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1° - LA FAMIGLIA E IL DIRITTO

1. Premessa
L'art. 29 Cost. afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio.
Tale riferimento alla famiglia come entità naturale farebbe immaginare la famiglia interpretata
come esistente in natura, originaria e preesistente allo Stato e immutabile, ancorché fondata su
un istituto giuridico come il matrimonio.
In realtà l'art. 29 deve essere interpretato alla luce delle altre norme costituzionali e deve tener
conto della struttura sociale dell'istituzione che intende tutelare, che è storicamente e
geograficamente molto differenziata.
La Costituzione vuole che l'ordinamento - piuttosto che adottare normativamente un modello
rigido di famiglia - si relazioni al concreto atteggiarsi dei rapporti familiari.
L'art. 29 Cost. deve essere interpretato in modo sistematico, e coordinato con quanto disposto
dall'art. 2 Cost., per cui si può concludere che la formula costituzionale, ancorché fortemente
caratterizzata dal richiamo al matrimonio, possa richiamare anche delle relazioni di fatto che
ricalchino gli schemi della convivenza familiare, dando vita a formazioni sociali, nell'ambito
delle quali la persona deve ricevere protezione e tutela dei propri diritti (concetto ampliato di
famiglia). Quindi, il termine famiglia è riferito ad una pluralità di relazioni, la cui natura
familiare, è data dalla sussistenza di vincoli di vario genere: giuridici, come il matrimonio,
l'affinità e l'adozione; giuridici e biologici, come la filiazione legittima o naturale riconosciuta e
la parentela; meramente biologici, come la filiazione non riconosciuta o non riconoscibile.
Anche rapporti di fatto, come la convivenza fuori dal matrimonio o le relazioni che si creano
nella famiglia ricomposta godono di tutela e, quindi, possono essere ricompresi nell'ambito delle
relazioni familiari giuridicamente rilevanti. Oggi i modelli familiari socialmente tipizzati e
dunque giuridicamente tutelati sono, in primo luogo, la famiglia tradizionale fondata sul
matrimonio, nell'ambito della quale si suole distinguere tra famiglia nucleare, riferita alla coppia
ed agli eventuali figli, e famiglia allargata, che ricomprende parenti ed affini. In secondo luogo,
la famiglia di fatto, intesa quale convivenza di due partners ed eventuali figli naturali; ancora, la
famiglia ricomposta, in cui i partners, coniugati o conviventi di fatto, coabitano assieme ai figli
nati da precedenti relazioni; ed infine la famiglia monoparentale, in cui un solo genitore convive
con i figli.
Il diritto di famiglia, quindi, è quell'insieme di norme giuridiche che disciplina tali relazioni;
dette norme appartengono a molteplici settori dell'ordinamento: al diritto privato in primo luogo,
ma anche al diritto costituzionale, internazionale privato, penale, processuale civile e penale,
ecclesiastico, tributario, del lavoro, amministrativo e regionale. Il diritto di famiglia ricomprende
inoltre norme di ordinamenti diversi da quello interno, quali il canonico, l'internazionale ed il
comunitario.

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Nel tempo, i principi che hanno regolato l'istituto della famiglia si sono modificati in funzione
degli obiettivi perseguiti.
Per lungo tempo l'obiettivo principale del legislatore è stato quello di garantire la stabilità della
convivenza familiare. Quest'obiettivo ha imposto l'adozione di regole rigide, quali, ad es.,
l'indissolubilità del matrimonio, la disuguaglianza tra coniugi, la discriminazione della filiazione
fuori dal matrimonio. Detti principi caratterizzavano il vecchio ordine familiare del 1942,
rimasto in vigore fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975. La figura centrale di questo
modello giuridico era quella del capo famiglia, cui erano soggetti moglie e figli.
In questo contesto, nel disciplinare le relazioni tra familiari, il diritto non attribuiva specifica
rilevanza alla sfera dei sentimenti e degli affetti: non c'era spazio per la tutela della sfera
individuale, poiché l'interesse del singolo era subordinato rispetto a quello superiore della
famiglia. Lo si poteva ben vedere in norme come quella del matrimonio della persona dichiarata
morta (non vi era sanabilità del secondo matrimonio nel caso di un ritorno di questa), o quelle
sull'errore nel matrimonio (per il quale rilevava solo quello sull'identità della persona e non
invece il travisamento delle qualità personali del coniuge).
La massima istituzionalizzazione della famiglia si ritrovava però nel concetto di 'indissolubilità
del vincolo matrimoniale', vigente fino all'entrata in vigore della 1. n. 898/1970, che in casi
determinati ne ha consentito lo scioglimento. Il vincolo coniugale non poteva mai essere messo
in discussione dagli sposi, neppure se concordi e senza figli, sul presupposto che il matrimonio
costituisse una realtà istituzionale trascendente la volontà e gli interessi dei singoli, e non un loro
affare privato. Negli anni '60, però vi fu una rapida trasformazione sociale: indebolimento della
figura del capo famiglia, maturazione di sicurezze e responsabilità della moglie al di fuori della
famiglia, progressiva autonomia dei figli. Questo mutamento è stato recepito dall'ordinamento,
sia quando è stato introdotto il divorzio, e sia con l'entrata in vigore della riforma del diritto di
famiglia, con cui è stata data piena attuazione alle regole costituzionali dell'eguaglianza dei
coniugi e della parità tra figli legittimi e naturali.
L'odierna disciplina del diritto di famiglia è rispettosa dell'autonomia dei suoi membri, del loro
mondo di relazioni, affetti e responsabilità. Questo vale in primo luogo per il rapporto tra
coniugi che, sin dal suo sorgere, appare attento alla sfera interiore (art. 122 c.c.) ed alla vera
libertà dei sentimenti, che trovano ulteriore tutela nella disciplina della separazione e del
divorzio per cause oggettive, al di fuori di ogni logica di colpa. La stessa norma sull'indirizzo
della vita familiare (art.
144 c.c.), basata sulla regola dell'accordo e della pari dignità, segna il passaggio della tutela di
fini superiori al riconoscimento di un territorio libero, lasciato alla volontà degli sposi. La regola
dell'accordo deve comunque essere coordinata con il principio di libertà individuale, così la
legge riconosce talvolta ad uno solo dei coniugi il potere di prendere alcune decisioni; ad es. gli
artt. 5 e 12 della 1. 22 maggio 1978, n. 194, attribuiscono in via esclusiva alla donna il diritto di
interrompere la gravidanza, e le danno facoltà, non obbligo, di consultare il marito in quanto
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"padre del concepito".
Del criterio al quale i coniugi devono attenersi nel determinare l'indirizzo della vita familiare si
occupa il primo comma dell'art. 144 c.c., laddove stabilisce che essi debbano tener conto "delle
esigenze di entrambi" e "di quelle preminenti della famiglia". Un'attenta dottrina ha osservato
come le due ipotesi, benché apparentemente siano in conflitto fra loro, debbano essere
interpretate nel senso che l'interesse della famiglia altro non è se non l'interesse dei singoli che di
essa fanno parte, che pertanto non si può considerare superiore e distinto da quello dei suoi
componenti. La libertà di decisione porta a una 'privatizzazione delle relazioni familiari'. Lo si
nota con chiarezza nelle norme relative a separazione e divorzio, per cui i coniugi hanno
sostanzialmente la libertà di attuare sempre e comunque la separazione, anche contro la volontà
dell'altro.
2. Il diritto di famiglia nella costituzione
La Costituzione però già anticipava la riforma in quanto agli artt. 29 e 30, in relazione alla
necessità di contemperare le opinioni delle diverse parti politiche (cattoliche, liberali e marxiste)
presenti nell'Assemblea Costituente, stabiliva che la 'famiglia è la società naturale fondata sul
matrimonio e quindi la Costituzione ne garantisce i diritti.
Infatti, dai lavori preparatori emerge, ad es., che la definizione di famiglia quale "società
naturale fondata sul matrimonio" (art. 291), è frutto della fusione di quanto era stato proposto da
parte cattolica per cui «lo Stato riconosce la famiglia come unità naturale e fondamentale della
società» (comunità preesistente allo Stato, e quindi titolare di diritti propri e inalienabili), e
quanto invece voluto da parte comunista «lo Stato riconosce e tutela la famiglia quale
fondamento della prosperità materiale e morale dei cittadini della nazione» (contraria
all'introduzione nella Costituzione di una formula così astratta, faceva rilevare che quella
definizione in realtà era diretta ad imporre costituzionalmente un determinato modello di
famiglia, quello cattolico, senza tener conto della complessità e della variabilità storica della
convivenza familiare).
Il secondo comma dell'art. 29, afferma che il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.
Inoltre, in sede di Assemblea costituente venne data ampia rilevanza alla questione
dell'indissolubilità del vincolo coniugale, di cui per contro non vi è traccia nel testo della
Costituzione. Su questo punto si manifestarono contrasti molto più profondi rispetto a quelli
provocati dall'enunciazione del principio dell'eguaglianza giuridica e morale tra coniugi.
L'indissolubilità era uno dei temi sui quali non c'era possibilità di compromesso. Le accese
discussioni si conclusero, infatti, con una votazione che vide prevalere con una maggioranza di
soli 3 voti (194 rispetto a 191) l'opinione contraria alla costituzionalizzazione dell'indissolubilità
del vincolo.
L'art. 30 Cost. fissa i principi in materia di filiazione.

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Il primo comma, nello stabilire che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire cd. educare
i figli, anche se nati fuori dal matrimonio, sottolinea la centralità della persona del figlio, che ha
il diritto nei riguardi dei genitori di essere mantenuto, istruito ed educato. È significativo l'ordine
in cui il Costituente elenca gli obblighi genitoriali, che valorizza l'individualità del figlio e pone
in secondo piano i poteri genitoriali e la relativa soggezione del figlio, connessi alla funzione
educativa; è altresì molto rilevante che gli obblighi genitoriali siano identicamente enunciati
anche con riguardo ai figli nati fuori dal matrimonio, principio questo all'epoca radicalmente
innovativo, che risulta peraltro contemperato con quanto affermato dal 3° comma della
disposizione in esame, ove si stabilisce che la legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio
ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima, di
fatto accettando la disuguaglianza tra figli legittimi e naturali che l'ordinamento ha
tradizionalmente previsto a tutela dell'istituzione familiare e che è scomparsa a seguito della
riforma del 1975.
Il secondo comma dell'art. 30 Cost. stabilisce che nei casi d'incapacità dei genitori la legge
provvede a che siano assolti i loro compiti. La norma prevede l'obbligo dello Stato a predisporre
forme di tutela in favore della famiglia e non interventi pubblici di natura sostitutiva, cosicché la
famiglia di origine si conferma come «il luogo di formazione della personalità minorile
costituzionalmente privilegiato» e la rottura dei rapporti tra figlio e famiglia biologica un evento
assolutamente eccezionale.
L'art. 312, Cost., col prevedere l'impegno dello Stato alla protezione della maternità,
dell'infanzia e della gioventù, pone le basi per la realizzazione di obiettivi di politica di sicurezza
sociale che hanno fortemente segnato il vigente ordinamento.
La famiglia, inoltre, secondo il principio enunciato dall'art. 2 Cost., è considerata come una delle
diverse formazioni sociali in cui l'individuo svolge la sua personalità. Tale principio, infatti,
pone le fondamenta di un sistema pluralistico aperto, imponendo il rispetto di tutte le formazioni
sociali che coinvolgono la persona, e non solo di quelle istituzionalizzate.
Fondamentale anche l'art. 3, che disciplina l'uguaglianza e pone il problema della sua
applicabilità entro la famiglia.
È necessario stabilire se esiste una sorta di graduazione gerarchica tra le norme costituzionali, in
quanto il testo degli artt. 29, 30 e 31 si pongono chiaramente non del tutto in sintonia con i
principi enunciati dagli artt. 2 e 3.
Se vige la regola della prevalenza della norma speciale su quella generale, allora gli artt. 29, 30 e
31 sono sicuramente speciali e devono prevalere; se invece si riconosce che talune posizioni
giuridiche costituzionalmente tutelate non possono essere derogate neppure da norme
costituzionali, allora tali articoli devono essere reinterpretati alla luce degli artt. 2 e 3. Il tema
"famiglia di fatto" è un esempio importante di come tale problematica non sia solo tecnica: essa
non è sicuramente ricompresa nell'art 29, e dovrebbe quindi essere ritenuta priva di tutela, se non
addirittura in contrasto con il modello del Costituente. Ma già da tempo si è affermato che essa,
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in quanto "formazione sociale", è tutelata dall'art. 2.
Oggi si è dunque affermato un modello assolutamente innovativo rispetto a quello originario,
frutto di una vicenda sociale estremamente travagliata e complessa.
3. La riforma del diritto di famiglia
Verso la fine degli anni 60 era oramai diffuso il convincimento che non fosse possibile
rimandare ulteriormente una radicale riforma della disciplina codicistica della famiglia.
Tuttavia, il percorso legislativo non fu breve: i lavori parlamentari, iniziati verso la metà degli
anni 60, giunsero, infatti, a compimento solo con l'approvazione della 1. 19 maggio 1975, n.
151, che ha integralmente innovato la materia.
Nel frattempo varie leggi speciali avevano apportato alcune importanti innovazioni.
La legge sull'adozione: Essa innovò alcuni caratteri dell'adozione già disciplinata dal codice, e
introdusse il nuovo istituto dell'adozione speciale, riservata a coniugi uniti in matrimonio da
almeno 5 anni, non separati neppure di fatto, con riferimento a minori di età inferiore agli 8 anni
dichiarati in stato di adottabilità. Per effetto dell'adozione cd. speciale l'adottato acquista lo stato
di figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome.
La legge che ha introdotto lo scioglimento del matrimonio, che segna la fine della visione
istituzionale della famiglia.
Con la riforma del diritto di famiglia, è stata data piena attuazione ai principi costituzionali
dell'eguaglianza tra coniugi e della parità tra figli legittimi e naturali.
La separazione personale è stata svincolata dal principio della colpa e subordinata al verificarsi
di «fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave
pregiudizio all'educazione della prole» (art. 151 c.c.).
Per quanto attiene ai rapporti patrimoniali, la riforma ha introdotto la comunione dei beni e
regolato l'impresa familiare, allo scopo di valorizzare il lavoro svolto dalla donna all'interno del
nucleo familiare o nell'impresa del coniuge.
Attuata l'equiparazione sostanziale tra filiazione legittima e naturale, anche in sede successoria,
ed eliminato il divieto di riconoscimento dei figli adulterini, sono state introdotte rilevanti
innovazioni in tema di azioni di stato. In particolare, con riguardo all'azione di disconoscimento
della paternità e di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, è stato abbandonato il
regime della finzione, si sono, infatti, apprestati strumenti che consentono all'interessato di
conseguire una posizione giuridica aderente alla realtà biologica.
4. Verso un nuovo diritto di famiglia
L'abbandono della visione istituzionale della famiglia ed il crescente riconoscimento dei diritti
individuali costituiscono i motivi che hanno guidato i mutamenti del diritto di famiglia; così, i
diritti del singolo hanno ricevuto una protezione sempre più estesa, a scapito delle ragioni
dell'istituto familiare in sé e per sé considerato. Dopo la riforma del 1975, questa tendenza ha
ricevuto ulteriori conferme: basti pensare alla già citata 1. n. 194 del 1978, che consente alla

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donna, anche coniugata, l'interruzione della gravidanza senza che il marito possa contrastarne la
decisione; alla 1. n. 74 del 1987, che ha modificato la disciplina del divorzio, reso possibile dopo
un periodo di separazione di 3 anni, anziché, come in origine, di 5 o addirittura di 7 anni in caso
di opposizione dell'altro coniuge. Anche le disposizioni in materia di violenza familiare di cui
agli artt. 342 bis e ter c.c., introdotti dalla 1. n. 154 del 2001, che consentono al giudice
l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente responsabile, sono nel segno
della protezione della persona, che prevale nettamente sulle ragioni dell'unità del nucleo.
Di recente detti indirizzi hanno trovato una rilevante attuazione in occasione dell'introduzione di
nuove regole in materia di affidamento dei figli minori a seguito della crisi della coppia
genitoriale, con la 1. n. 54 del 2006, che ha modificato le disposizioni di cui agli artt. 155 e ss. ce
Il principio solennemente affermato dall'art. 1551, c.c., è che anche in caso di separazione,
divorzio, nullità del matrimonio, il figlio minore ha diritto di mantenere un rapporto equilibrato e
continuativo con ciascun genitore, di ricevere cura, educazione ed istruzione da entrambi e di
conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
L'accento è sul diritto soggettivo del figlio alla bigenitorialità, da collocarsi nell'ambito dei diritti
della personalità; per contro, per ciascuno dei genitori la presenza nella vita dei figli dopo la
rottura della coppia genitoriale non rappresenta una mera facoltà ma un diritto-dovere per il
quale è prevista una tutela, visto che dall'inadempimento possono derivare sanzioni a carico del
genitore (art. 709 ter c.p.c).
Tale normativa peraltro è valida anche con riguardo ai figli i cui genitori non sono coniugati (art.
4, comma 2, 1. n. 54 del 2006): questo rappresenta un altro segnale molto evidente della perdita
di forza del matrimonio, da un lato rimovibile da ciascun coniuge, dall'altro irrilevante sulla
condizione giuridica dei figli, sia in costanza di convivenza che dopo la rottura della vita di
coppia, il che apre la via alla preannunciata unificazione dello status di filiazione che parrebbe
destinato a perdere i tradizionali attributi di legittima e naturale.
Nonostante le riforme intervenute, da più parti si richiedono nuovi interventi legislativi, segno
che l'evolversi del costume richiede adeguamenti continui del tessuto normativo.
Al riguardo, un punto fondamentale è quello che riguarda la possibilità di formare convivenze
familiari alternative a quella coniugale, e, quindi, di dare adeguata tutela giuridica alle
convivenze di fatto, anche omosessuali.
Ma anche con riferimento alla famiglia coniugale, si prospettano vari interventi. In primo luogo,
per assicurare una maggiore tutela del coniuge economicamente più debole, con riferimento al
potere di assumere obbligazioni nell'interesse della famiglia e di impedire atti di disposizione del
coniuge proprietario relativamente alla casa coniugale e a beni indispensabili per la convivenza
familiare. Sempre con riferimento ai rapporti personali, si è evidenziata l'opportunità di
modificare le regole di attribuzione del cognome familiare e di abrogare l'addebito nella
separazione, ed altresì di unificare la disciplina della separazione e del divorzio, che attualmente
costringe i coniugi che intendono sciogliere il vincolo matrimoniale ad intraprendere un iter
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processuale che appare ripetitivo e dispendioso.
In relazione ai rapporti patrimoniali si è proposto di semplificare o addirittura abrogare la
comunione legale. È altresì condivisa la necessità di riconoscere margini più ampi all'autonomia
dei coniugi nel regolare, anche in via preventiva, le conseguenze patrimoniali del divorzio.
In tema di filiazione è oggetto di critica la regolamentazione della procreazione medicalmente
assistita; inoltre, è da più parti auspicata una qualche disciplina della famiglia ricomposta, e,
infine, di recente si è manifestata l'intenzione di abolire la stessa divisione tra filiazione legittima
e naturale.
Tutti gli interventi sono diretti a valorizzare ulteriormente le posizioni individuali, facendo
avanzare una visione privatistica delle relazioni di coppia e la svalutazione del matrimonio.
A fronte dell'ampliarsi dell'autonomia dei partners nel disporre del loro rapporto, si fa più forte
la necessità di rafforzare gli strumenti di tutela dei figli, sia con riguardo ai comportamenti
richiesti ai genitori, che all'intervento pubblico.
La situazione che complessivamente emerge può così essere riassunta: la stabilità della famiglia
è nelle mani dei coniugi o partners, il diritto non pone regole per garantirla contro la volontà
degli interessati. Il diritto dei genitori non può però compromettere quello dei figli alla cura ed
all'educazione.
Dunque, nel contesto della rilevata progressiva privatizzazione della relazione matrimoniale,
s'inserisce la crescente attenzione del diritto verso il minore.
Anche a livello internazionale, si è oramai affermata una nuova considerazione della condizione
del minore, il quale è visto come titolare di diritti soggettivi che l'ordinamento deve non solo
riconoscere ma anche garantire e promuovere.
La Convenzione O.N.U., approvata a New York, il 20 novembre 1989, che può considerarsi il
momento più significativo di questa tendenza, predispone un organico e completo statuto dei
diritti del fanciullo. Essa finisce per essere principalmente, ancora più che un codice di diritti, un
vero e proprio programma anche pedagogico di formazione del minore che impegna gli Stati che
l'hanno ratificata ad adottare una serie di «misure appropriate» per realizzarlo efficacemente.
Uno degli aspetti più innovativi, nel contesto della valorizzazione della personalità del fanciullo,
è l'affermazione del suo diritto a partecipare in prima persona alla propria formazione ed alle
scelte che lo riguardano.
L'affermazione della centralità dei diritti del fanciullo finisce per trasformare l'intera relazione
genitori-figli, nel senso che in definitiva sarebbero i minori stessi, in base al grado di maturità
raggiunta, a definire autonomamente quale sia il loro migliore interesse; cosicché la funzione dei
poteri genitoriali sarebbe quella di fornire orientamenti in un processo che è stato definito di
«autodeterminazione dinamica».
Altrettanto innovativa, poi, sotto il profilo della partecipazione attiva del minore agli eventi che
lo coinvolgono, è la Convenzione europea, sull'esercizio dei diritti dei bambini (Strasburgo, 25
gennaio 1996), di recente ratificata dall'Italia, che riconosce al minore dotato di sufficiente
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capacità di discernimento, nei procedimenti che direttamente lo interessano, il diritto di ricevere
ogni informazione pertinente, di essere consultato e di esprimere la propria opinione, di essere
informato delle eventuali conseguenze della messa in pratica della sua opinione e di ogni
decisione, con l'obbligo per l'autorità giudiziaria, quando si ritenga che il fanciullo abbia
sufficiente capacità di giudizio, di assicurarsi, prima di adottare ogni decisione, del
soddisfacimento dei predetti diritti e di tenere in debito conto l'opinione espressa.
Anche la Convenzione dell'Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di
adozione internazionale (1993) ribadisce questo nuovo modo di guardare al bambino, alle sue
esigenze, al suo benessere. Essa rappresenta, sotto questo profilo, un ulteriore passo verso il
riconoscimento dell'identità e dignità del bambino perché richiede non solo che vengano tenute
in considerazione le sue opinioni, ma anche di tener conto dei suoi desideri e di informarlo
debitamente sulle conseguenze derivanti dalla sua adozione.
La mutata considerazione della figura del minore è testimoniata, sul piano dell'ordinamento
interno, dall'elevato numero di leggi approvate negli ultimi anni:
- L. 451/1997 che ha istituito la Commissione parlamentare per l'infanzia e l'Osservatorio
nazionale per l'infanzia;
- L. 176/1991 che ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989;
- L. 285/1997 che contiene disposizioni per la promozione di diritti e opportunità per l'infanzia e
l'adolescenza;
- L. 269/1998 che contiene norme contro lo sfruttamento della prostituzione, pornografia e
turismo sessuale a danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù;
- L. 476/1998 che ha ratificato la Conv. dell'Aja e riformato la disciplina dell'adozione
internazionale;
- L. 149/2001 che ha innovato l'adozione nazionale;
- L. 154/2001 che contiene misure contro la violenza familiare;
- L. 54/2006 che introduce l'affidamento condiviso.
Tutte queste norme nazionali e internazionali denotano che l'indissolubilità dei vincoli familiari
si è trasferita dal legame di coppia a quello di filiazione.
Negli anni recenti, accanto alla valorizzazione dei diritti del minore, si è sviluppata una
maggiore sensibilità al problema dei soggetti deboli ed in particolare degli anziani, nel quadro di
una rivalutazione del ruolo che la solidarietà familiare è chiamata a svolgere in loro favore. È
opportuno sottolineare che il diritto di famiglia si confronta attualmente con i problemi posti
dall'imponente flusso migratorio che interessa il Paese, con riferimento particolare alla disciplina
del ricongiungimento, ossia delle richieste dello straniero legalmente soggiornante in Italia di
essere raggiunto dai propri familiari. Viene in rilievo il soddisfacimento di diritti fondamentali
della persona - il rispetto della vita familiare e la protezione dell'infanzia - che possono
importare deroghe alla disciplina ordinaria dell'immigrazione ed alle severe condizioni
d'ingresso e di circolazione degli stranieri. Si pensi al beneficio della sospensione del
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provvedimento di espulsione accordato alla donna in stato di gravidanza o che ha partorito da
non oltre 6 mesi, al divieto di
espulsione per i minorenni, alla disciplina stessa del ricongiungimento familiare, che consente
all'immigrato di essere raggiunto in Italia da familiari che, di per sé, non avrebbero i requisiti per
l'ingresso e il soggiorno nel paese. Tali finalità, tuttavia, devono coordinarsi con quelle di
sicurezza, che conducono sovente a porre limiti e che impediscono, in ultima analisi, di
configurare la sussistenza di un pieno ed incondizionato diritto dello straniero al
ricongiungimento familiare. In Italia in materia di affidamento dei figli si stabilisce che il minore
ha diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e a ricevere
cura, educazione e istruzione da ciascuno di essi. Dopo un tentativo di riconciliazione fallito, le
modalità di attuazione dell'affidamento devono essere determinate dal giudice in base alla legge.
Altra disposizione importante è quella che obbliga i genitori al risarcimento dei danni per lesione
dei diritti inviolabili dei figli.
2 - IL MATRIMONIO
1. Pemessa
Secondo l'art. 29 Cost. il matrimonio è il fondamento della famiglia.
Il modello tradizionale appare di gran lunga più diffuso ed è il solo regolato compiutamente
dalla legge; di qui la centralità del matrimonio nel vigente ordinamento giuridico della famiglia.
La legge non definisce il matrimonio, pur disciplinandolo analiticamente.
Il termine matrimonio ha un significato bivalente. Il vocabolo designa in primo luogo l'atto che
lo fa venire ad esistenza, che è officiato dall'ufficiale dello stato civile, secondo le regole del c.c.
(artt. 84 e ss. c.c.), o dal ministro del culto cattolico, secondo le leggi speciali in materia (art. 82
c.c.), oppure dai ministri dei culti ammessi nello Stato (art. 83 c.c.). Lo stesso termine
matrimonio designa altresì il rapporto che s'instaura tra gli sposi a seguito della celebrazione, i
cui connotati essenziali possono essere desunti dal complesso normativo del diritto di famiglia,
che regola ogni fase del rapporto coniugale.
Il "matrimonio-atto" è un negozio bilaterale, puro, cioè al quale non possono essere apposti
termini o condizioni, e solenne, che consiste nella manifestazione della volontà (consenso),
espressa con una certa forma e in un determinato contesto da due soggetti di sesso diverso,
diretta a costituire tra loro un rapporto giuridico personale, qualificato dall'ordinamento come
matrimonio. Il "matrimonio-rapporto" rappresenta la «comunione spirituale e materiale tra i
coniugi», che, dunque, rappresenta l'essenza stessa della relazione coniugale.
Dal matrimonio scaturiscono i vincoli di parentela (artt. 74 e ss. c.c.) che producono molteplici
effetti regolati dalla legge, quali, in primo luogo quelli in materia successoria e l'obbligo
alimentare.
2. La promessa di matrimonio
La promessa di matrimonio, è prevista dagli artt. 79-81 c.c., ma anche in questo caso il

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legislatore non ne dà una definizione. La giurisprudenza la identifica nel cd. fidanzamento
ufficiale. Essa sussiste, cioè, quando ricorra una dichiarazione espressa o tacita, normalmente
resa pubblica nell'ambito della parentela, delle amicizie e delle conoscenze, di volersi
frequentare con il serio proposito di sposarsi, affinché ciascuno dei promessi possa acquisire la
maturazione necessaria per celebrare responsabilmente il matrimonio, libero restando di
verificare se questa venga poi conseguita e di trarne le debite conseguenze.
La disciplina della promessa è ispirata alla salvaguardia del principio della libertà del consenso
matrimoniale e l'art. 79 c.c., sancisce quindi la non vincolatività della promessa di matrimonio,
che non obbliga a contrarlo né ad eseguire ciò che si fosse convenuto per il caso di non
adempimento. Tuttavia, la promessa di matrimonio produce alcuni e limitati effetti giuridici,
quali la restituzione dei doni e il risarcimento dei danni. La restituzione può essere richiesta,
purché vi sia stata una promessa, sia mancata la celebrazione del matrimonio e vi sia un nesso di
causalità tra doni e promessa (art. 80 c.c.). La richiesta di restituzione deve essere proposta entro
un anno dal giorno in cui s'è avuto il rifiuto di celebrare il matrimonio o dal giorno della morte di
uno dei promettenti (art. 802, c.c.).
Quanto al risarcimento dei danni, l'art 81 ce stabilisce che devono essere tutelati, da una parte la
libertà del consenso del promettente, dall'altra l'affidamento incolpevole del fidanzato che in
presenza di una scambievole promessa rivestita di una certa forma (atto pubblico, scrittura
privata o richiesta della pubblicazione) abbia subito conseguenze patrimoniali negative dalla
preparazione, risultata poi inutile, del matrimonio.
Il danno risarcibile è circoscritto alle spese fatte e alle obbligazioni contratte a causa della
promessa di matrimonio, quali, ad es., quelle di viaggio, di preparazione della cerimonia nuziale,
di acquisto di beni destinati ad essere utilizzati soltanto in occasione del matrimonio, entro i
limiti in cui corrispondano alle condizioni delle parti. Di conseguenza, è escluso il risarcimento
dei danni indiretti - coma la rinuncia spontanea al posto di lavoro all'estero in vista del futuro
matrimonio in Italia - e dei danni inerenti a spese effettuate e ad obbligazioni contratte prima
della promessa scritta di matrimonio, anche se posteriormente all'effettivo fidanzamento, ed è
escluso il risarcimento dei danni morali.
Anche l'azione del risarcimento dei danni è soggetta al termine di decadenza di un anno dal
giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio.
3. Le condizioni per contrarre matrimonio
Il c.c., nel capo III del titolo VI, intitolato «Del matrimonio celebrato davanti all'ufficiale dello
stato civile», detta le regole che disciplinano il matrimonio inteso come atto. Innanzitutto, il
matrimonio presuppone la diversità di sesso tra gli sposi, lo scambio del consenso, la forma (art.
107 c.c.). La dottrina distingue 3 categorie di requisiti per contrarre matrimonio, quelli necessari
per l'esistenza giuridica dell'atto, quelli prescritti come condizione di validità del matrimonio
(impedimenti dirimenti), quelli che ne condizionano la semplice regolarità (impedimenti

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impedienti).
Infine, gli impedimenti si distinguono in dispensabili o non dispensabili, a seconda che possano
o meno essere rimossi con autorizzazione giudiziale.
# Impedimenti dirimenti = invalidità del matrimonio
L'ETÀ: Il requisito d'età per essere ammessi a contrarre matrimonio è per entrambi i nubendi il
compimento dei 18 anni. Ai sensi dell'art. 842, c.c., il tribunale per i minorenni, su istanza
dell'interessato, accertata la sua maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni addotte, sentiti
il pubblico ministero, i genitori o il tutore, può, con decreto emesso in camera di consiglio,
ammettere per gravi motivi al matrimonio chi abbia compiuto i 16 anni. Quanto al requisito della
maturità, il tribunale dovrà accertare non soltanto la consapevolezza del minore circa gli
obblighi matrimoniali, ma anche la sua idoneità ad affrontarli ed adempierli.
Verificato tale presupposto, resta ancora al giudice il compito di accertare la fondatezza delle
ragioni addotte e la sussistenza dei gravi motivi.
La gravidanza non è più considerata, di per sé, sufficiente per la concessione dell'autorizzazione,
ma dovrà essere sempre accompagnata dalla maturità psicofisica della minore (o del minore),
che andrà accertata attraverso il comportamento dell'interessato in rapporto al concepimento.
Sono stati considerati gravi motivi anche la convivenza 'more uxorio', se instaurata da molti
mesi, o se già preceduta dal matrimonio religioso, o se vissuta in ambient di scarsa apertura
mentale.
L'INTERDIZIONE PER INFERMITÀ DI MENTE:
A norma dell'art. 85 c.c., l'interdetto per infermità di mente non può contrarre matrimonio.
La 'ratio' della norma risiede nell'esigenza di proteggere l'incapace, che potrebbe subire un
pregiudizio nell'assumere un vincolo fonte di doveri e di responsabilità. Infatti, chi non può
provvedere ai propri interessi non può essere legittimato a contrarre matrimonio.
Il divieto non riguarda l'interdizione legale, che ha natura meramente sanzionatoria, e neppure
nel caso d'inabilitazione, cosicché l'inabilitato può liberamente contrarre matrimonio senza
l'assistenza del curatore. Il divieto di contrarre matrimonio non è previsto neppure per il soggetto
sottoposto ad amministrazione di sostegno (art. 404 c.c.); tuttavia si ritiene che - qualora risulti
conveniente ed opportuno - il giudice tutelare possa impedirgli di accedere alle nozze.
Qualora l'ufficiale di stato civile rilevi che uno dei nubendi è incapace di intendere o di volere,
potrà darne notizia al p.m. il quale dovrà promuovere un giudizio (di nomina di un
amministratore
di sostegno o d'interdizione) nel corso del quale chiederà che venga disposta la sospensione della
celebrazione (art. 852, c.c.).
L'impedimento vale anche per lo straniero che voglia contrarre matrimonio in Italia, pure nelle
ipotesi in cui la sua legge nazionale preveda tale dispensa (art. 1162, c.c.). Se l'interdetto
giudiziale ha contratto matrimonio concordatario, questo non potrà conseguire gli effetti civili,

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perché, in base all'art. 8 degli Accordi del 1984, l'interdizione per infermità di mente ne preclude
la trascrizione.
LA LIBERTÀ DI STATO:
L'ordinamento italiano osserva il principio monogamico, per cui l'art. 86 ce stabilisce che non
può contrarre matrimonio chi sia già vincolato da un precedente matrimonio.
Il divieto risponde ad esigenze di ordine pubblico; pertanto non è dispensabile e vincola anche lo
straniero, la cui legge tolleri la poligamia (art. 1162, c.c.). La violazione del divieto, oltre alla
nullità del secondo matrimonio, comporta anche la sanzione penale per il delitto di bigamia.
Il precedente matrimonio deve essere giuridicamente efficace per il nostro ordinamento. È
invece irrilevante il precedente matrimonio se nullo o sciolto per morte dell'altro coniuge, per
divorzio, o a seguito di dichiarazione di morte presunta.
LA PARENTELA, L'AFFINITÀ, L'ADOZIONE, L'AFFILIAZIONE:
L'art 87 ce attribuisce rilievo impeditivi ai legami derivanti da parentela, affinità, adozione o
affiliazione.
La parentela, anche naturale, in linea retta all'infinito e in linea collaterale di secondo grado -
fratelli e sorelle germani, consanguinei o uterini - dà luogo ad impedimenti non dispensabili, in
quanto ad essi sono sottese esigenze di ordine pubblico, e sono vincolanti anche per lo straniero;
la parentela di terzo grado in linea collaterale - zio/a e nipote - è invece dispensabile con
l'autorizzazione del matrimonio da parte del tribunale.
I divieti di contrarre matrimonio, tra fratelli e sorelle, tra zio/a e nipote, si applicano anche se il
rapporto dipende da filiazione naturale.
L'impedimento derivante da affinità, che sorge tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge,
sussiste in linea retta all'infinito - suocero e nuora, suocera e genero, ecc. - e in linea collaterale
in secondo grado - cognato e cognata -. In linea collaterale l'impedimento è dispensabile (art.
874, c.c.), mentre in linea retta l'impedimento, vincolante anche per gli stranieri, è dispensabile
soltanto se il matrimonio dal quale deriva l'affinità sia stato dichiarato nullo, stante la
conseguente cessazione del vincolo di affinità, non invece se sia stato sciolto o ne sia stata
pronunciata la cessazione degli effetti civili.
Con particolare riguardo all'impedimento derivante da adozione il divieto permane anche se
cessano i rapporti legali con la famiglia di origine e non è dispensabile.
IL DELITTO:
L'impedimento di cui all'art. 88 ce è fondato su ragioni di ordine pubblico e comporta il divieto
di celebrare il matrimonio tra persone delle quali l'una sia stata condannata per
omicidio consumato o tentato sul coniuge dell'altra.
# Impedimenti impedienti = irregolarità del matrimonio
IL DIVIETO TEMPORANEO DI NUOVE NOZZE:
L'art. 89 c.c. fissa il divieto temporaneo di nuove nozze, che trova la sua 'ratio' nell'esigenza di

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assicurare la certezza nell'attribuzione della paternità ed evitare così il possibile conflitto tra le
varie presunzioni previste dalla legge.
Pertanto, prima di contrarre un nuovo matrimonio, la donna deve attendere che siano trascorsi
300 giorni dalla morte del precedente coniuge o dal passaggio in giudicato della sentenza di
divorzio o di cessazione degli effetti civili o di annullamento del precedente matrimonio, salvo il
caso di dichiarazione d'impotenza, anche soltanto di generare, di uno dei coniugi. Il termine di
300 giorni si collega alla presunzione di concepimento in costanza di matrimonio, per cui
cessando la presunzione viene meno anche il divieto.
L'impedimento è solo impediente; se, nonostante il divieto, le nozze vengano ugualmente
celebrate, sono valide, anche se i coniugi e l'ufficiale dello stato civile intervenuto alla
celebrazione
incorreranno nella sanzione pecuniaria.
4 .La pubblicazione e le opposizioni al matrimonio
Il matrimonio deve essere preceduto dalla pubblicazione, la cui mancanza non ne consente la
celebrazione. Si tratta di un procedimento avente il duplice scopo di rendere conoscibile ai terzi
l'intenzione delle parti di contrarre matrimonio, per consentire l'eventuale proposizione di
opposizione (art. 102 ss., c.c.), e di avviare gli accertamenti dell'ufficiale di stato civile
sull'inesistenza d'impedimenti al matrimonio.
Legittimati a proporre l'opposizione al matrimonio, che dà luogo ad un procedimento
contenzioso davanti al tribunale, sono i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti e i collaterali
entro il 3° grado; in caso di tutela o curatela, il diritto di proporre opposizione compete anche al
tutore o al curatore o (in caso d'infermità mentale) al p.m.
5. La celebrazione del matrimonio
Il matrimonio deve essere celebrato pubblicamente nella casa comunale. Tuttavia la celebrazione
può tenersi anche in un luogo diverso, alla presenza di 4 testimoni, quando uno degli sposi, per
infermità o per altro impedimento, sia nell'impossibilità di presentarsi nella casa comunale. Il
matrimonio deve essere celebrato davanti all'ufficiale dello stato civile al quale gli sposi hanno
presentato la richiesta di pubblicazione, o in un comune diverso per ragioni di «necessità o
convenienza», cioè per motivi addotti dalle parti che siano socialmente apprezzabili e ritenuti
plausibili dall'ufficiale di stato civile competente.
La forma della celebrazione, che si svolge alla presenza di due testimoni maggiorenni prevede:
la lettura da parte dell'ufficiale di stato civile degli artt. 143,144,147 c.c. relativi ai diritti e doveri
dei coniugi; la dichiarazione di ciascuna delle parti personalmente, l'una dopo l'altra, di volersi
prendere rispettivamente in marito e moglie; infine, la dichiarazione dell'ufficiale di stato civile
che le parti sono unite in matrimonio.
Immediatamente dopo la celebrazione l'ufficiale di stato civile compila l'atto di matrimonio. Il
documento può avere, oltre ad un contenuto necessario - costituito dalle generalità dei coniugi e

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dalla dichiarazione di volersi unire in matrimonio -, anche un contenuto eventuale, ogniqualvolta
i nubendi, contemporaneamente alla celebrazione delle nozze, intendano riconoscere figli
naturali o compiere la scelta relativa al regime patrimoniale.
La dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e in moglie non può essere
sottoposta né a termine, né a condizione.
Il matrimonio può essere celebrato, in casi tassativi, per procura (art. Ili c.c.):
- Militari in tempo di guerra;
- Per gravi motivi quando uno dei due coniugi vive all'estero.
Il matrimonio celebrato davanti a persona la quale, senza avere la qualità di ufficiale di stato
civile, ne eserciti le funzioni (ed. funzionario di fatto) è valido, a meno che entrambi gli sposi, al
momento della celebrazione, siano a conoscenza che detta persona non ne aveva la qualità (art.
113 c.c.).
6. L'invalidità del matrimonio
Una prima serie d'invalidità del matrimonio deriva dalla mancanza di una delle condizioni
richieste dalla legge per la sua celebrazione (art. 84 e ss. c.c.) e, quindi, attinenti l'età, la capacità,
la libertà di stato, i vincoli di parentela, il delitto. La mancanza di una di queste condizioni, è
ipotesi d'invalidità regolata dagli artt. 117,119 e 120 ce
Altre invalidità derivano da vizi del consenso. Infatti, il matrimonio è atto di volontà che
richiede la formazione di un consenso libero e consapevole e può essere impugnato dallo sposo
il cui consenso sia stato estorto con violenza, determinato dal timore di eccezionale gravità
derivante da cause esterne allo sposo o sia stato dato per effetto di errore (art. 121 c.c.).
In ordine alla violenza, è pacifico che si tratti di violenza morale e non di quella fisica, la quale,
oltre ad essere difficilmente ipotizzabile per i particolari connotati solenni e formali della
cerimonia nuziale, comunque darebbe luogo non ad un vizio, ma ad una mancanza assoluta del
consenso (poco ipotizzabile).
La minaccia deve essere idonea a far temere un male ingiusto e notevole. Tuttavia, è pure
rilevante la minaccia pura e semplice di far valere un diritto, visto che in materia matrimoniale è
coinvolta la libertà della persona e pertanto ogni minaccia comunque diretta ad estorcere il
consenso deve essere reputata per se stessa ingiusta.
La violenza, per essere invalidante, deve essere effettiva e non semplicemente supposta o
presunta, ragion per cui si esclude la rilevanza di un atteggiamento imperioso, non integrante
una minaccia, e dall'autosuggestione; la minaccia tuttavia può esprimersi con qualunque mezzo,
anche senza evidenti manifestazioni esteriori.
La violenza può essere esercitata dall'altro sposo o da terzi, e in questo secondo caso può essere
ignota allo sposo; il notevole male minacciato, cui la parte vittima della violenza andrà incontro
se si rifiuta di celebrare il matrimonio, può riguardare la persona o i beni dello sposo o la
persona o i beni dei suoi prossimi congiunti, ma destinatario della minaccia deve essere sempre

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lo sposo.
Peraltro la minaccia alla persona può consistere non solo nella lesione dell'integrità fisica, ma
anche dell'integrità morale, come l'onorabilità o la reputazione del soggetto nell'ambiente sociale
in cui vive.
Legittimato all'impugnazione è solo il coniuge il cui consenso è stato estorto con violenza.
L'azione non può però essere più proposta se vi sia stata coabitazione per un anno dopo che sia
cessata la violenza. In mancanza di coabitazione, il termine di prescrizione dell'azione è quello
ordinario decennale, decorrente dal giorno in cui è cessata la violenza.
Un altro vizio invalidante il matrimonio è costituito dal timore di eccezionale gravità derivante
da cause esterne allo sposo, definito come l'impulso psicologico che la percezione di un pericolo
esercita sulla persona.
Il timore che abbia determinato il consenso assume rilevanza unicamente nei casi in cui sia di
eccezionale gravità derivante da cause esterne. La causa esterna può consistere sia in un
comportamento umano, non integrante una minaccia e non posto in essere allo scopo di
costringere lo sposo alla celebrazione delle nozze, sia in una situazione oggettiva.
Conseguentemente, si
esclude la rilevanza del timore riverenziale e del cd. Timore putativo o spontaneo. Il primo è
quello che il nubendo prova verso persone per le quali nutre sentimenti di rispetto e di riverenza,
per cui egli è indotto al matrimonio dal desiderio di non dispiacergli; il secondo è quello che non
trova giustificazione in ragioni esterne oggettive, ma che scaturisce unicamente da interne
rappresentazioni mentali dello sposo.
La differenza rispetto alla violenza risiede nella modalità con le quali la coartazione della
volontà si verifica: nella violenza si hanno minacce specificamente dirette a far celebrare nozze
non volute; nel timore il matrimonio non viene imposto, ma appare al nubendo come l'unica via
per sottrarsi alla situazione oggettiva cui altrimenti andrebbe incontro se non si sposasse, e,
quindi, come la scelta del male minore.
Come per la violenza, è irrilevante il fatto della conoscenza o della riconoscibilità del timore da
parte dell'altro sposo.
Legittimato a proporre l'azione è soltanto il coniuge il cui consenso è stato determinato dal
timore; l'azione non può essere proposta se vi sia stata coabitazione per un anno dopo che siano
cessate le cause che hanno determinato il timore. Altrimenti, se non vi sia stata coabitazione, si
applica il termine ordinario di prescrizione.
In tema di errore la riforma del '75 ha introdotto la figura dell'errore essenziale sulle qualità
personali dell'altro coniuge, cioè quell'errore per cui se si fossero conosciute alcune condizioni
del
coniuge non si sarebbe mai contratto il matrimonio.
L'errore essenziale, oltre ad essere determinante del consenso, deve cadere necessariamente su
una delle 5 ipotesi tassativamente elencate dalla legge.
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L'errore deve riguardare:
L'esistenza di una malattia fisica o psichica o di un'anomalia o deviazione sessuale, tali da
impedire lo svolgimento della vita coniugale: in giurisprudenza è stato attribuito rilievo a
malattie fisiche quali la sieropositività, la sclerosi a placche; o a malattie psichiche quali la
psicopatia dissociativa o la psicosi maniaco-depressiva; ad anomalie sessuali quali l'amenorrea
primaria (mancanza di mestruazioni) con impedimento alla procreazione; a deviazioni sessuali
quali il transessualismo.
L'impotenza rileva unicamente in quanto oggetto di errore da parte dell'altro coniuge, al pari
delle altre malattie ed anomalie sessuali. Questo significa che se il coniuge sano sposa quello
impotente nella consapevolezza delle di lui condizioni fisiche non potrà in seguito agire per
l'annullamento del matrimonio. In questo si è visto da parte della dottrina una valorizzazione
dell'aspetto spirituale del matrimonio poiché l'idoneità all'unione fisica non sarebbe più
essenziale alla costituzione del vincolo coniugale.
Si distingue tra impotenza 'còeundi' (coendi) (inettitudine al rapporto sessuale), maschile o
femminile, assoluta o relativa, per cause fisiche o psicologiche, e impotenza 'generando
(inettitudine alla procreazione). L'impotenza, oltre che antecedente, deve essere perpetua, cioè
non guaribile con adeguate terapie allo stato della ricerca scientifica. A proposito dell'impotenza
'generando ci si è domandati se l'esistenza di tecniche di procreazione assistita potenzialmente in
grado di sopperire all'incapacità di procreare, sia rilevante. Si ritiene comunemente che tali
tecniche non possano essere considerate mere terapie della sterilità, con la conseguenza che il
matrimonio potrebbe essere invalidato anche ove l'impotenza fosse superabile solo attraverso il
ricorso ad esse. Tuttavia, nel caso di spontanea sottoposizione con esiti positivi, non potrà più
esercitarsi l'azione di annullamento, in quanto in dette ipotesi non appare ragionevole affermare
che la condizione
dello sposo impedisca lo svolgimento della vita coniugale.
Per quel che concerne l'ignoranza dei precedenti penali, nei due casi relativi a condanna per
delitti
Delitto non colposo con condanna alla reclusione non inferiore a 5 anni, salvo il caso di
intervenuta riabilitazione prima del matrimonio;
Condanna a pena non inferiore a 2 anni per delitti concernenti la prostituzione; l'azione di
annullamento non può essere proposta prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile; la
condanna penale dev'essere anteriore al matrimonio, ed è quindi irrilevante la mancata
conoscenza di fatti delittuosi commessi prima del matrimonio per i quali la condanna sia
intervenuta dopo la celebrazione di esso.
La dichiarazione di delinquenza abituale o professionale; Lo stato di gravidanza causato da
persona diversa dal soggetto caduto in errore. Se la gravidanza è stata portata a termine, l'azione
di annullamento può essere esercitata purché vi sia stato disconoscimento della paternità; e ciò al
fine di evitare l'eventuale situazione di un matrimonio annullato per errore su una gravidanza
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causata da persona diversa dallo sposo, il quale conservi, per effetto delle norme sul matrimonio
putativo, lo stato di figlio legittimo dei due coniugi. Se la gravidanza si è interrotta, in modo
naturale o volontario, si ritiene che l'azione sia ugualmente esperibile. La legittimazione spetta al
coniuge caduto in errore, che deve esercitare l'azione prima che sia trascorso un anno di
coabitazione dalla scoperta dell'errore, decorrente per la malattia dalla certezza della sua
inguaribilità e per le condanne penali dalla loro irrevocabilità. Se non vi sia stata coabitazione,
l'azione si prescrive nell'ordinario termine decennale.
7. La simulazione
È una figura completamente nuova, introdotta dalla riforma del '75, disciplinata dall'art. 123 c.c.,
e ricorre «quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere gli obblighi e di non esercitare i
diritti da esso discendenti».
Presupposto fondamentale perché si abbia simulazione del matrimonio è l'esplicita ed
antecedente pattuizione tra i nubendi preordinata ad escludere la società coniugale una volta
sposati; accordo dal quale emerga che i coniugi vogliono dar vita soltanto ad un'apparenza di
matrimonio. Può essere totale o parziale. Per quest'ultima figura, che si configura quando i
coniugi intendono non dare esecuzione soltanto ad alcuni dei diritti e doveri coniugali, se si
tratta di diritti-doveri inderogabili, identificati dagli artt. 108 e 160 c.c., la rinuncia sarà priva di
effetto, e non si può
parlare di simulazione del matrimonio (che sussiste cioè quando le parti escludono totalmente gli
effetti del matrimonio).
La casistica giurisprudenziale ha ritenuto simulato, e quindi invalido, il matrimonio celebrato,
previo reciproco accordo degli sposi, al solo scopo di acquistare la cittadinanza, per conseguire
particolari punteggi per l'assegnazione di un alloggio, per consentire la partecipazione a pubblici
concorsi, per assicurare alla donna un'adeguata sistemazione economica, per ottenere
l'autorizzazione all'ingresso negli USA, o all'espatrio dall'URSS, per celebrare una solennità
puramente formale ed esteriore per sottrarsi alle insistenze dei genitori per un matrimonio
riparatore o, infine, per assecondare i desideri del proprio genitore gravemente ammalato e poi
deceduto. La prova dell'accordo simulatorio può essere fornita con ogni mezzo, per cui non si
richiede che essa sia data per iscritto; non sono però ammissibili la confessione e il giuramento
decisorio, in quanto si tratta di diritti indisponibili.
La legittimazione all'impugnazione del matrimonio spetta a ciascuno dei coniugi. Peraltro sono
previste due distinte ipotesi di decadenza: l'azione non può essere proposta nel caso in cui i
contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione delle nozze,
oppure, se non vi sia stata convivenza, decorso un anno dalla celebrazione stessa. La prima
ipotesi prescinde dalla durata della convivenza ed è sufficiente anche la convivenza per un
brevissimo periodo di tempo perché si produca la sanatoria e venga superato il pregresso
accordo simulatorio.

