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LE PERSONE ALIENI IURIS

Gli schiavi

Il potere del paterfamilias come dominus sul proprio schiavo = mancipium,


termine che nelle fonti antiche indica lo schiavo stesso.

Nel I periodo , o larga parte di questo, il numero degli schiavi è molto contenuto
e spesso vivono nella casa stessa del padrone, lavorando insieme ai suoi
sottoposti liberi.

Dopo le guerre vittoriose e l’ espansione nel Mediterraneo del II periodo, si


assiste ad un aumento del numero degli schiavi, costituiti principalmente da
prigionieri di guerra.

A causa della :
-diminuzione dei costi per l’acquisto e il mantenimento di schiavi

Fu favorito il loro reimpiego sia nel lavoro agricolo che nelle aziende di terra e di
mare, si sviluppa un’economia a base schiavistica.

Al contempo, l’afflusso massiccio di schiavi a Roma e nell’Italia peninsulare


peggiora le loro condizioni di vita rispetto al passato, abbreviandone pure la
durata.
Causando nella tarda repubblica rivolte di schiavi: come quella capeggiata da
Spartaco,fu repressa in maniera sanguinosa nel 70 a.C. con l’uccisione
in combattimento del capo e la crocifissione di migliaia di rivoltosi .
Eppure , fra gli schiavi emerge una minoranza più dotata e più fortunata che
riesce a condurre un’esistenza migliore: svolgendo l’attività di medico o di
precettore presso le famiglie romane altolocate, o di amministratore e contabile
in aziende agricole o commerciali; di tali aziende possono talvolta divenire
‘dirigenti’ per volontà del loro padrone.

In questo contesto emerge il profilo di persona degli schiavi che, sono


giuridicamente inquadrati fra le cose (res), quelle più preziose (res mancipi),
non sono del tutto assimilabili alle cose inanimate e agli animali non umani.

L’aspetto più rilevante, sia dal punto di vista economico sia da quello
giuridico,la concessione, fatta dal padrone ai suoi schiavi più intraprendenti, di
un peculio = un insieme di beni e talora anche di diritti patrimoniali, in qualche
caso di una certa consistenza con il passare del tempo.

Identica concessione può essere elargita da un pater familias a un suo


sottoposto libero (es.: un figlio), se particolarmente abile negli affari.
Titolare del peculio è comunque il padrone-pater familias, ma i sottoposti
(schiavi o liberi) ne hanno la disponibilità di fatto e possono incrementarlo,

Già durante la crisi del III secolo e poi nel III periodo, l’esaurirsi delle conquiste
territoriali comporta:

-la riduzione drastica del numero degli schiavi disponibili sul mercato
-L’ aumento di prezzo.

Il sistema economico, abituato da secoli a ricavare grandi profitti dalle terre


coltivate a basso costo dagli schiavi, reagisce andando in cerca di altre forme di
dipendenza, diverse dalla schiavitù .

Attraverso le prestazioni lavorative offerte da persone libere di umili


condizioni.

Lo strumento giuridico utilizzato in questo caso è la locazione, che in diritto


romano si presta inoltre a regolare una grande varietà di situazioni, poi
inquadrate in contratti distinti in età moderna.

Due sono le forme più impiegate:

-locazione di cosa (locatio rei)i grandi proprietari fondiari affittano singoli


appezzamenti di terra a un numero via via crescente di contadini liberi con
modeste disponibilità economiche, i coloni, da sempre nome tecnico per
l’affittuario di un fondo.

-locazione di opera (operarum),accostabile all’odierno contratto di lavoro


subordinato, sono invece le persone libere a locare, dietro modica retribuzione,
la propria attività lavorativa come braccianti a giornata (o ad altro termine).

Tuttavia, questi contratti di locazione non assicurano uno stabile legame con la
terra: infatti, solo un legame stabile può assicurare continuità nella produzione e
nei profitti e, di conseguenza, nel gettito dei tributi fondiari.

A soddisfare tali esigenze, private e pubbliche, provvede sollecitamente la


legislazione imperiale, che giunge a vincolare in modo perpetuo il lavoratore
agricolo libero e la sua famiglia, alla coltivazione di un dato fondo.

Ai coloni è vietato allontanarsi dal fondo coltivato, fino a stabilire che essi siano
alienati insieme col fondo; i loro beni considerati quasi alla stregua di un
peculio, trasferibile solo con il consenso del proprietario del fondo.
Si configura così quella situazione nota nel Medioevo come servitù della gleba (=
zolla di terra).

