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Fino dall’età arcaica della monarchia a Roma il ricorso alla violenza era
scongiurato per mezzo di un organo giusdicente che controlla l’attività dei
litiganti;
Dal 367 a.C. la giurisdizione – sempre civile, fino a tutto il II periodo – viene
affidata come compito prioritario al ‘terzo’ pretore, detto minore rispetto ai due
pretori-consoli già esistenti.
Per le fonti giuridiche – anzitutto per Gaio,le legis actiones sono dette così perché
fissate o introdotte dalla legge delle Dodici Tavole e perché, quanto alla più
recente delle procedure (per condictionem “per intimazione”), ricalcata sulle
parole della legge rogata
istitutiva.
Tav. I.1-4:
1. SE CHIAMA IN TRIBUNALE [VADA]; SE NON VA, CHIAMI TESTIMONI; QUINDI
LO AFFERRI.
Se la chiamata non sortisce effetto, il pater familias attore, dopo aver invocato dei
testimoni, può bloccare l’avversario che si trovi fuori di casa.
II) La seconda fase del processo è detta apud iùdicem “presso il giudice” e, si
svolge in un luogo scelto di comune accordo fra le parti.
Se l’accordo manca, questa fase deve svolgersi nel Comizio o nel Foro, che erano
le sedi
privilegiate per le attività giuridiche pubbliche e private. lo si esprime nelle
Dodici Tavole(Tav. I.6-7)
Tale principio è stato tradotto nella massima: ne bis in idem “non due volte sulla
stessa questione”.
L’importo era determinato in rapporto al valore della lite e deve essere versato
dalla parte soccombente all’erario per scopi religiosi.
-in personam per i diritti relativi;È l’azione con cui agiamo contro qualcuno che
ci è obbligato per
contratto o per delitto, cioè quando pretendiamo «si debba dare, fare, assicurare
(dare, fàcere, praestare oportère)».
- in rem per i diritti assoluti; è l’azione quando pretendiamo che una cosa
corporale sia nostra, o che ci
competa un diritto (reale su cosa altrui), come di uso o usufrutto, di passare a
piedi, a cavallo, con animali, o di condurre acqua [= servitù prediali di passaggio
o di acquedotto].
Più conosciuta è la forma in rem, nella quale il segno della lotta violenta è
rappresentata dall’incrocio delle mani dei litiganti sul bene conteso, come si
deduce da:
Tav. VI
Se in origine tale lotta simbolica avviene sul posto (nel caso di beni immobili,
come, ad esempio, un fondo), in un secondo momento si svolge poi in tribunale: il
bene deve
essere presente o comunque rappresentato in tribunale (nel caso del fondo,
veniva portata una zolla del medesimo).
I due litiganti, a turno, afferrano la cosa e, toccandola con una bacchetta (festuca)
che è simbolo di potere, pronunciano le parole per rivendicarla:
“Affermo che questa cosa è mia in base al diritto dei Quiriti in base a un
giusto titolo”.
Se a compiere la rivendicazione è una sola delle parti, il magistrato ne conferma
semplicemente l’affermazione. Questa, tecnicamente, è la in iure cessio
“rinuncia in
tribunale”, che già menzionata dalle Dodici Tavole (Tav. VI.6)
l’in iure cessio, su accordo fra le parti, può essere impiegata per scopi negoziali,
come per trasferire la proprietà di un bene, o per costituire una servitù
prediale o un usufrutto, oppure per manomettere uno schiavo, o ancora per
adottare un figlio:
Da quando quest’ultimo diviene una scommessa, le parti devono dare dei garanti
(praedes) per il suo pagamento. Chi si sottrae al sacramentum perde la lite.
Se entrambe lo prestano, il magistrato assegna il possesso provvisorio della cosa
a una delle parti, che deve dare garanti (praedes) per la sua restituzione. La litis
contestatio chiude la prima fase.
Nella seconda fase, il giudice privato, dopo la valutazione delle prove, dichiara
quale sacramentum sia iustum,conforme al ius, decidendo la controversia.
