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CAPITOLO X

LA FAMIGLIA

L’OBBLIGAZIONE ALIMENTARE

IN CHE COSA CONSISTE.

Si tratta di un’obbligazione che nasce quando sussistono i seguenti presup-


posti oggettivi:
a) una relazione di coniugio o unione civile, di parentela o di affinità tra due
soggetti (art. 433);
b) nello stato di bisogno di uno di questi;
c) nel fatto che uno dei due soggetti non sia in grado di provvedere al suo
mantenimento.
Lo stato di bisogno non corrisponde alla totale indigenza, quanto piuttosto
alla mancanza di mezzi per provvedere alle esigenze esistenziali primarie, spiri-
tuali e materiali.
Mancanza di mezzi per procurarsi vitto, vestiario, medicinali, cure, even-
tualmente nell’istruzione e nelle esigenze minime di spostamento (si pensi alla
necessità di assistere alle funzioni religiose) e di relazione sociale con i terzi.
Il fatto di non poter provvedere al mantenimento può pure dipendere da
colpa dell’alimentando, ossia da una condotta di vita disordinata e spendac-
ciona.
La misura della prestazione deve essere proporzionata al bisogno
dell’alimentando e non può superare ciò che è necessario alle sue esigenze di
vita (art. 439).
Anche il donatario può essere tenuto a prestare gli alimenti, comunque
mai oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio (art.
438, 3° comma).
L’obbligazione è alternativa e la scelta compete al debitore che potrà
adempiere mediante un assegno alimentare corrisposto a periodi anticipati,
ovvero accogliendo e mantenendo il creditore nella sua casa (art. 443): sempre
che ciò non si traduca in un comportamento scorretto del debitore (art. 1175),
Quando la scelta manchi, vi provvede il giudice.

I SOGGETTI (OBBLIGATO E CREDITORE).

Primo tra i debitori dell’obbligo alimentare è il donatario, salvo che si tratti

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di donazione in riguardo di matrimonio (art. 785) o remuneratoria (art. 770).
L’art. 433 prevede un rigido ordine gerarchico tra i potenziali debitori, che
è funzione dell’intensità del vincolo che lega ciascuno di essi all’alimentando.
Primo fra tutti è ovviamente il coniuge o la persona dello stesso sesso unita al
bisognoso dall’unione civile (art. unico, comma 19, l.u.c.c.).
Dopo di lui, vengono collocati i figli, anche adottivi, e, se essi manchino, i lo-
ro discendenti prossimi (art. 433, n. 2, v. però l’art. 448-bis).
L’obbligo degli affini (più precisamente suoceri, nuore e cognati) cessa
quando l’alimentando passi a nuove nozze.
Il convivente è tenuto a prestare gli alimenti al bisognoso quando sia cessata
la convivenza con lui, tenendo conto anche della durata della convivenza stes-
sa, quale risulta dalla dichiarazione anagrafica (art. unico, comma 65, l.u.c.c.).
All’ultimo grado della gerarchia troviamo i fratelli e le sorelle del bisognoso,
tenuti agli alimenti pur se solamente nella misura dello stretto necessario, co-
me si è già ricordato.
Tutti i soggetti obbligati nello stesso grado alla prestazione degli alimenti
sono tenuti a concorrervi in proporzione delle proprie condizioni economiche:
trattasi allora di rapporto obbligatorio soggettivamente complesso ad attuazio-
ne parziaria. È possibile che il concorso si verifichi anche tra soggetti obbligati in
grado differente.

OGGETTO DELL’OBBLIGAZIONE.

L’obbligo alimentare decorre dal giorno della domanda giudiziale o da quello


in cui l’obbligato sia stato costituito in mora,
Il credito stesso può essere modificato nel quantum (ad esempio per ade-
guarlo alla svalutazione monetaria) o può addirittura estinguersi, quando muti-
no la condizioni economiche di chi è tenuto a adempierlo.
L’obbligo può essere ridotto dal giudice per la condotta disordinata o ripro-
vevole dell’alimentando.

IL MATRIMONIO

LE INCAPACITÀ E GLI IMPEDIMENTI ALLA CELEBRAZIONE

L’incapacità preclude di contrarre le nozze in assoluto, ossia con chiunque,


mentre l’impedimento blocca la valida formazione dell’atto tra due persone de-
terminate

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INCAPACITÀ

Età. – La riforma del diritto familiare del 1975 ha innalzato l’«età» per con-
trarre matrimonio, contestualmente parificandola per la donna e per l’uomo a
18 anni compiuti.
Il tribunale per i minorenni su ricorso dell’interessato può autorizzarlo con
decreto a sposarsi dopo il compimento dei sedici anni quando sia stata accerta-
ta la sua maturità piscofisica, la fondatezza delle ragioni addotte e sussistano
«gravi motivi» (art. 84).

Interdizione – È incapace a contrarre matrimonio l’«interdetto» per infermi-


tà di mente: se ne inferisce che sono quindi capaci alle nozze sia l’interdetto le-
gale (art. 19 c.p.), sia l’inabilitato che l’incapace naturale (e in ogni caso la per-
sona beneficiaria dell’amministrazione di sostegno).

Mancanza di stato libero. – È poi incapace alle nozze colui che non goda del-
lo «stato libero», poiché è legato dal vincolo di un precedente matrimonio tut-
tora produttivo di effetti civili.

C.d. lutto vedovile. – Infine è temporaneamente incapace di contrarre ma-


trimonio la donna, quando non siano trascorsi trecento giorni dallo scioglimen-
to, dall’annullamento o dalla cessazione degli effetti civili del precedente ma-
trimonio: il divieto risale al diritto romano mentre è sconosciuto al diritto cano-
nico. La ratio dell’impedimento è quella di evitare la turbatio sanguinis, ossia il
conflitto tra differenti presunzioni di paternità.
Le ragioni del divieto chiariscono perché l’incapacità non operi quando il
precedente matrimonio sia stato dichiarato nullo per impotenza anche sol-
tanto di generare di uno dei coniugi (deve ritenersi con sentenza definitiva),
ovvero quando lo scioglimento del matrimonio civile sia stato pronunziato
per inconsumazione [art. 3, lett. f), l. 898 del 1970], o ancora quando, come
spesso accade, lo scioglimento del matrimonio sia stato dichiarato in séguito
a separazione (di fatto nei casi in cui essa fosse iniziata prima del 1970) op-
pure consensuale, quando si sia protratta per almeno sei mesi, o giudiziale,
se si sia protratta almeno un anno dalla comparizione dei coniugi avanti il
presidente del tribunale [art. 3, lett. b), l. 898 del 1970].
Per le stesse ragioni, l’incapacità cessa dal giorno in cui sia terminata la gra-
vidanza, anche se non si sia avuta generazione, mentre il tribunale (ordinario)
può su domanda dell’interessata autorizzare il matrimonio, ove lo stato di gra-

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vidanza della nubenda debba essere escluso inequivocabilmente o se si sia ac-
certato, con sentenza passata in giudicato, che il marito non avesse convissuto
con lei nei trecento giorno precedenti lo scioglimento, l’annullamento o la ces-
sazione degli effetti civili del matrimonio (ad esempio perché dichiarato assente
o presuntivamente morto).

IMPEDIMENTI

Parentela e affinità. – Non possono contrarre matrimonio le persone tra le


quali sussista un vincolo di consanguineità in linea retta all’infinito e in linea col-
laterale sino al secondo grado. In queste ipotesi non sono ammesse dispense.
Sono impedite poi le nozze tra consanguinei in linea collaterale di terzo
grado (zio e nipote o zia e nipote), tra affini in linea collaterale di secondo
grado (cioè tra cognati) e tra affini in linea retta (suocero e nuora, suocera e
genero),

Delitto. – Sono vietate le nozze tra le persone delle quali l’una sia stata
«condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra»: si vuole
infatti evitare che una persona tenti di uccidere il coniuge di un’altra al fine di
sposarla (v. art. 88). Per questo si esclude ovviamente l’omicidio colposo e
l’omicidio preterintenzionale.

LA PUBBLICAZIONE E LE OPPOSIZIONI ALLE NOZZE

La legge impone di far precedere alla celebrazione del matrimonio la «pub-


blicazione» eseguita a cura dell’ufficiale dello stato civile (art. 93) al fine di ren-
dere nota l’intenzione dei nubendi di volersi sposare. In tal modo, chi conosca
un’incapacità o un impedimento si trova in condizione di renderne edotto
l’ufficiale dello stato civile.
I fidanzati devono quindi domandarne l’esecuzione all’ufficiale medesimo
indicandogli le loro generalità e la loro libertà di stato; questi deve verificare
l’esattezza delle dichiarazioni resegli e, quando occorre, acquisire d’ufficio
eventuali documenti che ritenga necessari per provare l’esistenza di impedi-
menti alla celebrazione del matrimonio Provvede quindi all’affissione dell’atto
di pubblicazione in un apposito spazio presso la porta della casa comunale al-
meno per otto giorni (art. 55 ord. st. civ.),
Trascorsi i tre giorni successivi alla pubblicazione, senza che sia stata pro-
posta alcuna opposizione, l’ufficiale dello stato civile può procedere alla cele-

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brazione del matrimonio: se tuttavia il matrimonio non sia celebrato nei cen-
tottanta giorni successivi, la pubblicazione diviene inefficace (art. 99 c.c.).
L’ufficiale dello stato civile — che non ritenga di poter procedere alla pubbli-
cazione, perché sussista un’incapacità o un impedimento risultante dagli atti
dello stato civile ovvero perché la documentazione esibita sia falsa o comunque
insufficiente — deve rilasciare apposita certificazione, indicando i motivi del ri-
fiuto: contro di esso gli interessati possono ricorrere al tribunale (art. 98 c.c.).
Le «opposizioni alle nozze» hanno la finalità di sospendere le nozze quando
si assuma la sussistenza di un’incapacità o di un impedimento che l’ufficiale di
stato civile non ha rilevato, per distrazione ovvero perché esso non risulti dalla
documentazione acquisita (si pensi, ad esempio, alla consanguineità e
all’affinità tra i nubendi). Legittimati ad opporsi sono i genitori, e in mancanza
loro, gli altri ascendenti e i collaterali entro il terzo grado (anche naturali) ovve-
ro il tutore o il curatore, se uno degli sposi sia soggetto a tutela o cura, oppure il
coniuge della persona che intende contrarre un altro matrimonio e il pubblico
ministero (per il c.d. lutto vedovile v. anche l’art. 89) (art. 102).

LA CELEBRAZIONE E LA PROVA DI QUESTA

L’atto di matrimonio. – Nel giorno prescelto dai nubendi, compreso tra il


quarto e il centottantesimo dalla pubblicazione, l’ufficiale dello stato civile deve
procedere alla celebrazione pubblica nella casa comunale, dando lettura degli
artt. 143, 144 e 147 (ma l’omissione non inficia, com’è evidente, la validità
dell’atto), ricevendo dai nubendi la dichiarazione di volersi prendere in marito e
moglie: dopo di che li dichiara uniti in matrimonio.
L’assenza dei testimoni indicati negli artt. 107 e 110, non inficia la validità
delle nozze, ma comporta l’irrogazione a carico dell’ufficiale della sanzione pre-
vista all’art. 137, comma 2°.
Sùbito dopo aver ricevuto il consenso, l’ufficiale stesso deve quindi ridurre il
tutto per iscritto, nell’atto di matrimonio. Esso viene poi iscritto nei registri di
matrimonio (art. 63 ord. st. civ.).
Quando i registri siano stati distrutti o smarriti, la prova può essere data con
ogni mezzo, mentre se risulta che l’atto non vi sia stato inserito per dolo o colpa
dell’ufficiale dello stato civile, ovvero per cause di forza maggiore, la prova del
matrimonio è ammessa soltanto se risulta in modo non dubbio un possesso di
stato conforme (art. 132 c.c.).

Il matrimonio del cittadino all’estero e il matrimonio dello straniero in Italia.


— Il matrimonio del cittadino all’estero soggiace interamente alle incapacità e

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agli impedimenti di cui si è detto sin qui, mentre la celebrazione è regolata dalla
legge del luogo ove questa avviene o dalla legge nazionale di almeno uno dei
coniugi o ancora dalla legge dello Stato in cui essi risiedono al momento delle
nozze (art. 26 della l. 31 maggio 1995, n. 218). Una copia dell’atto viene «rimes-
sa a cura degli interessati all’autorità diplomatica o consolare» (art. 16 ord. st.
civ.), ma l’omessa trascrizione non impedisce l’efficacia del vincolo (art. 115).
Lo straniero, che intenda contrarre matrimonio in Italia, è pure soggetto alle
incapacità e agli impedimenti previsti dalla legge italiana, ad eccezione di quello
relativo all’età e alla parentela in linea collaterale oltre il secondo grado (è
quindi ammesso il matrimonio tra zia o zio e nipote) e all’affinità oltre il primo
grado (è cioè consentito il matrimonio tra cognati). Deve presentare all’ufficiale
dello stato civile una dichiarazione dell’autorità competente del suo paese
d’origine da cui risulti che nulla osta alla celebrazione del matrimonio (art. 116
c.c.)

LA NULLITÀ E IL MATRIMONIO PUTATIVO

L’inesistenza e l’irregolarità. — In alcune rarissime ipotesi, il matrimonio


possa ancor prima che nullo ritenersi inesistente. Ciò accade quando manchi la
celebrazione avanti l’ufficiale dello stato civile o quando i nubendi non abbiano
espresso il loro consenso.
La distinzione tra inesistenza e nullità si rivela di qualche interesse pratico
più che altro perché nel primo caso non è possibile invocare gli effetti del ma-
trimonio putativo.
All’opposto estremo dell’inesistenza si colloca la categoria dell’irregolarità,
la quale indica l’insensibilità del vincolo alla sussistenza di determinati impedi-
menti (che si dicono allora «impedienti», contrapponendoli a quelli «dirimenti»
che invalidano l’atto matrimoniale) oppure all’inosservanza di prescrizioni sul
procedimento che conduce alla formazione dell’atto matrimoniale (come ad
esempio il mancato rispetto del cd. lutto vedovile oppure la mancanza della
pubblicazione).

La nullità. Oltre che per la sussistenza di una delle incapacità o degli impe-
dimenti dirimenti di cui si è detto, il matrimonio è nullo anzitutto a causa
dell’inettitudine di uno degli sposi a percepire nel suo elementare significato
sociale la portata del vincolo matrimoniale al momento della celebrazione.
L’incapacità può dipendere da ragioni transitorie (ad esempio l’uso di sostanze
alcooliche o stupefacenti, o alterazioni fisiche come l’epilessia o un trauma cra-
nico) ovvero da ragioni degenerative permanenti (si pensi al morbo di Alzhei-

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mer).
Nulla prevede la legge per quanto concerne l’invalidità del matrimonio vizia-
to da violenza fisica (vis absoluta) né per ciò che concerne il «dolo», cioè
l’errore provocato nell’altro coniuge o da un terzo in ordine alle circostanze nel-
le quali il matrimonio viene contratto: se la prima ipotesi non merita considera-
zione qui, essendo del tutto inverosimile a verificarsi in pratica una costrizione
materiale alla celebrazione occorsa avanti l’ufficiale dello stato civile, il dolo in-
vece non viene preso espressamente in considerazione dal legislatore, perché
non rileva «come» il coniuge sia caduto in errore (cioè spontaneamente oppure
perché l’altro coniuge o un terzo lo abbia con artifizi o raggiri portato a formarsi
un errato convincimento). Rileva invece, ed esclusivamente, la «qualità»
dell’errore stesso che, per comportare l’inefficacia del vincolo, deve riguardare
unicamente l’identità della persona dell’altro coniuge o quelle sue qualità per-
sonali tassativamente elencate all’art. 122, 3° comma.
La riforma del 1975 ha mantenuto l’ipotesi dell’errore sull’identità della per-
sona (v. il caso paradigmatico narrato nella Genesi, Cap. 29, di Giacobbe che
sposa Lia credendola Rachele), affiancandovi quella sulle qualità personali
dell’altro coniuge, richiedendone tuttavia, ai fini della dichiarazione di nullità, il
carattere «essenziale», ossia quello che ricada:
1) sull’esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o devia-
zione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale;
2) sull’esistenza di una sentenza di condanna per delitto non colposo alla re-
clusione non inferiore a cinque anni, salvo il caso di intervenuta riabilitazione
prima della celebrazione del matrimonio;
3) sulla dichiarazione di delinquenza abituale o professionale;
4) sulla circostanza che l’altro coniuge sia stato condannato per delitti concer-
nenti la prostituzione a pena non inferiore a due anni (art. 122, 3° comma).
La gravidanza della sposa provocata dal terzo comporta infine la nullità del
matrimonio quando, a istanza di chi vi sia legittimato (v. art. 235), sia stata di-
sconosciuta la paternità del figlio (se questo sia nato vivo, diversamente il di-
sconoscimento neppure sarebbe proponibile). La coabitazione, perdurata oltre
un anno dal passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento, preclude
la domanda di nullità.
Provocano pure nullità la violenza e il timore che ha condotto uno dei coniu-
gi a contrarre matrimonio. È un esempio di timore il pericolo di una persecuzio-
ne razziale, o la paura che una persona cara (come la fidanzata o il fidanzato) si
suicidi o compia atti autolesionistici o possa soffrire eccessivamente a causa di
un rifiuto. È invece violenza la rappresentazione di eventi dannosi quando siano
provocati contro una persona cara o contro il promesso.