Anche la libertà matrimoniale dei coloni subisce condizionamenti legislativi


vari secondo i momenti e i luoghi, benché sia riconoscibile la tendenza a favorire
le unioni fra coloni dello stesso fondo o di fondi appartenenti a un medesimo
proprietario.

Queste notevoli limitazioni della capacità giuridica rientrano in un fenomeno


più vasto, che coinvolge altre categorie di particolare rilevanza economica, come
i trasportatori di merci su acqua, i mugnai-panettieri, i minatori, gli operai delle
zecche o delle fabbriche di armi.

Queste ed altre categorie di persone esercitanti un mestiere


di pubblica utilità vengono organizzate in corporazioni, disciplinate da
numerose leges imperiali che mirano a rendere perpetuo ed ereditario il
vincolo al mestiere e a legare il patrimonio dei rispettivi membri alla funzione
svolta.

In questo modo, l’autorità imperiale cerca di assicurare il regolare svolgimento


delle attività di pubblica utilità e, al contempo, un costante flusso di entrate
fiscali commisurato alle esigenze pubbliche.

Tali misure provocano però una contrazione della mobilità sociale.


Anche i decurioni, ossia i notabili amministratori delle tante città dell’impero,
vedono peggiorare la propria situazione, poiché, fra altre incombenze, devono
garantire con il patrimonio personale la riscossione dei tributi nella misura
stabilita
LA MANOMISSIONE.

è l’atto con cui il padrone concede a un proprio schiavo la


libertà e, salvo restrizioni, la cittadinanza:

nei periodi I e II, si può conseguire questo scopo solo attraverso uno dei tre
modi formali previsti dal ius civile.

► Il primo consiste nell’adattamento di un rito processuale – la forma in rem


dell’antica azione sacramento – a fini negoziali. Dinanzi al magistrato giusdicente
(al pretore, da quando esiste), comparivano lo schiavo, il proprietario che lo
vuole affrancare ed un amico del padrone: quest’ultimo procede alla rivendica in
libertà (vindicatio in libertatem), mentre il proprietario, legittimato a proporre
l’opposta ‘rivendica in schiavitù ’ (vindicatio in servitutem), tace: il magistrato
conferma l’unica affermazione fatta, rendendo con ciò libero lo schiavo.
Questa applicazione negoziale di un rito processuale prende il nome di in iure
cessio “rinuncia in tribunale” ed è utilizzabile per altri scopi:

- per trasferire la proprietà di una cosa oppure costituire un diritto reale limitato
(servitù prediali o usufrutto) o ancora per adottare un figlio.

► Il secondo modo prevede che, in occasione del censimento quinquennale, il


padrone possa iscrivere un proprio schiavo nell’elenco dei cittadini e quindi delle
persone libere (manomissione censu “tramite censimento”).

Tale iscrizione consisteva in una dichiarazione ai censori rilasciata direttamente


da parte dello schiavo, che, dietro autorizzazione del dominus, si iscriveva nelle
liste censitarie come libero.

Questo modo decade nel Principato, di pari passo con l’esaurimento delle
funzioni del censore passate ora all’imperatore e ai suoi funzionari.

► Il terzo è una disposizione contenuta nel testamento (manomissione


testamentaria): essendo quest’ultimo un negozio a causa di morte (e non tra
vivi, come i precedenti), produce i suoi effetti dopo la morte del pater familias
testatore.Era a forma vincolata e utilizzava lo schema verbale seguente: “Il mio
schiavo Stico sia libero”.

Sugli schiavi manomessi (liberti) con uno di questi tre modi grava un tributo a
favore dell’erario nella misura del 5 % calcolato sul loro valore di mercato.

Non è sempre stato un atto di magnanimità da parte di un padrone che


concedeva la libertà a un proprio schiavo come premio per averlo servito.

Soprattutto nel II PERIODO , finché i costi di acquisto e mantenimento degli


schiavi diventano troppo alti si cerca di disfarsi dei propri schiavi con:

-l’abbandono,

-la manomissione può servire a disfarsi di schiavi divenuti improduttivi a causa


di età avanzata, malattia,invalidità : saranno sì liberi e cittadini, ma indigenti, con
scarsa o nessuna protezione sociale, pronti a locare le proprie limitate capacità
lavorative per una modesta mercede e per lavori ad alto rischio.

Non a caso, negli ultimi due secoli della Repubblica, gli autori di opere sulla
gestione di un’azienda agricola suggeriscono ai proprietari terrieri una
grande cura per gli schiavi efficienti, consigliando al contempo l’impiego di
manodopera libera non garantita nei lavori rischiosi, in modo da non esporsi al
rischio di una grave perdita patrimoniale.