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8. Il matrimonio putativo
Si parla di matrimonio putativo con riferimento al matrimonio invalido celebrato in buona fede
da almeno uno dei coniugi che lo considerava valido al momento della celebrazione. Nel
disciplinarlo, l'art. 128 c.c., sancisce una deroga al generale principio dell'improduttività di
effetti di un atto giuridico nullo. Infatti, il matrimonio putativo produce ugualmente effetti in
favore dei coniugi, o di uno di essi, e dei figli; l'eccezione si giustifica per tutelare il coniuge in
buona fede e la prole.
Se il matrimonio è dichiarato nullo gli effetti del matrimonio valido si producono in favore dei
coniugi fino alla sentenza che pronunzia la nullità, quando i coniugi lo hanno contratto in buona
fede, oppure quando il loro consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di
eccezionale gravità derivante da causa esterna; se tali condizioni si verificano per uno solo dei
coniugi, gli effetti valgono soltanto in favore di lui. Nelle ipotesi indicate, restano salvi gli status
personali e gli effetti patrimoniali verificatisi.
Se invece entrambi i coniugi sono in mala fede al tempo della celebrazione, resta esclusa
l'applicabilità del primo comma dell'art. 128 c.c., e sopravvivono limitati effetti (prestazioni
contributive effettuate spontaneamente, sospensione della prescrizione, acquisto della
cittadinanza, ecc.).
Rispetto alla prole, gli effetti del matrimonio valido si producono, senza limitazioni temporali,
per i figli nati o concepiti durante il matrimonio dichiarato nullo, nonché rispetto ai figli nati
prima del matrimonio e riconosciuti anteriormente alla sentenza che dichiara la nullità, qualora
anche uno solo dei coniugi si trovi nelle condizioni per poter usufruire degli effetti del
matrimonio valido. Inoltre, anche se entrambi i coniugi sono in mala fede, il matrimonio
dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli nati o concepiti durante lo
stesso, con la conseguenza che questi acquistano comunque lo status di figli legittimi, salvo però
che la nullità dipenda da bigamia od incesto, nel qual caso i figli acquisteranno lo status di figli
naturali riconosciuti nei casi in cui il riconoscimento è ammesso (art. 1284, c.c.).
L'art. 129 c.c. stabilisce che quando le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto
ad ambedue i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno di essi, e per un periodo non
superiore a 3 anni, l'obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alle
sue sostanze, a favore dell'altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a
nuove nozze.
In relazione ai figli il giudice adotta gli stessi provvedimenti previsti dall'art. 155 ce in tema di
separazione personale.
Il coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio è tenuto a corrispondere all'altro
coniuge in buona fede una congrua indennità.
La buona fede s'identifica nell'incolpevole ignoranza della specifica circostanza per la quale è
stata pronunciata la nullità e non può quindi sussistere quando la situazione invalidante fosse
percepibile con l'uso dell'ordinaria diligenza.
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Anche il terzo, il quale da solo o in concorso con l'altro coniuge abbia determinato la nullità del
matrimonio, è tenuto, da solo o solidalmente con il coniuge concorrente, al pagamento
dell'indennità.
9. Le prove della celebrazione del matrimonio
L'atto di matrimonio estratto dai registri dello stato civile costituisce la fonte di prova
privilegiata dell'unione coniugale. Attraverso tale documento, infatti, l'ufficiale di stato civile, o,
nell'ipotesi di matrimonio religioso, il ministro di culto celebrante, attesta che le nozze sono
avvenute in sua presenza e con la sua partecipazione nel luogo e nel tempo risultanti dall'atto
stesso. Da esso va distinto il semplice certificato di matrimonio, che costituisce un documento di
secondo grado attestante le risultanze dell'atto.
Il possesso di stato conforme all'atto di matrimonio vale a sanare ogni difetto di forma dell'atto
(art. 131 c.c.). I suoi elementi costitutivi sono rappresentati dal nomen, ossia dalla circostanza
che i coniugi si siano sempre identificati come tali e la moglie abbia portato il cognome del
marito (ancorché oggi il dato appaia meno rilevante); dal tractatus, ovvero dal fatto che essi
abbiano sempre agito alla stregua di persone sposate; dalla fama, cioè dalla circostanza che la
generalità dei consociati li abbia sempre considerati come marito e moglie.
10. Il matrimonio concordatario
L'art. 82 c.c. stabilisce che «il matrimonio celebrato davanti a un ministro del culto cattolico è
regolato in conformità del Concordato con la Santa Sede e delle leggi speciali sulla materia». Si
tratta di una forma matrimoniale nettamente distinta da quella civile: infatti, il cd. matrimonio
concordatario è regolato dal diritto canonico quanto alla celebrazione ed ai requisiti di validità,
ed acquista effetti civili dal momento della celebrazione delle nozze, a seguito della trascrizione
nei registri dello stato civile; il matrimonio-rapporto è invece disciplinato interamente dal diritto
statale. In origine, si trattava del Concordato, stipulato 1" 11 febbraio 1929 tra Stato italiano e
Santa Sede nell'ambito dei Patti Lateranensi, e della legge 27 maggio 1929, n. 847, contenente
disposizioni applicative nella parte relativa al matrimonio. A seguito dell'Accordo di revisione
del Concordato, firmato a Roma il 18 febbraio 1984 tra Repubblica Italiana e Santa Sede sono
state introdotte in materia alcune importanti modificazioni.
Sono riconosciuti effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a
condizione che l'atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni
nella casa comunale. Subito dopo la celebrazione, il parroco o un suo delegato spiegherà ai
contraenti gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del ce riguardanti i diritti e
i doveri dei coniugi e redigerà quindi, in doppio originale, l'atto di matrimonio, nel quale
potranno essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite secondo la legge civile, cioè
l'opzione per il regime patrimoniale della separazione dei beni o la dichiarazione di
riconoscimento di figlio naturale. L'articolo in esame stabilisce poi che la trascrizione non può
avere luogo quando gli sposi non rispondano ai requisiti della legge civile.

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La seconda importante novità rispetto al Concordato del 1929 si registra relativamente alla
produzione degli effetti civili, che non è più automatica, ma subordinata sempre alla volontà dei
nubendi indirizzata in tal senso, quale si evince dagli adempimenti di carattere civile che
accompagnano la celebrazione. La richiesta di trascrizione deve essere fatta per iscritto dal
parroco del luogo dove il matrimonio è stato celebrato entro 5 giorni dalla celebrazione e
l'ufficiale di stato civile vi deve provvedere entro 24 ore, dandone poi notizia al parroco (ed.
trascrizione tempestiva).
È però possibile la trascrizione tardiva, che può essere effettuata anche posteriormente su
richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l'opposizione
dell'altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento
della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti
legittimamente acquisiti da terzi. Non è consentita la trascrizione 'post mortem' a meno che il
coniuge deceduto avesse manifestato la volontà a mezzo di scrittura privata indirizzata a un terzo
prima che avvenisse la celebrazione religiosa, affinché le nozze acquistassero effetti civili solo
dopo la sua morte. A seguito dell'Accordo di revisione è nata in dottrina e in giurisprudenza una
vivace discussione riguardante la fine o meno della riserva di giurisdizione a favore dei tribunali
ecclesiastici sulle cause di nullità di matrimonio, riserva che era prevista espressamente dall'art.
34 del Concordato del 1929.
Intervenendo a Sezioni Unite, la Cassazione, sulla base dell'argomento testuale che l'Accordo del
1984 non riproduce la disposizione, e che l'art. 13 prevede l'abrogazione delle disposizioni del
precedente Concordato non riprodotte nel nuovo testo, ha concluso per l'esistenza di un concorso
tra giurisdizione italiana ed ecclesiastica nelle cause di nullità di matrimonio, da risolversi
attraverso il criterio della prevenzione. In seguito, però, la Corte costituzionale, sulla base di
considerazioni di carattere sistematico, si è invece espressa a favore della persistenza della
riserva, che costituirebbe il necessario completamento del sistema concordatario.
La successiva giurisprudenza di merito si è allineata sulle posizioni delle Sezioni Unite della
Cassazione, la quale ha confermato, sia pure indirettamente, il proprio orientamento. Rimane
comunque aperta in dottrina la questione di quale sia da parte del giudice italiano il diritto
applicabile (quello civile o quello canonico) nei giudizi di nullità dei matrimoni concordatari,
mentre la giurisprudenza di merito che ha ammesso la propria giurisdizione ha sempre applicato,
senza porsi neppure il problema, la legge civile in materia. La soluzione appare corretta, non
potendosi rinvenire nel sistema alcun criterio di collegamento che consenta al giudice italiano di
applicare alla fattispecie un diritto appartenente ad un ordinamento diverso da quello interno. Per
quanto riguarda la questione del riconoscimento nel diritto interno delle sentenze ecclesiastiche
di nullità matrimoniale, con l'Accordo di revisione è scomparso l'automatismo previsto dal
Concordato del 1929; ora, infatti, il procedimento non è più instaurabile d'ufficio, ma esige
l'iniziativa di entrambi i coniugi o di uno di essi, in seguito alla quale la corte d'appello compie
gli accertamenti di rito e di merito. Nel giudizio di delibazione è inoltre necessario l'intervento
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del pubblico ministero, la cui mancanza rende nullo il procedimento e la pronuncia con la quale
si conclude.
La corte d'appello dichiara l'efficacia delle sentenze ecclesiastiche quando accerti la competenza
del giudice ecclesiastico a conoscere della causa, ed inoltre che nel procedimento davanti ai
tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio in
modo non difforme dai principi fondamentali dell'ordinamento italiano e che ricorrano le altre
condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze
straniere. Tra i requisiti richiesti, quello di maggiore rilevanza pratica è il rispetto dell'ordine
pubblico. La nozione di ordine pubblico è stata esplicitata dalle Sezioni Unite della Cassazione,
per le quali si tratta delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli
istituti giuridici in cui si articola l'ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione
della società, tenuto conto peraltro della specificità dell'ordinamento canonico la quale comporta
che, al fine di escludere la dichiarazione di esecutività, la contrarietà all'ordine pubblico debba
essere così marcata da superare il margine di disponibilità che lo Stato si è imposto rispetto
all'ordinamento canonico.
In concreto, nonostante la diversità di disciplina dell'ordinamento canonico rispetto alle
disposizioni del codice civile in tema d'invalidità del matrimonio, la giurisprudenza ha finito per
ammettere la possibilità di delibare tutte le ipotesi di nullità matrimoniale canonica, con qualche
incertezza in ordine alla rilevanza della riserva mentale unilaterale su uno dei 'bona matrimonii',
non conosciuta dall'altra parte, in ossequio al principio di tutela della buona fede e
dell'affidamento incolpevole nei confronti della parte che ignorava la riserva dell'altro. Peraltro,
nella giurisprudenza di legittimità si sono registrati orientamenti di minore o maggiore apertura:
da una posizione rigida che ammette la delibazione soltanto quando la riserva mentale non sia
rimasta nella sfera psichica del suo autore e sia stata manifestata all'altro coniuge o comunque da
lui conosciuta, a quella intermedia che ammette la delibazione anche se la riserva di uno dei
nubendi, pur non conosciuta dall'altro, era tuttavia conoscibile con l'uso dell'ordinaria diligenza,
fino ad arrivare alla posizione più aperta, per la quale l'indicato ostacolo alla delibazione non
può essere ravvisato quando il coniuge (che ignorava, o non poteva conoscere, il vizio del
consenso dell'altro coniuge) chieda la declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica alla
corte d'appello, ovvero non si opponga a tale declaratoria.
In passato, la giurisprudenza aveva sempre affermato, con riferimento all'assegno divorzile, che
la sopravvenuta delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio travolge la
sentenza di divorzio con le sue disposizioni di ordine economico, con possibilità quindi di
revoca dell'assegno di mantenimento. Tale orientamento aveva finito per ingenerare in sede
canonica la proposizione di giudizi di nullità o l'assunzione di comportamenti processuali del
tutto strumentali al conseguimento di determinati obiettivi patrimoniali in sede civile.
Ora però la Cassazione, sul presupposto della fine della riserva di giurisdizione, ha affermato
che la sentenza di divorzio contiene un'implicita valutazione di validità del vincolo, nei limiti di
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un accertamento incidentale e ai fini del decidere. Quest'accertamento tuttavia non impedisce la
delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità di matrimonio; ma la sentenza ecclesiastica di
nullità non travolge più la sentenza di divorzio, con conseguente salvezza delle statuizioni di
carattere patrimoniale in essa contenute.
Per quanto concerne i provvedimenti riguardanti i figli, la giurisprudenza più recente ha
affermato che la delibazione da parte della corte d'appello di una sentenza dichiarativa della
nullità del matrimonio rende applicabili, relativamente all'affidamento e al mantenimento dei
figli minori, le norme dettate in tema di matrimonio putativo.
11. Il matrimonio celebrato davanti a ministri dei culti ammessi nello Stato
La disciplina applicabile ai matrimoni celebrati davanti a ministri dei culti ammessi è quella
prevista dal codice civile per i matrimoni celebrati davanti all'ufficiale di stato civile, salvo
quanto previsto dalla 1. 24 giugno 1929, n. 1159, cui l'art. 83 c.c. fa rinvio. Tale legge prevede
una disciplina generale relativa ai matrimoni di tutte le religioni diverse da quella cattolica. Non
si tratta di una nuova forma di matrimonio, bensì di una forma particolare di celebrazione del
matrimonio civile ed è interamente disciplinato dalle norme statali.
Lo Stato italiano ha stipulato, in anni più recenti, varie intese con rappresentanze di confessioni
religiose diverse dalla cattolica. La prima di tali intese, conclusa con la Tavola Valdese nel 1984,
ha comportato una riduzione degli oneri procedimentali a carico del ministro di culto,
valorizzando, in tal modo, l'autonomia di questa confessione. In particolare, l'intesa ha soppresso
l'approvazione governativa del ministro di culto, cosicché ciascun ministro nominato dalla
Chiesa Valdese è automaticamente abilitato alla celebrazione di matrimoni aventi rilevanza
civile; è stata eliminata anche l'autorizzazione scritta al matrimonio che è stata sostituita con un
nulla osta con il quale l'ufficiale dello stato civile attesta che non vi sono ostacoli alla
celebrazione del matrimonio. Tutti i requisiti di capacità e le cause d'invalidità del matrimonio
continuano, invece, ad essere disciplinate esclusivamente dalla legge italiana. A questa intesa
sono poi seguite quelle con le Chiese Awentiste (1988), con le Chiese delle Assemblee di Dio in
Italia (1988); con le Comunità Israelitiche (1989); con le Chiese Battiste (1995); con le Chiese
Luterane (1995). Risultano altresì concluse intese con la Congregazione dei Testimoni di Geova
e con l'Unione Buddista Italiana.
12. Il matrimonio celebrato all'estero e il matrimonio dello straniero
I cittadini italiani possono celebrare il matrimonio in un Paese straniero secondo le forme ivi
stabilite, purché ricorrano le condizioni necessarie dettate dal c.c. agli artt. 84 ss.
II principio si collega a quanto stabilito dall'art. 27 della 1. 31 maggio 1995, n. 218, alla cui
stregua la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate
dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio, nonché dall'art. 28,
secondo il quale il matrimonio è valido, quanto alla forma, se considerato tale dalla legge del
luogo di celebrazione. La possibilità di recente introdotta in vari ordinamenti (Olanda, Belgio,

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Spagna) di matrimonio tra persone dello stesso sesso pone delicati problemi circa il
riconoscimento di detti matrimoni nell'ordinamento italiano, specie qualora il matrimonio sia
stato celebrato all'estero tra cittadini italiani.
In una prima sentenza si è ritenuto che detti matrimoni siano inesistenti, ovvero contrari
all'ordine pubblico e, quindi, che non possano essere trascritti in Italia.
Lo straniero può contrarre matrimonio in Italia presentando all'ufficiale dello stato civile una
dichiarazione dell'autorità competente del proprio Paese, dalla quale risulti che nulla osta al
matrimonio.
In mancanza di rilascio di nulla osta è pur sempre possibile rivolgersi al tribunale, che potrà
autorizzare la celebrazione qualora ritenga che il rifiuto o l'omissione delle autorità straniere
costituiscano una lesione non giustificata della libertà matrimoniale o si pongano in contrasto
con i principi fondamentali dell'ordinamento.
3° - I RAPPORTI PERSONALI TRA CONIUGI
1. I diritti ei doveri coniugali
L'art. 143 c.c., stabilisce che con il matrimonio «il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti
e assumono i medesimi doveri». Tale principio presuppone un'eguaglianza assoluta e perfetta:
marito e moglie hanno quindi le stesse prerogative personali e sono titolari del governo della
famiglia, senza distinzione di poteri e di ruoli.
L'art. 1432, c.c., enumera i doveri reciproci che derivano dal matrimonio: fedeltà, assistenza,
collaborazione, coabitazione.
In passato, il tema dei doveri nascenti dal matrimonio, e specialmente il profilo relativo alle
conseguenze giuridiche della loro violazione, era strettamente connesso alla disciplina della
separazione giudiziale, che era fondata sul principio della colpa. Il catalogo dei doveri e la
determinazione della loro precisa estensione rappresentavano uno strumento indispensabile per il
giudice chiamato a pronunziarsi sulla richiesta del coniuge incolpevole che, per la violazione di
un obbligo matrimoniale, domandava la separazione.
Oggi la disciplina della separazione si fonda esclusivamente su basi oggettive, che consentono al
giudice di pronunziarla prescindendo dalla ricerca di vere o supposte trasgressioni degli obblighi
matrimoniali.
Oggi si è orientati a valorizzare i diritti individuali e a ritenere che il rispetto dei doveri coniugali
deve essere affidato all'osservanza spontanea e non al diritto, soprattutto rispetto ai doveri non
coercibili come la fedeltà, l'assistenza morale, la collaborazione e la stessa coabitazione.
Peraltro, negli anni più recenti si è assistito ad una rivalutazione della rilevanza giuridica dei
doveri coniugali, la cui violazione è stata ritenuta da talune pronunce fonte di responsabilità da
fatto illecito in capo al coniuge che l'aveva posta in essere.
2. Gli obblighi di fedeltà, di assistenza e collaborazione, di coartazione
L'obbligo di fedeltà ha una posizione preminente tra i doveri reciproci derivanti dal matrimonio,

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poiché riguarda la persona fisica e spirituale di entrambi i coniugi. La fedeltà va interpretata in
senso ampio come dedizione fisica e spirituale di un coniuge all'altro; in questa prospettiva la
nozione di fedeltà finisce col coincidere con quella di lealtà.
L'obbligo di fedeltà permane durante il temporaneo allontanamento di un coniuge dalla
residenza familiare, mentre, si ha cessazione dell'obbligo una volta che, avviato l'iter formale di
separazione giudiziale, sia stata emessa l'autorizzazione del presidente del tribunale a vivere
separatamente. L'obbligo all'assistenza morale e materiale costituisce, unitamente all'obbligo di
fedeltà, il necessario completamento di quell'impegno di vita assieme che i coniugi assumono
con il matrimonio. Esso può essere interpretato quale dovere dei coniugi di proteggersi a vicenda
e di proteggere la prole. L'assistenza morale ha un significato particolarmente ampio, in quanto
comprende l'ambito affettivo, psicologico e spirituale. Nell'obbligo di assistenza morale vi
rientra sicuramente il dovere di rispettare la persona dell'altro coniuge.
L'assistenza materiale riguarda invece l'aiuto che i coniugi, nella vita di tutti i giorni, debbono
fornirsi reciprocamente, non solo in caso di malattia, ma anche nell'attività lavorativa o di studio
e nello svolgimento dei compiti che si è assunto nella ripartizione delle incombenze familiari.
Secondo taluni autori, nell'ambito dell'assistenza materiale rientrerebbe anche il dovere di
contribuzione.
Mentre l'assistenza sembra riferirsi a quei comportamenti che vanno a soddisfare direttamente i
bisogni dell'altro coniuge, la collaborazione nell'interesse della famiglia riguarda i
comportamenti necessari a soddisfare le esigenze del nucleo familiare nel suo complesso, e non
può essere richiesta oltre i limiti derivanti dalla capacità e dalla personalità di ciascun coniuge.
Oltre agli obblighi della fedeltà e dell'assistenza, i coniugi assumono reciprocamente anche
quello della coabitazione. Oggi la coabitazione si riferisce all'abitare sotto lo stesso tetto, in altre
parole, alla comunione di vita che s'instaura tra gli sposi, i quali «fissano la residenza della
famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa» (art. 144
c.c.). Quando i coniugi svolgono il proprio lavoro in luoghi diversi, «ciascuno dei coniugi ha la
possibilità di eleggere il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei suoi
affari o interessi». Nel caso in cui uno o entrambi i coniugi abbiano la necessità di dimorare
abitualmente nel luogo in cui hanno eletto il proprio domicilio, essi possono anche avere
residenze autonome, e quindi, mancherà una residenza familiare in senso proprio; tuttavia, l'unità
della famiglia non sarà comunque compromessa, almeno fino a quando permanga l'intento di
dare vita ad una piena unione.
3. La contribuzione ai bisogni della famiglia
Tra i doveri che nascono dal matrimonio quello di contribuzione ai bisogni della famiglia si
distacca da quelli sin qui esaminati perché ha un necessario ed immediato riflesso di carattere
patrimoniale; in particolare, la legge stabilisce che entrambi i coniugi sono tenuti a contribuire ai
bisogni della famiglia (art. 1433, c.c.) ed a mantenere, istruire ed educare la prole in proporzione

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alle rispettive
sostanze e secondo la propria capacità di lavoro professionale o casalingo (artt. 147 e 148 c.c.).
Si parla, in questo caso, di regime patrimoniale primario imperativo che, con disposizioni
inderogabili è volto a regolare l'obbligo di contribuzione (art. 160 c.c.). Tali disposizioni sono
complementari a quelle dettate in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, che governano la
distribuzione dei beni acquisiti dagli stessi durante il matrimonio. Queste ultime consentono ai
coniugi di scegliere tra una pluralità di regimi patrimoniali, mentre il regime contributivo è
assolutamente inderogabile e ispirato a rigidi criteri di proporzionalità diretti ad attuare
l'eguaglianza sostanziale tra i coniugi. L'obbligo di contribuzione non si risolve nel dovere di
mantenimento, ma in quello di concorrere a soddisfare le esigenze della famiglia; di
conseguenza viene rafforzata l'idea della famiglia intesa come formazione sociale in cui i singoli
possono perseguire lo sviluppo della personalità e che si basa su un impegno comune di
solidarietà.
Il lavoro casalingo viene preso in considerazione alla pari con quello esterno, evidenziando la
parità morale e giuridica dei coniugi nell'assetto legislativo, nonché il contributo preminente
della donna -sulla quale tuttora grava maggiormente il lavoro domestico -, in ragione della sua
«essenziale funzione familiare».
L'obbligo di contribuzione permane per tutta la durata della convivenza, e anche nel caso di
allontanamento senza giusta causa: l'ordinamento pretende l'assolvimento di tale obbligo, la cui
violazione è sanzionata anche penalmente.
4. Il cognome della moglie
L'art. 143 bis ce stabilisce che la moglie aggiunge al proprio il cognome del marito. La norma in
esame, che pur tutela l'individualità della donna, alla quale è dato conservare il cognome
originario, costituisce una deroga al principio di uguaglianza previsto dall'art. 29 Cosi, ed appare
ispirata dalla necessità di assicurare primarie esigenze di carattere collettivo che impongono
l'esistenza di un nome familiare, a salvaguardia dell'unità della famiglia stessa.
Sarebbero possibili altre soluzioni, quali la creazione di un cognome dato dalla somma di
entrambi, o l'attribuzione ai coniugi della facoltà di determinare il cognome familiare. La moglie
conserva il cognome del marito durante lo stato vedovile, finché non passi a nuove nozze,
mentre lo perde in caso di divorzio. Tuttavia, la legge stessa stabilisce che la perdita del
cognome del marito, in caso di nuove nozze o di divorzio, può essere evitata qualora la donna
abbia particolari interessi meritevoli di tutela a conservarlo.
Tale sistema appare in via di superamento. È stato, infatti, di recente presentato in Senato un
progetto di legge che tenendo conto dei cambiamenti sociali intervenuti negli ultimi anni,
prevede che ciascun coniuge possa conservare il proprio cognome. Cosicché, in osservanza del
principio di
uguaglianza sancito dalla Costituzione, a ciascuno dei coniugi sarebbe garantita la possibilità di

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essere «se stesso anche nel cognome che porta». Al tema del cognome della moglie si accomuna
quello del cognome dei figli, ai quali viene attualmente imposto quello del marito, ancorché,
anche in forza di valutazioni espresse dalla Corte costituzionale, detta modalità appaia in
procinto di essere modificata.
5. L'accordo sull'indirizzo della vita familiare
L'art. 144 c.c. stabilisce che i coniugi debbono concordare fra loro l'indirizzo della vita familiare
e fissare la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della
famiglia stessa.
L'odierno modello della vita familiare si basa dunque su una direzione congiunta del gruppo.
Peraltro, la regola dell'accordo deve essere coordinata con il principio di libertà individuale.
All'esame dei giudici, ad es., si è spesso prospettato il caso di un coniuge accusato di violazione
dei propri doveri coniugali per aver cambiato fede religiosa. In merito, è orientamento diffuso in
giurisprudenza che, se l'art. 19 Cost., stabilisce che tutti sono liberi di professare la propria fede
religiosa in qualsiasi forma, tale diritto non può non essere garantito anche all'interno della
famiglia (art. 2 Cost.); pertanto, il mutamento di fede non può costituire violazione dei doveri
coniugali, a meno che, in concreto, il comportamento di vita adottato dal coniuge non abbia reso
intollerabile la vita coniugale.
Sempre a proposito delle questioni che attengono alla sfera individuale, dobbiamo ricordare che
la legge riconosce talvolta ad uno solo dei coniugi il potere di prendere alcune decisioni: ad es.,
la 1. 194/1978, attribuisce solo alla donna il diritto di interrompere la gravidanza, e le danno
facoltà, non già l'obbligo, di consultare il marito in quanto «padre del concepito». La
disposizione in esame è stata più volte sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, sulla base
di una lamentata violazione del principio di uguaglianza, ma la Consulta si è sempre pronunciata
in senso negativo, evidenziando, in particolare, come la scelta di lasciare la donna unica
responsabile della decisione d'interrompere la gravidanza sia stata il risultato di una valutazione
di tipo politico e, dunque, insindacabile. Peraltro, l'esercizio della facoltà di interrompere la
gravidanza, senza l'adesione o contro la volontà del marito, potrà configurare ragione di addebito
in sede di separazione. Nell'indirizzo della vita familiare sono ricompresi profili a carattere sia
personale che economico. Così si può fare riferimento al tenore di vita familiare e alle modalità
concrete di contribuzione economica, all'educazione e all'istruzione dei figli, ai modi di
collaborazione reciproca e a tutti gli altri «affari della famiglia». Proprio perché l'indirizzo della
vita familiare riguarda la
determinazione dei modi di svolgimento e i contenuti dei doveri coniugali, l'accordo su di esso
non può essere rigidamente cristallizzato, ma è in continuo divenire e, quindi, adattato e
modificato dai coniugi secondo le esigenze del momento.
Il criterio al quale i coniugi devono attenersi nel determinare l'indirizzo della vita familiare
stabilisce l'obbligo di tenere conto «delle esigenze di entrambi» e «di quelle preminenti della

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famiglia». Le due ipotesi potrebbero essere in conflitto fra loro, poiché, mentre la prima sottende
un dovere di solidarietà reciproca (le esigenze di entrambi), la seconda sembra identificare nel
gruppo in sé il portatore di esigenze non confondibili con quelle dei singoli: detto conflitto è solo
apparente, in quanto l'interesse della famiglia non può che identificarsi con l'interesse dei singoli
che di essa fanno parte e non può quindi essere considerato superiore e distinto da quello dei
suoi componenti. Il secondo comma dell'art. 144 c.c. sancisce che ciascuno dei coniugi ha il
potere di dare, individualmente, concreta attuazione al programma concordato, in armonia col
principio di uguaglianza. Con l'introduzione di questo principio, il legislatore ha voluto rendere
agevole la conduzione del ménage, visto che la costante richiesta dell'accordo potrebbe
paralizzare lo svolgimento della vita familiare.
6. L'intervento del giudice
Se i coniugi non raggiungono spontaneamente l'accordo possono ricorrere all'intervento di un
terzo, che è chiamato a svolgere un'attività di supporto a beneficio della famiglia in crisi e a
prestare la propria assistenza per risolvere i contrasti coniugali. Entrambi i coniugi, in caso di
disaccordo, possono richiedere l'intervento del giudice. In seguito a tale richiesta, non
assoggettata ad alcuna formalità, il giudice tenta di «raggiungere una soluzione concordata»,
svolgendo un ruolo di conciliatore, sentiti i coniugi nonché, «per quanto opportuno», i figli
conviventi ultrasedicenni. Qualora si tratti di questioni relative alla fissazione della residenza o
ad altri affari essenziali e non sia raggiunta la conciliazione, entrambi i coniugi, espressamente e
congiuntamente possono chiedere al giudice di adottare, con un provvedimento non
impugnabile, la soluzione che più ritiene adatta alle «esigenze dell'unità e della vita della
famiglia».
Nella concreta esperienza giudiziaria, i casi di ricorso al giudice sono molto limitati; da una
parte sta probabilmente una valutazione dell'inutilità, da parte delle coppie, di rivolgersi ad un
magistrato per risolvere i loro conflitti; d'altra parte, l'insuccesso di questa disciplina può essere
dipeso dalla mancanza di strutture adatte e di persone preparate per svolgere compiti così
delicati, il che ha portato a prospettare l'istituzione di un organo specializzato (es. tribunale della
famiglia). In effetti, sarebbe stata molto più efficace la previsione dell'intervento di soggetti con
competenze specifiche
(assistente sociale, psicologo, mediatore familiare, ecc.) in grado di coadiuvare i coniugi nel
loro, spesso non facile, percorso di vita comune.
7. L'allontanamento dalla residenza familiare
L'art. 146 c.c. prevede la complessa fattispecie di un coniuge che si allontani senza giusta causa
dalla residenza familiare e che rifiuti, nonostante l'invito dell'altro, di farvi ritorno.
L'allontanamento è tale se intenzionale e duraturo; inoltre, occorre che la residenza familiare sia
stata volontariamente concordata da entrambi i coniugi e che, pertanto, l'allontanamento non sia
dovuto ad un dissenso, seppur sopravvenuto, circa la fissazione della stessa. Il secondo comma

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dell'articolo in esame elenca una serie di cause, quali la proposizione della domanda di
separazione o di annullamento o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del
matrimonio, che legittimano l'allontanamento in quanto sintomo della cessazione della
comunione di vita; tali fattispecie, tuttavia, non possono considerarsi esaustive.
Il giudice può ordinare il sequestro dei beni del coniuge che si è allontanato, e ciò affinché non si
sottragga all'obbligo di contribuzione (art. 1433, c.c.) ed al mantenimento della prole. Pertanto, il
coniuge allontanatosi deve adempiere a tutti gli obblighi previsti dall'art. 1432, c.c. tranne quello
della coabitazione; infatti, la cessazione senza giusta causa della convivenza non può far venir
meno gli obblighi di assistenza morale e materiale, il che si desume anche dal testo dall'art. 570
cp. che punisce «chiunque, abbandonando il domicilio domestico o comunque serbando una
condotta contraria all'ordine o alla morale della famiglia, si sottrae agli obblighi di assistenza
inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge».
8. La legge sulla violenza familiare
La legge 4 aprile 2001, n. 154 ha creato un articolato sistema diretto a contrastare ogni forma di
violenza maturata all'interno del nucleo familiare. Oggi il giudice può adottare misure urgenti ed
immediate in favore della vittima della violenza familiare. Questo vale sia per il coniuge che per
il convivente.
Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità
fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente, il giudice può adottare con
decreto uno o più provvedimenti fra quelli espressamente individuati nell'art. 342 ter, secondo
cui è dato imporre al coniuge o al convivente responsabile dell'abuso, oltre che la cessazione
della violenza, anche l'allontanamento dalla casa familiare, prescrivendogli altresì, se necessario,
di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima.
La legge prende in considerazione l'eventualità che l'autore della condotta pregiudizievole sia
colui che di regola provvede al sostentamento della famiglia, e consente al giudice - al fine di
evitare che l'allontanamento, lasciando i familiari privi di adeguati mezzi di sostentamento,
acuisca il disagio e le sofferenze della vittima della violenza - di imporre al coniuge o
convivente allontanato il pagamento periodico di un assegno a favore dei familiari, fissando
altresì modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata
direttamente all'avente diritto dal datore di lavoro dell'obbligato, detraendola dalla retribuzione
allo stesso spettante. Tali norme vanno coordinate con le disposizioni contenute nella legge n.
149 del 2001 che consentono al tribunale per i minorenni, nell'assumere provvedimenti sulla
potestà genitoriale, di disporre l'allontanamento dalla casa familiare del genitore o convivente
che maltratta il minore. Tali misure non possono essere adottate qualora sia pendente un
procedimento di separazione o di divorzio.
La durata dell'ordine di protezione è stabilita dal giudice, ma è in ogni caso limitata, non potendo
protrarsi per oltre 6 mesi, con possibilità di proroga, su istanza di parte, solo se ricorrano gravi

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motivi e per il tempo strettamente necessario.
4° - I RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI
1. Premessa
Dal matrimonio scaturiscono non solo rapporti personali tra i coniugi, volti a instaurare e tutelare
una comunanza di vita spirituale e materiale tra essi, ma anche rapporti patrimoniali.
I rilevanti effetti patrimoniali che discendono dal matrimonio sono regolati nel Capo VI "Del
regime patrimoniale della famiglia".
II regime patrimoniale della famiglia è «quel complesso di regole, di fonte legale o negoziale,
che disciplina i diritti ed i poteri dei coniugi in ordine all'acquisto ed alla gestione dei beni
durante il matrimonio».
La disciplina del regime patrimoniale della famiglia è utilizzabile in ordine alla famiglia
legittima, essendone esclusa l'applicazione anche analogica per la famiglia non fondata sul
matrimonio.
Anche con riguardo ai rapporti patrimoniali, la riforma del 1975 ha avuto una portata
profondamente innovativa in ossequio al principio di parità dei coniugi (art. 29 Cost.). Il codice
del '42, infatti, prevedeva che in mancanza di apposite convenzioni matrimoniali, i rapporti
patrimoniali fra coniugi si svolgessero in regime di separazione dei beni, e, quindi, che ciascun
coniuge rimanesse titolare esclusivo dei propri beni; disciplinava l'istituto della dote, mentre
ignorava realtà più ampiamente radicate nel tessuto sociale, come l'impresa familiare.
Con la riforma il regime legale tra i coniugi, salvo div., è quello della comunione dei beni (art.
159 c.c.), è vietata la costituzione della dote ed è disciplinata l'impresa familiare.
Mentre gli artt. 143 e 144 ce rappresentano quindi il regime patrimoniale primario, cioè la
disciplina inderogabile che regola il momento contributivo all'interno della famiglia, il Capo VI
rappresenta il regime patrimoniale secondario che regola il momento distributivo ed è
ampiamente derogabile.
Nel sistema pattizio, che s'instaura cioè mediante una volontà espressa dei coniugi, sono previsti
3 tipi di convenzioni matrimoniali. Il fondo patrimoniale con il quale uno o più beni vengono
destinati a far fronte ai bisogni della famiglia, ed in parte sottratti alla disponibilità dei coniugi.
La comunione convenzionale, il cui regolamento viene fissato dai coniugi in parziale deroga
rispetto a quello della comunione legale. Infine, il regime di separazione dei beni, nel quale la
titolarità e la gestione dei beni acquistati durante il matrimonio rimane esclusiva in capo a
ciascun coniuge.
I regimi patrimoniali sono parzialmente integrabili: il regime della comunione, infatti, non
esclude che taluni beni siano vincolati come fondo patrimoniale, e non esclude neppure che per
taluni beni i coniugi scelgano il regime della titolarità personale.
II regime di separazione dei beni riscuote ampi e crescenti consensi. Infatti, dopo un'iniziale
adesione delle coppie alla comunione dei beni negli anni immediatamente a ridosso della

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riforma, si è assistito ad un progressivo abbandono del regime legale, evidentemente giudicato
troppo rigido e scarsamente funzionale. Quasi che la scelta per la comunione operata dal
legislatore, più che migliorare il costume e favorire l'emancipazione femminile, abbia
sostanzialmente prodotto una fuga verso la separazione.
I dati statistici disponibili dimostrano l'inadeguatezza del sistema legale, pensato per una realtà
sociale che non tiene sufficientemente conto della raggiunta parità uomo-donna e della diffusa
instabilità matrimoniale, che, insieme alla complessità della disciplina, inducono le coppie a
rifugiarsi nel regime della separazione.
Sembra corretto affermare che il legislatore non abbia inteso dare attuazione ai principi espressi
negli artt. 3 e 29 Cost. tramite il regime di comunione; piuttosto il principio di parità ha fatto il
suo ingresso nel diritto di famiglia riformato attraverso la disposizione dell'art. 1433, c.c., che
sancisce l'obbligo per entrambi i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia in proporzione
alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo. La disposizione
in esame è destinata a trovare sempre applicazione, indipendentemente dal regime patrimoniale
adottato dai coniugi, stante la sua inderogabilità, e proprio dalla sua inderogabilità si può trarre
ulteriore conferma del fatto che essa costituisce effettivamente espressione di un principio
costituzionale. L'inderogabilità assoluta non è invece stabilita per il regime di comunione, che è
derogabile, cosicché risulta ancor più evidente che la previsione di tale regime come legale non
ha lo scopo di dare attuazione all'art. 29 Cost., anche se la comunione è tendenzialmente apparsa
a molti come il regime più idoneo a controbilanciare l'eventuale debolezza della donna. D'altro
canto appare evidente come il principio di uguaglianza sia stato tenuto ben presente dal
riformatore del 1975 anche nell'elaborazione delle norme specificamente dedicate al regime di
separazione: a conferma di ciò basti pensare all'art. 2192, c.c. - che introduce una presunzione di
comproprietà per i beni di cui nessuno dei coniugi sia riuscito a provare la proprietà esclusiva -
norma in armonia con l'art. 29 Cost.
In questo quadro la rilevata disaffezione nei riguardi della comunione pone la necessità di un
intervento legislativo che introduca correttivi al regime patrimoniale primario, tenuto conto che
il
regime di separazione dei beni può, in taluni casi e per taluni profili, dar luogo ad inconvenienti
o veri e propri gravi pregiudizi per i familiari 'deboli'.
Si pensi, in particolare, all'opportunità che determinati beni - come la casa di abitazione della
famiglia - ancorché di proprietà individuale, siano protetti dalle decisioni unilaterali del coniuge
proprietario che possono gravemente pregiudicare i diritti dell'altro coniuge e dei figli. A ben
vedere, qui s'intreccia il profilo 'proprietario' con quello personale dei doveri di contribuzione ai
bisogni familiari, che ben potrebbe giustificare la fissazione di limiti - opponibili ai terzi - al
potere di disposizione, come del resto già avviene in occasione dell'assegnazione della casa
familiare in sede di separazione o di divorzio.
La risposta del nostro ordinamento è invece carente, nel senso che non è dato rinvenire uno
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strumento giuridico che consenta al coniuge dissenziente di contrastare la decisione del titolare
dell'immobile in cui è ubicata l'abitazione della famiglia di compiere atti di disposizione.
Per contro, l'osservazione comparatistica dimostra come gli ordinamenti dei Paesi a noi vicini
prevedano limitazioni di vario genere a tutela delle esigenze abitative del nucleo famigliare o
della coppia matrimoniale. È il caso, ad es., del codice francese che, con una disposizione
relativa al regime patrimoniale primario, stabilisce che gli sposi non possono singolarmente
disporre dei diritti attraverso i quali è assicurata l'abitazione della famiglia, né dei beni mobili
che la arredano.
Si tratta di una regola che si applica indipendentemente dal regime patrimoniale prescelto e dalla
situazione giuridica dell'alloggio, e che si riverbera sulla validità dell'atto compiuto senza il
necessario consenso, suscettibile d'impugnativa per nullità relativa ad iniziativa del coniuge che
non ha prestato il consenso.
Anche nell'ordinamento tedesco vi sono strumenti diretti ad impedire, con efficacia reale, che un
coniuge proceda alla vendita della casa familiare.
In proposito si veda infine l'art. 9 del 'Codi de familia' catalano del 23 luglio 1998, il quale
stabilisce che, indipendentemente dal regime patrimoniale, il coniuge proprietario non può senza
il consenso dell'altro compiere atti di alienazione, di gravame o, in generale, di disposizione del
suo diritto sull'abitazione familiare o sui mobili d'uso ordinario che ne compromettano l'uso,
ancorché siano riferiti a quote indivise, salva l'autorizzazione giudiziale se concorre una giusta
causa. L'atto effettuato senza il consenso o l'autorizzazione è annullabile.
Dunque, è forse necessario un intervento legislativo che consenta una protezione della casa
familiare, così come sarebbe opportuna una regola che preveda la solidarietà fra coniugi per le
obbligazioni contratte singolarmente nell'interesse della famiglia, nonché una previsione che,
indipendentemente dal regime patrimoniale prescelto, consenta, in caso di rottura del
matrimonio, un'equa allocazione della ricchezza familiare, come avviene negli ordinamenti di
'common law'.
2. La comunione legale
È il regime legale (in quanto trova applicazione per disposizione del legislatore) tra coniugi,
vigente in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell'art. 162 c.c.
Il regime di comunione legale s'instaura automaticamente all'atto del matrimonio, prima ed
indipendentemente dall'eventuale acquisto di beni, salvo che i coniugi non vi deroghino
mediante specifica convenzione. Prima della riforma, la comunione costituiva un'ipotesi di
convenzione matrimoniale, peraltro di utilizzazione molto limitata. Circa la natura giuridica
della comunione legale non vi è unità di vedute.
Secondo un indirizzo la natura giuridica della comunione legale è soggettiva: l'art. 180 c.c.,
disponendo la rappresentanza disgiunta dei coniugi in giudizio per gli atti relativi alla
comunione, ammetterebbe l'esistenza di terzo soggetto distinto da essi.