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Il consenso alle nozze è finalmente «simulato», quando gli sposi abbiano
convenuto di non adempiere gli obblighi e di non esercitare i diritti discendenti
dal matrimonio (art. 123 c.c.). Ad esempio: si crea l’apparenza di un vincolo ma-
trimoniale, che non si vuole, per ottenere la permanenza dello straniero in Italia
o per fargli acquistare la cittadinanza.

La legittimazione attiva alla proposizione della domanda di accertamento


della nullità matrimoniale. – E’ riconosciuta a una cerchia di soggetti che pro-
gressivamente si ridimensiona a mano a mano che scema l’interesse pubblico
sottostante. Le domande fondate quindi sulla mancanza di stato libero (art. 86),
sul vincolo di parentela (art. 87), sull’impedimento da delitto (art. 88) e
sull’interdizione di uno degli sposi (art. 85) possono essere proposte, oltre che
dagli sposi e dal pubblico ministero (e nel caso dell’interdizione dal tutore), da-
gli ascendenti prossimi (anche naturali), e addirittura da tutti coloro che abbia-
no un interesse legittimo e attuale (cioè quando si possa ritenere socialmente
giustificata un’ingerenza tanto grave da parte di terzi nella vita degli sposi).
Quando si tratti d’incapacità derivante da minore età, legittimati sono inve-
ce, oltre agli sposi e al pubblico ministero, soltanto i genitori (art. 117, comma
2°): la legittimazione è infine attribuita al solo coniuge meritevole di protezione,
quando questi fosse stato al momento della celebrazione incapace d’intendere
o di volere (art. 120), o quando il suo consenso fosse stato comunque viziato da
violenza o errore. La domanda di simulazione può essere infine proposta sola-
mente dai coniugi (artt. 122 e 123 c.c.).
Si rivelano rare le ipotesi nelle quali il matrimonio resta illimitatamente sog-
getto all’azione di nullità: ciò accade quando sia affetto da inesistenza o sia vi-
ziato da incesto, da delitto o da bigamia.
In tutti gli altri casi invece numerose circostanze (che devono essere allegate
e provate da chi se ne voglia avvalere) impediscono l’accoglimento della do-
manda di nullità, per assicurare la maggiore stabilità possibile al vincolo nuziale.
Il giudice al quale sia stata proposta la domanda di nullità può ordinare la
separazione temporanea dei coniugi durante il giudizio, quando essi lo richie-
dano oppure anche d’ufficio se gli sposi siano entrambi minori o interdetti
(art. 126).
L’accoglimento della domanda di nullità preclude la dichiarazione di divor-
zio, ma si deve escludere che tra le due cause sussista nesso di pregiudizialità (e
quindi che il procedimento divorzile vada sospeso in attesa della pronunzia sul-
la nullità) e che, ottenuta una pronunzia di divorzio, sia precluso al tribunale di
accertare l’invalidità del vincolo.

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IL MATRIMONIO PUTATIVO.

In che cosa consiste. – La nullità del matrimonio comporta naturalmente


l’inefficacia del vincolo; tra i coniugi però gli effetti del matrimonio si produco-
no sino al passaggio in giudicato della sentenza che accerti la nullità quando lo
abbiano contratto in buona fede, cioè non abbiano consapevolmente contribui-
to a provocare l’invalidità dell’atto matrimoniale. Ciò accade, ad esempio,
quando il consenso sia stato estorto con violenza o determinato da timore di
eccezionale gravità (art. 128).
Per il coniuge in mala fede invece il matrimonio dichiarato nullo è da consi-
derare tamquam non esset.
La comunione legale, il fondo patrimoniale e ogni altra convenzione matri-
moniale si sciolgono inoltre con la dichiarazione di nullità delle nozze a prescin-
dere dalla sussistenza dei presupposti del matrimonio putativo (v. artt. 171 e
191 c.c.).
Quando entrambi i coniugi siano in buona fede, il tribunale può disporre a
carico di uno di essi di versare all’altro — che non abbia adeguati redditi propri
e non sia passato a nuove nozze — un assegno di mantenimento, quantificato
con i criteri dettati per il caso di separazione senza addebito (v. art. 156): l’art.
129 prevede però che l’assegno dovuto abbia necessariamente carattere tem-
poraneo, proiettando così la solidarietà familiare tra gli ex coniugi non oltre il
triennio dal passaggio in giudicato della sentenza di nullità.
Lo sposo in buona fede può conseguire il versamento di una somma corri-
spondente al mantenimento per tre anni da parte del coniuge che abbia dato
causa consapevolmente alla nullità matrimoniale o, alternativamente o soli-
dalmente, del terzo al quale la nullità stessa sia imputabile.

GLI EFFETTI CIVILI DEL MATRIMONIO CATTOLICO

La celebrazione da parte del parroco. – Con la stipulazione dei Patti latera-


nensi occorsa l’11 febbraio 1929 — che l’art. 7 Cost. pose di poi a fondamento
regolatore dei rapporti tra Chiesa e Stato — si realizzò una sorta di «speciale
diarchia», stabilendosi infatti che «lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto
del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni catto-
liche del suo popolo riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal
diritto canonico, gli effetti civili». Il mezzo tecnico per realizzare simile intento
veniva individuato nella trascrizione dell’atto di matrimonio, predisposto dal
ministro del culto cattolico, nei registri dello stato civile.
Inoltre, visto che l’atto matrimoniale era disciplinato dal diritto canonico, si

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riconobbe alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici la compe-
tenza esclusiva sulle cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa
dal matrimonio rato e non consumato.
La l. 27 maggio 1929, n. 847 aveva precisato quanto stabilito nel Concorda-
to, introducendo una sorta di automatismo, tale che i matrimoni efficaci per la
Chiesa lo fossero per lo Stato, mentre quelli che, attraverso il giudizio di nullità,
avessero cessato di avere vigore per la Chiesa, cessassero di averlo per lo Stato.
Con l’Accordo di Villa Madama stipulato tra la Santa Sede e l’Italia il 18 feb-
braio 1984 (ratificato dal parlamento con l. 25 marzo 1985, n. 121) si intese
quindi adeguare il sistema concordatario, non soltanto ai pesanti interventi di
cui si è appena discorso, ma soprattutto al processo di trasformazione politica e
sociale verificatosi in Italia e, forse ancor più, agli sviluppi promossi nella Chiesa
dal Concilio Vaticano II.
L’art. 8 del cit. Accordo di Villa Madama stabilisce che siano riconosciuti gli
effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a
condizione che l’atto relativo venga trascritto, ma «previe pubblicazioni nella
casa comunale».
Come accade per la celebrazione avanti l’ufficiale dello stato civile, anche il
parroco — subito dopo aver ricevuto dagli sposi la formula del consenso ma-
trimoniale — deve leggere loro gli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i
doveri dei coniugi (ossia quelli indicati all’art. 107), dovendo inoltre spiegare «ai
contraenti gli effetti civili del matrimonio» (art. 8 Accordo di Villa Madama).
L’atto di matrimonio deve essere redatto in due originali sottoscritti dagli
sposi e dai testimoni, uno da inserire nei registri parrocchiali, l’altro da inviare
all’ufficiale dello stato civile, perché venga trascritto nei registri di matrimonio:
l’atto stesso può contenere «le dichiarazioni dei coniugi consentite secondo la
legge civile», ossia la scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni
(art. 162 c.c.) e il riconoscimento del figlio (artt. 254 e 283).
La forma di celebrazione è regolata esclusivamente dal diritto canonico.

La trascrizione nei registri dello stato civile. – La trascrizione dell’atto deve


essere richiesta all’ufficiale dello stato civile, con domanda scritta del parroco
(anche se altri ebbe eventualmente a officiare il sacramento) del luogo ove il
matrimonio è stato celebrato, non oltre i successivi cinque giorni (art. 8, 1°
comma, dell’Accordo di Villa Madama.
Nelle ventiquattro ore successive al ricevimento della richiesta, l’ufficiale
dello stato civile deve provvedere a riportare integralmente nei registri l’atto di
matrimonio ricevuto (cioè a trascriverlo), dandone notizia al parroco stesso. Gli
sposi acquistano così lo status di coniugi dal momento della celebrazione, an-

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che se la trascrizione sia stata effettuata oltre il termine appena indicato:
l’ufficiale dello stato civile non può rifiutare la trascrizione, neppure se sia venu-
to a conoscenza di qualche impedimento o incapacità successiva al rilascio del
nulla osta, essendo tenuto soltanto a informarne il pubblico ministero.
La trascrizione stessa, poiché contribuisce a determinare l’efficacia civile del
matrimonio, è nulla nelle stesse ipotesi in cui è nulla la celebrazione del ma-
trimonio civile.
La trascrizione è impedita invece — e l’ufficiale dello stato civile non vi deve
procedere — quando sussistano quelle incapacità e quegli impedimenti, già ri-
cordati, che la legge civile considera inderogabili e quello relativo all’età, sem-
pre che quelle stesse incapacità o quegli stessi impedimenti non siano venuti
meno per decadenza delle parti nel farli valere: anche in questa ipotesi, la de-
cadenza delle parti dalla domanda di impugnazione ripristina la normale tra-
scrivibilità dell’atto matrimoniale canonico.
Si può far luogo alla trascrizione, anche se il parroco non l’abbia richiesta en-
tro i cinque giorni successivi alla celebrazione: in questo caso essa può essere
effettuata tuttavia soltanto su istanza dei due contraenti, o anche di uno solo di
essi, ma con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro (che quindi potrà dif-
fidare dal procedervi l’ufficiale dello stato civile), presentando a quest’ultimo
l’atto di matrimonio in originale e attendendo il decorso del termine di tre gior-
ni successivi alla pubblicazione dell’avviso dell’avvenuto matrimonio e della ri-
chiesta di trascrizione tardiva (art. 13, l. 847 del 1929
Anche la «trascrizione tardiva» attribuisce alle nozze canoniche effetti civili
dal momento della celebrazione (da ciò discende che la nullità del secondo ma-
trimonio civile non impedisce la trascrizione): simili effetti riguardano tuttavia
soltanto i coniugi — che pertanto avranno, ad esempio, comuni gli acquisti
compiuti tra la celebrazione e la trascrizione — non viceversa i terzi, ai quali il
regime di comunione instauratosi dalle nozze canoniche poi trascritte non sarà
opponibile e che non vedranno in alcun modo pregiudicata la loro vocazione a
succedere alla sposa o allo sposo defunto prima che la richiesta di trascrizione
fosse stata presentata all’ufficiale dello stato civile.

La giurisdizione sulle cause di nullità. – L’Accordo di Villa Madama non ripro-


duce la riserva di giurisdizione del giudice ecclesiastico sulle domande di nullità
del matrimonio canonico trascritto, rinvenibile invece nell’art. 34 del Concorda-
to del 1929, e anzi dichiara abrogate le previsione del Concordato stesso non
riprodotte (art. 13). La domanda può quindi essere proposta, volendo, anche al
tribunale ordinario che dovrà decidere comunque secondo il diritto canonico,
visto che il matrimonio è stato contratto secondo quelle regole (v. art. 8, 1°

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comma, 1° cpv. Accordo di Villa Madama).
Chi decide invece di rivolgersi al giudice ecclesiastico, e ottenga da questo
l’accertamento della nullità del matrimonio, deve rendere poi efficace la sen-
tenza nell’ordinamento italiano attraverso uno speciale procedimento di com-
petenza della corte d’appello, detto «delibazione». Questa deve accertare che
sussistesse la competenza del giudice ecclesiastico, in quanto il matrimonio ce-
lebrato era destinato ad essere trascritto (non essendo quindi puramente reli-
gioso); che nel procedimento davanti ai tribunale ecclesiastico fosse stato assi-
curato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme
dei principi fondamentali dell’ordinamento italiano e che non fossero state vio-
late le prerogative essenziali della difesa nel processo (art. 8, 2° comma, Accor-
do di Villa Madama). La sentenza ecclesiastica non è in ogni caso delibabile,
quando produca effetti «contrari all’ordine pubblico italiano» [art. 64, lett. g),
della l. 218 del 1995]: cioè quando si ponga in contrasto con i valori essenziali e
fondanti dell’ordinamento italiano.
L’art. 8, 2° comma, dell’Accordo di Villa Madama, prevede che la corte
d’appello possa, nella sentenza intesa a rendere esecutiva la decisione canoni-
ca, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui
matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competen-
te per la decisione sulla materia. Tali provvedimenti corrispondono a quelli as-
sunti eventualmente dal giudice adito in sede di nullità del matrimonio celebra-
to civilmente, ai sensi dell’art. 126 c.c. L’accertata inefficacia del vincolo matri-
moniale civile comporta inoltre le conseguenze in tema di matrimonio putativo,
a suo tempo illustrate, ivi comprese la proponibilità della domanda di corre-
sponsione di somme periodiche di denaro (art. 129) e di quella di risarcimento
del danno nei confronti del coniuge o del terzo in mala fede (art. 129-bis).