Più tardi, a porre limiti alle conseguenze delle frequenti manomissioni


sulla composizione del corpo civico è Augusto, che fa approvare due leggi
(rogate) restrittive delle manomissioni: esse si pongono in una prospettiva
analoga a quella di altre leggi da lui promosse, che intendono favorire matrimoni
fecondi fra cittadini nati liberi (ingenui), con la previsione di sanzioni
patrimoniali a carico di celibi e di orbi (= sposati senza figli).

-La prima legge (Fufia Canina, 2 a.C.) si occupa delle manomissioni


testamentarie, fissandone il limite massimo in proporzione al numero degli
schiavi posseduti e sancendo la nullità di quelle eccedenti tale quota: il numero
massimo di schiavi che si potevano liberare nel testamento era di 100, ed esso
valeva per chi fosse proprietario di 500 o più schiavi.

La seconda (Aelia Sentia, 4 d.C.) proibisce le manomissioni in frode ai creditori,


pone limiti minimi di età sia per chi manomette (almeno 20 anni), sia per chi
viene manomesso (almeno 30 anni), ma con eccezioni al ribasso se fra i due
esiste un legame di sangue o un rapporto di collaborazione (es.: lo schiavo era
maestro del padrone), e vieta di manomettere schiavi puniti dai loro padroni per
gravi colpe o adibiti a lavori ignobili: in caso di violazione di questo divieto i
manomessi divengono una sorta di apolidi, come stranieri sconfitti arresisi a
discrezione di Roma (dediticii).

Infine, nel III periodo, con Costantino, primo imperatore cristiano, si legalizza la
prassi esistente nelle comunità cristiane di dichiarare dinanzi al vescovo e
all’assemblea dei fedeli (ecclesia nel significato originario) la volontà di
rendere libero un proprio schiavo, attribuendo pieni effetti civili a questa forma
di manomissione (manumissio in sacrosanctis ecclesiis).

Verso la fine della Repubblica, ai modi formali di manomissione si aggiungono


alcuni modi informali, che danno agli schiavi soltanto una libertà di fatto,
revocabile in qualunque momento dal padrone.

Due sono i modi informali meglio noti, che si concretano in una dichiarazione
del padrone di voler rendere libero lo schiavo: la dichiarazione può essere
compiuta oralmente rivolgendosi ad amici, spesso durante un banchetto (per
mensam), o per iscritto con una lettera (per epìstulam) ad amici o allo schiavo
stesso, il quale potrà comportarsi come una persona libera e come tale potrà
essere considerato dai terzi.

A questa situazione di libertà di fatto pone presto rimedio il pretore: il


padrone, qualora si penta dell’atto compiuto e rivendichi in effettiva schiavitù la
persona informalmente manomessa (azione legittimamente esercitabile per ius
civile), si vedrà denegare (= rifiutare) l’azione dal pretore.

Lo schiavo continuerà a vivere come libero di fatto, senza peraltro poter disporre
dei propri beni a causa di morte.

Poi, una legge rogata del I secolo d.C. introduce un miglioramento, concedendo ai
manomessi in modo non formale un particolare status di latinità (libertà , ma
non cittadinanza romana), che però cessa con la morte: alla morte, i loro
beni spettano all’antico padrone come un qualsiasi peculio.

Solo con Giustiniano le manomissioni informali ottengono pieno


riconoscimento.
I LIBERTI.
Una volta manomessi con uno dei tre modi formali previsti dal ius civile, gli
schiavi divengono liberti e persone sui iuris “giuridicamente autonome”.

La loro condizione giuridica, formalizzata dall’appartenenza alla categoria dei


libertini, non è però identica a quella degli ingenui “nati liberi”:

-ad es., i liberti non possono proporsi come candidati ed essere eletti a una
magistratura (mentre lo potranno i figli nati al liberto da nozze legittime, in
quanto ingenui) e sono esclusi dall’esercizio di alcune professioni come quelle di
avvocato o di agrimensore.
Dunque, forti limitazioni nella sfera pubblicistica e capacità un poco limitata
nella sfera privatistica.

L’ex padrone, detto patrono (patronus), deve assistere e proteggere il


liberto, ma ha su di lui un diritto di patronato, che per il liberto si concreta nei
doveri, di per sé sociali ma spesso elevati al piano giuridico, di “ossequio”
(obsequium) e di “prestazione di attività lavorative” (operae), oltre alla fattiva
collaborazione alle iniziative pubbliche del patrono.
Si trattava quindi di ‘rispetto’ e ‘gratitudine’ giuridicamente sanzionati.

