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Proprietà e possesso
All’atto della fondazione mitica Romolo consegnò a tutti un eredium che consiste in una casa e in un
terreno: da questa matrice politica deriva il meum esse nel dominium. L’ager pubblicus è quella parte
di terra appartenente al popolo romano, non si ha dunque titolo ereditario, assegnatario o trasferito. Lo
sfruttamento economico è collegato con un fatto e non con titolo giuridico: qui si radica l’istituto
giuridico del possesso. Il possessore gode di disponibilità sulla cosa e di animus possidendi.
Intorno al III secolo a.C., per ovviare alle esigenze dei traffici economici con non romani (peregrini), si
affermò nella vita economica (e poi giuridica) il contratto consensuale della compravendita (emptio
venditio, meno formale ma uguale causa). La mancipatio divenne uno strumento con funzione di
donazione, di successione o di acquisizione della mano su una donna (coemptio), di emancipazione. I
giuristi romani parlarono complessivamente di gesta per aes et libram (negozi compiuti attraverso il
ricorso al bronzo e alla bilancia).
La in iure cessio è il riadattamento del mezzo procecessuale legis actio sacramenti in rem in funzione
del trasferimento di proprietà o altro diritto su un cosa. Presso il tribunal del magistrato l'acquirente
affermava che il bene che intendeva acquistare "gli apparteneva’ e l'alienante, invece di contrapporre
la sua affermazione di proprietà (come rei vindicatio) restava in silenzio, il magistrato provvedeva ad
assegnare all’acquirente, di autorità, l'oggetto della (fittizia) controversia.
Le XII tavole disponevano che, per i terreni e gli edifici, il possesso indisturbato (usucapione)
conducesse all'acquisto della proprietà dell'immobile in capo a due anni; le ceterae res (tutte quelle
‘cose’ come i compendi ereditari, servitù rustiche) potevano essere invece usucapite in un anno.
Nel quadro della procedura formulare, pregiudiziale, l'attore promuoveva l'azione affermando in iure la
sua posizione di proprietario nei riguardi del bene controverso, chiedendo la restituzione della res o
una condanna del convenuto al controvalore in denaro: formula petitoria (simbolo della rei vindicatio
nel sistema formulare).
Le novità, rispetto al processo per legis actiones, consistevano nella regolarità di una condemnatio
pecuniaria. Nel corso del processo il giudice prima di emanare la sentenza di condanna poteva invitare
il convenuto a restituire; se il convenuto non avesse restituito volontariamente la cosa controversa,
arbitrato iudicis, il giudicante poteva condannarlo sulla valutazione svolta dall’attore quanto al valore
del bene oggetto di rivendica. Là dove il reus avesse preferito trattenere il bene e non restituirlo,
pagando il valore della cosa fissato dal convenuto, diveniva proprietario dell'oggetto: il pagamento
della summa condemnationis era infatti modo di acquisto della proprietà.
Legittimato ad agire attivamente con la rei vindicatio era il proprietario non possessore. Legittimato
passivo nella rei vindicatio, o convenuto, era il possessore del bene controverso. Costui, poteva
tranquillamente limitarsi ad attendere che il petitor provasse il proprio diritto.
Un aspetto critico dell'azione di rivendica era dato dalla possibile indefensio del convenuto: se il
convenuto si fosse rifiutato di rem defendere e cooperare alla instaurazione del iudicum, il pretore, là
dove la controversia riguardasse un immobile, poteva emanare l'interdictum quem fundum: si trattava
di un ordine d'impero al convenuto di effettuare il trasferimento del possesso del bene all'attore. Al
convenuto che fosse in grado di farlo conveniva realizzare la translatio possessionis diversamente
rischiava le conseguenze di uno svantaggioso processo interdittale.
In diritto giustinianeo la rei vindicatio è nuovamente l'azione a tutela del diritto reale di proprietà, ben
distinta dalle actiones in personam volte generalmente a tutelare diritti di credito; si implementarono
alcune modifiche: la possibilità di convenire in giudizio non solo il possessore, ma anche il detentore
del bene e la creazione per i legittimati passivi della categoria generale dei ficti possessores, che
includeva chi si fosse ‘offerto’ di coprire il reale possessore o chi si fosse dolosamente liberato del
possesso del bene per evitare di essere convenuto in giudizio.
La proprietà pretoria
La possibilità di esperire la rei vindicatio per far valere in giudizio anche la titolarità di res nec mancipi
avrebbero portato alla progressiva emersione di una nuova tipologia di appartenenza: il meum essa
aio. Formulata sulla base del dominus ex iure quiritium, attribuendo la qualifica di erus o di dominus.