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Secondo un altro indirizzo, la natura giuridica della comunione legale sarebbe invece oggettiva:
l'art. 180 ce conterrebbe un'espressione impropria e dagli artt. 189 (divisione dei beni tra i
coniugi per scioglimento della comunione) e 194 ce (responsabilità dei coniugi per le
obbligazioni contratte separatamente) si evince che non è configurabile un patrimonio
autonomo, bensì una con titolarità di beni coniugali.
Non è però una con titolarità ordinaria come quella prevista dagli artt. 1100 ss., in quanto i due
istituti presentano importanti differenze:
- Rispetto alla fonte: Nella comunione ordinaria può essere la legge oppure la volontà delle parti;
nella comunione legale può essere solo la legge (pur se i coniugi mutino volontariamente il
regime);
- Rispetto alla misura della titolarità: solo nella comunione ordinaria possono aversi quote
diseguali;
- Rispetto alla disponibilità delle quote: mentre il comproprietario non può disporre dell'intero
cespite, ma solo alienare o ipotecare la propria quota, il coniuge in comunione, può, talvolta,
(ricorrendo i presupposti di cui agli artt. 181-183 c.c.), disporre dell'intero, ma mai della propria
quota;
- Rispetto all'amministrazione: Nella comunione ordinaria l'amministrazione è congiunta, da
attuarsi attraverso un processo deliberativo a maggioranza (artt. 11052, e 11081'2 e 3 c.c.) o
all'unanimità, a seconda della natura degli atti. Nella comunione legale vi è un'amministrazione
disgiunta per gli atti di ordinaria amministrazione (art. 1802, c.c.) e congiunta per gli atti di
straordinaria amministrazione (art. 1802, c.c.).
- Rispetto alla divisione a richiesta: nella comunione ordinaria la divisione è ammessa in ogni
tempo anche se è un solo comunista a chiederla (art. 1111 c.c.); mentre nella comunione legale
vige il divieto di divisione a richiesta di un solo coniuge sino al perdurare della comunione.
L'art. 186 ce sancisce espressamente che i beni della comunione rispondono per le obbligazioni
contratte dai coniugi congiuntamente anche se non dipendenti da bisogni della famiglia
(risponde a questo il regime patrimoniale primario).
# L'oggetto della comunione
Nel regime di comunione legale, il cui oggetto è indicato dall'art. 177 c.c., possono coesistere tre
diverse tipologie di beni.
1) I beni comuni, oggetto di comunione immediata di cui alle lett. a) e d) dell' art. 177 ce: ove la
comproprietà nasce come effetto legale, indipendentemente dal fatto che solo uno dei coniugi
abbia acquistato il bene o ne sia l'intestatario formale;
2) quelli oggetto di comunione differita o 'de residuo' che divengono comuni - se esistenti - solo
al momento dello scioglimento della comunione, di cui agli artt. 177, lett. b) e e) e 178 ce;
3) quelli personali, dei quali ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva.
1) BENI COMUNI Sono quelli che i coniugi acquistano durante il matrimonio ed alle aziende

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gestite da entrambi i coniugi, o gli utili e gli incrementi derivanti dalla gestione comune. Da ciò
deriva la definizione della comunione legale come 'comunione degli acquisti'; termine in realtà
poco tecnico e non univoco in quanto può riferirsi sia al negozio dell'acquisto, sia al risultato
dello stesso. Nel primo caso il termine 'acquisto' presupporrebbe la partecipazione di entrambi i
coniugi alla fattispecie acquisitiva e quindi la titolarità delle azioni nascenti dal contratto anche
in capo al coniuge che non ne sia stato parte formale; se invece il concetto di 'acquisto' viene
inteso nel senso di risultato, quest'ultima conseguenza deve escludersi, il che appare preferibile,
visto il tenore letterale dell'art. 177 c.c., il quale richiama espressamente la nozione di bene.
Tra coloro che intendono l'acquisto come risultato, vi è poi chi si riferisce al bene e chi al diritto
sul bene. Da ciò dipende l'inclusione o meno dei diritti di credito e degli altri diritti relativi alla
comunione legale.
Secondo la dottrina il punto a) dell'art. 177 ce intende escludere tutti gli acquisti che non abbiano
ad oggetto diritti reali in quanto solo per questi è prevista una comunione di godimento. A tale
opinione si contrappone la tesi di chi ritiene, invece, che il concetto di acquisto vada riferito al
diritto sul bene, e, quindi, anche al diritto di credito. Una soluzione intermedia è rappresentata
dalla teoria secondo cui nel concetto di acquisto rientra ogni diritto purché rappresenti un
investimento
che arricchisca in modo stabile il patrimonio e non abbia mero carattere strumentale. I diritti
strumentali, infatti, sono esclusi in quanto il loro acquisto costituisce solo una fase intermedia
per la realizzazione di un'operazione economica complessa. È consolidato l'orientamento
secondo cui, attesa la natura strumentale del contratto, il coniuge non contraente non può vantare
alcun diritto, né pretendere l'esecuzione in forma specifica. Lo stesso principio deve ritenersi
operante anche in relazione all'opzione, alla proposta irrevocabile ed alla prelazione.
Si possono invece annoverare tra i beni che cadono in comunione i titoli di Stato, i titoli a
partecipazione azionaria acquistati in costanza di matrimonio da uno solo dei coniugi e allo
stesso intestati, i fondi agricoli riscattati ai sensi della 1. n. 379/1967, proprio in virtù della loro
capacità di incrementare in modo stabile il patrimonio; mentre fanno parte della comunione 'de
residuo' le partecipazioni societarie sottoscritte da uno dei coniugi in esercizio del diritto di
opzione su aumento di capitale.
Dottrina e giurisprudenza s'interrogano sulla compatibilità della comunione legale con gli
'acquisti a titolo originario' (la 'cosa' non ha precedenti proprietari: invenzione, usucapione,
accessione, specificazione, possesso in buona fede, occupazione, ecc.). Tre diverse
argomentazioni sostengono la tesi negativa:
1) il tenore letterale dell'art. 177, lett. a) non riporta la dizione "acquisti a qualunque titolo"
presente nell'abrogato art. 217 c.c., in materia di comunione convenzionale; ma non è comunque
detto che fosse volontà del legislatore escludere tali acquisti;
2) dall'art. 179, lett. b) c.c., si ricaverebbe il principio generale di qualità "personale" dei beni
acquistati non a titolo oneroso, ma si tratta di presupposti concettualmente non omogenei
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rispetto al problema;
3) il termine "compiuti" utilizzato nell'art. 177, lett. a) non può comprendere gli acquisti a titolo
originario che non si "compiono"; ma tale teoria è smentita dallo stesso legislatore che invece
usa il termine "si compie" proprio a proposito dell'usucapione.
È allora preferibile accogliere la tesi della dottrina maggioritaria, secondo la quale anche gli
acquisti a titolo originario sono oggetto di comunione immediata.
I casi maggiormente controversi sono comunque l'usucapione e l'accessione.
L'usucapione' opera in virtù del possesso continuato nel tempo, per cui chi sostiene che i beni
così acquisiti non possono rientrare nella comunione fanno leva sull'impossibilità di stabilire il
momento in cui il bene cade in comunione, se il regime sussiste al momento dell'acquisto e non
rileva l'eventuale anteriorità del possesso rispetto alla data d'inizio del regime legale, ed è
indipendente dal fatto che il possesso sia stato esercitato da un solo coniuge.
L"accessione', è il caso più ricorrente nella pratica: è il caso, ad es., in cui sul terreno di proprietà
esclusiva di un coniuge sia stata edificata, in regime di comunione, una costruzione mediante
l'utilizzo di denaro comune.
La giurisprudenza dopo qualche tentennamento si è orientata verso la tesi della prevalenza
dell'accessione, perché diversamente vorrebbe dire ammettere la possibilità di costituire un
diritto di superficie in favore del coniuge non proprietario del fondo al di fuori dei casi previsti
dalla legge.
Il coniuge non proprietario allora non avrà diritti sul fondo, ma solo diritto al rimborso delle
somme erogate per la realizzazione della costruzione.
Sono invece esclusi dalla comunione gli acquisti a titolo originario costituiti da 'alluvione',
'avulsione', 'unione' e 'commistione' in quanto semplici espansioni di diritti personali preesistenti.
Rispetto a 'occupazione', 'invenzione' e 'specificazione' i relativi acquisti cadono in comunione
immediata se non derivano da attività separate del coniuge, nel qual caso rientrano nella
comunione residuale.
Per quanto riguarda gli acquisti 'a non domino', anche se si tratta di acquisti a titolo originario,
prevale l'aspetto negoziale, per cui cadono in comunione. (Acquisto "a non domino"=acquisto da
colui che non è proprietario).
Per quanto riguarda le creazioni intellettuali, infine, al coniuge autore-inventore spetta in via
esclusiva il diritto all'attribuzione del bene immateriale e la facoltà di trasmissione dei diritti di
utilizzazione, mentre cadono in comunione 'de residuo' i proventi che l'autore-inventore ricava
dallo sfruttamento di questi ultimi.
Oggetto di acquisto della comunione può essere anche un diritto reale diverso dalla proprietà;
per quanto riguarda la 'servitù' essa, data l'impossibilità di scindere il diritto reale di servitù dalla
titolarità del fondo, seguirà la sorte del diritto di proprietà. Mentre più discussi sono l"uso' e
1"abitazione': secondo alcuni hanno carattere personale ed entrano in comunione solo nei
rapporti interni fra coniugi, e sono in opponibili ai terzi, ma è preferibile la tesi della caduta in
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comunione.
L"usufrutto' cade in comunione, la discussione è semmai sulla sua durata che, per alcuni, è
commisurata alla vita del coniuge usufruttuario (cioè intestatario dell'usufrutto), mentre per altri,
in virtù del fatto che la caduta del bene in comunione significa coacquisto e non ritrasferimento,
l'estinzione avverrà con la morte del più longevo.
I diritti reali di garanzia di un credito personale di un coniuge non entrano in comunione in
quanto accessori al diritto che garantiscono.
Dibattuto è poi il tema delle 'partecipazioni societarie'.
In relazione alle partecipazioni comportanti assunzioni di responsabilità illimitata, il loro
acquisto è visto come strumento del coniuge per l'esercizio della propria attività economica, con
la conseguenza per cui esse rimangono nella piena ed esclusiva titolarità e disponibilità del
coniuge stesso, salvo il diritto dell'altro coniuge sui proventi e sulla liquidazione della quota.
Per quanto riguarda l'acquisto di partecipazioni comportanti assunzioni di responsabilità limitata,
esse sono a tutti gli effetti beni mobili, per cui cadono in comunione.
Un'interessante tesi considera anche queste partecipazioni come strumentali all'attività propria
del coniuge, soprattutto, se questo detiene la maggioranza del capitale o partecipa alla gestione
della società. In tal caso dovrebbe applicarsi la norma sulla comunione 'de residuo'. Riguardo,
infine, alle partecipazioni a cooperative edilizie si esclude la loro caduta in comunione, in virtù
dello spiccato "intuitus personae" (cioè: "avuto riguardo alla persona", negozi in cui conta la
persona e non tanto l'oggetto) che le caratterizza, anche se si ritiene che cada in comunione
l'immobile nel momento in cui viene assegnata la proprietà.
2) BENI COMUNI DE RESIDUO Viene definita 'comunione de residuo' quella forma di
comunione relativa a beni che divengono comuni per la parte che residua al momento dello
scioglimento della comunione legale, se e nella misura in cui non siano stati consumati. La
comunione de residuo comprende:
a) i frutti dei beni propri di ciascun coniuge percepiti e non consumati al momento dello
scioglimento della comunione (art. 177, lett. b) c.c.).
È frutto il bene che viene collegato ad un altro bene considerandosi come reddito del primo
relativamente ad un certo periodo di tempo (ed. periodo fruttifero).
Per frutti, s'intendono sia i frutti naturali che i frutti civili. Sono frutti naturali quelli che
provengono dalla cosa, vi concorra o meno l'opera dell'uomo (come, ad es., i prodotti agricoli);
sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altrui
ne abbia (come, ad es., gli interessi sui capitali). Deve trattarsi di frutti prodotti dal patrimonio di
cui ciascun coniuge è titolare esclusivo, percepiti e non consumati;
b) i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione,
non siano stati consumati (art. 177, lett. e), c.c.).
Per proventi dell'attività separata s'intendono quelle utilità conseguite da ciascun coniuge per lo
svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa subordinata, autonoma o professionale.
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Secondo alcuni non è rilevante la distinzione tra frutti e proventi, in quanto la disciplina di fondo
è unitaria, rientrano entrambi nella comunione 'de residuo'. Altri, invece, la ritengono
importante, in quanto la legge detta una disciplina differente: mentre i frutti rientrano in
comunione 'de residuo' solo se percepiti, i proventi vi cadono non solo se ancora non corrisposti,
ma anche se non di pronta percezione.
Cadono dunque in comunione differita le somme non consumate dei cd. accantonamenti, che
risultano depositati su conti correnti bancari o postali o trasferiti a terzi con un contratto di
mutuo.
I beni destinati alla comunione 'de residuo' durante la vigenza del regime di comunione restano
di proprietà del coniuge che li percepisce e li amministra, con il solo limite del dovere di
assolvere all'obbligo di contribuzione.
Presupposto per la caduta in comunione al momento dello scioglimento è che i frutti e i proventi
non siano consumati. Secondo una nozione ampia si possono considerare frutti consumati quelli
che il percettore ha comunque utilizzato, per cui cadono in comunione solo i frutti ancora
esistenti nel patrimonio al momento dello scioglimento.
Tale ampia nozione è stata oggetto di critiche, ed è stata attribuita rilevanza a comportamenti del
coniuge contrari alla solidarietà famigliare, quali il consumo in mala fede dei propri redditi o
l'omessa percezione dei frutti, ed a tal fine si è formulata una nozione ristretta di consumo che,
se da una parte lascia intatta la libera disponibilità dei frutti e dei proventi, dall'altra ne vieta la
disposizione in frode alla comunione, lo sperpero o la mancata percezione. In questo contesto si
considerano parte della comunione non solo quei redditi che si riesca a dimostrare ancora
sussistenti al momento dello scioglimento, ma anche, secondo un certo orientamento, quelli
percepiti che il coniuge titolare non riesca a provare di aver consumato per soddisfare bisogni
della famiglia. Da parte di alcuni autori è stata prospettata, relativamente alla comunione de
residuo, la sussistenza di un'aspettativa al futuro ingresso di frutti e proventi in comunione;
invece, secondo altra impostazione, sarebbe configurabile la responsabilità ex art. 2043 c.c. nel
caso in cui il coniuge titolare abbia dolosamente disposto del proprio denaro per evitarne la
caduta in comunione. Tuttora è controverso se al momento dello scioglimento s'instauri una vera
e propria con titolarità sui beni 'de residuo' oppure nasca un diritto di credito a favore del
coniuge non titolare nei confronti dell'altro corrispondente al valore dei beni. Una parte della
dottrina è giunta alla conclusione che sui beni in questione s'instauri una con titolarità fra i
coniugi. Questa tesi è stata criticata sia per ragioni di opportunità che di carattere tecnico; infatti,
non sembra ragionevole che beni ritenuti di titolarità esclusiva di un coniuge finché dura la
comunione legale, divengano comuni proprio quando questa si scioglie ciò anche in
considerazione del fatto che le cause di scioglimento della comunione legale sono spesso legate
a situazioni di contrasto e frattura fra i coniugi. e) i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno
dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche
precedentemente (art. 178 c.c.).
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II legislatore per riferirsi alle attività imprenditoriali dei coniugi usa spesso impropriamente i
termini di azienda e d'impresa, rendendo difficoltoso ricostruire gli istituti.
Il dato essenziale, ai fini dell'inclusione nella comunione immediata è quello della gestione in
comune, tant'è vero che quando l'impresa sia gestita da uno dei coniugi i relativi beni non
cadono in comunione immediata, ma si considerano oggetto della comunione solo se sussistono
al momento dello scioglimento di questa. Pertanto, nel caso in cui l'azienda sia stata costituita
prima del matrimonio, in comunione 'de residuo' cadono unicamente gli incrementi dell'impresa
che sussistono al momento dello scioglimento della comunione legale.
Si tratta di stabilire in primo luogo se l'attività d'impresa che i coniugi svolgono congiuntamente
debba essere vista e regolata come gestione di un'azienda in comunione legale soggetta alle
norme in tema di amministrazione della comunione, oppure sia preferibile considerare i coniugi
come soci di una società semplice. Una parte della dottrina ritiene sempre e comunque
applicabili le norme della comunione: secondo quest'orientamento il fondersi degli elementi
della cogestione e della comunione legale darebbe vita ad un'impresa collettiva non societaria
soggetta alle norme dettate in tema di comunione legale sia per quanto attiene l'amministrazione
sia per ciò che riguarda la responsabilità patrimoniale, e quindi sarebbe una figura non
riconducibile ai tipi societari. Secondo altri la disciplina della società di persone non sarebbe in
contrasto con quella della comunione legale e, anzi, tutelerebbe maggiormente i creditori, e
quindi propendono per la sua applicazione alla fattispecie dell'impresa familiare.
Vi è poi una posizione intermedia che valorizza la distinzione tra i profili attinenti alla proprietà,
soggetti alle norme sulla comunione, e quelli che riguardano la gestione, regolati, invece, dalle
norme sulla società.
3) I BENI PERSONALI Sono esclusi dal regime di comunione i beni personali, indicati dall'art.
179 c.c., i cui frutti, peraltro, sono oggetto di comunione differita. L'esclusione della contitolarità
può aversi in ragione del tempo dell'acquisto (art. 179, lett. a), c.c.); del titolo (art. 179, lett. b),
e) ed f), c.c.); della destinazione economica del bene acquistato (art. 179, lett. e), d), c.c.).
In relazione al tempo di acquisto, sono personali i beni dei quali ciascun coniuge era titolare
prima del matrimonio o comunque prima della comunione, se questa non dovesse instaurarsi
subito.
Sotto il profilo del momento acquisitivo vi sono ipotesi che possono presentare dubbi circa la
natura personale del bene; i casi più frequenti riguardano: - Contratto preliminare: alcuni
ritengono che occorra avere riguardo al momento in cui viene stipulato il contratto definitivo,
perché solo con esso si produce l'effetto reale e quindi si attua il trasferimento del bene; altra
dottrina ritiene l'acquisto personale, perché il bene economicamente più importante è
rappresentato dalla situazione giuridica preliminare.
- Opzione: circa l'opzione che un coniuge abbia acquistato prima del matrimonio, valgono le
considerazioni effettuate a proposito del preliminare, quindi il diritto di opzione, essendo
economicamente valutabile, costituisce bene personale; tuttavia, se il diritto viene esercitato
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dopo il matrimonio si produrrà la caduta in comunione del bene acquistato.
- Contratto condizionato stipulato prima del matrimonio: il problema si pone qualora la
condizione si verifichi dopo la celebrazione del matrimonio; per effetto della retroattività della
condizione sembra preferibile ritenere l'acquisto come personale.
- Acquisto a rate: parte della giurisprudenza e della dottrina ha ritenuto che nel caso in cui
l'ultima rata sia pagata nella vigenza del regime legale il bene acquistato cada in comunione;
altra parte della dottrina, nell'intento di tutelare il coniuge acquirente, ha invece ritenuto il bene
come personale in quanto il momento economico più significativo (ossia quello in cui viene
acquistata la porzione economicamente più importante del bene) si realizza prima del
matrimonio, sebbene l'effetto reale si verifichi solo con il pagamento dell'ultima rata.
In ordine al titolo dell'acquisto, risultano esclusi dalla comunione i beni acquistati per donazione
o successione. È tuttavia consentito al donante e al testatore attribuire il bene alla comunione. La
ratio dell'esclusione viene individuata nel rispetto della volontà del disponente e dell"intuitus
personae' che di regola caratterizza queste attribuzioni. Normalmente, quindi, i beni attribuiti al
singolo coniuge a titolo di successione o donazione non cadono in comunione, nel presupposto
che in comunione legale debbano rientrare soltanto i beni alla cui acquisizione abbiano
contribuito entrambi i coniugi. Rispetto alle 'successioni', l'interpretazione è ampia e comprende
le disposizioni a titolo universale, quelle a titolo particolare e gli acquisti a seguito di vittorioso
esperimento di azione di riduzione da parte del coniuge legittimario.
Rispetto alle 'donazioni', vi rientrano le donazioni indirette (vendita a prezzo inferiore,
pagamenti di debiti altrui, remissioni di debiti, ecc.) e il contratto a favore di terzo. Sfuggono
invece a tale disciplina le liberalità d'uso che ricadono fra i proventi, essendo collegate ad
un'attività - il servizio reso - in presenza della quale la legge le sottrae al regime delle donazioni
(art. 7702, c.c.).
In ordine all'esclusione del bene dalla comunione per destinazione, viene in rilievo l'uso
strettamente personale, indipendentemente dai mezzi con cui sono stati acquistati.
L'individuazione di tali beni non è chiara: lo sono sicuramente quelli che non possono essere
utilizzati dall'altro coniuge (ad es. vestiti, occhiali, ecc.) ma secondo parte della dottrina lo
sono anche quelli che vengono utilizzati abitualmente da un solo coniuge e servono per
soddisfare interessi o esigenze personali (ad es. attrezzature sportive).
Per quanto riguarda i beni immobili o mobili registrati, essendo suscettibili di destinazioni
diverse si attribuisce esclusiva rilevanza al fatto obiettivo della destinazione, in quanto se
l'effettiva utilizzazione viene a mancare, il bene stesso perderà il carattere personale per cadere
nella comunione.
Anche i beni che servono all'esercizio della professione sono esclusi dalla comunione. I
presupposti perché operi l'esclusione sono due: l'effettivo esercizio di una professione ed inoltre
la strumentalità del bene all'esercizio di tale professione.
Anche la proprietà di un immobile può essere esclusa dalla comunione, ma in questo caso è
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necessaria la dichiarazione dell'altro coniuge.
Ancora, sono personali i beni ottenuti a titolo di risarcimento danni e la pensione attinente alla
perdita parziale o totale della capacità lavorativa. Non rientrano nell'ambito dei beni personali la
rendita percepita in forza di un contratto di assicurazione sulla vita, salvo che non sia connessa
alla perdita della capacità lavorativa.
Quando un bene viene acquistato con il prezzo del trasferimento o lo scambio di un bene
personale, il nuovo bene è a sua volta personale se viene dichiarato espressamente al momento
dell'acquisto. Controverso è se si debba indicare il bene alienato ed il prezzo ottenuto: per i beni
mobili è sufficiente la dichiarazione del coniuge titolare (colui che ha venduto un bene personale
e successivamente ne ha acquistato un altro con i proventi ottenuti), mentre per i beni immobili o
mobili registrati è necessario che all'atto di acquisto intervenga il coniuge dell'acquirente, il
quale rinuncia alla comunione in quanto ammette che il prezzo è pagato con i proventi della
vendita di un bene personale dell'altro coniuge.
Secondo parte della dottrina la partecipazione dell'altro coniuge all'atto è essenziale, ed in sua
mancanza l'acquisto cade nella comunione legale.
Secondo altri, invece, tale partecipazione non è essenziale, e anche la sola dichiarazione del
coniuge acquirente è sufficiente a far restare il bene personale, salvo l'onere di provarne la natura
in caso di contestazione. L'onere della prova è invece invertito se il coniuge ha partecipato
all'atto e dichiari di aver fatto la dichiarazione sulla base di un errore di fatto (cioè il bene non sia
stato acquistato col prezzo derivante dal trasferimento di beni personali).
Altro problema è quello di stabilire se i coniugi di comune accordo possono escludere l'acquisto
in comunione di un bene, a prescindere dal ricorrere dei presupposti oggettivi di cui all'art. 179,
lett. e), d) e f).
Si può affermare in proposito che la dichiarazione resa dal coniuge non acquirente non viene
ritenuta sufficiente di per sé ad evitare la caduta in comunione di un bene che, in concreto, non
abbia i caratteri di cui all'art. 179 ce; tuttavia, qualora detta dichiarazione attesti la presenza di
presupposti oggettivi di cui alle lett. e), d) ed f) dell'art. 1791, c.c., di fatto vale ad escludere che
il bene entri in comunione. La Corte di Cassazione ha precisato, infatti, che la dichiarazione del
coniuge è impugnabile solo per violenza o per errore di fatto, e dunque nei limiti in cui ciò è
ammesso per la confessione.
Da ultimo si è posto il problema dell'illegittimo rifiuto del coniuge di partecipare all'atto in forza
del quale l'altro voglia procedere all'acquisto di un bene personale e di quale sia il possibile
rimedio. Per alcuni si può adire il giudice per ottenere l'autorizzazione all'acquisto; altri
ritengono invece necessario promuovere un giudizio contenzioso per accertare l'illegittimità del
rifiuto.
# L'amministrazione della comunione:
Il principio fondamentale che presiede all'amministrazione dei beni comuni è ispirato all'assoluta

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parità dei coniugi; ad essi la legge conferisce il potere di compiere disgiuntamente gli atti di
ordinaria amministrazione e congiuntamente quelli di straordinaria amministrazione.
La disposizione richiamata è inderogabile, in quanto strettamente collegata alla regola
costituzionale della parità. Sono atti di straordinaria amministrazione quelli idonei, almeno in
astratto, ad apportare modifiche alla composizione od alla consistenza del patrimonio. Rientrano
invece nell'ordinaria amministrazione quegli atti tendenti al normale godimento del bene ed alla
sua conservazione.
Per l'ipotesi di amministrazione congiunta, onde evitare che il rifiuto del consenso di uno dei
coniugi paralizzi il compimento di un'operazione necessaria nell'interesse della famiglia o
dell'azienda facente parte della comunione, il legislatore ha previsto una specifica autorizzazione
del tribunale a compiere l'atto.
Secondo l'art. 1821, c.c., in caso di lontananza o impedimento di uno dei coniugi, potrà essere
rilasciata una procura all'altro coniuge che gli consentirà di agire per gli atti di straordinaria
amministrazione anche in mancanza dell'altro e, quindi, disgiuntamente.
L'art. 183 ce prevede una serie d'ipotesi in cui uno dei coniugi può essere escluso
dall'amministrazione dei beni della comunione. In particolare l'esclusione può essere domandata
all'autorità giudiziaria da un coniuge qualora l'altro sia minore d'età o abbia male amministrato,
mentre opera di diritto in caso d'interdizione. Tuttavia, la norma ha avuto una scarsissima
applicazione.
# Gli atti compiuti senza il necessario consenso:
L'art. 184 c.c. al primo comma stabilisce che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario
consenso dell'altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni
immobili o beni mobili elencati nell'art. 2683. L'art. 184 c.c. pur menzionando genericamente gli
'atti compiuti', si riferisce, in realtà, solo agli atti dispositivi di cose comuni. Ciò che rileva,
infatti, è la relazione tra l'atto compiuto e il bene della comunione che lo riguarda, cosicché se si
attua l'alienazione di un bene comune (immobile o mobile registrato) il relativo contratto è
ricompreso nella sfera di applicazione dell'art. 1841, c.c., mentre, se l'atto dispositivo è di
acquisto, il bene di cui si dispone è il denaro, di modo che troverà applicazione l'ultimo comma
dell'art. 184 ce
Nell'ipotesi in cui uno dei coniugi non abbia prestato il consenso, viene operata una netta
distinzione tra gli atti concernenti 'beni immobili o mobili registrati' ai quali viene ricollegata
l'annullabilità, da azionarsi entro 1 anno dalla data in cui il coniuge ha avuto conoscenza dell'atto
e comunque dalla trascrizione, mentre per il caso in cui l'atto non sia stato trascritto e l'altro
coniuge non ne sia venuto a conoscenza il termine annuale di prescrizione decorrerà dallo
scioglimento della comunione; e gli 'atti inerenti beni mobili', che restano validi ed efficaci, con
la sola conseguenza del sorgere di un obbligo per il coniuge disponente di ricostituire la
comunione o, qualora ciò non sia possibile, di pagarne l'equivalente ad istanza dell'altro.

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Il legislatore ha quindi cercato di contemperare due diversi interessi, quello del terzo acquirente
e quello del coniuge pretermesso, e, allo stesso tempo, di far salva la sicurezza della circolazione
dei beni, che risulta garantita appieno per i mobili e solo affievolita per gli immobili. Tuttavia, si
fa notare, che l'interesse del coniuge non partecipante sarebbe meglio salvaguardato se anziché
della sanzione dell'annullabilità fosse prevista la più radicale misura dell'inefficacia, tipica della
comunione ordinaria nel caso in cui il singolo comunista disponga dei beni comuni; per cui sono
state sollevate anche questioni di legittimità circa la disparità di trattamento dei due istituti. La
Corte Costituzionale ha però sostenuto che nella comunione legale ogni coniuge ha il potere di
disporre dei beni comuni e che il consenso dell'altro non costituisce un negozio attributivo di
potere ma un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la
cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in vizio del negozio,
tant'è che in caso di mancanza dell'azione di annullamento il negozio è valido e vincolante anche
per l'altro coniuge.
# La responsabilità gravante sui beni della comunione:
Nonostante la comunione non assurga al rango di patrimonio separato, la legge prevede obblighi
gravanti sui beni comuni (art. 186 c.c.), distinguendoli da quelli particolari di ciascuno dei
coniugi (art. 189 c.c.). Ciò comporta che, nell'ambito delle obbligazioni facenti capo ad un
soggetto coniugato in regime di
comunione legale, occorre distinguere tra obbligazioni riguardanti la comunione - rispetto alle
quali i creditori possono soddisfarsi in via immediata sui beni oggetto della comunione, e solo
nell'ipotesi in cui il credito rimanga insoddisfatto, i creditori potranno agire in via sussidiaria sui
beni personali di ciascun coniuge nella misura nella metà del credito - e obbligazioni personali di
ciascun coniuge, per il cui adempimento il debitore risponde innanzitutto con i beni personali, e
solo se i creditori non trovino di che soddisfarsi nel patrimonio dell'obbligato, potranno
aggredire i beni della comunione fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato.
Secondo parte della dottrina l'elencazione di cui all'art. 186 c.c. deve considerarsi tassativa pur
non essendo preclusa un'interpretazione estensiva delle categorie indicate. Sono debiti della
comunione i pesi e gli oneri:
- Gravanti sui beni della comunione al momento dell'acquisto: sono i vincoli di natura reale
gravanti sui singoli beni, come pegni, ipoteche, privilegi, ecc. Taluno esclude che la norma sia
riferibile all'obbligazione di pagare il prezzo dei beni acquistati da uno dei coniugi e destinati a
cadere in comunione.
- Quelli derivanti dall'amministrazione ordinaria del patrimonio comune: sono le obbligazioni
che hanno la loro fonte negli atti di ordinaria amministrazione che ciascun coniuge può compiere
(si tratta soprattutto di contributi condominiali, spese di gestione, custodia, assicurazione e
manutenzione); qualora l'obbligazione derivi da un atto di straordinaria amministrazione
compiuto da uno solo dei coniugi troverà applicazione l'art. 1891, c.c.

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- Le spese per il mantenimento della famiglia e per l'istruzione e l'educazione dei figli, e ogni
altra obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia:
queste rappresentano il legame tra il regime secondario della comunione e il regime primario.
Per tali obbligazioni i creditori possono rifarsi in via immediata sui beni della comunione; se tali
beni non fossero sufficienti, essi potranno aggredire, in via sussidiaria (cioè solo dopo aver
escusso invano il fondo comune), i beni personali di ciascun coniuge nella misura della metà del
credito (art. 190 c.c.). Tale norma deve essere coordinata con quelle di carattere generale in tema
di obbligazioni solidali e di responsabilità patrimoniale quando ci si riferisce alla posizione del
coniuge che si è personalmente obbligato.
Si deve dunque ritenere che la limitazione al 50% del credito valga solo per il coniuge che non
sia direttamente obbligato, e che non possa pertanto invocarsi se le obbligazioni sono state
assunte congiuntamente.
Il creditore può pertanto soddisfarsi su qualsiasi bene, e grava sul coniuge non contraente l'onere
di eccepire il beneficio della preventiva escussione, indicando contestualmente su quali beni il
creditore deve primariamente soddisfarsi.
Per quanto riguarda, invece, i debiti personali di ciascun coniuge, il debitore, secondo le regole
ordinarie, risponde con tutto il suo patrimonio e, in via sussidiaria, allorché, cioè i creditori non
riescono a soddisfarsi sul patrimonio dell'obbligato, con la sua quota di comunione.
Sono debiti personali quelli assunti nell'interesse del proprio o altrui patrimonio, quelli derivanti
dallo svolgimento di attività separata, quelli scaturenti dal compimento di un atto di straordinaria
amministrazione senza il consenso dell'altro coniuge, sia se sorta prima che dopo il matrimonio,
ma mentre la 'sussidiarietà' è comune ai due casi (ante e post matrimonio) la 'postergazione' dei
creditori chirografari rispetto ai creditori della comunione vale solo per quelli ante.
Nell'ipotesi in cui creditori personali del coniuge aggrediscono i beni della comunione, resta da
precisare quale sia l'oggetto dell'azione esecutiva. La dottrina si divide tra la posizione di chi
ritiene che il limite del valore della quota rilevi per ogni singolo bene espropriato, con la
conseguenza che rispetto a tale bene si avrebbe uno scioglimento parziale della comunione, e chi
invece sostiene che tale limite venga in rilievo con riferimento al valore globale della quota,
potendo i beni, sino a tale valore, essere aggrediti per intero.
# La cessazione della comunione:
I casi che determinano lo scioglimento della comunione sono elencati nell'art. 191 c.c.
Il termine 'scioglimento', usato dal legislatore è tuttavia improprio, in quanto le cause elencate
portano in realtà alla cessazione del regime di comunione legale e non necessariamente ad una
divisione dei beni, per giungere alla quale occorrerà un contratto di divisione o un
provvedimento giudiziale che potrà essere promosso solamente successivamente al verificarsi
della cessazione del regime di comunione.
La cessazione avviene nel caso di rottura del vincolo matrimoniale (annullamento, scioglimento

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e cessazione degli effetti civili del matrimonio) ed anche a seguito di dichiarazione di morte
presunta o di assenza, di separazione personale, di separazione giudiziale dei beni, di mutamento
convenzionale del regime patrimoniale e di fallimento di uno dei coniugi.
La separazione giudiziale dei beni può essere pronunciata in caso d'interdizione o
d'inabilitazione di uno dei coniugi o di cattiva amministrazione della comunione, quando il
disordine degli affari di uno dei coniugi metta in pericolo gli interessi dell'altro, della famiglia o
della comunione; oppure quando uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni familiari in misura
proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro. La sentenza che pronuncia la
separazione dei beni viene annotata a margine dell'atto di matrimonio e sull'originale delle
convenzioni matrimoniali e retroagisce al momento della domanda giudiziale ed ha l'effetto
d'instaurare (retroattivamente) il regime di separazione, fatti salvi i diritti dei terzi.
In caso di separazione personale, il passaggio al regime di separazione avviene nel momento in
cui passa in giudicato la sentenza di separazione personale. La soluzione porta gravi
conseguenze ed appare nel merito inopportuna: i coniugi durante il tempo necessario per
terminare la causa di separazione personale si troveranno in regime di comunione, con l'effetto
di paralizzare per anni il compimento di atti di disposizione e di rendere comuni gli eventuali
acquisti.
Proprio in considerazione di tali evidenti pregiudizi si è sviluppato un orientamento secondo il
quale la cessazione pur seguendo sempre il passaggio in giudicato della sentenza di separazione,
retroagirebbe alla data dell'udienza presidenziale.
Se i coniugi si riconciliano non è chiaro se si possa ricostituire automaticamente la comunione.
Secondo un recente orientamento ciò è possibile, ma in difetto di segnalazione esterna di
quell'evento, detto ripristino non è opponibile ai terzi in buona fede che abbiano acquistato a
titolo oneroso dal coniuge che risultava unico ed esclusivo titolare dell'immobile o del bene
mobile registrato alienato, dovendosi applicare le norme generali in tema di pubblicità delle
vicende giuridiche a tutela dei terzi.
Il verificarsi di una causa di scioglimento della comunione non comporta l'immediata ed
automatica divisione dei beni, ma determina il prodursi di determinati effetti:
a) Diviene operativa la comunione de residuo, con il confluire nella stessa dei beni e diritti
indicati nell'art. 177, lett. b) e e) c.c. e nell'art. 178 c.c., fino a quel momento rientranti nella
titolarità esclusiva di uno dei coniugi;
b) Si applica ai beni comuni la disciplina della comunione ordinaria e, di conseguenza, è
possibile compiere atti di disposizione sulla propria quota da parte dei coniugi;
e) Diventa inapplicabile l'art. 184 ce per gli atti compiuti senza consenso;
d) Nasce il diritto potestativo (la situazione giuridica soggettiva che consiste nell'attribuzione di
un potere ad un soggetto allo scopo di tutelare un suo interesse. Si contrappone, pertanto, alla
potestà nella quale il potere è attribuito al soggetto a tutela di un interesse altrui) di domandare la
divisione da effettuarsi secondo quanto stabilito dagli artt. 192 e 194 ce (obblighi di rimborso e
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restituzione);
e) Viene meno la responsabilità ex art. 186 ce Lo scioglimento (o meglio, la cessazione) della
comunione è soggetto a pubblicità, che varia in base alla causa che lo ha determinato.
È inoltre necessario procedere ad eventuali 'rimborsi e restituzioni' ad opera dei coniugi nei
confronti e a favore della comunione (art. 192 c.c.). Sono da rimborsare alla comunione (e
quindi, all'altro coniuge in considerazione della liquidazione delle quote) le somme prelevate dal
patrimonio comune per fini personali (diversi da quelli indicati nell'art. 186 c.c.), nonché il
valore dei beni della comunione escussi dai creditori personali di uno dei coniugi, a meno che
non dimostri che l'obbligazione assunta derivi da un atto di straordinaria amministrazione e che
l'atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto un'esigenza familiare.
L'obbligo di rimborso nasce dal momento in cui si procede allo scioglimento della comunione
(momento nel quale si calcola il valore dei beni da rimborsare), ma è possibile che sorga in
precedenza, a seguito della richiesta dell'altro coniuge e con l'autorizzazione del giudice.
Sorge, invece, un diritto alla restituzione a carico della comunione ed a favore del coniuge ove
questi abbia prelevato delle somme dal patrimonio personale per impiegarle in spese o
investimenti del patrimonio comune.
Perché sorga tale diritto è necessario però che si sia trattato di spese necessarie o d'investimenti
che abbiano incrementato il patrimonio comune, e nei limiti di tale incremento, valutato al
momento dello scioglimento della comunione.
L'art. 194 c.c. stabilisce, poi, che la divisione dei beni comuni si effettua ripartendo in parti
eguali l'attivo e il passivo. È prevista la possibilità per il giudice di costituire un diritto di
usufrutto a
favore di un coniuge sui beni dell'altro, qualora ciò si renda opportuno per la necessità della
prole.
Per procedere alla divisione è necessario, in primo luogo, individuare il patrimonio comune,
consentendo ai coniugi di prelevare i beni mobili personali o il valore di essi, se tali beni sono
periti
o siano stati consumati, o comunque per causa non imputabile all'altro coniuge (art. 195 e 196
c.c.). È necessario, ai fini del prelievo, dimostrare la titolarità dei beni in via esclusiva di uno dei
coniugi; detta prova può essere data con ogni mezzo, salvo che nei confronti dei creditori, ai
quali si deve opporre un documento avente data certa (art. 197 c.c.). La divisione può avvenire
per contratto o con sentenza del giudice.
3. L'autonomia dei coniugi e le convenzioni matrimoniali
Dopo la Riforma del diritto di famiglia del '75 il regime legale è quello della comunione dei beni
(159 c.c.): i coniugi, tuttavia, sono liberi di scegliere, attraverso apposite convenzioni
(convenzioni matrimoniali), un regime diverso optando per la separazione dei beni o per la
comunione convenzionale.

