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IL PROCESSO NEL DIRITTO ROMANO.

Processo privato (o civile),s’intendono organi e procedure, che compongono in


modo vincolante le controversie tra privati, nel diritto romano segnatamente tra
due pater familias.

Le attività processuali possono puntare a due scopi:

1) a ottenere una pronuncia di accertamento su un rapporto controverso,


processo di cognizione (o dichiarativo);

2) a far ottenere a un soggetto (a un pater familias in diritto romano) la


soddisfazione di una sua pretesa accertata o data per accertata, che però non
è stata soddisfatta spontaneamente dalla controparte:( processo di esecuzione).

Fino dall’età arcaica della monarchia a Roma il ricorso alla violenza era
scongiurato per mezzo di un organo giusdicente che controlla l’attività dei
litiganti;

Dal 367 a.C. la giurisdizione – sempre civile, fino a tutto il II periodo – viene
affidata come compito prioritario al ‘terzo’ pretore, detto minore rispetto ai due
pretori-consoli già esistenti.

Per dare vita ad un processo privato, è sempre necessaria l’iniziativa di un pater


familias che ne chiama un altro in tribunale (in ius), chiedendo di
esperire/esercitare un’azione processuale.

Processo = al complesso delle attività necessarie


per giungere ad una sentenza ( comprende le attività che le parti svolgono
davanti al giudice e quelle della corte stessa).

Azione = processo come prerogativa (potere/diritto) della parte interessata a


promuoverlo, ossia dell’attore, nei confronti di un altro, detto convenuto.

I giuristi romani dell’epoca classica definivano l’azione: “null’altro è l’azione, se


non il diritto (soggettivo) che uno ha di perseguire mediante un processo
(iudicio) quel che gli è dovuto”.

Tre sono i sistemi processuali che, nel tempo, si susseguono, in parte


sovrapponendosi al
sistema precedente.
Il processo privato più antico è quello per legis actiones esso è caratterizzato dal
formalismo, orale e gestuale.

Per le fonti giuridiche – anzitutto per Gaio,le legis actiones sono dette così perché
fissate o introdotte dalla legge delle Dodici Tavole e perché, quanto alla più
recente delle procedure (per condictionem “per intimazione”), ricalcata sulle
parole della legge rogata
istitutiva.

A sviluppo compiuto, le procedure (i modi agendi “modi di agire”) sono cinque,


rigide, di cui quattro anteriori o coeve alle Dodici Tavole;
la quinta assai posteriore (fra 250 e 200 a.C.).

Tre sono di cognizione, ossia di accertamento; due di esecuzione.

TRE sono gli aspetti comuni alle procedure di cognizione (accertamento).

La lite è sempre promossa dall’iniziativa di un pater familias direttamente nei


confronti un altro pater familias, secondo chiare regole risalenti alle Dodici
Tavole.

Tav. I.1-4:
1. SE CHIAMA IN TRIBUNALE [VADA]; SE NON VA, CHIAMI TESTIMONI; QUINDI
LO AFFERRI.

2. SE TERGIVERSA O PUNTA IL PIEDE, IMPONGA LA MANO.


3. SE MALATTIA O ETÀ AVANZATA SIANO DI OSTACOLO, DIA UN GIUMENTO. SE
NON VORRÀ , NON ALLESTISCA UN CARRO COPERTO.

4. A UN ABBIENTE SIA GARANTE UN ABBIENTE; A UN NULLATENENTE SIA


GARANTE CHI VORRÀ .

Un pater familias ne chiama formalmente un altro in tribunale tramite l’in ius


vocatio “chiamata in tribunale”.

Se la chiamata non sortisce effetto, il pater familias attore, dopo aver invocato dei
testimoni, può bloccare l’avversario che si trovi fuori di casa.

In caso di ulteriore resistenza, può legittimamente afferrarlo con la mano per


portarlo in tribunale e
lì costringerlo ad accettare la lite.
Tutto ciò però era mitigato dalla possibilità di presentare dei garanti per la
comparizione e anche per la ricomparizione in giudizio.

Sui garanti (vades) grava un vincolo immediato (‘ostaggi’) [cfr. nexum]

Se il convenuto è malato o impedito nei movimenti dall’età avanzata, l’attore è


tenuto a
fornire un animale idoneo al trasporto, ma non di più .

 Il processo, basato sull’oralità , è diviso in due fasi, già da età primitiva.

I) Nella prima fase, detta in iure “in tribunale”, prevale il formalismo.


Infatti, il titolare della giurisdizione (il re e poi, nella Repubblica, i magistrati
giusdicenti) imposta i termini della controversia, incanalando la lite nel corretto
alveo procedurale, e assiste alla litis contestatio=l’atto conclusivo di questa fase
e che consiste nella formale invocazione ai presenti di ricordare quanto è
accaduto per riferirlo fedelmente al
giudice privato scelto dalle parti

Per molti secoli, la giurisdizione riguarda solamente questa prima fase.

