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V. Sciarrino – M. Ruvolo
Artt. 519-527
2. La volontà di rinunziare:
Per il compimento di un valido atto di rinunzia all’eredità si richiedeva la piena capacità di agire del
rinunziante. Era reputata invalida la rinunzia operata da chi si fosse trovato al momento dell’atto, per
qualsiasi causa, in stato d’incoscienza, anche temporanea.
Nel caso di eredità devolute a minori, interdetti ed inabilitati occorreva rispettare alcune formalità
prescritte dalla legge, pena invalidità dell’atto rinunziativo.
In particolare i minori che si trovavano sotto la patria potestà non potevano porre in essere
autonomamente un valido atto di rinunzia; neppure il padre poteva decidere liberamente di accettare
o di rinunziare all’eredità devoluta al figlio, infatti, qualora il genitore avesse reputato opportuno non
fare accettare al figlio l’eredità a lui offerta doveva previamente ottenere l’autorizzazione del
Tribunale.
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Nel caso di minore sottoposto a tutela, il rappresentante legale richiedeva l’autorizzazione del
Consiglio di famiglia.
I minori emancipati e gli interdetti (sia per infermità di mente che in conseguenza di condanna
penale) abbisognavano dell’assistenza del curatore, nonché della deliberazione del Consiglio di
famiglia omologata dal Tribunale.
Per gli inabilitati bastava invece la semplice assistenza del curatore.
Con riferimento alle persone giuridiche nulla si diceva in merito alla rinunzia. Al riguardo però la
dottrina sosteneva che la rinunzia all’eredità doveva essere autorizzata dalle autorità alle quali
competeva la loro tutela e la loro vigilanza.
Veniva considerata priva di valore giuridico la volontà di rinunziare manifestata ioci causa (per
scherzo/per gioco) perché non espressione di una volontà reale di non divenire eredi.
La volontà doveva essere seria, piena, illimitata ed esente da vizi. Alla rinunzia non potevano apporsi
condizioni o termini né essa poteva farsi limitatamente ad una sola parte di eredità .
In merito ai vizi del consenso, occorre precisare che il codice civile del 1865 escludeva espressamente
l’errore dalle cause d’invalidità dell’accettazione all’eredità ma nulla diceva in relazione alla rinunzia
inficiata da tale vizio. Cosi al riguardo sono sorte diverse idee:
1) Secondo taluni, tutti e tre i vizi del consenso potevano essere invocati per rendere priva di validità
la rinunzia; dunque l’invalidità della rinunzia pure in presenza di errore.
2) Secondo un’altra soluzione, soltanto il dolo e la violenza invalidano il consenso, non l’errore.
3) Secondo altri autori invece in merito all’errore occorreva distinguere a seconda che tale vizio fosse
caduto sull’entità del patrimonio ereditario ovvero sui motivi che avevano indotto il chiamato a non
accettare la delazione.
Con riferimento alla prima fattispecie veniva ulteriormente differenziata l’ipotesi in cui la rinunzia
fosse stata fatta in base ad un’inesatta valutazione del valore di uno o più beni ereditari o del relictum
nel suo complesso da quella in cui il chiamato si fosse determinato a rinunziare ignorando l’esistenza
di rilevanti cespiti ereditari.
Nel primo caso l’impugnazione della rinunzia veniva generalmente esclusa perché il valore della cosa
dipendeva dal suo rapporto con gli altri beni e con il potere di acquisto del denaro, con la conseguenza
che tale valore essendo relativo non veniva mai considerato dalla legge come qualità sostanziale della
cosa. L’errore non poteva essere invocato dal rinunziante nemmeno nel caso in cui si fossero scoperti
come inesistenti quei debiti ereditari che avevano indotto il chiamato a rinunziare o laddove la
rinunzia fosse stata determinata dall’erronea credenza che il passivo superasse l’attivo.
L’invalidità della rinunzia era esclusa anche ove si fosse accertata la nullità del testamento che
imponeva al chiamato, oneri talmente gravosi, da non lasciare prevedere che dopo il loro
adempimento fosse residuato alcun utile o ancore se si fosse scoperto un testamento posteriore a
quello che istituiva erede il rinunziante in cui i detti pesi fossero stari revocati.
Nel secondo caso, cioè laddove il chiamato avesse rinunziato ignorando l’esistenza di consistenti beni
ereditari, la dottrina considerava ammissibile l’impugnazione della rinunzia.
Rilevante era considerato anche l’errore che cadeva sui motivi della rinunzia all’eredità , sempre che i
motivi fossero stati la causa unica o principale della determinazione a rinunziare.
L’invalidità poteva essere fatta valere solo dal rinunziante o dai suoi rappresentanti legali e poteva
essere rilevata nei limiti della prescrizione quinquennale; il termine quinquennale veniva fatta
decorrere dal giorno in cui era cessata la violenza o era stato scoperto il dolo, o per chi riteneva
rilevante l’errore, dal giorno in cui quest’ultimo era stato scoperto.
Non invalido ma inesistente era considerato l’atto rinunziativo affetto da errore ostativo.
Infine il chiamato che si trovava nel possesso dei beni ereditari perdeva il diritto di rinunziare
all’eredità decorsi tre mesi dall’apertura della successione o dalla notizia della devoluta eredità .
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3. Gli effetti della rinunzia:
L’art 945 c.c disciplinava gli effetti dell’atto rinunziativo sancendo che “chi rinunzia all’eredità è
considerato come se non vi fosse mai stato chiamato” (primo comma) e che “la rinunzia però non lo
esclude dal poter chiedere i legati a lui fatti” (secondo comma).
Da queste disposizioni discendevano importanti conseguenze che riguardavano non soltanto la sfera
giuridica dello stesso rinunziante ma anche quella dei terzi, cioè coeredi, eredi, creditori e legatari.
Per quanto riguarda gli effetti diretti che si producevano nei confronti del chiamato, si riteneva che la
rinunzia eliminasse la stessa vocazione ereditaria, cioè il rinunziante doveva considerarsi come un
soggetto che non fosse mai stato chiamato alla successione. Sempre in tema di effetti diretti, avvenuta
la rinunzia e per l’effetto retroattivo della stessa, dal giorno dell’apertura della successione il
rinunziante perdeva il possesso dei beni ereditari a lui attribuito per legge e doveva restituire il
capitale, i beni, gli accessori ed i frutti a coloro che in suo luogo avessero raccolto l’eredità o in assenza
di questi al curatore dell’eredità giacente.
Egli veniva pertanto considerato come un amministratore estraneo che aveva cura di una cosa che
non gli apparteneva. Non poteva essere convenuto in giudizio né dai creditori ereditari, né dai
legatari, né in genere da altre persone titolari di diritti da far valere contro l’erede, essendo del tutto
privo di legittimazione passiva.
Colui che rinunziava alla delazione poteva comunque trattenere le donazioni a lui fatte dal de cuius
senza dispensa di collazione; se invece fosse stato previsto l’obbligo di collazione delle donazioni
ricevute, quest’obbligo sarebbe cessato per effetto della rinunzia, avendo il rinunziante perso la sua
qualità di erede. Il rinunziante poteva poi richiedere i legati disposti a suo favore a colui che, coerede o
erede di grado successivo, avesse accettato l’eredità .
Per quanto riguarda gli effetti indiretti della rinunzia, cioè nei confronti di soggetti diversi dal
rinunziante, la legge espressamente escludeva la possibilità della rappresentazione a favore dei
discendenti del rinunziante. Al riguardo l’art 947 c.c sanciva che “nessuno succede rappresentando un
erede che abbia rinunziato: se il rinunziante è il solo erede nel suo grado o se tutti i coeredi
rinunziano, subentrano i figli per diritto proprio e succedono per capi”, cioè se taluno rinunziava
all’eredità i figli potevano ricevere la quota del padre soltanto quando fossero stati i successibili del
grado più prossimo.
Quindi esclusa la rappresentazione, gli effetti che si producevano nei confronti degli altri chiamati
dovevano essere distinti a seconda che la successione fosse stata legittima o testamentaria.
Nel caso di successione legittima l’art 946 c.c sanciva che “la parte di colui che rinunzia si accresce ai
coeredi chiamati nello stesso ordine del rinunziante; se è solo, la successione si devolve al grado
susseguente”. Qualora nel grado successivo si fossero trovati più chiamati, l’accettazione compiuta da
uno di essi non avrebbe attribuito al suo autore un diritto esclusivo sull’eredità ed un diritto di
accrescimento sulla porzione degli altri finché per quest’ultimi la facoltà di accettare non si fosse
prescritta o non si fosse perduta per altre ragioni.
Nel caso di successione testamentaria l’art 948 c.c sanciva che “la parte del rinunziante si devolve ai
coeredi od agli eredi legittimi com’è stabilito dagli artt. 880 e 883”. Quindi per individuare la persona
alla quale sarebbe andata la quota del rinunziante occorreva distinguere a seconda se tra i coeredi
chiamati con il rinunziante vi fosse stato o meno il diritto di accrescimento.
Nel primo caso, la quota si accresceva ai coeredi chiamati congiuntamente nello stesso testamento e
con una sola e stessa disposizione senza che il testatore avesse fatto tra essi distribuzione di parti.
Ogniqualvolta non ha luogo il diritto di accrescimento, la porzione dell’erede mancante è devoluta agli
eredi legittimi del testatore ed in mancanza di essi allo Stato.
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4. L’irrevocabilità dell’atto di rinunzia:
Una volta manifestata la volontà di rinunziare, il chiamato era escluso dalla successione e veniva
considerato come se non fosse mai stato chiamato all’eredità ; pertanto la rinunzia veniva considerata
come un atto non revocabile.
L’effetto dell’irrevocabilità si produceva soltanto in presenza di una valida ed efficace rinunzia; tale
effetto non poteva avere luogo in presenza di una rinunzia inesistente o invalida.
La rinunzia era inesistente in primo luogo quando non veniva rispettata la solennità della forma ed in
secondo luogo quando mancava la sottoscrizione del cancelliere che riceveva l’atto rinunziativo o
quando mancava la firma del rinunziante o del suo mandatario.
La rinunzia era invalida quando era inficiata da uno dei vizi del consenso o se aveva ad oggetto
un’eredità futura o un’eredità diversa da quella alla quale il successibile credeva di rinunziare o
ancora se non era registrata nel registro delle successioni o se operata da chi non aveva la piena
capacità di agire.
La rinunzia era reputata nulla se aveva luogo in seguito ad un atto di accettazione compiuto
anteriormente dallo stesso rinunziante.
Per la validità della rinunzia era necessario inoltre che il chiamato non fosse decaduto dalla facoltà di
accettare l’eredità . Decade il chiamato che si trovava nel possesso dei beni ereditari se, decorsi tre
mesi dall’apertura della successione o dalla notizia della devoluta eredità , non avesse osservato le
disposizioni circa il beneficio di inventario o colui che avesse sottratto o nascosto effetti spettanti
all’eredità . Il chiamato decaduto diviene erede puro e semplice.
In presenza di rinunzia all’eredità inesistente o invalida il rinunziante ritornava nella stessa
condizione in cui si trovava prima di manifestare la sua volontà di non essere erede, pertanto egli
poteva o rinunziare nuovamente, in maniera valida, oppure decidere di accettare l’eredità , puramente
o con beneficio d’inventario.
Tuttavia il principio dell’irretroattività subiva qualche eccezione.
In particolare l’art 950 c.c. affermava che per potersi pentire della compiuta rinunzia occorrevano due
presupposti: la mancata accettazione dell’eredità da parte di altri chiamati e la mancata prescrizione
del diritto di accettare l’eredità nei confronti di colui vi avesse rinunziato e cioè il mancato decorso di
un trentennio dal giorno dell’apertura della successione.
Si è ritenuto inoltre che qualora il rinunziante fosse morto prima del decorso del trentennio, il diritto
di accettare un’eredità ripudiata si trasmetteva ai suoi successori, nel rispetto delle due condizioni
richieste dall’art 950 c.c.
Nell’ipotesi in cui vi fossero stati più eredi del rinunziante, quello che per primo avesse revocato la
rinunzia del comune dante causa avrebbe accettato l’intera eredità , impedendo agli altri eredi di
esercitare a loro volta la facoltà di revoca. E ciò perché chi revocava la rinunzia ed accettava l’eredità
non poteva accettarla in parte ma doveva accettarla per intero.
Inoltre si riteneva che il diritto di revoca della rinunzia all’eredità potesse esercitarsi anche in via
surrogatoria dai creditori del rinunziante a norma dell’art 1234 c.c.
L’accettazione, anche se successiva alla rinunzia, poteva essere fatta puramente o con beneficio
d’inventario. Inoltre anche in mancanza di un’espressa previsione legislativa, si riteneva che la revoca
dovesse essere fatta con controdichiarazione presso la cancelleria in cui la rinunzia all’eredità era
stata operata, cosicché gli interessati potessero averne pubblicamente notizia.
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L’esercizio dell’azione presupponeva che non fosse ancora intervenuta l’accettazione da parte di altri
chiamati; in caso contrario i creditori non potevano essere autorizzati ad accettare l’eredità in nome e
luogo del rinunziante perché altro erede o coerede era già a questi subentrato.
Si riteneva che tale azione potesse essere esercitata anche da coloro il cui diritto di credito, all’atto
della rinunzia, non fosse ancora esigibile stante la pendenza di una condizione sospensiva o la
presenza di un termine di pagamento, purché al momento dell’esercizio dell’azione la condizione
sospensiva si fosse avverata o il termine fosse venuto a scadere.
Tale rimedio era invocabile soltanto dai creditori del rinunziante e non dai legatari. La ragione di
questo limite si rinviene nel fatto che la rinunzia non pregiudicava il pagamento dei legati in quando i
legatari potevano rivolgersi a chi avrebbe accettato in luogo del rinunziante o eventualmente, in
mancanza di eredi, al curatore dell’eredità giacente.
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Capitolo II: Natura giuridica, caratteri ed oggetto della rinunzia all’eredità nel
sistema vigente
1. L’atto di rinunzia:
In seguito all’introduzione del codice civile del 1942,nel sistema italiano non esiste una disciplina
normativa generale dell’atto di rinunzia che individui e circoscriva la fattispecie, ma esistono
numerose norme che trattano della rinunzia nel contesto di differenti istituti.
Funzione tipica della rinunzia: si tratta di un atto meramente abdicativo con il quale il soggetto si
limita a dismettere la posizione di potere di cui è titolare. La rinunzia, infatti, determina soltanto la
perdita, il distacco del diritto da parte del rinunziante realizzando quindi un effetto meramente
dismissivo, separando la situazione giuridica soggettiva dal suo titolare. Con la rinunzia, quale atto
unilaterale, il titolare di una situazione giuridica soggettiva se ne spoglia volontariamente; l’atto
dismissivo è compiuto puramente e semplicemente, nel senso che il suo autore intende soltanto
escludere un diritto dal suo patrimonio indipendentemente dall’effetto che da tale spoliazione derivi
nella sfera giuridica di altri soggetti e indipendentemente dalla sorte che a seguito di tale atto subisca
il rapporto giuridico.
L’effetto estintivo non deve essere considerato come necessariamente connesso all’atto rinunziativo.
Laddove l’estinzione abbia luogo, essa va reputata come effetto riflesso e secondario.
Per effetto principale o essenziale s’intende quello senza il quale non può aversi la fattispecie, quindi
l’effetto che caratterizza la fattispecie medesima.
Per effetto riflesso s’intende quello che non trova la sua causa nella fattispecie produttiva dell’effetto
principale ma solo ed esclusivamente in quest’ultimo.
Per effetto secondario s’intende quello che può esservi o no, ed anche se ne manchi la previsione, la
fattispecie resta la stessa.
Pertanto possiamo affermare che alla rinunzia non segue necessariamente l’estinzione della
situazione giuridica. A conferma di ciò facciamo alcuni esempi:
L’art 2814 c.c prevede che nel caso in cui il diritto di usufrutto si estingue per rinunzia l’ipoteca su di
esso perdura fino a quando non si verifica l’evento che altrimenti avrebbe prodotto l’estinzione
dell’usufrutto. Il diritto di usufrutto quindi nonostante la rinunzia da parte del suo titolare, non si
estingue e perdura nell’interesse del creditore ipotecario.
L’art 2816 comma 2 c.c prevede che se il diritto di superficie e quello di proprietà si riuniscono nella
medesima persona per cause diverse dalla devoluzione per decorso del termine, le ipoteche sulla
superficie continuano a gravare su di essa. Il diritto di superficie dunque nonostante la rinunzia non si
estingue.
L’art 2815 c.c prevede che nel caso in cui la riunione dell’enfiteusi e della proprietà nella medesima
persona avviene per cause diverse dalla devoluzione o dalla cessazione per scadenza del termine o
dalla prescrizione, l’ipoteca non si estingue e continua a gravare separatamente i due diritti.
La rinunzia è una delle facoltà che costituiscono il contenuto del diritto soggettivo.
Ne consegue che i diritti oggetto della rinunzia devono trovarsi nel patrimonio di colui che pone in
essere l’atto rinunziativo.
L’unico soggetto legittimato a rinunciare è il titolare del diritto; quindi mentre un diritto soggettivo
può essere trasferito anche ad opera di chi non è dello stesso il titolare, la rinunzia può essere operata
soltanto dal titolare del diritto oggetto dell’atto abdicativo.
La rinunzia non potrà avere ad oggetto i cc.dd. diritti della personalità .
La rinunzia abdicativa, che è la rinunzia vera e propria, va tenuta distinta da altre figure ed in
particolare dalla rinunzia traslativa, che in realtà è una vera e propria alienazione caratterizzata oltre
che dal distacco del diritto dal suo titolare, da una manifestazione di volontà di quest’ultimo a che altri
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divenga titolare dello stesso diritto; da una successiva volontà di accettazione da parte del soggetto
destinatario dell’atto di disposizione, nonché dall’unicità della causa.
La rinunzia abdicativa va tenuta distinta la rinunzia satisfattiva liberatoria dove la funzione liberatoria
non riguarda tanto l’obbligazione gravante sul beneficiario dell’atto, quanto quella che grava sul
rinunziante; cosi la funzione satisfattiva liberatoria si qualifica come estintiva di una posizione
complessa del dichiarante.
La rinunzia infine va tenuta distinta dalla remissione del debito, dato che a quest’ultima si ricollega
direttamente e casualmente la liberazione del debitore e dunque si realizza un vantaggio economico
per lo stesso; mentre nella rinunzia (abdicativa) l’effetto a favore del terzo è soltanto indiretto e
mediato. In particolare la remissione del debito non determina la sola estinzione della titolarità del
diritto del creditore remittente ma anche la liberazione del debitore dall’obbligo di adempimento.
Natura giuridica della rinunzia: la rinunzia è un negozio giuridico, un atto volontario di regolamento
d’interessi posto in essere dal chiamato, al quale l’ordinamento ricollega conseguenze conformi al suo
contenuto e che fa cessare retroattivamente al giorno dell’apertura della successione. Chi rinunzia
all’eredità , infatti, è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato; egli quindi resta estraneo ai
rapporti attivi e passivi del de cuius.
In particolare si tratta di un atto inter vivos, perché produce i suoi effetti durante la vita del soggetto
che lo compie, unilaterale e non recettizio.
La rinunzia regola soltanto gli interessi del suo autore, producendo i suoi effetti esclusivamente nella
sfera giuridica di quest’ultimo impedendogli di subentrare nella complessa situazione giuridica
soggettiva facente capo al de cuius.
La rinunzia all’eredità si perfeziona con la semplice dichiarazione di volontà del chiamato, il quale non
è tenuto a portare la rinunzia a conoscenza di terzi né a renderla a quest’ultimi conoscibile.
È da escludere che la rinunzia integri un atto personalissimo, infatti essa, cosi come l’accettazione
all’eredità , può essere effettuata tramite rappresentante legale o volontario al quale sia stata conferita
procura nella stessa forma prevista per l’atto di rinunzia.
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Egli, infatti, al momento della rinunzia è ancora privo della qualità di erede.
Non vi è dubbio, infatti, che, un atto di rinunzia presuppone l’abbandono, la dismissione di un diritto
di cui si è già titolari. Senza contare poi che se l’acquisto mortis causa fosse già avvenuto, la rinunzia
sarebbe ormai preclusa perché l’eredità , una volta accettata, non può più essere rinunziata o
abbandonata (principio semel heres semper heres).
L’impossibilità di spogliarsi della qualità di successore a titolo universale si giustifica, da un punto di
vista patrimoniale, con il fatto che essendo la qualità di erede fonte, oltre che di diritti, anche di
obblighi, non ci si può liberare unilateralmente di posizioni giuridiche dannose in quanto fonte di
diritti altrui.
Da un punto di vista personale e morale, tale impossibilità si giustifica nel fatto che l’erede non è tanto
l’acquirente di un patrimonio ma colui che viene investito di una qualità personale, cioè quella di
successore a titolo universale del de cuius. La qualità di erede, come qualità personale, non può
costituire oggetto di atto di disposizione ed è irrinunciabile.
È fattispecie diversa dalla rinunzia all’eredità l’abbandono di singoli beni ereditari: in questo caso
l’erede di spoglia soltanto di specifici diritti sui beni pervenutigli per successione, ma non della qualità
di successore a titolo universale che anzi l’atto di disposizione presuppone.
Lo stesso vale qualora l’erede abbia perso i singoli diritti sui beni ereditari per altrui usucapione o per
non uso.
