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Gli schiavi
Nel I periodo , o larga parte di questo, il numero degli schiavi è molto contenuto
e spesso vivono nella casa stessa del padrone, lavorando insieme ai suoi
sottoposti liberi.
A causa della :
-diminuzione dei costi per l’acquisto e il mantenimento di schiavi
Fu favorito il loro reimpiego sia nel lavoro agricolo che nelle aziende di terra e di
mare, si sviluppa un’economia a base schiavistica.
L’aspetto più rilevante, sia dal punto di vista economico sia da quello
giuridico,la concessione, fatta dal padrone ai suoi schiavi più intraprendenti, di
un peculio = un insieme di beni e talora anche di diritti patrimoniali, in qualche
caso di una certa consistenza con il passare del tempo.
Già durante la crisi del III secolo e poi nel III periodo, l’esaurirsi delle conquiste
territoriali comporta:
-la riduzione drastica del numero degli schiavi disponibili sul mercato
-L’ aumento di prezzo.
Tuttavia, questi contratti di locazione non assicurano uno stabile legame con la
terra: infatti, solo un legame stabile può assicurare continuità nella produzione e
nei profitti e, di conseguenza, nel gettito dei tributi fondiari.
Ai coloni è vietato allontanarsi dal fondo coltivato, fino a stabilire che essi siano
alienati insieme col fondo; i loro beni considerati quasi alla stregua di un
peculio, trasferibile solo con il consenso del proprietario del fondo.
Si configura così quella situazione nota nel Medioevo come servitù della gleba (=
zolla di terra).
nei periodi I e II, si può conseguire questo scopo solo attraverso uno dei tre
modi formali previsti dal ius civile.
- per trasferire la proprietà di una cosa oppure costituire un diritto reale limitato
(servitù prediali o usufrutto) o ancora per adottare un figlio.
Questo modo decade nel Principato, di pari passo con l’esaurimento delle
funzioni del censore passate ora all’imperatore e ai suoi funzionari.
Sugli schiavi manomessi (liberti) con uno di questi tre modi grava un tributo a
favore dell’erario nella misura del 5 % calcolato sul loro valore di mercato.
-l’abbandono,
Non a caso, negli ultimi due secoli della Repubblica, gli autori di opere sulla
gestione di un’azienda agricola suggeriscono ai proprietari terrieri una
grande cura per gli schiavi efficienti, consigliando al contempo l’impiego di
manodopera libera non garantita nei lavori rischiosi, in modo da non esporsi al
rischio di una grave perdita patrimoniale.
Infine, nel III periodo, con Costantino, primo imperatore cristiano, si legalizza la
prassi esistente nelle comunità cristiane di dichiarare dinanzi al vescovo e
all’assemblea dei fedeli (ecclesia nel significato originario) la volontà di
rendere libero un proprio schiavo, attribuendo pieni effetti civili a questa forma
di manomissione (manumissio in sacrosanctis ecclesiis).
Due sono i modi informali meglio noti, che si concretano in una dichiarazione
del padrone di voler rendere libero lo schiavo: la dichiarazione può essere
compiuta oralmente rivolgendosi ad amici, spesso durante un banchetto (per
mensam), o per iscritto con una lettera (per epìstulam) ad amici o allo schiavo
stesso, il quale potrà comportarsi come una persona libera e come tale potrà
essere considerato dai terzi.
Lo schiavo continuerà a vivere come libero di fatto, senza peraltro poter disporre
dei propri beni a causa di morte.
Poi, una legge rogata del I secolo d.C. introduce un miglioramento, concedendo ai
manomessi in modo non formale un particolare status di latinità (libertà , ma
non cittadinanza romana), che però cessa con la morte: alla morte, i loro
beni spettano all’antico padrone come un qualsiasi peculio.
-ad es., i liberti non possono proporsi come candidati ed essere eletti a una
magistratura (mentre lo potranno i figli nati al liberto da nozze legittime, in
quanto ingenui) e sono esclusi dall’esercizio di alcune professioni come quelle di
avvocato o di agrimensore.
Dunque, forti limitazioni nella sfera pubblicistica e capacità un poco limitata
nella sfera privatistica.
Tra liberto e patrono esisteva poi una reciproca obbligazione alimentare, del
tutto irrinunciabile.
Per mancanza di ossequio il liberto può essere perseguito in giudizio dal
patrono, fino alla conseguenza estrema di vedersi revocata la libertà .
Per tale motivo il patrono e, alla morte di questi, i suoi figli occupavano il posto di
agnati nella successione legittima del liberto: ne consegue che era al patrono che
spettava – già in base a una norma delle Dodici Tavole – la successione intestata
del liberto defunto senza testamento e privo di discendenti diretti, oppure, in
particolari casi, toccava la metà dei beni pur in presenza di un testamento valido
redatto dal liberto.
Il peculio però non rispondeva appieno, dal punto di vista funzionale, alla nuova
realtà economica, in particolare a quella mercantile, perché ben poteva accadere
che lo schiavo o il figlio contraessero debiti di cui, per ius civile, il padrone-pater
familias non rispondeva.
Il rimedio processuale, che venne progettato dai giuristi e poi introdotto dal
pretore nel suo editto, consiste nel rendere azionabili le pretese dei creditori
insoddisfatti di persone sottoposte.
Nel caso in cui il sottoposto avesse contratto un debito all’insaputa del suo
avente potestà (= padrone o pater familias), l'eventuale condanna, sempre
pecuniaria, non doveva comunque eccedere i limiti patrimoniali del peculio, se
esistente (o i limiti dell’arricchimento conseguito dal padrone-pater familias): va
da sé che la sentenza avrebbe potuto non dare (piena) soddisfazione al creditore.