II) La seconda fase del processo è detta apud iùdicem “presso il giudice” e, si
svolge in un luogo scelto di comune accordo fra le parti.
Se l’accordo manca, questa fase deve svolgersi nel Comizio o nel Foro, che erano
le sedi
privilegiate per le attività giuridiche pubbliche e private. lo si esprime nelle
Dodici Tavole(Tav. I.6-7)

Quanto ai tempi,(Tav.I.7-9) le parti – se sono entrambe presenti – devono fornire


al giudice, entro il mezzogiorno, un quadro sintetico delle rispettive posizioni.

Se – passato il mezzogiorno – risulta presente una sola delle parti, il giudice ne


conferma le ragioni.

Se le parti sono presenti, il giudice, dopo aver valutato le prove testimoniali,


prodotte dinanzi a lui, decide nel merito, emettendo, entro il calare del sole, una
sentenza (iudicatum), che è orale, senza motivazione, inappellabile.

Questi caratteri della sentenza sono destinati a


permanere nel successivo processo formulare.

Se giunto alla regolare conclusione della prima fase o a sentenza, il processo è


irripetibile.
È infatti fatto divieto di riproporre l’azione fra gli stessi pater familias e per la
stessa controversia, quale che ne sia l’esito.

Tale principio è stato tradotto nella massima: ne bis in idem “non due volte sulla
stessa questione”.

Il carattere di irripetibilità è forse da trovarsi nel formalismo arcaico, per il quale


l’azione, dato il suo carattere solenne, è un rituale che mirava a risolvere
definitivamente il conflitto fra le parti.

La procedura di cognizione più antica è quella che si costruisce attorno al


sacramentum.

Alle origini consisteva in un giuramento, che le parti prestano agli dei a


comprova delle rispettive affermazioni: ciascuna parte invoca su di sé l’ira divina
per le eventuali dichiarazioni false.
Poi anche il processo si ‘laicizza’, e allora sacramentum equivale a scommessa: e
in questi termini ne parla Gaio.

L’oggetto della scommessa consiste, dapprima, in animali


(pecore o buoi), poi, nell’equivalente in metallo o denaro.

L’importo era determinato in rapporto al valore della lite e deve essere versato
dalla parte soccombente all’erario per scopi religiosi.

Di questa azione conosciamo due forme:

-in personam per i diritti relativi;È l’azione con cui agiamo contro qualcuno che
ci è obbligato per
contratto o per delitto, cioè quando pretendiamo «si debba dare, fare, assicurare
(dare, fàcere, praestare oportère)».

- in rem per i diritti assoluti; è l’azione quando pretendiamo che una cosa
corporale sia nostra, o che ci
competa un diritto (reale su cosa altrui), come di uso o usufrutto, di passare a
piedi, a cavallo, con animali, o di condurre acqua [= servitù prediali di passaggio
o di acquedotto].
 Più conosciuta è la forma in rem, nella quale il segno della lotta violenta è
rappresentata dall’incrocio delle mani dei litiganti sul bene conteso, come si
deduce da:
Tav. VI
Se in origine tale lotta simbolica avviene sul posto (nel caso di beni immobili,
come, ad esempio, un fondo), in un secondo momento si svolge poi in tribunale: il
bene deve
essere presente o comunque rappresentato in tribunale (nel caso del fondo,
veniva portata una zolla del medesimo).

La controversia poteva riguardare l’appartenenza di un singolo bene (fondo,


schiavo, ecc.), o di un complesso di beni (es.: eredità ), o sull’esistenza di un
diritto reale limitato (es.: servitù di passaggio, usufrutto).

I due litiganti, a turno, afferrano la cosa e, toccandola con una bacchetta (festuca)
che è simbolo di potere, pronunciano le parole per rivendicarla:

“Affermo che questa cosa è mia in base al diritto dei Quiriti in base a un
giusto titolo”.
Se a compiere la rivendicazione è una sola delle parti, il magistrato ne conferma
semplicemente l’affermazione. Questa, tecnicamente, è la in iure cessio
“rinuncia in
tribunale”, che già menzionata dalle Dodici Tavole (Tav. VI.6)

l’in iure cessio, su accordo fra le parti, può essere impiegata per scopi negoziali,
come per trasferire la proprietà di un bene, o per costituire una servitù
prediale o un usufrutto, oppure per manomettere uno schiavo, o ancora per
adottare un figlio:

si tratta, in pratica, di tutti quegli atti detti oggi di giurisdizione volontaria.


Se, invece, entrambe le parti compiono la rivendicazione, il magistrato ordina
loro di lasciare la cosa; poi esse si sfidano al sacramentum.

Da quando quest’ultimo diviene una scommessa, le parti devono dare dei garanti
(praedes) per il suo pagamento. Chi si sottrae al sacramentum perde la lite.
Se entrambe lo prestano, il magistrato assegna il possesso provvisorio della cosa
a una delle parti, che deve dare garanti (praedes) per la sua restituzione. La litis
contestatio chiude la prima fase.