Vista l’imprecisione della formula legislativa, in proposito sono state elaborate molteplici costruzioni
tra loro differenti.
Secondo taluni l’atto di rinunzia non riguarda l’eredità ma il diritto di accettarla, e quindi la situazione
giuridica della quale il rinunziante è già titolare per effetto della delazione e che è trasmissibile agli
eredi ai sensi dell’art 479 c.c.
Altri autori ritengono invece che si tratti di un atto con il quale si fanno cessare gli effetti della
delazione verificatisi nei confronti del chiamato ovvero di un atto che determina una perdita soltanto
provvisoria del diritto all’eredità .
È in realtà preferibile ritenere che l’istituto disciplinato dagli artt. 519 c.c non sia una vera e propria
rinunzia ma un atto di rifiuto, attraverso il quale il chiamato non si spoglia di diritti già entrati nel suo
patrimonio ma impedisce un acquisto respingendo una complessa posizione giuridica che gli viene
offerta con la delazione ereditaria.
D’altronde è il rifiuto e non la rinunzia la manifestazione negativa del potere di accettare. L’opposto di
accettare non è dunque il rinunziare ma il rifiutare.
A conferma di ciò si esprime l’art 521 c.c secondo il quale il rinunziante si considera come se non fosse
mai stato chiamato all’eredità ; dunque una norma difficilmente conciliabile con la tesi della rinunzia
intesa quale dismissione, quale perdita di un diritto di cui si è titolari e quindi con l’idea di un
depauperamento del patrimonio del rinunziante.
Inoltre la rinunzia non fa venir meno la delazione; essa verrà meno soltanto, secondo il disposto
dell’art 525 c.c, se concorreranno altre circostanze e cioè qualora sia prescritto il termine decennale
per accettare, ovvero l’eredità sia stata accettata dai chiamati di grado successivo rispetto al
rinunziante, ovvero ancora, in presenza di chiamati di pari grado, per effetto dell’accrescimento, si sia
determinata l’espansione delle quote dei conchiamati.
Pertanto il mancato acquisto non può considerarsi equivalente ad un impoverimento che importa la
diminuzione del patrimonio del disponente.
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preceduto o sia contestuale ad un accordo con i beneficiari dello stesso anche in ordine alla
corresponsione ed all’entità del corrispettivo da versarsi da parte di quest’ultimi.
Nel caso in cui si ritenesse che la rinunzia all’eredità acquisti, nell’ambito di determinate fattispecie, la
connotazione di atto bilaterale dovrà poi valutarsi se essa possa essere distinta dai negozi traslativi
ovvero se con essi si identifichi. Ad esempio ogni qualvolta alla rinunzia sia direttamente ed
immediatamente ricollegabile un incremento dell’altrui sfera giuridica, l’atto volitivo non potrebbe
più considerarsi atto unilaterale di rinunzia ma negozio con funzione traslativa. Vanno pertanto
considerati anche gli effetti incrementativi che si producono nella sfera giuridica di terzi, distinguendo
le ipotesi in cui tali effetti si realizzano in via diretta da quelle in cui invece si producono in via
indiretta e mediata.
4.2.1 - La rinunzia a favore di tutti i chiamati: in questa fattispecie non vi è nulla di diverso rispetto
alla rinunzia fatta puramente e semplicemente e senza l’indicazione dei soggetti a favore dei quali la
stessa è compiuta. Non vi dubbio infatti che, una volta avvenuta la rinunzia, l’eredità sarà devoluta a
tutti i conchiamati, ove ve ne siano, o a tutti i chiamati di grado successivo.
L’aggiunta della precisazione << a favore di tutti i chiamati>> nulla muta in ordine alla natura dell’atto
nonché in merito alla sua struttura onerosa/gratuita.
In parte diverso è il caso in cui il chiamato dichiari di rinunciare all’eredità gratuitamente a favore di
tutti i chiamati. L’assenza di corrispettivo e l’intento esplicito di beneficiare i conchiamati o i chiamati
di grado successivo non bastano a rendere l’atto una donazione, considerato che anche in questo caso
l’effetto del vantaggio a favore di tutti i chiamati sarebbe ugualmente scaturito da una mera rinunzia
in quanto sempre tutti i chiamati avrebbero acquistato in luogo del rinunziante.
A ciò si aggiunge che la donazione è un contratto mentre la rinunzia all’eredità è un atto unilaterale;
l’atto dunque, non modifica l’ordine successorio.
Tuttavia, la precisa qualificazione di gratuità e l’esplicito intento di favorire gli altri chiamati
potrebbero portare a qualificare l’atto come donazione indiretta se l’animus che lo colora è un animo
di liberalità , cioè la rinunzia in questione può ritenersi donazione indiretta solo se il chiamato la
compie dichiarando di agire al solo fine di beneficiare i successivi chiamati.
Diverso è il caso in cui la dichiarazione di rinunzia, gratuita ed a favore di tutti i chiamati, sia
contenuta in un testo negoziale in cui alla detta dichiarazione segua un’accettazione da parte del
conchiamato o dei chiamati di grado successivo che della rinunzia vengono a beneficiare.
In questa ipotesi si ricade nella previsione dell’art 519 secondo comma c.c : la rinunzia all’eredità pur
rimanendo atto unilaterale è inserita in un contesto negoziale bilaterale o plurilaterale.
La rinunzia di cui all’art 519 secondo comma c.c. è dunque una vera e propria rinunzia.
Le parti alle quali fa riferimento quest’ultima disposizione sono quindi coloro che, in quanto
destinatari della delazione a seguito della rinunzia, hanno interesse a che la dichiarazione rinunziativa
del chiamato di grado precedente sia fatte nelle forme stabilite dall’art in esame.
Non si tratta pertanto delle parti della rinunzia ma delle parti dell’accordo negoziale che contiene una
dichiarazione di rinunzia.
Si ricorda che sull’interpretazione parti sono state formulate in dottrina altre tesi.
Per taluni le parti sono coloro che hanno partecipato all’accordo avente ad oggetto la cessazione dei
diritti ereditari, anche se invalido. La stessa dottrina ritiene poi, che il riferimento ad una delle parti si
potrebbe giustificare anche facendo riferimento al caso in cui l’accordo di donazione non si sia ancora
perfezionato ma sia in fieri. La dichiarazione di rinunzia si pone in questi casi come proposta di
donazione o come accettazione di un’altrui richiesta di donazione non conforme alla proposta; le parti
sono allora le parti del futuro accordo.
Altra dottrina invece afferma che le parti sono coloro che hanno partecipato, insieme al chiamato, ad
un accordo con il quale quest’ultimo si è obbligato a porre successivamente in essere un atto di
rinunzia all’eredità . Le parti possono cosi ottenere che, in esecuzione dell’accordo, la rinunzia abbia la
forma prescritta dall’art 519 c.c. Tale inciso si riferisce alla sola formalità dell’inserzione nel registro
delle successioni.
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Ritornando alla rinunzia all’eredità effettuata gratuitamente in favore di tutti i chiamati e contenuta in
un testo negoziale (donazione indiretta), può sostenersi che coloro che prendono parte a tale negozio
possono a seguito della dichiarazione rinunziativa, porre in essere un atto di accettazione dell’eredità
immediatamente valido ed efficace senza dovere prima accettare anche la rinunzia del chiamato di
pari grado o di grado precedente.
Deve quindi ritenersi che un’eventuale accettazione contenuta nel negozio bilaterale o plurilaterale
posta in essere dai conchiamati o dai sub chiamati non vada riferita alla rinunzia ma costituisca una
vera e propria accettazione all’eredità , che produce anche l’effetto di rendere irrevocabile la stessa
rinunzia.
È possibile anche che il notaio riceva, in un unico documento, la dichiarazione unilaterale di rinunzia e
l’accettazione dell’eredità del chiamato o dei chiamati in luogo del rinunziante.
In questo caso, la rinunzia e l’accettazione rimangono, distinti atti unilaterali anche se contenuti in un
unico contesto documentale.
Dalla fattispecie esaminata va poi distinta quella che vede il chiamato all’eredità dichiarare di porre in
essere, dietro corrispettivo, un atto di rinunzia in favore di tutti i conchiamati o i chiamati di grado
successivo. In questo caso il chiamato pone in essere un atto di disposizione dell’eredità che importa
l’accettazione della stessa.
Il corrispettivo pattuito costituisce una vera e propria controprestazione ed il negozio andrà
considerato bilaterale o plurilaterale (a seconda del numero delle parti), oneroso, nonché soggetto a
trascrizione (ove abbia ad oggetto beni immobili o mobili registrati).
Laddove quindi la rinunzia sia prevista, nell’ambito di un negozio bilaterale o plurilaterale, dietro
corrispettivo, non si è in presenza di una vera e propria rinunzia.
Va infine precisato che l’accettazione posta in essere dai chiamati di grado successivo non costituisce
accettazione dell’eredità . L’eredità infatti non è più priva di titolare essendo già stata accettata dal
rinunziante.
L’accettazione dunque ha ad oggetto la proposta contrattuale di cessione dei diritti ereditati dal
disponente.
4.2.2 - La rinunzia a favore di uno soltanto dei chiamati o di alcuni di essi: atto di disposizione che
importa accettazione: in relazione a tale ipotesi occorre tenere distinta la rinunzia posta in essere a
titolo gratuito dal caso in cui è stato previsto un corrispettivo. A tal ultimo proposito va osservato che
ai sensi dell’art 478 c.c qualunque rinunzia all’eredità fatta verso corrispettivo importa accettazione.
Il rinunziante dispone, dietro corrispettivo, dei suoi diritti successori in favore di uno o di alcuni dei
chiamati dello stesso grado o di grado successivo. Dall’esclusione di taluni chiamati discende la
conseguenza che i non esclusi acquistino anche il diritto che sarebbe spettato agli esclusi, se questa
limitazione non avesse avuto luogo.
Il negozio di disposizione dei diritti successori presuppone la titolarità , in capo al rinunziante, dei
diritti oggetto del negozio stesso, e dunque richiede l’accettazione dell’eredità ; accettazione che in
realtà si verifica contestualmente al compimento dell’atto di disposizione che è un atto che
presuppone la volontà di accettare del chiamato e che quest’ultimo non avrebbe il diritto di fare se
non nella qualità di erede.
I chiamati che vengono avvantaggiati per effetto della rinunzia acquistano il compendio ereditario in
base ad un accordo con il quale viene anche determinata la natura e la misura del corrispettivo.
Tale corrispettivo sarà di regola versato dall’unico chiamato o dai singoli chiamati beneficati.
Non è però da escludere che esso sia corrisposto da un terzo che adempie in luogo dell’obbligato o
degli obbligati. In quest’ultimo caso sarà configurabile un atto di donazione indiretta da parte del
terzo che versa il corrispettivo, sempre che questi non ne richieda poi, in forza di surroga o di
regresso, la restituzione ai chiamati beneficati dal rinunziante.
Una donazione indiretta in favore di quest’ultimi è altresì configurabile nell’ipotesi in cui la rinunzia
dietro corrispettivo sia stato oggetto di un negozio concluso da altri in loro favore ed intercorso quindi
tra il rinunziante ed un terzo.
Un atto di rinunzia a favore di uno o di alcuni dei conchiamati o dei chiamati di grado successivo
rispetto al rinunziante può poi anche essere contenuto in un negozio a titolo gratuito.
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Non si tratta di un atto unilaterale di rifiuto ma di una vera e propria disposizione dei diritti pervenuti
per effetto della successione, disposizione che non può che considerarsi quale accettazione tacita
dell’eredità .
4.2.3. La rinunzia concordata: occorre valutare anche i casi in cui il chiamato abbia rinunziato
all’eredità dopo aver concordato con tutti i chiamati o i chiamati di grado successivo di rinunziare in
loro favore.
La rinunzia rimane sempre un atto unilaterale, ma essa è posta in essere in esecuzione di un obbligo
precedentemente assunto nei confronti degli altri chiamati.
Ciò comporta che la presenza di eventuali vizi della volontà rinunziativa deve essere accertata con
riferimento al momento della formazione dell’accordo produttivo di effetti obbligatori e non in quello
del compimento del successivo atto di rinunzia.
L’accordo in questione costituisce un negozio bilaterale o plurilaterale non traslativo, considerato che
con esso il chiamato non trasferisce alla controparte la posizione giuridica di cui è titolare né tanto
meno i diritti successori.
Con tale negozio, infatti, il chiamato si obbliga soltanto a rinunziare, cioè a porre successivamente in
essere un valido atto di rinunzia all’eredità al fine di attuare la causa del primo negozio.
Per quanto attiene al contenuto dell’accordo, è possibile che il chiamato si sia impegnato a rinunziare
gratuitamente o dietro corrispettivo.
Vi sono diverse ipotesi:
1) Una prima ipotesi ricorre nel caso in cui una convenzione preveda una rinunzia da effettuarsi
gratuitamente a favore di tutti i chiamati partecipanti all’accordo. In questo caso si configura una
donazione diretta di carattere obbligatorio con la quale il chiamato all’eredità assume nei confronti
della controparte un’obbligazione che è quella di compiere un atto rinunziativo al fine di determinare
un arricchimento dei donatari.
2) Una seconda ipotesi ricorre nel caso in cui il chiamato conviene con i conchiamati o i chiamati in
subordine una futura rinunzia gratuita all’eredità a favore di uno solo o di alcuni di essi. Anche in
questo caso è configurabile nell’accordo tra le parti una donazione diretta di carattere obbligatorio tra
rinunziante e beneficato/i qualora quest’ultimi abbiano partecipato al negozio ed abbiano accettato.
Nell’ipotesi invece in cui il beneficato non abbia preso parte all’accordo è configurabile un contratto a
favore di terzo. Con l’accordo in questione quindi si obbliga a rinunziare non soltanto il primo
chiamato ma anche tutti coloro che sono vocati nello stesso grado o in un grado precedente rispetto al
beneficato.
3) Un’ulteriore fattispecie attiene ai rapporti tra con chiamati o chiamati di grado successivo non
beneficati da un lato, e chiamato beneficato dall’altro. È possibile che tra gli stessi sia stato o meno
pattuito un corrispettivo; i primi infatti possono essersi impegnati a rinunziare a loro volta dietro
corrispettivo. Occorre distinguere poi a seconda che il corrispettivo convenuto sia dato o anche
soltanto promesso da parte di tutti i conchiamati o i chiamati di grado successivo o soltanto da parte
del chiamato beneficato o dei chiamati beneficati dall’accordo. Nel primo caso è configurabile una
donazione indiretta da parte dei chiamati non beneficati a favore di quelli beneficati laddove l’importo
sia corrisposto con animo liberale da tutti i chiamati beneficati e non. Di donazione indiretta deve poi
parlarsi anche nell’ipotesi in cui il corrispettivo pattuito venga versato interamente dai chiamati non
beneficati dalla rinunzia.
Per quanto attiene alla causa del negozio a proposito della rinunzia dietro corrispettivo non preceduta
da accordo, essa sarà differente a seconda della tipologia del corrispettivo pattuito, cioè a seconda che
sia stato convenuto il pagamento di un prezzo, il trasferimento di un diritto, l’esecuzione di una
prestazione di facere o non facere o il compimento di altra rinunzia da compiersi dalla controparte.
Infine è da escludere la validità di una promessa unilaterale di rinunzia perché non espressamente
prevista dalla legge, stante il principio di tipicità delle promesse unilaterali.
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5. Termine per l’atto di rinunzia:
In assenza di una norma che ponga al chiamato all’eredità un termine entro il quale compiere l’atto
rinunziativo, è da ritenere che anche per la rinunzia vale lo stesso termine di prescrizione previsto per
l’accettazione. La rinunzia quindi può compiersi fino a quando non sia trascorsi dieci anni
dall’apertura della successione.
Nel caso di delazione condizionata, la rinunzia, cosi come l’accettazione, può compiersi ancor prima
del verificarsi della condizione; la sua efficacia però sarà sospesa fino all’avveramento della
condizione.
Qualora invece il termine per accettare l’eredità sia stato abbreviato anche quello per rinunziare
dovrà ritenersi parimenti ridotto (artt. 481, 485 e 487 c.c.).
L’art 481 c.c sancisce nel termine fissato dall’autorità giudiziaria a seguito dell’esercizio dell’actio
interrogatoria il chiamato deve dichiarare se intende accettare o rinunziare all’eredità . Trascorso
invano tale termine il chiamato perde il diritto di accettare e dunque anche quello di rinunziare.
L’art 485 c.c prevede che se nel termine di tre mesi decorrente dall’apertura della successione il
chiamato all’eredità non redige l’inventario egli è considerato erede puro e semplice e perde quindi il
diritto di rinunziare. La norma stabilisce altresì che se il termine per l’inventario è stato rispettato, nei
successivi quaranta giorni il chiamato che non ha ancora fatto la dichiarazione a norma dell’art 484 c.c
deve deliberare se accettare o rinunziare all’eredità . Il silenzio sul punto lo rende erede puro e
semplice, facendo cosi venir meno il suo potere di rinunziare all’eredità . Ed una volta verificatosi
l’acquisto, un’eventuale dichiarazione rinunziativa deve considerarsi del tutto irrilevante.
L’art 487 c.c prevede che nel caso in cui il chiamato non sia nel possesso dei beni ereditari e nel caso
in cui egli abbia redatto l’inventario senza aver previamente dichiarato di accettare l’eredità , dovrà
manifestare la sua volontà entro i successivi quaranta giorni, pena la perdita del diritto di accettare e
di rinunziare.
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Colui che rinunzia a far valere le disposizioni testamentarie in suo favore non potrà pertanto
pretendere una quota diversa da quella rinunziata. Laddove invece tutti i soggetti destinatari delle
disposizioni testamentarie rinunzino a far valere il testamento, si apre la successione legittima.
Va infine osservato che la rinunzia a far valere il testamento può talvolta produrre gli stessi effetti
della rinunzia all’eredità . Ciò avviene quando il testamento sia stato redatto esclusivamente in favore
del rinunziante che non sia anche successore legittimo del testatore e che pertanto caduto l’atto mortis
causa non verrà chiamato alla successione in forza della delazione legale; o laddove l’atto di ultima
volontà sia redatto a favore di più chiamati ma la rinunzia a far valere il testamento sia stata compiuta
da parte di uno solo di essi e non da tutti coloro che sono vocati ex testamento.
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Capitolo III: Presupposti della successione
ESEMPIO: L’ipotesi più frequente di applicazione dell’art 485 c.c è quella del decesso di un soggetto
coniugato. Il coniuge infatti, nella maggior parte dei casi, si trova nel possesso dei beni ereditari
appartenuti al congiunto.
Ci si chiede allora se il coniuge su persiste possa invocare l’inapplicabilità dell’art 485 c.c
ogniqualvolta il possesso dei beni relitti sia limitato alla casa coniugale ed ai beni mobili che la
corredano, beni ai quali egli ha comunque diritto quale legatario ex art 540 c.c.
Ciò nel caso in cui egli sia intenzionato a rinunziare all’eredità per non assumere alcuna responsabilità
per i debiti ereditari ma sia comunque interessato a conseguire il legato abitativo e mobiliare ed a
godere dei relativi diritti di abitazione e di uso.
A prescindere dalla fattispecie di cui all’art 540 c.c, il conseguimento del legato è indipendente
dall’acquisto all’eredità , potendo il chiamato che rinunzia all’eredità trattenere i legati a lui devoluti,
cosi come viceversa, egli può accettare la delazione a titolo universale e rifiutare i legati.
Dunque se un soggetto si trova contemporaneamente nella posizione di legatario e di chiamato quale
erede legittimario, le attribuzioni previste in suo favore a diverso titolo devono considerarsi del tutto
autonome l’una rispetto all’altra.
Deve pertanto ritenersi che la rinunzia all’eredità non determina automaticamente e necessariamente
anche il rifiuto del legato di abitazione e di uso oppure viceversa si potrebbe accettare l’eredità e
rifiutare il legato legale.
Alla luce di quanto detto deve escludersi che la disposizione di cui all’art 485 c.c possa determinare
l’acquisto automatico della qualità di erede in capo al consorte rimasto in vita laddove il possesso,
richiesto dalla norma, riguardi in realtà soltanto l’abitazione coniugale ed i beni mobili che la
corredano.
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O ancora all’ipotesi contemplata dall’art 557 c.c, secondo il quale il chiamato che abbia sottratto o
nascosto beni spettanti all’eredità decade dalla facoltà di rinunziarvi e nonostante la sua rinunzia si
considera erede puro e semplice.
Infine la perdita del diritto di accettare può conseguire alla sopravvenuta inefficacia della disposizione
testamentaria o all’indegnità del chiamato, dopo l’apertura della successione, prima ancora che questi
abbia posto in essere un atto di accettazione dell’eredità .
4. La capacità di agire:
Il compimento di un valido negozio di rinunzia alla delazione richiede la piena capacità di agire;
pertanto non possono rinunziare all’eredità quelle persone che non sono in grado di accettarla.
Il potere di rinunziare si accompagna, infatti, al potere di accettazione: chi può validamente accettare
l’offerta all’eredità può sempre rifiutarla respingendola.
In mancanza della capacità legale e non essendo la rinunzia alla delazione ereditaria un atto
personalissimo, essa può essere compiuta, a seconda dei casi, tramite rappresentante legale ovvero
dallo stesso incapace con la dovuta assistenza e con le opportune autorizzazioni.