Tutto ciò si traduceva in una serie di regole.

In primis, il divieto di accusare il patrono di un reato (crimen). Per agire in un


giudizio privato (civile) contro il proprio patrono o i figli del patrono il liberto
doveva tenere una specifica autorizzazione del pretore (e comunque non poteva
esperire contro di lui azioni infamanti).

Tra liberto e patrono esisteva poi una reciproca obbligazione alimentare, del
tutto irrinunciabile.
Per mancanza di ossequio il liberto può essere perseguito in giudizio dal
patrono, fino alla conseguenza estrema di vedersi revocata la libertà .

Era in uso la pratica secondo la quale i proprietari potevano esigere che lo


schiavo, prima di venire manomesso per atto tra vivi, si impegnasse mediante
giuramento – quindi l’obbligazione nasceva solo sul piano del ius sacrum – a
prestare, una volta divenuto liberto, servizi (operae, ad es. lavori domestici o
artigianali) ovvero donativi al proprio parens manumissor. Lo schiavo poteva
riprendere tale impegno, dopo essere stato manomesso, mediante una formale
promessa (promissio iurata), unilaterale e verbale, il cui contenuto solitamente
soddisfaceva le richieste avanzate dal padrone prima della concessione della
libertà : per questo nell’editto pretorio era prevista una tutela del liberto
obbligato alle operae per evitare che il patrono pretendesse prestazioni troppo
gravose in sé ovvero per la misura o i modi in cui erano richieste.
Siccome il liberto non poteva avere agnati, il patrono era giuridicamente
considerato alla stregua del suo agnato prossimo (ossia quello di grado più
stretto).

Per tale motivo il patrono e, alla morte di questi, i suoi figli occupavano il posto di
agnati nella successione legittima del liberto: ne consegue che era al patrono che
spettava – già in base a una norma delle Dodici Tavole – la successione intestata
del liberto defunto senza testamento e privo di discendenti diretti, oppure, in
particolari casi, toccava la metà dei beni pur in presenza di un testamento valido
redatto dal liberto.

A seguito di interpretazione creatrice dei giuristi-pontefici, si stabilì poi, in


Maniera analogica, che il patrono, essendo equiparato all’agnato prossimo,
esercitasse, qualora ne ricorressero i presupposti giuridici, la tutela su eventuali
Liberti e liberte impù beri, nonché sulle liberte anche se pù beri (in quanto
donne).

Il peculio però non rispondeva appieno, dal punto di vista funzionale, alla nuova
realtà economica, in particolare a quella mercantile, perché ben poteva accadere
che lo schiavo o il figlio contraessero debiti di cui, per ius civile, il padrone-pater
familias non rispondeva.

Tale situazione poneva, molti ostacoli ai traffici commerciali, perché i terzi,


presentendo il rischio di subire perdite patrimoniali irrecuperabili, non si
sentivano sicuri nel trattare con sottoposti.

Il rimedio processuale, che venne progettato dai giuristi e poi introdotto dal
pretore nel suo editto, consiste nel rendere azionabili le pretese dei creditori
insoddisfatti di persone sottoposte.

Infatti, grazie a un particolare adattamento delle formule di ius civile, si accordò


a questi creditori di convenire in giudizio il relativo padrone-pater familias.

Nel caso in cui il sottoposto avesse contratto un debito all’insaputa del suo
avente potestà (= padrone o pater familias), l'eventuale condanna, sempre
pecuniaria, non doveva comunque eccedere i limiti patrimoniali del peculio, se
esistente (o i limiti dell’arricchimento conseguito dal padrone-pater familias): va
da sé che la sentenza avrebbe potuto non dare (piena) soddisfazione al creditore.

Qualora però l’avente potestà avesse preposto lo schiavo o il figlio a un’attività


commerciale di terra o di mare, oppure avesse autorizzato, con uno specifico
ordine, il sottoposto a compiere un determinato atto negoziale che implicasse
l’assunzione di un debito, doveva rispondere senza limiti nella condanna
pecuniaria alle pretese dei creditori insoddisfatti avanzate con azioni pretorie
dello stesso tipo delle precedenti.