Il dominium ex iure Quiritium è definito nelle fonti ius proprium civium Romanorum, diritto tipico degli
appartenenti al populus Romanus (edifici e res in territorio romano o italico). Nelle province la terra era
considerata di proprietà del populus Romanus: il giurista antonino definiva la condizione di tali soggetti
possessio vel ususfructus, essi erano considerati concessionari dei terreni o possessori con l’obbligo
di versare corrispettivo (Gaio parla di duplex dominium). Si parla dunque di proprietà pretoria (in
bonis habere). Con la traditio si acquistava, sulle res mancipi, solo un 'possesso qualificato', quello
che avrebbe condotto all'usucapione nel volgere di un biennio in caso di res mancipi immobile, e di
un anno nell'ipotesi di res mancipi mobile. Il rischio dell'assenza di tutela si profilava nel caso in cui
l'acquirente, prima che si compisse il tempus ad usucapionem, fosse spossessato da un terzo: egli
non disponeva infatti della rei vindicatio. Il pretore riconosce l’actio Publiciana, un azione fittizia,
considerando che fosse già passato il tempo necessario ad usucapii: si potevano respingere le
pretestuose asserzioni del dominus-attore attraverso l’exceptio rei vendita et traditae.
La comunione
In diverse situazioni la proprietà di un bene è garantita a più persone come ‘comunione incidentale’
o ‘comunione volontaria’. Originariamente l'organizzazione gentilizia comportava, tra famiglie communi
iure quindi della stessa gens una sorta di "comunanza domestica': ne derivava che i componenti liberi
della famiglia fruivano liberamente delle res del patrimonio collettivo.
Una forma di comunione più vicina a quella evoluta fu integrata dal c.d. consortium ercto non cito.
Si trattava alle origini di una comunione (ereditaria) che si instaurava tra i figli alla morte del proprio
pater, in cui bene primario era l'interesse del gruppo. Alla morte del padre, al fine di conservare lo
stesso 'potere politico’, era dunque opportuno che i fratelli mantenessero unito il patrimonio familiare,
per ripartirlo solo nel momento in cui ciascuno di loro avesse raggiunto, autonomamente, un patrimonio
tale da consentirgli l'iscrizione individuale nella stessa classe di censo cui era appartenuto vivo patre.
A partire verosimilmente dal primo principato iniziò una riflessione sul principio che una cosa non
poteva appartenere a, o essere posseduta per intero' da, una pluralità di persone. Tale idea condusse
alla elaborazione del diritto del condomino come frazione del dominum sulla cosa, e al transito dalla
impostazione della comunione come 'proprietà plurima integrale' a quella dello stesso diritto come
‘proprietà plurima parziaria', fondata, si diceva, su una ripartizione in quote astratte del tutto.
Ciascun condomino poteva disporre liberamente, nel corso della comunione, della sua quota (ad es.
trasferendola a terzi); la partecipazione di ciascun contitolare del bene agli oneri e agli utili implicati
dallo struttamento della res communis era proporzionale alla quota di ciascuno; il potere decisionale
di ciascun condomino era pertanto commisurato alla quota di cui disponesse, e più condomini
potevano collegarsi fra loro, formando una maggioranza di quote che avrebbe potuto decidere delle
sorti del bene comune. Era ancora possibile per un comproprietario, opporre il veto ad attività
individuali di altri condomini che incidessero sulle sorti della cosa comune (ius prohibendi). Fu reso,
nel corso del principato, inefficace da accordi preventivi fra condomini che consentissero alla
maggioranza di prevalere sulla minoranza dissenziente.
In sede giudiziaria esisteva l'actio familiae erciscundae, volta a sciogliere la comunione incidentale,
ereditaria e assai risalente era quella per il regolamento di confini che ristabilisce le quote di
appartenenza dei titolari. Poi per la communio di età repubblicana e classica il rimedio concesso fu
l’actio communi dividundo. Essa poteva essere esperita da uno qualsiasi dei contitolari, e conduceva
oltre alla individuazione delle porzioni materiali di res spettanti a ciascun condomino, alla ripartizione
dei frutti e delle spese originati dalla cosa comune, nonché alla soluzione di eventuali problemi di
responsabilità e risarcimento reciproco. Il regime rimase invariato anche nel tardoantico.
Uno dei modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo è la traditio. La traditio poteva avere diverse
cause. Se essa veniva effettuata dal dominus del bene con la precisa volontà di alienarlo a terzi essa
era efficace a realizzare il trasferimento della proprietà immediato in caso di alienazione di res nec
mancipi, necessitante di usucapione là dove l'oggetto della traditio fosse una res mancipi.