In particolare, nel caso di eredità devoluta a minori non emancipati sottoposti a potestà genitoriale
l’atto di rinunzia può essere compiuto dai genitori congiuntamente o dal solo genitore che esercita in
via esclusiva la potestà ma soltanto nel caso di necessità o utilità evidente per lo stesso minore e
previa autorizzazione del giudice tutelare.
Lo stesso dicasi nel caso di eredità devolute a soggetti interdetti.
Tuttavia, essendo difficoltoso accertare con immediatezza un’utilità economica nell’atto di rinunzia ad
un’eredità devoluta a soggetti incapaci (eredità che al fine di evitare il rischio di perdite va accettata
sempre con beneficio di inventario) occorre che la passività risulti in maniera evidente.
Non è però da escludere che la necessità o l’evidente utilità di rinunziare all’eredità devoluta
all’incapace ricorrano quando il compendio ereditario si presenti come attivo. In questi casi l’interesse
sotteso all’atto di rinunzia può essere anche solo di natura morale.
Nel caso, invece di soggetti parzialmente incapaci (minori emancipati ed inabilitati), la rinunzia
all’eredità è uno di quegli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione per il compimento dei quali
occorre l’assistenza del curatore, oltre che l’autorizzazione del giudice tutelare.
Tali soggetti parzialmente incapaci potranno dunque manifestare, seppure con le cautele appena
indicate, personalmente la volontà di rinunziare.
Occorre ricordare che anche per coloro che sono, totalmente o parzialmente, incapaci vale lo stesso
termine decennale previsto dall’art 480 c.c entro il quale manifestare la volontà di accettare o
rifiutare.
Anche nel caso di delazione a favore di soggetto incapace è possibile per chiunque vi abbia interesse
adire l’autorità giudiziaria per la fissazione di un termine entro il quale questi dovrà manifestare la
sua volontà di accettare o rinunziare all’eredità (art 481 c.c.).
Occorre però precisare che in questo caso il termine fissato dall’autorità giudiziaria non può essere
brevissimo, considerato che l’accettazione o la rinunzia dell’eredità da parte dell’incapace richiede pur
sempre un’autorizzazione giudiziale che deve essere ottenuta naturalmente prima che sia spirato il
termine fissato.
Bisogna altresì tenere in considerazione i tempi necessari per la redazione dell’inventario qualora il
chiamato ritenga opportuno redigerlo prima della dichiarazione di accettazione e non in seguito ad
essa.
Nel fissare il termine, l’autorità giudiziaria deve poi considerare anche l’eventuale inerzia del
rappresentante legale o di chi assiste l’incapace, inerzia che può portare alla nomina di un curatore
speciale.
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L’azione di annullamento è regolata dalle stesse norme che disciplinano l’annullamento dei contratti
cioè artt. 1442 ss. c.c sia per quanto attiene alla prescrizione sia per quanto riguarda la legittimazione.
Pertanto essa è soggetta a prescrizione quinquennale.
Essendo poi l’annullabilità prevista nel solo interesse dello stesso incapace, la legittimazione
all’esercizio dell’azione è relativa ed è riconosciuta soltanto ai soggetti di volta in volta dalla legge
indicati.
In particolare:
- per quanto attiene all’eredità devolute a minori sottoposti a potestà genitoriale l’art 322 c.c prevede
che tale legittimazione spetta ai genitori esercenti la potestà , al figlio, ai suoi eredi ed aventi causa;
- per l’eredità devolute ai minori sottoposti a tutela l’art 377 c.c prevede che la legittimazione spetta al
tutore, al minore, ai suoi eredi ed aventi causa;
-per la rinunzia compiuta dall’interdetto personalmente gli artt 377-424-427 c.c prevedono che la
legittimazione spetta al tutore, all’interdetto, ai suoi eredi ed aventi causa;
-relativamente al minore emancipato l’art 396 c.c prevede che la legittimazione spetta al minore, ai
suoi eredi ed aventi causa;
-per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti dall’inabilitato senza l’osservanza delle
formalità richieste gli artt 396-424-427 c.c prevedono che la legittimazione spetta all’inabilitato, ai
suoi eredi ed aventi causa.
17
Possono, infatti, fruire dell’amministratore di sostegno alcune categorie di soggetti che erano escluse
dall’interdizione e dall’inabilitazione. Si pensi ad esempio a chi è affetto da patologie transitorie e/o
cicliche ed a chi si trova in condizioni di mera debolezza psichica che non si traduce in una vera e
propria patologia, oppure a coloro che presentano uno stato patologico che interessa la sfera psichica
del quale può prevedersi una guarigione entro un breve tempo.
Possono poi domandare la nomina di un amministratore di sostegno i soggetti depressi o gli anziani in
situazioni di disagio anche soltanto fisico. Occorre precisare però che l’età avanzata non è considerata
un presupposto per poter emettere un provvedimento di amministratore di sostegno ma occorre che
essa dia luogo per l’anziano ad una limitazione apprezzabile delle funzioni della vita quotidiana.
L’amministrazione di sostegno non può disporsi in presenza di una mera difficoltà pratica del soggetto
a relazionarsi con gli altri.
Per quanto attiene all’individuazione del discrimen tra l’amministrazione di sostegno da un lato e
l’interdizione e l’inabilitazione dall’altro, secondo taluna giurisprudenza esso in realtà riguarderebbe
soltanto la sfera degli effetti. Si è in proposito affermato che il mantenimento degli istituti
dell’interdizione e dell’inabilitazione non significa che gli stessi abbiano presupposti di applicabilità
del tutto diversi da quelli dell’amministrazione di sostegno, ma significa semplicemente che gli stessi
hanno effetti diversi.
In senso analogo, parte della dottrina ha osservato che la formula dell’art 404 c.c (Amministrazione di
sostegno) non fa alcun riferimento, a differenza degli artt 414 (Persone che possono essere interdette)
e 415 (Persone che possono essere inabilitate),ad una graduazione dell’infermità psichica. Da qui la
conclusione che non vi sono ragioni per escludere che l’amministratore di sostegno rappresenti
un’opzione protettiva ulteriore rispetto alla pronuncia dell’interdizione e dell’inabilitazione di fronte a
qualsiasi infermità psichica.
Secondo altro orientamento, il criterio discretivo deve essere rinvenuto nella consistenza e nella
complessità del patrimonio dell’infermo. Si è in particolare affermato che di fronte ad una situazione
patrimoniale particolarmente florida che richieda una gestione in una molteplicità di direzioni (beni
immobili, titoli obbligazionari, partecipazioni sociali) l’interdizione rappresenta lo strumento più
adeguato a tutela degli interessi della persona; laddove invece si tratti di un patrimonio non
particolarmente florido, il giudice tutelare potrà ritenere congrua la sottoposizione dell’infermo di
mente all’amministratore di sostegno.
Recentemente sull’argomento si è pronunciata la Corte di Cassazione, secondo la quale
l’amministrazione di sostegno si distingue dall’interdizione sotto il profilo funzionale.
La giurisprudenza della legittimità ha affermato che non può escludersi che in presenza di patologie
particolarmente gravi possa farsi ricorso sia all’uno che all’altro strumento di tutela, e che soltanto la
specificità delle singole fattispecie e delle esigenze da soddisfare di volta in volta possano determinare
la scelta tra i diversi istituti.
La scelta non può non essere influenzata dal tipo di attività che deve essere compiuta in nome del
beneficiario della protezione. Ad un’attività minima ed estremamente semplice e tale da non rischiare
di pregiudicare gli interessi del soggetto corrisponderà l’amministrazione di sostegno; per
controverso ove si tratti di gestire un’attività complessa, da svolgere in una molteplicità di direzioni,
ovvero nei casi in cui appai necessario impedire al soggetto da tutelare di compiere atti
pregiudizievoli per sé, lo strumento più idoneo è l’interdizione.
Nonostante tali presupposti applicativi, la Corte di Cassazione ha affermato che l’ultima parola spetti
sempre al singolo giudice il quale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, può decidere se
dare luogo all’interdizione o all’amministrazione di sostegno.
Il nostro codice civile dispone:
Art 404 c.c prevede che può essere assistito da un amministratore di sostegno colui che a causa di
un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica si trova nell’impossibilità , anche parziale o
temporanea, di provvedere ai propri interessi.
Art 414 c.c invece prevede che possono essere interdetti il maggiore di età ed il minore emancipato i
quali si trovano in condizione di abituale infermità di mente che li rende incapaci a provvedere ai
propri interessi, quando ciò sia necessario per assicurare la loro adeguata protezione.
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L’infermità psichica che consente l’apertura di un’amministrazione di sostegno deve dare luogo ad
una mera impossibilità . Al contrario l’infermità mentale che giustifica una pronunzia d’interdizione
deve comportare una vera e propria incapacità .
L’impossibilità allude ad una situazione in cui un soggetto non sia in grado di sfruttare le potenzialità
di cui dispone e di occuparsi pertanto appieno della cura dei propri interessi.
Siffatta impossibilità può coesistere con la capacità legale o può essere la conseguenza di una
situazione che ha transitoriamente paralizzato o ridotto la capacità di agire.
L’infermità psichica che consente la nomina di un amministratore di sostegno non deve essere grave.
Maggiore è la gravità , più il giudice riterrà opportuno avvalersi dell’istituto dell’interdizione.
L’art 407 c.c secondo comma (Procedimento) prevede che il giudice tutelare deve sentire la persona
destinataria del provvedimento e tenere conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di
protezione della persona, dei suoi bisogni e delle sue richieste.
L’art 410 c.c primo e secondo comma ( Doveri dell’amministratore di sostegno) dispone che
l’amministratore di sostegno debba, nell’espletamento dei suoi compiti tenere conto dei bisogni e
delle aspirazioni del beneficiario e debba tempestivamente informare lo stesso beneficiario circa gli
atti da compiere.
L’art 409 c.c ( Effetti dell’amministratore di sostegno) sancisce al primo comma che il beneficiario del
sostegno conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non sono stati indicati nel provvedimento di
nomina dell’amministratore. Al secondo comma afferma che il beneficiario dell’amministrazione di
sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita
quotidiana (es. spese per l’acquisto di generi alimentari, biglietto dell’autobus, del giornale, ecc); tutte
spese che non possono determinate un apprezzabile sacrificio economico a carico dell’agente.
Dunque l’amministrato non perde la capacità di agire se non relativamente ai singoli atti indicati nel
decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno. Per tutti gli altri atti egli conserva pertanto la
capacità legale.
L’interdetto invece non è più autonomo e dipende integralmente dal tutore. L’interdizione non si
fonda su di un dialogo tra interdetto e tutore e quest’ultimo ha il dovere di prendersi cura del tutelato,
di trovare un’adeguata collocazione, di individuare modalità di assistenza anche contro la volontà del
soggetto. L’interdizione pertanto non si fonda su un semplice sostegno ma su di un’integrale
sostituzione.
La scelta della misura protettiva non deve essere quindi operata in relazione alla situazione
patrimoniale dell’interessato.
Il presupposto per la nomina di un amministratore di sostegno, di un tutore o di un curatore deve
individuarsi nelle condizioni personali del soggetto e non del suo patrimonio.
L’unica ipotesi in cui l’amministrazione di sostegno può essere disposta nei casi di infermità grave e
con poteri invasivi analoghi a quelli del tutore non soltanto sotto il profilo patrimoniale ma anche
sotto quello personale è quella previsto dall’art 405 c.c comma 4.
Si tratta comunque di una misura temporanea che dovrà lasciare presto il posto, finita la situazione di
emergenza, allo strumento di protezione dell’incapace ritenuta a secondo del caso più opportuna.
L’art 405 c.c prevede che il giudice tutelare debba fare espressa indicazione degli atti che
l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del destinatario e degli atti che il
beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno, con la conseguenza
che l’amministrazione sostitutiva può pure coesistere con l’amministrazione di sostegno.
Sul modo di intendere i rapporti tra l’amministrazione di sostegno da un lato, e l’interdizione e
l’inabilitazione dall’altro, si è pronunciata anche la Consulta.
È compito del giudice individuare l’istituto che, da un lato, garantisca all’incapace la tutela più
adeguata alla fattispecie e dall’altro, limiti nella minore misura possibile la sua capacità e consente,
ove la scelta ricada sull’amministratore di sostegno, che l’ambito dei poteri dell’amministratore sia
puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto.
La Consulta ha affermato che secondo il nuovo testo dell’art 411 comma 4 c.c il giudice tutelare, nel
provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno o successivamente, può disporre che
determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o
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l’inabilitato, si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Ne discende che in nessun
caso i poteri dell’amministratore possono coincidere integralmente con quelli del tutore o del
curatore. Dunque all’amministratore di sostegno vanno riconosciuti soltanto poteri più circoscritti
rispetti a quelli del tutore.
Occorre adesso chiedersi come il beneficiario di un’amministrazione di sostegno possa validamente
compiere un atto di rinunzia all’eredità .
Qualora l’accettazione e la rinunzia dell’eredità siano indicati tra quegli atti per i quali è prevista la
sostituzione, trova applicazione l’art 374 cc, norma dettata in tema di interdizione.
Dunque l’amministratore di sostegno non può compiere alcun atto di accettazione all’eredità devoluta
al beneficiario o di rinunzia alla medesima senza previa autorizzazione del giudice tutelare. E
nell’ipotesi di accettazione della delazione, questa deve avvenire con beneficio d’inventario.
Nel caso invece in cui la rinunzia dell’eredità sia indicata tra quegli atti per i quali è sufficiente
l’assistenza, anche il beneficiario partecipa alla formazione della volontà in ordine al rifiuto della
delazione. Pure in questo caso occorre comunque l’autorizzazione del giudice tutelare.
Laddove invece l’accettazione e la rinunzia dell’eredità non siano comprese tra gli atti che necessitano
di un sostegno, il beneficiario è libero di manifestare personalmente e da solo la sua volontà in ordine
alla delazione, non essendo stata per nulla compressa sul punto la sua capacità di agire.
L’art 412 c.c sancisce espressamente l’annullabilità degli atti posti in essere personalmente dal
beneficiario in violazione delle disposizioni di legge o di quelle contenute nel decreto che istituisce
l’amministrazione di sostegno. Stessa sanzione è prevista per l’ipotesi di atto compiuto
dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge, quale l’art 374 c.c norma che
prescrive l’autorizzazione del giudice tutelare per gli atti di accettazione e di rinunzia all’eredità .
Per gli atti compiuti personalmente dal beneficiario, sono legittimati all’esercizio dell’azione di
annullamento l’amministratore di sostegno, il beneficiario stesso, i suoi eredi e gli aventi causa.
In presenza invece di un atto compiuto dall’amministratore di sostegno in violazione delle
disposizioni di legge o in eccesso rispetto all’oggetto dell’incapacità o ai poteri conferitigli dal giudice,
possono promuovere l’azione di annullamento l’amministratore stesso, il pubblico ministero, il
beneficiario, i suoi eredi e gli aventi causa.
L’azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni, che decorre da quando è cessato lo
stato di sottoposizione all’amministrazione di sostegno.
20
La successione del nascituro non concepito, a differenza di quella del concepito, presuppone una
delazione testamentaria (art. 462 c.c. primo e terzo comma). Dunque l’equiparazione al nato riguarda
soltanto il nascituro concepito e non anche il non concepito. Nel caso del concepito esiste un’alta
probabilità che la nascita del chiamato alla successione abbia luogo: la situazione di attesa e
d’incertezza è limitata al solo periodo della gestazione. Nel caso del non concepito la venuta ad
esistenza del chiamato è ancora più incerta, se non aleatoria: la situazione di attesa ed incertezza può
protrarsi ancora più a lungo, forse anche decenni.
L’ equiparazione del concepito al nato non è però così effettiva e completa, infatti l’ art. 462 c.c. si pone
in contrasto con l’ art. 1, primo comma, c.c., disposizione che collega l’ acquisto della capacità giuridica
(nella quale è compresa la capacità a succedere) al momento della nascita. L’interpretazione dell’ art.
1, primo comma, c.c. e l’individuazione dei suoi confini ha costituito e costituisce l’ oggetto di un
dibattito sempre aperto nella prospettiva del riconoscimento di una tutela al concepito. Tale norma
introduce il concetto di soggetto di diritto e di soggettività che l’ordinamento riconosce e attribuisce al
momento della nascita. Il concepito non è un soggetto di diritto.
Ma può il concepito considerarsi individuo portatore di interessi meritevoli di tutela? Può
considerarsi una persona?
La discussione dottrinale, sviluppatasi sul punto, ha portato ad affiancare all’ idea di esistenza nel
diritto positivo (art. 1 c.c.) quella di esistenza nel diritto sociale: la prima legata al concetto di soggetto
di diritto, la seconda a quella di persona. Ma tale biforcazione non è stata sufficiente: l’ embrione,
secondo l’ interpretazione dottrinale e giurisprudenziale dominate, non è considerato neppure
persona, quantunque non si possa nemmeno dire che si tratti di una res ( cosa non destinata alla vita).
Tale dibattito è stato per molto tempo agganciato al profilo patrimonialistico. Artefice della crisi della
soggettività deve considerarsi la responsabilità civile. Il dibattito sull’ interpretazione dell’ art. 1 c.c. si
è infuocato quando ci si è chiesti se il danno subito dal concepito fosse risarcibile e quindi se il feto
danneggiato fosse titolare di un diritto soggettivo al risarcimento. In seguito , in occasione dell’
interesse verso il tema della fecondazione assistita e della relativa regolamentazione (l. 40/2004), il
dibattito relativo alla soggettività giuridica del concepito si è sganciato dal profilo patrimonialistico: il
concepito non è più oggetto di attenzione nella qualità di futuro titolare di un diritto al risarcimento
del danno subito nella vita prenatale ma viene visto come il frutto del concepimento (che non si
identifica in una mera portio viscerum della madre) che ha una propria dignità derivante dal fatto che
esso è destinato alla vita.
Vi sono stati numerosi tentativi volti ad una corretta e coerente lettura dell’ art. 1 c.c. e dell’ art. 462
c.c.: viene superata l’ idea ottocentesca (del codice precedente ) di una capacità giuridica attuale e
immediata del nascituro, che diventa contraria alla logica giuridica ed alla disciplina positiva presente
nel nostro attuale codice.
Va ricordata la tesi che facendo leva sul disposto dell’ art. 462 c.c. ha ritenuto che quando la delazione
sia a favore di un nascituro, già concepito, si può eccezionalmente parlare di capacità giuridica
anticipata, seppur ridotta e limitata in quanto costruita soltanto per la conservazione e l’ attribuzione
dei diritti a favore di colui che verrà ad esistenza a seguito della morte del testatore.
Altra dottrina, negato che al concepito possa riconoscersi una capacità di succedere anticipata perché
contraria all’ art. 1 c.c., ha elaborato la c.d. teoria della finzione. Si è ritenuto che il nascituro succede
solo perché, in virtù di una finzione legale, la sua nascita si considera già avvenuta al tempo dell’
apertura della successione. L’ allargamento della capacità è così ottenuto grazie ad un allargamento
dell’ esistenza, che vale solo sul piano delle realtà giuridiche e non di quelle fisiche. Parliamo per ciò di
finzione. In sostanza si afferma che attraverso la retrodatazione della nascita, si amplia la capacità a
succedere del nascituro, fingendolo già nato al momento dell’ apertura della successione. Così si
esclude che al concepito si possa riconoscere una seppur limitata capacità a succedere, soluzione che
oltre a violare l’ art. 1 c.c., porterebbe ad ammettere che la mancata nascita sia da equiparare alla
morte, con la conseguenza che , apertasi la successione dopo il concepimento e prima della morte del
concepito, dovrebbe aversi la trasmissione della delazione agli eredi del concepito, soluzione che
nessuno si sentirebbe di ammettere.
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In una diversa prospettiva, e sempre nel tentativo di spiegare i rapporti tra art. 1 c.c. (primo comma) e
art. 462 c.c. (primo comma), si è anche parlato di capacità giuridica del concepito come di una capacità
provvisoria che diventa definitiva con la nascita.
Le tesi prospettate non appaiono convincenti.
Senza dubbio deve negarsi che possa riconoscersi al concepito una parziale capacità giuridica: la
capacità giuridica e la soggettività giuridica non sono graduabili, esse vanno riconosciute per intero.
In ogni caso, ammettere che il concepito abbia una ridotta capacità giuridica significherebbe
riconoscergli una, seppur limitata, capacità , con la conseguenza che la mancata nascita dovrebbe
equipararsi alla morte. Ciò significherebbe ricollegare alla mancata nascita da vivo l’ estinzione di un
soggetto di diritto. Conseguenze che non possono ammettersi ai sensi dell’ art. 1 c.c..
Né convince la tesi della finzione, dalla quale non si rinvengono gli appigli normativi.
E’ da ritenersi che la soluzione del contrasto tra i due articoli, vada cercata altrove.
Il capoverso dell’art. 1 c.c. “i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati
all’evento della nascita”, specifica che tale norma si deve applicare a fortiori anche ai non concepiti,
così che i diritti che vedono come destinatario il nascituro in genere saranno riconosciuti a
quest’ultimo se e quando egli nascerà . Tale stessa situazione di attesa sussiste sia nel caso del
nascituro concepito che nel caso del nascituro non concepito. L’acquisto dei diritti ereditari da parte
del beneficato presuppone l’ esistenza in vita di quest’ ultimo. Da qui consegue che fin quando non
viene meno la situazione di incertezza la designazione legale o testamentaria non è in grado di
esplicare i suoi effetti tipici. La delazione a favore del nascituro non è attuale, ma non può dirsi che
l’istituzione quale erede o legatario, di un nascituro sia del tutto inefficace.