Diversamente si configurava l’ipotesi di atto illecito commesso da un sottoposto,


quando tale atto fosse perseguibile nelle forme del processo privato: per i delitti
di ius civile (es.: danneggiamento, furto) sorgeva un’obbligazione direttamente a
carico dell’avente potestà , che deve rispondere per l’intera pena pecuniaria,
salvo che le modalità di commissione dell’illecito non gli consentivano di
consegnare il sottoposto (schiavo o libero) autore dell’illecito alla parte lesa. Se
però il sottoposto commetteva un crimine, era colpito da pene personali, che
potevano variare nella gravità a seconda che egli fosse schiavo o libero.

LA PATRIA POTESTAS E LA CITTADINANZA.


Il pater familias esercitava la patria potèstas (potestà paterna) sui discendenti
diretti – figli(e), nipoti, pronipoti – anzitutto su figli e figlie, siano essi nati da
nozze legittime (iustae nuptiae) o adottivi (per arrogazione o per adozione).

Questa potestà – al pari della manus, potere, diffuso specialmente nel I periodo,
del pater familias sulle donne entrate nella famiglia come mogli (sua o dei
discendenti maschi) – è tutelabile processualmente con un’azione in rem, ossia
esercitabile contro chiunque, in quanto si tratta di un diritto assoluto.

Nel I periodo, la patria potèstas era insindacabile.


Il pater familias aveva il potere di sopprimere i figli nati deformi, a condizione
che la deformità fosse fatta constatare da testimoni estranei alla famiglia, e di
abbandonare le figlie non primogenite.

Inoltre, come già si è detto, il pater familias può fare la mancipatio di un figlio,
ma, dopo la terza volta (per i maschi), perde la potestà .

Su questa norma sanzionatoria dell’abuso paterno nel mancipare il figlio, i


pontefici costruirono il rituale della emancipazione, che consentiva al pater
familias di estinguere volontariamente la potestà sul figlio.

Con una mancipatio un pater familias poteva trasferire temporaneamente il


potere su un proprio figlio maschio, il quale cadeva in uno stato di soggezione
(una specie di semi-schiavitù ) presso il pater familias che acquistava il potere
su di lui.

Ma – secondo una norma risalente all’età regia e ribadita nelle Dodici Tavole – il
figlio maschio mancipato per tre volte era sottratto alla potestà paterna: la
norma era palesemente volta a sanzionare le plurime mancipazioni di uno stesso
figlio per evitargli uno stato, potenzialmente senza fine, di soggezione a estranei.

Partendo da questa regola di base, i pontefici elaborarono un rituale


articolato per consentire a un pater familias di estinguere volontariamente la
sua potestà sul figlio maschio, costruendo il nuovo istituto della emancipazione
(emancipatio), che rendeva il sottoposto libero una persona sui iuris, ossia, a
sua volta, un pater familias.
Questo nuovo rito era eseguito dal pater familias emancipante con una
persona di fiducia, in presenza del figlio da emancipare, e constava di quattro
mancipazioni e tre manomissioni: la manomissione (manumissio), che
comunemente rendeva libero un proprio schiavo, in certi contesti serviva pure a
far uscire una persona libera da uno stato di soggezione.

Dopo le prime due mancipazioni, il fiduciario, tramite manomissione,


scioglieva dal suo potere l’emancipando; ma, dopo la terza mancipazione,
proprio in base all’antica norma secondo cui la potestà paterna sul figlio era
estinta, il fiduciario lo mancipava al padre, che lo acquistava nel suo potere come
persona sui iuris, ma in stato di soggezione: da questo stato il figlio sarebbe
uscito tramite l’ultima manomissione, compiuta da suo padre, col quale
perdurava un rapporto analogo a quello che si creava fra il patrono (ex padrone)
e il liberto (schiavo manomesso) e che prevedeva un dovere socio-giuridico al
rispetto.

La necessità di attenersi al rituale della emancipazione è ancora affermata nel


293 d.C. da una costituzione imperiale contenuta nel Codice di Giustiniano contro
usanze locali di matrice greco-ellenistica.

Già agli inizi del II periodo il potere del pater familias subì un’attenuazione,
venendo ad essere posto sotto il controllo dei censori; qualche tempo più tardi, si
prescrisse che il pater familias che uccidesse un figlio in modo crudele o
ingiustificato venisse perseguito come l’omicida di un estraneo libero.

Malgrado questi temperamenti, la patria potèstas rimane forte.

I giuristi classici la esaltano come una prerogativa tipica dell’ordinamento


romano, come testimonia Gaio.

In altri casi, la cittadinanza poteva essere concessa, a singoli o a gruppi, per


benemerenze politiche verso Roma.

Tuttavia, essa, anche quando era conferita a un nucleo familiare, s'intendeva


conferita ai singoli componenti del nucleo: fra loro non veniva a crearsi il vincolo
di agnazione e, tanto meno, un rapporto potestativo.