Nella seconda fase, il giudice privato, dopo la valutazione delle prove, dichiara
quale sacramentum sia iustum,conforme al ius, decidendo la controversia.

L’azione nella forma in personam è poco nota,una cosa certa è che l’azione può
esperirsi contro il debitore inadempiente da sponsio e contro il ladro non
flagrante.

L’attore afferma in iure l’esistenza di un credito nato da sponsio e non soddisfatto


dal convenuto, oppure sorto dal furto non flagrante.

Se il convenuto nega, si procede secondo un rito simile a quello appena descritto.


Se invece ammette, confessando il suo debito, la procedura di cognizione si
arresta e si apre
quella esecutiva.

L’azione “per richiesta di un giudice o di un arbitro” (per iùdicis arbitrive


postulationem)
E’ una procedura, in personam, meno onerosa e non prevede il pagamento di
alcuna somma per la parte soccombente.
E’ forse introdotta dalle Dodici Tavole e serve a far valere i crediti nati da
sponsio e, poi, anche da stipulatio.

L’attore reclama il suo credito nei confronti del convenuto con parole rituali.

Se questi nega, l’attore fa richiesta formale al magistrato di assegnare un giudice


che decida la lite.

È richiesto un arbitro,quando l’azione è impiegata per dividere un’eredità fra i


coeredi (Tav. V.10), o cose comuni fra i comproprietari o per regolare le
controversie di confine fra privati (Tav. VII.2), perché nei giudizi divisori si
discute sull’entità di un
diritto, e non sulla sua esistenza.

Agli inizi del II periodo, questa azione in personam può essere utilizzata anche
per risolvere controversie sull'appartenenza di una cosa.

I giuristi, riescono a evitare le complessità e gli oneri dell’azione in rem


imperniata sul sacramentum .

Per arrivare a ciò , occorre che l’attore induca l’avversario a compiere con lui una
sponsio,
sottoposta a condizione, rivolgendogli la domanda: “Prometti che mi sia dato un
asse [= una somma simbolica], se risulterà che la cosa in questione è mia in base
al diritto dei Quiriti?”, e ottenendo la risposta adesiva: “Prometto”.

Nella forma, la lite è impostata per un rapporto obbligatorio: se l'importo


simbolico sia dovuto o meno.

Per poter decidere in merito, il giudice deve previamente accertare se l’attore


(ossia l'interrogante) sia proprietario dello schiavo.

In questa applicazione, la procedura è detta àgere per sponsionem “agire


mediante sponsio”.

L’azione “per intimazione” (per condictionem)

-E’ un azione in personam,

-la meno formale e la più recente, essendo introdotta


da due leggi rogate fra 250 e 200 a.C.: si noti che la prima è di circa cinquant’anni
successiva all’introduzione della moneta romana e consente di agire per crediti
di somma determinata di denaro, certa pecunia; con la seconda si può agire per
crediti di cosa
determinata, certa res.

Usando le stesse parole dell’azione precedente, l’attore afferma l’esistenza di un


credito non soddisfatto, ma senza indicarne la causa (se da sponsio o da
mutuo).
Al convenuto che nega egli intima di ripresentarsi dopo trenta giorni davanti al
magistrato per l’assegnazione di un giudice e per compiere la litis contestatio.
Con questa azione si dà tutela processuale anche a obbligazioni sorte da scambi
non formali, come il prestito di consumo, ora detto mutuo.

l’espansione facilita l’infittirsi i


nuovi rapporti e scambi commerciali fra cittadini romani e stranieri determinati
dall’espansione di Roma

Ciò è il segno di una società economicamente più evoluta, in cui nascono nuove
forme di rapporti e scambi, e nuove figure di obbligazione, spec. perché.

L’azione esecutiva “per imposizione della mano” (per manus iniectionem).

Passando alle due procedure esecutive, l’azione più antica e rilevante è quella
“per imposizione della mano” (Tav. III).

Chi, in un processo di cognizione (accertamento), ha confessato il debito


(confessus) o subìto la condanna (iudicatus) deve provvedere a soddisfare
l’attore entro 30 giorni, detti iusti “conformi al ius”.

Altrimenti, il vincitore procede esecutivamente. In alcuni casi si può imporre la


mano come se fosse intervenuta una sentenza di condanna, pro iudicato:

ad esempio, in base a mores fissati nelle XII Tavole (VIII.14), il derubato può
imporla contro il ladro
flagrante; in forza di una legge successiva, il garante di una obbligazione
(sponsor), può imporla contro il debitore principale che non lo abbia rimborsato
entro sei mesi.

Il creditore-attore afferra il debitore e lo trascina in tribunale, pronunciando


parole rituali,
come riferisce Gaio
La procedura esecutiva poteva essere interrotta dall’intervento di un garante
processuale,
vindex, che assume su di sé, per lo stesso rapporto litigioso, un nuovo processo
di cognizione (accertamento), in cui si assiste all’inversione dell’onere della
prova.