Può dunque parlarsi di una delazione sospensivamente condizionata, delazione che diverrà attuale
soltanto alla nascita, momento nel quale il chiamato alla successione acquisterà la capacità a
succedere. La delazione si trova in uno stato di pendenza e sarà priva di efficacia se il concepito non
viene ad esistenza.
Non può parlarsi di una delazione sottoposta a condizione risolutiva, come qualche autore ritiene,
affermando che il concepito acquista immediatamente i diritti successori ma che tale acquisto è
destinato a risolversi in caso di mancata nascita. Tale tesi risulta in contrasto con il disposto dell’ art.
1, comma secondo, c.c. che subordina all’ evento della nascita l’ acquisto dei diritti che la legge
riconosce a favore del concepito. Da tale norma si desume che l’ acquisto avrà luogo al momento della
nascita e non che esso si risolverà nell’ ipotesi in cui la nascita non verrà .
La capacità a succedere fino a quando non si è verificata la nascita è soltanto eventuale. L’
equiparazione del concepito a chi è già nato si verifica (art. 462 c.c.-art. 1 c.c.) soltanto a posteriori:
solo una volta avvenuta la nascita l’ ordinamento riconosce al concepito quei diritti che avrebbe già
acquistato se fosse stato in vita al momento dell’ apertura della successione. L’ acquisto opera
retroattivamente con l’ anomalia di dover ritenere giuridicamente, come titolare dei rapporti
patrimoniali del defunto, un soggetto anche per il tempo in cui non esisteva affatto.
Più problematica è la questione relativa alla capacità a succedere del nascituro neppure concepito
considerato che in questo caso mancherebbe lo stesso destinatario della vocazione.
Ai sensi dell’art. 462, comma terzo, c.c. i non concepiti possono essere destinatari di un’ attribuzione
patrimoniale mortis causa e ricevere per testamento. Parte della dottrina ha ritenuto che si abbiano
due delazioni:
Altri hanno considerato l’istituzione a favore del nascituro non concepito come una fattispecie
negoziale a formazione progressiva che si completa e perfeziona al momento della nascita, se e
quando avverrà , ma che retroagisce al momento dell’ apertura della successione. L’ esistenza del
nascituro è considerata un requisito di esistenza e non di efficacia del rapporto successorio.
Queste tesi non convincono.
Non sempre è possibile individuare un soggetto (erede legittimo) chiamato in luogo del nascituro e
destinato a subentrare al de cuius se il nascituro non verrà ad esistenza. Ed anche in relazione di un
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erede legittimo, chiamato all’ eredità in luogo dell’ erede testamentario neppure concepito al tempo
della morte del testatore, è comunque da escludere che la sua presenza possa condizionare la
ricostruzione giuridica dell’ istituzione a favore del nascituro o possa fare considerare persona
composta il successore del de cuius. Né può parlarsi di persona composta laddove il testatore abbia
previsto, per il caso di mancata nascita, una sostituzione. L’istituzione del concepito non si pone qui
sullo stesso piano di quella del sostituto: questo è chiamato in subordine e costituisce persona diversa
dal nascituro.
Né convince la tesi che vede l’istituzione a favore del nascituro non concepito come una fattispecie
negoziale a formazione progressiva. La nascita del nascituro non può considerarsi un requisito di
esistenza del negozio testamentario, questo è strutturalmente perfetto e completo in ogni suo
elemento ancor prima della nascita del destinatario dell’attribuzione mortis causa. Viene soltanto
sospesa la sua efficacia, e ciò perché il suo destinatario non è ancora venuto ad esistenza.
Similmente a quanto detto per il concepito, è bene allora ritenere, anche per il non concepito, di poter
parlare di una delazione sospensivamente condizionata, di una delazione sottoposta alla condizione
legale di una nascita. La venuta ad esistenza del nascituro non è un elemento di completamento della
fattispecie ma soltanto un elemento di efficacia. Una conferma a ciò può trarsi dal disposto dell’ art.
643 c.c. (Amministrazione in caso di condizione sospensiva o di mancata prestazione di garanzia ), tale
norma prevede che quando è chiamato a succedere un nascituro non concepito si applica la stessa
disciplina che regola l’amministrazione dei beni devoluti mortis causa sotto condizione sospensiva.
Sempre in ordine alla capacità a succedere de non concepito è da chiedersi cosa debba intendersi per
“figli” ai sensi dell’ art. 462, comma 3, c.c.. Tali sono da intendersi i figli legittimi o legittimati, i figli
naturali riconosciuti o dichiarati giudizialmente, e nei limiti in cui il riconoscimento è ammesso, i figli
incestuosi. Si ritiene possibile che il testatore limiti la vocazione ai soli figli legittimi o legittimati di
una determinata persona con esclusione di tutti gli altri figli.
Meno certa è l’ applicazione del 3°comma dell’ art. 462 c.c. anche ai figli adottivi. Si discute se il figlio
nascituro non ancora concepito sia equiparabile al figlio non ancora adottato e, di conseguenza, se sia
valida una disposizione testamentaria a favore di colui che sarà adottato da una determinata persona
vivente al tempo del testatore. § In senso negativo si è detto che tale norma è una norma di carattere
eccezionale che riguarda solo il caso di un futuro concepimento. E non può parlarsi di concepimento
non ancora avvenuto con riguardo ad un’ adozione non ancora perfezionatasi. A ciò si è aggiunto che
una disposizione a favore di una persona che sarà adottata da terzo dovrebbe considerarsi nulla
risolvendosi in una disposizione testamentaria con determinazione del beneficiario ad opera di un
terzo e perciò vietata ex art. 631 c.c.. L’ opinione contraria appare in realtà da preferire.
Per effetto dell’ adozione il minore acquista lo status di figlio legittimo (art. 27 l. 184/1983), e quindi
viene inserito nel nucleo familiare adottivo in una posizione di perfetta parità con gli altri figli degli
adottanti, ove ve ne siano. Ed in posizione di parità si troverà anche con gli eventuali figli nascituri
dell’ adottante. Interpretare letteralmente il disposto dell’ art. 462 c.c. comma 3, potrebbe allora
differenziare la condizione dei figli perché soltanto colui che sarà generato dagli adottanti potrà
succedere per testamento rimanendo escluso chi verrà adottato. E nonostante ciò per entrambi debba
parlarsi di figli legittimi. D’altronde è da ritenersi che chi vuole beneficare, per effetto di una
disposizione testamentaria, la filiazione di chi è vivente al tempo della sua morte non ha rilevanza che
tale filiazione sia <<naturale>> o adottiva: si tratta in entrambi i casi di filiazione legittima.
Si rileva infine che il 3° comma dell’ art. 462 c.c. consente l’ istituzione testamentaria a favore dei
nascituri purché figli di una persona vivente al tempo del testatore. La norma richiede che sia
determinata con certezza la persona vivente, dovendosi così escludere che la norma possa trovare
applicazione anche a favore di figli di persona soltanto determinabile.
Sempre in merito all’individuazione dei soggetti beneficati ci si deve chiedere chi sia il chiamato alla
successione nell’ ipotesi di parto gemellare. In mancanza di qualunque appiglio normativo, pare
preferibile ritenere che la delazione sia a favore di entrambi i gemelli, a meno che il testatore non
abbia indicato il sesso del nascituro.
Chiarito il rapporto tra l’art. 1 c.c. e l’art. 462 c.c., adesso possiamo trattare l’accettazione e la rinunzia
dell’ eredità da parte dei nascituri. Innanzitutto dobbiamo ricordare che l’accettazione o la rinunzia
all’ eredità operano retroattivamente, e cioè dal momento dell’ apertura della successione. Dunque
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l’accettazione o la rinunzia producono effetti anche per il momento in cui il concepito non era ancora
venuto ad esistenza. Dobbiamo prendere in considerazione l’ art. 320 c.c. “i genitori…..rappresentano i
figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni”; tale disposizione a proposito dei figli
nascituri non distingue tra quelli concepiti e quelli non concepiti, quindi è da ritenere che la disciplina
si applichi in entrambi i casi. Siffatta soluzione trova conferma nell’ art. 784 c.c. “l’ accettazione della
donazione a favore dei nascituri, benché non concepiti, è regolata dalle disposizioni degli artt. 320 e
321”.
Ai sensi dell’ art. 320 c.c. l’ accettazione e la rinunzia dell’ eredità o dei legati richiedono la ricorrenza
del presupposto della necessità o dell’ utilità evidente del figlio e l’ autorizzazione del giudice tutelare
(3°comma). Prima della riforma del diritto di famiglia non era richiesta per l’ accettazione dell’ eredità
l’ autorizzazione del giudice tutelare. La cautela della necessaria accettazione beneficiata era
evidentemente ritenuta sufficiente. Ma il legislatore della riforma ha mutato avviso mantenendo
fermo il principio della necessaria accettazione con beneficio di inventario ma imponendo l’
autorizzazione giudiziale ad accettare l’ eredità . l’ autorizzazione del giudice tutelare era necessaria
già prima della riforma per l’ accettazione del legato o per l’ accettazione della donazione, ma soltanto
se il legato o la donazione fossero stati soggetti a pesi o condizioni. L’ autorizzazione è oggi richiesta a
prescindere dalla presenza di pesi e di condizioni. Per quanto attiene alla rinunzia dell’ eredità , l’
autorizzazione del giudice tutelare è stata sempre prevista dall’ art. 320 c.c., prima e dopo la riforma
del 1975. L’ accettazione dell’ eredità deve avvenire sempre in forma beneficiata e soltanto in
presenza di un’ eredità evidentemente passiva il giudice tutelare può rilasciare la necessaria
autorizzazione alla rinunzia, così che possa eliminarsi immediatamente quello stato di incertezza che
nasce a seguito della mancata accettazione dell’ eredità nel momento precedente alla rinunzia stessa.
In presenza di un’ eredità palesemente passiva e quindi dannosa, non vale la pena neppure di
procedere alla redazione dell’ inventario.
La rinunzia al legato risulta invece conveniente quando il legato è in sostituzione di legittima, così che ,
a seguito della rinunzia, potrà domandarsi la legittima.
Per quanto riguarda l’ amministrazione dei beni ereditari prima della nascita dell’ istituito si deve
prendere in considerazione l’ art. 643 c.c. che opera una distinzione tra:
Concepiti: art. 643, 2° comma, c.c. l’ amministrazione dell’ eredità devoluta al concepito “spetta al
padre e, in mancanza di questo, alla madre”. Sebbene tale disposizione non sia stata modificata in
seguito alla riforma del diritto di famigli, questa deve considerarsi ugualmente corretta per effetto
dell’ introduzione della potestà genitoriale in luogo della patri potestà (artt. 147 ss c.c.). La norma va
letta nel seno di attribuire ad entrambi i genitori l’ amministrazione dei beni ereditari oggetto di
lascito a favore del figlio concepito.
Non concepiti: art. 643, 1° comma, c.c. richiama al riguardo i precedenti artt. 641 e 642 c.c. l’
amministrazione dei beni ereditari devoluti ai non concepiti spetta a coloro che sarebbero chiamati
all’ eredità qualora la nascita non si verifichi (art. 642 c.c.). In particolare si tratta del sostituito(ove
previsto) ovvero dei coeredi in accrescimento e degli eredi legittimi. L’ autorità giudiziaria, quando
concorrono giusti motivi può provvedere nominando un amministratore estraneo.
Tutti coloro che sono chiamati ad amministrare i beni dei nascituri, concepiti e non concepiti, sono
soggetti alla disciplina dettata per i curatori dell’ eredità giacente (art. 644 c.c.).
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Considerato quanto sancito dagli artt 17- 473 – 600 c.c ,norme comunque oggi sostituite o abrogate, si
è ritenuto superfluo riconoscere espressamente la capacità di succedere delle persone giuridiche.
Occorre precisare però , che mentre per le persone fisiche la capacità a succedere si identifica con la
capacità giuridica generale del successibile in relazione alla loro esistenza in vita od al loro
concepimento od anche alla loro condizione di figli pur non ancora concepiti di determinate persone
viventi al momento dell’apertura della successione; per le persone giuridiche diverse dalla società la
capacità a succedere non è configurata in relazione soltanto al loro avvenuto riconoscimento al
medesimo momento o ad un loro riconoscimento avviato entro l’anno dallo stesso, ma anche a tutela
del loro patrimonio in ragione delle finalità morali e sociali d’interesse collettivo dalle stesse
perseguite.
Va ricordato poi che le persone giuridiche non hanno una capacità generale a succedere, potendo
acquistare mortis causa soltanto per testamento, non essendo prevista a loro favore una successione
legittima, eccezion fatta per lo Stato, che peraltro non può rinunziare all’eredità .
La materia degli acquisti mortis causa da parte degli enti non era trattata organicamente e la disciplina
andava ricostruita attraverso la lettura combinata e congiunta di più norme, che sono state
recentemente abrogate o sostituite dalla l.127/1997 e dalla l.192/2000.
Il sistema inizialmente delineato prevedeva che potevano conseguire eredità , legati e donazioni
soltanto le persone giuridiche, previa autorizzazione governativa pena l’inefficacia dell’acquisto. Senza
questa autorizzazione, l’acquisto o l’accettazione non hanno effetto.
Nel caso di disposizione mortis causa a favore di un ente non riconosciuto, quest’ultimo doveva, pena
l’inefficacia delle disposizioni testamentarie, previamente fare istanza per ottenere il riconoscimento
entro un anno dal giorno in cui il testamento era eseguibile.
L’inutile decorso del termine annuale senza che fosse stata presentata istanza di riconoscimento
determinava l’automatica inefficacia, e la conseguente caducazione, della disposizione testamentaria
senza bisogno di accertamento iniziale. Ciò indipendentemente da eventuali cause soggettive di
impossibilità di osservare detto termine ovvero da un eventuale errore giustificativo della tardività
dell’istanza.
Una volta ottenuto il riconoscimento, l’ente doveva poi richiedere l’autorizzazione governativa, pena
anche questa volta l’inefficacia della disposizione mortis causa.
L’art 786 c.c riguardava invece le donazioni a favore di un ente non riconosciuto. Tale norma
prevedeva che la donazione a favore di quest’ultimo non aveva efficacia se entro un anno non era
notificata al donante l’istanza per ottenere il riconoscimento. Una volta ottenuto il riconoscimento,
l’ente avrebbe poi dovuto comunque acquisire l’autorizzazione governativa (ex art 17 c.c.).
Di conseguenza gli enti non riconosciuti non avevano la capacità di succedere mortis causa né la
capacità di essere destinatari di una liberalità donativa.
Probabilmente le ragioni che hanno giustificato il mantenimento dell’autorizzazione governativa sono
da rinvenire nell’esigenza di tutelare eventuali eredi legittimi rimasti in stato d’indigenza ed esclusi
dal testatore dalla successione ma anche nell’esigenza di salvaguardare lo stesso ente, evitandogli
l’acquisizione di lasciti particolarmente onerosi, o ancora nell’esigenza di tutelare i creditori del
defunto.
Si è anche ritenuto che l’autorizzazione in esame trovasse la sua ratio nell’interesse delle autorità
governativa di valutare la coerenza dell’acquisto con il rispetto ed il perseguimento dei fini dell’ente.
Le norme esaminate riguardavano la sola accettazione all’eredità . Nulla dicevano in merito alla
rinunzia all’eredità devolute agli enti.
Nel silenzio della legge parte della dottrina riteneva, che come per l’accettazione, anche per la rinunzia
all’eredità fosse necessaria l’autorizzazione governativa, essendo norma di carattere generale quella
secondo la quale le persone giuridiche non potevano procedere ad atti dispositivi senza
l’autorizzazione di quelle autorità cui spettava la tutela e la vigilanza su di esse.
Altri autori invece ritenevano che in mancanza di un’espressa volontà legislativa, la necessità di tale
autorizzazione dovesse escludersi.
Secondo un’altra dottrina ancora, la rinunzia all’eredità da parte delle persone giuridiche era
espressamente prevista dall’art 36 della l.6972/1890 che richiedeva, a questo scopo, l’autorizzazione
della giunta provinciale amministrativa.
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Dopo l’abrogazione dell’art 17 c.c si ci è chiesti se gli artt. 600 e 786 potessero o meno dirsi
tacitamente abrogate per effetto della caducazione dell’art 17 c.c.
A questo dibattito ha posto fine la l. 192/2000 che con il suo art.1 ha abrogato i detti articoli 600 e 786
c.c. Le preoccupazioni connesse all’autorizzazione governativa per gli acquisti degli enti sono state
quindi oggi superate.
È rimasto invece in piedi l’art 473 c.c sia pure riformulato.
Prima della riforma, la disposizione prevedeva che l’accettazione delle eredità devolute alle persone
giuridiche diverse dalle società non poteva farsi che con beneficio d’inventario osservate le
disposizioni di legge circa l’autorizzazione governativa.
L’art 473 c.c trattava pertanto delle sole eredità devolute alle persone giuridiche e ciò perché l’ente
destinatario della delazione doveva previamente essere riconosciuto.
Tale limitazione oggi è venuta meno a seguito dell’abrogazione degli artt 17 e 600.
Di conseguenza anche l’art 473 c.c è stato riformulato. Nella nuova versione, introdotta dalla
l.192/200, tale norma prevede che, oltre alle persone giuridiche diverse dalle società , anche le
associazioni, le fondazioni e gli enti non riconosciuti dovevano accettare l’eredità con beneficio
d’inventario. Dunque anche gli enti non personificati possono rendersi successibili, sia pure sotto la
condizione beneficiata.
La capacità a succedere degli enti privi di personalità giuridica è quindi ormai incondizionata e
prescinde dal riconoscimento.
Va comunque ricordato che dall’obbligo imposto dall’art 473 c.c discende la necessità di
un’accettazione espressa e solenne dell’eredità , di modo che un’accettazione tacita non può mai
determinare l’acquisto mortis causa.
Rimane ancora attuale il dibattito relativo all’applicabilità all’accettazione beneficiata dell’eredità dei
termini previsti dagli artt. 485 e 487 secondo comma c.c.
La prima norma prevede che il chiamato all’eredità che è nel possesso dei beni ereditari deve fare
l’inventario entro tre mesi (termine eventualmente prorogabile di altri tre mesi) dal giorno
dell’apertura della successione o dalla notizia della devoluta eredità .
Compiuto l’inventario, egli nei successivi quaranta giorni, deve deliberare se intende accettare,
puramente o con beneficio d’inventario, o rinunziare all’eredità .
Il successivo art 487 c.c sancisce per il caso in cui il chiamato non sia nel possesso dei beni ereditari,
che questi, una volta manifestata la sua volontà di accettare l’eredità , deve redigere l’inventario entro i
successivi tre mesi (termine anche questo prorogabile di altri tre mesi). Nel caso in cui abbia fatto
l’inventario non preceduto da dichiarazione, l’accettazione deve essere compiuta entro quaranta
giorni dall’inventario.
Il dubbio in merito all’applicazione di tali norme agli enti morali nasce perché l’accettazione all’eredità
da parte di quest’ultimi deve avvenire sempre con beneficio d’inventario e non può pertanto avere
luogo puramente e semplicemente (art 473 c.c.).
Da qui la conseguenza che non solo gli enti non lucrativi devono osservare i termini indicati agli artt
485 e 487 c.c ma anche gli stessi enti soggiacciono alle decadenze delle quali è cosparso l’iter
dell’accettazione beneficiata.
Ciò a differenza di quanto previsto per le persone fisiche incapaci di agire. Sebbene anche per
quest’ultime sia richiesta la necessaria accettazione beneficiata dell’eredità , per esse è stata nel
contempo espressamente esclusa la possibilità della decadenza dal beneficio stesso se non al
compimento di un anno dalla maggiore età o dal cessare dello stato di interdizione o di inabilitazione.
Norme eccezionali di analogo tenore non sono state previste per gli enti morali. Dunque seconda tale
tesi, il mancato rispetto dei termini previsti agli artt 485 e 487 c.c determina per gli enti in questione
le decadenze in tali norme contemplate, con la conseguenza che l’accettazione avrà luogo puramente e
semplicemente e non ai sensi dell’art 473 c.c.
In questa prospettiva, agli enti morali non rimarrebbe che la possibilità di fare valere la responsabilità
degli amministratori, che potranno essere chiamati a risarcire i danni subiti dall’ente a causa della
decadenza dal beneficio d’inventario, qualora la decadenza sia imputabile ad un loro comportamento.
Si ricorda che la ratio sottesa all’art 473 c.c è quella di evitare alle persone giuridiche diverse dalla
società , alle associazioni, alle fondazioni ed agli enti di fatto le conseguenze dell’accettazione pura e
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semplice, e cioè innanzitutto la confusione tra i patrimoni, rispettivamente del de cuius e dell’ente
chiamato alla successione.
Per gli enti morali deve quindi parlarsi di una incapacità di essere destinatari degli effetti di una
successione non beneficiata.
Ne discende che dal mancato rispetto dei termini previsti per la redazione dell’inventario e per la
successiva accettazione non può farsi discendere la sanzione dell’accettazione pura e semplice quale
conseguenza della decadenza dal beneficio d’inventario.