Al contrario, il pater familias unito in matrimonio legittimo (iustum) con una


romana acquistava automaticamente (ipso iure) la potestà sui figli nati dal
matrimonio stesso.

Quanto alla determinazione della nascita, momento giuridicamente rilevante


in ogni ordinamento di ogni tempo, i giuristi classici professavano opinioni
differenti.
Per i giuristi di scuola sabiniana valeva qualunque movimento del corpo
del neonato, e dunque conta la potenzialità .
Invece, per i giuristi di scuola proculiana, la cui opinione è destinata a
prevalere, si esige l'emissione di un vagito, cioè un segno di vitalità , intesa come
funzionalità respiratoria, che anche oggi è richiesta dalla dottrina civilistica,
ovviamente secondo le attuali conoscenze mediche.

Viceversa, divenne presto parere comune considerare il settimino come nato


regolarmente e – se nato da un matrimonio legittimo – come figlio legittimo.

Lo afferma, in un passo noto dal Digesto, il giurista Paolo, richiamandosi


addirittura al medico per antonomasia: “Per l’autorità del dottissimo Ippocrate è
ormai opinione condivisa che al settimo mese la prole umana nasce formata
compiutamente.

Si deve quindi ritenere figlio legittimo (iustus filius) chi sia nato al settimo mese
da nozze legittime (iustae nuptiae)”.

Il pater familias può non riconoscere come proprio un figlio partorito dalla
moglie, non sollevando il neonato da terra dove la levatrice lo ha deposto, ai
piedi dello stesso pater familias.

Tuttavia, nel II periodo, al figlio non riconosciuto, una volta adulto, il pretore
accorda una speciale formula processuale per l’eventuale riconoscimento e poi,
in caso affermativo, per poter reclamare – con i mezzi idonei – i diritti a lui
spettanti come figlio legittimo.

Assai deteriore per secoli è invece la posizione del figlio nato fuori del
matrimonio, che soltanto nel III periodo può essere legittimato dal padre.

I FIGLI ADOTTIVI : ARROGAZIONE E


ADOZIONE
Figlio adottivo di un pater familias si diviene per arrogazione (adrogatio) o per
adozione (adoptio): durante il Principato, la disciplina giuridica di queste due
figure, assai diversa fino alla metà circa del II periodo, si avvicina
progressivamente.

L’arrogazione era l’atto con cui un pater familias, tramite un rituale solenne,
che in età arcaica si svolgeva dinanzi alla assemblea delle trenta curie (comizi
curiati), si sottoponeva alla potestà di un altro pater familias, del quale
diventava figlio.
Nel II periodo, il rito si svolgeva dinanzi a trenta littori (portatori dei fasci
littorî, come insegne di potere), che simboleggiavano le curie, ormai cadute in
desuetudine.
Dal punto di vista personale, l’arrogato era oggetto – come afferma Gaio – di
una càpitis deminutio minima “dequalificazione minima”: ma anche tutte le
persone in precedenza sottoposte all’arrogato cadevano nella potestà del pater
familias arrogante.
Si riassume schematicamente qui quanto già detto sopra sulla capitis deminutio:
Dal punto di vista patrimoniale, invece, l’arrogazione comportava una
successione universale tra vivi (inter vivos), in quanto tutti i beni e i diritti
trasmissibili dell’arrogato andavano a confluire nel patrimonio dell’arrogante.

Una situazione di tutta evidenza iniqua, invece, si verificava in relazione ai debiti


dell’arrogato: infatti, per ius civile, questi si estinguevano. A ciò fornì un rimedio,
forse nel II secolo a.C., il pretore, il quale inserì nell’editto un’apposita formula
processuale in cui si fingeva non avvenuta la càpitis deminutio (l’arrogazione):
in tal modo l’arrogato poteva essere convenuto in giudizio dai creditori per i
debiti estinti per ius civile.

L’ adozione, il suo fine originario era quello di trasferire un sottoposto libero da


una famiglia ad un’altra che avesse bisogno di forza-lavoro.
In un primo momento, il pater familias ‘attuale’ estingueva la potestà col rituale
della emancipazione, senza però compiere l’ultima manomissione; poi, in
tribunale, dinanzi al magistrato giusdicente, il pater familias adottante
rivendicava come propria la potestas sull’adottando.

Tutta questa procedura è un’applicazione della in iure cessio “rinuncia in


tribunale” – venne resa man mano più semplice con il passare del tempo.