Se il vindex non riesce a provare la illegittimità della procedura esecutiva,


dimostrando l’infondatezza della pretesa vantata verso la persona da lui
garantita, subisce una condanna nel doppio.

Poi dagli inizi del II periodo, per alcune ipotesi particolari si ammette – dapprima
sul piano poi attraverso leggi – che l’esecutato possa fungere da vindex di sé
medesimo, purché garantisca in modi appropriati la sua futura solvibilità (manus
iniectio pura).

Se non interviene un garante processuale, il creditore-attore è autorizzato dal


magistrato a condurre il debitore a casa, dove può tenerlo per 60 giorni in una
condizione di soggezione, come addictus “assegnato” a lui dal magistrato.

Ha però l’obbligo di condurlo a tre mercati


consecutivi (nùndinae “mercato”) per verificare se qualcuno, pagandone il
debito, lo riscatta
dalla soggezione (un analogo schema di prigionia redimibile s’incontrerà nella
‘preistoria’
della obbligazione con la figura del nexum).

Se nessuno lo riscatta, il creditore può venderlo


come schiavo di là dal Tevere, che segnava l’antico confine con gli etruschi,
oppure ucciderlo.
Secondo l’interpretazione corrente in dottrina di una norma delle Dodici Tavole ,
qualora più siano i creditori, essi possono spartirsi i brani del cadavere, anche in
misura non proporzionata al rispettivo credito:

Qualora tra offeso e offensore non si raggiunga una composizione volontaria e


quindi si debba procedere al taglione, non è richiesta precisione chirurgica,
anche se l’offeso (o i suoi agnati, se egli non è in grado di attuare il taglione)
asporta, ovviamente in modo non
volontario, una parte minore o maggiore del corpo dell’offensore; altrimenti, se
minore, si renderebbe necessario un ulteriore taglione e, se maggiore, un
taglione in senso inverso.

Tale norma vuole impedire il potenziale susseguirsi di taglioni, con pregiudizio


della pace sociale.

Il termine “parti” sarebbe un ammodernamento introdotto dai giuristi


tardorepubblicani o classici, attivi quando sia l’esecuzione, sia il risarcimento
sono divenuti patrimoniali, dato che il taglione era ormai caduto in desuetudine e
l’esecuzione personale si era da tempo attenuata.

Infatti, da tempo era consentito al debitore insolvente di riscattare il debito


lavorando per il creditore.

1.7. L’azione esecutiva “per presa di pegno” (per pìgnoris capionem)


Questa azione esecutiva è meno nota, specialmente nella sua conformazione
originaria (Tav. XII.1: Per pìgnoris capionem “per presa di pegno” si agiva in certi
casi in forza di consuetudini, in altri in forza di legge).

Essa si applicava contro il debitore insolvente di:

α) forniture militari

β) tributi

γ) animali destinati al sacrificio.

La presa di pegno, sebbene possa compiersi pure nei giorni nefasti e anche in
assenza del
magistrato o del debitore, è inclusa dai giuristi fra le legis actiones perché l’attore
pronuncia parole rituali, a noi ignote.

A seguito della espansione territoriale nell’Italia peninsulare e poi nel


Mediterraneo, e malgrado gli sforzi di adattamento alla nuova realtà economica e
sociale,
le cinque procedure (modi agendi) finora descritte sono avvertite come troppo
rigide e inadeguate.

Gaio riporta un caso emblematico nelle sue Istituzioni:


Gaio, 4.11:

Le azioni che gli antichi usavano si chiamavano azioni di legge (legis actiones), o
perché introdotte da leggi (dato che a quel tempo gli editti del pretore, attraverso
i quali sono state introdotte molte azioni, ancora non erano in uso), o perché
adeguate alle parole delle leggi stesse e perciò custodite immutabili al pari di
leggi.

Onde a colui che, avendo agito per taglio di viti (de vitibus succisis) in modo da
nominare le viti nell’azione, fu risposto che aveva perso la causa, in quanto
avrebbe dovuto far menzione di alberi (arbores), in quanto la legge delle XII
Tavole, in base alla quale l’azione per taglio di viti competeva, parlava
genericamente di alberi tagliati.

Per questo:
Gaio, 4.30: … a poco a poco, tutte le legis actiones divennero detestabili. Infatti,
per l’eccessivo formalismo degli antichi (giuristi) che un tempo crearono il
diritto, la realtà processuale era giunta al punto che chi avesse commesso un
errore anche minimo perdeva la lite.

PERCIO’ le legis actiones sono state abolite con leggi ..., e si fece in modo che le
controversie avvenissero tramite parole messe assieme (per concepta verba),
cioè tramite formule.