È cosi da ritenersi che l’inutile decorso del termine previsto dia luogo alla perdita del diritto di
accettare. Dunque se l’accettazione, nell’unica forma consentita agli enti dalla legge, è divenuta
inefficace si deve escludere che possa sussistere accettazione alcuna.
In senso contrario alla tesi che vede nel mancato rispetto dei termini di decadenza dal beneficio
dell’inventario si rivelato poi, in relazione al previgente art 17 c.c, che un’accettazione originariamente
con beneficio di inventario ma divenuta semplice per decadenza dal beneficio sarebbe da considerare
invalida o meglio inefficace od inesistente, in quanto non sorretta da un’adeguata autorizzazione.
Non sussistono dubbi invece in merito all’applicazione del terzo comma dell’art 487 c.c, norma che
ricollega al compimento dell’inventario non seguito dalla dichiarazione di accettazione entro i
successivi quaranta giorni la perdita del diritto di accettare l’eredità . All’inerzia è infatti qui ricollegata
la perdita del diritto di accettare e dunque la sopravvenuta incapacità a succedere.
Anche in caso di eredità devolute alle persone giuridiche, alle associazioni, alle fondazioni ed agli enti
di fatto si applica poi il termine di prescrizione decennale previsto dall’art 480 c.c, termine che deve
farsi decorrere, a norma dell’art 2935, dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Dunque a
seguito dell’abrogazione dell’art 17 ,il termine di prescrizione decorre dal giorno dell’apertura della
successione.
Infine pure qui il termine per accettare l’eredità può essere abbreviato ai sensi dell’art 481 c.c.
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Considerando interessati all’esercizio dell’azione in questione anche i chiamati di grado successivo, la
norma è stata interpretata nel senso di escludere ogni possibilità di accettazione o di rinunzia da parte
del chiamato ulteriore se prima non sia stata esercitata tale azione, e quindi se prima il chiamato di
grado anteriore poziore non abbia manifestato, nel termine all’uopo fissato dall’autorità giudiziaria, la
sua volontà di rinunziare.
Dunque soltanto una volta intervenuta la rinunzia da parte del designato a succedere di grado
anteriore, la delazione diverrà attuale per gli ulteriori chiamati, acquistando essi il diritto di accettare
o di rinunziare all’eredità . Prima di questo momento, i chiamati di grado precedente sono invece
titolari di una mera aspettativa di delazione.
L’atto di accettazione o di rinunzia posto in essere in assenza di delazione attuale viene considerato
privo, oltre che di efficacia, anche di validità , non avendo chi lo pone in essere la capacità attuale di
accettare l’eredità e conseguentemente neppure quella di rinunziarvi.
È da escludere, innanzitutto, che deponga nel senso dell’esclusione della delazione attuale in favore di
tutti i chiamati, il disposto dell’art 481 c.c.
Si ricorda che l’azione disciplinata da questa norma consente di eliminare una situazione di incertezza
in ordine alla sorte dell’eredità . Non può quindi ritenersi che l’esercizio dell’actio interrogatoria
costituisca una condizione necessaria per l’accettazione o per la rinunzia all’eredità da parte dei
chiamati di grado ulteriore rispetto al primo in presenza di inerzia di quest’ultimo.
Come si è detto, l’accettazione o la rinunzia dei chiamati di grado successivo, seppure valide, sono
comunque prive di effetti fin tanto che il chiamato di grado precedente non abbia manifestato la sua
volontà in merito alla delazione. L’esercizio dell’azione interrogatoria, allora può al più consentire ai
chiamati di grado successivo che abbiano posto in essere un atto di accettazione o di rinunzia
all’eredità valido ma non efficace di fare riconoscere immediati effetti a tale loro atto.
Deve altresì escludersi quell’argomentazione che nega la delazione attuale a favore di tutti i chiamati
alla luce dell’art 520 c.c, norma dalla quale viene tratto il principio generale secondo il quale può
riconoscersi validità alla rinunzia ed alla accettazione ereditaria soltanto in quanto immediatamente
produttive di effetti.
La sanzione della nullità della rinunzia condizionata o sottoposta a termine è stata prevista al fine di
evitare che il chiamato possa lasciare incerta la titolarità del complesso rapporto giuridico successorio
attraverso l’apposizione di un requisito volontario di efficacia, incidendo cosi sul regime legale della
delazione.
Ancora è pure da negarsi che costituisce valido argomento per escludere la delazione attuale a favore
di tutti i chiamati la previsione della solennità della forma sancita, per la rinunzia all’eredità , dall’art
519 c.c.
Anche le rinunzie dei chiamati di grado successivo rivestiranno la forma prescritta a garanzia della
serietà e della ponderatezza dell’atto, serietà e ponderatezza che non vengono certamente meno per il
solo fatto di rinunziare all’eredità prima del chiamato di grado anteriore.
Deve poi escludersi che sia notevolmente sanzionatoria e dissuasiva nei confronti dell’esperimento
dell’actio interrogatoria, l’esercitabilità della stessa contemporaneamente nei confronti di tutti i
potenziali chiamati.
Negando tale contemporaneità nell’iniziativa giudiziaria, ne consegue che in caso di rinunzia da parte
del primo chiamato, l’actio interrogatoria deve essere evidentemente esercitata nei confronti di colui
che è chiamato alla successione di grado successivo. Ed a sua volta, in caso di rinunzia di quest’ultimo,
deve essere promosso altro giudizio analogo nei riguardi del chiamato di grado ulteriore e cosi via.
Più semplice e veloce è allora per l’interessato convenire in giudizio contemporaneamente tutti coloro
che sono chiamati alla successione, soggetti ai quali l’autorità giudiziaria fissa un unico termine entro
il quale essi sono tenuti a manifestare la loro volontà .
Non merita condivisione poi l’ultima argomentazione secondo la quale: il chiamato ulteriore che si
trovi in possesso dei beni ereditari per più di tre mesi, senza redigere l’inventario, si trova
automaticamente nella posizione di erede puro e semplice alla sola rinunzia all’eredità del primo
chiamato, situazione questa, considerata contrastante con i principi generali del nostro ordinamento.
L’effetto descritto è quello che consegue alla rinunzia da parte del chiamato di grado anteriore anche
senza ammettere la delazione attuale nei confronti di tutti i chiamati. Ed infatti se il chiamato di grado
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anteriore rinunzia, quello di grado posteriore si viene immediatamente a trovare nella posizione di
primo chiamato, con la conseguenza che il possesso dei beni ereditari può determinare l’acquisto della
qualità di erede.
Va a questo punto aggiunto nel senso dell’esistenza di una delazione simultanea tanto a favore dei
primi chiamati quanto di quelli in subordine è invece il disposto dell’art 480 c.c, norma che fissa il
termine di prescrizione in dieci anni e che prevede che tale termine decorra per tutti i chiamati dal
momento dell’apertura della successione, tranne che per colui che è istituito sotto condizione (per il
quale la decorrenza ha luogo soltanto dopo il verificarsi della condizione) e per i chiamati di grado
ulteriore ma soltanto nel caso in cui vi sia stata accettazione da parte di precedenti chiamati e
successivamente il loro acquisto ereditario sia venuto meno. In quest’ultima ipotesi il termine
decennale di prescrizione inizia a decorrere dal giorno del passato in giudicato della sentenza che
dichiara nulla o annulla l’accettazione o il testamento o dichiara l’indegnità a succedere o accerta
l’inesistenza dello stato di parentela.
In tal modo si è considerata operante una delazione simultanea a favore dei chiamati di grado
anteriore e dei chiamati ulteriori. Ciò sebbene, precisa la Corte Suprema, la posizione giuridica dei
primi non coincida con quella dei secondi quanto a pienezza di effetti.
I primi infatti sono rivestiti immediatamente e fin dal momento dell’apertura della successione, del
diritto di accettare l’eredità ; i chiamati ulteriori si vedono per contro riconosciuta, in attesa delle
determinazioni dei chiamati in grado poziore, la titolarità di posizione giuridica produttiva di effetti
preliminari, che assume rilevanza sotto vari profili.
Siffatti profili attengono in particolare all’esposizione ad estinzione della situazione giuridica ,alla
trasmissibilità della detta situazione ed alla tutela ad essa apprestata.
Relativamente al primo profilo, il termine di prescrizione decennale previsto dal primo comma dell’art
480 c.c decorre per tutti i chiamati dal momento dell’apertura della successione. Essendo anche questi
titolari di una posizione giuridica alla quale l’ordinamento attribuisce sicura rilevanza, dal momento
che la assoggetta ad estinzione per prescrizione, la delazione è da reputare simultanea.
In ordine al secondo aspetto, la Suprema Corte ha ricordato che se il chiamato muore senza avere
ancora accettato l’eredità , anche il suo diritto di accettarla si trasmette agli eredi. Poiché la norma non
distingue tra i primi chiamati e i chiamati in grado subordinato, essa deve ritenersi applicabile anche a
questi ultimi.
Per quanto attiene alla tutela apprestata ai chiamati di grado ulteriore, la giurisprudenza di legittimità
ha fatto leva sull’art 481 c.c, norma che riconoscendo il diritto di esercitare l’ actio interrogatoria a
chiunque vi abbia interesse, fornisce anche ai chiamati di grado successivo un ulteriore mezzo di
tutela a fronte dell’inerzia dei chiamati di grado poziore, diritto che non esaurisce lo status di
chiamato ulteriore, quale unica espressione di rilevanza giuridica, bensì lo completa sotto il profilo
della tutela.
Il chiamato ulteriore può dunque compiere atti di accettazione dell’eredità o di rinunzia alla
medesima anche mentre perdura lo stato di pendenza, atti che, diventano efficaci soltanto se i primi
chiamati rinunciano o non accettano nel termine.
29
diritti che già vantavano nei confronti del de cuius, cosi da promuovere o continuare le azioni
giudiziarie contro chi è chiamato alla successione ed ha accettato la delazione.
Anche i successivi chiamati hanno interesse a sapere se colui al quale è stata offerta la delazione prima
di loro abbia o meno posto in essere un atto di rinunzia e ciò al fine di potere manifestare la loro
volontà in merito alla delazione, salvo che essi non abbiamo già posto in essere un atto di accettazione
o di rinunzia all’eredità , con efficacia subordinata alla dichiarazione di rinunzia del primo chiamato.
La solennità dell’atto di rinunzia è prevista anche a favore dello stesso rinunziante, interessato ad
opporre il suo status di soggetto estraneo alla successione a coloro che vogliono invece fare valere la
sua posizione di erede.
L’art 519 c.c comma 1 statuisce che la rinunzia va fatta valere con dichiarazione ricevuta da un notaio
o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione e inserita nel registro
delle successioni.
La mancata osservanza di tale forma prescritta comporta la nullità della stessa dichiarazione di
rinunzia.
È inficiata da invalidità assoluta la rinunzia manifestata tacitamente o desumibile da contegni
concludenti che implichino o presuppongono la volontà di rinunziare nonché ogni altra dichiarazione
di volontà in senso rinunziativo espresso con una forma diversa da quella prevista dall’art 519 c.c.
Ancora sono nulle quelle rinunzie effettuate tramite scrittura privata non autenticata, in forma orale o
quella ricevuta dal cancelliere del tribunale di circondario territorialmente incompetente perché
diverso da quello in cui si è aperta la successione.
Per quanto riguarda il notaio competente a ricevere la dichiarazione di rinunzia, non vi è alcuna
limitazione di competenza per territorio.
L’atto rinunziativo compiuto senza l’osservanza delle forme prescritte e, pertanto invalido, non
conferisce al chiamato la qualità di erede.
Da un punto di vista probatorio, l’esistenza di una dichiarazione di rinunzia all’eredità può essere
provata con ogni mezzo ove la scrittura che la contiene sia andata smarrita.
Si è ritenuto ammissibile tuttavia la validità e l’efficacia tra coeredi di un impegno a rinunziare, inteso
come obbligazione assunta in forma contrattuale e senza i requisiti formali previsti dall’art 519 c.c, a
compiere successivamente un atto unilaterale di rinunzia.
Il mancato rispetto dell’obbligazione assunta avente ad oggetto il compimento del successivo atto di
rinunzia consentirà comunque di domandare esclusivamente il risarcimento del danno, essendo
escluso che possa procedersi nei confronti del chiamato con un’azione volta ad ottenere un’esecuzione
in forma specifica dell’impegno non rispettato.
Considerato il divieto sancito dall’art 458 c.c occorre che la genesi di tale obbligazione si verifichi dopo
l’apertura della successione, pena nullità dell’accordo.
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6.3 - Inserzione nel registro delle successioni:
Ulteriore formalità richiesta dall’art 519 c.c è l’inserzione della dichiarazione di rinunzia all’eredità nel
registro delle successioni tenuto presso la cancelleria di ogni tribunale.
Il registro delle successioni di cui trattasi è quello conservato nel tribunale del luogo in cui si è aperta
la successione.
Tale inserzione deve essere eseguita d’ufficio, a cura del cancelliere, se si tratta di dichiarazioni da lui
ricevute o di provvedimenti del tribunale o su istanza di parte e dietro produzione di copia autentica
in caso di rinunzia compiuta per atto di notaio.
Si ci domanda quali siano le conseguenze della mancata inserzione, da parte del cancelliere, delle
dichiarazioni di rinunzia nel registro delle successioni.
Tali conseguenze sono connesse al diverso valore che si riconosce alla detta inserzione.
Secondo un primo orientamento, trattasi di una forma di pubblicità costitutiva, l’inosservanza della
quale comporta la nullità della rinunzia per difetto di forma.
L’inserzione dell’atto di rinunzia all’eredità nel registro delle successioni avviene a cura del
cancelliere; laddove la rinunzia è compiuta per atto di notaio, quest’ultimo deve provvedere al
deposito in cancelleria dell’atto di rinunzia cosi che possa in seguito procedersi all’inserzione nel
registro predetto.
In questo caso, l’assolvimento della formalità prescritta dal primo comma dell’art 519 c.c è quindi
rimesso sia al notaio, sia in seguito al cancelliere che materialmente deve provvedere all’inserzione.
Riconoscere allora all’inserzione della rinunzia nel registro delle successioni un valore di pubblicità
costitutiva significa fare derivare l’invalidità della rinunzia all’eredità non da un comportamento
imputabile al chiamato che non intende venire alla successione, ma da un’omissione o da un ritardo
nel compimento di un atto spettante per legge al cancelliere.
E non può farsi dipendere da un atto del cancelliere, soggetti terzi rispetto all’eredità ed all’erede, la
validità e l’efficacia, assoluta o relativa, immediata o sospesa, dell’atto di rinunzia.
E neppure va riconosciuta conducenza al fatto che l’art 519 secondo comma c.c prevede, a proposito
della rinunzia fatta gratuitamente a favore di coloro ai quali si sarebbe devoluta la quota del
rinunziante, che tale rinunzia non ha effetto finché, a cura di alcuna delle parti, non siano osservate le
forme indicate nel comma precedente.
Non si può neppure condividere la tesi intermedia che riconosce all’inserzione in esame il valore di
pubblicità dichiarativa, come tale necessaria ai fini dell’opponibilità della rinunzia ai terzi.
Si finirebbe, infatti, per far discendere da un’omissione del cancelliere o del notaio, l’inefficacia della
rinunzia. Con la conseguenza che i terzi potrebbero considerare il rinunziante ancora chiamato
all’eredità .
Deve invece ritenersi che se la rinunzia all’eredità è produttiva di effetti rispetto al rinunziante e
rispetto agli altri chiamati, essa non può non esserlo anche nei confronti di tutti gli altri terzi.
Preferibile è allora considerare l’inserzione della rinunzia nel registro delle successioni quale
pubblicità notizia prescritta affinché i terzi interessati ne possano avere conoscenza.
Da ciò discende la conseguenza che, difettando tale pubblicità coloro che hanno fatto affidamento
sull’inesistenza di una rinunzia possono agire per ottenere il risarcimento dei danni nei confronti del
notaio o del cancelliere ove possa configurarsi una responsabilità nell’omissione o nel ritardo di un
atto del loro ufficio.
Ciò non vuol dire che in assenza dell’inserzione, il rinunziante debba ancora considerarsi chiamato
all’eredità o peggio erede.
6.4 – Trascrivibilità:
Altro aspetto problematico è quello che attiene al profilo formale è quello che concerne la
trascrivibilità dell’atto di rinunzia all’eredità qualora il relictum comprenda anche o soltanto dei beni
immobili.
In senso negativo alla trascrivibilità depone innanzitutto la mancata previsione della rinunzia
nell’elencazione degli atti soggetti a trascrizione, elencazione che deve considerarsi tassativa.
31
Né può dirsi che la trascrivibilità della rinunzia possa trarsi dall’art 2643 c.c, norma che menziona, tra
gli atti che devono rendersi pubblici con il mezzo della trascrizione, gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti
reali immobiliari.
La rinunzia all’eredità è un atto ostativo di un acquisto e quindi non è una vera e propria rinunzia.
Colui che rinunzia preclude il suo acquisto ed i chiamati di grado successivo che accettano subentrano
infatti direttamente al de cuius e non al rinunziante. Soltanto l’accettazione dell’eredità determina
l’acquisto ma, una volta avvenuta l’accettazione non può più l’erede rinunziare all’eredità ma soltanto,
eventualmente, ai singoli diritti acquistati mortis causa.
Ancora nel senso di escludere l’applicabilità dell’art 2643 c.c deve negarsi che l’atto rinunziativo del
compendio ereditario sia qualificabile come atto tra vivi.
Un argomento in senso positivo alla trascrivibilità non può neppure trarsi dall’art 2645 c.c norma che
considera soggetto a trascrizione ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione a beni
immobili o a diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati all’art 2643,salvo che dalla
legge risulti che la trascrizione non è richiesta o è richiesta a effetti diversi.
Inoltre non può dirsi che la rinunzia all’eredità produca gli stessi effetti dei contratti menzionati all’art
2643 c.c.
Ancora depone nel senso della non trascrivibilità della rinunzia ereditaria anche il successivo art 2662
c.c, disposizione che indica quale documentazione da esibirsi al conservatore da parte del successivo
chiamato accettante che chiede la trascrizione dell’acquisto a causa di morte, soltanto il documento
comprovante la rinunzia da parte del chiamato di grado anteriore, di cui deve farsi menzione nella
nota trascrizione. Da qui la conclusione che la rinunzia all’eredità entra nel contegno della trascrizione
una volta sola e precisamente qualora l’acquisto a causa di morte si colleghi alla rinunzia di uno dei
chiamati.
Infine si è rilevato, sempre in senso contrario alla trascrizione della rinunzia, che considerata
l’efficacia retroattiva dell’atto di rinunzia all’eredità , la pretesa di renderla pubblica è inconcepibile,
per la ragione perentoria che i termini di retroattività e di trascrizione sono inconciliabili tra loro: il
negozio, che produce effetti anteriormente alla sua formazione, non è soggetto alle norme sulla
pubblicità immobiliare perché la trascrizione spiega la sua efficacia posteriormente alla formazione
dell’atto.
7- La rinunzia al legato:
L’art 519 c.c si occupa soltanto della rinunzia all’eredità senza disciplinare la rinunzia al legato.
Vi è chi ritiene che la rinunzia al legato sia un atto di dismissione del diritto oggetto della disposizione
a titolo particolare, diritto che si è acquistato automaticamente per effetto dell’apertura della
successione. Il principale argomento in questo senso è tratto dall’art 649,primo e secondo comma, che
statuisce che “il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare” (primo
comma) e che “quando oggetto del legato è la proprietà di una cosa determinata o altro diritto
appartenente al testatore, la proprietà o il diritto si trasmette dal testatore al legatario al momento
della morte del testatore”(secondo comma).
Tale tesi tuttavia non convince.
L’acquisto del legato, nonostante quanto sancito all’art 649 c.c, non ha luogo automaticamente ed
immediatamente per effetto e dal momento dell’apertura della successione.
Il diritto legato può entrare nel patrimonio del destinatario della relativa disposizione mortis causa a
titolo particolare soltanto in quanto questi abbia accettato l’incremento patrimoniale disposto in suo
favore.
D’altronde, se il legato venisse acquistato in via automatica al momento dell’apertura della
successione, non si potrebbe spiegare la disposizione contenuta nell’art 467 c.c che prevede l’istituto
della rappresentazione per l’ipotesi in cui il chiamato non possa o non voglia accettare l’eredità o il
legato.
Dunque se lo stesso legislatore ha configurato un’accettazione del legato, ciò vuol dire che
quest’ultimo non si acquista automaticamente ma che la volontà di subentrare deve comunque essere
manifestata.
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Ulteriore argomento a favore della necessità dell’accettazione per l’acquisto del legato può trarsi
dall’art 650 c.c norma che consente a chiunque vi abbia interesse di adire l’autorità giudiziaria per la
fissazione di un termine entro il quale il legatario dichiari se intende esercitare la facoltà di rinunzia.
Si pensi ancora all’art 17 c.c, norma comunque oggi abrogata, secondo il quale la persona giuridica
doveva munirsi dell’autorizzazione governativa per conseguire i legati. Qualora l’acquisto del legato
avesse luogo automaticamente ed immediatamente al momento dell’apertura della successione non
potrebbe spiegarsi come mai occorreva un’autorizzazione.
Ancora deve osservarsi che la tesi dell’acquisto automatico finirebbe per ledere quel principio
dell’intangibilità della sfera individuale del singolo. Nessuno, infatti, può vedersi riconosciuto un
diritto senza, o addirittura in contrasto, con la sua volontà , dovendo di conseguenza provvedere a
porre in essere un atto rinunziativo.