GLI EFFETTI CIVILI DEL MATRIMONIO RELIGIOSO NON CATTOLICO

Assai differente, e molto più semplice, è il meccanismo che la legge 24 giu-


gno 1929, n. 1159, integrata dal regolamento di attuazione approvato con r.d.
28 febbraio 1930, n. 289, ha predisposto per dare riconoscimento al matrimo-
nio celebrato da quanti professano un culto che, con scarsissima sensibilità per
la libertà di religione, la legge stessa indica come «ammesso». Si introduce una
disciplina semplicemente derogatoria rispetto ad alcuni profili già considerati
sulla celebrazione del matrimonio civile: dopo aver ricevuto la dichiarazione dei
nubendi di voler celebrare il matrimonio avanti il ministro del culto che profes-
sano, l’ufficiale dello stato civile, all’uopo richiesto, provvede alla pubblicazio-
ne, secondo gli artt. 93 ss. c.c. e 50 ss. ord. st. civ. Successivamente, se nulla vi

12
osta, rilascia autorizzazione scritta a celebrare il matrimonio, indicando il mini-
stro del culto che vi deve provvedere, il quale deve aver previamente ricevuto
l’approvazione della nomina con decreto ministeriale.
Il ministro del culto procede quindi seguendo il rito eventualmente prescrit-
to dalla liturgia, ma deve in ogni caso ricevere la dichiarazione espressa di en-
trambi gli sposi di volersi prendere in marito e in moglie, alla presenza dei te-
stimoni, dando lettura degli artt. 143, 144 e 147: al termine della celebrazione è
tenuto compilare l’atto di matrimonio, sottoscrivendolo e facendolo sottoscri-
vere dagli sposi e dai testimoni, e inviarlo, entro i successivi cinque giorni,
all’ufficiale dello stato civile.
La celebrazione avanti il ministro di culto, non munito di approvazione mini-
steriale, comporta la nullità del matrimonio.
La disciplina del 1929 è venuta progressivamente a perdere una parte signi-
ficativa del suo interesse, visto che molte tra le confessioni religiose non catto-
liche professate nel nostro Stato hanno concluso quelle intese destinate a rego-
larne i rapporti — di cui parla l’art. 8, 3° comma, Cost. — le quali sono state re-
cepite poi in singoli provvedimenti ed hanno superato la vecchia disciplina.
Prima in ordine di tempo è la legge 11 agosto 1984, n. 449, emanata per da-
re attuazione all’Intesa conclusa con la Chiesa rappresentativa della Tavola Val-
dese e sul calco della quale sono state successivamente forgiate quelle succes-
sive.
L’art. 11 di quella legge prevede quindi che chi intende celebrare il matri-
monio secondo le norme dell’ordinamento valdese debba comunicare tale in-
tenzione all’ufficiale dello stato civile al quale richiede le pubblicazioni; questi,
accertato che nulla si oppone alla celebrazione del matrimonio secondo le vi-
genti norme di legge, lo attesta nel nulla osta rilasciato ai nubendi in duplice
originale. In esso si precisa che la celebrazione nuziale seguirà il rito valdese e
avverrà nel comune indicato dai nubendi e che lo stesso ufficiale ha provveduto
a spiegare agli sposi i diritti e i doveri (civili) dei coniugi, dando ad essi lettura
degli articoli del codice civile al riguardo.

SOTTOSEZIONE VI
GLI EFFETTI PERSONALI

I coniugi si devono reciprocamente fedeltà, assistenza morale e materiale,


collaborazione nell’interesse della famiglia e devono coabitare (art. 143, 2°
comma).
La fedeltà consiste nell’astenersi dall’intrattenere rapporti affettivi con i ter-
zi.

13
L’assistenza nel prendersi cura dei bisogni dell’altro; la collaborazione nel
rendere agevole lo svolgimento della vita familiare.
I coniugi devono fissare di comune accordo il luogo in cui dare attuazione al-
la coabitazione (art. 144). Sarebbe però errato credere che coabitazione signifi-
chi perenne convivenza, in quanto ciascun coniuge è legittimato ad allontanarsi
temporaneamente dalla residenza familiare ove fondate esigenze lo richiedano,
quali — ad esempio — quelle legate all’attività lavorativa, alla salute e così via.
Il principio costituzionale di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi impli-
ca che costoro, di comune accordo, stabiliscano i modi di svolgimento della vita
insieme (art. 144). Dovranno pertanto essere concordate anziché imposte non
solo la residenza familiare, ma anche le forme e criteri di concretazione del
consortium vitae.
A tal fine occorre contemperare le esigenze del singolo coniuge con quelle
dell’altro e della famiglia (fondata sul matrimonio) nel suo complesso.
L’attuazione dell’indirizzo in tal modo condiviso potrà essere concretato di-
sgiuntamente da ciascuno dei coniugi.

GLI EFFETTI PATRIMONIALI

26. Il regime patrimoniale tra coniugi. — L’art. 143, 3° comma, prevede il re-
gime primario su cui sono conformati i rapporti patrimoniali tra i coniugi: quello
secondo cui ciascuno di essi deve contribuire ai bisogni della famiglia, in rela-
zione alle sue sostanze e alla sua capacità di lavoro professionale o casalingo.
Tale regime è insuscettibile di deroga e destinato ad imporsi indipendentemen-
te dal regime patrimoniale legale o pattizio prescelto dai coniugi (art. 160).
Essi infatti — anche se minori o inabilitati — possono stipulare in ogni tem-
po (quindi anche in previsione delle future nozze) convenzioni matrimoniali con
la forma dell’atto pubblico alla presenza di due testimoni (art. 162 c.c. e art. 48
l. not.) e possono pure crearne l’apparenza attraverso il congegno simulatorio.
Quegli accordi, oltre a non poter superare il regime primario di contribuzione
di cui si è detto, incontrano altri limiti invalicabili assai netti.
Anzitutto non è consentito rinviare genericamente agli usi o alla legislazio-
ne di altri ordinamenti (salvo che il diritto straniero sia applicabile secondo le
regole di diritto internazionale privato): le pattuizioni devono perciò essere
enunciate in maniera espressa (art. 161). Inoltre, non è consentito, né diret-
tamente né indirettamente, realizzare effetti analoghi a quelli della dote (art.
166-bis), prevedendo cioè che la moglie o la famiglia di lei conferiscano diritti
al marito, che ne abbia l’amministrazione esclusiva e ne percepisca i frutti per
assolvere alle necessità del nucleo familiare.

14
Le convenzioni matrimoniali (e le relative modificazioni) sono soggette a uno
speciale duplice regime pubblicitario. Devono infatti essere annotate a margine
dell’atto di matrimonio (o diversamente non sono opponibili ai terzi) e devono
inoltre essere trascritte, ai sensi degli artt. 2647 e 2685 c.c., quando abbiano
per oggetto beni immobili o mobili registrati (ma la trascrizione non assolve qui
la funzione di risolvere conflitti tra più aventi causa dal medesimo autore ma
solamente quella di assicurare la continuità del flusso di trascrizioni).
In mancanza di convenzioni, il regime legale è quello della comunione legale,
che i coniugi possono pure modificare, con i limiti imposti tuttavia dagli artt.
210 (c.d. comunione convenzionale). Essi non potranno quindi sottoporre al re-
gime di comunione i beni di uso strettamente personale, quelli che servono
all’esercizio della professione (se non siano destinati alla conduzione di
un’azienda facente parte della comunione stessa) e quelli ottenuti a titolo di ri-
sarcimento del danno o la pensione attinente alla perdita totale o parziale della
capacità lavorativa, Inoltre non potranno derogare alle norme relative
all’amministrazione della comunione e all’eguaglianza delle quote tra i coniugi,
quando si tratti di beni che formerebbero oggetto della comunione legale.

La comunione legale. – E’ il regime di attribuzione della titolarità degli acqui-


sti effettuati durante il matrimonio, se i coniugi non abbiano scelto la separa-
zione.
In generale diventano quindi comuni tutti i diritti reali acquistati durante il
matrimonio da ciascun coniuge, anche separatamente e anche se l’altro non
sapeva che fosse stato stipulato il relativo atto. Fanno eccezione:
a) gli acquisti per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di li-
beralità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comu-
nione;
b) gli acquisti di beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i
loro accessori (ossia di quei beni mobili che costituiscono la “dotazione” di
ogni persona, come gli occhiali, i vestiti, le scarpe..;
c) gli acquisti di beni che servono all’esercizio della professione del coniu-
ge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della
comunione;
d) gli acquisti di beni effettuati con il prezzo del trasferimento dei beni per-
sonali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiara-
to all’atto dell’acquisto. L’acquisto di beni immobili, o di beni mobili registrati è
escluso dalla comunione, quando si tratti di beni di uso strettamente personale,
o destinato all’esercizio della professione o sia acquistato con il prezzo ricavato
dalla vendita di beni personali, quando tale esclusione risulti dall’atto di acqui-

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sto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge.
Altri diritti divengono comuni solamente se non siano stati consumati duran-
te il periodo di comunione nella misura in cui sussistano al momento in cui essa
si sciolga (c.d. comunione de residuo). Si tratta in particolare:
— dei frutti dei beni propri (si pensi ai canoni di locazione dell’alloggio di
esclusiva proprietà di uno degli sposi);
— dei proventi dell’attività separata di ciascun coniuge (come i guadagni
della propria attività professionale).
Complesso è il regime di acquisto delle aziende. Se infatti esse sono gestite
da entrambi i coniugi sono comuni, se costituite dopo il matrimonio (art. 177,
lett. d). Diversamente quando appartengano esclusivamente a uno dei coniugi
(ma nuovamente siano gestite da entrambi i coniugi) saranno comuni solamen-
te gli utili e gli incrementi (art. 177, 1° comma, lett. d) e art. 177, 2° comma).
Quando siano gestite esclusivamente da uno degli sposi, cadono in comu-
nione i beni e gli incrementi solamente nella misura in cui sussistano al momen-
to dello scioglimento (art. 178).
La trascrizione del titolo a favore di un solo coniuge non impedisce l’acquisto
in comunione; se ne deduce che il coniuge il quale sia rimasto formalmente
estraneo alla compravendita è necessariamente parte del contratto traslativo
acquistando egli la quota di contitolarità astratta (a titolo derivativo) in forza
dell’effetto attributivo automatico decretato dall’art. 177, 1° comma, lett. a). Il
fondamento del principio consiste in ciò, che la pubblicità immobiliare ha qui
un contenuto eminentemente negativo; posto che la riconduzione del bene
all’interno della comunione opera ipso iure, deve essere perciò trascritta ai sen-
si dell’art. 179, 2° comma, non già la contitolarità del dominio (il cui diretto an-
tecedente è il titolo di acquisto ma la causa remota è il regime ordinario) bensì
l’esclusione dalla comunione legale degli oggetti negoziati entro i limiti ammes-
si dall’ordinamento.
Similmente, quando l’esclusione derivi da una scelta di autonomia privata
tradotta nelle forme della convenzione matrimoniale (art. 162) occorre porre
l’accento sul fatto che — come si è detto — la trascrizione del titolo ai sensi
dell’art. 2647 ha funzione di mera pubblicità notizia in quanto condizione ne-
cessaria e sufficiente per rendere opponibile il regime pattizio è l’annotazione
della convenzione stessa sull’atto di matrimonio (art. 162, ult. comma), anche
nel caso in cui il singolo negozio dispositivo abbia ad oggetto diritti su cose im-
mobili. Non è senza significato che la prospettata degradazione della trascrizio-
ne nei registri immobiliari da pubblicità dichiarativa a mera pubblicità notizia
determini un evidente intralcio alle esigenze di speditezza del traffico giuridico.
Prova ne sia che i terzi, al fine di verificare lo stato giuridico degli immobili, so-

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no costretti ad effettuare ricerche presso i registri dello stato civile in modo da
trarre le informazioni sul regime patrimoniale dei coniugi e sui connessi effetti
da esso scaturenti.
Sennonché tali registri, tenuto conto della loro naturale funzione di rendere
pubbliche le vicende influenti sullo stato della persona, mal si prestano
all’obiettivo di assicurare l’opponibilità del regime giuridico concernente le co-
se. Per rendersi conto delle implicazioni di suddetta prospettiva si rammenti
che un orientamento minoritario — non accolto dal diritto giudiziale — ha cer-
cato di superare le denunziate impasse sostenendo che l’annotazione rende
opponibile la convenzione, quantunque l’opponibilità dei singoli atti esecutivi o
attuativi della medesima presupponga la loro trascrizione presso i registri im-
mobiliari.

L’amministrazione. — I coniugi possono perfezionare disgiuntamente atti di


ordinaria amministrazione aventi ad oggetto il patrimonio comune, mentre per
quelli di straordinaria amministrazione occorre la partecipazione di entrambi
(art. 180). L’atto di straordinaria amministrazione compiuto da un solo coniuge,
quando concerne immobili o mobili registrati, è suscettibile di annullamento a
iniziativa del coniuge extraneus entro un anno dalla conoscenza e, in ogni caso,
entro un anno dalla trascrizione (siamo di fronte ad un termine di prescrizione
suscettibile però d’interruzione soltanto tramite domanda giudiziale) (art. 184,
commi 1° e 2°). Se si tratta di mobili non registrati l’atto di straordinaria ammi-
nistrazione è valido, ma il coniuge che lo ha compiuto è tenuto — su domanda
dell’altro — alla reintegrazione in forma specifica o, là dove ciò non sia possibi-
le, per equivalente.

La responsabilità patrimoniale. — Nel caso in cui l’atto negoziale fonte del


debito sia stato stipulato da entrambi i coniugi, ai sensi dell’art. 186, lett. d), i
creditori possono aggredire tanto il patrimonio comune quanto quello persona-
le dei coobbligati.
Per gli atti di straordinaria amministrazione compiuti da un solo coniuge
senza il necessario consenso dell’altro, ove quest’ultimo non s’avvalga del dirit-
to potestativo di esercitare l’azione di annullamento ex art. 184, commi 1° e 2°,
si trova a rispondere in via sussidiaria il patrimonio comune fino alla quota della
metà. Nello stesso tempo, qualora l’obbligazione derivante da un rapporto giu-
ridico perfezionato separatamente dal coniuge, pur non assumendo i tratti
dell’atto di straordinaria amministrazione ex art. 189, dovesse fuoriuscire dal
campo di applicazione dell’art. 186, lett. c), scatterà la responsabilità parziaria e
sussidiaria dell’altro coniuge come stabilito nell’art. 190.

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Il fondo patrimoniale. — A fianco del regime patrimoniale prescelto (comu-
nione legale, comunione convenzionale o separazione dei beni) è possibile isti-
tuire il fondo patrimoniale affinché su determinati beni venga impresso un vin-
colo di destinazione per far fronte ai bisogni della famiglia «nucleare» (artt. 167
ss.).
Segnatamente, tramite tale fondo specifici beni immobili, o mobili registrati
o titoli di credito (che devono essere resi nominativi) sono destinati al soddisfa-
cimento dei suddetti bisogni (art. 167, 1° comma). Non è richiesto il passaggio
di proprietà: il costituente può infatti conservare il dominio vincolando i beni
segregati alla finalità in esame.
La costituzione del fondo può essere effettuata (anche durante il matrimo-
nio) da ciascun coniuge o da entrambi mediante convenzione matrimoniale
(art. 162), oppure dal terzo per atto tra vivi o di ultima volontà (dunque tramite
legato o istituzione ex re certa); in quest’ultimo caso l’onere rappresenta lo
strumento adatto a imprimere sul patrimonio il vincolo connesso al trasferi-
mento venato da una causa (di regola) liberale, mentre se la costituzione è fatta
dal coniuge o dai coniugi da un canto non è scorgibile la finalità liberale stante il
sottostante dovere di contribuzione , dall’altro lo scopo di destinazione parteci-
pa della natura di elemento essenziale della fattispecie, il quale pare pertanto
sfuggire al tratto dell’accidentalità tipico del modus. Se la costituzione è fatta
per opera del terzo mediante atto tra vivi la vicenda segregativa viene in essere
soltanto dopo l’accettazione dei coniugi, cui spetta l’amministrazione (art. 167,
2° comma).
L’amministrazione dei beni oggetto di segregazione è disciplinata dagli artt.
180 ss. c.c. in tema di comunione legale (art. 168, ult. comma). La proprietà dei
medesimi spetta ai coniugi se non è diversamente stabilito nell’atto costitutivo
(art. 168, 1° comma).
Se non è stato espressamente previsto nel titolo, non si possono alienare,
ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare i beni del fondo (ma non già i
frutti dei medesimi) se non con il consenso di ambedue i coniugi e, se vi sono
figli minori, con l’autorizzazione giudiziale sempre che affiori lo stato di necessi-
tà oppure l’utilità manifesta (art. 169).
Il vincolo di destinazione (relativo ai beni e ai loro frutti naturali o civili) —
qualora sia stata effettuata l’annotazione di cui all’art. 162, ult. comma — è op-
ponibile ai terzi creditori per le obbligazioni (nate dopo l’attuazione di tale for-
malità) che costoro sapevano essere estranee ai bisogni della famiglia (art.
170).
Le vicende estintive del fondo sono regolate nell’art. 171:
a) la destinazione viene mene a séguito dell’annullamento, dello scioglimen-

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to o della cessazione degli effetti civili del matrimonio;
b) se vi sono figli minori il fondo dura tuttavia fino al compimento della
maggiore età dell’ultimo figlio;
c) tenuto conto delle condizioni economiche dei genitori e dei figli e di ogni
altra circostanza il giudice può attribuire ai figli, in godimento o in proprietà,
una quota dei beni del fondo;
d) se non vi sono figli si applicano le norme sullo scioglimento della comu-
nione legale (artt. 191 ss.).