Requisito richiesto in ogni periodo era che l’adottante fosse più anziano
dell’adottato.

I cambiamenti introdotti con Giustiniano furono che la maggiore anzianità


dell’adottante fosse di almeno 18 anni (ossia una generazione, per l’epoca:
adoptio imitatur naturam “l’adozione imita la natura”), ridusse le formalità ad
una dichiarazione da rendere dinanzi a un funzionario pubblico da parte dei due
pater familias, quello che dà e quello che prende in adozione, il tutto completato
dal consenso dell’adottando, se ritenuto in grado di esprimerlo.

Con Giustiniano si vennero a distinguere due tipi di adozione sulla base degli
effetti che producevano.
► Il primo tipo concerneva l’adozione compiuta da un estraneo alla famiglia
del sottoposto che veniva adottato. A differenza del passato, tale adozione non
estingueva più il vincolo di agnazione con la famiglia originaria, ma aggiungeva
nuove aspettative ereditarie in favore dell’adottato: si parlava di adoptio minus
plena “adozione non completa”.

► Il secondo tipo, invece, riguardava l’adozione compiuta, nei confronti di


un(a) nipote dal nonno materno (cognatus) o dal nonno paterno, solo se
quest’ultimo avesse precedentemente emancipato il proprio figlio, poi divenuto
padre della persona che ora viene adottata.

Questo secondo tipo estingueva il vincolo di agnazione col padre, e l’adottato


diviene a tutti gli effetti figlio del nonno adottante: si trattava di adoptio plena
“adozione completa”.
La progressiva capacità patrimoniale dei figli
.
La nuova realtà economica, che si delinea al principio del II periodo a seguito
dell’espansione di Roma nel Mediterraneo, andò a modificare, sotto il profilo
patrimoniale, la situazione dei figli maschi.

Come già si è visto per gli schiavi, anche ai figli il pater familias concede un
peculio, che non scalfiva l’unità del patrimonio familiare, in quanto la titolarità
dei beni facenti parte del peculio rimaneva sempre al pater familias, mentre il
figlio abile e dinamico poteva incrementarlo, di fatto, talvolta anche in misura
consistente.

Il figlio, in maniera più frequente rispetto allo schiavo, poteva essere


preposto dal pater familias alla guida di un’impresa terrestre o marittima,
oppure poteva concludere specifici negozi su espressa autorizzazione del pater
familias.

E, come accadeva per gli schiavi, i creditori insoddisfatti del figlio ricevevano
tutela processuale dal pretore tramite apposite azioni esercitabili contro il pater
familias per i debiti non pagati dal suo sottoposto.

Con l’avvento di Augusto e del Principato, l’autonomia patrimoniale si estese:


al sottoposto si permise di poter godere e disporre anche a causa di morte
(mortis causa) di uno speciale peculio, il c.d. peculio castrense (da castra
“accampamento militare”), che includeva tutti i guadagni ottenuti dal figlio
durante il servizio militare (il soldo, la parte di bottino, le donazioni ricevute da
parenti e amici, le eventuali eredità provenienti da commilitoni deceduti).

Qualora il figlio non ne disponesse per testamento, alla sua morte il peculio
castrense entrava nel patrimonio del pater familias come un normale peculio.

Inoltre, si diffuse sempre più la pratica di emancipare il figlio, all’inizio del


servizio militare, analogamente a quanto poteva accadere per il figlio che
intraprendeva la carriera politica (cursus honorum). In tali casi, l’ex filius
familias diveniva una persona sui iuris, e quindi poteva essere titolare di un
proprio patrimonio.

La giurisprudenza classica arrivò a permettere che il figlio in potestà , se adulto,


potesse assumere obbligazioni, a condizione che esse sorgessero da atto lecito
(quindi, erano escluse le obbligazioni nascenti da atti illeciti, come i delitti di ius
civile).
Però , i creditori insoddisfatti potevano agire contro il figlio inadempiente
solo con azioni di cognizione (ossia con azioni che accertassero la fondatezza
delle loro pretese), ma non potevano procedere in via esecutiva contro di lui.
Per potere dare il via all’esecuzione i creditori dovevano attendere la cessazione
della potestà paterna sul figlio. In connessione a ciò va menzionato un
senatoconsulto del I secolo d.C., che rese non esigibili i crediti sorti da mutui in
denaro fatti ai figli altrui.

Palese era l’intento del provvedimento senatorio: quello di evitare l’eccessivo


indebitamento dei figli che, per pagare i debiti, avrebbero potuto arrivare ad
uccidere il proprio pater familias per ereditarne il patrimonio, come pare sia
accaduto almeno in un caso.