Si consideri poi che il legatario, a seguito della rinunzia, è considerato dalla legge come se non avesse
mai acquistato il diritto oggetto della disposizione a titolo particolare. Ciò evidentemente perché egli
non è mai stato titolare del diritto legato mentre per potere rinunziare ad un diritto bisogna esserne
titolare.
Infine in senso contrario alla tesi dell’automaticità dell’acquisto, non si comprende come sia possibile
che un diritto al quale si rinunzia inter vivos possa tornare nel sistema circolatorio mortis causa.
Qualora si trattasse di una vera e propria rinunzia, l’abdicazione al diritto legato di cui si è divenuti
titolari comporterebbe infatti il trasferimento del diritto allo Stato, ove il legato abbia ad oggetto un
diritto di natura immobiliare; la liberazione del debitore, qualora sia stato legato un diritto di credito.
Soltanto la tesi del rifiuto consente di spiegare come mai il diritto legato (che in mancanza di
accettazione non è mai entrato nel patrimonio di colui che è destinatario di una disposizione a titolo
particolare) possa rientrare nel sistema circolatorio mortis causa.
Come la rinunzia all’eredità , anche la rinunzia al legato va considerato come un atto di rifiuto, cioè un
atto ostativo di un acquisto. Infatti, a seguito del rifiuto il diritto oggetto del legato non esce dal
patrimonio del rinunziante perché non vi è neppure entrato e con il compimento di tale atto non vi
entrerà neppure.
Mentre la rinunzia all’eredità è revocabile, nei limiti dell’art 525 c.c; la rinunzia al legato è irrevocabile
e definitiva.
Considerando la rinunzia al legato come un atto di rifiuto che impedisce l’acquisto del diritto, dalla
rinunzia-rifiuto al legato occorre tenere distinta la rinunzia al diritto (già acquistato) che forma
oggetto del legato.
Se nel primo caso, il diritto non è mai entrato nella sfera giuridica del rinunziante, nel secondo caso la
rinunzia fa venire meno il diritto già entrato nel patrimonio del legatario. Essa costituisce un vero e
proprio atto dismissivo di una posizione giuridica soggettiva di cui si è già titolari ma non una rinunzia
al legato.
Una volta riconosciuto che la rinunzia al legato è come la rinunzia all’eredità , un atto rifiuto, si ci deve
chiedere se anche in presenza di legato occorra osservare le forme prescritte all’art 519 c.c
nonostante il silenzio serbato sul punto dall’art 649 c.c.
Muovendo dal principio della libertà della forma ed in assenza di una disposizione che deroghi al
suddetto principio, deve ammettersi che la rinunzia al legato non sia un atto formale.
Non può dunque applicarsi l’art 519 c.c nella parte in cui prescrive per la rinunzia all’eredità una
determinata forma.
Tuttavia se per quanto attiene al legato mobiliare si conviene in merito alla libertà della forma
dell’atto di rinunzia, non sussiste però unanimità di vedute per quanto attiene alla forma di tale atto
qualora il legato abbia ad oggetto diritti reali su beni immobili.
In particolare ci si interroga sull’applicabilità dell’art 1350 c.c norma che prescrive per alcune
manifestazioni negoziali la forma scritta ad substantiam.
Si ricorda che secondo quanto previsto al n.5 di detto articolo, “devono farsi per atto pubblico o per
scrittura privata, sotto pena di nullità gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti”.
I <<numeri precedenti>> oggetto del richiamo concernono accordi relativi a :
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- la costituzione, la modificazione od il trasferimento dei diritti di usufrutto su beni immobili, di
superficie, del concedente e dell’enfiteuta (n.2);
- la costituzione della comunione dei diritti appena detti (n.3);
- la costituzione o la modifica delle servitù prediali, dei diritti di uso sui beni immobili e di abitazione
(n.4).
Ora si ritiene da taluni che la rinunzia al legato immobiliare debba rivestire la forma scritta ad
substantiam.
Ritenendo che il diritto legato si acquista automaticamente e che la rinunzia al legato si concretizza in
una dismissione dei diritti acquistati, la rinunzia ad un legato immobiliare è vista come un atto
dispositivo di diritti reali sui beni immobili.
Tale orientamento non può però condividersi.
Non si può parlare di una vera e propria rinunzia al legato ma di un atto di rifiuto.
Dunque colui che rifiuta il legato non dismette alcun diritto già presente nel suo patrimonio. Egli si
limita ad impedire che il suo patrimonio venga incrementato del diritto legato.
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Art. 520 c.c.: Rinunzia condizionata, a termine o parziale.
2. LA RINUNZIA PARZIALE:
L’ art. 520 c.c. sancisce altresì la nullità della rinunzia fatta “solo per parte”. Così come l’ art. 475 c.c.
esclude l’ ammissibilità dell’ accettazione parziale della delazione, anche l’ art. 520 c.c. vieta la rinunzia
parziale; dato che la norma in esame e l’ art. 475 c.c. devono considerarsi tra loro interdipendenti, se si
ammettesse un’ accettazione parziale, si dovrebbe ammettere una rinunzia parziale e viceversa. Anche
in questo caso la declaratoria di nullità della rinunzia non implica accettazione dell’ eredità , ben
potendo il chiamato pronunciarsi ulteriormente nel senso della rinunzia o dell’ accettazione della
delazione. Di preliminare importanza risulta capire cosa si deve intendere per <<accettazione
parziale>> e per <<rinunzia parziale>>. L’ accettazione o la rinunzia all’ eredità devono dirsi parziali
quando il chiamato dichiari, rispettivamente, di voler subentrare al de cuius soltanto in alcuni dei
rapporti oggetto della quota attribuitagli per legge o per testamento, ovvero, dichiari di rinunziare alla
parte della quota riservatagli. Sono parziali l’ accettazione e la rinunzia che si facciano limitatamente
alla metà o ad altra frazione dell’ eredità in cui si è chiamati a succedere e quelle che hanno ad oggetto
taluni dei beni mobili o immobili relitti. Così come è parziale la rinunzia effettuata in ordine a
determinate passività o oneri.
Passiamo in rassegna casi meno certi di rinunzia parziale.
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consente di ritenere plausibile una devoluzione legittima nei confronti del rinunziante. Difettando la
sostituzione e non ricorrendo la rappresentazione o ad accrescimento, la successione si devolverà ab
intestatio ma non a favore del chiamato che aveva già rinunziato all’eredità devolutagli per testamento
ma a favore degli altri chiamati, successori legittimi del defunto di grado successivo rispetto al
rinunziante.
La rinunzia all’eredità prevista all’ art. 519 c.c. deve distinguersi dalla rinunzia a fare valere il
testamento. La prima è nulla ex art. 520 c.c.. La seconda assume il contenuto di una vera e propria
rinunzia all’ eredità soltanto quando il testamento sia stato redatto esclusivamente in favore del
rinunziante che non sia anche successore legittimo del testatore o laddove l’ atto di ultima volontà sia
stato redatto a favore di più chiamati ma la rinunzia a far valere il testamento sia stata compiuta da
parte di uno solo di essi, o da parte di alcuni di essi, chiamati alla successione soltanto ex testamento,
non da tutti coloro che sono vocati in forza del negozio testamentario, caso in cui il testamento rimane
in piedi senza più chiamare colui che ha rinunziato a farlo valere. Tale rinunzia può integrare gli
estremi di una rinunzia parziale (come tale nulla ai sensi dell’ art. 520 c.c.): il rinunziante era al
contempo chiamato in forza di una delazione legale e testamentaria e l’atto mortis causa vocava alla
successione anche soggetti diversi rispetto al rinunziate. In tale caso, il testamento, nonostante la
rinunzia, continua a regolare la successione del de cuius della cui eredità si tratta. Dunque la rinunzia
del singolo chiamato a farlo valere va considerata alla stregua di una rinunzia avente ad oggetto la sola
delazione testamentaria che ricade nel divieto previsto nell’ art. 520c.c..
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Art. 521 c.c. Retroattività della rinunzia.
“Chi rinunzia all’eredità è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato.
Il rinunziante può tuttavia ritenere la donazione o domandare il legato a lui fatto sino alla
concorrenza della porzione disponibile, salve le disposizioni degli articoli 551 e 552”.
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quest’ultimo.”) prende in considerazione l’ ipotesi del legittimario, già donatario e legittimario del de
cuius e/o legatario, che chiamato alla successione, abbia rinunziato all’ eredità .
La prima parte della norma consente all’ erede, chiamato alla successione e al contempo destinatario
di una donazione e/o di un legato, di rinunziare all’ eredità e di trattenere la donazione e/o il legato
che andranno calcolati sulla disponibile e nei limiti di valore di questa. Il presupposto è che le
donazioni o i legati siano disposti dal de cuius in conto di legittima ( cioè a favore di un erede
legittimario che deve imputare la liberalità o l’ attribuzione a titolo particolare alla quota a lui per
legge riservata). Laddove il legittimario rinunzi alla delazione a titolo universale e perda quindi il
diritto alla quota a lui per legge riservata, egli non potrà trattenere nulla a titolo di legittima. Il legato
e/o la donazione disposti in suo favore in conto di legittima non potranno più essere computati sulla
quota a lui spettante ex lege perché altrimenti si ci porrebbe in contrasto con la presunta volontà del
de cuius.
Il rinunziante benché chiamato alla successione come legittimario è da considerare, in seguito alla
rinunzia, un estraneo all’ eredità e, come tale, non può trattenere ne tanto meno conseguire ciò che gli
spettava per legge a titolo di legittima ma soltanto quanto sia stato disposto a titolo particolare e nei
soli limiti della porzione disponibile.
Di conseguenza, il legato e la donazione in favore del rinunziante non verranno presi in
considerazione al fine della determinazione delle quote di legittima spettanti agli altri legittimari.
Tale principio enunciato subisce un’eccezione in presenza di rappresentazione. Laddove operi la
rappresentazione a favore degli eredi del rinunziante, questi ultimi dovranno imputare alla loro quota
di legittima anche le donazioni ed i legati fatti al loro ascendente che abbia rinunziato (art. 564 c.c.
comma 3): dovranno essere imputati dapprima alla legittima di chi subentra al legittimario che ha
rinunziato e in secondo luogo e soltanto per l’eccedenza alla disponibile. Ciò significa che l’ascendente
rinunziante può trattenere donazioni e i legati anche oltre il valore della disponibile e precisamente
fino al valore della legittima dei suoi discendenti più , eventualmente, quello della disponibile;
comportando anche la possibilità di giungere a negare ai discendenti del rinunziante ogni diritto della
legittima.
La seconda parte dell’art. 552 c.c. espone però ugualmente all’ azione di riduzione donazioni e/o legati
ritenuti dal rinunziante a concorrenza della quota disponibile, così da tutelare i beneficiari dei lasciti
fatti sulla disponibile. In forza della rinunzia all’eredità del legittimario, la quota spettante ex lege a
quest’ultimo si accresce a quella degli altri legittimari, con la probabile conseguenza della riduzione
dell’ asse ereditario e, di conseguenza, la disponibile a causa della mancata imputazione della legittima
delle donazioni e dei legati effettuati in favore del legittimario che ha rinunziato e che è ormai
estraneo alla successione. Tali donazioni e legati finiscono per gravare non più sulla legittima ma sulla
disponibile, concorrendo con le altre disposizioni effettuate dal de cuius sulla disponibile.
Queste ultime disposizioni sono esposte al rischio della riduzione, qualora, per effetto della rinunzia
del legittimario, la porzione disponibile determini una lesione alla legittima. In questi casi l’art. 552
prevede che devono essere aggredite innanzitutto le disposizioni (donazioni o legati) fatte in favore
del legittimario rinunziante, così da tutelare i beneficiari delle attribuzioni fatte sulla disponibile
[deroga alle norme che stabiliscono l’ordine di riduzione delle disposizioni].
E’ ammessa comunque la possibilità che il de cuius disponga diversamente qualora non sia interessato
a salvaguardare la disponibile a scapito del legittimario rinunziante: la norma prevede che il testatore
possa dispensare il legittimario dall’imputazione, con l’effetto di riversare dalla legittima alla
disponibile la liberalità o l’attribuzione mortis causa effettuata in favore del rinunziante.
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Art. 522 c.c.: Devoluzione nelle successioni legittime.
“Nelle successioni legittime la parte di colui che rinunzia si accresce a coloro che avrebbero
concorso col rinunziante, salvo il diritto di rappresentazione e salvo il disposto dell’ ultimo
comma dell’ art. 571. Se il rinunziante è solo, l’ eredità si devolve a coloro i quali spetterebbe nel
caso che egli mancasse.”
42
la norma rinvia alla disciplina contenuta negli artt. 556 ss c.c., articoli che prevedono un ordine
gerarchico per l’ individuazione dei successori legittimi. Se il rinunziante è solo, il successore del de
cuius va ricercato sulla base dei criteri generali dettati in tema di successioni ab intestato secondo le
norme su citate.
Nel caso in cui il chiamato all’ eredità sia morto prima di avere accettato o rifiutato la delazione a lui
subentrano, in base a quanto statuisce l’ art. 479 c.c., i suoi eredi che troveranno nel patrimonio relitto
anche il diritto di accettare o rifiutare l’ eredità devoluta al loro dante causa. Nel caso in cui gli eredi
rinunzino, occorre verificare se tale volontà rinunziativa sia manifestata da tutti(1° ipotesi) o soltanto
da alcuni di essi(2° ipotesi):
(1° ipotesi) la devoluzione per accrescimento avverrà a favore di coloro che sono stati chiamati alla
successione in concorso con colui che è morto senza aver accettato o rinunziato, così come se fosse
stato lui a rinunziare.
(2° ipotesi) si avrà accrescimento soltanto a favore degli altri eredi dello stesso (chiamato deceduto) e
non a favore degli eventuali coeredi del loro de cuius.
43
Art. 523 c.c.: Devoluzione nelle successioni testamentarie
“Se taluno rinunzia, benché senza frode, a un’ eredità con danno dei suoi creditori, questi possono
farsi autorizzare ad accettare l’ eredità in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di
soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro creditori.
Il diritto dei creditori si prescrive in cinque anni della rinunzia”.
1. Presupposti:
L’ art. 524 c.c. consente ai creditori personali del rinunziante di farsi autorizzare dall’ autorità
giudiziaria ad accettare l’ eredità in nome e luogo di colui che ha posto in essere l’ atto rinunziativo: l’
azione consente ai creditori di soddisfarsi, fino alla concorrenza dei loro crediti, sui beni dell’ eredità
rinunziata dal loro debitore, beni che sarebbero spettati a quest’ ultimo se avesse accettato la
delazione. La norma impedisce che la rinunzia all’ eredità si risolva in un danno per i creditori del
rinunziante. Il rimedio giudiziale descritto dall’ art. 524 c.c. presuppone che dalla rinunzia all’ eredità
compiuta da un chiamato i creditori personali di quest’ ultimo possano risentire un pregiudizio. Ciò
avviene quando il patrimonio del debitore non sia sufficiente per soddisfare i loro crediti ed essi, per
effetto della rinunzia all’ eredità operata dal debitore, non possono neanche giovarsi del patrimonio
ereditario.
E’ da ritenere impropria la terminologia impiegata dal legislatore << impugnazione >> della rinunzia: i
creditori non mirano a far venire meno la validità dell’ atto rinunziativo che non cade per effetto del
vittorioso esercizio dell’ azione; questa incide solo sugli effetti della rinunzia all’ eredità , che vengono
colpiti e paralizzati nei confronti dei creditori instanti pregiudicati dalla rinunzia.
Ai fini dell’ esercizio dell’ azione occorre innanzitutto il compimento di un atto di rinunzia.
Se, invece, il chiamato non abbia manifestato la propria volontà in termini di accettazione o di rinunzia
all’ eredità , i suoi creditori possono esercitare l’ azione interrogatoria chiedendo al giudice la
fissazione di un termine entro il quale il chiamato debba compiere tale scelta.
Se entro tale termine il chiamato rinunzia, i suoi creditori potranno esercitare l’ azione prevista ai
sensi dell’ art 524 c.c..
Se il chiamato lascia decorrere inutilmente il termine e non manifesta alcuna volontà , ai creditori è
precluso l’ esercizio dell’ azione disciplinata all’ art. 524 (azione che la norma subordina
espressamente al compimento di un atto rinunziativo). Si è anche negato che all’ atto rinunziativo sia
equiparabile la perdita del diritto di accettare intervenuta per fatti diversi dalla rinunzia (cioè
decadenza o prescrizione artt. 480, 481, 487 ultimo comma, c.c.). Qualora potesse considerarsi quale
rinunzia all’ eredità la perdita del diritto di accettare, da ciò discenderebbe la facoltà per il chiamato di
accettare ugualmente, revocando la rinunzia, così verrebbero meno le conseguenze della decadenza
paralizzando il meccanismo predisposto dalla legge.
La rinunzia tacita o manifesta tramite comportamento concludente è inammissibile, ciò per il
carattere formale e solenne della rinunzia che è inderogabile.
La norma, inoltre, richiede che la rinunzia all’ eredità avvenga “con danno ai creditori”, cioè che essa
sia pregiudizievole per la sicurezza delle ragioni dei creditori. Ciò presuppone che l’ eredità a cui il
debitore ha rinunziato risulti attiva e che la garanzia generica rappresentata dal patrimonio del
debitore risulti insufficiente per il soddisfacimento del diritto dei creditori istanti. Laddove il chiamato
rinunzia ad un’ eredità passiva, i creditori non potranno dirsi pregiudicati dal negozio rinunziativo.
Spetta ai creditori fornire la prova del pregiudizio subito per effetto del negozio rinunziativo posto in
essere dal loro debitore: dimostrazione del danno prevedibile, ossia l’ esistenza di fondate ragioni che
facciano apparire il patrimonio del debitore insufficiente per il soddisfacimento dei crediti. Il
pregiudizio deve sussistere al tempo della rinunzia.
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Nell’ esame dei presupposti della norma, si deve evidenziare che non si richiede anche la ricorrenza
della frode; attraverso tale azione il legislatore ha voluto tutelare i creditori a prescindere dall’ animus
del rinunziante.
E’ anche da escludersi la rilevanza dell’ eventuale consapevolezza che del danno che la rinunzia
arreca ai creditori hanno i successivi chiamati all’ eredità , che hanno operato l’ accettazione. Infatti, la
norma non menziona tra i presupposti dell’ azione la frode o la semplice consapevolezza dei terzi
chiamati. E’ irrilevante la circostanza che l’ eredita sia stata accettata, nel frattempo, da altri chiamati
ai quali l’erdità si è devoluta in seguito alla rinunzia. I creditori del rinunziante potranno agire sul
patrimonio ereditario come se la rinunzia non vi fosse mai stata, non essendo quest’ ultima a loro
opponibile. Ciò significa che i successivi chiamati che abbiano accettato l’ eredità in luogo del
rinunziante, acquistano un compendio ereditario che, in virtù dell’ effetto retroattivo riconosciuto all’
azione in esame, risulta vincolato a garanzia di un debito altrui. I beni relitti entrano nel patrimonio di
colui che accetta in luogo del rinunziante già sottoposti ad un vincolo posto a tutela dei creditori di
colui che, in grado anteriore, ha rinunziato all’ eredità .
La previsione di tale rimedio giudiziale non può considerarsi una deroga all’ art. 525 c.c., che esclude
la revoca della rinunzia (soltanto) laddove sia intervenuta accettazione dell’ eredità da parte dei
successivi chiamati e sempre che il diritto di accettare del rinunziante non sia prescritto. A seguito
dell’ esercizio dell’ azione ex art. 524 la rinunzia è resa inefficace soltanto a vantaggio dei creditori del
rinunziante e fino a concorrenza dei crediti.
Non costituisce presupposto dell’ azione ex art. 524 c.c. la preventiva negativa escussione del
patrimonio del debitore, essendo sufficiente la prevedibilità del danno e cioè la sussistenza delle
ragioni fondate per ritenere che i beni personali del debitore non siano adeguati per soddisfare le
ragioni creditorie.
Né occorre il preventivo interpello dei successivi chiamati accettanti l’ eredità al fine di sapere se essi
intendano o meno pagare i debiti del rinunziante.
2. Legittimazione attiva:
Possono esperire il rimedio giudiziale (funzione strumentale e cautelare) in esame tutti coloro che
vantano nei confronti del chiamato rinunziante una ragione creditoria anche se il credito non è stato
accertato nel suo preciso ammontare o non sia ancora esigibile.
Taluni sostengono che tale azione sia esercitabile anche da chi sia titolare di un credito condizionato e
perfino eventuale. Tale opinione non appare convincente: la possibilità che l’ azione sia esercitata da
coloro che non vantino ancora un diritto di credito non è prevista dall’ art. 524 c.c., a differenza di
quanto sancito dall’ art. 2901 c.c. ([Dell’ azione revocatoria] Condizioni): occorre quindi che il credito,
seppur condizionato, sia sorto prima della rinunzia. Se l’ atto di rinunzia all’ eredità anteriore al
sorgere del credito sia stato dolosamente preordinato al fine di negare o pregiudicarne il
soddisfacimento, non è possibile agire ex art. 524 c.c..
Nell’ ipotesi di fallimento del debitore rinunziante, legittimato attivo all’ impugnazione è il curatore
fallimentare, previa autorizzazione del giudice legato.