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L'art. 161 ce dispone che gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti
patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi,
ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare
questi loro rapporti, ciò per evitare:
1) che essi si sottraggano al rigoroso formalismo imposto dall'art. 162 c.c. (il notaio potrebbe
non formulare correttamente le disposizioni adottate);
2) che il giudice sia costretto, in caso di controversia, a fare lunghe e difficili ricerche in diritti
stranieri o usi richiamati dai coniugi;
3) che non venga rispettata la tutela dei terzi attraverso il mancato rispetto del sistema di
pubblicità (rinvìi difficilmente rintracciabili o traducibili).
Tuttavia, non va dimenticato che l'art. 161 ce legittima la costituzione di un regime atipico
(purché chiaro), anche con la combinazione di parti di leggi straniere; tali regime atipici non
possono essere in contrasto con i diritti ed i doveri inderogabili (art. 160 c.c.) previste dalla legge
per effetto del matrimonio (143 ss.).
Anche l'art. 163 ce è segno della crescente autonomia negoziale riconosciuta ai coniugi, in
quanto decreta la libertà di modificare in qualsiasi momento le convenzioni stipulate tra i
coniugi.
L'art. 164 ce si occupa della simulazione delle convenzioni. La dottrina ha precisato come i terzi
siano ammessi a provare la simulazione secondo i principi generali, e, pertanto, senza sottostare
alle limitazioni probatorie che la legge pone a carico delle parti. Ai sensi dell'art. 162 c.c., le
convenzioni matrimoniali devono essere stipulate per atto pubblico, pena la nullità. La scelta del
regime di separazione può anche essere dichiarata nell'atto di celebrazione del matrimonio.
Inoltre, esse devono essere annotate a margine dell'atto di matrimonio, altrimenti non sono
opponibili a terzi.
Tale forma di pubblicità si deve coordinare con la trascrizione nei pubblici registri immobiliari,
ma l'annotazione è l'unica forma di pubblicità idonea ad assicurare l'opponibilità della
convenzione matrimoniale ai terzi, mentre la trascrizione ha funzione di mera pubblicità notizia.
4. La comunione convenzionale
Il legislatore della riforma, nel prevedere come regime legale quello della comunione dei beni,
ha affiancato ad esso l'istituto della comunione convenzionale che può avere carattere
meramente modificativo del regime legale oppure disciplinare un regime autonomo. Nel primo
caso si avrà una comunione a contenuto ampliativo. Nel secondo si avrà un autonomo regime,
che, per concorde volontà negoziale, prescinderà da quello legale. Quest'ampia facoltà è però
limitata:
1) si richiede che i patti in questione non siano in contrasto con le disposizioni dell'art. 161 ce;
2) si esclude che i beni di cui alle lett. e), d) ed e) dell'art. 179 ce possano essere compresi nella
comunione convenzionale;

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3) si sancisce il carattere inderogabile delle norme della comunione legale relative
all'amministrazione dei beni della comunione e all'uguaglianza delle quote limitatamente ai beni
che formerebbero oggetto della comunione legale.
Con il primo limite, si vuole evitare che i coniugi disciplinino i loro rapporti mediante
pattuizioni che genericamente rinviino a leggi o usi ai quali non sono sottoposti, imponendo
conseguentemente, di enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono
regolare questi loro rapporti.
Con il secondo si esclude la possibilità di dar vita ad una comunione universale allargando la
portata della comunione legale anche ai beni strettamente personali, per garantire a ciascun
coniuge
i beni necessari ad attuare i diritti della personalità.
5. La separazione dei beni
La separazione dei beni si caratterizza per il fatto di essere un regime generale, autonomo e
tendenzialmente completo, regolato da una disciplina esaustiva.
Mediante la scelta della separazione i coniugi convengono che ciascuno di essi conservi la
titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio (art. 215 c.c.).
Il termine 'acquistati' si riferirebbe alle modalità di acquisizione: in particolare, nell'ipotesi di
acquisto a titolo derivativo inter vivos il bene appartiene al coniuge che abbia stipulato il
contratto avente ad oggetto il trasferimento di quel bene; se, invece, l'acquisto sia stato effettuato
congiuntamente dai coniugi, il bene appartiene ad entrambi in comunione ordinaria. Questa
disparità di trattamento degli acquisti può rendere difficoltoso identificare a chi appartengano i
beni acquistati durante la vita matrimoniale, che non è il tema della comunione in caso di
mancanza di prove (219 c.c.) ma quello soprattutto relativo ai beni mobili in cui è difficile
individuare il titolo di acquisto e di determinarne la portata attributiva.
Sono sicuramente personali tutti i beni acquistati dal coniuge separatamente dall'altro per sue
esigenze personali (vestiti, libri) e, più in generale, beni che vengono utilizzati per far fronte ad
interessi che fanno capo solo al coniuge acquirente.
Ai fini dell'acquisto della proprietà non rileva l'appartenenza del denaro utilizzato per il
pagamento, con la conseguenza che la titolarità individuale si realizza anche quando l'acquisto
effettuato separatamente da un coniuge sia stato finanziato dall'altro. In tale ipotesi il coniuge
acquirente diviene proprietario, anche se l'altro coniuge potrebbe vantare un diritto al rimborso.
Deve comunque essere esclusa la possibilità di domandare il rimborso quando oggetto
dell'acquisto siano beni essenziali e il coniuge acquirente sia privo di redditi
propri, poiché in tal caso sul coniuge unico percettore di reddito grava l'obbligo di corrispondere
i mezzi necessari all'acquisto (art. 143 c.c.).
Nel caso di beni che soddisfino esigenze di entrambi i coniugi o del nucleo familiare nel suo
complesso, la decisione del loro acquisto è normalmente frutto di una volontà comune,

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riconducibile alla determinazione dell'indirizzo della vita familiare. Ma anche un acquisto
effettuato singolarmente da uno solo dei coniugi potrà comportare una proprietà comune, quando
si alleghi l'esistenza di un mandato conferito dall'altro coniuge. Rispetto alla provenienza del
denaro, il coniuge che ha pagato anche per l'altro potrebbe vedersi riconosciuto un diritto a
ripetere la parte di prezzo dell'altro, ma solo se l'acquisto non è riconducibile al dovere di
contribuzione gravante sul coniuge che ha pagato. Non ci sarà azione di ripetizione anche nel
caso di 'donazione indiretta', cioè quando si ravvisi la volontà del coniuge che paga di compiere
un atto di liberalità nei confronti dell'altro.
In tutti i casi in cui non sia dimostrabile nessuno dei casi sopra esposti, o altri acquisti di cui non
sia riconducibile la titolarità, il bene è comune ai sensi dell'art. 219 c.c. Il regime di separazione
dei beni può essere scelto dai coniugi tramite un'apposita convenzione che dovrà rivestire la
forma dell'atto pubblico a pena di nullità; tale convenzione è estremamente semplice: i coniugi,
infatti, possono limitarsi a manifestare unicamente la scelta di aderire a tale regime senza
ulteriori specificazioni.
La dichiarazione può anche essere quella di volersi unire in matrimonio 'senza comunione'. Il
regime di separazione può essere instaurato anche in via semplificata, tramite una dichiarazione
di scelta effettuata nell'atto di celebrazione del matrimonio; tale dichiarazione può essere resa
anche davanti al ministro del culto celebrante.
Inoltre, il regime di separazione s'instaura in tutti quei casi in cui allo scioglimento del regime
legale non si accompagni lo scioglimento del vincolo coniugale: in particolare, a seguito di
separazione giudiziale dei beni, della separazione personale, della dichiarazione di assenza, del
fallimento.
L'art. 2171, ce stabilisce che ciascun coniuge ha il godimento e l'amministrazione dei beni di cui
è esclusivo titolare, ma sempre nel rispetto del regime di contribuzione (ad es. non si può negare
all'altro coniuge il diritto a godere dell'immobile che viene adibito a residenza familiare, anche
se quest'ultimo risulti di proprietà dell'altro coniuge).
Il comma 2 dell'art. 217 ce regola il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata conferita la procura
ad amministrare i beni dell'altro con l'obbligo di rendere conto dei frutti, richiamando a tale
proposito
le norme sul mandato: troverà così applicazione in primo luogo l'art. 17191, c.c., in base al quale
il mandatario deve eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia. Qualora,
invece, ai sensi dell'art. 2173, c.c., non sia stato convenuto l'obbligo di rendere conto dei frutti, il
coniuge amministratore e i suoi eredi, a richiesta dell'altro coniuge o allo scioglimento o alla
cessazione degli effetti civili del matrimonio, saranno tenuti a consegnare unicamente i frutti
esistenti e non risponderanno per quelli consumati.
La norma più importante relativa al regime della separazione è quella enunciata all'art. 219 ce
che opera per lo più nell'ambito delle controversie concernenti la proprietà di beni mobili. Stante
la possibilità di fornire prove della proprietà esclusiva con ogni mezzo, l'art. 2192, c.c., afferma
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che i beni cui nessuno dei coniugi possa dimostrare la proprietà esclusiva saranno di proprietà
indivisa per pari quota di entrambi i coniugi. Risulta evidente come tale articolo introduca una
deroga al principio dell'onere della prova, che si giustifica anche sotto il profilo probatorio
(anche perché spesso vi sarà un compossesso del bene). L'art. 219 ce non può essere invocato a
danno dei terzi creditori, altrimenti quest'ultimi verrebbero a subire un trattamento sfavorevole
per il fatto di avere come controparte un soggetto coniugato in regime di separazione dei beni;
mentre i terzi possono invocare tale norma a proprio favore.
6. Cenni sui regimi a partecipazione differita di alcuni ordinamenti europei; l'autonomia
privata e la possibilità di recepirli in italia
L'adozione del regime di comunione, oltre a permettere la compartecipazione agli acquisti,
comporta la soggezione ad una serie di regola in tema di amministrazione, responsabilità
patrimoniale e cessazione della comunione stessa alle quali i coniugi che optino per la
separazione non sono sottoposti.
In altri ordinamenti si prevede un'alternativa ulteriore, che appare maggiormente indicata per le
coppie che, pur aspirando ad informare i loro rapporti al principio della compartecipazione agli
incrementi, non intendano sottostare alle limitazioni e ai vincoli necessariamente collegati ad un
regime nel quale la con titolarità s'instaura in costanza di matrimonio. Si tratta di regimi nei quali
la compartecipazione viene attuata in modo differito. Nel diritto tedesco, ad es., la
compartecipazione agli acquisti ha luogo solo nel momento in cui l'unione viene meno: in
costanza di matrimonio ciascun coniuge è proprietario individuale sia dei beni che già gli
appartenevano al momento delle nozze, sia di quelli acquistati successivamente. Solo al termine
della vita coniugale ciascuno matura nei confronti dell'altro un diritto di credito che rappresenta
la compensazione agli incrementi realizzati durante la vita matrimoniale. Durante questo periodo
i coniugi possono amministrare i propri beni disponendo un certo grado di
autonomia, ma anche soggiacendo a limiti imposti per presidiare l'integrità dei futuri diritti di
ciascuno di essi: non è possibile, così, disporre integralmente del proprio patrimonio senza il
consenso dell'altro, né disporre unilateralmente di oggetti utilizzati per esigenze familiari. Anche
il diritto francese prevede una partecipazione differita agli incrementi. In questo regime nell'arco
della durata del matrimonio si è in presenza di una situazione accostabile alla separazione dei
beni: ciascuno ha pieni poteri sui beni già propri e su quelli acquistati a titolo oneroso durante il
matrimonio. Al momento dello scioglimento, però, ciascuno degli sposi ha diritto al valore
corrispondente alla metà degli acquisti dell'altro: se vi sono acquisti da una parte e dall'altra
questi si compensano; se invece risulta un'eccedenza, lo sposo il cui patrimonio è inferiore
diviene creditore dell'altro per la metà di detta eccedenza. Anche in questo caso sussistono
particolari cautele volte a rendere effettivo il diritto alla compartecipazione dei coniugi: il
patrimonio finale di ciascuno di essi comprenderà fittiziamente anche i cespiti donati senza il
necessario consenso dell'altro, nonché le alienazioni compiute fraudolentemente.

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Anche nell'ordinamento spagnolo i coniugi possono optare per un regime nel quale, pur
conservando durante il matrimonio la titolarità esclusiva dei beni acquistati autonomamente - e
quindi ampia libertà di disposizione e amministrazione - la compartecipazione agli incrementi
viene comunque attuata mediante una compensazione per equivalente al momento dello
scioglimento del matrimonio.
La possibilità di recepire nel nostro ordinamento simili modelli di regime patrimoniale, e quindi
di allargare il novero delle scelte offerte ai coniugi, potrebbe essere attuata attraverso due
modalità: in primo luogo, qualora ricorrano gli elementi di estraneità richiesti, avvalendosi della
previsione di cui all'art. 30, 1. n. 218/1995, che consente ai coniugi di derogare al criterio dettato
in ordine all'individuazione della legge applicabile ai loro rapporti; in secondo luogo, stipulando
convenzioni nelle quali si riportino espressamente le disposizioni di altri ordinamenti che i
coniugi intendono scegliere per disciplinare il proprio regime patrimoniale. Quest'ultima
eventualità fa riemergere ancora una volta l'importanza dell'autonomia privata nella definizione
del regime patrimoniale secondario.
7. Il fondo patrimoniale
Il fondo patrimoniale è stato introdotto con la riforma del 1975, in sostituzione del patrimonio
familiare. Le principali caratteristiche sono:
- Alienabilità ed espropri abilità dei beni;
- Utilizzabilità degli stessi per i bisogni della famiglia;
- Potere di amministrazione in capo ad entrambi i coniugi.
Il fondo è caratterizzato inoltre dal 'vincolo di destinazione' dei beni che lo compongono, che fa
sorgere in capo ai coniugi un diritto reale riconducibile all'ambito dell'usufrutto.
Possono essere oggetto del fondo beni mobili, mobili registrati e i titoli di credito. Questi ultimi
devono essere vincolati rendendoli nominativi mediante annotazione del vincolo o in altro modo
idoneo.
L'individuazione dei beni che possono essere destinati a fondo patrimoniale è dunque correlata
alla possibilità di usufruire dei sistemi di pubblicità per opporre il vincolo ai terzi.
Il fondo patrimoniale non ha una funzione ben chiara e sostanzialmente si è dimostrata spesso
una soluzione per frodare i creditori, i quali, ricorrendone i presupposti, potranno esercitare
l'azione
revocatoria, oppure potranno provare la simulazione della convenzione.
Il criterio identificativo dei crediti che hanno diritto a soddisfarsi sul fondo va ricercato nella
relazione tra la fonte dell'obbligazione che fa nascere il credito e i bisogni della famiglia:
secondo questo criterio possono essere soddisfatte dal fondo anche le obbligazioni scaturenti da
illecito.
Rispetto alla pubblicità, prima della riforma l'art. 2647 c.c. prevedeva l'inopponibilità a terzi
della costituzione del fondo in caso di mancata trascrizione. Ora non è più previsto e si ritiene

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quindi che il legislatore abbia voluto attribuire alla trascrizione solo una funzionalità di
pubblicità notizia, lasciando alla sola annotazione la funzione dichiarativa.
I beni futuri non sono donabili, ma la costituzione del fondo non è una vera e propria donazione,
per cui la dottrina preferisce, in mancanza di specifico divieto, ammettere la negoziabilità dei
beni futuri e quindi la loro ammissibilità nei fondi.
II vincolo di destinazione può riguardare la proprietà ma anche altri diritti reali di godimento
(usufrutto, superficie, enfiteusi), mentre sono da escludere il diritto d'uso e di abitazione visto
che sono inalienabili. L'alienazione dell'unico bene costituente il fondo è negata in assenza di
un'evidente utilità per la famiglia, mentre l'ammissione di un nuovo bene al fondo può
ammettersi solo a condizione che il giudice lo consideri utile.
9. Il patto di famiglia
La legge 14 febbraio 2006, n. 55, ha introdotto l'istituto del cd. patto di famiglia, con l'obiettivo
di fornire strumenti adeguati a gestire il passaggio generazionale dell'impresa di famiglia (intesa
in senso ampio ed atecnico, quindi non quale impresa familiare ai sensi dell'art. 230 bis c.c.).
L'esperienza aveva da tempo evidenziato come - a seguito della morte dell'imprenditore - la
prosecuzione dell'attività imprenditoriale risultasse spesso pregiudicata dalla caduta dell'azienda
nella comunione ereditaria; ed anche che il trasferimento dell'impresa in favore di un familiare
prescelto per divenirne titolare fosse difficilmente attuabile durante la vita dell'imprenditore,
data la possibilità che gli atti dispositivi da lui compiuti fossero aggrediti dai legittimari con
l'azione di riduzione dopo l'apertura della successione.
Per superare tali ostacoli il nuovo istituto prevede e regola il contratto con cui l'imprenditore
trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, oppure il titolare di partecipazioni societarie trasferisce,
in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti. Il contratto che deve avvenire per
atto pubblico, richiede la manifestazione di volontà dell'imprenditore, del beneficiario del patto
di famiglia, del coniuge e di tutti coloro che sarebbero legittimari se la successione venisse
aperta in quel momento.
Il patto di famiglia produce sia effetti reali consistenti nel trasferimento dell'azienda o delle
partecipazioni societarie al familiare assegnatario, e sia effetti obbligatori: l'assegnatario o gli
assegnatari devono liquidare i legittimari non assegnatari versando una somma, o in natura
mediante il trasferimento di beni, pari al valore delle quote di riserva (cioè quanto sarebbe la loro
quota di legittima in caso di successione).
Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione, per cui se l'imprenditore
non provvede successivamente con donazione o testamento, l'assegnatario riceve
complessivamente più di quanto ricevono gli altri legittimari, in quanto questi hanno ricevuto un
importo corrispondente al valore della sola quota di riserva sull'azienda.
Il trasferimento dei beni oggetto della liquidazione della quota di riserva può avvenire anche con
un successivo contratto, che faccia esplicito riferimento al primo e, al quale partecipino gli stessi

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soggetti partecipanti al primo o i loro aventi causa.
Il patto può essere sciolto attraverso la conclusione di un nuovo patto o per recesso, se previsto
espressamente dal contratto. La previsione del diritto di recesso può essere lo strumento adatto
per
consentire all'imprenditore di tornare titolare dell'azienda qualora il discendente assegnatario non
gestisca bene l'impresa.
Il legislatore tutela anche i legittimari che al tempo del patto di famiglia non esistevano o non
erano tali, sancendo il diritto di questi di ricevere al momento dell'apertura della successione, da
parte di tutti i partecipanti al patto, una somma pari alla propria quota sul valore dell'azienda
indicato nel patto.
L'istituto è raramente applicato.
5° LA CRISI CONIUGALE
1. Premessa
L'ordinamento, quando la prosecuzione della convivenza sia divenuta intollerabile, disciplina la
separazione che comporta l'attenuazione di determinati obblighi derivanti dal vincolo; invece,
quando il conflitto appare insanabile e la comunione di vita viene meno, l'art 149 c.c. regola lo
scioglimento del matrimonio.
Il divorzio venne introdotto nell'ordinamento con la legge 898/1970 modificata poi nel 1987. In
passato, la separazione rappresentava l'unico rimedio al conflitto coniugale, consentiva ai
coniugi di non coabitare ed aveva carattere temporaneo, poiché i suoi effetti potevano cessare in
qualsiasi momento. Con l'introduzione del divorzio, il quadro normativo è radicalmente mutato,
in quanto il protrarsi della vita separata per oltre 3 anni legittima ciascun coniuge ad agire per lo
scioglimento del matrimonio. La separazione è l'anticamera del divorzio.
La separazione LEGALE può essere GIUDIZIALE o CONSENSUALE, a seconda che trovi la
sua fonte in una sentenza emessa al termine di un giudizio contenzioso, o nel consenso dei
coniugi contenuto in un atto sottoposto ad omologazione giudiziale. In caso di separazione
giudiziale, il giudice, se richiesto, può emettere dichiarazione di addebito.
Negli anni recenti si è sviluppato un forte interesse per le procedure di mediazione familiare, che
hanno lo scopo di consentire una gestione non litigiosa dei problemi conseguenti al venir meno
della comunione tra i coniugi, con particolare riferimento all'affidamento dei figli. Si tratta
quindi di convincere i contendenti a rinunciare ad affrontarsi Pun l'altro in cerca di una vittoria
giudiziale in termini patrimoniali (assegno di mantenimento) o personali (affidamento dei figli),
la mediazione è nata per offrire un'alternativa alla lotta per la vittoria.
A livello internazionale il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha ribadito la necessità
di introdurre o promuovere la mediazione familiare. Quale strumento di prevenzione o
risoluzione dei conflitti familiari essa risulta fortemente raccomandata anche dalla Convenzione
europea di Strasburgo sui diritti del fanciullo del 1996, ratificata con legge del 2003.

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L'attuale normativa riconosce al giudice la possibilità, quando ne sorga la necessità, di farsi
assistere da esperti in una determinata arte o professione, o in generale da persona idonea al
compimento di atti che egli non è in grado di compiere personalmente. L'art. 4 della 1. n. 285/97
prevede l'intenzione di riqualificare le strutture a sostegno della famiglia, come i consultori
familiari, recuperandoli al ruolo primario di servizio sociale e psicologico a sostegno della
famiglia e dei minori in generale.
2. La separazione consensuale
La separazione consensuale presuppone l'accordo dei coniugi di vivere separati e sulla
regolamentazione dei rapporti reciproci e di quelli con i figli. Il codice stabilisce che il diritto di
chiedere l'omologazione della separazione spetta solo ai coniugi; è un diritto personalissimo,
irrinunciabile e indisponibile, e vengono considerate nulle tutte le eventuali pattuizioni
preventive sul tipo di separazione.
L'art 158 c.c. stabilisce che la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza
l'omologazione del tribunale; il giudice, infatti, esercita un controllo di legalità sugli accordi dei
coniugi, ed ha il potere di rifiutare l'omologazione quando le decisioni in ordine all'affidamento
ed al mantenimento dei figli siano in contrasto con l'interesse di costoro. L'omologazione può
essere negata quando le decisioni relative ai coniugi siano lesive di principi fondamentali, quali
il buon costume o l'ordine pubblico. Il tribunale non può integrare o modificare l'accordo dei
coniugi. La dottrina estende il controllo giudiziale al contenuto dei singoli aspetti dell'accordo
concernenti i rapporti tra i coniugi, per vedere se hanno disposto di diritti indisponibili. È quindi
un controllo di legittimità, il giudice non potrà suggerire le modifiche opportune, ma può solo
rifiutare l'omologazione indicando i motivi del rifiuto. La separazione consensuale concilia
l'autonomia dei coniugi con l'esigenza di controllo pubblico a tutela dell'interesse preminente dei
figli o al fine di evitare approfittamenti in danno del coniuge debole. L'accordo di separazione
una volta omologato non può essere impugnato per simulazione, la giurisprudenza ritiene
ammissibile l'azione di annullamento dell'accordo di separazione, ancorché sia intervenuta
l'omologazione. Se si riconosce all'omologazione efficacia costitutiva, considerando l'accordo un
mero presupposto, si riterrà revocabile il consenso fino all'omologazione stessa. La dottrina
individua nell'accordo di separazione:
un contenuto NECESSARIO: la decisione di vivere separati e le pattuizioni che riguardano il
mantenimento del coniuge e dei figli;
un contenuto EVENTUALE: determinazioni di contenuto assai vario.
Va negata l'applicabilità della disciplina contrattuale al contenuto necessario o tipico
dell'accordo; parte della dottrina e della giurisprudenza la ammettono invece per le clausole che
eventualmente disciplinano l'assetto dei rapporti patrimoniali tra coniugi.
L'accordo di separazione unitariamente inteso finisce col diventare una sorta di contenitore,
composto di negozi autonomi ma tra loro collegato dalla circostanza puramente formale di

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essere inseriti in un unico verbale.
In caso di trasferimenti immobiliari ci sono problemi interpretativi dal punto di vista
dell'ammissibilità, della giustificazione causale e dell'opponibilità. Prevale l'orientamento
secondo cui essi costituiscono negozi atipici che perseguono un interesse meritevole di tutela.
Essi possono trovare la loro giustificazione in una causa familiare atipica.
Relativamente ali'opponibilità ai terzi dell'accordo traslativo concluso in sede di separazione, la
Cassazione ha affermato che esso, in quanto inserito nel verbale di udienza, ha natura di atto
pubblico e costituisce pertanto titolo idoneo per la trascrizione.
Sono accordi non omologati le pattuizioni precedenti o successive alla separazione senza il
controllo del giudice.
Una parte della dottrina ammette una piena autonomia dei coniugi nella stipulazione di accordi
non sottoposto all'omologazione. Il problema è quello della diversa funzione che l'omologazione
svolge in riferimento alle pattuizioni che disciplinano i rapporti fra i coniugi ed a quelle relative
invece all'obbligo di mantenimento dei figli; queste ultime sono inefficaci in mancanza di
omologazione, in quanto si affida al giudice un controllo sulla loro rispondenza all'interesse dei
figli, che sarebbe vanificato se in seguito i coniugi potessero modificarle.
Il discorso cambia invece quando gli accordi sono destinati a regolare esclusivamente i rapporti
tra coniugi, ed a seconda che siano pattuiti successivamente all'omologazione o precedentemente
ad essa ma non sottoposti al vaglio del tribunale. La dicotomia fra accordi non omologati
precedenti e successivi alla separazione emerge da un orientamento della Cassazione ormai
consolidato, secondo cui:
Mentre i primi sono operanti solo se si collocano in posizione di non interferenza rispetto
all'accordo di separazione omologato, ovvero in una posizione di conclamata e incontestabile
rispondenza rispetto all'interesse tutelato, come per l'assegno di mantenimento concordato in
misura superiore a quella sottoposta ad omologazione; I secondi trovando fondamento nell'art
1322 c.c., devono ritenersi validi ed efficaci quando non varchino il limite di derogabilità
consentito dall'art 160 c.c.
3. La separazione giudiziale
La separazione giudiziale ha subito, con la riforma del '75, profonde modificazioni; nel
precedente sistema la pronuncia era fondata sulla colpa, riconducibile in generale alla violazione
dei doveri derivanti dal matrimonio, e il diritto di chiederla era attribuito ai coniugi «nei soli casi
determinati dalla legge».
Solo il coniuge incolpevole poteva domandare la separazione facendo valere la colpa dell'altro;
nessuna pronunzia era possibile in assenza di colpa.
In sede di riforma il legislatore eliminò le ipotesi tassative e lo stesso elemento della colpa; di
talché oggi la separazione giudiziale può essere chiesta quando si verifichino, anche
indipendentemente dalla volontà di uno dei coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la

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prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole. Da una
visione sanzionatoria si è passati ad una concezione fondata sul venir meno del principio
dell'accordo (artt. 143-144 c.c.). Venuto meno il consenso e quindi Taffectio coniugalis', può
ottenersi una pronuncia di separazione. Risulta di conseguenza consentita la domanda anche da
parte dello stesso coniuge che abbia posto in essere i fatti causa dell'intollerabilità della
prosecuzione della convivenza o che abbiano recato grave pregiudizio all'educazione della prole.
Uno dei presupposti che legittimano il giudice a pronunciare la separazione dei coniugi viene
individuato genericamente nei «fatti che rendono intollerabile la prosecuzione della convivenza»
(art. 151 c.c.).
La norma non richiede più il verificarsi di fatti tipici volontariamente posti in essere, né
necessariamente individua la giusta causa di separazione nella violazione imputabile di doveri
nascenti dal matrimonio.
La norma ha riguardo essenzialmente a situazioni di oggettiva difficoltà di attuazione della
convivenza coniugale, qualunque possa esserne la causa, ma tali da rendere intollerabile, sotto il
profilo soggettivo, la sua prosecuzione per uno o entrambi i coniugi.
L'altro presupposto indicato dal legislatore quale fondamento della domanda di separazione
giudiziale riguarda i fatti tali da arrecare pregiudizio all'educazione della prole. In quest'ambito
non si registrano pronunce.
Il comportamento colpevole del coniuge acquista peraltro rilevanza ai fini della dichiarazione di
addebitabilità. Stabilisce, infatti, l'art. 1512 c.c. che, nel pronunciare la separazione, il giudice
dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei due coniugi essa sia
addebitabile, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che nascono dal
matrimonio.
In quanto conseguenza della violazione dei doveri che nascono dal matrimonio, la pronuncia di
addebito conserva, nella disciplina vigente, quella funzione sanzionatoria che in passato era
assegnata alla colpa.
Affinché venga pronunciato l'addebito, non è sufficiente il verificarsi di una condotta che violi i
doveri matrimoniali, risultando necessario anche l'accertamento della colpevolezza del coniuge
ed il nesso causale tra la sua condotta e l'evento dell'intollerabilità della convivenza, cosicché
non ogni violazione dei doveri matrimoniali sarà rilevante, ma soltanto quella che abbia
determinato l'intollerabilità della convivenza.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, la violazione del reciproco dovere di fedeltà non
legittima di per sé la pronuncia di una separazione con addebito a carico del coniuge adultero,
che potrà aversi solo qualora l'infedeltà abbia reso intollerabile la prosecuzione della convivenza
o recato grave pregiudizio all'educazione della prole; pertanto il giudice deve controllare
l'oggettivo verificarsi di tali conseguenze, tenuto conto delle modalità e frequenza dei fatti, del
tipo di ambiente in cui si sono verificati e della sensibilità morale dei soggetti interessati;
secondo i giudici, deve trattarsi di violazione particolarmente grave e ripetuta, che dia causa
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all'intollerabilità della convivenza o che, in generale, integri un comportamento gravemente
offensivo dell'onore e del decoro dell'altro coniuge. Sotto quest'ultimo profilo, costituiscono
violazione del dovere di fedeltà, anche gli insistenti approcci amorosi di un coniuge nei confronti
di un terzo, pur non concretatisi in una relazione (corteggiamento esplicito).
Violazione dell'obbligo di assistenza è stato ravvisato dai giudici nel comportamento del coniuge
freddo, scostante, privo di ogni manifestazione di affetto; anche il comportamento ingiurioso e
violento, se si traduce in una situazione patologica tale da creare distacco ed estraneità tra i
coniugi, rendendo intollerabile la prosecuzione della convivenza, si considera rilevante ai fini
dell'addebito; ancora, costituisce violazione del dovere di assistenza morale l'ostacolare i
rapporti del coniuge con la famiglia d'origine, impedendo le visite o condizionandole alla propria
approvazione, o imporre divieti che finiscano con il costituire gravi offese alla dignità dell'altro
coniuge e arbitrarie lesioni del diritto di determinarsi liberamente per quanto attiene alla cura
della propria persona; infine, anche chi, non accettando la sterilità dell'altro coniuge, che pure si
sia prestato a defatiganti terapie, chiede la separazione con addebito finisce per sottrarsi, secondo
un'interpretazione giurisprudenziale, al dovere di assistenza morale, che deve intendersi, in
quest'accezione, quale dovere di accettare la persona che si è liberamente scelta per quello che è.
Ancora discusso è se integri violazione del dovere di assistenza morale il rifiuto del cd. debito
coniugale, vale a dire l'ingiustificato diniego di rapporti sessuali; se in passato esso costituiva
un'ipotesi d'ingiuria grave (addirittura fonte di responsabilità penale), oggi risulta preminente la
necessità di garantire la dignità ed il rispetto della personalità del coniuge che, pertanto, non può
essere privato nei confronti dell'altro della facoltà di disporre del proprio corpo, mantenendo la
propria libertà di rifiutare rapporti sessuali.
Ci si è chiesti poi se rappresenti ipotesi di violazione dell'obbligo di assistenza morale l'istanza
di separazione avanzata da uno dei coniugi a causa della grave infermità mentale dell'altro,
invocata come causa determinante dell'impossibilità della convivenza. Il punto è, però, quello di
stabilire se la richiesta di separazione rappresenti violazione dell'obbligo di assistenza e, quindi,
legittimi una pronunzia di addebito. Secondo la giurisprudenza più recente, l'addebito non può
fondarsi sulla mera inosservanza dei doveri che l'art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi, ma, ai
fini dell'addebito, è necessario valutare se la condotta del coniuge si sostanzi in un mero rifiuto
dell'impegno solidaristico o non costituisca piuttosto una presa di coscienza di una non
superabile e già maturata situazione d'impossibilità della convivenza, perché solo nel primo caso
il comportamento posto in essere può integrare una condotta violatrice dell'obbligo di assistenza
morale e costituire il presupposto per l'addebito.
Il contrasto tra coniugi riguardo al mutamento di fede religiosa di uno dei coniugi, che ponga in
crisi il matrimonio, non può avere rilevanza come motivo di addebito, in quanto si ricollega
all'esercizio di diritti costituzionalmente garantiti (art. 19 Cost.). L'addebito potrebbe aversi nel
caso in cui l'esercizio della fede religiosa superi i limiti di compatibilità con i concorrenti doveri
di coniuge per le modalità del comportamento adottate, o qualora il coniuge volesse imporre la
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nuova religione o il proprio pensiero in modo da prevaricare l'altro.
Per quanto attiene alla violazione del dovere di coabitazione, l'art. 146 c.c. dà rilievo, invece, alla
giusta causa dell'allontanamento. È stato, ad es., ritenuto giustificato l'abbandono della casa
familiare in presenza di una situazione di tensione fra i coniugi cagionata da una suocera
eccessivamente invadente; altresì non è stata ravvisata violazione del dovere di coabitazione
nella mancata convivenza tra i coniugi, scaturente da un accordo con il quale gli stessi si erano
adeguati ad una situazione imposta dalle proprie scelte professionali; diversamente, quando
l'abbandono della residenza familiare è conseguente all'instaurazione di una relazione
extraconiugale.
4. L'allontanamento dalla residenza familiare e la separazione di fatto
I coniugi, oltre che attraverso un provvedimento giudiziale, possono porre di fatto fine alla
convivenza coniugale senza far ricorso al giudice, dando comunque vita a situazioni rilevanti per
l'ordinamento giuridico.
La separazione di fatto si ha quando, indipendentemente da una richiesta giudiziale le parti
decidano di separarsi senza alcuna formalità, di comune accordo o con la tolleranza di uno dei
coniugi.
Deve trattarsi di una stabile interruzione della convivenza, perché altrimenti si potrebbe integrare
la fattispecie di allontanamento ingiustificato dalla casa familiare e, almeno da parte della
giurisprudenza (ma anche della dottrina, pur se non unanime), si richiede vi sia lanimus
derelinquendi', ossia la volontà di almeno uno dei due coniugi di interrompere la convivenza
(con la tolleranza dell'altro).
Quanto agli effetti, la separazione di fatto non comporta, al contrario della separazione di
'diritto', il venire meno degli obblighi matrimoniali, anche se ha limitati riflessi giuridici.
A seguito della separazione di fatto non viene meno il diritto all'assistenza e nemmeno l'obbligo
di fedeltà e pertanto la fattispecie si distingue da quella descritta dall'art. 146 c.c. (ingiustificato
abbandono della residenza coniugale); mentre secondo alcuni ciò che caratterizza la separazione
di fatto è la sussistenza dell'accordo o almeno la tolleranza dell'altro coniuge, secondo altri autori
la distinzione si basa sull'elemento temporale; la separazione si protrae nel tempo, a differenza
dell'allontanamento che è una situazione solo temporanea.
5. Lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio
L'art. 149 c.c. stabilisce che lo scioglimento del matrimonio può avvenire per morte di uno dei
coniugi e negli altri casi previsti dalla legge; la disposizione va coordinata con la disciplina
contenuta nella legge n. 898/1970, che ha introdotto nel nostro ordinamento altre cause di
scioglimento del matrimonio, cioè, anche se il legislatore non usa mai il termine, di divorzio. È
opportuno premettere che separazione e divorzio operano nel nostro ordinamento come rimedi
alla crisi del rapporto matrimoniale con funzioni che rimangono tuttora diverse; la prima, che
determina la sola attenuazione del vincolo coniugale, identifica una situazione di crisi familiare

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che può alternativamente sfociare nella ripresa della convivenza o nel suo definitivo venir meno.
Il secondo, invece, comporta lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili
del matrimonio concordatario e la perdita dello status di coniuge. In entrambi i casi si tratta di
rimedi destinati ad incidere sul matrimonio come rapporto. Diversamente, invece, la nullità, la
quale estingue il vincolo coniugale per un vizio genetico che ne determina l'invalidità. Secondo
il disposto degli artt. 1 e 2 della 1. n. 898/1970, il giudice pronuncia lo scioglimento del
matrimonio civile ovvero la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario quando
accerta che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o
ricostituita per l'esistenza di una delle cause previste nel successivo art. 3.
La sussistenza di una delle ipotesi elencate nell'art. 3, che si ritengono tassative, non determina
automaticamente l'estinzione del vincolo coniugale, risultando a ciò necessario che il tribunale
preliminarmente valuti l'irreversibilità della crisi coniugale. La norma in esame sembra, infatti,
imporre un duplice accertamento, relativo da un lato all'effettiva cessazione della comunione
morale e materiale e, dall'altro, all'esistenza di una delle cause elencate nell'art. 3,1. n. 898/1970.
La separazione legale costituisce la causa statisticamente più frequente di scioglimento del
matrimonio. L'art. 3, n. 2, lett. b) stabilisce che il divorzio può essere domandato da uno dei
coniugi quando sia stata pronunciata, con sentenza passata in giudicato, la separazione
giudiziale, ovvero sia stata omologata la separazione consensuale.
Affinché sia pronunciata la sentenza di divorzio è inoltre necessario che il giudice accerti che la
separazione si sia protratta ininterrottamente da almeno un triennio. In concreto ciò significa che
i coniugi che intendono sciogliere il loro matrimonio sono tenuti ad intraprendere due separati
giudizi, prima quello di separazione e successivamente quello di divorzio. Si tratta di un inter
spesso assai lungo ed oneroso.
Sicché, perché possa essere pronunciato lo scioglimento del matrimonio, risulterà necessaria la
duplice condizione del passaggio in giudicato della sentenza di separazione (ovvero
l'omologazione della separazione consensuale) ed il decorso di tre anni dalla comparizione dei
coniugi avanti il presidente in sede di separazione.
L'art. 3, n. 1,1. n. 898/1970 raggruppa una serie d'ipotesi che, in ragione della condanna di uno
dei coniugi in sede penale, legittimano la domanda di divorzio dell'altro. Qui la causa dello
scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio si giustifica, o per l'eccessiva
lunghezza della pena detentiva alla quale uno dei coniugi è stato condannato, o per il particolare
disvalore del reato commesso, situazioni entrambe che rendono di per sé molto difficile il
mantenimento o la ricostituzione del consorzio familiare; tant'è che solo il coniuge non
condannato è legittimato a domandare il divorzio e la sua legittimazione è esclusa qualora sia
stato condannato per concorso nel medesimo reato.
Condizione comune alle diverse ipotesi è che la condanna sia avvenuta dopo la celebrazione del
matrimonio e che la sentenza sia passata in giudicato prima della proposizione della domanda di
divorzio. Non è richiesto invece che il reato si riferisca a fatti commessi durante il matrimonio,
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potendo riguardare anche avvenimenti precedenti alla sua celebrazione, purché, in quest'ultimo
caso, il coniuge non colpevole ne ignorasse l'esistenza al momento del matrimonio. Sono dunque
causa di scioglimento del matrimonio le condanne:
a) all'ergastolo ovvero ad una pena superiore a 15 anni, anche con più sentenze, per uno o più
delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore
morale e sociale;
b) a qualsiasi pena detentiva per i delitti come:
- incesto;
- violenza carnale;
- atti di libidine;
- ratto a fine di libidine;
- ratto di persona minore di anni 14 o inferma, a fine di libidine o di matrimonio;
- per induzione;
- costrizione;
- sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione.
e) a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del
coniuge o di un figlio;
d) a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di lesione personale; di
violazione degli obblighi di assistenza familiare; di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli;
di circonvenzione di persone incapaci, in danno del coniuge o di un figlio.
Nel rispetto del principio dell'eguaglianza giuridica fra coniugi, di cui uno sia straniero, la
circostanza che quest'ultimo ottenga all'estero sentenza di annullamento o scioglimento del
matrimonio o ancora contragga un nuovo matrimonio, legittima il coniuge italiano a proporre
domanda di divorzio.
Il matrimonio non consumato è una causa di scioglimento riconducibile alla tradizione canonica,
che risponde all'esigenza del legislatore di armonizzare la disciplina del matrimonio civile con
quello concordatario. A differenza di quanto accade nell'ordinamento canonico, tuttavia, la
mancata consumazione non incide sulla validità del matrimonio come atto, ma è solo causa del
suo scioglimento.
Il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca lo
scioglimento o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio
celebrato con rito religioso.
6° - GLI EFFETTI DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO
1. Gli effetti personali e patrimoniali della separazione
La legge, nel disciplinare gli effetti della separazione giudiziale fra i coniugi, si riferisce
esclusivamente ai rapporti patrimoniali, ed in particolare al mantenimento ed alla
somministrazione degli alimenti (art. 156 c.c.).

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La pronuncia di separazione personale dei coniugi, non determinando la cessazione del vincolo
coniugale, comporta, infatti, la persistenza dei doveri di solidarietà economica che derivano dal
matrimonio, anche se il loro contenuto risulta modificato dal venir meno della convivenza
familiare; all'obbligo reciproco dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia, in
proporzione alle proprie sostanze ed alla capacità di lavoro professionale e casalingo, si
sostituisce l'obbligo di mantenimento a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la
separazione, qualora lo stesso non abbia adeguati redditi propri.
Venuto meno, con la separazione, il dovere di collaborazione nell'interesse della famiglia, il
dovere di contribuzione si trasforma, nei confronti del coniuge economicamente più debole, in
quello di corrispondergli un assegno al mantenimento. Infatti, l'art. 156 c.c., dispone che «il
giudice stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di
ricevere dall'altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento, qualora non abbia adeguati
redditi propri. L'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze ed ai
redditi
dell'obbligato». Le condizioni alle quali è subordinato il diritto al mantenimento ed il suo
concreto ammontare consistono nella sussistenza di una disparità economica fra i due coniugi.
Il difetto di redditi "adeguati" non vada inteso come stato di bisogno, bensì come mancanza di
redditi sufficienti ad assicurare al coniuge il tenore di vita goduto durante il matrimonio.
La Cassazione ha affermato il principio secondo cui il tenore di vita al quale rapportare il
giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del richiedente sia quello offerto dalle
potenzialità economiche dell'altro coniuge e non quello più modesto eventualmente tollerato,
subito o concordato in costanza di matrimonio.
Il mantenimento quindi si basa sul reddito potenziale e non su quello effettivamente goduto
durante il matrimonio.
Nella base di calcolo del reddito rientrano tutti i beni posseduti suscettibili di valutazione
economica.
Nel valutare i bisogni del coniuge economicamente debole ed il reddito di quello forte, occorre
considerare anche profili non economici, quali l'età, la salute e soprattutto la capacità di lavoro,
vale a dire l'attitudine del coniuge di provvedere al proprio mantenimento, svolgendo un lavoro
adeguato alle proprie capacità professionali.
L'obbligo di mantenimento non sussiste non solo quando il coniuge abbia redditi adeguati, ma
anche nell'ipotesi in cui possa procurarseli. L'attitudine al lavoro deve essere riscontrata in
termini
non meramente astratti ed ipotetici, ma tenendo conto di ogni fattore, soggettivo o oggettivo.
Anche elargizioni continuative e protratte nel tempo, ricevute da parenti o dal convivente more
uxorio, concorrendo a formare il reddito, debbono essere valutate ai fini della concreta
determinazione dell'assegno di mantenimento. Al riguardo la giurisprudenza ha, infatti, ritenuto
concorrere alla determinazione del reddito adeguato ogni utilità suscettibile di valutazione
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economica, facendovi rientrare quindi anche gli aiuti forniti da genitori e parenti e convivente,
aventi carattere di continuità. Così come la prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di
un convivente more uxorio, quando di fatto esclude o riduce lo stato di bisogno del coniuge
separato, rileva in ordine all'assistenza del diritto all'assegno di mantenimento ed alla sua
concreta
determinazione.
Il coniuge cui è addebitata la separazione perde il diritto al mantenimento e conserva, ma solo
qualora versi in stato di bisogno, quello agli alimenti.
Quindi, il 'mantenimento' riguarda le prestazioni di tutto quanto risulti necessario alla
conservazione del tenore di vita goduto, mentre, la prestazione degli alimenti può aversi solo
quando si ravvisi uno stato di totale assenza di mezzi di sostentamento, unitamente,
all'impossibilità di trovare un adeguato lavoro con riferimento alle attitudini, condizioni fisiche,
età e posizione
sociale dell'alimentando. L'espressione 'alimenti' ricomprende, oltre al vitto, quanto necessario
per l'alloggio, il vestiario, le cure della persona, l'istruzione scolastica ecc.
Il coniuge al quale è stata addebitata la separazione perde i diritti successori inerenti allo stato
matrimoniale; costui ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio commisurato alle sostanze
ereditarie, alla qualità ed al numero degli eredi legittimi, a condizione che al tempo dell'apertura
della successione godesse degli alimenti a carico del defunto.
2. La riconciliazione
La riconciliazione è l'accordo fra i coniugi diretto ad impedire o a far cessare il sorgere dello
stato di separazione. Gli artt. 154 e 157 c.c., che disciplinano l'istituto, distinguono
rispettivamente, tra riconciliazione che si verifica in pendenza del processo di separazione
coniugale (art. 154 c.c.) e riconciliazione successiva all'emanazione della sentenza di
separazione giudiziale o all'omologazione di quella consensuale (art. 157). Gli effetti della
separazione possono essere fatti cessare con un'espressa dichiarazione dei coniugi che può essere
orale e scritta, per scrittura privata o per atto pubblico, o ancora, se in corso di causa, inserita nel
verbale sottoscritto dal presidente del tribunale, oppure con un comportamento non equivoco
incompatibile con lo stato di separazione. Presupposto essenziale della riconciliazione è
l'intenzione inequivoca dei coniugi di porre fine allo stato di separazione, ristabilendo fra essi la
comunione materiale e spirituale; non è più necessario invece il requisito della coabitazione.
L'art. 154 c.c. stabilisce che la riconciliazione comporta l'abbandono della domanda di
separazione già proposta, mentre l'art. 1572, ce prevede che «la separazione può essere
pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la
riconciliazione». Il tenore letterale delle due disposizioni conduce alcuni autori a ritenere che gli
effetti prodotti dalla riconciliazione avvenuta in corso di causa siano differenti da quelli della
riconciliazione verificatasi dopo la conclusione del procedimento; infatti, in quest'ultimo caso,

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essa toglie ogni valore ai comportamenti tenuti dai coniugi nel periodo precedente, che non
possono più essere valutati al fine di ottenere una nuova pronunzia, di modo che una successiva
richiesta di separazione dovrà fondarsi su eventi accaduti successivamente alla riconciliazione
stessa. Nel primo caso, invece, la riconciliazione avrebbe effetti meramente processuali,
comportando sì l'abbandono della domanda giudiziale già proposta, ma non l'estinzione del
diritto di chiedere nuovamente la separazione invocando le medesime ragioni fatte valere in
precedenza. Di diverso avviso è invece quell'orientamento secondo cui, poiché la riconciliazione
risulta costituita sia dal perdono delle colpe precedenti, che dal completo ripristino della
convivenza coniugale, ne deriva in ogni caso che i fatti anteriori noti ai coniugi devono reputarsi
da essi tollerati nel momento in cui avviene la
riconciliazione, sicché non possano più essere invocati come causa d'intollerabilità della
prosecuzione della convivenza. La giurisprudenza precisa che i contrasti intervenuti prima della
riconciliazione possano essere rilevanti solo al fine di chiarire la portata di quelli avvenuti
successivamente alla stessa.
Altri effetti riguardano il regime di comunione legale, cioè se la riconciliazione avvenuta
successivamente alla pronuncia di separazione sia di per sé idonea a ricostituire
automaticamente il regime di comunione legale o se sia invece necessaria, a tal fine, la
stipulazione da parte dei coniugi di un'apposita convenzione.
3. Gli effetti personali del divorzio
Principale effetto del divorzio è il riacquisto per ciascun coniuge della libertà di stato. Il
passaggio in giudicato della sentenza di divorzio e la sua annotazione nei registri dello stato
civile consentono, infatti, ad entrambi di contrarre nuovo matrimonio, fatto salvo il divieto
temporaneo di nozze per la donna previsto nell'art. 89 c.c. (300 gg. Tempo legale della
gravidanza), che però non opera se il divorzio viene pronunciato a seguito del decorso dei tre
anni ininterrotti di separazione o per inconsumazione del matrimonio.
Il divorzio non produce nessun effetto sulla cittadinanza italiana acquisita a seguito del
matrimonio da parte del coniuge straniero: la legge sulla cittadinanza espressamente stabilisce
che «il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella
italiana e può rinunciare ad essa solo qualora risieda o stabilisca la residenza all'estero».
L'art. 5, 1. n. 898/1970 prevede che la donna perda il diritto all'uso del cognome del marito che
aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio, salvo che non dimostri che il conservarlo
corrisponda ad un apprezzabile interesse proprio o dei figli. Il che, ad es., può accadere quando il
cognome maritale sia divenuto per la donna segno distintivo della sua attività professionale o
artistica. In tal caso, il tribunale, nella medesima sentenza che pronuncia lo scioglimento o la
cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna a mantenerlo. Tale
decisione può però essere modificata con successiva sentenza, per motivi di particolare gravità,
su istanza di una delle due parti.