L’azione nella forma in personam è poco nota,una cosa certa è che l’azione può
esperirsi contro il debitore inadempiente da sponsio e contro il ladro non
flagrante.
L’attore reclama il suo credito nei confronti del convenuto con parole rituali.
Agli inizi del II periodo, questa azione in personam può essere utilizzata anche
per risolvere controversie sull'appartenenza di una cosa.
Per arrivare a ciò , occorre che l’attore induca l’avversario a compiere con lui una
sponsio,
sottoposta a condizione, rivolgendogli la domanda: “Prometti che mi sia dato un
asse [= una somma simbolica], se risulterà che la cosa in questione è mia in base
al diritto dei Quiriti?”, e ottenendo la risposta adesiva: “Prometto”.
Ciò è il segno di una società economicamente più evoluta, in cui nascono nuove
forme di rapporti e scambi, e nuove figure di obbligazione, spec. perché.
Passando alle due procedure esecutive, l’azione più antica e rilevante è quella
“per imposizione della mano” (Tav. III).
ad esempio, in base a mores fissati nelle XII Tavole (VIII.14), il derubato può
imporla contro il ladro
flagrante; in forza di una legge successiva, il garante di una obbligazione
(sponsor), può imporla contro il debitore principale che non lo abbia rimborsato
entro sei mesi.
Poi dagli inizi del II periodo, per alcune ipotesi particolari si ammette – dapprima
sul piano poi attraverso leggi – che l’esecutato possa fungere da vindex di sé
medesimo, purché garantisca in modi appropriati la sua futura solvibilità (manus
iniectio pura).
α) forniture militari
β) tributi
La presa di pegno, sebbene possa compiersi pure nei giorni nefasti e anche in
assenza del
magistrato o del debitore, è inclusa dai giuristi fra le legis actiones perché l’attore
pronuncia parole rituali, a noi ignote.
Le azioni che gli antichi usavano si chiamavano azioni di legge (legis actiones), o
perché introdotte da leggi (dato che a quel tempo gli editti del pretore, attraverso
i quali sono state introdotte molte azioni, ancora non erano in uso), o perché
adeguate alle parole delle leggi stesse e perciò custodite immutabili al pari di
leggi.
Onde a colui che, avendo agito per taglio di viti (de vitibus succisis) in modo da
nominare le viti nell’azione, fu risposto che aveva perso la causa, in quanto
avrebbe dovuto far menzione di alberi (arbores), in quanto la legge delle XII
Tavole, in base alla quale l’azione per taglio di viti competeva, parlava
genericamente di alberi tagliati.
Per questo:
Gaio, 4.30: … a poco a poco, tutte le legis actiones divennero detestabili. Infatti,
per l’eccessivo formalismo degli antichi (giuristi) che un tempo crearono il
diritto, la realtà processuale era giunta al punto che chi avesse commesso un
errore anche minimo perdeva la lite.
PERCIO’ le legis actiones sono state abolite con leggi ..., e si fece in modo che le
controversie avvenissero tramite parole messe assieme (per concepta verba),
cioè tramite formule.
PROCESSOFORMULARE(PERFOR
MULAS)
-E, come provvedervi quando le parti assumono impegni sulla base di figure
nuove fondate sul mero consenso, senza vincoli di forma, facendo affidamento
sulla reciproca correttezza nel mantenere la parola data?
Il ruolo del pretore è più attivo rispetto al processo per legis actiones, in cui
egli si limitava a controllare la regolarità delle procedure fisse, alle quali si
giustappongono ora schemi processuali composti di parole modellate sulle
singole controversie:come Gaio ben sintetizza, ora si litiga per concepta verba
“mediante parole messe assieme” per iscritto, e non più soltanto oralmente con
certa verba “parole predeterminate” (e gesti).
Nella predisposizione dei nuovi schemi scritti, detti formulae, è decisiva l’opera
dei giuristi, che, come consulenti, li suggeriscono al pretore o alle parti in lite.