3. Legittimazione passiva:
Legittimato passivo dell’ azione è il debitore rinunziante. Nel caso in cui quest’ ultimo sia deceduto
possono essere convenuti il giudizio i suoi eredi, subentrati nella titolarità dei rapporti attivi e passivi
facenti capo al rinunziante, anche laddove abbiano accettato con beneficio di inventario.
I chiamati in grado posteriore rispetto all’ autore rinunziativo, qualora non abbiano ancora accettato
l’ eredità , possono prendere parte al giudizio a sostegno delle ragioni del rinunziante, c.d. intervento
adesivo dipendente, per negare il fondamento dell’ azione. La loro legittimazione passiva si giustifica
col fatto che la sentenza emessa nei confronti del debitore (colui che ha rinunziato all’ eredità )
produrrà nei confronti dei successivi chiamati un’ efficacia riflessa. Il creditore personale del
rinunziate in seguito ad un’ autorizzazione giudiziale, potrà agire esecutivamente sul patrimonio
ereditario, sia nel caso in cui nessuno dei chiamati abbia ancora accettato, e sia nel caso in cui il
relictum sia stato acquistato nelle more da altro chiamato.
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Laddove l’ eredità sia ancora priva di titolare, l’ esercizio dell’ azione ex art. 524 c.c. non fa cadere la
delazione in favore dei chiamati in grado successivo rispetto al rinunziante, essendo costoro in una
situazione di soggezione in quanto esposti a subire le conseguenze dell’ azione in esame sui beni
ereditari entrati nel loro patrimonio, senza che venga in discussione la loro qualità di eredi.
E’ da escludere il litis consortio necessario nei confronti dei successivi chiamati; la natura cautelare
dell’ azione ex art. 524 consente al creditore istante soltanto di rendere inopponibile ai chiamati di
grado successivo la rinunzia all’ eredità posta in essere dal debitore rinunziante, permettendogli di
agire sul patrimonio ereditario come se la rinuncia non vi fosse stata.
4. Effetti dell’azione:
Sebbene l’ azione ex art. 524 c.c. viene descritta come se fosse finalizzata ad ottenere un’
autorizzazione giudiziale ad accettare l’ eredità , i creditori non possono porre in essere una vera e
propria accettazione. Tale atto può essere compiuto soltanto da colui al quale l’ eredità è devoluta, per
legge o per testamento. E i creditori non sono stati chiamati all’eredità del de cuius, né rientrano, per
legge, nel novero dei successibili. Lo stesso art. 524 afferma che “i creditori accettano l’eredità in nome
e in luogo del rinunziante” e quindi non possono mai divenire eredi. Nel senso di escludere l’acquisto
della qualità di successori dei creditori istanti depone il fatto che tale azione può essere esercitata
anche dopo l’ eventuale accettazione da parte dei chiamati in subordine rispetto al rinunziante; ed
anche quando l’ azione sia esperita prima di tale momento, essa non impedisce l’ acquisto mortis causa
da parte dei chiamati di grado ulteriore. Pure una volta promossa l’ azione ex art. 524 c.c., il
rinunziante convenuto in giudizio dai suoi creditori può revocare ex art. 525 c.c. la rinunzia all’ eredità
e rendersi pertanto successore della persona di cui l’ eredità si tratta. Attraverso lo strumento
giudiziale previsto ex art. 524 c.c. i creditori mirano solo ad ottenere il soddisfacimento dei loro diritti;
essi non sono interessati a subentrare nella titolarità dei rapporti attivi e passivi facenti capo al de
cuius. A tale strumento va riconosciuta un’ efficacia limitata: essa è strumentale al soddisfacimento dei
diritti dei creditori del rinunziante, così da estinguere le passività del debitore nei loro confronti.
Attraverso tale azione si vuole colpire il negozio rinunziativo con un’inefficacia relativa ed
eventualmente parziale, dato che la rinunzia, soddisfatte le ragioni dei creditori precedenti, conserva
la sua efficacia sia nei confronti del chiamato che ha rinunziato, sia nei confronti dei soggetti a lui
subentrato, sia erga omnes.
L’ esercizio dell’ azione NON rende la rinunzia invalida: i creditori vengono solo autorizzati a
procedere esecutivamente sui beni dell’ eredità ripudiata tramite le normali azioni esecutive
individuali e fino alla concorrenza del credito.
L’ attivo che residua dopo il soddisfacimento delle ragioni dei creditori rimarrà a favore di coloro che
hanno accettato l’ eredità e in luogo del rinunziante ovvero a favore dello stesso rinunziante qualora
questi abbia revocato la rinunzia dopo l’ inizio dell’ azione da parte dei creditori, sempre che il suo
diritto di accettare non si sia nelle more prescritto. Lo strumento in esame non giova ai creditori non
istanti. Questi ultimi possono comunque intervenire nel giudizio fino al momento della distribuzione
del prezzo: essi possono promuovere una successiva azione per conto proprio sui beni ereditari che
eventualmente residuano.
Il diritto del creditore alla <<impugnazione>> dell’ atto rinunziativo si prescrive nel termine di 5 anni,
che decorre dalla data della dichiarazione di rinunzia. Tale azione potrà essere esercitata anche dopo
che sia prescritto il termine decennale di accettazione per tutti i chiamati in subordine e pure dopo la
prescrizione del termine decennale entro il quale il chiamato debitore può revocare la rinunzia all’
eredità .
5. Natura dell’azione:
L’individuazione della natura dell’ azione rimane oggetto di ampi dibattiti.
Taluni considerano il rimedio giudiziale in questione come una peculiare figura di azione surrogatoria:
attraverso l’ esercizio di tale azione, il legislatore ha voluto consentire ai creditori del rinunziante di
esercitare il diritto del debitore avente ad oggetto l’ accettazione della delazione ereditaria. Si fa leva
che l’ art. 524 c.c. consente ai creditori di ottenere un’ autorizzazione giudiziale ad accettare l’ eredità
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<<in nome e in luogo del rinunziante>> espressione che richiama il contenuto dell’ azione ex art. 2900
c.c. (azione surrogatoria).
Altri affermano che il contenuto dell’ azione integra gli estremi propri dell’ azione revocatoria: per
effetto della delazione l’ eredità viene considerata come messa a disposizione del chiamato, come
elemento del suo patrimonio, per cui è possibile considerare la rinunzia come atto che menoma la
garanzia dei creditori. Il mezzo per reagire contro questa menomazione è la revocatoria. Alla
delazione si riconosce un carattere patrimoniale: da qui la conseguenza che il chiamato che rifiuta l’
eredità dismette un elemento o un diritto patrimoniale. Rispetto alla delazione si ha non un rifiuto ma
una vera e propria rinunzia, un atto di disposizione al quale consegue un’ effettiva diminuzione del
patrimonio del chiamato. L’ azione in esame così determina la dichiarazione di inefficacia della
rinunzia nei confronti del creditore istante, così che nei suoi confronti debba considerarsi ripristinata
la delazione a favore del chiamato debitore, con l’ effetto di considerare l’ eredità come elemento del
patrimonio di quest’ ultimo. L’ autorizzazione giudiziale giustifica il potere di aggressione dei beni
ereditari, che si considerano acquistati dal debitore nei soli confronti del creditore.
Entrambe le azioni sono volte all’ ottenimento di una declaratoria di inefficacia (relativa) nei confronti
dei creditori agenti.
Ulteriori punti di contatto tra le due azioni: durata del periodo di prescrizione (5 anni); esperibilità
dell’ azione nei confronti dei terzi acquirenti di buona fede dall’ erede accettante soltanto se la
domanda giudiziale sia stata trascritta prima della trascrizione i iscrizione del loro acquisto;
anteriorità del sorgere del credito rispetto all’ atto di rinuncia o dall’ atto di disposizione.
Rispetto all’ azione surrogatoria la distinzione risiede nel fatto che impugnando la rinunzia all’ eredità ,
il creditore istante vuole “rimediare” all’ omesso acquisto di un attivo ereditario da parte del chiamato
suo debitore, mancato acquisto che è dovuto ad una esplicita e precisa scelta.
Sotto il profilo degli effetti possiamo riscontrare un’ ulteriore differenza. L’ azione ex art. 524 c.c. non
determina un incremento del patrimonio del chiamato debitore, a differenza dell’ esperimento dell’
azione surrogatoria. E ciò che dovesse residuare dopo il soddisfacimento dei creditori non va a
vantaggio del rinunziante, non avendo acquistato diritti sull’ eredità (eccetto se abbia revocato la
rinunzia), ma a favore di coloro quali si è devoluta la quota del rinunziante.
Il rinunziante continua ad essere estraneo all’ eredità <<in suo nome accettata>> e non può pertanto
approfittare di alcun bene relitto. I beni ereditari non possono essere aggrediti dai creditori personali
del rinunziante non istanti.
Altro tratto distintivo è individuabile nel fatto che mentre l’ azione surrogatoria <<presuppone la
spettanza attuale al debitore di un diritto>>, l’ accettazione <<in nome e in luogo del rinunziante>> ex
art. 524 c.c. può avvenire anche dopo l’ avvenuto acquisto dell’ eredità da parte di eventuali chiamati
in subordine rispetto al rinunziante. Se si trattasse di una vera e propria accettazione dell’ eredità non
si potrebbe comprendere come ed in forza di quale principio essa possa avere luogo una volta
intervenuto l’ acquisto mortis causa da parte di altri chiamati. Alla perdita del rinunziante di ogni
potere di accettazione dell’ eredità deve conseguire l’ impossibilità che altri accettino in suo nome e in
suo luogo. L’ ammissibilità dell’ azione in esame anche dopo l’ acquisto dell’ eredità da parte dei
chiamati di grado ulteriore rispetto all’ autore della rinunzia fornisce un’ ulteriore conferma del fatto
che tale rimedio giudiziale non comporta una vera e propria accettazione della delazione da parte dei
creditori istanti e non richiede, a differenza dell’ azione surrogatoria, la spettanza attuale in capo al
debitore del diritto oggetto dell’ azione esercitata da parte dei creditori.
Per effetto dell’ azione ex art. 524 c.c., non si verifica l’ annullamento della pronuncia del debitore o
dell’ accettazione dei successivi chiamati: la rinuncia all’ eredità posta in essere dal debitore diviene
inefficace soltanto nei confronti dei creditori istanti e fino alla concorrenza dei loro crediti.
Occorre distinguere anche la <<impugnativa della rinunzia>> dall’ azione revocatoria: deve negarsi
che possa parlarsi della rinunzia all’ eredità come di un atto di disposizione, presupposto indefettibile
perché possa esercitarsi l’ azione revocatoria. L’ atto di rinunzia all’ eredità costituisce un atto di
rifiuto, non è una dismissione di un diritto acquistato, ma un atto impeditivo od ostativo di un
acquisto. Non può dunque qui parlarsi di un vero e proprio atto di disposizione del proprio
patrimonio che intacca, riducendola, la garanzia generica dei creditori. Né può dirsi che sia la
dismissione della delazione l’ oggetto dell’ atto di disposizione da revocarsi, in quanto essa non
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costituisce un bene facente parte del patrimonio del chiamato rinunziante. La rinunzia all’ eredità non
va quindi ricondotta alla categoria dei negozi dispositivi quanto a quella dei negozi omissivi.
Inoltre, è da escludere ai fini dell’ impugnativa della rinunzia ex art. 524 c.c., la necessaria ricorrenza
della frode del chiamato rinunziante. Ciò che importa è soltanto la ricorrenza del danno, anche
potenziale, per i creditori del rinunziante (art. 524c.c. primo comma).
In senso contrario all’ assimilazione dei due rimedi giudiziali in questione si ricorda che l’ art. 524 c.c.,
a differenza della corrispondente norma vigente sotto il vigore del codice abrogato, non prevede
espressamente l’ inefficacia relativa della rinunzia descrivendo solo quello che è il risultato , cioè il
soddisfacimento delle ragioni del creditore procedente. Il legislatore ha voluto così evitare,
sopprimendo il riferimento alla dichiarazione di inefficacia della rinunzia, di far pensare ad un
richiamo alle norme in tema di revocatoria.
Considerando le diversità evidenziate tra la <<impugnativa>> della rinunzia all’ eredità e le azioni
surrogatoria e revocatoria, è preferibile considerare lo strumento processuale in oggetto come
autonomo e distinto rispetto ai due rimedi giudiziali dettati per la conservazione del credito agli artt.
2900 e 2901, pur presentando con questi una certa similarità funzionale. E’ vero che tali mezzi di
tutela si fondono innegabilmente nell’ azione ex art. 524 c.c., tuttavia, essi si combinano per far
assumere all’ impugnativa della rinunzia un carattere eccezionale.
Il rimedio giudiziale previsto all’ art. 524 c.c., estende la garanzia generica dei creditori oltre i confini
tracciati dall’ art. 2740 c.c., norma secondo la quale il debitore risponde dell’ adempimento delle
obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. In base a questa norma i beni ereditari non
potrebbero essere infatti considerati aggredibili, da parte dei creditori, quali beni presenti, non
essendo essi entrati nel patrimonio del debitore che ha rinunziato all’ eredità . Né tali beni potrebbero
considerarsi quali beni futuri, ipotizzando un’ eventuale revoca della rinunzia; il debitore risponde
anche con beni non propri ma dell’ eredità giacente o dei successivi chiamati che hanno accettato.
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rimane che esercitare l’ azione interrogatoria e, soltanto in seguito alla rinunzia del debitore, essi
potranno agire con lo strumento disciplinato ex art. 524 c.c..
Dalla fattispecie esula il caso in cui i creditori dell’ erede (e non del rinunziante) si surroghino al loro
debitore nell’ esercizio dell’ azione di riduzione (art. 553 ss c.c. ) qualora questi, che sia stato
soddisfatto in misura inferiore alla quota di riserva, ometta di esercitare l’ azione di reintegrazione
della legittima. In tal caso non ricorrono gli elementi ostativi sopra indicati in ordina all’ ammissibilità
dell’ azione surrogatoria. I creditori si sostituiscono a chi è già erede nel compimento di un atto avente
natura patrimoniale. Ciò perché l’ erede, non esercitando l’ azione di riduzione, omette di accrescere il
suo patrimonio conseguendo quanto per legge gli spetta a titolo successorio. E considerato che il
debitore risponde con tutti i suoi beni, presenti e futuri (art.2740 c.c.), il mancato esercizio di
reintegrazione della legittima preclude ai creditori di soddisfarsi esecutivamente anche su ulteriori
beni che al loro debitore potrebbero pervenire a seguito del vittorioso esercizio dell’ azione di
riduzione. Né si pone in questi casi, il problema di un’ arbitraria riduzione dell’ ambito di operatività
dell’ art. 524 c.c., essendo l’azione contemplata da tale ultima norma subordinata alla preventiva
rinunzia dell’eredità , rinunzia che qui non ricorre.
Deve escludersi che l’azione di riduzione possa essere esercitata ai sensi dell’art. 2900 c.c., dai
creditori del legittimario pretermesso. Quest’ultimo non è ancora erede, acquisendo tale qualità solo
dopo il vittorioso esperimento dell’ azione disciplinata dall’ art. 553 ss c.c.. Dunque l’ esercizio dell’
azione di riduzione da parte dei creditori del legittimario pretermesso finirebbe per far diventare
quest’ ultimo erede contro la sua volontà .
Va anche negato che i creditori del rinunziante possano esercitare, oltre al rimedio previsto
dall’art.524 c.c., l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c.. Non sussiste infatti un atto di disposizione, inteso
come atto avente contenuto positivo compiuto dal debitore rinunziante sul patrimonio e del quale i
creditori dovrebbero chiedere la revocatoria. L’atto rinunziativo compiuto dal chiamato non può
considerarsi un atto di disposizione (perché non si tratta di un atto di abdicazione di diritti già
acquistati), perché si tratta di un atto che impedisce un acquisto, cioè che impedisce che un diritto di
cui era titolare il de cuius entri a far parte del patrimonio del rinunciante.
8. Tutela dei creditori del rinunziante. Tutela degli eredi, dei loro aventi causa e creditori:
Alla tutela dei diritti dei creditori del rinunziante è rivolta l’ azione prevista e disciplinata dall’ art. 524
c.c.. Occorre però tenere presente che alla salvaguardia di tali creditori può accompagnarsi la lesione
delle ragioni di altri soggetti: i conchiamati o i chiamati di grado posteriore che subentrano al
rinunziante nella quota di eredità a lui devoluta e non accettata. In caso di vittorioso esperimento dell’
azione ex art.524 si trovano a beneficiare di un’ eredità inferiore a quella loro devoluta, dovendo parte
del loro patrimonio ereditario subire l’ azione esecutiva esercitata dai creditori del rinunziante. Gli
eredi vedono entrare nel loro patrimonio un “vincolo” a favore dei creditori del rinunziante. Qualora
però i creditori del rinunziante abbiano esercitato l’ azione esecutiva su numerosi beni ereditari o su
dei beni il cui valore risulti di gran lunga superiore rispetto all’ importo del debito del chiamato
rinunziante, gli eredi possono ottenere la limitazione dell’ azione esecutiva a qui beni sufficienti a
soddisfare i creditori agenti. Una volta ottenuta detta limitazione gli eredi possono rilasciare i beni
relitti ovvero offrire ai creditori quanto potrebbe ricavarsi per effetto della vendita dei beni stessi, se
non l’ intera somma pari al loro credito.
Deve comunque ritenersi che gli eredi possano esercitare l’azione di regresso nei confronti del
rinunziante, che è il vero debitore, o possano surrogarsi nei diritti dei creditori soddisfatti ex art. 1203
c.c. 2 e 3 comma.
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Nel conflitto, che potrebbe nascere tra i creditori del rinunziante e gli aventi causa dell’erede che
hanno accettato in luogo del rinunziante, prevale chi per primo abbia trascritto. I terzi aventi causa
dall’ ulteriore chiamato divenuto erede sono pregiudicati dall’ azione dei creditori del rinunziante
quando, in presenza di acquisto di beni immobili o mobili registrati, la trascrizione del relativo atto sia
successiva alla trascrizione della domanda giudiziale e ciò anche se il loro acquisto è avvenuto in
buona fede ed a titolo oneroso.
Considerando il conflitto d’interessi tra i creditori del rinunziante e i creditori di chi ha accettato in
luogo del rinunziante , tale conflitto si risolve a favore dei primi. Il debitore rinunziante aveva sui beni
dell’eredità un diritto di grado anteriore rispetto a quello dei successivi accettanti e tale diritto i suoi
creditori fanno valere in suo nome e luogo. E per effetto retroattivo riconosciuto all’azione ex art. 524
c.c. i beni ereditari entrano nel patrimonio dell’erede già vincolati al soddisfacimento dei diritti dei
creditori del chiamato di grado anteriore che ha rinunziato all’ eredità .
I creditori degli eredi potranno soddisfarsi soltanto sui beni che residuano dopo che si siano
soddisfatti i creditori del rinunziante.
Tale principio non trova applicazione in caso di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario o
laddove i creditori ereditari abbiano domandato la separazione dei beni (art. 512 c.c.).
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Art. 525 c.c.: Revoca Della Rinunzia
“Fino a che il diritto di accettare l’ eredità non è prescritto contro i chiamati che vi hanno
rinunziato, questi possono sempre accettarla, se non è già stata acquistata da altro dei chiamati,
senza pregiudizio delle ragioni acquistate da terzi sopra i beni dell’ eredità.”
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Ulteriore conferma a tale costruzione si rinviene nel principio dell’ indisponibilità della delazione,
principio che non consente al chiamato di dismettere quest’ ultima e poi di riacquistarla a seguito
della revoca. Peraltro se a seguito della rinunzia la delazione dovesse considerarsi caduta, il
legislatore avrebbe dovuto prevedere la sospensione della prescrizione del diritto di accettare dal
momento della rinunzia fino a quella della sua revoca, sospensione che invece non è stata prevista. La
delazione cadrà (retroattivamente e definitivamente) soltanto quando con la rinunzia all’ eredità
concorreranno altre circostanze cioè l’ accettazione espressa o tacita dei conchiamati o l’ intervenuta
prescrizione del diritto di accettare. Soltanto da tale momento la rinunzia non potrà esser revocata.
L’ interpretazione prospettata dell’ art. 525 c.c. non si pone in contrasto con la norma di cui all’ art.
521 c.c.: il rinunziante va considerato come mai chiamato all’ eredità soltanto a seguito dell’ acquisto
dell’ eredità da parte di altri chiamati o nel caso di intervenuta prescrizione del diritto di accettare.
La rinunzia consente ai chiamati in concorso con il rinunziante o di grado successivo a quest’ ultimo di
accettare o rinunziare all’ eredità con efficacia immediata (artt. 522-523 c.c.); laddove un atto di
accettazione all’ eredità o di rinunzia sia stato posto in essere dai chiamati di grado successivo prima
della rinunzia di colui che è stato chiamato in un grado anteriore, l’ efficacia di tali atti sarà
subordinata al compimento dell’ atto di rinunzia di quest’ ultimo.