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Qualora la moglie continui, in assenza di autorizzazione del tribunale, ad utilizzare il cognome
del marito, quest'ultimo potrà esercitare l'azione inibitoria, e chiedere la cessazione del fatto
lesivo, dovendo in questo caso dimostrare, oltre all'uso illegittimo del proprio nome, la
possibilità che da ciò derivi un pregiudizio, anche soltanto potenziale.
4. L'assegno di divorzio
La cessazione del matrimonio, se da un lato comporta il venir meno della condizione coniugale,
dall'altro, al verificarsi di determinati presupposti, determina il sorgere di obblighi di carattere
patrimoniale di un coniuge nei confronti dell'altro.
Nei diversi Paesi si è affrontato il problema in modi diversi. L'ordinamento può prevedere forme
di riequilibrio della situazione patrimoniale attraverso l'attribuzione di un assegno di
mantenimento, come avviene da noi, oppure attuando l'equa distribuzione dei beni acquistati
anche separatamente dagli sposi durante il matrimonio. Questa è la via seguita negli USA.
L'attribuzione della proprietà nella generalità dei casi consente di evitare - di preferenza e ove
possibile - la previsione di un assegno di divorzio, in modo tale da realizzare un taglio netto e
definitivo tra gli ex coniugi (ed. clean break). Anche in Inghilterra la filosofia del clean break si
è imposta, ancorché con i correttivi necessari a tutela del coniuge che si è dedicato alla cura dei
figli, da attuarsi attraverso l'attribuzione di beni, o, in alcuni casi, di un assegno di
mantenimento.
Occorre tenere conto, tuttavia, che con frequenza sempre maggiore ricorrono casi in cui i
sacrifici dei coniugi durante gli anni del matrimonio non portano alla formazione di un
patrimonio inteso in senso tradizionale, ossia composto da beni mobili o immobili, quanto,
piuttosto, alla maturazione di elevate capacità di reddito per uno di essi. Proprio questa
consapevolezza ha condotto, sia nel diritto inglese che negli Stati Uniti, ad una 'riscoperta' dello
strumento degli 'assegni periodici', che appaiono particolarmente indicati per operare un'equa
divisione delle capacità di reddito.
Un'altra importante indicazione che emerge sia nel diritto inglese che negli USA è quella
secondo cui il principio dell'equa divisione delle ricchezze della famiglia viene attuato con
modalità differenziate in ragione della durata del matrimonio, dell'impegno che si è dedicato alla
cura della famiglia ed anche di quello che ad essa si dedicherà successivamente al divorzio. Così
nel caso di matrimoni brevi e in cui non siano nati figli, si prevedono pagamenti riabilitativi
temporanei proprio in considerazione del fatto che il termine del matrimonio segna anche il
venir meno della famiglia.
Un'efficace e duratura tutela del coniuge debole viene prevista, invece, sia per le ipotesi in cui al
termine di un matrimonio di lunga durata la dedizione alla vita familiare, pur esaurita o ridotta,
abbia lasciato come conseguenza una perdita permanente di capacità lavorativa, sia in quelle
nelle quali - anche in un matrimonio di breve durata - la presenza di figli in tenera età determini
esigenze di organizzazione della vita familiare destinate a perdurare ben oltre il matrimonio.

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Nel nostro ordinamento l'attribuzione di proprietà, in conseguenza del divorzio, è prevista solo
per i coniugi in comunione dei beni, ovvero a seguito di accordo.
L'effetto patrimoniale più rilevante conseguente alla pronuncia di divorzio è rappresentato quindi
dalla previsione della somministrazione, periodica o 'una tantum', di un assegno a favore del
coniuge economicamente più debole. L'art. 56, 1. n. 898/1970, nel prevedere l'obbligo di
corrispondere un assegno al coniuge che non abbia mezzi adeguati o comunque non possa
procurarseli per ragioni oggettive, indica una serie di criteri che il tribunale deve considerare nel
determinarne la spettanza e l'entità. Essi sono le condizioni dei coniugi, le ragioni della
decisione, il contributo personale ed economico apportato da ciascuno di essi alla conduzione
familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune e del reddito di
entrambi, elementi tutti da valutarsi in rapporto alla durata del matrimonio.
Il presupposto fondamentale per l'erogazione dell'assegno è costituito dallo squilibrio reddituale
tra i coniugi, per effetto del quale uno di essi, privo di mezzi adeguati al proprio mantenimento,
si trovi nell'impossibilità transitoria o permanente di procurarseli. Il legislatore del 1987 ha,
infatti, nettamente privilegiato una funzione "assistenziale" dell'assegno di divorzio, superando
quella concezione "composita" fondata sulla concorrenza dei criteri assistenziale, compensativo
e risarcitorio, che, secondo dottrina e giurisprudenza anteriori alla riforma, erano alla base della
sua attribuzione e commisurazione.
La legge del 1987 collega il diritto all'assegno al solo presupposto dell'inadeguatezza dei mezzi
posseduti dal coniuge che ne richiede la somministrazione e dell'impossibilità di procurarseli per
ragioni oggettive. A tutti gli altri criteri indicati nell'art. 5,1. n. 898/1970, il giudice del divorzio
fa ricorso esclusivamente per la quantificazione, quindi subordinatamente alla valutazione
relativa alla carenza di mezzi adeguati.
Il livello di vita coniugale da considerare come termine di riferimento potrebbe riferirsi, in
determinati casi, non soltanto al tenore che i coniugi hanno concretamente mantenuto nel corso
del matrimonio, ma anche a quello che avrebbero potuto mantenere in base alle loro potenzialità
economiche.
Eventuali miglioramenti della situazione reddituale del coniuge nei cui confronti l'assegno venga
richiesto assumono rilevanza solo se costituiscono sviluppi naturali e prevedibili dell'attività
svolta e/o del tipo di qualificazione professionale e/o della collocazione sociale dell'onerato; non
possono invece assumere rilievo i miglioramenti che scaturiscono da eventi autonomi, non
collegati alla situazione di fatto ed alle aspettative maturate nel corso del matrimonio.
L'obbligo di corresponsione dell'assegno cessa se il coniuge beneficiario passa a nuove nozze,
mentre è discusso l'effetto dell'instaurazione di una convivenza 'more uxorio'.
5. I criteri per la determinazione dell'assegno
I criteri per la determinazione dell'assegno potranno condurre ad una riduzione dell'assegno
stesso se non addirittura, in ipotesi estreme, all'azzeramento.

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Le «ragioni della decisione» si risolvono nelle cause che hanno portato allo scioglimento del
vincolo coniugale, e dunque nelle eventuali responsabilità accertate a carico dell'uno o dell'altro
coniuge. L'indagine peraltro riguarda l'intero periodo della vita coniugale.
Il coniuge al quale viene addebitata la separazione perde il diritto all'assegno di mantenimento;
l'assegno va riconosciuto al coniuge che non dispone di mezzi adeguati a prescindere da
valutazioni del suo comportamento durante il matrimonio e dopo la separazione, detti
comportamenti relativi all'addebito verranno in rilievo solamente al fine di diminuire
l'ammontare dell'assegno, ma non possono determinare la sua esclusione.
Quanto alle «condizioni dei coniugi», si guarda alle condizioni sociali e di salute, l'età, le
consuetudini ed il sistema di vita dipendenti dal matrimonio, il contesto sociale ed ambientale;
tra le condizioni personali rileva anche l'eventuale convivenza 'more uxorio' instaurata
dall'avente diritto all'assegno o dall'obbligato, nonché i contributi che il coniuge divorziato possa
ricevere dalla famiglia d'origine (ma in quest'ultimo caso la posizione non è univoca).
Il criterio del «contributo personale ed economico» dato alla conduzione familiare ed alla
formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, rileva invece sotto il profilo delle
cure dedicate alla persona dell'altro coniuge, alla casa e ai figli, ma anche al lavoro domestico e,
in generale, sotto il profilo economico; la considerazione del «reddito dei coniugi» postula
invece una valutazione in merito ai redditi di entrambi i coniugi, comprensivi dei redditi veri e
propri e delle sostanze, cioè dei cespiti patrimoniali che sono comunque suscettibili di produrre
reddito. L'ultimo criterio elencato dal legislatore è quello della «durata del matrimonio» che
assume il valore di parametro fondamentale, di filtro attraverso cui devono essere esaminati e
considerati tutti gli altri criteri. Detto criterio appare di notevole rilevanza, in quanto consente al
giudice di trattare in maniera differenziata - a parità delle altre condizioni - i rapporti
matrimoniali di breve durata rispetto a quelli che hanno accompagnato la vita dei coniugi.
Nel caso di rapporti di breve durata le decisioni sono tese a ridurre o a eliminare l'assegno, che
apparirebbero del tutto inique in presenza della rottura di un matrimonio di lunga durata.
# L'assegno di mantenimento e l'assegno post-matrimoniale come strumenti per attuare una
equa divisione delle capacità di reddito:
A seguito della crisi e dello scioglimento del matrimonio può accadere che un coniuge si trovi
sensibilmente impoverito non avendo un reddito adeguato a mantenere, nel suo complesso, il
tenore di vita matrimoniale, né essendo capace di produrlo, spesso in dipendenza di scelte
effettuate durante la vita matrimoniale d'intesa con l'altro. In questo contesto può dirsi che la
crisi matrimoniale pesi in modo differente tra gli sposi; ciò pone il problema di garantire, proprio
all'atto della cessazione del rapporto, un'effettiva parità tra loro. Pare, infatti, evidente che il
principio
d'eguaglianza affermato all'art. 29 Cost. esiga necessariamente che i coniugi escano dal
matrimonio in condizioni patrimoniali e reddituali equilibrate e coerenti con le loro comuni

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scelte di vita, tenuto conto delle capacità - anche potenziali - rispettivamente godute all'inizio del
rapporto. Tanto più in un sistema che pretende di parificare i coniugi e il lavoro domestico con
quello extradomestico, è necessario che vi siano norme che garantiscano la parità nel rapporto e
strumenti efficaci per far sì che ogni parte esca dal matrimonio in termini di parità economica.
Nel nostro ordinamento la possibilità di un riequilibrio patrimoniale al momento della rottura del
matrimonio è fortemente compromessa dalla derogabilità del regime legale di comunione; ciò
induce ad affermare che l'assegno di mantenimento e l'assegno di divorzio costituiscano gli unici
strumenti a cui affidare inderogabilmente l'attuazione del principio secondo cui i coniugi devono
lasciare il matrimonio in posizione di uguaglianza.
La funzione di tali assegni è quindi assistenziale-perequativa, cioè di tendere all'equilibrio dei
redditi o quanto meno ridurre le più aspre disuguaglianze, e questo tanto più in quei matrimoni
nei quali dopo molti anni di convivenza vi sia un forte squilibrio tra chi ha potuto coltivare una
professione e chi si sia dedicato principalmente alla famiglia.
6. Caratteristiche dell'assegno: revisione, rivalutazione automatica e liquidazione in
un'unica soluzione
Tanto nel contesto della separazione quanto in quello del divorzio i provvedimenti di natura
economica adottati dal giudice sono sempre soggetti ad eventuali revisioni in considerazione del
sopravvenire di nuove circostanze che incidano significativamente sull'equilibrio dei rapporti tra
i coniugi. Così, con particolare riferimento all'assegno, può aver luogo un incremento della
misura originariamente fissata in ragione delle sopravvenute esigenze del beneficiario o di
significativi incrementi patrimoniali dell'onerato; al contrario, può essere disposta una riduzione
dello stesso o addirittura il suo venir meno in considerazione dei miglioramenti della situazione
economica del beneficiario o del sopravvenuto deterioramento delle condizioni patrimoniali
dell'onerato. L'organo competente per il procedimento di revisione dell'assegno è il tribunale. Il
procedimento ha inizio su domanda di parte; l'onere di dimostrare il ricorrere delle sopravvenute
circostanze di fatto idonee a determinare la modificazione dell'assegno grava sulla parte che
aspiri alla revisione. Il provvedimento di revisione è adottato in camera di consiglio e, ha natura
di decreto motivato, reclamabile alla corte d'appello entro dieci giorni ed impugnabile mediante
ricorso per cassazione. La riforma del 1987 ha introdotto all'art. 57, l'obbligo per il tribunale di
disporre un criterio di adeguamento automatico dell'assegno, «almeno con riferimento agli indici
di svalutazione monetaria», adeguamento che tuttavia, in caso di palese iniquità, può essere
escluso con decisione motivata.
Va peraltro precisato che l'espressione «almeno con riferimento agli indici di svalutazione
monetaria» rappresenta un criterio minimo, ma non esclude la possibilità che il giudice utilizzi
criteri ulteriori qualora la peculiarità della situazione lo imponga, ad es. determinando l'assegno
di divorzio in misura percentuale rispetto al reddito dell'obbligato nell'ipotesi in cui tale reddito
provenga da fonti certe, come sono quelle da lavoro subordinato o da cespiti immobiliari. In

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giurisprudenza si è stabilito, da un lato, che «l'adeguamento automatico dell'assegno deve essere
disposto anche in caso di mancanza di esplicita domanda», tranne nel caso di domanda
congiunta di divorzio, in cui si presume l'intenzione delle parti di sottrarre l'assegno a qualsiasi
meccanismo di adeguamento preventivo.
Per quanto attiene, invece, alle modalità di liquidazione dell'assegno di divorzio, vi sono due
alternative:
- La corresponsione periodica
- La corresponsione in un'unica soluzione. Quest'ultima può avvenire sia mediante il pagamento
di una somma di denaro, sia mediante il trasferimento di diritti reali su beni mobili ed immobili.
È necessario l'accordo fra i coniugi e il giudice effettua un controllo di equità sull'adeguatezza
della corresponsione, soprattutto in quanto, tale modalità di liquidazione dell'assegno preclude al
coniuge beneficiario di avanzare successive richieste di natura economica. La disposizione
sancisce quindi la definitività dell'assetto patrimoniale. L'assegno corrisposto in un'unica
soluzione non è, infatti, suscettibile di revisione ove sopraggiungano motivi che, in astratto, la
giustificherebbero; inoltre, il coniuge beneficiario, accettando tale forma di liquidazione, perde il
diritto alla percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge, nonché al
trattamento pensionistico di reversibilità. Il parametro fondamentale del controllo giudiziale è
costituito dall'idoneità dell'assegno a soddisfare l'esigenza del coniuge beneficiario di disporre di
«mezzi adeguati» per il tempo in cui non possa procurarseli per ragioni oggettive. Per quanto
concerne invece la sua quantificazione, secondo alcuni occorre procedere ad una vera e propria
capitalizzazione dell'assegno periodico, in relazione alla presumibile durata della vita del
beneficiario; altri, invece, estendono l'ambito di autonomia dei coniugi anche al 'quantum' della
prestazione, ritenendo le parti libere di determinarne la misura in piena autonomia. Resta
l'incertezza in merito al tipo di controllo del giudice, se di mera legittimità o anche di merito, con
il conseguente rigetto di un accordo che ritenga palesemente iniquo per il coniuge
economicamente più debole. Parte della dottrina ammette, inoltre, il
versamento degli alimenti per sopravvenuta incapacità di provvedere ai bisogni fondamentali di
vita.
7. Gli accordi tra i coniugi in vista del divorzio
Gli accordi preventivi diretti a regolare l'assetto dei loro futuri rapporti patrimoniali
nell'eventualità del divorzio in Italia non sono ammessi.
La Cassazione ritiene che, sia sottratta alla piena disponibilità delle parti la definizione del diritto
al trattamento economico di divorzio.
La dottrina maggioritaria non concorda con la giurisprudenza ed osserva in primo luogo che gli
accordi preventivi in vista del divorzio non possono essere considerati illeciti. Un eventuale
accordo di carattere patrimoniale, quindi, ha solo lo scopo di abbreviare il procedimento,
anticipando un evento (la pronuncia di scioglimento del matrimonio) che, in presenza delle

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condizioni legali, è comunque inevitabile, cosicché non è possibile parlare di commercio di
status (che avverrebbe, invece, nel caso in cui si firmi un impegno a non divorziare).
Comunque, se anche gli accordi fossero validi, dovrebbe ritenersi che in presenza delle
circostanze di legge al momento della proposta di divorzio il coniuge debole avrebbe comunque
diritto all'assegno indipendentemente da ogni rinuncia preventivamente effettuata in sede di
accordo in vista del divorzio.
I patti in vista dell'annullamento del matrimonio sono ritenuti validi dalla Cassazione in quanto
correlati ad un procedimento dalle forti connotazioni inquisitorie volto comunque ad accertare
l'esistenza di una causa d'invalidità del matrimonio, fuori da ogni potere negoziale di
disposizione dello status.
La possibilità di stipulare accordi volti ad incidere sulle conseguenze patrimoniali del divorzio è
particolarmente valorizzata negli ordinamenti di 'common law'.
Nell'ordinamento inglese gli accordi che i coniugi concludono prima del matrimonio o
nell'imminenza del divorzio non sono vincolanti per il giudice, il quale li deve solamente
prendere in considerazione come uno degli elementi di cui tenere conto per determinare gli
assetti patrimoniali conseguenti al divorzio.
Nell'ordinamento australiano è previsto che possano essere stipulati accordi relativi al
mantenimento ed alla divisione della proprietà.
Le ammissibilità dei cd. 'prenuptial agreements' ha poi una tradizione ancor più consolidata negli
Stati Uniti. Nel 1970 vengono esplicitamente previsti per regolare la divisione della proprietà, il
mantenimento del coniuge debole e quello della prole. Le modalità cambiano da Stato a Stato.
8. Le altre conseguenze di natura patrimoniale: il diritto del coniuge divorziato ad una
percentuale dell'indennità di fine rapporto e alla pensione di reversibilità
L'art. 12 bis della 1. 898/1970 attribuisce al coniuge titolare dell'assegno divorzile che non sia
passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro
coniuge all'atto di cessazione del rapporto di lavoro, anche se l'indennità viene a maturare dopo
la sentenza. Tale percentuale è pari al 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il
rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
La legge sul divorzio disciplina i diritti del superstite sulla pensione di reversibilità in caso di
morte dell'ex coniuge. In assenza di un nuovo coniuge avente i requisiti per la pensione di
reversibilità, si prevede, infatti, che l'ex coniuge, se non passato a nuove nozze, e solo in quanto
titolare di assegno di divorzio, abbia diritto alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto
da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza. Qualora invece vi sia
un coniuge superstite, la pensione di reversibilità e gli altri assegni sono ripartiti fra coniuge
superstite e coniuge divorziato titolare di assegno, in base al criterio della durata dei rispettivi
rapporti matrimoniali. Se poi in tale condizione si trovino più persone, il tribunale provvede a
ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a

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chi sia successivamente deceduto o passato a nuove nozze.
9. Le conseguenze successorie
La pronuncia di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio determina il venir
meno dello status di coniuge e conseguentemente la perdita dei diritti successori ad esso inerenti.
In caso di morte dell'ex coniuge, il tribunale però può riconoscere all'altro, se riversi in stato di
bisogno e non sia passato a nuove nozze, un assegno periodico a carico dell'eredità; detto
assegno deve essere determinato tenendo conto dell'importo di quelle somme, dell'entità del
bisogno, dell'eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della
qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche.
Secondo l'opinione della dottrina si tratterebbe di un diritto successorio attribuito tramite legato
ex lege. L'assegno ha natura assistenziale, dato il presupposto dello stato di bisogno e della
necessaria titolarità dell'assegno di divorzio in capo al beneficiario, ed il suo fondamento è
quella solidarietà postconiugale che giustifica anche l'assegno di divorzio. Esso si estingue
qualora il beneficiario contragga nuovo matrimonio o quando cessi il suo stato di bisogno, salvo,
in quest'ultimo caso, l'eventuale reviviscenza nell'ipotesi che la condizione di bisogno
sopraggiunga nuovamente. L'assegno, infine, non spetta nel caso di liquidazione corrisposta in
un'unica soluzione.
10. Una disciplina omogenea della separazione, del divorzio, della nullità del matrimonio e
della rottura della convivenza con riguardo all'interesse dei figli
L'affidamento dei figli a seguito della rottura della coppia genitoriale è disciplinato dagli artt.
155-155 sexies c.c., nel testo introdotto dalla 1. 8 febbraio 2006, n. 54, che ha completamente
innovato la materia.
Nel sistema previgente l'affidamento dei figli in occasione dei procedimenti di separazione e
divorzio veniva di norma disposto dal giudice in favore dell'uno o dell'altro coniuge, anche se
l'art. 155 c.c. già prevedeva soluzioni alternative.
La legge sul divorzio, dopo la riforma del 1987, contemplava la possibilità di disporre
l'affidamento congiunto e quello alternato, quali possibili variazioni rispetto all'affidamento
monogenitoriale. L'affidamento alternato - in cui il minore viene affidato per periodi di tempo
prefissati a ciascun genitore, il quale in tale periodo esercita in via esclusiva e indipendente
dall'altro la potestà sul figlio - ha sempre suscitato forti critiche, in quanto ritenuto fonte di
un'instabilità di vita tale da compromettere l'equilibrio del minore. Invece, l'affidamento
congiunto si sostanzia nella situazione in cui entrambi i genitori esercitano in comune la potestà
sui figli, i quali vengono quindi mantenuti, istruiti ed educati, in una parola cresciuti, sulla base
di un unico e concorde progetto. Per attuarlo, la giurisprudenza aveva però ritenuto necessarie
alcune condizioni, quali l'accordo dei genitori nel richiederlo, l'assenza di conflittualità fra loro,
la sussistenza di stili di vita omogenei, la vicinanza delle rispettive abitazioni; sono stati proprio
questi rigorosi presupposti che avevano determinato un uso limitato di questa tipologia di

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affidamento, di fatto adottata in una minoranza delle sole separazione consensuali.
Con la legge 8 febbraio 2006, n. 54, il legislatore, sulla scorta degli orientamenti emersi anche in
sede internazionale, ha inteso attuare appieno il diritto del minore ad un rapporto equilibrato e
continuativo con entrambi i genitori, prevedendo la loro partecipazione attiva alla vita del figlio
anche dopo la disgregazione del nucleo familiare. È significativo che i provvedimenti relativi
all'affidamento, in primo luogo a quello condiviso, sono emanati con esclusivo riferimento
all'attuazione del diritto del figlio alla bi genitorialità, poiché la legge non prevede un
corrispondente diritto in capo ai genitori.
In questa prospettiva la legge . 54/2006, in linea con i principi sanciti dalla Convenzione sui
diritti del fanciullo di New York del 1989, interviene con lo scopo di favorire un rapporto
equilibrato con entrambi i genitori anche in caso di dissoluzione della famiglia, per offrire una
tutela uniforme ai figli, a prescindere dalla natura dell'unione tra i genitori e dalle sue possibili
vicende. Le
disposizioni della 1. 54/2006 si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli
effetti civili e di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non
coniugati.
Questa previsione colma una lacuna del sistema, che non contemplava norme per la
regolamentazione della dissoluzione della coppia genitoriale non coniugata, neppure con
riguardo all'affidamento dei figli.
La disposizione rappresenta un notevole passo verso l'equiparazione della famiglia naturale a
quella matrimoniale.
11. L'affidamento condiviso e l'esercizio della potestà genitoriale: presupposti e caratteri
La legge stabilisce che anche in caso di crisi dei genitori il figlio minore abbia il diritto di
mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, ricevere cura, educazione
e istruzione da entrambi, conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di
ciascuno. Per realizzare le finalità sopra indicate, il giudice che pronuncia la separazione
personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento
all'interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori
restino affidati a entrambi i genitori, oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati.
La legge prevede dunque due distinte modalità di affidamento, quello ad entrambi i genitori e
quello ad uno solo di essi; è necessario precisare che affidamento condiviso e affidamento
monogenitoriale non sono posti sullo stesso piano: si vuole, infatti, che il giudice valuti
prioritariamente la possibilità di disporre l'affidamento condiviso e, solo qualora esso sia in
contrasto con l'interesse del minore, opti per quello ad un solo genitore, che ha dunque carattere
residuale.
Ai sensi dell'art. 155 sexies c.c., prima dell'emanazione, anche in via provvisoria, dei
provvedimenti riguardanti i figli, il giudice può assumere, anche d'ufficio, mezzi di prova e

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dispone, inoltre, l'audizione del minore che abbia compiuto gli anni 12 e anche di età inferiore
ove capace di discernimento.
Tale audizione non è un atto dovuto da parte del giudice, ma solo una facoltà che il giudice
attuerà solo quando lo riterrà necessario, in quanto l'audizione può rappresentare un trauma per il
minore e il giudice è quindi chiamato a contemperare l'interesse del minore ad essere ascoltato
con quello che gli venga evitato il grave pregiudizio derivante dal trauma.
Inoltre, il giudice può rinviare l'adozione di provvedimenti riguardanti l'affidamento dei figli per
consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un
accordo, con particolare riferimento alla tutela dell'interesse morale e materiale dei figli.
I caratteri dell'affidamento condiviso non sono esplicitati dal legislatore, che peraltro neppure
identifica quelli dell'affidamento monogenitoriale. L'art. 1552, c.c. - a norma del quale il giudice
valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori,
oppure stabilisce a quale di essi siano affidati, determina i tempi e le modalità della loro
presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura ed il modo con cui ciascuno di essi
deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli - non
consente in alcun modo di individuare in che cosa consista esattamente la differenza tra l'affidare
"a entrambi" oppure "ad uno solo" dei genitori. Certo è che la predetta differenza non può ridursi
ad una diversità meramente quantitativa, in termini di collocazione, residenza, presenza, misura
e modo del mantenimento, ecc.: condizioni e prestazioni, tutte queste, compatibili sia con l'una
che con l'altra modalità di affido, tenuto altresì conto che anche nel caso di affidamento ad un
solo genitore il giudice deve in ogni caso far salvi, per quanto possibile, i diritti del minore.
La locuzione "affidamento condiviso" rimanda ad un'idea di compartecipazione dei genitori nei
compiti di cura e crescita del figlio, ossia, la condivisione tra i coniugi della cura e dei compiti
educativi del figlio. Quindi non una mera dualità della residenza e di parità dei tempi di
permanenza del figlio presso l'uno o l'altro dei genitori, ma una paritaria condivisione del ruolo
genitoriale. L'affidamento condiviso, inteso come ripartito fra i genitori, si differenzia quindi
nettamente da quello congiunto, che vede i genitori esercitare il loro ruolo assieme, cioè a mani
unite. Con l'affidamento condiviso la potestà è in capo ad entrambi i genitori e questo è il segno
più evidente della discontinuità rispetto al passato. L'abrogato art. 155 c.c., infatti, attribuiva al
genitore affidatario, salva diversa disposizione del giudice, l'esercizio esclusivo della potestà sui
figli, mentre soltanto le decisioni di maggiore interesse dovevano essere assunte di comune
accordo. In conseguenza di ciò, al genitore non affidatario, salvo che per questioni di maggiore
interesse, spettava soltanto il diritto di vigilare sulle decisioni assunte dall'altro genitore, potendo
tutt'al più ricorrere al giudice nel caso le avesse ritenute pregiudizievoli all'interesse dei figli.
Oggi il legislatore ha stabilito che l'esercizio della potestà spetta ad entrambi i genitori, cioè, in
linea di principio, tutte le prerogative connesse alla potestà debbono essere esercitate di comune
accordo, tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In
caso di disaccordo, la decisione è rimessa al giudice. Si noti come, a differenza di quanto
70
disposto nell'art. 3163, c.c., qui il giudice, in caso di disaccordo, adotti la decisione e non
l'attribuisca invece a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritenga il più idoneo a curare
l'interesse del figlio, ciò significa che il venir meno della convivenza attenua quell'esigenza di
salvaguardia dell'autonomia familiare che sta alla base della previsione contenuta nell'art. 316
c.c., e nel contempo esalta il compito del giudice.
L'art. 1553, c.c. non prevede espressamente che la potestà sia esercitata "di comune accordo" da
entrambi i genitori, come invece stabilisce con riferimento alle decisioni di particolare
importanza; tuttavia, la chiusa del predetto comma dispone che, limitatamente alle decisioni su
questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà
separatamente. Nel suo insieme, la disposizione è suscettibile di varie letture: si potrebbe
pensare che il legislatore abbia inteso attribuire separatamente a ciascun genitore la potestà sulle
questioni di minore importanza, non avendo richiamato in proposito il "comune accordo",
oppure che, in linea di principio, l'esercizio della potestà sia sempre comune e che solo
attraverso un provvedimento del giudice possa essere esercitata separatamente per le questioni di
minore importanza (ordinaria amministrazione).
Deve ritenersi che il richiamo all'ordinaria amministrazione contenuto nell'art. 1553, c.c. sia
riferito a questioni di carattere routinario e non ai profili di carattere patrimoniale, cosicché la
regola enunciata in concreto dal legislatore è quella della potestà congiunta, che solo attraverso
l'intervento del giudice può diventare disgiunta per le questioni di ordinaria importanza. Nella
concreta attuazione del rapporto genitoriale condiviso esplicano un ruolo decisivo gli accordi tra
i genitori ai quali, se non valutati in contrasto con l'interesse del figlio, il giudice dovrà far
riferimento. In ordine alla collocazione deve rilevarsi che nella maggior parte dei casi essa sarà
stabilita presso un genitore, salvo disciplinare i tempi di permanenza presso la casa dell'altro; la
legge non menziona la residenza anagrafica del figlio, che necessariamente sarà fissata - di
comune accordo o dal giudice - presso uno dei genitori.
12. L'affidamento ad uno solo dei genitori
Il giudice può disporre l'affidamento ad uno solo dei genitori al ricorrere del presupposto che
l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del figlio.
L'affidamento condiviso sicuramente non può ritenersi precluso di per sé dalla mera
conflittualità esistente tra i coniugi. Tale convincimento trova concorde la giurisprudenza
maggioritaria che ritiene non possa procedersi all'affidamento ad un solo genitore sul
presupposto della conflittualità tra i genitori.
Per altro verso, per disporre l'affido monogenitoriale non sarà neppure necessario il verificarsi di
situazioni estreme, ma è sufficiente che esso sia contrario all'interesse del minore, per es. perché
la concreta fattispecie non consentirebbe al minore una condizione di vita equilibrata, serena e
soddisfacente, a causa di situazioni specifiche che sarà compito precipuo del giudice di merito
individuare. In altre parole, sarà il giudice a valutare caso per caso ciò che è contrario agli

71
interessi del minore.
Dall'analisi della giurisprudenza sul punto, emerge come sia stato talora ritenuto contrario
all'interesse del figlio l'affidamento condiviso quando sia egli stesso - già in età adolescenziale -
a rifiutare ogni rapporto con uno dei genitori, o, ancora, quando circostanze oggettive
impediscano l'attuarsi dello stesso, quali per es. lo stato di detenzione del padre.
Resta da chiedersi quali siano i caratteri che differenziano l'affido esclusivo da quello condiviso.
Affidare il figlio significa attribuire al genitore le responsabilità connesse al compito di crescerlo
e di prendersene cura, cosicché la differenza tra le due forme di affidamento non può che
ricercarsi nello strumento che ai genitori è dato per esercitare tali funzioni, che è la potestà.
La nozione di affidamento non può consistere nel mero profilo materiale della collocazione del
figlio presso l'uno o l'altro genitore. Il profilo della collocazione prevalente si pone allo stesso
modo nell'affidamento condiviso ed in quello esclusivo.
Ritenuto che la differenza tra le due tipologie di affidamento non possa essere ravvisata nella
collocazione prevalente del minore e che quindi debba aver come riferimento le diverse modalità
di cura attribuite all'uno e all'altro genitore, ne consegue che la disciplina in tema di potestà,
dettata all'art. 1553, c.c., il quale ne prevede l'esercizio da parte di entrambi i genitori senza
alcuno specifico richiamo al tipo di affidamento, non possa in concreto che riferirsi
all'affidamento condiviso, mentre il giudice che dispone l'affidamento esclusivo dovrà far sì che
il predetto esercizio spetti al solo genitore affidatario, così come prima della riforma disponeva
l'abrogato art. 155\cc
In conclusione, quando il giudice, in considerazione dell'interesse del minore, dispone l'affido ad
un solo genitore deve necessariamente, oltre che motivare la scelta, anche pronunciarsi in ordine
all'esercizio della potestà, distinguendo così nettamente la posizione del genitore affidatario da
quella dell'altro: l'uno sarà titolare dell'esercizio esclusivo della potestà e dovrà attenersi alle
condizioni determinate dal giudice; l'altro avrà titolo per adottare congiuntamente ali'affidatario
le decisioni di maggiore interesse per il figlio e avrà il diritto e il dovere di vigilare
sull'istruzione ed educazione.
13. Il mantenimento dei figli
L'art. 1554, ce prevede che ciascuno dei genitori debba provvedere al mantenimento dei figli in
misura proporzionale al proprio reddito. Qualora sia necessario, il giudice stabilisce la
corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da
determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in
costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun
genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti
domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
La norma intende privilegiare il mantenimento in forma diretta, cioè attuato da ciascun genitore
in favore del figlio mediante la somministrazione di beni o servizi. Viene così superata la

72
tradizionale modalità di mantenimento prevista a carico del genitore non affidatario, che si
attuava mediante il pagamento di un assegno in favore del genitore affidatario, il quale solo
provvedeva alla predetta somministrazione. Tale modalità troverà oggi applicazione in caso di
affidamento monogenitoriale. Il mantenimento in forma diretta richiede un preciso accordo tra i
genitori circa le modalità concrete della sua effettuazione: ciascun genitore dovrà farsi carico del
mantenimento per il tempo in cui il figlio vive con lui, mentre le spese generali - abitazione,
salute, scuola, sport, abbigliamento, ecc. -dovranno essere necessariamente ripartite d'accordo tra
i genitori. In caso di disaccordo sarà il giudice a stabilire le modalità di mantenimento diretto a
carico di ciascuno ed il contributo in denaro che un genitore debba versare eventualmente
all'altro a fini perequativi. Quanto alla sua determinazione, il legislatore intende consentire al
giudice di valutare l'effettivo peso che la cura del figlio comporta a carico di ciascun genitore,
come emerge dal richiamo ai "tempi di permanenza presso ciascun genitore" ed alla "valenza
economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore".
L'obbligo di mantenimento non cessa quando il figlio abbia raggiunto la maggiore età, ma
continua fino a quando questi non abbia conseguito un grado di autonomia tale da consentirgli di
provvedere, senza il contributo dei genitori, al soddisfacimento delle proprie necessità. Il
giudice, tenuto conto delle circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni, non
indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno periodico, da versare direttamente
all'avente diritto. La norma pone fine ad un dibattito circa la destinazione dell'assegno al
genitore o al figlio.
Quanto osservato non si applica ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, nei confronti
dei quali valgono integralmente le disposizioni stabilite in favore dei figli minori.
14. L'assegnazione della casa familiare e le prescrizioni in tema di residenza
La casa familiare deve essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli per
evitare un forzoso allontanamento degli stessi dalla propria casa, intesa come centro degli affetti
in cui si svolge la vita della famiglia.
Il giudice deve tener conto dell'assegnazione della casa familiare in sede di regolazione dei
rapporti economici dei coniugi, anche in considerazione dell'eventuale titolo di proprietà. La
disposizione recepisce l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il beneficio economico
derivante dall'assegnazione della casa familiare deve essere considerato ai fini della
quantificazione dell'assegno di mantenimento e di divorzio.
Il diritto di godimento della casa familiare cessa, oltre che nell'eventualità che il coniuge
assegnatario non la abiti più, o non la abiti in modo stabile, nell'ipotesi in cui questi intraprenda
una convivenza more uxorio ovvero contragga nuovo matrimonio. Questa norma è molto
criticata, in quanto può condizionale il coniuge economicamente svantaggiato nelle proprie
scelte personali di vita. Si sono posti dubbi di costituzionalità, anzitutto perché sembrava
difficilmente conciliabile con il principio di ragionevolezza l'idea per cui il diritto ad abitare

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nella casa coniugale - che spetta sul solo presupposto della convivenza con i figli nel cui
esclusivo interesse è disposta - potesse venir meno a seguito del nuovo matrimonio o
dell'instaurazione di una convivenza more uxorio; poi, in relazione all'art. 2 Cost, perché la
libertà di convivere more uxorio o di contrarre matrimonio del genitore assegnatario appariva
pregiudicata dalla prospettiva di perdere il diritto al godimento della casa familiare. La Corte
Costituzionale si è di recente pronunciata a favore di un'interpretazione costituzionalmente
orientata della norma: pur ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata
dai giudici rimettenti in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost., ha, infatti, dichiarato che l'art.
155 quater ce debba essere interpretato nel senso che la revoca dell'assegnazione della casa
coniugale non operi di diritto a seguito dell'instaurazione di una convivenza di fatto o della
celebrazione di un nuovo matrimonio, ma solo ove in concreto, all'esito di un'accurata indagine,
la nuova unione si riveli in contrasto con l'interesse del minore. L'art. 155 quater ce
espressamente dispone che il provvedimento di assegnazione della casa familiare e quello della
sua revoca siano trascrivibili e opponibili a terzi.
Il dubbio è se la trascrizione debba considerarsi comunque presupposto necessario ai fini
dell'opponibilità dell'assegnazione, o se essa sia necessaria solo per quelle ultranovennali. Una
pronuncia delle Sezioni Unite aveva chiarito che il provvedimento giudiziale di assegnazione
della casa familiare (in quanto avente per definizione data certa) è opponibile al terzo acquirente
in data successiva anche se non trascritto, per 9 anni decorrenti dalla data dell'assegnazione,
ovvero anche dopo i 9 anni ove il titolo sia stato in precedenza trascritto.
L'attuale disposizione dell'art. 155 quater ce ha accentuato l'importanza dell'assolvimento
dell'onere della trascrizione creando nuove incertezze.
Con riferimento ad un'ipotesi di comodato della casa coniugale senza termine stipulato tra il
genitore e uno dei coniugi, la Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che il provvedimento di
assegnazione conseguente alla separazione personale dei coniugi è opponibile al comodante, il
quale potrà riottenere la riconsegna dell'immobile solo allegando l'esistenza di urgente ed
impreveduto suo bisogno.
La residenza anagrafica del figlio dovrà essere fissata presso la casa familiare e potrà essere
modificata solo su concorde decisione dei genitori. Ciò ha posto delicate questioni relativamente
al
diritto del genitore presso cui il figlio è collocato di mutare la propria residenza, facoltà che gli
deve essere riconosciuta in forza dei principi costituzionali. La soluzione preferibile è quella per
la quale, a seguito del cambiamento di residenza del genitore, in sé insindacabile, il giudice, ad
istanza dell'altro, possa modificare le modalità dell'affidamento, sia con riferimento alla
collocazione del figlio che ai profili economici, giungendo anche, solo se del caso, a disporre
l'affidamento monogenitoriale.