Proprio per questo motivo Gaio qualificherà i nuovi processi come imperio
continentia “basati sull’imperium” del magistrato giusdicente, anzitutto del
pretore: in quanto tali, essi per molto tempo producono effetti solo sul piano del
diritto onorario (di cui quello pretorio è la parte più consistente), e non – come
le vecchie procedure, accessibili ai soli cittadini romani – effetti di ius civile.
Possono i cittadini romani, nelle liti fra loro, servirsi delle nuove formule
processuali?
La risposta è diversa a seconda del momento storico-giuridico considerato
Inizialmente, delle nuove formule essi possono valersi solo per quelle situazioni
che non trovino già tutela nelle legis actiones, anche se i vantaggi assicurati dalla
nuova procedura formulare li spingono non solo a chiedere per loro stessi
un’applicazione generalizzata della nuova procedura, ma anche, e soprattutto, a
farle riconoscere i medesimi effetti di ius civile, che erano propri del vecchio
processo.
Dopo un primo intervento legislativo in questo senso attorno al 120 a.C., di cui
però si hanno scarse notizie dalle fonti, una legge rogata da Augusto nel 17 a.C., e
dunque una legge Giulia (dal nome della gens acquisito per adozione da parte di
Giulio Cesare), fa del processo formulare il sistema ordinario (ordo) per
comporre le controversie fra i cittadini.
Nel periodo intercorrente fra queste due leggi, si verifica la transizione nelle
nuove formule delle vecchie procedure per legis actiones, che sono abolite dalla
legge Giulia, tranne che per due situazioni particolari: per alcuni tipi di cause
ereditarie e per danno temuto (damnum infectum), anche se, per quest’ultimo,
la prassi preferirà ricorrere a un’apposita stipulatio da richiedere al pretore.
I) esso va celebrato in città o entro il primo miglio dal pomerio (confine sacro
della città );
I concreti processi formulari che rispondano a questi requisiti sono dai giuristi
denominati iudicia legitima, cioè giudizi conformi alla legge Giulia e, per questa
via, alla legge delle Dodici Tavole: in essi la sentenza va emessa dal giudice entro
18 mesi dalla conclusione della prima fase del processo (quella in iure).
Invece, i processi formulari che manchino anche di uno solo dei requisiti
continuano ad avere effetti solo sul piano del diritto onorario, in quanto
rimangono fondati sull’imperium dei magistrati giusdicenti: in essi la sentenza
va emessa dal giudice entro l’anno di carica del magistrato giusdicente che lo ha
investito del potere di giudicare.
Svolgimento del processo
Al momento della promessa erano presenti alcune persone, che hanno visto ed
udito quel che è accaduto. In seguito AA si presenta al domicilio di NN e gli intima
di pagare, ma NN non paga
.
Allora AA decide di agire in giudizio contro di lui.
a) Fase in iure
Lo svolgimento del processo continua a essere distinto in due fasi, dette, come
nel passato, in iure “nel tribunale (del magistrato)” e apud iudicem “presso il
giudice (privato)”.
Davanti al pretore, AA si trova nel ruolo di attore (actor), ossia è il soggetto che
esercita l’azione (is qui agit); NN è, invece, il convenuto (reus), cioè la persona
contro la quale l’azione viene esercitata (is cum quo agitur).
È evidente che l’attore, e solo lui, ha interesse al processo; da questo il convenuto
non ha da attendersi nulla di favorevole, può solo conseguirne lo svantaggio di
uscire condannato.
Ed essa si inizia con una richiesta (postulatio) dell’attore – del suo avvocato,
come si è detto – al magistrato: nel nostro caso AA chiederà al pretore di
accordargli, contro il convenuto NN con lui presente, l’azione denominata
condictio (intimazione) per una somma di 100 sesterzi che questi gli deve.
Il pretore prende atto di tutto ciò e procede alla scelta del giudice. Questa scelta
si farà , in linea di principio, sull’accordo delle parti; poniamo che nel nostro caso
AA e NN non abbiano alcuna persona da proporre per svolgere quel ruolo, ma
che esse si trovino subito d’accordo sul primo nome (nel nostro caso poniamo si
tratti di un cittadino romano di nome Caio Tizio) che il pretore proponga loro,
traendolo da liste nelle quali sono elencate un certo numero di persone munite
delle qualità necessarie per esercitare quell’ufficio.