Alla rinunzia all’eredità si ricollega la perdita, per il chiamato rinunziante, dei poteri interinali di
gestione conservativa del patrimonio ereditario di cui divengono titolari solo coloro che sono chiamati
all’ eredità dopo di lui. Tali poteri competono al solo chiamato non rinunziante a norma dell’ art. 460
c.c.: chi ha posto in essere l’ atto di rinunzia non può più possedere i beni ereditari ed è tenuto, qualora
possegga i beni, a restituirli ai chiamati ulteriori o ai chiamati in concorso (resta fermo che se il
chiamato ha esercitato sui beni un’ attività come gestio pro herede, la sua rinunzia sarà priva di
validità , dovendosi considerare tale comportamento come accettazione tacita dell’ eredità ; se tale
comportamento è successivo alla rinunzia può ritenersi che il rinunziante abbia posto in essere un
atto di revoca tacita della rinunzia).
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decadenza legata allo spirare del termine fissato dall’ autorità giudiziaria a seguito dell’ esercizio dell’
actio interrogatoria.
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volta avvenuta accettazione da parte degli altri chiamati si verifica la definitiva caduta della delazione
del rinunziante. Inoltre, l’ accettazione dei conchiamati o dei successivi chiamati costituisce un atto
puro e irrevocabile (semel heres sempre heres). Un eventuale accordo in tal senso potrebbe soltanto
valere come atto di disposizione tra vivi.
La revoca della rinunzia risulta preclusa nel caso in cui non vi siano con chiamati con il rinunziante né
chiamati in subordine. In tale eventualità , l’ eredità viene devoluta allo Stato, che acquista ipso iure
indipendentemente da ogni accettazione (art. 586 c.c.).
Va, infine considerata l’ ipotesi in cui più soggetti siano chiamati congiuntamente all’ eredità con
reciproco diritto di accrescimento e tutti vi abbiano validamente rinunziato. Si è da taluni sostenuto
che la rinunzia da parte di tutti i conchiamati pone loro nella medesima condizione preesistente di
compimento dei singoli atti rinunziativi. La delazione solidale resterebbe, in questa prospettiva,
dunque efficace. Conseguentemente il primo dei rinunzianti che accetta si viene a trovare nella stessa
situazione che si sarebbe avuta se nessuno avesse rinunziato: acquisterebbe la quota, sia pure con
potenziale diritto di accrescimento. Tale soluzione non può però condividersi. Infatti essa finisce per
rendere incerta la sorte dell’ eredità in relazione alle quote dei conchiamati che hanno rinunziato. Né
tale incertezza può venire meno a seguito dell’ esercizio dell’ azione interrogatoria, dato che tale
rimedio giudiziale è finalizzato ad ottenere dal chiamato una deliberazione in merito alla sua volontà
di divenire erede. E nella fattispecie, tale deliberazione si è già avuta. Né è previsto analogo rimedio
per eliminare una situazione di incertezza in merito ad una possibile ed eventuale revoca della
rinunzia dell’ eredità .
Aderendo alla tesi esposta si dovrebbe pertanto giungere alla inaccettabile conclusione secondo la
quale il conchiamato che ha revocato la rinunzia non potrebbe succedere al de cuius anche nelle quote
destinate agli altri conchiamati rinunzianti fino alla scadenza del decennio per poter accettare l’
eredità . Soltanto in questo momento sarebbe certa l’ impossibilità di una revoca della rinunzia da
parte degli altri conchiamati.
E’ preferibile la soluzione opposta: in presenza di accettazione da parte di uno dei conchiamati ai sensi
dell’ art. 525 c.c., è da escludere la revoca della rinunzia da parte degli altri. Il primo dei rinunzianti
che accetta acquista l’ intero relictum ripudiato dagli altri conchiamati, dato che la rinunzia posta in
essere da parte di questi ultimi impedisce l’ operatività del limite della (reciproca) compressione delle
quote del patrimonio ereditario. Basta che uno solo ritratti la rinunzia perché gli altri non possano più
farlo.
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parte di quest’ ultimo. Anche tali terzi sono già tutelati in forza del principio generale per cui gli atti
compiuti dai chiamati all’ eredità non perdono la loro efficacia anche se i chiamati non accettano.
Principio valevole pure in tema di eredità giacente, dove gli atti compiuti dal curatore non perdono la
loro efficacia a seguito dell’ accettazione dell’ erede.
Deve anche escludersi che tale norma voglia tutelare i diritti dei creditori del rinunziante: tali possono
soddisfare i loro diritti sui beni ereditari agendo a norma dell’ art. 524 c.c.; essi si soddisfano sui beni
ereditari e la revoca della rinunzia non li pregiudica: i creditori personali non sono tenuti a restituire
quanto prelevato dalla massa ereditaria nè vedono venire meno l’ efficacia degli atti esecutivi
compiuti prima dell’ accettazione successiva alla rinunzia.
La tutela dei terzi creditori del rinunziante è garantita dall’ art. 524 c.c., senza che ricorra invocare il
disposto che chiude l’ art. 525 c.c..
Considerata la difficoltà di individuare i terzi tutelati dalla norma in esame, parte della dottrina è
giunta alla conclusione che l’ inciso in questione non abbia alcuna possibile pratica applicazione e che
la tutela dei terzi non subisca alcun rafforzamento dall’ art. 525 c.c..
Tra i terzi le cui ragioni vengono sicuramente fatte salve sono infatti riconducibili coloro che hanno
acquistato diritti sui beni ereditari a titolo originario (ex: soggetto che abbia maturato l’ usucapione su
un bene relitto proprio nel periodo successivo alla rinunzia del chiamato e precedente alla revoca
della rinunzia). La retroattività della revoca incontra così un limite nell’ acquisto, a titolo originario,
nelle more maturato, del terzo.
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norma non può essere il rinunziante in quanto egli ha già manifestato la sua volontà in merito alla
delazione.
Similmente l’ art. 527 c.c. può trovare applicazione nei soli confronti di chi non abbia ancora posto in
essere un atto di rinunzia all’ eredità . anche questa norma si rivolge ai chiamati all’ eredità e prevede ,
quale conseguenza del comportamento descritto, la decadenza della facoltà di rinunziare all’ eredità ,
conseguenza che non avrebbe alcun ambito di operatività in presenza di una previa manifestazione,
da parte del chiamato, della sua volontà di non accettare la sua delazione. Tale comportamento,
descritto nella norma, non è configurabile come revoca(neppure automatica) della rinunzia. Secondo
questo orientamento, il rinunziante può acquistare l’ eredità soltanto mediante accettazione ex art.
525 c.c., mentre colui che non ha posto in essere un atto di rinunzia può divenire erede anche a
seguito degli atti descritti dall’ artt. 485 e 527 c.c., atti ai quali l’ ordinamento ricollega l’ acquisto dell’
eredità . Tale non può essere però condivisa: la rinunzia all’ eredità non priva il chiamato della
delazione; la delazione non si considera ancora definitivamente caduta fino a quando non sia
intervenuta accettazione da parte dell’ eredità da parte di altro dei chiamati, o non si sia comunque
prescritto il diritto di accettare l’ eredità . tali considerazioni consentono di poter affermare che anche
il rinunziante può ancora fregiarsi del titolo di <<chiamato>>. Da qui la conseguenza che l’
applicazione delle norme in questione non può ritenersi preclusa nei confronti di colui che ha
rinunziato all’ eredità adducendo l’ argomento letterale sopra indicato. L’ art. 527 c.c. prevede l’
acquisto della qualità di erede in capo a coloro che sottraggono o nascondono i beni ereditari
nonostante la loro rinunzia. Sanziona dunque il comportamento di colui che non abbia ancora
manifestato alcuna deliberazione volitiva in ordine all’ offerta di eredità ma anche di chi abbia già
dichiarato di non voler diventare erede.
Tali articoli sono invocabili anche nei confronti del rinunziante.
Il possesso, la sottrazione o il celamento dei beni ereditari successivamente alla rinunzia rendono
inefficace l’ atto rinunziativo già compiuto e danno luogo all’ acquisto delle qualità di erede in maniera
automatica, a prescindere da un atto di accettazione, anche tacito, dell’ eredità .
L’ applicazione delle norme in esame è condizionata al fatto che nessuno dei chiamati di grado
successivo abbia ancora accettato l’ eredità e che non si sia verificato accrescimento a favore di coloro
ai quali l’ eredità si è devoluta insieme al rinunziante. Se, invece, l’ acquisto da parte di questi soggetti
ha già avuto luogo, tali articoli, non potranno trovare applicazione.
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Art. 526 c.c.: Impugnazione per violenza o dolo.
“La rinunzia all’ eredità si può impugnare solo se è l’ effetto di violenza o di dolo.
L’ azione si prescrive in cinque anni dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto il
dolo.”
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3. LA DISCIPLINA DELL’ AZIONE DI ANNULLAMENTO:
Legittimato attivo all’ esercizio dell’ azione di impugnazione della rinunzia all’ eredità è lo stesso
rinunziante ovvero, nel caso in cui questo dia deceduto, i suoi eredi. Tale legittimazione può invero
riconoscersi anche ai creditori del rinunziante che possono far valere i vizi della rinunzia all’ eredità
posta in essere dal loro debitore agendo in via surrogatoria ( se è pur vero che effetto dell’ azione è il
solo annullamento della rinunzia, è altrettanto vero che i creditori del rinunziante possono avere
interesse alla dichiarazione di invalidità della rinunzia, così da porre il debitore/rinunziante nella
condizione di poter nuovamente decidere o meno di accettare la delazione).
Legittimati passivi sono coloro che hanno tratto o potrebbero trarre vantaggio dalla rinunzia, ovvero
anche l’ autore della violenza o dell’ inganno (dolo).
L’ azione di impugnazione è soggetta ad un termine quinquennale di prescrizione , tale termine
decorre, ex art. 526 c.c., dal giorno in cui è cessata la violenza o si è venuti a conoscenza del dolo
(principio generale ex art. 1442 c.c. materia contrattuale). Tale termine è valido in presenza di errore
ostativo.
Analogamente a quanto disposto in materia contrattuale, si reputa che non sussistano termini
prescrizionali qualora l’ annullabilità sia fatta valere in via d’ eccezione.
Taluni sostengono che il termine per l’ impugnativa della rinunzia possa iniziare a decorrere soltanto
dal momento in cui la rinunzia stessa sia divenuta irrevocabile (art. 525 c.c): prima di tale momento l’
azione non potrebbe essere accolta per carenza di interesse. Argomentando in base all’ art. 2935 c.c.
che sancisce il principio generale secondo il quale la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in
cui il diritto può essere fatto valere, si è ritenuto che per l’ inizio della prescrizione occorra, oltre alla
cessazione della violenza o alla scoperta del dolo, l’ irrevocabilità della rinunzia, ritenendosi inutile
impugnare una rinunzia che può essere ancora revocata. Tale tesi è criticabile: l’ art. 526 c.c non
contiene appigli testuali per sostenere tale impostazione, anzi al suo secondo comma viene espresso il
principio esattamente inverso a quello espresso da tale orientamento. La norma non fa riferimento a
quella che è l’ irrevocabilità della rinuncia, al quale subordinare la decorrenza del termine
prescrizionale.
L’ annullamento e la revoca della rinuncia vanno considerati come alternativi e soggetti alla rispettiva
disciplina, legata alla ricorrenza di presupposti differenti. Va quindi ammesso l’ annullamento di
rinunzia ancora revocabile e la revoca di rinunzia annullabile.
Per quanto riguarda l’ annullamento della rinunzia non più revocabile si ricorda che l’ art. 525 c.c.
richiede per l’ accettazione dell’ eredità successiva alla rinunzia che il diritto di accettare non sia
prescritto e che l’ eredità non sia stata nelle more acquistata da altro dei chiamati o che non abbia
avuto luogo l’ accrescimento. Ora, se la cessazione della violenza o la scoperta del dolo è intervenuta
successivamente all’ accettazione da parte di un conchiamato o di un chiamato di grado successivo la
rinunzia (non più revocabile) deve considerasi ugualmente annullabile, essendo stata affetto da un
vizio genetico che, accertato giudizialmente, comporta la caducazione dell’ atto rinunziativo ex tunc.
L’ autore di tale atto si ritrova nuovamente nelle condizioni di chiamato: può decidere se accettare
puramente e semplicemente, accettare con beneficio di inventario o rinunziare all’ eredità con
maggiore consapevolezza.
L’ annullamento della rinunzia non comporta di per sé un’ accettazione, bensì il ripristino della
situazione di mera delazione all’ eredità , il rinunziante conserva lo ius adeundae hereditas.
L’ annullamento può avvenire nonostante la successiva accettazione da parte dei chiamati di grado
successivo, dato che l’ art. 526 c.c. non fa salvi eventuali diritti acquisiti da terzi (ex. Coloro a cui è
devoluta l’ eredità a seguito della rinunzia).
Nel caso in cui il diritto di accettare (o di rinunziare) l’ eredità si sia nelle more prescritto, l’
annullamento della rinunzia (comunque possibile) non consentirà al suo autore di porre
successivamente in essere un atto di accettazione o di rinunzia (art. 480 c.c.).
Per quanto riguarda la revocabilità di una rinunzia non più annullabile, quantunque sia decorso il
breve termine prescrizionale indicato nell’art. 526, la rinunzia è ancora revocabile se non si è
prescritto il diritto di accettare l’eredità e non è intervenuta accettazione da parte di conchiamati o di
chiamati di grado successivo (art.525 c.c.).
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La revoca della rinunzia rappresenta l’unica via per accettare l’ eredità dopo il compimento di un atto
rinunziativo laddove questo sia viziato da errore, vizio che non consente l’ esercizio dell’ azione di
annullamento, in materia ereditaria.
1. INTRODUZIONE:
Nel nostro sistema successorio vige il principio risalente al diritto romano secondo il quale l’ eredità si
acquista mediante accettazione. L’erede è investito di una qualità personale: egli continua la persona
del defunto in tutti i suoi rapporti giuridici trasmissibili sia nei diritti che negli obblighi, oltre che nel
possesso, tanto da parlarsi di erede come successore a titolo universale. L’eredità non è considerata
solo come un complesso di beni ed elementi di natura patrimoniale ma anche di elementi di natura
familiare e sacrale.
La connotazione personale della qualità di erede emerge anche dall’istituto dell’ azione di petizione
ereditaria, rimedio giudiziale diretto alla tutela di tale posizione. Chi la esercita chiede, infatti, il
riconoscimento della sua qualità ereditaria. La tutela dei diritti connessi a tale qualità e quindi la
restituzione dei beni ereditari da altri eventualmente posseduti o detenuti è una mera conseguenza
dell’ avvenuto riconoscimento delle qualità di successore nell’ universum ius. L’ acquisto della qualità
di erede non può aver luogo, quindi, in assenza di una volontà da parte del chiamato in successione
(art.459 c.c.).
L’ accettazione di eredità può aver luogo in maniera espressa (art. 459 c.c.) o attraverso il compimento
di atti dai quali si possa desumere la volontà del chiamato di subentrare al de cuius (accettazione
tacita art 476 c.c.).
In altre ipotesi l’ ordinamento ha previsto l’ acquisto della qualità ereditaria non per effetto della
manifestazione di volontà , espressa o tacita, del chiamato ma quale conseguenza per avere quest’
ultimo posto in essere (o non posto in essere nei termini previsti) una serie di atti normativamente
previsti.
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I comportamenti descritti all’ art. 527 c.c. devono essere accompagnati dalla consapevolezza in capo al
loro autore dell’ appartenenza dei beni sottratti o nascosti alla massa ereditaria nonché dalla volontà
dello stesso di non fare apparire detti beni come parte del relictum. La norma non trova applicazione
nei casi in cui i beni relitti siano sottratti o celati senza dolo o malizia ma soltanto per nasconderli per
esempio dai ladri o dai rapinatori. Non si ha acquisto automatico dell’ eredità neppure nell’ ipotesi in
cui la sottrazione si accompagni alla convinzione che il bene (in realtà ereditario) sia proprio. Inoltre,
l’ eventuale incapacità di intendere e di volere dell’ autore dei comportamenti descritti nella norma fa
venir meno la necessaria volontarietà degli atti e quindi la loro rilevanza; così anche nei casi in cui il
comportamento sia viziato dall’ altrui violenza: la mancata spontaneità fa venire meno la rilevanza
dell’ atto, lo stesso dicasi in presenza di dolo.
In dottrina si ritiene anche che l’ acquisto automatico ex art. 527 c.c. non abbia luogo ove le cose
trafugate o celate siano spontaneamente restituite dal chiamato. Dal punto di vista oggettivo, è
sufficiente che i comportamenti descritti dalla norma in esame abbiano ad oggetto un singolo bene,
purché abbia una qualche rilevanza economica rispetto al relictum.
Per la determinazione del momento in cui tali atti assumono rilevanza ex art. 527 c.c. parte della
dottrina ritiene che tale norma si riferisca solo a condotte tenute prima del compimento della
rinunzia: la sottrazione ed il celamento dei beni ereditari comporterebbero l’ acquisto della qualità di
erede unicamente quando essi siano stati posti anteriormente alla rinunzia. Quest’ ultima sarebbe
pertanto priva di effetti perché intervenuta dopo che il chiamato ha posto in essere degli atti che gli
hanno già determinato l’ acquisto della qualità di erede. A sostegni di tale tesi si è osservato che la
possibilità di accettare a seguito del compimento di un atto rinunziativo costituisce un vantaggio per il
rinunziante: l’ art. 525 c.c. consente al rinunziante la facoltà subentrare al defunto nonostante la
precedente rinunzia alla delazione, riconoscendo al rinunziante una sorta di diritto di pentimento.
Ammettendo l’ applicazione dell’ art. 527 c.c. anche ai casi di sottrazione o celamento dei beni
ereditari successivamente alla rinunzia, si finirebbe per accogliere il principio secondo il quale il
rinunziante può diventare erede non in assenza ma contro la volontà da questi già espressamente e
formalmente manifestata.
L’ art. 527 c.c. ha come destinatari i chiamati cioè coloro che non hanno ancora deliberato se accettare
o meno l’ eredità e non anche chi abbia già rinunziato all’ eredità .
Un altro orientamento afferma che i comportamenti descritti dalla norma non possono essere
configurabili come ipotesi di acquisti mortis causa successivi alla rinunzia: il rinunziante può
acquistare l eredità soltanto mediante accettazione ai sensi dell’ art. 525 c.c. mentre colui che non ha
posto in essere un atto di rinunzia può divenire erede anche a seguito di quegli atti descritti agli artt.
485, 487, 527 c.c. ai quali l’ ordinamento ricollega l’ acquisto automatico dell’ eredità . Non trovando l’
art. 527 c.c. applicazione nei confronti del rinunziante, i comportamenti indicati nelle due norme sono
considerati alla stregua di un reato ogniqualvolta essi siano stati posti in essere dopo il compimento
dell’ atto di rinunzia: il rinunziante viene considerato estraneo alla successione e i beni relitti vengono
considerati beni di terzi.
Tale tesi non può essere condivisa. In tal senso depone un elemento letterale : l’ art. 527 c.c. prevede
espressamente che la qualità di ereditaria è acquistata dai chiamati autori degli atti elencati
<<nonostante la loro rinunzia>>. La norma NON distingue tra rinunzia anteriore e rinunzia successiva
ai comportamenti di sottrazione o di celamento dei beni ereditari. Deve quindi ammettersi che gli atti
descritti dalla norma sono rilevanti, ai fini di determinare l’acquisto mortis causa a titolo universale,
anche se compiuti dopo la rinunzia all’eredità .
Si deve precisare che l’ art. 527 c.c. non prevede casi di revoca tacita della rinunzia all’ eredità ma
fattispecie nelle quali viene reputata priva di efficacia una rinunzia non revocata da colui che l ha
posta in essere. La sottrazione o il celamento dei beni ereditari danno luogo all’ acquisto delle qualità
di erede in maniera automatica dell’ eredità .
L’ applicazione dell’ art. 527 c.c. è comunque condizionata al fatto che nessuno dei chiamati di grado
successivo rispetto al rinunziante abbia ancora accettato l’ eredità e che non si sia verificato
accrescimento a favore di coloro i quali l’ eredità si è devoluta insieme al rinunziante.
L’ acquisto automatico può avere luogo sempre che non si sia prescritto il diritto di accettare (art.480
c.c.), per esigenze di certezza in ordine alla sorte del compendio ereditario.
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Qualora invece si sia già verificato l acquisto da parte di un altro dei chiamati o nei casi in cui sia
spirato il termine decennale ex art. 480 c.c., l’ art. 527 c.c. non può trovare applicazione ed i
comportamenti descritti da questa norma potranno rilevare sotto un profilo penale avendo essi ad
oggetto beni che non fanno più parte del relictum, ma che sono stati acquistati da colui che al
rinunziante è subentrato o dallo Stato.
Ulteriore punto da trattare è quello che prende i considerazione i creditori, se quest’ ultimi possano
esercitare l’ azione revocatoria ex art. 2901 c.c. al fine di paralizzare l’ acquisto a titolo universale del
loro debitore. La dottrina dominante, ove l’ accettazione sia dannosa per i creditori personali dell’
erede, stante il concorso sul patrimonio del debitore dei creditori ereditari, essi possono domandarne
la declaratoria di inefficacia. Deve però negarsi l’ammissibilità dell’ art. 2901 c.c. in presenza dell’
acquisto ai sensi dell’ art. 527 c.c.. Non ricorre infatti in questo caso un atto di disposizione.
Né può ammettersi che l’ azione revocatoria si rivolga contro l’ atto di sottrazione o di celamento, che
non sono atti di disposizione, salvo a incorrere in un << assurdo logico e giuridico>> .
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