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15. La famiglia ricomposta
Si parla di famiglia ricomposta o ricostituita con riferimento alla convivenza di una coppia nella
quale almeno uno dei partner sia divorziato ed i figli dell'uno e/o dell'altro coniuge o partner. A
seguito della rottura del vincolo coniugale, può accadere, infatti, che il coniuge cui sono affidati
i figli minori si unisca nuovamente in matrimonio oppure instauri una convivenza in cui siano
coinvolti i figli minori di uno o di entrambi i partners. Si realizza così una complessa trama di
rapporti, molto più complessa di quelli scaturenti dalla famiglia nucleare classica. Il fenomeno è
relativamente diffuso, ancorché allo stato sia pressoché ignorato dall'ordinamento. Si osservi che
la lingua italiana non dispone neppure di vocaboli per definire i ruoli all'interno della famiglia
ricostituita, salvo quelli, che rievocano i personaggi negativi delle fiabe (matrigna, patrigno,
ecc.), o prelevati da altre lingue (step parents, step family, step child). La famiglia ricostituita è
sempre esistita: basti pensare alle vedovanze precoci - dovute alle guerre ed alle morti per parto -
che inducevano persone relativamente giovani, con figli minori, alle seconde nozze. In queste
situazioni, il presupposto della nuova convivenza era però diverso rispetto a quello che sussiste
in ipotesi di divorzio del genitore affidatario, poiché nelle situazioni di vedovanza viene meno
un genitore della prima famiglia e ad esso se ne sostituisce un altro, quindi compare una nuova
figura in sostituzione di quella scomparsa; in caso di divorzio, invece, si realizza la coesistenza
del genitore biologico e di quello sociale, il che accentua i potenziali conflitti tra gli interessati.
Il genitore che non convive con il figlio, infatti, è comunque legato ad esso da un legame
indissolubile, protetto dalla legge e quindi diventa problematico riconoscere un ruolo allo 'step
parent', perché in potenziale collisione con quello del genitore biologico.
La risposta attuale dell'ordinamento italiano alla realtà della famiglia ricomposta è parziale ed
insufficiente, ed è diventata particolarmente difficoltosa in seguito alla recente introduzione
delle disposizioni in materia di affidamento condiviso, in cui il ruolo del genitore non convivente
è comunque valorizzato al massimo.
L'ordinamento disciplina una particolare forma di adozione, che può essere pronunziata dal
tribunale con riguardo al figlio del coniuge. Lo 'step parent', in base a questa disposizione, può -
a
certe condizioni - adottare il figlio del proprio coniuge. Naturalmente si tratta di famiglie
ricostituite coniugate, altrimenti l'adozione non è possibile.
Il genitore biologico deve comunque dare il suo consenso, ancorché il tribunale, ove ritenga il
rifiuto ingiustificato o contrario all'interesse dell'adottando, possa pronunziare ugualmente
l'adozione, salvo che l'assenso sia stato rifiutato dal genitore esercente la potestà.
Al di fuori dell'adozione non vi sono altre forme di disciplina dei rapporti tra genitore sociale e
figli conviventi del coniuge, mentre, in via di fatto, il genitore sociale può essere chiamato a
svolgere un compito molto rilevante sia con riguardo alla funzione educativa che alla tutela degli
interessi del minore, anche nei confronti dei terzi.
Attraverso gli accordi, gli interessati, con mera rilevanza interna, possono in primo luogo
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stabilire obblighi di mantenimento del figlio a carico dello 'step parent', oppure riconoscere la
facoltà di
esercitare poteri educativi nei suoi riguardi. Gli accordi sono strumenti che possono in parte
risolvere i problemi in maniera equilibrata, evitando l'istituzionalizzazione di ruoli
potenzialmente configgenti con quelli biologici.
I problemi posti dalla famiglia ricostituita non sono però solo quelli relativi ai poteri-doveri del
genitore sociale.
Si pensi, ad es., ai profili successori: una convivenza che dura molti anni e poi s'interrompe
improvvisamente per la morte del genitore sociale non fa sorgere diritti successori in favore
dello 'step child', cosicché l'unica possibilità è quella del ricorso a testamento. Nel caso di rottura
del secondo matrimonio, o di morte del genitore biologico affidatario, si pone poi il problema
dell'affidamento del minore che abbia un rapporto psicologico e sociale significativo con lo 'step
parent'; ci si domanda, in tal caso, se possa disporsi l'affidamento in favore dello 'step parent'.
Una ricognizione comparatistica conferma che le soluzioni sono difficili da trovarsi anche
altrove.
Negli Stati Uniti la tendenza di fondo è quella di valorizzare gli accordi tra i conviventi; in
alcuni Stati, inoltre, sono stabiliti obblighi legali veri e propri di mantenimento da parte del
genitore sociale, mentre in altri l'ordinamento equipara il genitore sociale ad un genitore
biologico. Sempre negli Stati Uniti, i giudici danno una risposta positiva ad alcune delle
questioni prima accennate, ad es., riconoscono il diritto di visita del genitore sociale una volta
cessato il matrimonio con l'altro coniuge.
In Inghilterra il giudice ha il potere di emettere ordinanze con le quali attribuisce poteri al
genitore sociale.
In Olanda è previsto l'obbligo di mantenimento a carico del genitore sociale e, quindi, anche
l'esercizio della potestà, per il fatto stesso della convivenza, quando questa assuma determinate
caratteristiche.
Nel codice civile svizzero si afferma che "il nuovo coniuge è tenuto ad assistere l'altro coniuge
in maniera appropriata, nell'esercizio della potestà genitoriale verso il figlio dell'altro". Il
genitore sociale è visto come un assistente. Si tratta di una disciplina prudente e leggera che
sembra idonea a risolvere i problemi concreti della 'step family' e, nel contempo, non crea nuovi
ruoli istituzionalizzati, in potenziale conflitto con quelli dei genitori biologici.
7° - LE CONVIVENZE E LA FAMIGLIA DI FATTO
1. Premessa
La convivenza 'more uxorio' in Italia rimane ancora priva di una disciplina giuridica organica. In
particolare, un riconoscimento indiretto alla convivenza viene disposto dal richiamato art. 42,
legge 8 febbraio 2006, n. 54 - che prevede l'applicazione delle regole concernenti l'affidamento
dei figli di genitori coniugati a quelli conviventi - e, prima ancora, dall'art. 317 bis2, c.c., che

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attribuisce l'esercizio della potestà sul figlio naturale ad entrambi i genitori che lo abbiano
riconosciuto, se conviventi. È opportuno ricordare, inoltre, l'art. 9 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 - dapprima confluita
nel progetto di Costituzione Europea ed ora destinata ad acquisire efficacia vincolante con
l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1-12-2009) -, secondo cui "il diritto di sposarsi e il
diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano
l'esercizio". La formulazione della norma sembra riconoscere pari dignità alle più diverse forme
di convivenza, anche tra persone dello stesso sesso.
In assenza di una disciplina legislativa, la stessa terminologia utilizzata nel corso del tempo per
indicare questa realtà si è modificata in sintonia con i mutamenti del costume e degli
atteggiamenti dei giuristi: da concubinato, a convivenza 'more uxorio', a famiglia di fatto. In
termini negativi, ciò che sicuramente distingue la famiglia di fatto dalla famiglia fondata sul
matrimonio è la costituzione di quest'ultima attraverso un atto formale, laddove la prima sorge
spontaneamente in assenza di qualsiasi formalizzazione pubblica. In termini positivi, invece, si
valorizza T'affectio' quale elemento di caratterizzazione della convivenza che deve essere
caratterizzata da inequivocità, serenità e stabilità.
2. I rapporti personali e patrimoniali tra conviventi
Quelli che sono obblighi legali per i coniugi (fedeltà, assistenza materiale e morale,
collaborazione, coabitazione, contribuzione) nella famiglia di fatto sono invece espressione
dell'autonomia dei conviventi; peraltro, l'osservanza di fatto di regole analoghe a quelle in base
alle quali l'art. 143 c.c. organizza l'insieme dei rapporti coniugali, costituisce un vero e proprio
indice oggettivo necessario per qualificare una certa situazione come famiglia di fatto.
Rispetto ai doveri, però, particolare rilevanza assume l'assistenza materiale e la
somministrazione dei contributi necessari al soddisfacimento delle comuni esigenze di vita; oggi
la giurisprudenza le riconduce all'istituto dell'obbligazione naturale (art. 2034 c.c.) sul
presupposto che quanto prestato
da un convivente a favore dell'altro ovvero nell'interesse comune trovi la propria giustificazione
nell'adempimento di un dovere di natura morale o sociale caratterizzato dall'irripetibilità.
In ordine ai rapporti patrimoniali si esclude l'applicazione del regime di comunione legale dei
beni.
La giurisprudenza ha affermato che il contributo del partner all'acquisto di un bene non è di per
sé rilevante al fine di considerare il bene comune, salva la possibilità di stipulare una
convenzione
instaurativa di una sorta di regime di acquisti comuni.
Ugualmente si esclude che il convivente che presti attività lavorativa nell'impresa dell'altro,
possa godere della tutela attribuita al coniuge dall'art. 230 bis c.c.

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3. La cessazione della convivenza
È opinione ormai consolidata che non vi sia alcun obbligo di risarcire il danno causato dalla
rottura del ménage a carico del convivente che abbia unilateralmente deciso di porre termine alla
relazione, in quanto la convivenza 'more uxorio' si caratterizza quale rapporto fondato sulla
libertà e spontaneità dei comportamenti.
In caso di cessazione della convivenza sovente si pone il problema dell'assegnazione della casa
familiare. La persona convivente, in quanto legata al partner proprietario dell'immobile da un
mero rapporto di fatto, non gode di un diritto autonomo alla coabitazione, ma ha soltanto un
semplice godimento di fatto.
Il discorso sull'assegnazione dell'abitazione familiare cambia radicalmente in caso di presenza di
prole, poiché trova applicazione alla fattispecie il disposto dell'art. 155 quater c.c. In ordine ai
profili successori, in caso di morte di un convivente nessuna tutela è prevista per legge a favore
del superstite, a meno che non vi sia un testamento.
Inoltre, il partner ha diritto al risarcimento del danno morale per morte del convivente, nella
specie avvenuta a seguito d'incidente stradale.
4. La cessazione della convivenza ei provvedimenti riguardanti i figli
Gli effetti della cessazione della convivenza con riguardo ai figli sono regolati dagli artt. 155 e
ss. ce
Secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale - antecedente la riforma del 2006 - le
decisioni relative all'affidamento della prole in caso di contrasto tra i partners erano ripartite tra
tribunale ordinario e tribunale per i minorenni, spettando al primo le statuizioni concernenti il
mantenimento dei figli, e al secondo ogni decisione circa la scelta del genitore affidatario della
prole.
A seguito dell'entrata in vigore della riforma del 2006, si è affermata la competenza del giudice
ordinario a decidere in ordine ad ogni profilo relativo alla prole (di carattere patrimoniale come
di carattere personale), ma è rimasto dibattuto l'interrogativo circa l'individuazione del giudice
competente per le decisioni concernenti la filiazione naturale. La Corte di Cassazione ha risolto
il conflitto dichiarando competente a decidere il tribunale per i minorenni, sia in ordine alle
misure relative all'esercizio della potestà e all'affidamento del figlio, sia a quelle economiche
inerenti al mantenimento.
5. I contratti di convivenza
La dottrina ha individuato nel contratto uno strumento potenzialmente idoneo a coniugare le
esigenze di libertà ed autonomia che la convivenza esprime con le istanze di tutela individuale di
ciascuno dei conviventi. Si parla, al riguardo, di contratti di convivenza, convenzioni che i
partners possono stipulare allo scopo di regolare gli aspetti patrimoniali del loro rapporto.
Queste intese mirano principalmente a sottoporre a regole prefissate la soluzione di eventuali
conflitti di natura patrimoniale che potrebbero insorgere durante la vita di coppia.

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Quanto ai requisiti soggettivi, la dottrina ritiene necessaria la capacità di agire dei conviventi.
Per quanto riguarda il contenuto, il contratto è nullo se contiene pattuizioni relative agli aspetti
personali, quali la fedeltà, l'assistenza morale, la collaborazione e la coabitazione, in quanto privi
del necessario carattere della patrimonialità.
La pattuizione di prestazioni di carattere economico per il periodo successivo alla cessazione
della convivenza è ritenuta valida, quantomeno se il fine è quello di assistenza o di soccorso al
convivente in condizioni di maggiore difficoltà economica.
In relazione alla forma, valgono i principi generali in materia di contratto, di talché, fermo
restando il principio di libertà delle forme, tali contratti devono assumere la forma
eventualmente richiesta per la validità dei singoli atti di attribuzione.
Diverso è il problema della forma richiesta ai fini della prova. Per poter uscire dallo schema
delle obbligazioni naturali, i contratti di convivenza richiedano che l'accordo risulti da atto
scritto.
6. Le coppie omosessuali
La materia delle convivenze omosessuali, nell'ultimo quindicennio, è stata regolamentata in
vario modo in numerosi Paesi europei ed extraeuropei. Le forme di protezione accordate variano
notevolmente da Stato a Stato.
La prima legge che si è occupata del fenomeno è stata quella danese, del 1989; essa ha istituito il
modello della 'registered partnership', per cui la registrazione dell'unione produce i medesimi
effetti giuridici del matrimonio, salvo quanto previsto in materia di adozione e di potestà dei
genitori. Il modello è stato seguito negli anni successivi anche da Norvegia, Svezia, Islanda,
Olanda e Germania.
Una siffatta evoluzione delle normative nazionali è stata condivisa dal Parlamento europeo, le
cui risoluzioni dell'8 febbraio 1994 e del 16 marzo 2000, finalizzate alla rimozione di ogni forma
di discriminazione verso le persone omosessuali, richiedono un maggiore impegno della
Commissione e degli Stati membri nella tutela delle relazioni familiari fra persone dello stesso
sesso, attraverso l'apertura del matrimonio civile o di uno "strumento giuridico equivalente".
In Belgio, Catalogna e Francia le normative si basano sulla parificazione rispetto alle coppie di
conviventi; in tal modo, viene offerta alle coppie di persone dello stesso sesso la medesima
tutela prevista per i conviventi.
Recentemente, nei Paesi Bassi, in Belgio e Spagna è stata attuata una radicale riforma della
normativa del matrimonio civile, che ammette alla celebrazione dell'atto anche due persone dello
stesso sesso.
La giurisprudenza italiana in tema di coppie omosessuali è alquanto scarna.
Ci sono state alcune pronunce che hanno equiparato la convivenza tra due persone dello stesso
sesso alla convivenza 'more uxorio'.

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7. I progetti di legge
La lacuna legislativa in tema di convivenze ha portato da tempo la dottrina ad interrogarsi
sull'opportunità di un intervento normativo e sulle modalità attraverso cui tale intervento
dovrebbe eventualmente attuarsi.
In particolare, qualche autore si mostra favorevole ad un processo di ampia assimilazione tra la
disciplina della famiglia legittima e quella della famiglia di fatto, da realizzarsi mediante
un'operazione interpretativa che faccia ricorso generalizzato all'analogia.
Altri, avvertendo l'esigenza di evidenziare la profonda differenza intercorrente tra i due modelli
familiari, ritiene che l'unica via che possa assicurare un'idonea tutela giuridica alla convivenza
'more uxorio' sia quella dell'autonomia privata. Gli interventi legislativi in materia dovrebbero,
di conseguenza, restare circoscritti e settoriali.
Un terzo indirizzo, ponendosi in una via intermedia, suggerisce di raggiungere un
contemperamento tra "libertà" e "responsabilità" dei conviventi e prospetta, a tal fine, uno
"statuto delle coppie conviventi" destinato ad assicurare alla famiglia di fatto un nucleo minimo
di giuridicità solo tendenzialmente coincidente con la disciplina della famiglia legittima.
Anche le forze politiche, in anni recenti, hanno dimostrato una notevole attenzione al tema delle
convivenze e numerose proposte di legge sono state presentate al fine di approntare una
disciplina organica del fenomeno.
Nel febbraio 2007 il Governo predispose un disegno di legge che si proponeva di disciplinare i
diritti e i doveri delle persone stabilmente conviventi (ed. DICO). Il progetto prevedeva il
sorgere in capo ai conviventi, per effetto di una dichiarazione resa all'ufficio anagrafe, di un
complesso di diritti, doveri e facoltà. Le relative disposizioni erano indirizzate a persone
maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, stabilmente
conviventi e che si prestassero assistenza e solidarietà materiale e morale. In particolare, si
prevedeva che in caso di malattia e ricovero le strutture sanitarie regolassero l'esercizio del
diritto di accesso del convivente per fini di visita e di assistenza; ancora, che ciascun convivente
potesse designare l'altro quale suo rappresentante in caso di malattia o di morte, per concorrere
alle decisioni in materia di salute ovvero per decidere in merito alla donazione di organi o alle
celebrazioni funerarie. Con riguardo ai trattamenti previdenziali e pensionistici, poi, l'art. 10 del
d.d.l. prevedeva l'introduzione, in sede di riordino del sistema pensionistico, dell'attribuzione di
una prestazione al convivente - a fronte di un periodo minimo di convivenza - commisurata alla
durata della medesima e tenendo conto delle condizioni economiche e patrimoniali del
convivente superstite. Il disegno di legge prevedeva altresì che, trascorsi 9 anni dall'inizio della
convivenza, il partner potesse concorrere - in misura variabile a seconda della presenza o meno
di altri legittimari - alla successione legittima dell'altro. Un altro progetto di legge prevedeva
l'introduzione nel c.c. della disciplina del "Contratto d'unione solidale", contratto concluso da
persone maggiorenni per l'organizzazione della vita in comune o dopo la sua cessazione e diretto
a regolare la convivenza tra due individui a prescindere dalle ragioni sottostanti. Il contratto di
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unione solidale - da registrarsi presso l'archivio notarile competente - non sarebbe attributivo di
alcun tipo di status familiare, anche se da esso deriverebbe un non trascurabile complesso di
diritti e di doveri. In particolare, i soggetti firmatari dovrebbero portarsi aiuto reciproco secondo
quanto stabilito dal contratto e in proporzione ai propri redditi, alle proprie sostanze e alle
capacità di lavoro professionale e casalingo, nonché rispondere dei debiti contratti da uno solo in
ragione dei bisogni della vita in comune e delle spese relative all'alloggio, previsione questa che
attualmente non ha equivalente neppure nell'ambito della disciplina matrimoniale.
Ancora, nel contratto d'unione solidale i firmatari potrebbero optare per il regime di comunione
dei beni.
Gli effetti della cessazione della convivenza - per comune accordo, per decisione unilaterale, per
matrimonio o per morte - verrebbero regolati contrattualmente dai firmatari, salvo l'intervento
del giudice in assenza di un'espressa regolamentazione pattizia.
8° - IL RAPPORTO GENITORI-FIGLI
1. Premessa
L'art. 30 Cost. stabilisce che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare la
prole, anche se nata fuori del matrimonio. Sembra che la norma si riferisca esclusivamente al
vincolo biologico e naturalistico di filiazione, e che quindi non vi sia spazio per discriminazioni
tra figli legittimi e naturali - riconosciuti o non - in dipendenza di meri aspetti giuridico-formali.
Cionondimeno, secondo uno schema risalente ai codici del secolo scorso, anche nell'attuale
normativa la disciplina giuridica della filiazione è ripartita e differenziata a seconda che i
genitori siano o meno uniti nel vincolo del matrimonio; nell'un caso si ha filiazione legittima,
nell'altro naturale a sua volta distinta in filiazione naturale riconosciuta o giudizialmente
dichiarata, ovvero non riconosciuta od irriconoscibile.
In passato, a ciascuna di queste situazioni corrispondeva una ben diversificata situazione
giuridica del figlio. La pienezza dello status di filiazione era attribuita alla sola filiazione
legittima che godeva di ogni tutela: nei confronti dei genitori, obbligati al mantenimento,
all'educazione ed all'istruzione, degli ascendenti, anch'essi tenuti al mantenimento, ed anche dei
parenti, soggetti in determinate circostanze all'obbligo alimentare. Mentre, quanto ai figli
naturali, il legislatore disponeva (e dispone) 'per relationem'. I figli naturali riconosciuti
godevano d'identica tutela, ma solo nei riguardi del genitore che aveva effettuato il
riconoscimento; ai figli non riconosciuti o non riconoscibili era attribuita una protezione limitata,
potendo essi ricevere dal genitore solo un sussidio di natura alimentare.
Anche sul piano successorio la condizione dei figli nati da genitori uniti in matrimonio era assai
differenziata rispetto a quella degli altri. Ai figli legittimi era, infatti, riservata una quota
indisponibile dell'eredità; i figli naturali riconosciuti erano eredi necessari, ma la loro quota era
di entità ridotta; ai figli non riconosciuti o non riconoscibili era invece attribuito unicamente un
assegno vitalizio di natura alimentare. Infine, la successione per rappresentazione era

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condizionata dalla legittimità della filiazione.
Il modello familiare accettato - e quindi legittimo perché conforme al diritto ed al costume - era
quello fondato sul matrimonio, che rappresentava l'unico ambito in cui la filiazione trovava
dignità e piena protezione; il presupposto implicito del sistema - ben avvertito nel costume
sociale - era che la filiazione per essere lecita dovesse sempre originare da genitori uniti in
matrimonio. Matrimonio, all'epoca indissolubile, che da un lato conferiva legittimità alla prole, e
dall'altro, stante il divieto di legge, impediva a chi era coniugato di riconoscere un figlio
adulterino, il quale,
visti i limiti posti alla dichiarazione giudiziale di genitorialità, non poteva agire per
l'accertamento della filiazione. Solo i figli concepiti nel matrimonio ricevevano una vera ed
integrale tutela; i nati da unioni di fatto o da rapporti occasionali, specie se in conflitto col
vincolo matrimoniale, subivano un trattamento deteriore. L'obiettivo della legge non era tanto
quello di discriminare le categorie di figli sulla base di valutazioni etiche, bensì di conferire
dignità e quindi di rafforzare la sola famiglia legittima, intesa quale unica entità sociale e
giuridica - vera e propria istituzione - capace di assolvere ai compiti di mantenimento, istruzione
ed educazione necessari per assicurare un'ordinata vita sociale; ed altresì come struttura in grado
di garantire la conservazione e la trasmissione del patrimonio.
Si evitava così che si potesse creare una struttura familiare parallela a quella legittima, arrivando
a sacrificare le posizioni individuali con esso configgenti, ed in modo particolare quelle dei figli
adulterini.
Per contro, talvolta la tutela del nucleo legittimo conduceva alla conseguenza opposta, poiché il
rigore del sistema poteva agevolare l'acquisto ed il mantenimento dello status di figlio legittimo
anche contro la verità biologica della procreazione. Infatti, la presunzione di paternità del marito
e gli ostacoli frapposti all'esercizio dell'azione di disconoscimento di paternità finivano talvolta
per attribuire lo status di legittimità anche al figlio di donna coniugata che era stato concepito
sicuramente al di fuori del matrimonio.
Oggi la legge ha profondamente mutato prospettiva: alla filiazione naturale - è scomparsa
l'espressione illegittima - si è data la stessa dignità di quella legittima, attraverso la sostanziale
parificazione tra le due categorie di figli e l'abolizione di quei divieti che di fatto impedivano
l'accertamento della verità biologica e proteggevano, anche contro l'evidenza, il nucleo legittimo.
Infatti, la parità è stata stabilita sia nell'ambito dei rapporti personali sia successori. Inoltre, le
norme che hanno rimosso il divieto dell'accertamento giudiziale nei riguardi dei figli adulterini e
di quelli nati da genitori legati da vincoli di parentela in linea retta e in linea collaterale nel
secondo grado ovvero di affinità in linea retta, e quelle che hanno fissato i principi della libertà
della prova e dell'imprescrittibilità dell'azione consentono al figlio naturale di conseguire
agevolmente l'accertamento del proprio status giuridico.
E, in ultimo, la legge 54/2006 prevede un trattamento uniforme per l'affidamento dei figli a
seguito della rottura del rapporto genitoriale.
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La famiglia legittima non rappresenta più l'unico modello di convivenza familiare approvato dal
legislatore, nonostante la codicistica sia ancora fortemente improntata sull'accertamento del
vincolo di filiazione, prima che sul rapporto genitore-figlio.
Tutt'ora, infatti, tale disciplina è collocata nel Capo IV - Dei diritti e dei doveri che nascono dal
matrimonio - del Titolo VI - Del matrimonio - e ai figli naturali la disciplina si applica solo per
richiamo.
Si preannuncia quindi una riforma integrale della materia. È stato proposto un disegno di legge
delega che prevedeva la parificazione di tutte le forme di filiazione, in attuazione del principio di
eguaglianza dettato dalla Costituzione, il quale implica la tutela della filiazione in sé ed il
superamento di ogni differenza di disciplina del rapporto genitoriale. Si prevedeva pertanto -
oltre ad una modifica lessicale che sostituiva alla dizione "filiazione legittima" quella di
"filiazione nel matrimonio" e alla denominazione "filiazione naturale" quella di "filiazione fuori
del matrimonio" - l'accorpamento dei capi I e II del titolo VII del primo libro del codice in unico
capo titolato "Dello stato di figlio", l'unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i
doveri dei genitori nei confronti dei figli nati nel matrimonio e fuori del matrimonio e
l'adeguamento della disciplina delle successioni e delle donazioni al principio di equiparazione
tra le due categorie. In questa prospettiva il progetto di legge proponeva la riforma dell'istituto
della parentela, per superare il restrittivo orientamento interpretativo dell'art. 258 c.c. - in forza
del quale il riconoscimento produce effetti solo nei confronti del genitore che riconosce - che
esclude la configurabilità di un rapporto di parentela tra fratelli naturali.
Assodata la tendenziale unitarietà dello status di filiazione, deve tuttavia ricordarsi che il codice
e le leggi speciali dettano differenti modalità di attribuzione dello status a seconda che la
filiazione sia legittima o naturale. Affinché sorga il vincolo giuridico genitore-figlio, infatti, è
necessario che si formi un titolo di stato, cioè, un atto di nascita - di figlio legittimo o naturale, a
seconda dei presupposti - altrimenti il rapporto genitore-figlio resta confinato nell'ambito di
quanto disposto dagli artt. 279, 580 e 584 c.c. (figli non riconoscibili, genitore putativo). Inoltre,
in mancanza del titolo dello stato, e cioè qualora il figlio risulti iscritto allo stato civile come di
ignoti, la legge stabilisce, salvo eccezioni, che si dia corso immediatamente alla procedura di
adozione, cosicché ogni rapporto giuridico coi genitori biologici è destinato a cessare.
In passato, se i genitori erano coniugati, il titolo dello stato si formava automaticamente - a
prescindere dal loro consenso - in sede di denunzia di nascita; se, invece, non lo erano, il titolo
dello stato poteva formarsi solo in dipendenza di una dichiarazione del(i) genitore(i) o, in
mancanza, di un accertamento giudiziale richiesto dal figlio.
Nel 1997 è stata introdotta per la madre la facoltà, anche se coniugata, di non essere nominata
nell'atto di nascita, attribuendo quindi alla donna il potere insindacabile di impedire la
formazione di qualsiasi titolo dello stato - poiché il figlio, in detta ipotesi, viene dichiarato come
d'ignoti - o di consentire la formazione di un titolo dello stato di figlio naturale.
L'art. 30 del d.p.r. n. 396/2000 ha abrogato il precedente ordinamento dello stato civile, poiché
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prevede l'indicazione delle generalità dei genitori legittimi, purché la madre non si opponga, e di
quelli naturali, qualora i medesimi rendano la dichiarazione di riconoscimento o abbiano
espresso, con atto pubblico, il proprio consenso, ad essere nominati.
2. Il cognome
Ancorché manchi un'espressa disposizione di legge, al nato da unione legittima viene imposto il
cognome del marito, secondo una norma desumibile dal sistema frutto della radicata tradizione
sociale per cui la famiglia legittima deve avere un unico cognome.
In verità in altri ordinamenti si danno soluzioni più rispettose dell'eguaglianza tra i coniugi. In
Spagna, ad es., al figlio viene trasmesso il cognome da parte di entrambi i genitori.
Nell'ordinamento tedesco i coniugi hanno la facoltà di scegliere il cognome della famiglia. I
criteri per determinare il cognome da attribuire al figlio naturale sono dettati all'art. 262 c.c., in
base al quale l'assunzione esclusiva del cognome paterno è prevista nell'ipotesi del
riconoscimento contestuale effettato da entrambi i genitori, mentre qualora il riconoscimento
avvenga in tempi diversi la regola è quella della priorità del riconoscimento, salva la possibilità
per il figlio, nel caso di riconoscimento successivo da parte del padre, di assumere il cognome
paterno in aggiunta o in sostituzione a quello materno.
Altro ordine di questioni si pone allorché si verta in ipotesi in cui il figlio, legittimo o naturale,
perda il cognome paterno a seguito di un'azione di contestazione o disconoscimento, ovvero
all'annullamento dell'atto di riconoscimento in virtù del quale aveva assunto il cognome paterno.
L'art. 953, d.p.r. n. 396/2000 prevede che in detti casi l'interessato può comunque richiedere il
riconoscimento del diritto al mantenimento del cognome originariamente attribuitogli se questo
costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale. Uguale facoltà di scelta
è concessa al maggiorenne che subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a
seguito della variazione di quello del genitore da cui il cognome deriva, nonché al figlio d'ignoti
riconosciuto, dopo il raggiungimento della maggiore età, da uno dei genitori o
contemporaneamente da entrambi.
È attualmente in discussione un progetto di legge che propone di introdurre la regola secondo la
quale l'ufficiale di stato civile deve attribuire al figlio nell'ordine il cognome del padre e quello
della madre. È comunque riconosciuta ai genitori la possibilità di stabilire un ordine diverso con
dichiarazione concorde resa all'ufficiale di stato civile all'atto del matrimonio o, in mancanza,
all'atto della registrazione della nascita del primo figlio. Al fine di assicurare che i figli degli
stessi
genitori abbiano il medesimo cognome, il progetto di legge propone che ai figli successivamente
generati dai medesimi genitori sia attribuito lo stesso cognome del primo figlio. Sempre per
garantire pari dignità ad entrambi i genitori, la riforma prevede che nel caso di riconoscimento
successivo di uno dei genitori il cognome del genitore che ha effettuato il riconoscimento
successivo, ovvero nei confronti del quale è stata accertata successivamente la filiazione, si

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aggiunga a quello del genitore che ha riconosciuto per primo. Infine, nell'ottica di evitare un
fenomeno di moltiplicazione dei cognomi nelle generazioni successive alla prima, è stata
introdotta la regola secondo la quale il figlio cui sono stati attribuiti i cognomi di entrambi i
genitori può trasmetterne al proprio figlio uno soltanto.
Alle norme sull'attribuzione del cognome si affiancano quelle relative alle aggiunte o modifica
del cognome: è prevista la possibilità per chiunque di fare richiesta per cambiare il cognome o
aggiungerne un altro al proprio. I soggetti richiedenti sono titolari di un mero interesse legittimo
all'accoglimento della richiesta di aggiunta o modifica; il Ministero dell'Interno, infatti, nel
decidere sulla richiesta, dovrà valutare se le ragioni addotte dagli istanti siano idonee a
giustificare la concessione. In particolare l'organo competente deve contemperare (secondo un
principio di discrezionalità) l'interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome, quale mezzo
d'identificazione della persona, con gli interessi privati - sia di ordine economico sia di ordine
morale - addotti dai richiedenti.
3. La potestà dei genitori
La legge non definisce la potestà genitoriale, ma si limita a stabilire che il figlio deve rispettare i
genitori (art. 315 c.c.) e che è soggetto alla loro potestà sino all'età maggiore o all'emancipazione
(art. 316 c.c.).
La potestà dei genitori è quell'insieme di poteri-doveri finalizzato alla crescita spirituale e fisica
del figlio, da esercitarsi nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni. L'art.
147 è probabilmente il momento più impegnativo di tutta la riforma in quanto in precedenza i
genitori erano tenuti ad educare e istruire secondo i principi morali (e addirittura nel testo
originario del '42, secondo il sentimento nazionale fascista): oggi non si fa più riferimento a
modelli astratti più o meno condivisi, ma si valorizza la struttura personale dell'individuo.
Ciò nonostante si è da alcuno evidenziato che il minore continua ad essere considerato non quale
soggetto di diritto, bensì quale destinatario incidentale di una serie di decisioni altrui. Tale
situazione di passività del minore sarebbe conseguenza di una normativa che tuttora lo considera
privo di autonomia ed inabile al compimento di qualunque scelta prima del raggiungimento della
maggiore età: promuovere la libertà del soggetto debole, oltre che la sua protezione finirebbe per
determinare un positivo mutamento di prospettiva nella disciplina della potestà, che verrebbe
interpretata come "responsabilità genitoriale", ossia non più solo quale potere-dovere esercitato
in posizione di disparità, bensì quale collaborazione ed indirizzo, in un piano di parità e nel
rispetto della personalità del minore.
Peraltro, è evidente come ad un simile risultato non possa giungersi soltanto attraverso strumenti
normativi.
Nella medesima direzione si muove un recente progetto di legge, il quale propone di inserire nel
corpo dell'art. 315 c.c. la previsione secondo la quale il figlio ha diritto, se capace di
discernimento, di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. In

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quest'ottica il concetto di potestà si sposta verso quello di responsabilità.
La riforma affida la potestà genitoria ad entrambi i genitori, che devono esercitarla
congiuntamente, con la possibilità per entrambi di rivolgersi al giudice.
L'attuazione del principio paritario, relativamente alla potestà dei genitori, ha subito alcuni
temperamenti al fine di evitare il coinvolgimento dei minori nelle possibili crisi della vita
coniugale: in particolare, rimane attribuito al padre il potere di adottare provvedimenti urgenti ed
indifferibili in caso d'incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio.
Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all'età maggiore e all'emancipazione, ma nulla
dice in ordine al momento in cui sorge la potestà genitoriale. L'inizio della potestà si colloca in
un momento precedente alla nascita poiché i genitori hanno il potere di rappresentare il
nascituro, quello di accettare eredità o donazioni devolute a suo favore, nonché di amministrare
le eredità devolute ai nascituri concepiti.
Circa la fine della potestà, l'art. 3161, c.c. dispone che essa perdura sino all'età maggiore o
all'emancipazione del figlio; inoltre la potestà viene meno per morte del figlio o dei genitori, a
seguito della dichiarazione di adottabilità e di adozione, del provvedimento di decadenza dalla
potestà, nel caso di disconoscimento della paternità, di accoglimento dell'impugnativa del
riconoscimento, di accertamento della sussistenza di un rapporto di filiazione non riconoscibile.
4. Il dovere di mantenimento
In base all'art. 30 Cost. è il primo obbligo dei genitori.
Il mantenimento deve essere commisurato ai redditi, alla consistenza del patrimonio ed
all'idoneità lavorativa e professionale dei genitori; in particolare, si ritiene che non possa
esaurirsi nelle cure prestate al figlio nella normale convivenza, ma riguardi anche la sfera della
vita di relazione e le esigenze di sviluppo della personalità. L'obbligo in esame si differenzia da
quello alimentare sotto vari aspetti: 1) la prestazione dovuta a titolo di mantenimento ha un
contenuto più esteso non
essendo limitata al soddisfacimento dei bisogni elementari di vita, ma comprende anche ogni
altra spesa necessaria per arricchire la personalità del beneficiario; 2) il mantenimento non è
subordinato allo stato di bisogno del beneficiario e discende automaticamente dalla posizione del
singolo all'interno della famiglia, a prescindere da qualunque altro presupposto, 3) l'onerato per
essere esonerato deve dimostrare, oltre alla mancanza di mezzi, anche l'incolpevole impossibilità
di procurarseli.
Il mantenimento dei figli grava su ciascun genitore chiamato a contribuirvi in proporzione alle
proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro. Il coniuge che abbia integralmente adempiuto
l'obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all'altro coniuge, è
legittimato ad agire 'iure proprio' nei confronti di quest'ultimo per il rimborso di detta quota,
anche per il periodo anteriore alla domanda. Tale principio vale anche con riferimento alla
filiazione naturale, qualora il genitore che ha mantenuto il figlio intenda agire nei confronti

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dell'altro, una volta che sia emersa la genitorialità a seguito di riconoscimento o dichiarazione
giudiziale. In caso d'inadempimento, potranno trovare applicazione le limitazioni della potestà
previste negli artt. 330 e 333 c.c., e potrà anche giungersi alla dichiarazione dello stato di
adottabilità se dovesse configurarsi la condizione di abbandono del minore.
L'obbligo non viene meno con la maggiore età, ma perdura fino a che i figli non siano in grado
di inserirsi nel mondo del lavoro ed ottenere un'autonoma fonte di sostentamento, ovvero non si
siano volontariamente messi in condizione di conseguire un proprio reddito.
Oggi l'art. 155 quinquies c.c. fissa esplicitamente la sussistenza dell'obbligo di mantenimento dei
figli maggiorenni non indipendenti economicamente. Ancorché la norma sia riferita alla fase di
separazione dei genitori, è evidente che il principio affermato vale in sé e per sé ed integra
quanto previsto dall'art. 30 Cost. e dall'art. 147 c.c.
La citata disposizione dell'art. 155 quinquies c.c. prevede che il mantenimento in linea di
massima si attui mediante il pagamento di un assegno periodico versato direttamente al figlio.
Tale modalità varrà tendenzialmente anche con riferimento ai figli di genitori non separati, ma in
detta ipotesi il giudice potrebbe disporre diversamente qualora il figlio continui a convivere con i
genitori, per es., prevedendo forme di mantenimento diretto, anche in relazione alle condizioni
economiche della famiglia.
Nei riguardi del figlio maggiorenne portatore di handicap grave, l'art. 155 quinquies2, c.c.
sancisce l'integrale applicazione delle disposizioni in tema di affidamento previste per i figli
minori. È certamente applicabile anche a genitori non separati e che pare prevedere l'obbligo dei
genitori di darsi carico per sempre della cura del figlio portatore di handicap.
In attuazione del dettato costituzionale, l'art. 148 c.c. disciplina l'ipotesi in cui i genitori non
abbiano mezzi sufficienti per adempiere l'obbligo di mantenimento, individuando negli
ascendenti, legittimi e naturali, in ordine di prossimità, i soggetti tenuti a fornire ai genitori i
mezzi necessari per l'adempimento dei loro doveri. Rispetto alla disciplina previgente, occorre
segnalare una significativa differenza: mentre in precedenza l'insufficienza dei mezzi dei genitori
determinava una sorta di trasferimento del dovere di mantenimento da questi ultimi agli
ascendenti, che così assumevano un'obbligazione nei confronti dei discendenti minori,
attualmente gli ascendenti sono tenuti a fornire i mezzi per il sostentamento ai genitori stessi. In
tal modo, il legislatore ha inteso escludere ogni intromissione degli ascendenti nell'esercizio
della potestà parentale tutelando, da un lato, i genitori, ai quali spetta in via esclusiva il compito
di stabilire come il contributo dei nonni debba essere impiegato, dall'altro, gli stessi minori, ai
quali viene garantito il mantenimento del legame familiare in tutti i suoi aspetti, anche nei casi di
difficoltà economica. La norma presenta una fisionomia particolare rispetto alle altre
disposizioni codicistiche che impongono obblighi alimentari, in quanto attribuisce il diritto di
credito non alle persone i cui bisogni debbono essere soddisfatti, bensì ad altri soggetti (i
genitori) ai quali spetta 'iure proprio' il diritto di pretendere l'adempimento di tale obbligazione.
La violazione dei doveri che ciascun genitore ha nei confronti dei figli può far sorgere una
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responsabilità ex contrattuale ed il conseguente obbligo di risarcire loro il danno cagionato.
5. Il dovere di istruzione
La Costituzione riconosce e tutela un diritto all'istruzione non soltanto in relazione al rapporto
tra genitori e figli (art. 301, Cost.), ma anche con riguardo a quello tra minore e istituzioni
esterne alla famiglia (art. 34 Cost.); si tratterebbe, pertanto, di una medesima funzione, attribuita
a soggetti diversi e realizzata con strumenti diversificati. All'interno della famiglia, i figli devono
essere istruiti nelle forme e nei limiti connaturati alle possibilità dei genitori, e nello stesso
tempo, deve essere consentito loro di esercitare il proprio diritto all'istruzione in una sede diversa
da quella familiare. Allo Stato spetta il dovere di predisporre le strutture attraverso le quali i
genitori possano adempiere al compito loro affidato, senza che, pertanto, si possa configurare
una sostituzione a questi ultimi nella guida all'insegnamento.
Più specificamente, agli organi scolastici e agli enti locali viene attribuita da un lato, la funzione
di predisporre le strutture affinché sia a tutti consentita una regolare frequenza della scuola
dell'obbligo, dall'altro, quella di vigilare al fine dell'individuazione della dispersione scolastica.
Per quanto attiene ai genitori, occorre evidenziare come la responsabilità per l'istruzione dei figli
fino a 14 anni venga sanzionata dall'art. 731 c.p., che punisce chiunque, rivestito di autorità o
incaricato della vigilanza sopra un minore, ometta senza giusto motivo di impartirgli o di fargli
impartire l'istruzione elementare (da estendersi anche a quella media alla luce dell'art. 34 Cost).
6. Il dovere di educazione
Il vigente testo dell'art. 147 c.c. privilegia il soggetto nei cui confronti deve essere realizzata la
funzione educativa, obbligando i genitori a tener conto delle capacità, dell'inclinazione e delle
aspirazioni dei figli.
Quanto al contenuto, nella Costituzione non vengono indicati i principi a cui attenersi
nell'educazione della prole, mentre risulta soltanto che il compito educativo appartiene alla
famiglia, alla quale deve essere riconosciuta piena libertà nella scelta dei criteri e dei mezzi
educativi ritenuti più idonei. La libertà educativa, peraltro, incontra un primo limite nei principi
fondamentali dell'ordinamento, risultanti dalle disposizioni costituzionali e dalla legislazione
penale, dalle quali si evince una sorta di minimo etico imprescindibile per una convivenza civile.
La funzione educativa all'interno della famiglia deve essere svolta mettendo al centro il concetto
di persona, in quanto il principio costituzionale di uguaglianza non ammette la discriminazione
del minore per la sua giovane età rispetto agli adulti.
La famiglia è la prima di quelle formazioni sociali previste all'art. 2 Cost. in cui si svolge la
personalità dell'individuo, e deve quindi adempiere al 'potenziamento della persona', ponendo il
soggetto al centro e rendendolo partecipe nella realizzazione del rapporto educativo. Può
emergere un conflitto tra libertà di espressione del minore e autorità dei genitori, che deve essere
risolto contemperando i diritti primari del minore e il principio di unità della famiglia. Il punto di
equilibrio fra queste opposte esigenze si è identificato nella capacità di discernimento del

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minore, intesa come gradualità dello sviluppo della persona, da valutare in concreto e in
relazione alle situazioni.
La giurisprudenza di merito ha da tempo riconosciuto un dovere dei genitori di rispettare le
scelte dei figli, soprattutto con riferimento allo studio, alla formazione professionale, all'impegno
politico-sociale, alla fede religiosa.
La giurisprudenza ha quindi cercato di individuare i limiti entro i quali debba essere
correttamente esercitata la potestà dei genitori, al fine non solo di garantire l'autonomia delle
scelte del minore, ma anche di costituire attorno a quest'ultimo una struttura familiare aperta in
vista di un armonico sviluppo della sua personalità.
Al riguardo, deve richiamarsi l'elaborazione giurisprudenziale relativa alla problematica dell'uso
di mezzi di correzione nell'esercizio dell'attività educativa. La Corte di Cassazione ha stabilito
che le norme del c.p. che disciplinano l'abuso dei mezzi di correzione (artt. 571 e 572 c.p.) vanno
interpretate alla luce della Costituzione e del vigente art. 147 c.c., tenuto anche conto di quanto
stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (New York, 1989), e
dalla Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli (Strasburgo, 1996). Ne deriva
che, secondo la Suprema Corte, il termine 'correzione' va assunto come sinonimo di educazione.
In ogni caso non può più ritenersi lecito l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi. Ciò sia
per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, oramai
soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non
addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta
educativa, un risultato di armonico sviluppo della personalità sensibile ai valori di pace, di
tolleranza, di convivenza, utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice.
7. I doveri dei figli verso i genitori
I doveri dei figli verso i genitori sono disciplinati all'art. 315 c.c., che prevede in capo al figlio
sia il dovere di rispettare i genitori, sia quello di contribuire, in relazione alle proprie sostanze e
al proprio reddito, al mantenimento della famiglia, finché convive con essa. La norma in esame
presenta sensibili innovazioni rispetto al testo previgente. Sotto il profilo dei rapporti personali si
registra la sostituzione dell'espressione 'onorare e rispettare' con il semplice dovere di 'rispettare'
i genitori. Tale formulazione chiarisce che la posizione dei figli rispetto ai genitori non deve
concepirsi in termini di soggezione e obbedienza, ma di semplice rispetto nei confronti di coloro
che sono investiti della potestà.
Sotto il profilo dei rapporti patrimoniali, il sorgere del dovere di contribuzione in capo al figlio
presuppone che egli conviva con la famiglia ed abbia propri redditi e/o sostanze proprie, mentre
non è in alcun modo collegato né al profilo dell'età né a quello del rapporto di parentela che lo
lega agli altri componenti della famiglia con i quali convive.
8. L'abbandono della casa familiare
L'art. 318 ce sancisce il dovere del figlio di non abbandonare la casa dei genitori (o del genitore