L’impresa familiare. — L’art. 230-bis tutela il lavoro prestato dal familiare


all’interno dell’impresa gestita da altro familiare qualora il rapporto non sia
diversamente regolato (ad esempio tramite un vincolo di lavoro subordinato
o di società). Si è voluto così superare la tradizionale presunzione semplice
di gratuità (o di mera cortesia) della prestazione lavorativa svolta dai fami-
liari. I terzi non hanno alcun rapporto con i partecipi all’impresa familiare
posto che all’esterno titolare della stessa è l’imprenditore che la gestisce.
S’intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affi-
ni entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i
parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo (i giudici escludono
l’estensione al convivente di fatto della tutela residuale prevista nell’art.
230-bis).
Il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella
famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la con-
dizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa ed ai
beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine
all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché
quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessa-
zione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipa-
no all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la
piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la respon-
sabilità genitoriale su di loro.
Il diritto di partecipazione è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga
a favore dei suddetti familiari con il consenso di tutti i partecipi. Esso può esse-
re liquidato in danaro alla estinzione della prestazione del lavoro, ed altresì in
caso di alienazione dell’azienda.
In ipotesi di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi
hanno diritto di prelazione sull’azienda; si applica, nei limiti in cui è compatibile,
l’art. 732.

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LA CRISI DEL RAPPORTO MATRIMONIALE

La separazione giudiziale: i presupposti. — La separazione giudiziale può es-


sere pronunciata quando sussistano «fatti tali da rendere intollerabile la prose-
cuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della
prole» (art. 151, 1° comma).
La domanda di separazione personale si propone al tribunale. Il presidente
del tribunale tenta la conciliazione dei coniugi sentendoli prima separata-
mente poi congiuntamente (art. 708, 1° comma, c.p.c.). Se la conciliazione
non riesce, il presidente (anche d’ufficio), sentiti i coniugi e i rispettivi difen-
sori, dà con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa op-
portuni nell’interesse della prole e dei coniugi, nomina il giudice istruttore e
fissa udienza di comparizione e trattazione davanti a questi. Nello stesso
modo il presidente provvede, se il coniuge convenuto non compare, sentiti il
ricorrente e il suo difensore (art. 708, 3° comma, c.p.c.). (art. 708, comma 4,
c.c.).
Su domanda di parte il tribunale dichiara, ricorrendone le circostanze, a qua-
le coniuge la separazione sia addebitabile (art. 151, 2° comma): in tal caso il co-
niuge cui la separazione sia stata addebitata non ha diritto al mantenimento
(art. 156, 1° comma) e perde i diritti successori (art. 585, 1° comma), fermo re-
stando il diritto al legato (ex lege) alimentare, a patto che godesse alla data
dell’apertura della successione degli alimenti a carico del de cuius (art. 548, 2°
comma).

Gli effetti. — La separazione genera lo stato di quiescenza degli obblighi re-


ciproci di convivenza e fedeltà. L’obbligo di assistenza si tramuta in obbligo di
mantenimento sorretto dal criterio dell’adeguatezza dei redditi (art. 156).
Il tribunale riconosce a favore del coniuge (cui non sia addebitabile la sepa-
razione) l’assegno di mantenimento quando costui non disponga di adeguati
redditi propri necessari per garantirgli il tenore di vita che avrebbe goduto ove
si fosse protratta la convivenza. Sembra ragionevole considerare il tenore che il
coniuge economicamente forte avrebbe potuto assicurare con le sue ordinarie
(e, dunque, non accidentali) fonti di reddito. In ogni caso il provvedimento sul
mantenimento è sottoposto alla clausola legale rebus sic stantibus ex art. 156,
ult. comma, c.c.
Giova rinnovare alla memoria che la comunione fra coniugi si scioglie
quando il presidente del tribunale autorizzi i coniugi a vivere separati, o alla
data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale se

20
omologato (art. 191, 2° comma).
Il godimento della casa familiare è attribuito valutando prioritariamente
l’interesse dei figli. Dell’assegnazione che precede il giudice, considerata la
sua rilevanza patrimoniale, tiene conto nella regolazione dei rapporti econo-
mici fra i genitori, anche alla luce dell’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al
godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non
abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio
o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di
revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643 (art. 337-
sexies, 1° comma). Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il do-
micilio, l’altro coniuge è tenuto, ove vi siano figli minori, a comunicare la mo-
difica all’altro entro trenta giorni, pena il risarcimento degli eventuali danni.
Ci troviamo di fronte a un diritto reale (art. 1022) se la casa appartiene
all’altro coniuge o è in comunione; se, invece, l’immobile è condotto in locazio-
ne, il coniuge a favore del quale è attribuito il diritto personale (non già reale) di
godimento succede ipso iure nel contratto stipulato dall’altro (art. 6, 2° comma,
l. 392/1978).
Il tribunale può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito se tale uso
sia a lui gravemente pregiudizievole e può parimenti autorizzare la moglie a
non usare il cognome stesso qualora dall’uso possa derivarle pregiudizio (art.
156-bis).
Per quanto riguarda i figli, il tribunale se possibile stabilisce l’affidamento
condiviso; altrimenti dispone a quale coniuge spetti l’affidamento esclusivo. In
ogni caso determina la misura e il modo con cui ciascun genitore deve contri-
buire al mantenimento, alla cura, all’istruzione all’educazione della prole (art.
337-ter).
L’autorità giudiziaria, valutate le circostanze, può inoltre disporre a vantag-
gio dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un
assegno periodico. Tale assegno, di massima, deve essere direttamente corri-
sposto all’avente diritto (art. 337-septies, 1° comma). Ai figli maggiorenni porta-
tori di gravi minorazioni si applicano le disposizioni previste in favore dei figli
minori (art. 337-septies, 2° comma).
I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza
di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con
un’espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia in-
compatibile con lo stato di separazione (c.d. riconciliazione) (art. 157, 1°
comma).
La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto con riguardo
a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione (art. 157, 2° com-

21
ma).

La separazione consensuale. — La separazione può essere concordata dai


coniugi tramite l’esercizio dei loro potori di autodeterminazione (art. 158, 1°
comma). Ove sia stata scelta questa strada, il tribunale provvede
all’omologazione dell’accordo tramite decreto emanato in camera di consiglio.
Nell’accordo di separazione è possibile ravvisare un contenuto necessario e
un contenuto eventuale. Nel primo vanno noverate le determinazioni di vivere
separati e le disposizioni sul mantenimento del coniuge e dei figli; nel secondo
devono essere ricompresse le disposizioni (atipiche) semplicemente occasiona-
te dalla separazione.
Qualora l’accordo dei coniugi contempli soluzioni contrastanti con
l’interesse dei figli, il collegio «riconvoca i coniugi indicando ad essi le modifica-
zione da adottare nell’interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può ri-
fiutare allo stato l’omologazione» (art. 158, 2° comma). Dunque, il tribunale
non ha alcun potere di modificare l’intesa raggiunta dai coniugi, la quale — av-
venuta l’omologazione — costituisce la fonte diretta dei reciproci diritti e obbli-
ghi oggetto di negoziato.
È inoltre possibile perfezionare la separazione consensuale innanzi all’ufficio
dello stato civile, o la modifica delle precedenti condizioni (art. 12, d.l.
132/2014), qualora non vi siano figli minori, o maggiorenni portatori di handi-
cap o non autosufficienti economicamente. L’accordo in esame non può conte-
nere patti di trasferimento patrimoniale. L’atto che lo racchiude è compilato e
sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni dei coniu-
gi. Esso tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti
di separazione personale e di modifica delle condizioni di separazione. Nei soli
casi di separazione personale, l’ufficiale dello stato civile, quando riceve le di-
chiarazioni dei coniugi, li invita a comparire di fronte a sé non prima di trenta
giorni dalla ricezione per la conferma dell’accordo. La mancata comparizione
equivale a mancata conferma dello stesso.
Infine, è ammessa la separazione mediante convenzione di negoziazione as-
sistita stipulata dagli avvocati delle parti, ai sensi dell’art. 6 del cit. d.l. 132 del
2014. Se non vi siano figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti o porta-
tori di handicap, l’accordo raggiunto deve essere trasmesso al procuratore della
repubblica il quale, se non vi sono irregolarità, dà il nulla osta. Se vi siano invece
figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti o portatori di handicap, lo
stesso procuratore della repubblica autorizza l’accordo quando ritiene che ri-
sponda all’interesse dei figli, diversamente lo trasmette al presidente del tribu-
nale che fissa la comparizione dei coniugi avanti a sé.

22
Il divorzio. — Il tribunale pronunzia lo scioglimento del matrimonio (o la ces-
sazione degli effetti civili del matrimonio concordatario ove sia stato trascritto)
quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui all’art. 4 l. div.,
abbia accertato che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non possa
essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause enumerate
nell’art. 3 l. div. (artt. 1 e 2 l. div.).
Completata l’istruzione della causa, il collegio è chiamato a verificare non so-
lo la sussistenza dei presupposti legali, ma anche l’impossibilità a mantenere o
ricostruire la comunione spirituale e materiale tra i coniugi (art. 2 l. div.). L’art.
12, d.l. 132/2014, regola il divorzio consensuale, secondo formalità simili a
quelle già esposte quando ci occupammo della separazione concordata.
L’art. 4, ult. comma, l. div., disciplina il divorzio congiunto, che deve essere
parimenti preceduto — secondo l’interpretazione prevalente — dal tentativo di
conciliazione. In siffatta ipotesi il tribunale decreta l’apertura del giudizio con-
tenzioso qualora ritenga che gli accordi dei coniugi concernenti i figli siano in
contrasto con gli interessi di questi ultimi.
Al di fuori del procedimento disciplinante il ricorso congiunto, il tribunale,
valutate le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione e il contributo per-
sonale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio indivi-
duale e comune, attribuisce un assegno periodico (c.d. assegno divorzile o
postmatrimoniale) al coniuge che non abbia adeguati redditi propri (o comun-
que non sia in grado per motivi obiettivi di procurarseli). Secondo un diffuso
orientamento giurisprudenziale, per mezzi adeguati (ex art. 5, 6° comma, l. div.)
s’intendono le fonti economiche idonee ad assicurare al coniuge un tenore di
vita analogo a quello che ha caratterizzato la pregressa convivenza coniugale:
sicché, avrebbe diritto all’assegno divorzile il coniuge il quale, pur disponendo
di un proprio reddito sufficiente ai fini del sostentamento, non potrebbe trami-
te esso far fronte agli oneri in vista della perpetuazione del suddetto tenore.
Tale regola di determinazione dell’assegno — a parere di una parte della lette-
ratura e della giurisprudenza forense più recente — implicherebbe un malcela-
to sfavore verso la dissolubilità del matrimonio. Si ritiene oggi che
l’adeguatezza dei suddetti mezzi non è legata dal tenore di vita matrimoniale,
ma dall’indipendenza economica del coniuge c.d. debole e dalla sua capacità di
procurarsela.
La circostanza che il titolare del diritto all’assegno allacci medio tempore un
rapporto di convivenza di fatto si presta ad essere valutata per mezzo del giudi-
zio di revisione (art. 9, 1° comma, l. div.), ove si traduca a suo favore in entrate
non episodiche volte a soddisfare un’obbligazione naturale.

23
L’art. 5, 8° comma, l. div. — si è visto — conferisce alle parti la facoltà di li-
quidare pattiziamente l’assegno postmatrimoniale in unica soluzione: in tal ca-
so non potrà più essere proposta alcuna domanda di contenuto patrimoniale.
Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza (definitiva) di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non
passato a nuove nozze e in quanto sia titolare dell’assegno divorzile, a una per-
centuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge al momen-
to della cessazione del rapporto di lavoro.
In caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente
i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata
pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del ma-
trimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di
assegno divorzile, alla pensione di reversibilità, a patto che il rapporto da cui
trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza (art. 9, 2°
comma, l. div.).
L’obbligo, ai sensi degli artt. 315-bis e 316-bis, di mantenere, educare e
istruire i figli nati o adottati durante il matrimonio di cui sia stato pronunciato lo
scioglimento o la cessazione degli effetti civili, permane anche nel caso di pas-
saggio a nuove nozze di uno o di entrambi i genitori. Il tribunale che pronuncia
lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio applica, riguar-
do ai figli, le disposizioni contenute nel capo II, del titolo IX, del libro primo, del
codice civile (art. 6 l. div.). L’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza
al genitore cui sono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggio-
re età. In ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condi-
zioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione sì da favorire il coniuge
più debole. L’assegnazione — ove trascritta — è opponibile al terzo acquirente
ai sensi dell’art. 1599. Il tribunale dà inoltre disposizioni circa l’amministrazione
dei beni dei figli e, nell’ipotesi in cui l’esercizio della responsabilità genitoriale
sia affidato a entrambi i genitori, circa il concorso degli stessi al godimento
dell’usufrutto legale.

L’UNIONE CIVILE TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO

La struttura dell’atto e l’invalidità. — Secondo la prevalente interpretazione


della giurisprudenza dottrinale e forense, le finalità procreative imprescindibili,
che si trovano a fondamento dell’istituto matrimoniale, precludono alle perso-
ne dello stesso sesso di accedervi. Per tale ragione il legislatore, con la legge 20
maggio 2016, n. 76, (breviter l.u.c.c.) ha creato un istituto che vi si avvicina in

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larga misura sul piano degli effetti personali e patrimoniali ma mantiene alcuni
tratti di distinzione.
L’unione può stipularsi tra persone maggiorenni, appunto dello stesso sesso,
mediante dichiarazione resa dinanzi all’ufficile di stato civile, alla presenza di
due testimoni, annotata in margine all’atto di nascita di ciascuna delle parti e
conservata nel registro provvisorio delle unioni civili (v. D.p.c.m., 23 luglio 2016,
n. 44, Regolamento recante disposizioni transitorie per la tenuta dei registri
nell’archivio dello stato civile). La stipulazione deve essere preceduta da una ve-
rifica, compiuta dall’ufficiale stesso, quanto all’insussistenza degli impedimenti
indicati all’art. unico, comma 4, l.u.c.c., come il vincolo matrimoniale o di
un’unione civile, che una delle parti abbia con un terzo; l’interdizione di una
delle parti per infermità di mente; la sussistenza tra le parti dei rapporti di pa-
rentela indicati all’art. 87, primo comma, c.c. o la condanna di un contraente
per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito ci-
vilmente con l’altra parte.
L’unione civile è nulla quando sussistono gli impedimenti testé rammentati e
può quindi essere impugnata da ciascuna delle parti dell’unione civile, dagli
ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano per
impugnarla un interesse legittimo e attuale.
È altresì nulla quando al momento della stipulazione una delle parti fosse in-
capace di intendere o di volere o quando fosse stata simulata (trovano applica-
zione gli artt. 120 e 123 c.c. e le regole dettate per il matrimonio putativo (v.
art. unico, comma 5).
Come il matrimonio, l’unione è nulla pure quando il consenso fosse stato
prestato con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità determi-
nato da cause esterne alla parte stessa o quando fosse viziato da errore
sull’identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell’altra
parte, cioè quando riguardi:
a) l’esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimen-
to della vita comune;
b) le circostanze di cui all’articolo 122, terzo comma, numeri 2), 3) e 4), del
codice civile.