Questa potestà – al pari della manus, potere, diffuso specialmente nel I periodo,
del pater familias sulle donne entrate nella famiglia come mogli (sua o dei
discendenti maschi) – è tutelabile processualmente con un’azione in rem, ossia
esercitabile contro chiunque, in quanto si tratta di un diritto assoluto.
Inoltre, come già si è detto, il pater familias può fare la mancipatio di un figlio,
ma, dopo la terza volta (per i maschi), perde la potestà .
Ma – secondo una norma risalente all’età regia e ribadita nelle Dodici Tavole – il
figlio maschio mancipato per tre volte era sottratto alla potestà paterna: la
norma era palesemente volta a sanzionare le plurime mancipazioni di uno stesso
figlio per evitargli uno stato, potenzialmente senza fine, di soggezione a estranei.
Già agli inizi del II periodo il potere del pater familias subì un’attenuazione,
venendo ad essere posto sotto il controllo dei censori; qualche tempo più tardi, si
prescrisse che il pater familias che uccidesse un figlio in modo crudele o
ingiustificato venisse perseguito come l’omicida di un estraneo libero.
Si deve quindi ritenere figlio legittimo (iustus filius) chi sia nato al settimo mese
da nozze legittime (iustae nuptiae)”.
Il pater familias può non riconoscere come proprio un figlio partorito dalla
moglie, non sollevando il neonato da terra dove la levatrice lo ha deposto, ai
piedi dello stesso pater familias.
Tuttavia, nel II periodo, al figlio non riconosciuto, una volta adulto, il pretore
accorda una speciale formula processuale per l’eventuale riconoscimento e poi,
in caso affermativo, per poter reclamare – con i mezzi idonei – i diritti a lui
spettanti come figlio legittimo.
Assai deteriore per secoli è invece la posizione del figlio nato fuori del
matrimonio, che soltanto nel III periodo può essere legittimato dal padre.
L’arrogazione era l’atto con cui un pater familias, tramite un rituale solenne,
che in età arcaica si svolgeva dinanzi alla assemblea delle trenta curie (comizi
curiati), si sottoponeva alla potestà di un altro pater familias, del quale
diventava figlio.
Nel II periodo, il rito si svolgeva dinanzi a trenta littori (portatori dei fasci
littorî, come insegne di potere), che simboleggiavano le curie, ormai cadute in
desuetudine.
Dal punto di vista personale, l’arrogato era oggetto – come afferma Gaio – di
una càpitis deminutio minima “dequalificazione minima”: ma anche tutte le
persone in precedenza sottoposte all’arrogato cadevano nella potestà del pater
familias arrogante.
Si riassume schematicamente qui quanto già detto sopra sulla capitis deminutio:
Dal punto di vista patrimoniale, invece, l’arrogazione comportava una
successione universale tra vivi (inter vivos), in quanto tutti i beni e i diritti
trasmissibili dell’arrogato andavano a confluire nel patrimonio dell’arrogante.
Requisito richiesto in ogni periodo era che l’adottante fosse più anziano
dell’adottato.
Con Giustiniano si vennero a distinguere due tipi di adozione sulla base degli
effetti che producevano.
► Il primo tipo concerneva l’adozione compiuta da un estraneo alla famiglia
del sottoposto che veniva adottato. A differenza del passato, tale adozione non
estingueva più il vincolo di agnazione con la famiglia originaria, ma aggiungeva
nuove aspettative ereditarie in favore dell’adottato: si parlava di adoptio minus
plena “adozione non completa”.
Come già si è visto per gli schiavi, anche ai figli il pater familias concede un
peculio, che non scalfiva l’unità del patrimonio familiare, in quanto la titolarità
dei beni facenti parte del peculio rimaneva sempre al pater familias, mentre il
figlio abile e dinamico poteva incrementarlo, di fatto, talvolta anche in misura
consistente.
E, come accadeva per gli schiavi, i creditori insoddisfatti del figlio ricevevano
tutela processuale dal pretore tramite apposite azioni esercitabili contro il pater
familias per i debiti non pagati dal suo sottoposto.
Qualora il figlio non ne disponesse per testamento, alla sua morte il peculio
castrense entrava nel patrimonio del pater familias come un normale peculio.
I creditori, quand’anche agissero dopo che i figli erano diventati persone sui
iuris, vedevano paralizzata la loro pretesa da un’apposita eccezione processuale.
Infine, nel III periodo, comparve un’altra tipologia di peculio speciale, detto
peculio quasi castrense, che contemplava beni e diritti acquistati dal figlio
nell’esercizio di funzioni pubbliche o ecclesiastiche e nella professione forense:
come per il peculio castrense, anche di questo peculio il figlio poteva godere e
disporre per testamento.
Le donne in manu
Nel I periodo, il pater familias acquisiva il potere potestativo (manus) sulla
donna entrata nella famiglia come sua moglie o come moglie di un discendente
maschio mediante la conventio in manum, che accompagnava oppure seguiva
l’inizio di un matrimonio legittimo (iustae nuptiae) contratto con lui o con uno
dei propri discendenti maschi.
Se invece la donna che andava sposa era sui iuris – caso raro nel I
periodo –diveniva una sottoposta del marito (se egli è pater familias) o
dell’avente potestà sul marito (se non è pater familias).
Se la donna che andava sposa era persona sui iuris tale rimaneva, e non avveniva
più la successione universale dei suoi beni a favore del marito (o del pater
familias del marito).