PROCESSOFORMULARE(PERFOR
MULAS)

Formazione e affermazione delle formule


Già negli ultimi decenni del I periodo, le legis actiones – benché semplificate – si
rivelano inadeguate a fare fronte alle nuove situazioni sfocianti dalla crescita dei
traffici commerciali, che determinano contatti sempre più frequenti con soggetti
stranieri.
Infatti, di là dall’eccesso di formalismo denunciato da Gaio, tali procedure sono e
rimangono accessibili ai soli cittadini romani, e quindi non sono idonee a dare
tutela processuale alle controversie nascenti, a Roma, tra romani e stranieri
oppure fra stranieri.

Si pongono così almeno due interrogativi.



-Come provvedere alla tutela di quelle situazioni in cui una o entrambe le parti
negoziali non siano romane?

-E, come provvedervi quando le parti assumono impegni sulla base di figure
nuove fondate sul mero consenso, senza vincoli di forma, facendo affidamento
sulla reciproca correttezza nel mantenere la parola data?

In tali nuovi schemi va riconosciuta l’origine storica dei futuri contratti


consensuali (compravendita, locazione-conduzione, società , mandato), fondati
sulla nozione, anch’essa emergente, di bona fides “buona fede” (commerciale).

Alla protezione iniziale delle nuove situazioni provvede il pretore, in particolare


il pretore peregrino (istituito nel 242 a.C.), il quale, sulla base del suo imperium,
riassume per iscritto, in brevi schemi di giudizio, la materia del contendere
come gli è liberamente esposta dalle parti in lite.

Il ruolo del pretore è più attivo rispetto al processo per legis actiones, in cui
egli si limitava a controllare la regolarità delle procedure fisse, alle quali si
giustappongono ora schemi processuali composti di parole modellate sulle
singole controversie:come Gaio ben sintetizza, ora si litiga per concepta verba
“mediante parole messe assieme” per iscritto, e non più soltanto oralmente con
certa verba “parole predeterminate” (e gesti).

Nella predisposizione dei nuovi schemi scritti, detti formulae, è decisiva l’opera
dei giuristi, che, come consulenti, li suggeriscono al pretore o alle parti in lite.

Si viene così a costruire una nuova procedura, che tendenzialmente è unitaria,


ma è anche capace di adattarsi, con notevole duttilità , alla varietà dei rapporti
controversi.

Man mano, le formule che danno prova di buon funzionamento si stabilizzano e


sono accolte dal pretore nell’editto –un programma annuale per la giurisdizione
civile, fondato sul suo imperium – emanato annualmente al momento dell’entrata
in carica.

Proprio per questo motivo Gaio qualificherà i nuovi processi come imperio
continentia “basati sull’imperium” del magistrato giusdicente, anzitutto del
pretore: in quanto tali, essi per molto tempo producono effetti solo sul piano del
diritto onorario (di cui quello pretorio è la parte più consistente), e non – come
le vecchie procedure, accessibili ai soli cittadini romani – effetti di ius civile.

Possono i cittadini romani, nelle liti fra loro, servirsi delle nuove formule
processuali?
La risposta è diversa a seconda del momento storico-giuridico considerato

(secoli II-I a.C.).

Inizialmente, delle nuove formule essi possono valersi solo per quelle situazioni
che non trovino già tutela nelle legis actiones, anche se i vantaggi assicurati dalla
nuova procedura formulare li spingono non solo a chiedere per loro stessi
un’applicazione generalizzata della nuova procedura, ma anche, e soprattutto, a
farle riconoscere i medesimi effetti di ius civile, che erano propri del vecchio
processo.

Dopo un primo intervento legislativo in questo senso attorno al 120 a.C., di cui
però si hanno scarse notizie dalle fonti, una legge rogata da Augusto nel 17 a.C., e
dunque una legge Giulia (dal nome della gens acquisito per adozione da parte di
Giulio Cesare), fa del processo formulare il sistema ordinario (ordo) per
comporre le controversie fra i cittadini.

Nel periodo intercorrente fra queste due leggi, si verifica la transizione nelle
nuove formule delle vecchie procedure per legis actiones, che sono abolite dalla
legge Giulia, tranne che per due situazioni particolari: per alcuni tipi di cause
ereditarie e per danno temuto (damnum infectum), anche se, per quest’ultimo,
la prassi preferirà ricorrere a un’apposita stipulatio da richiedere al pretore.

Comunque, per conseguire immediati effetti di ius civile, il singolo processo


formulare deve soddisfare tre requisiti, caratteristici delle vecchie procedure:

I) esso va celebrato in città o entro il primo miglio dal pomerio (confine sacro
della città );

II) le parti devono essere entrambe romane;

III) il giudice – un privato a cui, come nel vecchio processo, è affidata la


valutazione di merito – deve essere cittadino romano e unico (ossia: non un
collegio di giudici, per quanto romani).