Tutto ciò egli farà redigendo la formula, atto scritto che rappresenta il testo del
decreto di cui stiamo parlando.
Come si comprende, le istruzioni del pretore al giudice sono molto precise: esse
non rappresentano solo l’indicazione di quel che il giudice deve fare, ma anche
l’attribuzione a lui del potere di far quelle certe cose.
Ma la fase in iure non è ancora finita. L’attore ha bensì ottenuto il processo che
aveva chiesto, ma il processo non è ancora instaurato. Un processo formulare
non può farsi senza l’accordo delle parti sul processo stesso e quindi, l’attore,
ottenuta la formula, per poter compiere gli ulteriori atti processuali che spettano
alla sua iniziativa in ordine alla prosecuzione del giudizio, deve ottenere l’atto
fondamentale di collaborazione del convenuto al processo, e cioè che il
convenuto accetti il processo stesso così come esso è definito nella formula.
L’atto che realizza tale consenso delle parti è chiamato litis contestatio, e si
svolge nel modo seguente: l’attore AA legge la formula al convenuto con lentezza
e la chiarezza necessarie a che NN possa trascriverne il testo per sua precisa
conoscenza e memoria; quindi il convenuto esprime oralmente la propria
accettazione.
Tutto ciò ha avuto luogo davanti al pretore e sotto il suo controllo: ma la litis
contestatio è l’ultimo atto della fase in iure. Essa è dunque anche l’atto che la
conclude.
Con la litis contestatio, la materia del contendere viene fissata in modo non più
modificabile, perché “la controversia è trasfusa nella formula concreta” (res in
iudicium deducta), con effetti di vario tipo.
AA e NN lasciano quindi il tribunale e se ne vanno ciascuno per conto proprio. AA
reca con sé l’originale della formula e ciò lo grava di un ulteriore onere
processuale.
È suo compito, infatti, quello di far pervenire la formula stessa alla persona che vi
è nominata giudice, cioè, nel nostro caso, a Caio Tizio.
Il giudice apre l’udienza. La prima cosa che di solito vi si fa è una messa a punto
dei dati della causa e ciò è un compito che spetta in particolare all’attore.
La sola prova addotta è quella per testimoni, sicché il giudice invita l’avvocato
dell’attore a chiamare uno ad uno i propri testi e ad interrogarli. L’interrogatorio
è fatto dall’avvocato dell’attore; l’avvocato del convenuto interviene pure, per
esempio chiedendo ai testi delle precisazioni sui fatti e delle notizie sui loro
rapporti personali con l’attore e magari anche col convenuto.
Al giudice non resta che decidere. Egli potrebbe rinviare le parti a nuova udienza
per elaborare la propria decisione. Ma nel nostro caso, siccome tutto gli sembra
chiaro, egli decide seduta stante e condanna NN a pagare 100 sesterzi ad AA. Non
risulta che per la sentenza del giudice formulare fosse prevista la forma scritta.
Tutto lascia presumere che essa fosse pronunziata oralmente, in presenza delle
parti: essa era però , di fatto, registrata nella verbalizzazione, che certo aveva
luogo, delle udienze.
Una questione delicata molto dibattuta fra i giuristi delle due scuole, sabiniana e
proculiana e nota da Gaio, riguarda il punto se vada assolto o condannato il
convenuto che abbia soddisfatto la pretesa dell’attore dopo il compimento della
litis contestatio, ma prima della sentenza.
Al contrario, i proculiani appaiono qui più legati alla concezione tradizionale del
processo,
secondo la quale la litis contestatio fissa in termini immodificabili la materia del
contendere,
e quindi ritengono che il soddisfacimento tardivo consenta di assolvere il
convenuto solo
nelle azioni la cui formula lo permette, ossia nelle azioni in rem e, tra le azioni in
personam, solo in quelle di buona fede.