4Gli effetti personali e patrimoniali. — Come già si è detto, al momento della


stipulazione, le parti dell’unione possono scegliere di rendere comune il co-
gnome di una di loro (art. unico, comma 10, l.u.c.c.).
Dall’unione discendono per le parti gli stessi diritti e gli stessi doveri;
l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione (alla

25
parte dell’unione che si allontani dalla residenza familiare (si applica l’art.
146).
Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze
e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai
bisogni comuni. Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e
fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attua-
re l’indirizzo concordato (art. unico, comma 11 s., l.u.c.c.).
Il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in
mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione
dei beni. Trovano quindi applicazione le regole dettate per la modifica, simula-
zione e capacità per la stipula delle convenzioni patrimoniali e alle parti è fatto
divieto di derogare ai diritti e ai doveri previsti dalla legge per effetto
dell’unione civile. Si applicano le disposizioni dettate per il fondo patrimoniale,
per la comunione legale, come già detto, per la comunione convenzionale, per
la separazione dei beni e per l’impresa familiare (art. unico, comma 13, l.u.c.c.).
Con una previsione di non facile applicazione, all’art. unico, comma 20,
l.u.c.c., il legislatore ha poi demandato all’interprete di applicare alle parti
dell’unione civile tutte le disposizioni che si riferiscono al matrimonio o quelle
ove si evoca comunque il «coniuge», i «coniugi» o si usano termini equivalenti a
due condizioni:
— che ciò sia indispensabile per assicurare l’effettività della tutela dei diritti e
il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione medesima;
— che non si tratti di disposizioni contenute nel codice civile (sempre che
non siano state richiamate espressamente dalla stessa l.u.c.c.) o di quelle con-
tenute nella legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto del minore a una famiglia.

Lo scioglimento. — L’unione si scioglie in maniera automatica con la morte,


la dichiarazione di morte presunta, la sentenza di rettificazione del sesso di una
delle parti dell’unione civile.
Con sentenza costitutiva, su domanda di una delle parti, il tribunale scioglie
l’unione medesima quando le parti, anche disgiuntamente, lo abbiano domandato
all’ufficiale dello stato civile e siano trascorsi almeno tre mesi dalla domanda oppu-
re quando sussistano le condizioni previste dall’articolo 3, numero 1) e numero 2),
lettere a), c), d) ed e), della legge 1° dicembre 1970, n. 898.
Il relativo procedimento è regolato dalle stesse previsioni dettate da tale ul-
tima legge, di cui è già detto retro § 40 (art. unico, comma 25, l.u.c.c.).

LA FAMIGLIA SENZA MATRIMONIO O SENZA UNIONE CIVILE

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Il contratto di convivenza: la forma e il contenuto. —Si parla di famiglia «au-
todeterminata» quando due persone scelgano di basare gli effetti patrimoniali del-
le loro relazioni affettive su un contratto concluso tra loro, che l’art. unico, comma
51, l.u.c.c. vuole, a pena di nullità, stipulato con atto pubblico o scrittura privata au-
tenticata da un notaio oppure (con previsione molto singolare) da un avvocato, i
quali vengono chiamati a valutarne pure la conformità alle norme imperative e
all’ordine pubblico.
Sempre a pena di nullità, il contratto non può essere stipulato da persone
sposate o unite civilmente, tra parenti, affini, adottanti e adottati, o tra persone
che non si sentano unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca
assistenza morale e materiale. È altresì nullo quando sia stipulato da un minore
o da un interdetto o da una persona condannata per omicidio consumato o ten-
tato sul coniuge (o sulla parte dell’unione civile) dell’altra (art. unico, comma
57, l.u.c.c.). Trattasi poi di atto che non tollera l’apposizione di termini o condi-
zioni.
A cura del notaio o dell’avvocato, il contratto stesso deve essere trasmesso,
entro dieci giorni dalla stipulazione o dall’autentica della sottoscrizione, non,
come ci si sarebbe dovuti attendere, all’ufficio di stato civile, ma all’anagrafe
del comune di residenza dei conviventi, al fine di renderlo opponibile ai terzi
(ciò che rileva quando le parti abbiano scelto il regime della comunione legale
degli acquisti, v. subito infra).
Il contratto così concluso può quindi disciplinare le modalità di contribuzione
alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla
capacità di lavoro professionale o casalingo, e prevedere l’applicazione del re-
gime patrimoniale della comunione dei beni, di cui si è detto retro, sottosezione
VII.
Al convivente di fatto, non legato all’altro da un contratto di società o di la-
voro subordinato, che presti stabilmente la propria opera all’interno
dell’impresa dell’altro convivente spetta la partecipazione agli utili dell’impresa
familiare ed ai beni acquistati con essi, oltre agli incrementi dell’azienda, in
proporzione al lavoro prestato (art. 230 ter).

Lo scioglimento. — Il contratto di convivenza si risolve per mutuo dissenso,


per recesso o morte di una delle parti, per il matrimonio o l’unione civile con-
clusi tra i conviventi o tra un convivente e un terzo (art. unico, comma 59,
l.u.c.c.).
A pena di nullità, il mutuo dissenso e l’atto unilaterale di recesso devono es-
sere manifestati per atto pubblico o scrittura privata autenticata dal notaio o
dall’avvocato. Essi devono inoltre essere trasmessi all’anagrafe per l’iscrizione

27
e, quando si tratti di recesso, devono essere notificati all’altro convivente e
contenere, a pena di nullità, il termine, non inferiore a novanta giorni, conces-
sogli per lasciare la casa familiare che si trovi nella disponibilità esclusiva del re-
cedente.
Il convivente che contragga matrimonio o stipuli un’unione civile deve
notificare all’altro e al professionista che ha ricevuto o autenticato l’atto
l’estratto di matrimonio o di unione civile (art. unico, comma 62, l.u.c.c.).
Al professionista stesso deve invece essere notificato l’estratto dell’atto di
morte di uno dei conviventi, a cura del superstite o degli eredi del primo, affin-
ché’ provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta ri-
soluzione del contratto e a darne notizia all’anagrafe del comune di residenza.

LA FILIAZIONE

LA FILIAZIONE NEL MATRIMONIO

L’attribuzione legale della paternità. — Conoscere i propri genitori ed esser-


ne allevati è prerogativa essenziale di ogni nuova vita (v. artt. 7 e 18 Conv. New
York 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, ratificata con l. 27 maggio 1991,
n. 176). Sino alla già cit. l. 10 dicembre 2012, n. 219, il nostro legislatore aveva
continuato a qualificare «legittima» la filiazione nel matrimonio, contrappo-
nendola a quella «naturale», per indicare quella occorsa fuori dal matrimonio
stesso.
Quando il figlio nasca da donna coniugata, per assicurargli il diritto alla bige-
nitorialità, la legge attribuisce automaticamente la paternità al marito della
madre attraverso una presunzione legale superabile a certe condizioni con la
prova contraria (art. 231).
L’operatività di un simile automatismo è tuttavia impedita dalla volontà ma-
nifestata dalla madre di non essere nominata nell’attestazione di nascita, in
modo che essa non risulterà menzionata neppure nell’atto di nascita conse-
guente (v. art. 30 ord. st. civ.) ma è impedito anche dalla dichiarazione di non
essere stata fecondata dal marito.
La presunzione di paternità scatta pertanto quando il figlio nasca dopo la ce-
lebrazione del matrimonio — pur se il matrimonio religioso sia stato trascritto
tardivamente — mentre cessa di operare quando vengano meno gli effetti del
vincolo stesso e siano trascorsi almeno trecento giorni.
L’operatività del meccanismo è impedita dall’inesistenza del matrimonio ma
non dalla nullità di questo, almeno sino a quando essa non sia stata appunto

28
dichiarata con sentenza passata in giudicato (o non sia passata in giudicato la
sentenza di delibazione della sentenza di nullità pronunziata dal tribunale ec-
clesiastico) (art. 128, 2° comma).

Il sistema probatorio. — L’automatismo di cui si sta discorrendo, che condu-


ce alla condivisione tra la moglie e il marito della responsabilità genitoriale, ri-
chiede di considerare alcune circostanze:
a) la nascita del neonato;
b) il giorno del parto;
c) l’identità della puerpera;
d) l’attuale sussistenza dello status di coniugio in capo alla puerpera stessa
(o l’accertamento che questo è venuto meno, o si è attenuato con la separazio-
ne, da non più di trecento giorni dalla nascita);
e) la celebrazione del matrimonio della puerpera in data antecedente alla
nascita.
L’atto di nascita consiste, secondo quanto prevede l’art. 30 ord. st. civ., in un
documento formato dall’Ufficiale dello stato civile, in séguito alla dichiarazione
di nascita del neonato (effettuata dai genitori, da un procuratore speciale, dal
medico, dall’ostetrica o da chiunque altro abbia assistito al parto), e
all’accertamento dell’effettiva nascita attraverso la presentazione di
un’attestazione rilasciata dalla struttura sanitaria in cui è avvenuto il parto, op-
pure dal medico o dall’ostetrica che vi ha assistito.
Dall’atto formato — munito di fede probatoria privilegiata, ai sensi dell’art.
2700 c.c. — si possono desumere: la nascita del figlio (a), il luogo, la data e l’ora
della nascita (b), le generalità della puerpera (che non abbia inteso rimanere
anonima) (c). Analoga fede assiste l’atto di matrimonio, dal quale l’Ufficiale del-
lo stato civile, ricevuta l’attestazione di nascita, desumerà lo status coniugale
della puerpera, la celebrazione del matrimonio in data antecedente alla nascita
e l’identità del marito.
Alla mancanza dell’atto di nascita, sopperisce il possesso di stato (art. 236),
mediante il quale si riflette nella realtà del consorzio sociale l’immagine dello
status di figlio nato nel matrimonio, attraverso gli elementi indicati all’art. 237:
il genitore deve aver trattato la persona come figlio e provveduto in tal qualità
al mantenimento, all’eduzione e al collocamento di essa (tractatus); la persona
sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali e sia stata
riconosciuta in detta qualità dalla famiglia (fama).
Quando finalmente manchino tanto l’atto di nascita quanto il possesso di stato,
la prova della filiazione potrà darsi in giudizio con ogni mezzo (art. 241).

29
L’azione di disconoscimento della paternità. — L’automatismo, con il quale
la legge attribuisce la paternità al marito della madre, viene meno con la sen-
tenza che accoglie l’azione di disconoscimento disciplinata all’art. 243 bis. Se-
condo la recente novella del 2013, la madre deve esperire l’azione non oltre sei
mesi dalla nascita del figlio (e ciò è conforme all’art. 3 Cost., poiché ella può co-
noscere meglio di ogni altro l’identità del padre biologico), sempre che l’azione
non si basi sull’impotenza di generare del marito, perché in questo caso il se-
mestre decorre dal momento in cui abbia avuto conoscenza della disfunzione
dello sposo (art. 244, 1° comma).
Il marito può invece disconoscere il figlio entro un anno dal giorno della na-
scita, se si trovava al tempo di questa nel luogo (ossia nel comune) ove il figlio è
venuto alla luce; diversamente il termine decorre dal giorno in cui ha fatto ri-
torno nel comune di nascita del figlio o nella residenza familiare se ne era lon-
tano e in ogni caso, se prova di non aver avuto notizia della nascita in detti
giorni, da quando ne abbia avuto notizia (art. 244, 2° e 3° comma).
L’azione della madre e quella del marito sono comunque soggette al termine
quinquennale di decadenza dalla nascita del figlio (art. 244, comma 4°).
Il figlio può agire in ogni momento quando abbia raggiunto la maggiore età e
la sua domanda non è soggetta a prescrizione o a decadenza (art. 244, comma
5°).

La trasmissione dell’azione in caso di morte dei soggetti legittimati e gli ef-


fetti della sentenza. — Se il presunto padre o la madre muoiono senza averla
promossa, l’azione può essere esperita in loro vece dai discendenti o dagli
ascendenti, purché non sia spirato il termine di decadenza: il nuovo termine
decorre dalla morte del presunto padre o della madre, o dalla nascita del figlio
se postumo o dal raggiungimento della maggiore età da parte di ciascuno dei
discendenti.
Se muoia invece il figlio senza averla promossa, in sua vece può agire il
coniuge o i discendenti di lui nel termine di un anno dalla morte del figlio o
dal raggiungimento della maggiore età di ciascuno dei discendenti (art. 246).
Se il legittimato aveva invece già proposta l’azione prima della morte, il
processo può essere proseguito dai soggetti appena indicati (e non quindi dai
suoi eredi).
La sentenza che accolga la domanda [da «annotare» in calce all’atto di na-
scita, ai sensi dell’art. 49, lett. o), ord. st. civ.] comporta (col venir meno della
paternità attribuita dalla legge al marito) la perdita del cognome paterno, in
capo al figlio, ai suoi discendenti e al coniuge di lui, se questi non intendano
far valere il diritto a mantenerlo, quale autonomo segno distintivo della loro

30
identità personale. Diversamente il figlio disconosciuto assumerà il cognome
della madre, di cui risulterà figlio «riconosciuto nato fuori del matrimonio».

L’azione di contestazione e quella di reclamo. — L’azione di contestazione e


quella di reclamo servono per dimostrare che quanto risulta dall’atto di nascita
non è vero (la contestazione) e per far accertare la situazione reale. Ciò può di-
pendere da supposizione di parto (cioè attribuzione della maternità a persona
diversa da quella che in realtà non ebbe a partorire) o sostituzione di neonato
(la maternità sia stata attribuita alla donna diversa da quella che partorì il figlio
di cui trattasi) ovvero da chi sia stato scritto come figlio di ignoti pur essendo
nato nel matrimonio (art. 240).
Attivamente legittimati sono chi risulti genitore del figlio dall’atto di nascita
e chiunque vi abbia interesse, anche di natura patrimoniale (come un erede te-
stamentario che voglia contestare lo status del presunto figlio il quale si trovi
nella posizione di erede legittimario).
La domanda non è soggetta a termine di decadenza (art. 248, 2° comma) e
con la sentenza che la accoglie — da annotare in calce all’atto di nascita [art.
49, lett. o), ord. st. civ.] — il figlio acquista lo status di nato fuori del matrimo-
nio, perdendo il cognome paterno.