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che esercita su di lui la potestà) e riconosce in capo a questi ultimi il potere di richiamarlo anche
ricorrendo, se necessario, al giudice tutelare. Il genitore, dunque, potrà ricondurre all'abitazione
familiare il figlio allontanatosi anche mediante l'uso della coercizione fisica; conseguentemente,
secondo un'opinione, persino i comportamenti che integrano i reati di cui agli artt. 605 c.p.
(sequestro di persona) e 610 c.p. (violenza privata) dovrebbero in linea di principio ritenersi
scriminati dall'esercizio di tale diritto. L'intervento del giudice viene in considerazione solo
qualora i genitori non riescano autonomamente a ricondurre il figlio alla casa familiare.
9. L'esercizio congiunto della potestà ed il ricorso al giudice
In conformità all'art. 30 Cost., l'art. 3162, c.c. attribuisce la titolarità della potestà ad entrambi i
genitori, che sono tenuti ad esercitarla di comune accordo, determinando insieme l'indirizzo
generale che ciascuno poi potrà attuare anche separatamente.
Il legislatore ha disciplinato l'eventualità di un disaccordo dei genitori; e così il terzo comma
dell'art. 316 c.c., con una disposizione che sembra estendere al rapporto genitori-figli il principio
stabilito dall'art. 145 ce per l'ipotesi di disaccordo dei coniugi, prevede, in caso di contrasto su
questioni di particolare importanza, la possibilità per ciascuno dei genitori di ricorrere senza
formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più opportuni. In tal caso, il giudice,
sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore di anni 14, suggerisce le determinazioni che ritiene più
adeguate nell'interesse del figlio e dell'unità familiare (intervento conciliativo). Qualora, poi, il
contrasto permanga, il giudice può attribuire il potere di decidere, nel singolo caso, al genitore
che ritenga più idoneo a curare l'interesse del figlio (intervento a carattere sostitutivo).
10. L'esercizio della potestà nella filiazione naturale
Dal combinato disposto dagli artt. 317 bis e 261 ce è dato ricavare la disciplina della potestà nei
casi di filiazione naturale. L'esercizio del potere spetta al genitore che abbia effettuato il
riconoscimento e, nel caso in cui entrambi abbiano proceduto al riconoscimento, ad ambedue, se
conviventi o al solo genitore con cui il figlio convive; infine, qualora manchi il presupposto della
convivenza, la potestà è esercitata da quello dei genitori che per primo abbia riconosciuto il
figlio. Il giudice, nell'esclusivo interesse del minore, può disporre diversamente e può anche
nominare un tutore, escludendo entrambi i genitori dall'esercizio della potestà.
Solo in caso di violazione dei doveri da parte dei genitori, o in caso di loro incapacità, potrà
ammettersi la nomina di un tutore e la conseguente cessazione della potestà dei genitori. Le
disposizioni in materia di potestà non sono generalmente ritenute applicabili alla prole
irriconoscibile.
11. Il controllo giudiziario sulla potestà
Il legislatore ha previsto, nel caso in cui il genitore violi o trascuri i suoi doveri o abusi dei suoi
poteri o tenga comunque una condotta pregiudizievole nei confronti del figlio, la possibilità di
predisporre, ai sensi degli artt. 330 e 333 ce le misure necessarie ad assicurare al minore
un'effettiva tutela del suo interesse. Quando i genitori non esercitino adeguatamente l'ufficio
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nell'interesse del figlio, il giudice può intervenire privandoli della potestà, dettando prescrizioni
o
addirittura sostituendosi ad essi al fine di assicurare al minore il soddisfacimento pieno dei suoi
diritti.
I provvedimenti che possono essere adottati variano in misura della condotta dei genitori e della
gravità del pregiudizio che essa arreca al minore. Lo strumento più incisivo è senz'altro la
pronuncia di decadenza della potestà, che può essere comminata quando il genitore viola o
trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio (art.
330 c.c.). Quando invece il comportamento dei genitori non sia tale da richiedere la decadenza
dalla potestà ma appaia comunque pregiudizievole, il giudice può adottare i provvedimenti che,
sotto il profilo educativo, ritenga convenienti nell'interesse del figlio.
In entrambi i casi, il giudice può, per gravi motivi, disporre anche l'allontanamento del genitore
o convivente che maltratta o abusa del minore.
Lo strumento dell'allontanamento del soggetto abusante consente al giudice di proteggere il
minore senza sradicarlo dal contesto familiare, come avveniva in passato.
L'art. 334 c.c., infine, nel caso in cui il patrimonio del minore sia male amministrato, prevede
che il tribunale possa rimuovere uno o entrambi i genitori dall'amministrazione, provvedendo, in
quest'ultimo caso, a nominare un curatore.
12. La decadenza dalla potestà e la sua reintegrazione
II giudice può pronunciare la decadenza della potestà quando il genitore viola o trascura i doveri
ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio (330 c.c.).
In giurisprudenza, la decadenza dalla potestà genitoriale è stata comminata, ad es., rispetto al
genitore separato non affidatario che ometta di tenere presso di sé i figli per determinati periodi
di tempo, oppure nel caso di maltrattamenti a carico del solo coniuge, e non nei confronti dei
figli minori, quando quei maltrattamenti possano turbare l'equilibrio psicofisico dei figli, o
ancora in situazioni connesse all'uso di sostanze stupefacenti da parte dei genitori; in linea di
massima sembra potersi affermare che l'orientamento dei giudici minorili sia quello di
comminare la sanzione della decadenza non tanto per il fatto in sé dell'uso di droga, ma quando
la personalità del genitore tossicodipendente evidenzi un disinteresse per i figli e non faccia
intrawedere una volontà di riabilitarsi.
La decadenza dalla potestà genitoriale può inoltre essere conseguente all'irrogazione di una
condanna penale nei casi previsti dalla legge: così in ipotesi di condanna all'ergastolo, od alla
reclusione per reati d'incesto, supposizione o soppressione di stato, alterazione di stato,
occultamento di stato di un fanciullo legittimo o naturale riconosciuto; ancora, in caso di
condanna per delitti attinenti alla sfera sessuale, ed infine, per il reato d'impiego di minori
nell'accattonaggio.
La decadenza determina l'effetto di sospendere tutti i diritti-doveri connessi alla potestà, salvo

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l'obbligo di mantenimento, che del resto si ritiene comunemente estraneo al contenuto della
potestà genitoriale.
Il genitore nei cui confronti è stata pronunciata la decadenza rimane privato della potestà sul
figlio, il cui esercizio spetterà in via esclusiva all'altro genitore. Nei casi più gravi, oltre a
pronunciare la decadenza il giudice può disporre l'allontanamento del minore dalla residenza
familiare, oppure del genitore o del convivente che maltratta o abusa del minore.
L'art. 332 c.c. stabilisce che il giudice possa reintegrare nella potestà il genitore che ne è
decaduto, quando, cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, è escluso ogni
pericolo di pregiudizio per il figlio. La reintegrazione comporta il riacquisto dei poteri inerenti la
potestà, compreso l'usufrutto legale.
13. I provvedimenti «convenienti» previsti dall'art. 333 c.c.
Quando il comportamento di uno o di entrambi i genitori non sia tale da richiedere una
pronuncia di decadenza dalla potestà, ma appaia comunque pregiudizievole nei confronti del
figlio, l'art. 333 ce consente al giudice di adottare, secondo le circostanze, i provvedimenti che
ritenga opportuni, compreso, se necessario, l'allontanamento del minore o del genitore dalla casa
familiare. Tali provvedimenti sono comunque revocabili in qualsiasi momento dal tribunale,
quando siano venuti meno i motivi per cui erano stati emanati. I casi di giurisprudenza sono
stati:
- Rifiuto ingiustificato dei genitori di autorizzare i trattamenti sanitari necessari per
salvaguardare la salute del minore, ravvisando in tale diniego un comportamento pregiudizievole
nei confronti della prole;
- Il comportamento del genitore che, senza apparente giustificazione, impedisca al figlio ogni
contatto con i nonni, sicché si è riconosciuto a questi ultimi la facoltà di ricorrere al giudice per
conseguire un provvedimento che, limitando la potestà del genitore, assicuri loro la possibilità di
mantenere proficui rapporti con il minore.
14. La rappresentanza e l'amministrazione
L'art. 320 ce stabilisce che i genitori, o il genitore che esercita in via esclusiva la potestà,
rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni. L'esercizio dei
poteri di rappresentanza e amministrazione deve avvenire congiuntamente con riguardo agli atti
di straordinaria amministrazione nonché ai contratti con cui si concedono o si acquistano diritti
personali di godimento, mentre può avvenire disgiuntamente quando si tratti di compiere un atto
di ordinaria amministrazione.
La rappresentanza concerne sia gli atti aventi natura patrimoniale che quelli a carattere
personale.
Sotto l'aspetto patrimoniale, la rappresentanza viene in considerazione con riguardo
all'amministrazione del patrimonio. Sotto il profilo della cura della persona del minore, i genitori
agiranno in qualità di rappresentanti, in primo luogo, per la tutela dei diritti della personalità del

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minore, con particolare riguardo alla manifestazione del consenso per i trattamenti sanitari.
Sono esclusi dalla rappresentanza i cd. atti personalissimi. I genitori non possono, ad es., in vece
del loro figlio, fare testamento o procedere al riconoscimento di un suo figlio naturale. Essi non
possono inoltre stipulare donazioni.
La funzione sostitutiva dei genitori concerne non solo i nati ma anche i nascituri.
Gli atti di straordinaria amministrazione, oltre che richiedere la partecipazione congiunta dei
genitori, non possono essere compiuti se non per necessità o utilità evidente del figlio, e solo
dopo l'autorizzazione del giudice tutelare.
Qualora i genitori non vogliano ovvero siano nell'impossibilità di compiere uno o più atti
nell'interesse del figlio che eccedano l'ordinaria amministrazione, può essere nominato un
curatore speciale che provveda al compimento di tali atti.
Dovranno ritenersi invalidi gli atti compiuti senza la prescritta autorizzazione del giudice
tutelare.
L'annullamento potrà avvenire quando sia stato posto in essere da uno solo dei genitori un atto
per il quale è prevista la partecipazione congiunta, oppure quando i genitori abbiano agito in
conflitto d'interessi, infine nell'ipotesi in cui l'atto sia stato compiuto direttamente dal minore.
15. L'usufrutto legale
L'art. 324 c.c. dispone che i genitori esercenti la potestà hanno in comune l'usufrutto dei beni del
figlio.
Si ritiene che la previsione dell'usufrutto legale dei genitori sia ispirata dal generale principio
della solidarietà familiare; in questa prospettiva, la funzione dell'usufrutto legale consiste nel
realizzare un contributo del figlio al ménage della famiglia.
L'art. 3243, c.c. indica alcune categorie di beni sottratte all'usufrutto legale: i beni che il figlio ha
acquistato con i proventi del proprio lavoro; i beni lasciati o donati al figlio per intraprendere
una carriera, un'arte o una professione; i beni lasciati o donati con la condizione che i genitori
esercenti la potestà o uno di essi non ne abbiano l'usufrutto; i beni pervenuti al figlio per eredità,
legato o donazione e accettati nell'interesse del figlio contro la volontà dei genitori esercenti la
potestà. In tal
caso il figlio accetta per mezzo di un curatore speciale e i genitori vengono investiti della sola
amministrazione ma privati dell'usufrutto legale.
16. La tutela e la curatela del minore
La tutela è diretta alla cura del minore rimasto privo di genitori esercenti la potestà e trova
fondamento costituzionale nell'art. 302, Cost, ove è previsto che, in caso d'incapacità dei
genitori, sia la legge a disporre che siano assolti i loro compiti. In tali condizioni, al minore è
quindi nominato un tutore che lo rappresenta di fronte ai terzi e che, sostituendosi ai genitori,
provvede alla cura della sua persona e del suo patrimonio. Oltre all'ipotesi tipica su indicata,
l'istituto della tutela offre attualmente risposta anche alla sempre più numerosa presenza di

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minori stranieri non accompagnati, per i quali la distanza rende impossibile l'esercizio della
potestà genitoriale, pur non potendosi considerare il minore completamente privo di un ambiente
familiare idoneo. L'organo deputato a sovrintendere la tutela, con l'assistenza dei competenti
organi della p.a. (servizi sociali, ecc.), è il giudice tutelare; è quindi il g.t. che nomina il tutore e
il protutore - destinato a sostituire il primo ove questi si venga a trovare in conflitto d'interessi
con il minore ovvero quando il tutore per qualsiasi motivo, venga a mancare - appena avuta
notizia del fatto da cui deriva l'apertura della tutela.
Le funzioni di tutore e protutore sono svolte gratuitamente; tuttavia, in considerazione dell'entità
del patrimonio del minore e delle relative difficoltà di amministrazione, il g.t. può assegnare al
tutore un'equa indennità ed eventualmente autorizzarlo a farsi coadiuvare da persone stipendiate.
È comunque possibile, per il genitore che ha esercitato per ultimo la potestà, indicare nel
testamento, ovvero con un atto pubblico o una scrittura privata autenticata, la persona che più
ritiene idonea ad assumere il ruolo di tutore del proprio figlio. In tal caso, il g.t. potrà discostarsi
da tale designazione solo per gravi motivi, che generalmente si sostanziano nella mancanza dei
requisiti d'ineccepibile condotta, idonei a fondare l'affidamento sulle capacità del designato di
educare e istruire il minore, conformemente a quanto prescritto nell'art. 147 c.c., in relazione ai
doveri dei genitori verso i figli. Nell'ipotesi in cui manchi la designazione da parte del genitore,
ovvero questa non possa essere presa in considerazione per gravi motivi, è compito del g.t.
individuare la persona più idonea al ruolo di tutore, preferibilmente scegliendolo tra gli
ascendenti o gli altri parenti prossimi o affini del minore. Prima della nomina, il g.t. deve sentire
il minore che abbia già compiuto 16 anni; se opportuno si può procedere all'audizione anche del
minore infrasedicenne.
Una volta individuato, il tutore deve prestare giuramento davanti al g.t. di esercitare il proprio
ufficio con fedeltà e diligenza; tale atto testimonia la rilevanza pubblicistica dell'istituto e deve
essere prestato anche dal protutore. Solo dopo il giuramento il tutore assume formalmente
l'ufficio; prima di questo momento è quindi compito del g.t., d'ufficio o su richiesta del p.m.,
assumere i provvedimenti urgenti necessari alla cura del minore o all'amministrazione del suo
patrimonio. LE FUNZIONI DEL TUTORE: Il tutore ha la cura della persona del minore, lo
rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni. La disposizione vuole ricalcare quanto
previsto in materia di potestà dei genitori, ed in tal senso dispone anche che il minore, così come
verso i genitori, deve rispetto e obbedienza al tutore.
I poteri del tutore relativi alla cura della persona, pur disegnati a somiglianza di quelli previsti in
materia di potestà, sono meno estesi e soggetti a maggiori controlli rispetto a quelli dei genitori;
il tutore non è tenuto a convivere con il minore, né ha alcun obbligo di mantenimento nei suoi
confronti, deve, infatti, seguire le direttive impartite dal g.t. con riguardo a tutte le principali
decisioni in materia d'istruzione ed educazione del minore, dovendo inoltre sempre prendere in
considerazione la volontà espressa dal minore che abbia raggiunto la capacità di discernimento.
Sentito il parere del tutore, spetterà dunque al g.t. deliberare sul luogo ove il minore deve essere
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allevato, sul suo avviamento agli studi e sulla spesa annua occorrente per il suo mantenimento.
Le somme necessarie per la crescita del minore devono essere reperite all'interno del patrimonio
dello stesso e, in caso d'incapienza, saranno erogate da un ente di assistenza.
II generale potere di rappresentanza del minore in capo al tutore trova limite nel cd. 'atti
personalissimi' (matrimonio, riconoscimento del figlio naturale, ecc.), con riferimento ai quali il
tutore sarà semplicemente sentito dal g.t., il quale, a sua volta, dovrà valorizzare la volontà del
minore che abbia raggiunto una sufficiente capacità di discernimento.
Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia,
rispondendo dei danni cagionati in violazione dei propri doveri; in analoga responsabilità incorre
il protutore per la violazione dei doveri del proprio ufficio. Larga parte della dottrina afferma
che l'istituto della tutela mostri invero maggiore attenzione al profilo patrimoniale, piuttosto che
alla cura della persona.
Il primo atto cui il tutore deve provvedere, entro 10 giorni dalla nomina, è l'inventario dei beni
del minore, con il quale si documenta analiticamente la composizione e l'ammontare del
patrimonio del minore; prima che sia compiuto l'inventario il tutore deve limitarsi agli affari che
non ammettono dilazione, depositando danaro, titoli al portatore e preziosi, che eventualmente
appartengano al minore, presso un istituto di credito indicato dal g.t. Solo al termine
dell'inventario, il tutore e il protutore assumono e possono svolgere pienamente le proprie
funzioni.
Appurata così la natura e la consistenza del patrimonio del minore, il tutore, previa
autorizzazione del g.t., deve investire i relativi capitali, cioè i beni mobili idonei a produrre
reddito, con modalità
tali da contemperare le esigenze di sicurezze con quelle di fruttuosità dell'investimento stesso
(individuati dall'art. 372 c.c. nell'acquisto di titoli di Stato, d'immobili posti nello Stato, ecc.). Se,
nel patrimonio del minore, esiste un'azienda commerciale o agricola, si procede a un inventario
separato; spetterà poi al g.t. deliberare se continuare l'esercizio dell'impresa commerciale ovvero
alienarla, salva l'autorizzazione del Tribunale.
A maggiore garanzia del minore, per tutti gli atti di straordinaria amministrazione del suo
patrimonio, il tutore deve richiedere la preventiva autorizzazione del g.t. (per es., per l'acquisto
di beni non necessari per la vita quotidiana; per l'accettazione o la rinuncia all'eredità; per la
sottoscrizione di contratti di locazione ultranovennali; per la promozione di giudizi) o del
tribunale (per l'alienazione di beni, ad eccezione di quelli mobili soggetti a usura; per la
costituzione di pegni o ipoteche; per transizioni ecc.), sempre previo parere del g.t. Gli atti
compiuti dal tutore senza osservare le autorizzazioni giudiziali su indicate possono essere
annullati, su istanza dello stesso tutore, del minore o dei suoi eredi o aventi causa. Allo stesso
modo, possono essere annullati gli acquisti di beni o diritti del minore effettuati dal tutore o dal
protutore, ai quali è vietato anche prendere in locazione beni del minore, senza la previa
autorizzazione e le cautele fissate dal g.t. Il tutore, infine, deve tenere regolare contabilità della
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sua amministrazione e renderne conto al g.t. una volta all'anno; quest'ultimo può decidere di
sottoporre il rendiconto all'esame del protutore o di qualche prossimo parente o affine del
minore. Tenuto conto della particolare natura ed entità del patrimonio del minore, il g.t. può
imporre al tutore di prestare una cauzione, determinandone l'importo e le modalità.
# La cessazione dall'ufficio:
Il tutore del minore non è tenuto a continuare l'esercizio del proprio ufficio oltre i 10 anni, ad
eccezione degli ascendenti. Al di là del decorso di questo termine, il g.t. può sempre esonerare il
tutore, qualora l'esercizio dell'ufficio sia divenuto soverchiamente gravoso (es., per età, malattia,
ecc.) e se vi sia altra persona idonea a sostituirlo. L'esonero costituisce, dunque, una causa di
cessazione dall'ufficio pronunciata nell'interesse del tutore, che concreta un'attenuazione del
principio di obbligatorietà della tutela. Fino al momento in cui il g.t. non procede alla
sostituzione, il tutore rimane comunque nel pieno esercizio del proprio ufficio. Un'altra ipotesi di
decadenza dall'ufficio tutorio, pronunciata questa volta nell'interesse del minore, si ha nel caso in
cui il g.t. rimuova il tutore che si sia reso colpevole di negligenza, abbia abusato dei propri poteri
o si sia dimostrato inetto o comunque inadeguato all'ufficio, anche per atti estranei alla tutela
(per es. sia divenuto insolvente). Il tutore che cessi dalle proprie funzioni deve consegnare
immediatamente i beni del minore e prestare al g.t. il conto finale dell'amministrazione entro due
mesi, salva proroga concessa dallo stesso g.t.
L'apertura e la chiusura della tutela, la nomina, l'esonero o la rimozione del tutore, le risultanze
dell'inventario e del conto finale sono iscritti, a cura del cancelliere, nel registro delle tutele
istituito presso ogni g.t.; dell'apertura e della chiusura della tutela il cancelliere dà notizia, entro
10 giorni, anche all'ufficiale dello stato civile per l'annotazione a margine dell'atto di nascita del
minore.
# La curatela del minore emancipato:
Il minore che abbia compiuto 16 anni e sia stato autorizzato a contrarre matrimonio viene
emancipato di diritto, acquisendo la capacità giuridica di compiere autonomamente gli atti di
ordinaria amministrazione, mentre, per gli atti di straordinaria amministrazione, egli necessita
dell'assistenza di un curatore. Si noti che il concetto di 'assistenza' comporta che il curatore
debba limitarsi ad affiancare l'emancipato nelle decisioni più rilevanti, che non possa imporgli
una determinata decisione, dovendo invece esercitare la sua influenza perché il minore opti per
una soluzione condivisa da entrambi. Ove non si pervenga a tale soluzione, il minore può
ricorrere al g.t., il quale, se stima ingiustificato il rifiuto, nomina un curatore speciale per
assisterlo nel compimento di quel determinato atto. Analogamente, un curatore speciale è
nominato anche nel caso in cui sorga un conflitto d'interessi tra il curatore e il minore
emancipato; il curatore speciale ha gli stessi poteri che avrebbe avuto il curatore ordinario, pur
con riferimento al singolo atto per il quale è stato nominato.
Per gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, oltre all'assistenza del curatore, è necessaria

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l'autorizzazione del g.t.; per gli atti di cui all'art. 375 c.c. (alienazione di beni non di uso
quotidiano, costituzione di pegni o ipoteche, sottoscrizione di compromessi e transizioni), se il
curatore non è il genitore del minore, è invece necessaria l'autorizzazione del tribunale, su parere
del g.t. Gli atti compiuti senza la necessaria assistenza del curatore o senza l'autorizzazione
giudiziale (del g.t. o del tribunale) sono annullabili su istanza del minore o dei suoi eredi o aventi
causa.
L'autorizzazione del tribunale, previo parere del g.t. e sentito il curatore, è necessaria anche per
permettere all'emancipato di esercitare un'impresa commerciale. Il minore così autorizzato
acquista una capacità 'semipiena', in quanto può compiere da solo anche gli atti che eccedono
l'ordinaria amministrazione, pur se estranei all'impresa, sia perché chi è ritenuto capace di
compiere atti d'impresa, per loro natura particolarmente rischiosi, deve essere ritenuto capace di
compiere anche gli atti della vita civile, sia perché sarebbe difficile individuare una netta
demarcazione tra atti attinenti l'impresa e atti di straordinaria amministrazione ad essa estranei.
L'autorizzazione è subordinata all'accertamento della maturità e capacità necessarie in capo al
minore, dovendo essere considerati, in particolare, l'eventuale pregressa partecipazione
all'impresa familiare e le altre esperienze lavorative del minore, naturalmente in relazione alle
difficoltà gestionali dell'impresa che si vuole continuare o intraprendere e alla concreta
convenienza della stessa. Si tratta comunque
ancora di una capacità 'limitata' rispetto a quella del maggiorenne, rimangono, infatti, fermi, per
esempio, il divieto di fare donazioni e di accettare eredità senza il beneficio d'inventario.
17. Minori e mass media
Al di là dei compiti genitoriali è oramai maturata la consapevolezza che il minore, quale
soggetto in formazione, necessiti di tutele appropriate che devono essere approntate fuori
dall'ambiente familiare, e ciò con specifico riguardo ai suoi rapporti con i mass media.
Il rapporto minore/mass media deve contemperare il diritto di cronaca e il diritto del minore alla
riservatezza e a crescere in un ambiente idoneo, ricevendo adeguata educazione, tutti valori
tutelati costituzionalmente.
Il minore ha dunque diritto, in quanto soggetto passivo dei mass media, a fruire di programmi
adeguati alle proprie conoscenze e corrispondenti alle sue necessità di apprendimento, e quando
eventuale soggetto attivo, di tutele adeguate in termini di privacy.
Il primo intervento a riguardo fu quello di cui alla 1. 8 febbraio 1948, n. 47, che sanzionò le
pubblicazioni destinate ai fanciulli e agli adolescenti, se offensive del loro sentimento morale o
se idonee a costituire per essi un incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio, ovvero
ancora quando la descrizione o l'illustrazione di vicende poliziesche e di avventure sia fatta,
sistematicamente o ripetutamente, in modo da favorire lo sviluppo d'istinti di violenza e
d'indisciplina sociale.
In ambito penalistico la 1. n. 66/1996 introdusse a tutela del minore vittima di atti di violenza

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sessuale, lo svolgimento del dibattimento a porte chiuse, con conseguente divieto di
pubblicazione dei relativi atti e di tutti i documenti idonei, anche indirettamente, a identificare il
minore. Anche al di fuori di fatti a rilevanza penalistica, il d.lgs. n. 196/2003 pone il divieto di
pubblicazione e divulgazione di notizie idonee a consentire l'identificazione del minore
coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento giudiziario, anche in materie diverse da quella
penale.
Il d.lgs. n. 177/2005, cd. "Testo unico della radiotelevisione", all'art. 4, rubricato "Principi
generali del sistema radiotelevisivo a garanzia degli utenti", prevede che la disciplina del sistema
radiotelevisivo garantisca, a tutela degli utenti, la trasmissione di programmi che rispettino i
diritti fondamentali della persona, essendo comunque vietate le trasmissioni che anche in
relazione all'orario di trasmissione, possano nuocere allo sviluppo fisico, psichico o morale dei
minori o che presentino scene di violenza gratuita o insistita o efferata ovvero pornografiche;
analogamente le trasmissioni pubblicitarie e di televendite devono essere leali ed oneste,
rispettare la dignità della persona e non arrecare pregiudizio morale o fisico a minorenni. Inoltre,
è prevista l'applicazione di specifiche misure a tutela dei minori nella fascia oraria di
programmazione dalle ore 16 alle ore 19 e
all'interno dei programmi direttamente rivolti ai minori, con particolare riguardo ai messaggi
pubblicitari, alle promozioni e ad ogni altra forma di comunicazione commerciale e
pubblicitaria. Specifiche misure devono essere osservate nelle trasmissioni di commento degli
avvenimenti sportivi anche al fine di contribuire alla diffusione tra i giovani dei valori di una
competizione sportiva leale e rispettosa dell'avversario, per prevenire fenomeni di violenza legati
allo svolgimento di manifestazioni sportive.
L'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (istituita con 1. n. 249/1997) ha, tra l'altro, il
compito di garantire l'effettività delle disposizioni sopra citate, monitorando le
telecomunicazioni, specie quelle radiotelevisive, per individuare eventuali violazioni dei diritti
degli utenti. Con riferimento alla pubblicità ingannevole e comparativa, in qualsiasi forma
veicolata, sono state emanate norme a tutela dei giovani spettatori, definendo 'ingannevole' la
pubblicità che minacci, anche indirettamente, la sicurezza dei bambini e adolescenti, o abusi
della loro naturale credulità o mancanza di esperienza, oppure che, impiegando bambini ed
adolescenti in messaggi pubblicitari, abusi dei naturali sentimenti degli adulti verso i più giovani
(d.lgs. n. 145/2007).
18. La sottrazione internazionale di minori
Negli ultimi anni ha assunto crescente rilievo il fenomeno della sottrazione internazionale di
minori (ed. 'kidnapping'), ovvero del 'rapimento' del bambino da parte di uno dei genitori, per
condurlo in uno Stato diverso da quello ove egli abitualmente risiede.
Al fine di contrastare tale fenomeno sono state stipulate la Convenzione europea di
Lussemburgo del 20 maggio 1980, sul riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia

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di affidamento dei minori e di ristabilimento dell'affidamento, e quella dell'Aja del 25 ottobre
1980, sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, il cui scopo è garantire
l'immediato rientro del minore illecitamente sottratto nel luogo di residenza abituale, e,
conseguentemente, la sua restituzione al genitore il cui diritto di custodia è stato violato.
Le Convenzioni predispongono un procedimento facilmente accessibile e rapido, il cui fulcro è
rappresentato dall'istituzione in ciascuno Stato contraente di un'Autorità centrale, che ha il
compito di intrattenere rapporti di collaborazione e scambio d'informazioni con le Autorità
centrali degli altri Stati contraenti al fine di agevolare l'immediato rientro del minore.
La celerità e sommarietà dei procedimenti rispondono all'esigenza di evitare che le lungaggini
processuali si traducano nel radicamento del minore nel luogo ove è stato condotto. L'art. 12
Conv. dell'Aja prevede che le autorità giurisdizionali (o amministrative) possano ordinare il
ritorno del minore se adite entro il termine di un anno dall'avvenuta sottrazione; trascorso tale
termine il giudice potrà pur sempre ordinare il ritorno, salvo che non venga dimostrato che il
minore si sia
integrato nel nuovo ambiente. L'art. 81, lett. b), Conv. Lussemburgo prevede un termine ancora
più breve, fissato in 6 mesi dal trasferimento illecito.
La Convenzione di Lussemburgo presuppone che, anteriormente al trasferimento del minore, sia
stato emanato un provvedimento sull'affidamento, ovvero che, successivamente al trasferimento,
sia stato emanato un provvedimento sull'affidamento che abbia statuito sull'illiceità del
trasferimento predetto. Chiunque abbia ottenuto un provvedimento relativo all'affidamento di un
minore può, con l'attivazione del predetto strumento convenzionale, ottenere il riconoscimento o
l'esecuzione del provvedimento in un altro Stato contraente mediante il ricorso all'Autorità
centrale. Tale riconoscimento, però, non avviene automaticamente, ma è subordinato ad un
procedimento nel quale il giudice adito dovrà verificare l'esistenza di alcune condizioni tra cui la
competenza dell'autorità che ha emanato il provvedimento sull'affidamento o sul diritto di visita
di cui si chiede il riconoscimento e l'esecuzione, il rispetto del contraddittorio, la non contrarietà
del provvedimento medesimo ai principi fondamentali che regolano il diritto di famiglia e dei
minori dello Stato richiesto, la corrispondenza effettiva della decisione all'interesse del minore.
La Convenzione dell'Aja, invece, mira a ripristinare la custodia come situazione di fatto
mediante il rientro immediato del minore illecitamente sottratto alla custodia del genitore
affidatario. Essa prevede l'attivazione di un procedimento volto ad emettere un ordine di rientro
da parte dell'autorità giudiziaria o amministrativa del luogo ove il minore è stato illecitamente
condotto. La Convenzione dell'Aja appronta strumenti differenti a seconda che sia stato leso un
diritto di custodia - il quale comprende i diritti concernenti la cura della persona del minore e in
particolare il diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza - o un diritto di visita, il quale
comprende il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un
periodo limitato di tempo. Nell'ipotesi in cui venga violato un diritto di custodia, scopo della
Convenzione è quello di ripristinare la situazione precedente la sottrazione e, dunque,
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l'immediato rimpatrio del minore nel luogo di sua residenza abituale, mentre, qualora venga
violato il diritto di visita del genitore non affidatario, lo strumento convenzionale permette di
avviare una procedura legale volta a garantire l'esercizio (o l'organizzazione) di tale diritto.
In caso d'illecito trasferimento di un minore, il soggetto istante potrà attivare il procedimento per
il rimpatrio solo qualora, prima della sottrazione, esercitasse effettivamente il diritto di custodia.
Solo in casi tassativi il giudice può negare il rimpatrio al minore, ovvero quando la persona
affidataria non eserciti effettivamente il diritto di affidamento al momento del trasferimento o
del mancato rientro, o abbia consentito, anche successivamente, al trasferimento o al mancato
rientro; quando sussista un fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo
ritorno, a pericoli fisici o psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile; infine,
quando
l'autorità giudiziaria o amministrativa accerti che il minore si oppone al ritorno e che ha
raggiunto un'età ed un grado di maturità tali che sia opportuno tener conto del suo parere. In
nessun caso, però, il giudice adito potrà ammettere nel giudizio questioni attinenti alla
sussistenza del 'diritto di custodia' in capo al genitore istante. Dette questioni determinerebbero,
infatti, un allungamento del procedimento e, in ogni caso, rischierebbero di tramutarsi in
scorciatoie per ottenere un giudizio sul merito davanti a un tribunale di propria scelta (dando vita
al fenomeno del cd. 'forum shopping').
9° - L'ACCERTAMENTO DELLO STATO DI FILIAZIONE
1. Lo stato di figlio legittimo
In base alle regole vigenti, figli legittimi sono quelli generati dai coniugi in costanza di
matrimonio. L'ordinamento riconosce, infatti, al matrimonio l'attitudine a determinare lo status
personale dei figli concepiti dai coniugi, poiché comporta l'obbligo di fedeltà e quindi
l'esclusività della relazione sessuale, che appunto consente al legislatore di affermare che il
marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio (art. 231 c.c.).
Presupposti della legittimità della filiazione sono i seguenti: a) matrimonio dei genitori; b) parto
della moglie; e) concepimento in costanza di matrimonio; d) paternità del marito.
a) Il matrimonio dei genitori può essere civile, oppure religioso con effetti civili. Non è
necessario che il matrimonio sia valido, poiché, secondo l'art. 128 c.c., gli effetti del matrimonio
valido si producono anche rispetto ai figli nati o concepiti durante il matrimonio dichiarato nullo,
nonché rispetto ai figli nati prima del matrimonio e riconosciuti anteriormente alla sentenza che
dichiara la nullità. Rispetto ai figli, gli effetti del matrimonio valido si producono anche qualora
entrambi i coniugi siano in mala fede - cioè conoscano la causa d'invalidità del vincolo - salvo
che la nullità dipenda da bigamia o da incesto.
b) in ordine all'accertamento della maternità, in primo luogo deve mettersi in risalto che non
necessariamente la donna che ha dato alla luce un figlio ne risulta giuridicamente la madre.
Nell'atto di nascita sono individuati il luogo, l'anno, il mese, il giorno e l'ora della nascita, le

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generalità, la cittadinanza e la residenza dei genitori legittimi, nonché di quelli che rendono la
dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale. Sono altresì indicati il sesso del bambino
e il nome che gli viene dato.
e) L'art. 231 ce stabilisce che il marito è il padre del figlio concepito durante il matrimonio; si
tratta di una presunzione in forza della quale la paternità del figlio nato da donna coniugata viene
attribuita per legge, senza che sia necessaria alcuna dichiarazione da parte del marito, né tanto
meno una concreta ricerca dell'effettiva paternità.
Secondo quanto disposto dall'art. 232 ce si presume concepito durante il matrimonio il figlio
nato quando sono trascorsi 180 giorni dalla celebrazione e non ne siano ancora trascorsi 300
dall'annullamento, dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio. La
legge (art. 233 c.c.) reputa legittimo, salva l'esperibilità del disconoscimento della paternità,
anche il figlio nato prima che siano trascorsi 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio.
Il figlio nato dopo i 300 giorni non acquista lo status di legittimità, salva la prova di una
gravidanza di eccezionale durata.
2. La prova della filiazione, titolo dello stato e possesso di stato
L'art. 236 c.c. stabilisce che la filiazione legittima si prova con l'atto di nascita iscritto nei
registri dello stato civile secondo le modalità già esposte. L'atto di nascita prova legalmente la
filiazione legittima e dunque fornisce la prova di tutti gli elementi che la costituiscono:
maternità, matrimonio, concepimento in costanza di matrimonio e paternità, quest'ultima,
attribuita per legge proprio in forza dell'atto di nascita. L'atto di nascita è titolo dello stato di
filiazione; esso, peraltro, non ha carattere costitutivo, tant'è vero che in mancanza di atto di
nascita la filiazione legittima può essere provata con il possesso continuo dello stato di figlio
legittimo.
L'art. 237 c.c. dispone che il possesso di stato risulta da una serie di fatti che nel loro complesso
valgono a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela tra una persona e la famiglia a cui
essa pretende di appartenere. Le figure del possesso di stato e dell'atto di nascita differiscono dal
punto di vista strutturale, in quanto la prima si riassume in un insieme di fatti che a loro volta
devono essere provati, mentre la seconda è prova documentale. Esse, tuttavia, sono assimilabili
sotto il profilo funzionale, essendo entrambe prove legali dello stato di figlio legittimo, e in
quest'ambito si vengono a trovare in rapporto di sussidiarietà, atteso che il possesso di stato vale
come prova dello status di figlio legittimo solo in assenza dell'atto di nascita.
Quando manca l'atto di nascita o il possesso di stato o il figlio fu iscritto sotto falsi nomi o come
nato da genitori ignoti, la prova della filiazione legittima può essere data anche per testimoni
(241 c.c.); essa tuttavia risulta limitata nella sua ammissibilità dalla sussistenza di un principio di
prova per iscritto (art. 242 c.c.). Ulteriore caso di ammissione della prova per testimoni si ha
qualora esistano presunzioni e indizi abbastanza gravi da determinare l'ammissione della prova.

101
3. Le azioni di stato legittimo in generale
Con l'espressione azione di stato si definisce l'azione con la quale si chiede al giudice una
pronunzia sullo stato della persona. Le azioni di stato legittimo disciplinate dalla legge sono:
l'azione di riconoscimento della paternità;
l'azione di contestazione della legittimità;
l'azione di reclamo della legittimità. Esse sono dirette ad ottenere una pronunzia giudiziale
relativa allo stato di figlio legittimo. I caratteri delle azioni di stato sono:
1) l'indisponibilità delle situazioni familiari;
2) l'esclusiva competenza del tribunale di tutte le cause relative allo stato delle persone;
3) il divieto di rimettere ad arbitri le controversie che riguardano questioni di stato.
Dalle azioni di stato si distinguono le azioni di rettificazione degli atti dello stato civile, queste
ultime differenti dalle prime in quanto essenzialmente rivolte alla correzione di errori materiali e
ad integrare atti incompleti.
4. Il disconoscimento della paternità
L'azione di disconoscimento della paternità è diretta a privare il figlio dello stato di legittimità
attribuitogli in forza degli artt. 231, 232, 233 c.c. Le azioni di disconoscimento della paternità
sono due: l'una disciplinata dall'art. 233 c.c. consente il disconoscimento del figlio nato prima
che siano trascorsi 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio; l'altra, di cui all'art. 235 c.c. si
esercita nell'ipotesi di figlio concepito - in forza della presunzione di legge - durante il
matrimonio. Sono legittimati ad agire oltre al marito anche la madre e il figlio. Inoltre, l'azione
può essere promossa da un curatore speciale, nominato dal giudice, assunte sommarie
informazioni su istanza del figlio minore che abbia compiuto i 16 anni, o del p.m. quando si
tratti di minore di età inferiore; in proposito si ritiene che il tribunale, prima di disporre la
nomina, debba valutare se il disconoscimento sia conveniente al minore. L'esercizio di tale
azione è subordinato a due presupposti:
la nascita del figlio;
l'esistenza del titolo di stato di figlio legittimo. Si è esclusa la proponibilità del disconoscimento
prima della nascita, poiché l'inesistenza del titolo dello stato impedisce il sorgere dell'interesse
all'azione; infatti, presupposto dell'esercizio dell'azione di disconoscimento della paternità è
l'esistenza del titolo dello stato di figlio legittimo (o del possesso di stato) in capo al
disconoscendo. Si ritiene che sino a quando non si sia forma l'atto di nascita - che è titolo dello
stato in quanto contiene l'accertamento della maternità e dà quindi efficacia alla presunzione di
paternità - non sorga alcuno stato di legittimità da disconoscere.
Da ciò deriva che l'azione sarà ammissibile solo se diretta a contestare uno stato accertato e
documentato dall'atto di nascita. L'art. 235 ce consente l'azione di disconoscimento nei seguenti
casi: se i coniugi non hanno coabitato nel periodo compreso tra il 300° e 180° giorno prima della
nascita: è necessario e sufficiente provare la mancanza di coabitazione e, quindi, l'assenza di

102
rapporti intimi tra i coniugi per tutto il periodo legale del concepimento; la prova può essere
raggiunta anche per presunzioni. Ne consegue che l'attore dovrà necessariamente provare il fatto
della mancata coabitazione e che l'azione sarà rigettata qualora il convenuto riesca a provare una
riunione, anche temporanea, che abbia reso possibile il concepimento; se durante il tempo
predetto il marito era affetto d'impotenza anche solo di generare: l'impotenza può essere sia
coèundi che generandi. Secondo l'interpretazione che appare preferibile, al termine impotenza va
dato un significato restrittivo, escludendo, quindi che possa ricomprendersi in questa ipotesi
l'inidoneità del marito di procreare un figlio con determinate caratteristiche somatiche; nel caso
in cui, nonostante l'impotenza, vi sia produzione di seme del marito idonea a consentire
un'inseminazione artificiale omologa, i convenuti potranno fornire la relativa prova in via
d'eccezione, all'esito della quale la domanda dovrà essere rigettata. Nel caso in cui il marito
impotente abbia acconsentito all'inseminazione etcrologa della moglie - nonostante il divieto di
legge - egli non può agire in disconoscimento.
se nel detto periodo la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto celata al marito la propria
gravidanza e la nascita. Questa ipotesi deve essere accomunata da prove del DNA.
Infatti, in tali casi, ossia provato l'adulterio o il celamento, l'attore è ammesso a dimostrare che il
figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del
presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità.
La Corte Costituzionale ha di recente dichiarato illegittimo l'art. 2351, n. 3, c.c. nella parte in cui
subordina l'esame delle prove genetiche alla previa dimostrazione dell'adulterio della moglie. La
Corte ha statuito come detta subordinazione probatoria sia, da un lato irragionevole, con
conseguente violazione dell'art. 3 Cost., attesa l'irrilevanza della prova dell'adulterio al fine
dell'accoglimento nel merito della domanda di disconoscimento e, dall'altro, comporti un
sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 Cost.
L'intervento della Consulta è molto significativo poiché, in sostanza, ha accantonato l'impianto
casistico sul quale si fondava l'azione di disconoscimento ed ha incentrato l'esito dell'intero
procedimento sui risultati degli esami genetico-ematologici, ritenuti idonei, da soli, a fondare
l'accoglimento della domanda.
Il termine di decadenza per esercitare l'azione di disconoscimento della paternità è disciplinato
dall'art. 244 ce:
la madre deve proporre l'azione entro sei mesi dalla nascita del figlio o dalla scoperta
dell'impotenza del marito;
il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno, che decorre dal giorno della nascita
quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio, oppure il giorno del suo
ritorno nel luogo in cui è nato il figlio o in cui è la residenza familiare se egli al tempo della
nascita era lontano;
l'azione può essere promossa dal figlio entro un anno dal compimento della maggiore età o dal
momento in cui viene successivamente a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il
103
disconoscimento. La sentenza che accoglie l'azione travolge lo stato di legittimità del figlio con
effetto retroattivo.
5. La contestazione di legittimità
L'azione di contestazione di legittimità è diretta a far dichiarare l'inesistenza dello stato di
legittimità dal soggetto contro cui è rivolta. Presuppone in capo al figlio un titolo di stato di
filiazione legittima o di un possesso di stato. L'azione può essere esercitata attaccando uno dei
seguenti presupposti di legittimità:
esistenza o validità del vincolo matrimoniale dei genitori;
effettività del parto della donna indicata come madre dall'atto di nascita;
corrispondenza tra l'identità del nato e quella risultante dall'atto di nascita;
concepimento in matrimonio. Primo presupposto della legittimità è dunque l'esistenza di un
matrimonio tra i genitori. Lo stato di legittimità può quindi essere impugnato accampando
l'inesistenza del matrimonio, perché mai celebrato, o perché, trattandosi di matrimonio religioso,
non poteva essere trascritto. Con limiti molto ristretti l'azione di contestazione può anche basarsi
sulla nullità del matrimonio. Il caso in cui l'invalidità del vincolo matrimoniale consente
l'accoglimento dell'azione di contestazione è quello di nullità del vincolo, contratto in malafede
da entrambi i coniugi, purché la nullità dipenda da bigamia o da incesto e sia stata dichiarata in
apposito atto. Tutte le altre ragioni di nullità non incidono sullo status dei figli.
Con riferimento alla maternità, vengono in rilievo le ipotesi di supposizione di parto o
sostituzione di neonato: l'azione di contestazione sarà, infatti, diretta ad inficiare le risultanze
dell'atto di nascita in cui si documenta non solo il fatto del parto, ma anche l'identità della donna
che ha partorito. L'attore mira quindi a provare che la donna che risulta essere madre di un
determinato soggetto in realtà non l'ha partorito.
L'azione di contestazione della legittimità spetta a chi dall'atto di nascita del figlio risulti suo
genitore e a chiunque vi abbia interesse. In tale ampia dizione va ricompreso anche il figlio
poiché non è detto che chi ha un titolo dello stato di figlio legittimo abbia sempre interesse a
conservarlo, anche quando il titolo documenta uno stato che non è il suo. L'azione di
contestazione, cui il figlio è stato legittimato, ha sempre carattere autonomo ed è indipendente
dall'eventuale azione di reclamo.
Non incombe sugli attori l'onere di provare l'interesse ad agire, che può essere sia di natura
patrimoniale che di indole esclusivamente morale.
Passivamente legittimati sono i titolari del rapporto, cioè il figlio e i genitori; l'azione è
imprescrittibile.
6. Il reclamo di legittimità
L'azione di reclamo della legittimità, menzionata espressamente dall'art. 249 c.c., risulta
disciplinata dagli artt. 241, 242 e 243 ce I presupposti dai quali sorge l'interesse all'azione di
reclamo di legittimità sono:

104
la mancanza dell'atto di nascita o del possesso di stato;
pur esistendo l'atto di nascita, che il figlio risulti come di ignoti;
pur esistendo l'atto di nascita, che il figlio sia stato iscritto sotto falso nome per cui i veri
genitori non sono quelli indicati nell'atto. Nella prima e nella seconda ipotesi non esiste alcun
titolo dello stato per cui l'azione di reclamo è sicuramente esperibile, mentre nella terza ipotesi il
reclamante è pur sempre fornito di un titolo dello stato - quello di figlio legittimo delle persone
indicate come genitori nell'atto di nascita - per cui si rende necessaria la rimozione, attraverso
l'azione di contestazione della legittimità, di quel titolo.
L'azione in esame rimane sempre preclusa a chi sia titolare di uno stato di figlio legittimo
derivante da adozione piena, che, facendo cessare ogni legame con la famiglia d'origine, rende
improponibile qualsiasi domanda volta all'accertamento della filiazione legittima o naturale.
Colui che reclama lo stato di figlio legittimo deve provare tutti i presupposti necessari per
l'esistenza di tale stato: maternità, matrimonio tra i genitori, concepimento in costanza di
matrimonio, paternità. Il matrimonio dei genitori si prova con l'atto di celebrazione estratto dai
registri dello stato civile. La prova della maternità si risolve nella prova del parto della donna
che si pretende essere la madre e dell'identità del figlio di lei e del reclamante. La prova del
concepimento in costanza di matrimonio risulterà dal confronto della data di nascita con quella
di celebrazione o di scioglimento del matrimonio. Se il figlio è nato nei 180 giorni dalla
celebrazione del matrimonio egli ha l'onere di provare la paternità del marito, se è nato dopo i
300 giorni dallo scioglimento deve darsi la prova della gravidanza di eccezionale durata.
L'art. 241 dopo aver sancito che in mancanza di atto di nascita, od in presenza d'iscrizione del
figlio come di ignoti o sotto falsi nomi, la prova della filiazione può essere data per testimoni,
dispone, al secondo comma, che tale prova non può essere ammessa che quando vi è un
principio di prova per iscritto, ovvero quando le presunzioni e gli indizi sono abbastanza gravi
da determinare l'ammissione della prova. Il principio di prova scritta, cui in definitiva è
subordinato l'esercizio dell'azione, risulta dai documenti di famiglia, dai registri e dalle carte
private del padre o della madre, dagli atti pubblici e privati provenienti da una delle parti che
sono impegnate nella controversia o da altra persona, che, se fosse in vita, avrebbe interesse
nella controversia (art. 242 c.c.).
Legittimato all'azione di reclamo è il figlio, oppure i suoi discendenti se questi non l'abbia
promossa e sia morto in età minore o nei 5 anni dopo aver raggiunto la maggiore età. È
opportuno ricordare che l'azione non potrà mai essere promossa da chi dal titolo risulta genitore
ed è quindi titolare della potestà sul minore. In tal caso, infatti, l'azione di reclamo presuppone il
previo (o contestuale) esercizio dell'azione di contestazione della legittimità che, se accolta, fa
venir meno i poteri di rappresentanza del genitore. Sarà quindi indispensabile, per l'esercizio
dell'azione di reclamo, la nomina di un nuovo rappresentante. Qualora, invece, il figlio sia un
minore emancipato o un maggiorenne inabilitato, si è concordi nel ritenere che l'azione possa
essere autonomamente esercitata, senza necessità di assistenza.
105
L'azione è dichiarata imprescrittibile riguardo al figlio. L'azione deve essere proposta contro
entrambi i genitori, se sono vivi, e, in caso di morte di questi o di uno solo di essi, contro gli
eredi. Legittimati passivi sono i genitori o, in mancanza i loro eredi. Infine, sempre necessario, a
pena di nullità rilevabile d'ufficio, è l'intervento del p.m.
7. Il riconoscimento del figlio naturale
Il riconoscimento del figlio naturale è un atto unilaterale, spontaneo ed irrevocabile del genitore
-da effettuarsi nell'atto di nascita o nell'apposita dichiarazione posteriore alla nascita o al
concepimento nelle forme indicate dall'art. 254 c.c. - in forza del quale un soggetto dichiara la
propria maternità o paternità nei confronti di una determinata persona.
Caratteristica del riconoscimento è la sua spontaneità, stante l'assoluta discrezionalità del
genitore nell'effettuarlo. Trattasi peraltro di una discrezionalità variamente condizionata:
innanzitutto, perché presuppone la veridicità del rapporto biologico che mira ad accertare;
inoltre, perché il mancato riconoscimento consente la dichiarazione giudiziale di genitorialità;
occorre considerare infine che, in mancanza di riconoscimento da parte di entrambi i genitori, di
regola si dà luogo all'apertura della procedura di adozione.
Nel sistema di legge, anche dopo la riforma, il riconoscimento rappresenta una facoltà e non un
obbligo del genitore.
Si discute se possa configurarsi un diritto del genitore al riconoscimento.
Anche ad ammettere l'esistenza di un "diritto alla genitorialità", resta il fatto che in concreto
detto diritto risulta limitato, non solo con riguardo alla sussistenza dell'interesse del minore, ma
anche per ragioni attinenti il buon costume o l'ordine pubblico. Una lettura complessiva di queste
disposizioni conferma la priorità dell'interesse del minore rispetto al pur esistente diritto del
genitore al
riconoscimento.
Il riconoscimento è un atto giuridico in senso stretto, in quanto atto umano volontario, in cui
l'elemento volitivo risulta circoscritto al compimento dell'atto e non ai suoi effetti, visto che la
volontà nulla può in ordine alla disciplina del rapporto, che risulta interamente regolato dalla
legge.
L'art. 2581 c.c. dispone che il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui
fu fatto, salvo i casi previsti dalla legge. La regola dunque è che il rapporto di filiazione
s'instaura tra il genitore e il figlio; qualora il riconoscimento sia effettuato da entrambi i genitori,
tra gli stessi non sorge alcun rapporto giuridico, costituendosi invece due distinti rapporti di
filiazione.
Dall'impossibilità del rapporto di filiazione di espandere i suoi effetti oltre la relazione genitore e
figlio, la dottrina ha però tratto la convinzione dell'irrilevanza della parentela naturale al di fuori
delle ipotesi espressamente previste e della conseguente inesistenza di legami giuridici tra il
figlio naturale ed i parenti del genitore che lo ha riconosciuto.