I creditori, quand’anche agissero dopo che i figli erano diventati persone sui
iuris, vedevano paralizzata la loro pretesa da un’apposita eccezione processuale.
Infine, nel III periodo, comparve un’altra tipologia di peculio speciale, detto
peculio quasi castrense, che contemplava beni e diritti acquistati dal figlio
nell’esercizio di funzioni pubbliche o ecclesiastiche e nella professione forense:
come per il peculio castrense, anche di questo peculio il figlio poteva godere e
disporre per testamento.

Le donne in manu
Nel I periodo, il pater familias acquisiva il potere potestativo (manus) sulla
donna entrata nella famiglia come sua moglie o come moglie di un discendente
maschio mediante la conventio in manum, che accompagnava oppure seguiva
l’inizio di un matrimonio legittimo (iustae nuptiae) contratto con lui o con uno
dei propri discendenti maschi.

Purché un matrimonio fosse legittimo (iustum), servivano alcuni


presupposti e fattori, che si definirono nel corso del tempo.

La conventio in manum (contestuale o successiva al matrimonio) – cioè la


sottoposizione della donna al potere, manus, del marito (se è un pater familias)
come se fosse figlia (loco filiae), o di chi ha potestà su di lui (se è un sottoposto)
come se fosse nipote o pronipote (loco neptis o proneptis) – si realizzava
secondo tre modalità , predisposte dai pontefici sulla base dei mores:

-la prima consisteva in una cerimonia religiosa, valida al contempo come


matrimonio e come acquisto della manus, in cui, alla presenza di testimoni e del
sacerdote di Giove, erano pronunciate parole rituali e veniva sacrificata (e
mangiata dagli sposi) una focaccia di farro: di qui il nome di confarreatio (con
significa “insieme, vicendevolmente”);

-la seconda è la coëmptio (pronuncia: co-èmp-zio), una compera fittizia della
donna attuata con una mancipatio adattata;

-la terza è l’usus, che fa acquistare la manus dopo un anno di matrimonio e si


configura quindi come una sorta di usucapione del diritto (assoluto) potestativo.
Con uno di questi modi, la donna che andava sposa, se era sottoposta, come
accadeva più frequentemente, a un pater familias, passava nel potere di un altro
pater familias (marito o avente potestà sul marito), perdendo ogni legame di
parentela civile (agnazione) con la famiglia di origine e, di conseguenza, ogni
aspettativa ereditaria.

Se invece la donna che andava sposa era sui iuris – caso raro nel I
periodo –diveniva una sottoposta del marito (se egli è pater familias) o
dell’avente potestà sul marito (se non è pater familias).

La donna cessava, quindi, di essere titolare di un patrimonio, che passava nella


titolarità di chi acquista la manus su di lei (marito o avente potestà sul marito):
si trattava di una successione universale tra vivi, come si verificava per
l’arrogazione.

Riguardo all’usus, i pontefici elaborarono il modo di evitare l’acquisto della


manus sulla donna: la moglie che non volesse cadere nella manus del marito o
del pater familias di lui doveva – in accordo con il marito – allontanarsi di casa
per tre notti ogni anno (vedi già le Dodici Tavole: Tav. VI.5).

La moglie continuava a rimanere moglie, ma non era legata da un vincolo di


agnazione con il marito e i figli, e non mutava il proprio status personale.

Il matrimonio, che non implicava l’acquisto della manus, veniva detto in


dottrina sine manu [“senza (l’acquisto del)la mano”] ed era la forma più comune
e diffusa nel II periodo.

Se la donna che andava sposa era persona sui iuris tale rimaneva, e non avveniva
più la successione universale dei suoi beni a favore del marito (o del pater
familias del marito).

I tre antichi modi di acquisto della manus seguirono destini differenti.

-La confarreatio sopravvisse solo all’interno delle famiglie altolocate che


ricoprivano le cariche religiose più importanti: i titolari di queste, infatti,
dovevano essere nati da nozze celebrate con questo solenne rito.

-La coëmptio rimase solamente in un’applicazione fiduciaria estranea al


matrimonio: essa serviva a consentire alla donna sui iuris di scegliersi un tutore
di suo gradimento. la donna mancipava sé stessa a un fiduciario che la
manometteva, divenendone tutore legittimo.

-L’usus decadde all’inizio del Principato, contemporaneamente alla necessità


che la moglie si allontanasse per tre notti dalla casa coniugale per evitare la
caduta nella manus.

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