Usucapione
La giurisprudenza classica determinò che perché si acquistasse il dominium su un bene attraverso
usucapio dovesse essere presente una serie di requisiti: il bene doveva essere una res habilis ad
usucapionem; l'usucapiente doveva esercitare sulla res un possesso valido per il ius civile: il bene
non doveva trovarsi, cioè, presso di lui, a titolo di detenzione; il possesso del bene doveva essere
supportato da una ‘giusta causa’;il possesso del bene, oltre che continuativo e titolato, doveva essere
fondato sulla bona fides dell'usucapiente: quest'ultimo doveva cioè essere convinto di non ledere,
attraverso la propria azione, alcun diritto altrui; il possesso ininterrotto doveva durare per un certo
periodo di tempo. In età repubblicana e nel principato, come si è detto a più riprese, doveva protrarsi
per due anni per le res soli e per un anno quanto alle ceterae res (di regola res mancipi mobili, come
schiavi o animali da tiro e da soma). In epoca tardoantica i termini perché si verificasse usucapione si
allungarono, portando alla emersione di un istituto nuovo, la praescriptio longi temporis (beni
immobili almeno dieci anni se i soggetti risiedevano nella stessa città).
Le situazioni possessorie
Accanto ai beni considerati essenziali per la sopravvivenza e la crescita della familia, ciascun pater
aveva infatti a disposizione e usava altre cose:’possesso extra-Quiritario’. Le res nec mancipi furono
considerate oggetto di un mero rapporto materiale, per il quale l'unica possibilità di difesa era in via di
autotutela (fino all’introduzione della rei vindicatio anche per queste).
Un pater, o una gens, che disponesse di un surplus di terra (ager gentilicius), poteva concedere ad
altro pater, o a un cliens, la possibilità di coltivare l'ager per trarne sostentamento: con lo strutturarsi
della città-stato è possibile che Roma prevedesse l’attribuzione a titolo di precatium estensioni
dell’ager pubblicus. Un'ulteriore ipotesi si diede, poi, per il caso in cui un pater concedesse in
utilizzazione (usus) un suo sottoposto o una sua res mancipi ad altro pater familias (precarium). A
livello giuridico si concesse la possibilità di usucapire, poteva essere o meno presente l’auctoritas ma
se il reale titolare non si fosse fatto parte attiva entro due anni o un anno il ‘possessore’ sarebbe
diventato dominus del bene.
Il possesso relativo a res mancipi connota come in bonis habere, derivato del possesso definito in età
decemvirale dal binomio usus - auctoritas, una forma di 'possesso qualificato', che alcune fonti
definiscono anche possessio ad usucapionem. Una situazione nella quale un soggetto, pur non
essendo dominus della res mancipi che gli era stata trasferita mediante semplice traditio, la possedeva
"'come fosse sua’ (pro-suo), in quanto a seguito del debito decorso del tempo ne sarebbe divenuto
proprietario.
Tutela del possesso
Con alcuni interdetti il pretore ordinava al convenuto, su richiesta dell'attore, di compiere illico et
immediate l'azione richiesta da quest'ultimo: ripristinare uno status quo ante che fosse stato alterato;
esibire un oggetto che la parte tenesse presso di sé, astenersi da un certo comportamento.
Gli interdetti rivolti alla conservazione del possesso i c.d. interdicta (prohibitoria) retinendae
possessionis sono di due tipi. Il più antico, relativo al possesso di beni immobili, era l'interdictum uti
possidetis, e il ‘molestato poteva ottenerne la concessione entro un anno dal momento in cui si era
manifestata la turbativa. Là dove la turbativa del possesso riguardasse un bene mobile, si parla di
interdictum utrubi, il magistrato vietava ogni tipo di turbativa, subordinando tuttavia il divieto al fatto
che il richiedente non avesse ottenuto precariamente il possesso, il pretore poteva intercedere anche
per chi tra i due avesse avuto il bene nell’anno precedente.
Un secondo gruppo di interdetti era quello. recuperandae possessionis, volti a recuperare, a colui che
avesse posseduto sino a poco tempo prima un bene, la res di cui era stato spossessato. L'ingiunzione
ad opera del prator era diretta alla reintegrazione dello spoliatus (interdcitum unde vi). Da Cicerone
abbiamo infine notizia di un diverso 'provvedimento ingiuntivo’ per spoglio, il c.d. interdictum de vi
armata: il magistrato ordinava con esso, a chi avesse effettuato una deiectio da un immobile non solo
in modo violento, ma anche con l'uso delle armi, di restituire l’immobile.
Altre qualificazioni
In considerazione del fatto che, in riferimento a determinate situazioni in cui il possesso cortispondeva
all'esercizio di un ius in re aliena, il pretore interveniva concedendo una tutela interdittale ad hoc. i
giuristi in alcuni casi qualificarono il legittimato a servirsi di tale tutela come quasi possessor, e la sua
condizione come quasi possessio. Nel tardoantico si finì, a tale riguardo, per contrassegnare ipotesi
quelle assimilabili come situazioni di "possessio iuris".