I concreti processi formulari che rispondano a questi requisiti sono dai giuristi
denominati iudicia legitima, cioè giudizi conformi alla legge Giulia e, per questa
via, alla legge delle Dodici Tavole: in essi la sentenza va emessa dal giudice entro
18 mesi dalla conclusione della prima fase del processo (quella in iure).

Invece, i processi formulari che manchino anche di uno solo dei requisiti
continuano ad avere effetti solo sul piano del diritto onorario, in quanto
rimangono fondati sull’imperium dei magistrati giusdicenti: in essi la sentenza
va emessa dal giudice entro l’anno di carica del magistrato giusdicente che lo ha
investito del potere di giudicare.
Svolgimento del processo

Il 3 marzo 129, a Roma, un cittadino romano di nome Aulo Agerio si è fatto


promettere da un altro cittadino romano di nome Numerio Negidio la somma di
100 sesterzi, mediante il negozio chiamato stipulatio, che consisteva in una
promessa orale realizzata mediante un dialogo.

Al momento della promessa erano presenti alcune persone, che hanno visto ed
udito quel che è accaduto. In seguito AA si presenta al domicilio di NN e gli intima
di pagare, ma NN non paga
.
Allora AA decide di agire in giudizio contro di lui.

a) Fase in iure
Lo svolgimento del processo continua a essere distinto in due fasi, dette, come
nel passato, in iure “nel tribunale (del magistrato)” e apud iudicem “presso il
giudice (privato)”.

AA deve chiamare in giudizio il convenuto, il che AA può fare semplicemente


intimando a NN di seguirlo in ius, cioè nel luogo dove si trova il pretore urbano
ad esercitare la giurisdizione, purché lo faccia in uno dei giorni nei quali il
pretore tiene udienza ed eviti di farlo mentre NN si trova all’interno della sua
casa. NN segue AA ed i due si trovano alfine, il 9 maggio dello stesso anno,
davanti al pretore nell’esercizio delle sue funzioni.

Ciascuna parte è accompagnata dal proprio avvocato: ciò non è giuridicamente


necessario, ma normalmente lo si faceva. In pratica saranno gli avvocati a
formulare le richieste per conto delle parti, ma sono queste ultime a stare in
giudizio.

Se però il convenuto si sottrae alla chiamata, oppure si presenta in tribunale, ma


non accetta di ingaggiare la lite, rifiutando ogni formula, si espone a gravi
conseguenze patrimoniali per decreto del pretore.

In alternativa alla chiamata (vocatio), può aversi il vadimonio, che però


necessitava della collaborazione del convenuto: infatti, il vadimonio consiste in
una sponsio o stipulatio, con cui il convenuto s'impegna nei confronti dell’attore a
pagare una penale se non comparirà (e poi anche se non ricomparirà ) in
tribunale nel luogo, nel giorno e nell’ora stabiliti.

Davanti al pretore, AA si trova nel ruolo di attore (actor), ossia è il soggetto che
esercita l’azione (is qui agit); NN è, invece, il convenuto (reus), cioè la persona
contro la quale l’azione viene esercitata (is cum quo agitur).
È evidente che l’attore, e solo lui, ha interesse al processo; da questo il convenuto
non ha da attendersi nulla di favorevole, può solo conseguirne lo svantaggio di
uscire condannato.

Se egli ne uscisse assolto, per lui le cose resterebbero com’erano se il processo


non si fosse fatto. Per questa ragione, perché il procedimento prosegua, l’attore
dovrà continuamente prendere l’iniziativa: se l’attore cessasse di compiere gli
atti che la procedura prevede, il processo si arresterebbe.

Quando attore e convenuto si trovano insieme davanti al magistrato, ha inizio la


fase in iure del procedimento.

Ed essa si inizia con una richiesta (postulatio) dell’attore – del suo avvocato,
come si è detto – al magistrato: nel nostro caso AA chiederà al pretore di
accordargli, contro il convenuto NN con lui presente, l’azione denominata
condictio (intimazione) per una somma di 100 sesterzi che questi gli deve.

Il convenuto che compaia in tribunale può chiedere al pretore di denegare, ossia


di non concedere, l’azione promossa contro di lui, perché la ritiene infondata: sul
punto può aprirsi una discussione tra le parti, sotto la direzione del pretore. Il
convenuto, se accetta di litigare sulla base dell’azione esercitata dall’avversario,
può far inserire nella formula una eccezione (exceptio), cioè una circostanza
ritenuta favorevole alla propria posizione, e deve pervenire a un accordo con lui
sul contenuto della formula concreta.

Alle eccezioni del convenuto l’attore può eventualmente replicare.

Ma poniamo che NN non sollevi obiezione alcuna all’esercizio di tale azione


contro di lui.

Il pretore prende atto di tutto ciò e procede alla scelta del giudice. Questa scelta
si farà , in linea di principio, sull’accordo delle parti; poniamo che nel nostro caso
AA e NN non abbiano alcuna persona da proporre per svolgere quel ruolo, ma
che esse si trovino subito d’accordo sul primo nome (nel nostro caso poniamo si
tratti di un cittadino romano di nome Caio Tizio) che il pretore proponga loro,
traendolo da liste nelle quali sono elencate un certo numero di persone munite
delle qualità necessarie per esercitare quell’ufficio.

