettore, si è conseguito il risultato di abbassare costi medi e prezzi anche sulle
linee dove rimaneva un solo vettore attivo.

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