LA FILIAZIONE FUORI DEL MATRIMONIO

La qualità di genitore stabilita mediante dichiarazione unilaterale (ricono-


scimento del figlio). — La relazione tra il figlio e i genitori tenuti a mantenerlo,
istruirlo ed educarlo, quando non sia costituita attraverso l’automatismo di cui
si è parlato, dipende da una dichiarazione efficace solamente con riguardo a
quello tra i due genitori che l’abbia resa: manca quindi la condivisione della re-
sponsabilità genitoriale tra la madre ed il padre e, se pure la dichiarazione ven-
ga resa da entrambi, non sorge tra loro alcuna relazione giuridica (art. 258).
La dichiarazione — che è irrevocabile e non tollera clausole dirette a limitar-
ne gli effetti (art. 257) — può essere resa anzitutto nell’atto di nascita, anche
attraverso un terzo, al quale sia stata rilasciata procura con atto pubblico (art.
12, 7° comma, e 30 ord. st. civ.). Inoltre, essa può essere manifestata, sin
dall’epoca del concepimento, con atto separato ricevuto dall’ufficiale dello sta-
to civile, che la dovrà iscrivere negli archivi di cui all’art. 10 ord. st. civ. (v. artt.
42 ss. ord. st. civ.), oppure dal notaio oppure da altro pubblico ufficiale, al quale
siano state conferite le funzioni di stato civile, da inviare nei successivi venti
giorni all’ufficiale dello stato civile per la trascrizione (art. 46, 1° comma, ord. st.
civ.). Finalmente, la dichiarazione potrà essere contenuta in un testamento,

31
qualunque sia la forma di questo (art. 254): in questo caso, il notaio che proce-
da alla pubblicazione dell’olografo o del testamento segreto, ovvero al passag-
gio del testamento pubblico dal fascicolo a repertorio speciale degli atti di ulti-
ma volontà a quello generale degli atti tra vivi, dovrà, nei successivi venti giorni,
trasmetterne copia allo stesso ufficiale dello stato civile sempre perché provve-
da alla trascrizione.
La dichiarazione può essere resa validamente da chi abbia compiuto il sedice-
simo anno d’età (anche se essa sia contenuta in un testamento) purché non sia
stato interdetto per infermità di mente (art. 250, 5° comma): diversamente l’atto
potrà essere dichiarato inefficace, con sentenza resa su domanda giudiziale del
rappresentante legale del minore infrasedicenne o dell’interdetto, oppure di co-
lui che abbia effettuato il riconoscimento, entro un anno dalla revoca
dell’interdizione o del raggiungimento della maggiore età.
La dichiarazione è nulla per mancanza di causa, quando il rapporto di filia-
zione sia già stato riconosciuto o dichiarato giudizialmente oppure quando la
paternità sia stata attribuita legalmente al marito della madre, secondo il mec-
canismo previsto all’art. 231.
Il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni è inefficace, sino a
quando egli non presti il suo assenso: il suo rifiuto (o la sua inerzia a manifestare
il proprio intento) è insindacabile, mentre il suo assenso può seguire al ricono-
scimento (che è irrevocabile, v. art. 256) in qualunque momento.
Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i sedici anni è sottoposto
invece al consenso dell’altro genitore che l’abbia previamente riconosciuto e
non sia poi decaduto dalla responsabilità genitoriale o escluso dall’esercizio di
essa: il mancato consenso (o il rifiuto a prestarlo) può essere superato
dall’assenso prestato dal figlio, dopo il compimento del sedicesimo anno di età
oppure attraverso l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 250, 4° comma. Essa
si esercita con ricorso al tribunale ordinario (in seguito alla riforma di cui alla l.
219 del 2012), il quale, se ritiene il rifiuto del consenso non giustificato
dall’interesse del minore infrasedicenne, pronuncia sentenza che ha gli effetti
dell’assenso negato.
L’assenso del figlio ultrasedicenne, e quello del genitore che lo ha ricono-
sciuto se il figlio stesso fosse minore degli anni sedici, deve essere prestato con
le forme previste all’art. 254: non occorre quando il genitore o il figlio siano in-
capaci d’intendere o di volere o siano stati interdetti.
Nel caso di riconoscimento di figlio premorto (art. 255) l’assenso deve esse-
re prestato da tutti i suoi discendenti: il riconoscimento avviene infatti esclusi-
vamente nell’interesse di questi ultimi (mai nell’interesse dei genitori, che vi
potrebbero essere indotti da finalità puramente egoistiche), sì che, se non vi

32
siano discendenti, andrà ritenuto inefficace ma non invalido (l’ufficiale dello
stato civile, o il notaio, sarà perciò tenuto a riceverlo).
Quando finalmente il figlio sia nato da persone tra le quali esista un vincolo
di parentela, in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado,
ovvero un vincolo di affinità in linea retta, il riconoscimento deve essere auto-
rizzato dal giudice, il quale lo concede valutando l’interesse del figlio e la neces-
sità di evitargli qualsiasi pregiudizio derivante dalla filiazione «incestuosa» (art.
251).

Gli effetti della dichiarazione di riconoscimento. — La dichiarazione produce


di regola effetti dal momento della nascita del figlio, a prescindere dal fatto che
essa sia anteriore, contestuale o pure successiva, a quest’ultima.
In séguito alla dichiarazione di riconoscimento, il figlio assume il cognome
del genitore che l’ha riconosciuto per primo, se il riconoscimento è avvenuto
invece contestualmente da parte di entrambi i genitori, il figlio assume il co-
gnome del padre. Se la filiazione nei confronti del padre sia stata accertata o
riconosciuta dopo il riconoscimento della madre (come in genere avviene) il fi-
glio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sosti-
tuendolo a quello della madre. Se il figlio è minore, spetta al tribunale decidere
sull’assunzione del cognome del genitore, dopo averlo ascoltato se ha compiu-
to gli anni dodici o se, essendo di età inferiore, abbia capacità sufficienti di di-
scernimento (art. 262).
L’esercizio della responsabilità genitoriale è attribuita al genitore che abbia
riconosciuto il figlio, anche se questi non conviva con lui (art. 316, 4° comma).

L’impugnazione del riconoscimento. — Proponendo un’azione apposita, il ri-


conoscimento può essere dichiarato inefficace quando chi l’ha effettuato non
sia la madre o il padre biologico (e ciò a prescindere dal fatto che questi ultimi
fossero consapevoli della falsità).
L’art. 74 l. dir. min. fam. impone agli ufficiali dello stato civile di trasmettere
immediatamente al tribunale per i minorenni competente una comunicazione,
sottoscritta dal dichiarante, dell’avvenuto riconoscimento da parte di persona
coniugata di un figlio non riconosciuto dall’altro genitore. Il tribunale dispone
l’esecuzione di opportune indagini per accertare la veridicità del riconoscimen-
to.
Ove sussistano fondati motivi in ordine al carattere inveritiero della dichia-
razione, il tribunale, anche d’ufficio, nomina un curatore speciale, che proce-
de all’impugnazione avanti il tribunale ordinario competente (v. art. 38 disp.
att.).

33
Oltre all’autore del riconoscimento e al figlio, è legittimato all’azione chiun-
que vi abbia interesse.
L’azione può essere utilizzata pure per far accertare l’inefficacia del ricono-
scimento che dipenda da violenza subita da chi effettuò la dichiarazione o da
interdizione per infermità di mente di quest’ultimo (artt. 265 e 266).
L’incapacità d’intendere o di volere, quando non abbia condotto a un ricono-
scimento inveritiero, non ne inficia viceversa la validità.
La sentenza che accoglie o rigetta l’impugnazione del riconoscimento è co-
municata, a cura del procuratore della Repubblica, o è notificata, a cura degli
interessati, all’ufficiale dello stato civile che ne fa annotazione nell’atto di nasci-
ta (art. 48 ord. st. cit.).

La qualità di genitore stabilita con sentenza (dichiarazione giudiziale di ma-


ternità e paternità). — Effetti del tutto analoghi alla dichiarazione di riconosci-
mento produce la sentenza di accertamento della filiazione fuori del matrimo-
nio (art. 277), la quale dichiara la sussistenza dei fatti costitutivi della status di
figlio con efficacia retroattiva, sin dal momento della nascita, con la conseguen-
za che dalla stessa data decorre anche l’obbligo di rimborsare pro quota l’altro
genitore che abbia integralmente provveduto al mantenimento del figlio.
Legittimato attivamente a proporre la domanda — che non è soggetta a
prescrizione o a decadenza — è il figlio, ovvero i suoi discendenti, entro due
anni dalla morte di lui (ai discendenti stessi la legge consente di riassumere il
procedimento iniziato dal loro ascendente prima di morire): l’azione può essere
proposta altresì dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale o, previa
autorizzazione del giudice, anche dal tutore, ma in tali casi il figlio che abbia
compiuto quattordici anni deve prestare il proprio consenso. Infine può essere
proposta dal tutore dell’interdetto, sempre previa autorizzazione del giudice.
Legittimato passivamente è chi si assume essere genitore biologico o, qualo-
ra egli sia morto (naturalmente o dichiarato presuntivamente tale), i suoi eredi
o, in loro mancanza, un curatore nominato dal giudice (art. 276). La prova della
maternità o della paternità potrà essere data con qualsiasi mezzo, sempre che
questo sia compatibile con la natura non disponibile degli interessi coinvolti
(quindi come al solito non sono ammessi né la confessione né il giuramento).
Anche in queste ipotesi le indagini ematologiche e genetiche svolgono un
ruolo assolutamente preminente (se la domanda riguarda un soggetto ancora
vivente). Il rifiuto opposto dal convenuto a sottoporvisi costituisce argomento
di prova, valutabile ai sensi dell’art. 116, 2° comma, c.p.c.
La sentenza passata in giudicato è comunicata, a cura del procuratore della
Repubblica, o è notificata dagli interessati, all’ufficiale dello stato civile, che ne

34
fa annotazione in margine all’atto di nascita.
Nei casi di filiazione «incestuosa» (cioè nato da persone tra le quali esista un
vincolo parentale in linea retta all’infinto o in linea collaterale nel secondo gra-
do, o un vincolo di affinità in linea retta), l’azione non può essere promossa
senza la preventiva autorizzazione del tribunale, che dovrà valutare l’interesse
del figlio e la necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio (art. 278).

L’azione per il mantenimento e l’educazione dei figli non riconoscibili. — Tra


le pieghe della disciplina appena esaminata, persistono alcune (ormai rare) ipo-
tesi nelle quali il figlio si trova in concreto a non poter agire per ottenere la di-
chiarazione giudiziale di paternità o di maternità: in simili ipotesi, l’art. 30, 1°
comma, Cost., non consente ai genitori biologici di sottrarsi al dovere di mante-
nerlo, istruirlo ed educarlo. A tal fine, essi possono essere convenuti in giudizio
dal figlio stesso, se maggiorenne (oppure da un curatore speciale, nominato su
richiesta del pubblico ministero o del genitore esercente la responsabilità geni-
toriale). Quando sia maggiorenne e abbia perduto il diritto al mantenimento, se
si trova in stato di bisogno può conseguire gli alimenti.

LA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA

54. I presupposti per accedere alle tecniche riproduttive. — Nonostante non


si sia mai dubitato quanto al fatto che la procreazione basata sull’unione ses-
suale della donna con l’uomo sia assolutamente libera, con la l. 19 febbraio
2004, n. 40, il legislatore ha ritenuto di introdurre tutta una serie di divieti e di
limitazioni, quando la procreazione stessa dipenda dal ricorso a pratiche fecon-
dative medicalmente assistite. Premesso che non è consentita la c.d. surroga-
zione di maternità (detta pure gestazione d’appoggio o affitto d’utero), in ogni
caso l’accesso alla altre tecniche di procreazione mediacalmente assistita è
ammesso solamente:
— per le coppie di viventi maggiorenni (o, si deve ritenere, di minori eman-
cipati) di sesso differente, anche non unite in matrimonio purché conviventi (la
convivenza deve essere attestata da una dichiarazione sottoscritta dalla cop-
pia), in età potenzialmente fertile (v. art. 5 l. cit. e l’art. 12, 2° comma, che ne
sanziona la violazione):
— quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause im-
peditive della procreazione, nei casi di sterilità o di infertilità accertata e certifi-
cata da atto medico (art. 4, l. cit.);
oppure

35
— quando la coppia fertile sia portatrice di malattie genetiche trasmissibili.
L’applicazione delle tecniche procreative deve in ogni caso essere condotta
con gradualità, al fine di evitare il ricorso a interventi aventi un grado di invasi-
vità tecnica e psicologica troppo gravoso per la donna.
L’intervento non può essere eseguito, se non siano trascorsi almeno sette
giorni dalla manifestazione per iscritto del consenso da parte della coppia al
medico responsabile, secondo modalità definite con apposito regolamento (v.
d.m. 16 dicembre 2004).
Il consenso dei genitori deve essere preceduto da un’informazione assai det-
tagliata.

Lo status del figlio e la maternità surrogata. — Il padre, se ha consentito


all’intervento fecondativo di tipo eterologo anche solamente per fatti conclu-
denti, non può chiedere di accertare che la paternità del figlio compete a un
terzo, attraverso il disconoscimento (art. 243 bis), se la coppia sia sposata, o
l’impugnazione per difetto di veridicità (art. 263), se la coppia sia solamente
convivente (art. 9). Egli potrà tuttavia sempre agire mostrando che la feconda-
zione è avvenuta attraverso l’unione sessuale della madre con un terzo, il quale
potrà poi riconoscere il figlio come proprio, mentre colui che abbia donato i
gameti non potrà acquisire alcuna relazione giuridica parentale col nato, non
potendo far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di alcun
obbligo (art. 9, 3° comma, l. 40 del 2004).
Finalmente l’art. 12, 6° comma, l. 40 del 2004, punisce, come delitto, la sur-
rogazione di maternità, cioè quelle pratiche procreative nelle quali si verifichi
una dissociazione tra colei che porta la gravidanza a compimento, colei che for-
nisce il materiale biologico necessario (donazione di ovocita) ed eventualmente
colei che si prende poi cura della crescita del nato. Il nato va considerato figlio
della donna che lo ha partorito, perché è la gestazione che crea l’essenziale e
concreto rapporto materno in cui si realizza l’accoglimento dell’essere umano.

L’ADOZIONE DI MAGGIORENNI

I presupposti. — L’adozione disciplinata al Titolo VIII del codice civile mira in


prevalenza ad assicurare all’adottante una discendenza che porti il suo cogno-
me e riceva il suo patrimonio. Poiché l’art. 60 della l. dir. min. fam. dichiara
inapplicabili le previsioni in esame ai minori di età, e l’art. 291, 1° comma, ri-
chiede che l’adottante abbia almeno diciotto anni più dell’adottato, il riferi-
mento all’età minima di trentacinque anni, rinvenibile nello stesso art. 291,

36
comma 1°, c.c., deve ritenersi implicitamente abrogato.
Non è consentita poi l’adozione a chi abbia figli minori naturali riconosciuti o
nati nel matrimonio, mentre questi ultimi devono prestare il loro consenso, se
abbiano raggiunto la maggiore età e non siano interdetti.
Inefficace, perché priva di causa (v. art. 293), è d’altra parte l’adozione del
figlio, nato fuori del matrimonio, da parte del suo genitore biologico, il quale
potrà viceversa riconoscerlo.
Mentre l’adottante può adottare anche una pluralità di persone, una perso-
na non può essere adottata per più di una volta. Il maggiorenne può invece es-
sere adottato da una coppia (purché sia unita in matrimonio) contestualmente
oppure con due atti separati (anche se la prima adozione sia avvenuta ante-
riormente alle nozze) (art. 294).

Il procedimento. — La domanda di adozione si propone con ricorso al tribu-


nale (ordinario) del luogo ove risiede l’adottante (v. art. 35 disp. att.).
Davanti al presidente del collegio, l’adottante e l’adottando devono quindi
prestare il loro consenso che — se risulti viziato da incapacità naturale, da erro-
re sulla persona (sia o non provocato da dolo) e da violenza morale (mentre irri-
levanti saranno la riserva mentale o la simulazione) — invaliderà la sentenza di
adozione (ma il vizio non potrà esser fatto valere dopo il passaggio in giudicato
di questa).
Il consenso stesso dell’adottando e quello dell’adottante possono essere re-
vocati, con qualsiasi forma (quindi anche per fatti concludenti) sino all’ultima
udienza avanti il tribunale.
Il tribunale provvede sulla domanda con sentenza, dopo aver udito il pubbli-
co ministero La sentenza che pronunzia l’adozione viene trascritta senza spese
a cura del cancelliere su apposito registro e comunicata all’ufficiale dello stato
civile per la trascrizione negli archivi di cui all’art. 10 ord. st. civ. [art. 28, lett. g),
ord. st. civ.].

Gli effetti e la revoca della sentenza. — L’adottato, i suoi figli e sua moglie,
assumono il cognome della famiglia dell’adottante (anche se questa sia una
donna sposata), anteponendolo al proprio. Colui che sia stato adottato da una
coppia coniugata assume il cognome dell’adottante di sesso maschile, anche se
questi lo abbia adottato successivamente alla moglie (art. 299).
L’adottato mantiene tutti i diritti e tutti i doveri verso la famiglia d’origine:
non si costituiscono relazioni parentali tra la sua famiglia e quella
dell’adottante, né tra lui e i parenti dell’adottante (salvo quanto si disse per gli

37
impedimenti matrimoniali, v. retro § 6): l’adottante non acquista inoltre diritti
successori verso l’adottato (mentre vale l’inverso per quanto riguarda
l’adottato nei confronti dell’adottante).
L’adozione può essere revocata con sentenza resa su domanda
dell’adottante, quando sussista un’ipotesi di indegnità dell’adottante o
dell’adottato.
L’indegnità ha luogo quando uno di costoro attenti alla vita dell’altro, del
suo coniuge (o, si deve ritenere, di colui col quale convive stabilmente), dei suoi
discendenti o ascendenti, oppure quando si renda colpevole nei loro confronti
di delitto punibile con l’ergastolo o con pena detentiva non inferiore nel mini-
mo a tre anni; in caso di morte dell’adottante quale conseguenza del reato, so-
no legittimati a chiedere la revoca coloro ai quali si devolverebbe l’eredità in
mancanza dell’adottato e dei suoi discendenti (artt. 306 e 307).
Dal passaggio in giudicato, la sentenza di revoca fa cessare gli effetti
dell’adozione e comporta perciò pure la perdita del cognome in capo
all’adottato: quando sia pronunziata dopo la morte dell’adottante, per fatto
imputabile all’adottato, quest’ultimo e i suoi discendenti sono esclusi dalla suc-
cessione dell’adottante.