A questo punto il pretore è in grado di prendere il provvedimento che si


attendeva da lui: un decreto (decretum) col quale egli provvederà ad accordare il
processo (dare iudicium), nominare il giudice (dare iudicem) ed ordinare al
giudice di giudicare (iudicare iubere).

Tutto ciò egli farà redigendo la formula, atto scritto che rappresenta il testo del
decreto di cui stiamo parlando.

La formula è il solo atto formale di tutto il processo formulare e la sua forma è


una forma scritta.
In essa il pretore provvede anzitutto alla nomina del giudice nella persona già
prima scelta con il consenso delle parti; dopo la nomina del giudice, che è fatta in
forma imperativa alla terza persona, il testo della formula e tutto indirizzato al
giudice così nominato e consiste in un ordine a lui diretto di giudicare (cioè
condannare o assolvere il convenuto) fra le parti nella formula stessa indicate,
dopo avere verificato certe circostanze ed aver preso eventualmente altre
specifiche misure.

Come si comprende, le istruzioni del pretore al giudice sono molto precise: esse
non rappresentano solo l’indicazione di quel che il giudice deve fare, ma anche
l’attribuzione a lui del potere di far quelle certe cose.

Il giudice non è un professionista del giudizio, ma una persona qualsiasi


(neppure la cittadinanza romana era tra i requisiti per poter essere giudice); egli
non ha alcun potere prima che il pretore glielo attribuisca con la formula, e la
formula gli attribuisce poteri per quel singolo processo e non glieli attribuisce in
modo generico ma entro parametri precisamente definiti.

Nel nostro caso, il testo della formula sarà precisamente il seguente:


Caio Tizio sia giudice. Se risulta che NN deve dare 100 sesterzi ad AA, affare di
cui si tratta, il giudice Caio Tizio, condanni NN a dare 100 sesterzi ad AA; se non
risulta, lo assolva.

Redatta la formula su di una tavoletta cerata, il pretore la consegna all’attore.


Con questo atto il magistrato ha accolto la postulatio iniziale dell’attore AA, che
gli aveva chiesto di concedergli l’azione contro il convenuto NN; in altre parole il
pretore ha deciso di, e provvede a, accordare il processo ad AA.

Ma la fase in iure non è ancora finita. L’attore ha bensì ottenuto il processo che
aveva chiesto, ma il processo non è ancora instaurato. Un processo formulare
non può farsi senza l’accordo delle parti sul processo stesso e quindi, l’attore,
ottenuta la formula, per poter compiere gli ulteriori atti processuali che spettano
alla sua iniziativa in ordine alla prosecuzione del giudizio, deve ottenere l’atto
fondamentale di collaborazione del convenuto al processo, e cioè che il
convenuto accetti il processo stesso così come esso è definito nella formula.

L’atto che realizza tale consenso delle parti è chiamato litis contestatio, e si
svolge nel modo seguente: l’attore AA legge la formula al convenuto con lentezza
e la chiarezza necessarie a che NN possa trascriverne il testo per sua precisa
conoscenza e memoria; quindi il convenuto esprime oralmente la propria
accettazione.

Tutto ciò ha avuto luogo davanti al pretore e sotto il suo controllo: ma la litis
contestatio è l’ultimo atto della fase in iure. Essa è dunque anche l’atto che la
conclude.

Con la litis contestatio, la materia del contendere viene fissata in modo non più
modificabile, perché “la controversia è trasfusa nella formula concreta” (res in
iudicium deducta), con effetti di vario tipo.
AA e NN lasciano quindi il tribunale e se ne vanno ciascuno per conto proprio. AA
reca con sé l’originale della formula e ciò lo grava di un ulteriore onere
processuale.

È suo compito, infatti, quello di far pervenire la formula stessa alla persona che vi
è nominata giudice, cioè, nel nostro caso, a Caio Tizio.

b) Fase apud iùdicem


Una volta ricevuta la formula e presane conoscenza, Caio Tizio risulta investito
del giudizio ed il processo entra nella fase apud iudicem (o in iudicio). Il giudice
ne dirigerà le operazioni e la prima cosa da farsi e che egli convochi le parti a
data ed ora fissa nel luogo dove intende dare inizio agli atti del giudizio. Poniamo
che il giorno della convocazione sia il 20 maggio.

Il 20 maggio, nel luogo previsto, Caio Tizio giudice, AA attore e NN convenuto


sono presenti; le parti sono anche accompagnate, come detto in precedenza, di
norma ciascuna dal proprio avvocato.

Il giudice apre l’udienza. La prima cosa che di solito vi si fa è una messa a punto
dei dati della causa e ciò è un compito che spetta in particolare all’attore.

Pensiamo dunque che l’avvocato di AA precisi che il suo cliente esercita la


presente azione in relazione alla stipulazione intervenuta il 3 marzo scorso, con
la quale il convenuto NN gli ha promesso la somma di 100 sesterzi, risultando
così obbligato verso AA a pagargliela, cosa che, benché intimato, non ha ancora
fatto, e che egli intende provare – ricordiamo che l’onere della prova incombe
sull’attore per la sua pretesa (intentio), sul convenuto per le eventuali eccezioni
da lui opposte – la stipulazione stessa mediante interrogatorio dei testimoni che
ha recato con sé (non esisteva una gerarchia delle fonti, che però per lo più
erano testimoniali); l’avvocato del convenuto potrà intervenire dicendo che non
è affatto vero che NN sia obbligato a pagare la somma pretesa da AA, perché la
stipulazione di cui parla l’attore non ha mai avuto luogo. Il giudice passa allora
all’istruzione probatoria.

La sola prova addotta è quella per testimoni, sicché il giudice invita l’avvocato
dell’attore a chiamare uno ad uno i propri testi e ad interrogarli. L’interrogatorio
è fatto dall’avvocato dell’attore; l’avvocato del convenuto interviene pure, per
esempio chiedendo ai testi delle precisazioni sui fatti e delle notizie sui loro
rapporti personali con l’attore e magari anche col convenuto.

Chiusa l’istruzione probatoria, il giudice dà la parola agli avvocati per le


loro arringhe. Pensiamo che l’avvocato dell’attore si limiti a sottolineare che i
testimoni hanno tutti confermato il fatto che la stipulazione è avvenuta nei
termini sostenuti dalla parte attrice, e magari aggiunga che dunque
l’obbligazione di NN verso AA per 100 sesterzi risulta inequivocabilmente sorta,
e che essa non sia estinta è ulteriormente provato dal fatto che NN non ha
addotto, perché non è in grado di addurre, alcuna prova di un
proprio pagamento.
L’avvocato del convenuto NN baserà la propria arringa unicamente sulla tesi che
i testimoni addotti dall’attore non devono essere creduti per i più disparati
motivi, concludendo quindi che l’attore non è riuscito a fornire la prova del suo
credito.

Al giudice non resta che decidere. Egli potrebbe rinviare le parti a nuova udienza
per elaborare la propria decisione. Ma nel nostro caso, siccome tutto gli sembra
chiaro, egli decide seduta stante e condanna NN a pagare 100 sesterzi ad AA. Non
risulta che per la sentenza del giudice formulare fosse prevista la forma scritta.

Tutto lascia presumere che essa fosse pronunziata oralmente, in presenza delle
parti: essa era però , di fatto, registrata nella verbalizzazione, che certo aveva
luogo, delle udienze.

La sentenza si riduceva, comunque, al puro dispositivo, senza motivazione, ed


era inappellabile (diviene appellabile durante il Principato); inoltre, ha sempre
un contenuto pecuniario, con l’unica parziale eccezione dei giudizi divisori;
infine, va emessa entro 18 mesi dalla litis contestatio nei processi conformi ai tre
requisiti previsti dalla legge Giulia; altrimenti, entro l’anno di carica del
magistrato che ha investito il giudice del potere di giudicare.

Se non riesce a formarsi un convincimento, il giudice può astenersi dall’emettere


la sentenza, purché giuri al pretore che la questione non gli è chiara (mihi non
liquet “non mi è chiaro”): il pretore provvederà a sostituirlo.

Una questione delicata molto dibattuta fra i giuristi delle due scuole, sabiniana e
proculiana e nota da Gaio, riguarda il punto se vada assolto o condannato il
convenuto che abbia soddisfatto la pretesa dell’attore dopo il compimento della
litis contestatio, ma prima della sentenza.

Secondo i sabiniani, egli va assolto, quali che fossero il momento della


soddisfazione e l’azione esercitata: con uno sforzo innovatore, l’accento è posto
sull’aspetto strumentale del processo che, come scopo ultimo, ha quello di
soddisfare la pretesa dell’attore.

Questa posizione è efficacemente espressa dalle parole attribuite ai capiscuola


sabiniani: “tutti i giudizi sono assolutori”, parole che vanno intese nel senso che
ogni processo dovrebbe tendenzialmente chiudersi con l’assoluzione del
convenuto, o perché egli ha soddisfatto la pretesa riconoscendosi in torto, o
perché la pretesa non regge all’esame delle prove e dunque risulta infondata.

Al contrario, i proculiani appaiono qui più legati alla concezione tradizionale del
processo,
secondo la quale la litis contestatio fissa in termini immodificabili la materia del
contendere,
e quindi ritengono che il soddisfacimento tardivo consenta di assolvere il
convenuto solo
nelle azioni la cui formula lo permette, ossia nelle azioni in rem e, tra le azioni in
personam, solo in quelle di buona fede.

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