L’AFFIDAMENTO TEMPORANEO DI MINORI

I presupposti e la funzione dell’istituto. — L’art. 1 l. dir. min. fam. stabilisce


che il minore «ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della pro-
pria famiglia»: ogni misura diretta a separarlo dal suo nucleo familiare va
quindi ritenuta assolutamente eccezionale ed applicata come extrema ratio.
L’art. 2 l. dir. min. fam. prevede anzitutto due distinte misure di sostegno ai
minori temporaneamente privi di un idoneo ambiente in cui crescere:
l’affidamento a una famiglia (preferibilmente con figli minori) o a una persona
singola, oppure l’affidamento a una comunità familiare.
Scopo dell’affidamento è quello di provvedere alla cura del minore, quando
il nucleo familiare manchi, in tutto o in parte (si pensi al ricovero in ospedale o
alla reclusione in un istituto di pena dell’unico genitore vivente), ovvero non sia
in ogni caso in condizione di assicurare al fanciullo l’assistenza morale e mate-
riale di cui ha bisogno.
Presupposto indefettibile dell’affidamento è il carattere «transitorio» della
mancanza di assistenza morale e materiale, in modo che sia comunque possi-
bile il venir meno della causa dell’abbandono entro un arco di tempo ragione-
vole e il successivo reinserimento del fanciullo nel nucleo familiare d’origine:

38
diversamente occorre procedere alla dichiarazione di adottabilità del minore.
La doverosa transitorietà della causa di abbandono mira a impedire che
l’affidamento degeneri in una sorta di adozione «minore»– Del resto, non si
deve neppure escludere che, pur essendo stato disposto l’affidamento, si accer-
ti poi la definitività della situazione di abbandono: in queste ipotesi potrà allora
risultare necessario procedere alla dichiarazione di adottabilità del minore.

La forma del provvedimento e la revoca. — L’affidamento familiare è dispo-


sto dal servizio sociale locale, quando vi consentano i genitori o il genitore eser-
cente la responsabilità genitoriale ovvero il tutore: il minore che ha compiuto
gli anni dodici e anche il minore di età inferiore, in considerazione della loro ca-
pacità di discernimento, devono essere sentiti. A differenza di ciò che accade
per l’adozione, non si richiede invece il consenso del minore che abbia compiu-
to i quattordici anni (e si può dubitare che ciò sia conforme all’art. 3 Cost.).
Il giudice tutelare del luogo ove si trova il minore rende esecutivo il provve-
dimento con proprio decreto: il ruolo commessogli consiste perciò
nell’accertare la sussistenza dei requisiti di legge (consenso dei genitori ed au-
dizione del minore), di verificare la completezza formale del provvedimento
(che deve contenere le indicazioni previste all’art. 4, comma 3°, l. dir. min. fam.,
v. subito infra) e la coerenza logica e giuridica della motivazione di questo. Gli è
viceversa preclusa perciò una nuova verifica sulla sussistenza della situazione di
abbandono del minore e sul carattere non transitorio di questa.
Ove manchi l’assenso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale o
del tutore, deve provvedere invece il tribunale per i minorenni, facendo appli-
cazione degli artt. 330 ss.
L’affidamento familiare cessa con provvedimento della stessa autorità che lo
ha disposto (quindi del tribunale minorile ovvero dell’autorità amministrativa
reso in questo caso esecutivo del giudice tutelare), valutato l’interesse del mi-
nore, quando sussista una delle seguenti circostanze:
— sia venuta meno la situazione di difficoltà temporanea della famiglia
d’origine che lo ha determinato, ovvero
— la prosecuzione di esso rechi pregiudizio al minore;
— sia trascorso il periodo di durata stabilito.
Quando simili circostanze si verifichino, il giudice tutelare, sentiti il servizio
sociale locale interessato e il bambino che ha compiuto gli anni dodici e anche
il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimen-
to, può tuttavia richiedere al competente tribunale per i minorenni l’adozione
di ulteriori provvedimenti nell’interesse del minore medesimo.

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Gli effetti. — Tra l’affidatario e i genitori del minore (o in mancanza il tutore
di lui) la legge ripartisce le attribuzioni che si assommano di consueto
nell’istituto della responsabilità genitoriale: al primo compete di accogliere
presso di sé il minore e di provvedere al suo mantenimento e alla sua educazio-
ne e istruzione, secondo le prescrizioni stabilite dall’autorità affidante, mentre
ai secondi resta la rappresentanza del minore, il potere di amministrarne i beni
(se non è stato nominato un tutore) e di fornire all’affidatario le opportune in-
dicazioni per svolgere al meglio la delicata attività commessagli.
Il servizio sociale, nell’àmbito delle proprie competenze, su disposizione del
giudice ovvero secondo le necessità del caso, è tenuto a svolgere una delicata
opera di sostegno educativo e psicologico, agevolando i rapporti con la famiglia
di provenienza e il rientro nella stessa del minore secondo le modalità più ido-
nee, avvalendosi anche delle competenze professionali delle altre strutture del
territorio e dell’opera delle associazioni familiari eventualmente indicate dagli
affidatari. Deve inoltre adoperarsi per dirimere i contrasti che insorgano tra i
genitori affidatari e l’affidato, oppure tra questi e la famiglia di origine: ove non
riesca nell’intento, sarà possibile rivolgersi al giudice, ai sensi dell’art. 316, op-
pure, nei casi più gravi, richiedere la revoca dell’affidamento, ai sensi del già
evocato art. 4, comma 5°, l. dir. min. fam.

LE ADOZIONI DI MINORI

L’ADOZIONE DI MINORI NEL CASO DELL’ART. 44 L. DIR. MIN. FAM.

L’adozione di minori nei casi dell’art. 44 l. dir. min. fam. — L’art. 1 l. dir. min.
fam., già evocato, stabilisce che le condizioni di indigenza dei genitori esercenti
la responsabilità genitoriale non possano «essere di ostacolo all’esercizio del
diritto del minore alla propria famiglia».
Si deve quindi ricorrere all’adozione di minori soltanto per ovviare ai casi in
cui la situazione di abbandono del bambino non possa essere superata con qua-
lunque altra adeguata provvidenza e opportuno sostegno alle famiglie e abbia
carattere certamente non transitorio (diversamente dovendosi far luogo se mai
all’affidamento).
A loro volta, le adozioni di minori che si trovino in Italia devono considerarsi col-
locate in una sorta di scala gerarchica, in guisa che ove possibile si dovrà ricorrere a
quella prevista all’art. 44, che non rescinde il legame con la famiglia di origine del
bambino (mentre quella legittimante dovrebbe costituire appunto l’ultima possibi-
le soluzione al problema dell’infanzia abbandonata).
La disciplina è modellata sul calco di quella che si è esaminata per l’adozione

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dei maggiorenni, anche se ovviamente è piegata alla realizzazione di esigenze
assai più delicate e rilevanti.
Possono anzitutto ottenere l’adozione in discorso coloro che siano uniti al
minore da un vincolo di parentela, in linea retta o collaterale sino al sesto grado
oppure da un preesistente rapporto affettivo «stabile e duraturo», quando oc-
corra provvedere senza indugio per scongiurare l’aggravarsi del trauma subito
dal bambino rimasto orfano di entrambi i genitori.
Può accedervi inoltre chi sia unito in matrimonio col genitore (anche adotti-
vo) del bambino.
Chiunque può domandare poi l’adozione di minori portatori di handicap — or-
fani di padre e di madre [art. 44, lett. c)] — oppure di minori di cui sia stata con-
statata l’impossibilità di affidamento preadottivo (v. infra § 69), perché questo
non abbia dato buon esito, oppure perché non sia stato neppure disposto (ciò
che occorre soprattutto a causa dell’età del minore o di una sua minorazione fisi-
ca o psichica).
Si richiede per la validità dell’adozione una differenza minima di diciotto an-
ni di età tra adottante ed adottato nelle ipotesi di adozione dell’orfano non
handicappato [lett. a) dell’art. 44] e di impossibilità di far luogo all’affidamento
preadottivo [lett. d) dell’art. 44].
Gli artt. 45 e 46 subordinano finalmente la pronuncia di adozione al consen-
so dell’adottante e dell’adottando (che abbia compiuto il quattordicesimo anno
d’età, o in sua vece del legale rappresentante dell’infraquattordicenne) e
all’assenso dei genitori e del coniuge di lui.
Deve essere sentito inoltre il minore di quattordici anni, in ogni caso quando
abbia compiuto i dodici anni, soltanto in relazione alla sua capacità di discerni-
mento quando abbia un’età inferiore, così come deve essere sentito il suo rap-
presentante legale (cioè il genitore o il tutore, se vi sono) sino a che non abbia
compiuto i quattordici anni, o quando si tratti di minore portatore di handicap,
che non possa essere sentito o non possa prestare il suo consenso all’adozione
a causa della sua condizione di minorazione.
Il rifiuto o la mancanza di assenso da parte dei genitori (non esercenti la re-
sponsabilità genitoriale) o del coniuge (non separato neppure di fatto) non im-
pedisce l’adozione, quando, secondo il tribunale, non sia giustificato o confor-
me all’interesse dell’adottando (art. 46, comma 2°, della l. dir. min. fam.). In
ogni caso, l’inerzia nella prestazione dell’assenso — anche accertata mediante
la mancata comparizione, nonostante il rituale invito — non impedisce
l’adozione, se dipenda da irreperibilità ovvero da incapacità degli stessi genitori
o dello stesso coniuge.

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Il procedimento e gli effetti. — La domanda di adozione deve essere presen-
tata dall’adottante al tribunale per i minorenni del distretto, ove «si trova» il
minore; viene allora disposta l’audizione del minore (v. art. 45, 2° comma) e dei
genitori dell’adottando da parte del giudice che stabilisce l’esecuzione di ade-
guate indagini sul minore e sulla sua famiglia, da effettuare attraverso i servizi
locali e gli organi di pubblica sicurezza per accertare l’idoneità affettiva, la ca-
pacità di educare e istruire il minore, la situazione personale ed economica, la
salute, l’ambiente familiare dell’adottante, i motivi che l’hanno spinto a richie-
dere l’adozione, la personalità del minore e la possibilità di idonea convivenza,
tenendo conto della personalità dell’adottante e dell’adottando (art. 57, com-
ma 3°, l. dir. min. fam.). L’adottante e l’adottando devono quindi prestare per-
sonalmente il loro consenso al presidente del collegio o a un suo delegato ma
questo può essere revocato sino alla sentenza; il giudice dovrà pure raccogliere
le manifestazioni di assenso dei genitori e se c’è del coniuge dell’adottando.
Se si accerta che l’adozione realizzi il preminente interesse del minore, la
domanda viene finalmente accolta con sentenza che deve essere trascritta
nell’apposito registro del tribunale ed annotata in margine all’atto di nascita (v.
art. 314, richiamato dall’art. 55 l. dir. min. fam.).
Essa non genera relazioni parentali tra la famiglia del minore e quella
dell’adottante (nonostante il disposto letterale dell’art. 74 c.c., come novellato
dalla l. 219 del 2012), né tra lui e i parenti dell’adottante (salvo per ciò che con-
cerne gli impedimenti matrimoniali, v. art. 87): l’adottante non acquista perciò
diritti successori verso l’adottato (mentre vale l’inverso per quanto riguarda
l’adottato nei confronti dell’adottante).
Il minore mantiene poi tutti i diritti e tutti i doveri verso la famiglia d’origine,
che si trova a condividere con l’adottante i doveri previsti dall’art. 30 Cost. e
147 c. c., mentre la responsabilità genitoriale e il relativo esercizio competono
esclusivamente a quest’ultimo che può renderne partecipe il genitore biologico
soltanto se lo abbia sposato o conviva con lui [art. 44, lett. b)]. Il concorso nei
doveri genitoriali dei genitori biologici ed adottivi implica che questi ultimi sa-
ranno tenuti esclusivamente a fornire i mezzi adeguati per il mantenimento,
l’educazione e l’istruzione (sempre che li abbiano) mentre saranno a loro estra-
nee le scelte sulle modalità d’impiego dei mezzi stessi, e più in generale quelle
riguardanti l’educazione e l’istruzione del bambino.

La revoca. — La revoca dell’adozione può essere pronunciata dal tribunale


su domanda dall’adottante, quando l’adottato maggiore di quattordici anni ab-
bia attentato alla vita di lui o del suo coniuge, dei suoi discendenti o ascendenti,
ovvero si sia reso colpevole verso di loro di delitto punibile con l’ergastolo o con

42
pena detentiva non inferiore nel minimo a tre anni. Se l’adottante muore in
conseguenza dell’attentato, la revoca dell’adozione può essere chiesta da colo-
ro ai quali si devolverebbe l’eredità in mancanza dell’adottato e dei suoi di-
scendenti (v. art. 51 l. dir. min. fam.).
La revoca può essere poi chiesta dall’adottato, che abbia compiuto i quat-
tordici anni (o diversamente dal pubblico ministero), quando i fatti indicati sia-
no stati compiuti dall’adottante contro il minore, oppure contro il coniuge o i
discendenti o gli ascendenti di lui (v. art. 52 l. dir. min. fam.).
Infine, la revoca può essere domandata dal pubblico ministero, quando sus-
sistano gravi violazioni dei doveri incombenti sugli adottanti (art. 53 l. dir. min.
fam.).

L’ADOZIONE ORDINARIA

La sentenza che dichiara lo stato di adottabilità. — Presupposto essenziale


della sentenza con la quale si dichiara il minore in stato di adottabilità è la si-
tuazione di abbandono provocata dalla carente assistenza morale e materiale
da parte dei genitori, dei parenti (anche naturali) entro il quarto grado, degli
istituti di assistenza, o comunità nelle quali si trovi ricoverato, o della famiglia
che l’abbia in affidamento.
Nonostante l’apparente equiparazione dell’assistenza materiale con quella
morale, e ancorché sia impossibile discernerle completamente —anche alla
stregua dell’art. 1, 2° e 3° comma, l. dir. min. fam. — occorre fare essenzial-
mente riferimento alla seconda, perché alle carenze di ordine materiale non
deve ovviare l’adozione (art. 1, comma 4°, l. dir. min. fam.) ma, come si è detto,
l’attivazione dei meccanismi solidaristici di protezione sociale (art. 1, 3° comma,
l. cit.). Le carenze familiari di ordine materiale, che residuino nonostante tali in-
terventi, potranno al più costituire fatti indiziari dai quali il tribunale, chiamato
ad accertare la situazione di abbandono del minore, potrà risalire per accertare
le carenze di assistenza morale. Non rileva che la condizione di abbandono di-
penda da forza maggiore ovvero in qualche modo sia addebitabile a un com-
portamento passivamente negligente dei genitori (o degli altri soggetti che de-
vono provvedere alla cura del minore): si richiede invece di accertare che
l’abbandono stesso non abbia carattere transitorio.

Il procedimento. — La domanda per ottenere la dichiarazione di adottabilità


deve essere proposta con ricorso dal procuratore della Repubblica presso il tri-
bunale dei minorenni nel cui distretto si trovi il minore, quando chiunque gli

43
abbia segnalato una situazione di abbandono.
Nel contraddittorio con i genitori (se vi sono) e un curatore speciale del mi-
nore all’uopo nominato, il tribunale procede senza indugio a svolgere accerta-
menti più approfonditi sulle condizioni giuridiche e di fatto del minore,
sull’ambiente in cui ha vissuto e vive, al fine di verificare la sussistenza della si-
tuazione di abbandono. Gli accertamenti stessi possono essere compiuti dai
servizi sociali locali, dagli organi di pubblica sicurezza oppure ordinando
l’esibizione di cose e documenti alle parti o a terzi o richiedendo informazioni
alla pubblica amministrazione (art. 210 ss. c.p.c.).
Se accerta la situazione di abbandono, il tribunale dichiara il minore in stato
di adottabilità: la sentenza viene trascritta su apposito registro presso la cancel-
leria del tribunale per i minorenni a cura del cancelliere. L’omessa trascrizione
non impedisce in ogni modo alla sentenza stessa di produrre i suoi effetti, che
consistono nella sospensione automatica della responsabilità genitoriale: a tal
fine si sarà quindi provveduto a nominare un tutore e a adottare gli altri oppor-
tuni provvedimenti.
La sentenza può essere revocata quando sia venuta meno la situazione di
abbandono e ciò sia conforme all’interesse del minore, da valutare con riguardo
al possibile pregiudizio che dal reinserimento nella famiglia naturale gli potreb-
be derivare, tenendo anche conto delle sue aspirazioni.

La domanda di adozione. — La domanda di affidamento preadottivo può es-


sere presentata solamente da persone coniugate e unite da una relazione affet-
tiva perdurante senza soluzione di continuità da almeno tre anni (art. 6, 1° e 4°
comma, l. dir. min. fam.): non è ammessa la domanda di adozione nominativa.
Non è consentita l’adozione ordinaria alle persone non legate da vincoli affettivi
con persone di altro sesso.
Nell’istanza, o con atto posteriore, si può specificare l’eventuale disponibilità
a adottare più fratelli ovvero a adottare minori portatori di handicap. Tali ulti-
me istanze — come quelle ove sia manifestata la disponibilità a adottare minori
di età superiore a cinque anni o quelle presentate da chi abbia già adottato un
fratello dell’adottando — devono essere istruite con precedenza rispetto a tut-
te le altre (art. 6, comma 7°, e 22, comma 3°, l. cit.).

L’affidamento preadottivo. — Gli adottanti devono avere un’età tale da su-


perare l’età dell’adottando almeno di diciotto e di non più di quarantacinque
anni: i predetti limiti possono tuttavia essere derogati quando lo esiga
l’interesse del minore.

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Il tribunale, accertata la sussistenza dei requisiti appena rammentati, dispo-
ne allora l’esecuzione di adeguate indagini, dirette ad accertare che i richiedenti
siano idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono
adottare (valutandone in ispecie la capacità di educare il minore, la situazione
personale ed economica, la salute, l’ambiente familiare, i motivi per i quali essi
desiderano adottare il fanciullo).
Esauriti tali incombenti, e ricevuto il consenso del minore che abbia compiu-
to i quattordici anni, può essere quindi disposto l’affidamento preadottivo, de-
terminandone le modalità, in favore di quella coppia che risulti in confronto alle
altre maggiormente in grado di corrispondere alle esigenze del bambino.
Il tribunale per i minorenni vigila sul buon andamento dell’affidamento
preadottivo, avvalendosi anche del giudice tutelare e dei servizi locali sociali e
consultoriali.

La sentenza di adozione e i suoi effetti. — La durata dell’affidamento prea-


dottivo è stabilita in un anno ma può essere eccezionalmente prorogata di un
altro anno quando ciò sia conforme all’interesse esclusivo del minore.
Al termine di quel periodo, lo stesso tribunale che ha dichiarato lo stato di
adottabilità accerta che ricorrano tutte le condizioni previste e provvede sulla
domanda di adozione con sentenza se il minore che abbia compiuto gli anni
quattordici espressamente dia il suo consenso.
Divenuta definitiva, la sentenza che pronuncia l’adozione viene immediata-
mente trascritta nel registro apposito della cancelleria del tribunale minorile e
comunicata all’ufficiale dello stato civile per l’annotazione a margine dell’atto di
nascita dell’adottato.
Questi acquista quindi lo stato di figlio degli adottanti nato nel matrimonio,
assumendo e trasmettendo il cognome del padre adottivo, sempre che
l’adozione non sia disposta nei confronti della madre adottiva separata: in
quest’ultimo caso, il minore assume il cognome della famiglia di lei. Con
l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi gli
impedimenti matrimoniali previsti all’art. 87.
Il minore adottato deve essere informato di tale sua condizione dai genitori
adottivi che devono provvedervi nei modi e nei termini ritenuti più opportuni.
Qualunque attestazione di stato civile riferita all’adottato deve essere rila-
sciata con la sola indicazione del nuovo cognome e con l’esclusione di qualsiasi
riferimento alla paternità e alla maternità del minore e dell’annotazione della
sentenza di adozione: l’ufficiale dello stato civile, l’ufficiale di anagrafe e qual-
siasi altro ente pubblico o privato, autorità o pubblico ufficio, devono rifiutarsi
di fornire notizie, informazioni, certificazioni, estratti o copie dai quali possa

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comunque risultare il rapporto di adozione, salva autorizzazione espressa del
tribunale dei minorenni. Non è necessaria l’autorizzazione, qualora la richiesta
sia formulata dall’ufficiale di stato civile al fine di verificare la sussistenza di im-
pedimenti matrimoniali.

L’accesso alle informazioni per conoscere l’identità dei genitori biologici


dell’adottato. — Il tribunale dei minorenni — dopo aver accertato che
l’informazione sia preceduta da adeguata preparazione e assistenza del richie-
dente — può autorizzare l’esame del fascicolo del procedimento per ricavarne le
informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici del figlio adottato:
a) se l’adottato è minorenne, quando sussistano gravi e comprovati motivi, e
lo richiedano i genitori adottivi: le informazioni stesse possono essere fornite
anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario,
ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave perico-
lo per la salute del minore.
b) se l’adottato abbia compiuto i venticinque anni;
c) se l’adottato abbia compiuto gli anni diciotto e sussistano gravi e compro-
vati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica (art. 28, 4° e 5° comma, l. dir.
min. fam.).L’adottato maggiorenne può infine accedere alle informazioni senza
autorizzazione del tribunale, quando i genitori adottivi siano deceduti o siano
divenuti irreperibili (art. 28, 8° comma, l. dir. min. fam.).

L’ADOZIONE INTERNAZIONALE

72. Il decreto d’idoneità. — Il procedimento prende avvio con la presenta-


zione al tribunale per i minorenni di una «dichiarazione di disponibilità», attra-
verso la quale si domanda di accertare l’idoneità delle coppie aspiranti
all’adozione. Essa può essere proposta dalle coppie di coniugi (anche non citta-
dini) residenti in Italia e dalle coppie di cittadini italiani residenti all’estero, le
quali, in entrambi i casi, si trovino nelle condizioni richieste per poter accedere
all’affidamento preadottivo.
Il tribunale dispone allora che i servizi socio assistenziali preparino e infor-
mino i coniugi sull’adozione internazionale e sulle relative procedure, sugli enti
autorizzati e sulle altre forme di solidarietà nei confronti dei minori in difficoltà
ed acquisiscano gli elementi sulla situazione personale, familiare e sanitaria de-
gli aspiranti genitori adottivi, sul loro ambiente sociale, sulle motivazioni che li
determinano, sulla loro attitudine a farsi carico di un’adozione internazionale,
sulla loro capacità di rispondere in modo adeguato alle esigenze di più minori o
di uno solo, sulle eventuali caratteristiche particolari dei minori ch’essi sarebbe-

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ro in grado di accogliere.
Ricevuta la relazione, e sentiti gli aspiranti all’adozione, il tribunale dichiara
allora la sussistenza ovvero l’insussistenza dei requisiti per l’adozione, dando
pure le indicazioni opportune per favorire il migliore incontro tra gli aspiranti
all’adozione e il minore da adottare.
Entro un anno dalla comunicazione del provvedimento che dichiara
l’idoneità, la coppia deve richiedere l’avvio della fase successiva del procedi-
mento adottivo, mentre la cancelleria ne deve curare senza indugio l’inoltro,
unitamente alla copia della relazione e della documentazione esistente negli
atti, alla Commissione per le adozioni internazionali presso la presidenza del
Consiglio dei ministri (art. 38 l. dir. min. fam.) e, se sia già stato indicato dagli
aspiranti all’adozione, all’ente autorizzato di cui all’articolo 39-ter l. cit.

I compiti svolti dagli enti autorizzati. — La coppia, che abbia ottenuto il de-
creto d’idoneità, deve poi conferire incarico a uno tra gli enti autorizzati dalla
Commissione per le adozioni internazionali a curare la procedura: la scelta
dell’ente da parte della coppia è e deve restare assolutamente libera.
L’ente al quale sia stato conferito l’incarico — trattasi di un contratto di
mandato, come tale revocabile ai sensi degli artt. 1723 ss. — informa allora la
coppia sui procedimenti e sulle concrete prospettive di adozione e compie ogni
atto necessario presso le competenti autorità del Paese indicato dagli aspiranti
all’adozione, trasmettendo la domanda di adozione, unitamente al decreto di
idoneità ed alla relazione ad esso allegata, affinché le autorità straniere formu-
lino le proposte di incontro tra gli aspiranti all’adozione e il minore da adottare.
Deve poi raccogliere dalla stessa autorità straniera la proposta di incontro
tra gli aspiranti all’adozione e il bambino da adottare, curando che sia accom-
pagnata da tutte le notizie di carattere sanitario riguardanti il minore, di quelle
riguardanti la sua famiglia di origine e le sue esperienze di vita. Tali informazioni
vengono successivamente comunicate alla coppia, che deve poi manifestare
per iscritto il suo consenso a adottare il minore proposto, davanti all’ente pre-
scelto che trasmette l’atto di consenso all’autorità straniera.
Il trasferimento del minore in Italia avviene sempre sotto il controllo dell’ente
autorizzato e deve avvenire, ove possibile, in compagnia della coppia.

La deliberazione della Commissione e l’ingresso del minore in Italia. — Rice-


vuta la documentazione predisposta dall’ente autorizzato e valutate le conclu-
sioni formulate, la Commissione deve dichiarare se l’adozione risponde al supe-
riore interesse del minore, autorizzandone l’ingresso e la residenza permanente
in Italia.

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Dal momento nel quale abbia fatto ingresso nel territorio dello Stato, sulla
base di un provvedimento straniero di adozione o di affidamento a scopo di
adozione, il minore gode della stessa posizione giuridica del minore italiano in
affidamento familiare.

Gli effetti del provvedimento di adozione pronunziato all’estero. —


L’adozione pronunciata all’estero produce i medesimi effetti di quella pronun-
ziata in Italia e, con la trascrizione del provvedimento di adozione nei registri
dello stato civile, il minore adottato acquista la cittadinanza italiana (art. 34,
comma 3°, l. dir. min. fam.).

L’espatrio di minori italiani a scopo di adozione. — Pressoché priva di appli-


cazione pratica è la disciplina dell’espatrio di minori (cittadini o stranieri) a sco-
po di adozione, considerato che per buona sorte ben di rado essi si trovano in
stato di abbandono sul territorio nazionale, mentre assai numerose sono le
coppie residenti in Italia che manifestano il desiderio di adottare un bambino
straniero privo di assistenza.
Se gli adottanti cittadini stranieri risiedono stabilmente in un Paese che ab-
bia ratificato la Convenzione dell’Aja, trovano applicazione le procedure già
esaminate per l’adozione di minori stranieri da parte di coppie italiane.

L’USUFRUTTO LEGALE

La nozione e la disciplina. — I genitori esercenti la potestà hanno in comune


l’usufrutto sui beni del figlio (sia o non nato nel matrimonio) (art. 324). Lo stes-
so dicasi per i genitori adottivi sui beni dell’adottato, se non si tratta di adozio-
ne nei casi dell’art. 44 l. dir. min. fam., poiché in tal caso viene loro riconosciuto
soltanto il potere di amministrarli, potendo impiegarne le rendite per le spese
di mantenimento, istruzione e educazione con l’obbligo di investirne
l’eccedenza in modo fruttifero (ed essendo gli adottanti sottoposti alla respon-
sabilità stabilita per il tutore e il protutore dall’art. 382) (art. 48, 3° comma, l.
dir. min. fam).
Il genitore, che esercita in modo esclusivo la responsabilità genitoriale, è il
solo titolare dell’usufrutto (art. 327) mentre, quando passa a nuove nozze, con-
serva il diritto ma ha l’obbligo di accantonare in favore del figlio quanto risulti
eccedente rispetto alle spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione di
quest’ultimo (art. 328).
L’attribuzione per legge dell’usufrutto ai genitori risponde all’esigenza di as-
sicurare che i beni del minore vengano indirizzati a soddisfare non i bisogni

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egoistici di questo (e tanto meno quelli dei genitori) ma piuttosto le esigenze
del nucleo familiare, favorendone in tal modo la condivisione con coloro che ne
fanno parte.
I frutti ch’essi percepiscano devono essere destinati al mantenimento della
famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli (art. 324, 2° comma) e non pos-
sono essere espropriati dai creditori dei genitori per il soddisfacimento coattivo
dei debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai
bisogni della famiglia (art. 326, 2° comma).
Proprio perché non costituisce un vero e proprio diritto reale di godimento,
l’usufrutto non è alienabile, né può essere oggetto di pegno, di ipoteca o di
espropriazione forzata (art. 326, 1° comma).
Sono comunque esclusi dall’«usufrutto»:
a) i beni acquistati dal figlio con i proventi del suo lavoro (anche se l’art. 315
gli impone pur sempre di contribuire, in relazione alle sue sostanze e al suo
reddito, al mantenimento della famiglia finché conviva con essa);
b) quelli a lui donati o lasciati in eredità o legato per intraprendere una car-
riera, un’arte o una professione;
c) quelli a lui donati o lasciati in eredità o legato con la condizione che i geni-
tori esercenti la responsabilità genitoriale, o uno di essi, non ne avessero
l’usufrutto (la condizione si ha tuttavia per non apposta se si tratti di beni spet-
tanti al figlio a titolo di legittima;
d) quelli a lui donati o lasciati in eredità o legato che siano stati accettati
nell’interesse del figlio contro la volontà dei genitori esercenti la responsabilità
genitoriale (art. 324, 3° comma).
L’usufrutto legale cessa ipso jure con il raggiungimento della maggiore età
o con l’emancipazione del figlio: i genitori (o i loro eredi) che hanno continua-
to a godere dei beni del figlio convivente sono tenuti tuttavia a restituire sol-
tanto i frutti esistenti al tempo in cui ciò venga loro richiesto (art. 329). Ciò
non vale se il figlio abbia conferito ai genitori mandato ad amministrare (con
obbligo di rendere il conto dei frutti) o abbia fatto opposizione.

GLI ORDINI DI PROTEZIONE CONTRO GLI ABUSI FAMILIARI

La nozione e la disciplina. — Il tribunale (ordinario), su istanza proposta dalla


parte personalmente, può ordinare al coniuge, alla parte dell’unione civile, al
convivente o a qualunque altro componente del nucleo familiare (v. art. 5, l. 4
aprile 2001, n. 154) di cessare quella condotta e disporne — anche con l’ausilio
della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario — l’allontanamento dalla casa fami-
liare, prescrivendo ove occorra di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente fre-

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quentati dal richiedente, come il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia
d’origine o di prossimi congiunti o la scuola frequentata del figlio etc. (art. 342-
ter). La durata del provvedimento non può essere superiore a un anno, decor-
rente dall’esecuzione dello stesso, ma è prorogabile, su istanza di parte, soltan-
to se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario.
Il provvedimento può essere adottato soltanto se la condotta stessa risulti di
grave pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà del coniuge, della
parte dell’unione civile, del convivente o di qualunque altro componente del
nucleo familiare (v. artt. 342-bis e 5, l. 4 aprile 2001, n. 154). Se occorre, il giu-
dice può disporre altresì l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un cen-
tro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine
statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e di minori o di altri soggetti vit-
time di abusi o maltrattati e il pagamento periodico di un assegno a favore delle
persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui si è detto, riman-
gano prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e pre-
scrivendo, se del caso, che la somma venga versata direttamente all’avente di-
ritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo
stesso spettante.

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