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A ben vedere, nell'ordinamento possono rintracciarsi numerose ipotesi in cui assume rilevanza il
rapporto tra il figlio naturale ed i parenti del genitore, così come vi sono ampi riferimenti al
riconoscimento del valore e dell'importanza dei vincoli di solidarietà e affetto su cui si fondano
le relazioni parentali. È sufficiente pensare al riconoscimento, nella nuova legge sull'affidamento
condiviso, del diritto per il figlio di continuare a frequentare ascendenti e parenti dei propri
genitori anche naturali.
Secondo quanto disposto dall'art. 250 ce il figlio naturale può essere riconosciuto dal padre e
dalla madre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del concepimento;
pertanto la legge, superando antichi divieti, consente il riconoscimento del figlio adulterino.
Il riconoscimento dei figli nati da genitori legali da vincoli di parentela è ammesso solo in casi
determinati.
# I requisiti per effettuare il riconoscimento:
Il riconoscimento del figlio naturale può essere effettuato solo dal genitore, che deve avere la
capacità legale di agire. Tuttavia, il minore che ha compiuto il sedicesimo anno di età è ammesso
al riconoscimento sul presupposto che il minore ultrasedicenne abbia raggiunto la necessaria
maturità.
Al fine di ovviare al rischio che il figlio di minore infrasedicenne sia, per questo solo fatto, posto
in adozione, si è stabilito che nei casi di non riconoscibilità per difetto di età dei genitori la
procedura sia rinviata, anche d'ufficio, sino al compimento del sedicesimo anno di età dal
genitore naturale o dai parenti fino al quarto grado o in altro modo conveniente, permanendo
comunque un rapporto con il genitore naturale.
La legge prevede espressamente che è impugnabile il riconoscimento fatto dall'interdetto
giudiziale, mentre l'interdetto legale può procedere validamente al riconoscimento.
# L'assenso del figlio ultrasedicenne:
La legge richiede, quali condizioni di efficacia
del riconoscimento rispettivamente l'assenso del figlio se ultrasedicenne, ovvero, se
infrasedicenne, il consenso del genitore che lo ha riconosciuto per primo; solo per il minore di
16 anni non riconosciuto è possibile un riconoscimento immediatamente efficace.
La norma dell'art. 250 c.c. intende evitare riconoscimenti interessati o sgraditi, in quanto
effettuati a grande distanza di tempo dalla nascita nei confronti di un soggetto socialmente ben
caratterizzato, che potrebbe subire un pregiudizio dal riconoscimento.
# Il consenso al riconoscimento:
Il genitore che intende riconoscere il figlio infrasedicenne, già riconosciuto, deve ottenere il
consenso dell'altro. Lo scopo della disposizione è sempre quello di impedire riconoscimenti
tardivi prestati contro l'interesse del minore; interesse la cui tutela viene affidata al genitore che
per primo lo ha riconosciuto, salvo comunque prevedere un controllo giudiziale nel caso in cui il
consenso venga rifiutato.
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L'art. 2504 c.c., sul presupposto che il riconoscimento deve rispondere all'interesse del figlio,
dispone che il consenso dell'altro genitore non possa essere rifiutato nell'ipotesi in cui sussista
l'interesse del minore. Cosicché, in caso di opposizione, il genitore che intende effettuare il
riconoscimento può rivolgersi al tribunale per i minorenni, il quale, sentito il minore in
contraddittorio col genitore che si oppone e con l'intervento del p.m., decide con sentenza.
In giurisprudenza si è negato il riconoscimento solo in casi eccezionali, ad es. quando il genitore
abbia una personalità morale negativa, soprattutto se accompagnata ad una situazione economica
precaria oppure quando vi sia il rischio che il riconoscimento turbi la situazione affettiva in cui
vive il minore.
# Il divieto di riconoscimento dei figli nati da persone legate da vincolo di parentela:
L'art. 251 ce stabilisce il divieto di riconoscimento di figli nati da persone tra le quali esiste un
vincolo di parentela, anche naturale in linea retta all'infinito, oppure in linea collaterale nel
secondo grado ovvero un vincolo di affinità in linea retta.
Il divieto non opera nel caso in cui i genitori all'epoca del concepimento, ignorando il vincolo tra
essi intercorrente, fossero in buona fede; ovvero allorquando sia stato dichiarato nullo il
matrimonio dal quale deriva l'affinità. Quando uno dei due genitori era in buona fede, il
riconoscimento del figlio spetta solo a lui. Tuttavia, in tutti questi casi, che costituiscono
eccezioni al divieto, il riconoscimento dovrà essere autorizzato dal giudice, avuto riguardo
all'interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio.
L'impianto codici stico sembra riflettere una precisa politica del diritto, alla stregua della quale il
divieto di riconoscimento suona quale sanzione di un comportamento cosciente dei genitori
contrario alla morale ed al diritto. L'interesse del figlio al conseguimento dello status di figlio
riconosciuto appare rilevante in via subordinata, e cioè se sia comprovato che il comportamento
dei genitori - in quanto in buona fede - non è sanzionabile: solo in detta ipotesi, infatti, (oltre a
quella in cui sia dichiarato nullo il matrimonio da cui deriva l'affinità) il giudice potrà
autorizzare il riconoscimento valutandone la convenienza per il minore.
Secondo l'orientamento attualmente prevalente, la sussistenza della buona fede è presunta; stante
la necessità di autorizzazione al riconoscimento, non si pone più il problema di una valutazione
della buona fede da parte dell'ufficiale di stato civile; naturalmente è sempre possibile che il
riconoscimento autorizzato e ricevuto dall'ufficiale di stato civile sia poi impugnato da chiunque
vi abbia interesse per difetto di buona fede, che, in conformità alla regola generale, dovrà essere
provato dall'attore.
# L'inammissibilità del riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo:
L'art. 253 c.c. fissa il principio dell'inammissibilità di un riconoscimento in contrasto con lo stato
di figlio legittimo o legittimato in cui la persona si trova. Il divieto origina in quanto
diversamente si porrebbe in contrasto con le risultanze dell'atto di nascita di figlio legittimo. Tale
prescrizione comporta che l'inammissibilità operi esclusivamente qualora il figlio che s'intende

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riconoscere risulti legittimo perché dotato del corrispondente titolo dello stato. Ne consegue che
sarà sempre possibile riconoscere il nato da donna coniugata quando non si sia formato l'atto di
nascita di figlio legittimo.
Data la ratio, che è quella di non creare confliggenti titoli di stato, la disposizione in oggetto
deve essere interpretata estensivamente, nel senso che dovrà essere applicata anche nelle ipotesi
di un soggetto che sia già titolare dello stato di figlio naturale riconosciuto.
Qualora venga effettuato un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo,
legittimato o riconosciuto di cui è titolare il figlio, il riconoscimento non è efficace; peraltro, il
successivo venir meno del titolo di stato di cui era titolare il figlio - per es. a seguito di
disconoscimento della paternità o d'impugnativa del precedente riconoscimento - consente al
riconoscimento di acquistare effetti, stante il carattere retroattivo della sentenza che fa venir
meno l'originario status del figlio.
# La forma del riconoscimento:
Il primo comma dell'art. 254 ce dispone che il riconoscimento del figlio naturale è fatto nell'atto
di nascita, oppure con apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al concepimento, davanti
all'ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico
o in un testamento, qualunque sia la forma di questo.
Alla forma pubblica dell'atto è sottesa l'esigenza di garantire il più alto grado possibile di
certezza in ordine al tempo e all'autore del riconoscimento e di richiamare l'attenzione del
dichiarante
sull'importanza dell'atto.
L'atto di riconoscimento è pubblicizzato attraverso l'iscrizione nei registri dello stato civile
separatamente dalla dichiarazione di nascita.
Quando la documentazione pubblica si realizza mediante atto separato dalla dichiarazione di
nascita, alle predette formalità si accompagna l'annotazione nell'atto di nascita.
Dal disposto dell'art. 2582, c.c., il quale vieta l'inserimento nell'atto di riconoscimento
d'indicazioni relative all'altro genitore, si evince l'impossibilità per il padre di effettuare il
riconoscimento del figlio nascituro qualora esso non sia stato riconosciuto anche dalla madre in
precedenza, o contestualmente.
# L'impugnativa del riconoscimento per difetto di validità:
L'art. 263 c.c. stabilisce che il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità
dell'autore del riconoscimento da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse;
l'azione è imprescrittibile. L'art. 264 ce disciplina l'impugnazione per ipotesi di minore età ed
interdizione del figlio, stabilendo in alcuni casi la nomina di un curatore speciale.
Legittimato attivo, oltre all'autore del riconoscimento (o, se interdetto, al suo tutore) e a colui
che è stato riconosciuto, è chiunque abbia un interesse apprezzabile e attuale, quindi anche l'altro
genitore, il figlio cui spetterebbe il titolo di figlio legittimo in quanto nato in costanza di

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matrimonio, il marito di colei che abbia falsamente riconosciuto il proprio figlio come naturale
anziché come figlio legittimo del marito. In questo caso il difetto di veridicità potrà essere
dimostrato mediante accertamenti genetici da cui risulti la paternità del marito della donna che
ha falsamente riconosciuto come naturale il proprio figlio; rimosso il riconoscimento il figlio
acquista lo status di legittimo in base alle regole generali.
Qualora l'azione sia proposta dal genitore, legittimato passivo è il figlio, mentre qualora il
giudizio sia promosso dal figlio, è legittimato passivo il genitore. Genitore e figlio sono invece
entrambi legittimati passivi nell'ipotesi in cui l'azione sia proposta da altri.
L'art. 74,1. n. 184/1983, ha introdotto la possibilità che il tribunale per i minorenni nomini
d'ufficio un curatore speciale che proceda alla impugnazione del riconoscimento di un figlio
naturale non riconosciuto dall'altro genitore effettuato da persona coniugata. Il problema che la
legge ha inteso risolvere è quello dei falsi riconoscimenti diretti ad aggirare la normativa
sull'adozione e funzionali al cd. commercio dei minori. Al fine di evitare che nelle more del
procedimento si consolidino situazioni affettive che provocherebbero ulteriori traumi al minore,
è prevista la possibilità di negare l'autorizzazione all'inserimento del figlio nella famiglia
legittima e di disporre un affidamento familiare finché il giudizio non sia definito.
Il falso riconoscimento può essere effettuato in buona fede - nel senso che l'autore sia convinto
di essere il genitore - ovvero in malafede; a quest'ultima ipotesi è riconducibile anche il cd.
riconoscimento "per compiacenza", quando un uomo proceda al riconoscimento del figlio della
donna con cui si coniuga o convive, frutto di una precedente relazione di quest'ultima.
La consapevolezza della non veridicità del riconoscimento non è di ostacolo all'ammissibilità
dell'impugnazione, senza limiti di tempo.
La legge in tema di procreazione medicalmente assistita prevede il caso in cui una coppia di
conviventi proceda (contro il divieto di legge) ad inseminazione con materiale genetico di
persona diversa dal partner, stabilendo che, in ogni caso, il figlio consegua lo status di
riconosciuto e ponendo il divieto d'impugnativa per difetto di veridicità.
# L'impugnativa del riconoscimento per violenza e incapacità:
Il riconoscimento può essere impugnato, oltre che per difetto di veridicità, anche per violenza
(art. 265 c.c.) ed anche qualora sia stato effettuato da interdetto giudiziale (art. 266 c.c.).
Nel primo caso, l'impugnazione può essere effettuata entro un anno dal giorno in cui la violenza
è cessata, mentre se autore del riconoscimento è un soggetto minore, entro un anno dal
raggiungimento della maggiore età.
Si ritiene che la violenza sia causa di annullamento del riconoscimento anche quando proviene
da un terzo, mentre non rilevano né il timore reverenziale, né la minaccia di far valere un diritto.
L'art. 266 c.c. dispone che il riconoscimento può essere impugnato anche per l'incapacità che
deriva da interdizione giudiziale, mentre non è consentita l'impugnazione per incapacità naturale.

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8. La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità
Le azioni di dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità sono consentite in tutti i casi in
cui il riconoscimento è ammesso.
La dichiarazione è anche consentita - ancorché il riconoscimento sia vietato - nei riguardi di
genitori incestuosi.
La relativa prova della paternità può essere data con ogni mezzo.
Pertanto il concepimento viene in considerazione nella sua oggettività, indipendentemente da
qualsiasi legame con la volizione dei soggetti coinvolti; il dato biologico, grazie al principio
della libertà di prova, valorizzato ulteriormente dai progressi scientifici, si pone quale
condizione necessaria e sufficiente affinché sia dichiarata la paternità, salvo l'accertamento
dell'interesse del figlio.
Rispetto al passato, la situazione dell'uomo e quello della donna si sono esattamente capovolte,
nel senso che quest'ultima, potendo adottare misure atte ad impedire il concepimento, oppure
decidere di interrompere la gravidanza, ovvero di non riconoscere il figlio e di abbandonarlo,
con conseguente automatica apertura della procedura di adozione speciale che rende poi
inammissibile l'accertamento della genitorialità naturale, può disporre riguardo allo status
genitoriale; al contrario, di fronte alle evidenze biologiche, il padre non potrà in alcun modo
sottrarsi all'accertamento della paternità.
L'art. 270 c.c. prevede che l'azione per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o
maternità sia promossa dal figlio, riguardo al quale è imprescrittibile. In caso di morte prima
dell'inizio dell'azione, questa può essere promossa dai discendenti legittimi, legittimati o naturali
riconosciuti, entro due anni dalla morte, mentre l'azione promossa dal figlio, se egli muore, può
essere proseguita dai discendenti legittimi, legittimati o naturali riconosciuti.
L'art. 273 c.c. consente che l'azione in questione possa essere promossa, nell'interesse del
minore, dal genitore che esercita la potestà prevista dall'art. 316 ce o dal tutore, quest'ultimo
previa autorizzazione del giudice; in tal caso, il giudice può nominare un curatore speciale.
Ancora, detta norma richiede il consenso del figlio che abbia compiuto 16 anni per promuovere
o proseguire
l'azione.
La domanda per la dichiarazione di paternità o maternità naturale deve essere proposta nei
confronti del presunto genitore o in mancanza nei confronti dei suoi eredi. Alla domanda può
contraddire chiunque ne abbia interesse.
Il principio dell'imprescrittibilità dell'azione consente che la sentenza che accerti lo status di
filiazione naturale intervenga anche dopo la morte del genitore convenuto e quindi rende incerto
se, decorsi 10 anni dall'apertura della successione, il figlio possa accettare l'eredità. Si è
sostenuto che essendo la norma generale che la prescrizione inizi a decorrere dal giorno in cui il
diritto può essere fatto valere, la prescrizione non può decorrere fino al momento in cui sia
passata in giudicato la sentenza che dichiara la filiazione: così, quando l'accertamento segua la
111
morte del genitore, il figlio potrà agire in riduzione e la relativa azione inizierà a prescriversi dal
passaggio in giudicato della sentenza che accerta lo status di filiazione. In questo contesto i
coeredi non possono invocare l'usucapione ventennale al fine di paralizzare l'azione di riduzione.
# La prova della paternità e della maternità:
In ordine all'accertamento giudiziale della maternità naturale, la legge ribadisce che la maternità
è dimostrata provando l'identità di colui
che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna che si assume essere la madre.
Può darsi la prova della filiazione, in mancanza di tale dimostrazione, con ogni altro mezzo,
anche presuntivo. Nella pratica l'azione di dichiarazione della maternità naturale assume uno
scarso rilievo, soprattutto perché il mancato riconoscimento della madre, in concreto, coincide
con l'abbandono del figlio, tant'è vero che nel caso in cui non risulti l'esistenza di genitori
naturali che abbiano riconosciuto il minore, o la cui paternità o maternità sia stata dichiarata
giudizialmente, il tribunale per i minorenni, senza eseguire ulteriori accertamenti, provvede
immediatamente alla dichiarazione dello stato di adottabilità; intervenuta l'adozione, la
dichiarazione di maternità è preclusa.
Relativamente alla prova della paternità naturale, la legge, nel consentire all'attore di fornirla con
ogni mezzo, in primo luogo autorizza il giudice a considerarla raggiunta tutte le volte in cui si
verifichi una delle fattispecie previste dalla legge prima della riforma; con la differenza che,
all'epoca, quelle ipotesi avevano carattere tassativo, mentre oggi esse (cioè la convivenza dei
presunti genitori all'epoca del concepimento, la paternità risultante indirettamente da sentenza
civile o penale, l'esistenza di un'inequivoca dichiarazione scritta del presunto padre, il ratto o la
violenza carnale al tempo del concepimento, il possesso di stato di figlio naturale) rappresentano
semplici circostanze sulle quali il giudice può fondare la propria decisione, soprattutto in
mancanza di eccezioni da parte del convenuto.
Il pregresso delle scienze mediche ha valorizzato moltissimo il principio della libertà di prova:
infatti, attraverso analisi ematiche o genetiche rifacentisi allo studio comparativo del DNA dei
soggetti, risulta oggi possibile risalire all'autore del concepimento con un grado di probabilità
pressoché equivalente alla certezza assoluta.
Di conseguenza, in assenza di altre risultanze sufficienti a fondare il proprio convincimento, il
giudice potrà disporre i necessari prelievi, su richiesta dell'attore o anche d'ufficio. Tuttavia,
affinché sia attuato il provvedimento del giudice che dispone il prelievo, è necessario il consenso
del presunto padre, in omaggio al principio costituzionale dell'inviolabilità della persona.
Nell'ambito del giudizio di dichiarazione di paternità e di maternità, a fronte del legittimo ma
immotivato rifiuto del convenuto di sottoporsi alle indagini genetiche, la giurisprudenza è
sempre stata constante nel ritenere che il giudice possa assumere argomenti di prova a norma
dell'art. 1162, c.p.c.
# Il giudizio di ammissibilità:

112
Il legislatore del '75 aveva conservato all'art. 274 c.c. la regola per cui l'azione doveva essere
preventivamente ammessa dal tribunale competente per il giudizio di merito, dai più criticata e
ritenuta non conforme alla Costituzione. Il tribunale, pur godendo di larga discrezionalità in
questa fase, doveva motivare in ordine alla sussistenza del 'fumus boni iuris' dell'interesse del
minore.
Nell'intenzione del legislatore del '42, lo scopo originario del giudizio di ammissibilità era quello
di impedire azioni temerarie o ricattatorie ai danni del preteso genitore.
A seguito dell'intervento della Corte costituzionale, si è avuto un significativo mutamento
dell'originaria funzione della fase di ammissione. Infatti, la Consulta ha dichiarato parzialmente
illegittimo l'art. 274 c.c. nella parte in cui non prevedeva che l'azione promossa nell'interesse del
figlio infrasedicenne fosse ammessa solo quando il giudice avesse ritenuto l'accertamento
rispondente all'interesse del figlio minore. In forza di quella pronuncia, il tribunale, pur godendo
in questa fase di ampia discrezionalità, era così tenuto a motivare il decreto conclusivo non solo
in ordine alla sussistenza del 'fumus boni iuris', ma anche dell'interesse del minore. Di recente, la
Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 274 c.c. nella sua integrità,
cosicché oggi l'azione può essere intrapresa senza alcuna preventiva indagine.
# Gli effetti della dichiarazione:
La sentenza che dichiara la filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento. Con la
sentenza stessa il giudice può anche dare i provvedimenti che stima utili per il mantenimento,
l'istruzione, l'educazione e per la tutela degli interessi patrimoniali del figlio. Il genitore che
abbia provveduto da solo mantenimento del figlio minore riconosciuto, ha diritto ad ottenere
dall'altro il rimborso di quanto sarebbe stato a carico di quest'ultimo, a partire dalla nascita.
9. La filiazione non riconoscibile
La condizione del figlio non riconoscibile è regolata da combinato disposto degli artt. 278, 279
ce La legge, attuando appieno la formula costituzionale, attribuisce anche ai figli non
riconoscibili il diritto al mantenimento, all'istruzione e all'educazione, e, una volta raggiunta la
maggiore età - o, l'indipendenza economica in rapporto alla condizione degli obbligati e
dell'avente diritto - agli alimenti, ricorrendo allo stato di bisogno.
La determinazione in concreto delle prestazioni non patrimoniali conseguenti all'obbligo
d'istruzione e di educazione spetta a colui che esercita la potestà o la cura della persona (l'altro
genitore che ha riconosciuto o è stato dichiarato tutore), salvo il controllo del tribunale per i
minorenni o del giudice tutelare.
In sede successoria, ai figli privi di stato viene riconosciuto il trattamento enunciato nell'art. 580
ce che stabilisce che ai figli naturali aventi diritto al mantenimento, all'istruzione e
all'educazione spetta un assegno vitalizio pari all'ammontare della rendita della quota di eredità
alla quale avrebbe diritto, se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta. I figli naturali
hanno diritto di ottenere su loro richiesta la capitalizzazione dell'assegno loro spettante, in

113
denaro, ovvero, a scelta degli eredi legittimi, in beni ereditari. Inoltre, l'art. 594 ce obbliga eredi,
legatari e donatari, in proporzione a quanto hanno ricevuto, a corrispondere ai figli privi di stato
un assegno vitalizio nei limiti stabiliti dall'art. 580 c.c., se il genitore non ha disposto per
donazione o testamento in favore dei figli medesimi.
L'azione di cui all'art. 274 c.c., di competenza del tribunale ordinario anche quando riguardi
minori, deve essere previamente autorizzata dal giudice ai sensi dell'art. 274 ce e può essere
promossa dal figlio, oppure, in caso di minore età, da un curatore speciale nominato dal giudice
su richiesta del p.m. o del genitore che esercita la potestà.
L'azione può essere esercitata anche dai figli riconoscibili che non siano stati però, in concreto,
riconosciuti dai genitori. Costoro, infatti, potrebbero esercitare l'azione di dichiarazione
giudiziale che conferisce lo status vero e proprio di figlio naturale riconosciuto, in
considerazione del fatto che diversamente si consentirebbe ai genitori di sottrarsi ai doveri
previsti dall'art. 30 Cost.
Non può pertanto escludersi che anche colui che ha lo stato di figlio legittimo altrui possa far
valere nei confronti del proprio genitore naturale i diritti contemplati agli artt. 580 e 594 ce e
quelli previsti dall'art. 279 c.c., sempre che, in detto ultimo caso, il mantenimento, l'educazione e
l'istruzione non gli siano già garantiti dal genitore legittimo.
10. La legittimazione del figlio naturale
La legittimazione, istituto in forza del quale viene attribuito a colui che è nato fuori dal
matrimonio la qualità di figlio legittimo (art. 280 c.c.), ha avuto una notevole importanza in
passato, quale possibilità che ai figli naturali si offriva di affrancarsi dalla condizione nettamente
deteriore in cui erano posti rispetto ai figli legittimi. La riforma del diritto di famiglia,
equiparando - ancorché non in modo totale - la posizione dei figli naturali a quella dei figli
legittimi, ha certamente ridotto, se non addirittura svuotato come sostengono alcuni, la rilevanza
dell'istituto dal punto di vista funzionale. Sicché ormai da tempo si discute se esso conservi una
propria giustificazione alla luce dell'attuale regime della filiazione, ovvero se, com'è avvenuto in
altri ordinamenti non sia più corretto abrogarlo.
Il codice civile prevede due diverse forme di legittimazione per susseguente matrimonio dei
genitori del figlio naturale, o per provvedimento dell'autorità giudiziaria.
Il susseguente matrimonio dei genitori ha l'effetto di legittimare automaticamente e
indipendentemente dalla volontà dei coniugi i figli nati anteriormente ad esso. L'art. 283 ce
richiede espressamente che il figlio sia stato riconosciuto da entrambi i genitori, non che lo
abbiano fatto contestualmente. La disposizione in esame prevede la possibilità che il
riconoscimento sia effettuato anteriormente al matrimonio, all'atto dello stesso, ovvero anche
posteriormente, stabilendo, in detta ipotesi, che gli effetti decorrano a partire dal riconoscimento.
Qualora il riconoscimento sia contestuale, la relativa dichiarazione è inserita nell'atto di
matrimonio, ma mantiene rispetto allo stesso una propria autonomia, con la conseguenza che

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eventuali vizi di sostanza o di forma del matrimonio non si ripercuotono per ciò solo sulla
validità del riconoscimento.
La legittimazione per provvedimento del giudice è prevista per i casi in cui vi sia l'impossibilità
ovvero gravissimo ostacolo alla legittimazione per susseguente matrimonio.
La lettera dell'art. 284 c.c., come modificata dalla riforma, introduce alcune rilevanti
innovazioni, tra cui, prima tra tutte e caratterizzante l'istituto, la prioritaria valutazione
dell'interesse del figlio,
che capovolge la precedente ratio diretta a tutelare la dignità del genitore impossibilitato a
coniugarsi.
Il legislatore lascia al giudice un certo margine di discrezionalità per la valutazione di tale
interesse che non deve essere apprezzato aprioristicamente, attraverso criteri generali ed astratti,
ma con riguardo al caso specifico.
Ai sensi dell'art. 284 c.c. la legittimazione può essere concessa con provvedimento del giudice
se, oltre a corrispondere all'interesse del figlio, concorrano altre condizioni indicate dalla norma:
1) richiesta ('domanda'), presentata separatamente ovvero congiuntamente, da parte dei
genitori o di uno di loro, che abbiano compiuto il sedicesimo anno di età;
2) impossibilità ovvero gravissimo ostacolo alla legittimazione della prole per susseguente
matrimonio;
3) assenso del coniuge del richiedente, se questi è unito in matrimonio e non è legalmente
separato;
4) in caso di difetto di precedente riconoscimento, il consenso del legittimando
ultrasedicenne ovvero dell'altro genitore o di un curatore speciale, se il figlio ha meno di 16
anni;
5) infine, nell'eventualità in cui vi siano figli legittimi o legittimati del richiedente, audizione
degli stessi se di età superiore ai 16 anni.
11. La procreazione medicalmente assistita
Già da qualche tempo e con particolare frequenza negli ultimi anni, si sono sviluppate tecniche
mediche atte a realizzare il concepimento di un essere umano indipendentemente dalla
congiunzione fisica dell'uomo con la donna. La fecondazione può avvenire direttamente
nell'utero della donna oppure 'in vitro', mediante formazione di embrioni, che vengono
successivamente trasferiti nel corpo della madre.
Nonostante la diffusione della fecondazione assistita, a cui si può ricorrere senza particolari
difficoltà, e nonostante le delicate problematiche etiche e giuridiche che le relative tecniche
comportano, il legislatore italiano è intervenuto solo di recente a regolare la materia, a
compimento di un travagliato iter parlamentare, caratterizzato da profonde divisioni e differenze
di opinioni tra le forze politiche, che hanno fortemente inciso sulla 1. 19 febbraio 2004, n. 40,
recante le attese norme in materia di procreazione medicalmente assistita.

115
Le ragioni del ritardo con cui il legislatore italiano è intervenuto e del carattere limitativo e
sanzionatorio della legge si spiegano in considerazione delle opposte visioni della vita umana
che caratterizzano la società italiana, in questo senso differenziata da quella dei numerosi stati
europei ove si è legiferato in materia senza eccessivi traumi. In Italia è ancora ampiamente
condivisa una concezione sacrale della vita umana - che ha nella Chiesa cattolica la sua
massima, ma non esclusiva sostenitrice - che condanna senza eccezione qualsiasi intervento
dell'uomo nella sfera della riproduzione e più in generale della sessualità. Una simile concezione
non può che condurre ad una legislazione in termini di divieto delle pratiche di fecondazione
assistita; divieto che però confligge con la altrettanto diffusa concezione cd. utilitaristica della
vita umana, alla cui stregua, entro limiti da prefissarsi, gli interventi su di essa sono consentiti
quando siano diretti al
perseguimento del benessere della persona.
Nel contesto europeo le leggi in materia sono apparse già a partire dagli inizi degli anni 80,
determinando i limiti, le condizioni e le modalità di accesso alle tecniche di fecondazione.
Un primo approccio alla questione della liceità - i cui limiti sono oggi positivamente regolati
dalla legge vigente in termini molto ristretti - deve necessariamente muovere dall'indagine
preliminare circa la sussistenza di un diritto soggettivo alla procreazione, che conferisca la
titolarità di un interesse giuridicamente rilevante e degno di tutela a ricorrere a mezzi artificiali.
Il nostro ordinamento contempla il diritto alla procreazione, correlato all'esercizio del diritto alla
propria libertà sessuale. Questo diritto è anche desumibile da una fonte di legge ordinaria, cioè
dall'art. 1,1. 22 maggio 1978, n. 194, disciplinante l'interruzione volontaria della gravidanza. Ma,
a ben vedere, lo stesso art. 2 Cosi, nel riconoscere i diritti inviolabili della persona, non può non
contemplare quello alla libertà di trasmettere la vita.
La 1. n. 40/2004 si presenta quanto mai restrittiva nel disciplinare la materia, nel dichiarato
intento di limitare il ricorso alle tecniche, che è consentito solo qualora non vi siano altri metodi
terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità.
Tutto l'impianto della legge è caratterizzato dall'intento di porre limiti rigorosi alle tecniche di
procreazione assistita: in primis, l'inseminazione etcrologa è vietata; ciò non di meno il
legislatore ha poi previsto che, in caso di violazione del divieto, il nato consegue lo status di
figlio legittimo del marito (o naturale del partner), che detto status non può essere impugnato e
che il donatore dei gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale. Si pensi, più in
generale, ai limitati casi di ricorso alle tecniche, ai rigidi requisiti soggettivi ed al circostanziato
consenso informato, all'indispensabile autorizzazione regionale della struttura in cui gli
interventi possono esclusivamente essere realizzati, al relativo registro nazionale in cui le
medesime devono obbligatoriamente essere iscritte.
È, infine, prevista la possibilità per i sanitari di sollevare l'obiezione di coscienza.
Tale legge è stata notevolmente criticata.
L'atteggiamento di prudenza del legislatore trova la sua ratio dichiarata nell'intento di assicurare
116
i diritti di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento procreativo, compreso il concepito, che
viene
elevato al rango di soggetto in favore del quale sono dettate specifiche misure di tutela.
L'embrione umano, in conformità ad un orientamento condiviso anche in ambito internazionale,
è così destinatario di una tutela molto circostanziata, relativa alla fase della sua produzione -
lecita solo per fini procreativi nei limiti rigorosi previsti dalla legge - e della sua esistenza, che
giustifichi il
divieto di sperimentazione e crioconservazione.
La tutela dell'embrione ispira infine le norme dell'art. 142e4, che stabiliscono il divieto di
produrre più di 3 embrioni per ogni ciclo terapeutico e prevedono che tutti quelli prodotti siano
impiantati contemporaneamente. La riduzione embrionaria di gravidanza plurima, conseguente
al trasferimento di più embrioni, è vietata, salvo che, ai sensi della 1. n. 194/1978, essa sia fonte
di rischio per la salute psico-fisica della donna.
# L'accesso alle tecniche:
La 1. n. 40/2004 dispone che il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è
consentito solo quando sia accertata l'impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive
della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o d'infertilità inspiegate o
dipendenti da cause accertate: in ogni caso occorre una certificazione medica in proposito.
Il ricorso alle tecniche presuppone una vera e propria impossibilità della procreazione, il che
significa, ad es., che coppie ipofertili non solo ammesse alle tecniche; allo stesso modo, si era
ritenuto che coppie fertili ma portatrici di malattie genetiche non potessero far ricorso alla
fecondazione 'in vitro', poiché ciò avrebbe permesso di procedere ad indagini diagnostiche
dell'embrione al fine di accertarne le condizioni di salute per poi attuare il trasferimento in utero
solo qualora gli accertamenti avessero dato riscontro favorevole.
A seguito del D.M. 11 aprile 2008, con cui il Ministro della Salute ha proceduto
all'aggiornamento delle linee guida, sono state introdotte innovazioni sostanziali, che
concernono la soppressione di talune disposizioni collegate all'indagine reimpianto
sull'embrione, nonché l'estensione della condizione d'infertilità, e dunque di accesso alle
tecniche, anche agli uomini portatori di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da
HIV, epatite B ed epatite C. Per quanto attiene alla diagnosi reimpianto, in connessione alla più
recente evoluzione della giurisprudenza ordinaria, è stato soppresso il limite costituito dalla sola
indagine di tipo osservazionale, che consentiva di valutare la compattezza e l'aggregazione delle
cellule, ma non di individuare eventuali anomalie genetiche. Con il che, fermo il divieto di
diagnosi preimpianto a finalità eugenetica, si ammette la diagnosi preimpianto se effettuata allo
scopo di conoscere lo stato di salute dell'embrione. In merito all'ulteriore novità relativa alla
possibilità di ricorrere alla PMA anche nei casi in cui vi siano uomini portatori delle sopra citate
malattie virali sessualmente trasmissibili, l'estensione si fonda sul convincimento che le predette

117
malattie, in ragione del rischio elevato d'infezione per la madre o per il feto, costituiscano, di
fatto, causa ostativa della procreazione, in quanto imponendo l'adozione di precauzioni che si
traducono, necessariamente in una condizione d'infecondità, rappresentano casi d'infertilità
maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico, come tali idonei a consentire
l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Le tecniche di procreazione devono essere applicate con gradualità e nei riguardi di soggetti che
abbiano reso il loro consenso informato.
La legge fa espresso divieto di ricorso alla procreazione di tipo eterologo, cioè effettuata con
materiale genetico di soggetto diverso dai membri della coppia.
Alla base del divieto sta l'idea che il legame genetico con uno solo dei genitori sia in contrasto
con l'ordine naturale della famiglia e possa ledere l'integrità psicologica dei soggetti interessati
alla
fecondazione, specie in casi di crisi familiare.
Peraltro, la legge è, a questo proposito, incoerente, poiché, da un lato vieta l'inseminazione
etcrologa, e dall'altro attribuisce comunque al nato lo status di figlio legittimo del marito, o
naturale del convivente, frustrando così l'unico possibile fondamento razionale del divieto che è
quello di assicurare il diritto all'identità genetica della persona, tutelato dall'art. 2 Cost. Alla luce
di queste considerazioni, sarebbe stato più conforme alla finalità del legislatore, e più rispettoso
dell'identità genetica del figlio, attribuire a quest'ultimo lo status di figlio naturale della sola
madre ed eventualmente di adottato del marito, ovvero di prevederne una sua responsabilità per
il mantenimento.
Possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di
sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile; i membri della coppia
devono
essere entrambi viventi (art. 5).
È rilevante che il legislatore abbia equiparato alla coppia coniugata quella convivente
eterosessuale ed abbia per di più giudicato sufficiente, ai fini dell'accertamento della convivenza,
una dichiarazione sottoscritta dai richiedenti.
È invece proibita la fecondazione assistita del single o di chi viva in una coppia omosessuale, in
considerazione del diritto del figlio alla doppia figura genitoriale che, secondo un'opinione
ampliamente condivisa, trova sia fondamento costituzionale, che solide basi psicopedagogiche.
Il divieto di fecondazione etcrologa ed il ricorso a tecniche nei riguardi di soggetti non aventi le
caratteristiche di cui all'art. 5 sono sanzionati penalmente solo nei riguardi del medico.

# Il consenso informato:
Nella 1. n. 40/2004 assume un ruolo centrale il consenso informato, analiticamente regolato
dall'art. 6, che prevede l'obbligo del medico di fornire alla coppia informazioni estremamente

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dettagliate di vario genere al fine di garantire il formarsi di una volontà consapevole e
consapevolmente espressa.
Tra la manifestazione della volontà della coppia, da esprimersi per iscritto, e l'applicazione delle
tecniche deve intercorrere un termine non inferiore a 7 giorni.
La volontà può essere revocata insindacabilmente sino al momento della fecondazione dell'ovulo
da ciascun membro della coppia.
Con lo stabilire che una volta prodottosi l'embrione a seguito di fecondazione dell'ovulo la
revoca non è ammessa, la legge sembra imporre, alla coppia e al medico, l'obbligo di procedere
in ogni caso al trasferimento dell'embrione, eccettuata la sussistenza di un motivo di ordine
medicosanitario, quale una grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di
salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione.
Ci si è chiesti, pertanto, se addirittura la disposizione in esame renda praticabile un trasferimento
forzoso dell'embrione nell'utero di una donna che non vi consenta, nonostante l'iniziale consenso
legittimamente manifestato, alla stregua di un trattamento sanitario obbligatorio (art. 322, Cost.).
Tale conclusione è da escludersi, sia perché violerebbe i principi di libertà (art. 13 Cost.) nonché
il disposto costituzionale secondo il quale la legge non può in nessun modo violare i limiti
imposti dal rispetto della persona umana (art. 322 Cost.), sia perché, più in generale, la 1. n.
40/2004 non dispone un trattamento sanitario obbligatorio determinato, come invece richiesto
dall'art. 32 Cost. Il che consente di affermare che la donna possa revocare il proprio consenso
procreativo sino all'effettivo trasferimento in utero e, successivamente, possa decidere di
interrompere la gravidanza ai sensi della 1. n. 194/1978.
Per contro, l'uomo potrà efficacemente revocare il proprio consenso sino al momento della
fecondazione, dopo di che la revoca sarà senza effetto ed il medico non potrà tenerne alcun
conto. Qualora si prospettasse una separazione tra coniugi nelle more delle pratiche fecondative
il giudice non potrebbe accogliere la pretesa dell'uomo che, revocato il consenso al trasferimento
in utero dell'embrione, intenda far valere il diritto a non diventare padre contro la sua volontà. Vi
è dunque una sorta di disparità di trattamento tra la situazione dell'uomo e quella della donna,
che tuttavia non appare incongrua od in violazione dell'art. 3 Cost., stente la diversa funzione dei
partners nel processo riproduttivo ed il diritto della donna ad opporsi ad un trattamento sanitario
indesiderato.
Non è chiara la sorte dell'embrione formatosi, una volta che la donna ne rifiuti il trasferimento.
Secondo un orientamento, l'ipotesi potrebbe rientrare fra quelle in cui la legge ne consente la
crioconservazione.
# Lo stato del nato:
L'art. 8 della legge determina lo stato giuridico del nato a seguito dell'applicazione delle tecniche
di procreazione medicalmente assistita, che è di figlio legittimo se la coppia genitoriale è
riconosciuta.

119
La legge stabilisce che qualora la coppia non sia coniugata il figlio consegua lo stato di figlio
riconosciuto.
L'art. 92, stabilisce che la madre del nato a seguito dell'applicazione di tecniche di procreazione
medicalmente assistita non può dichiarare la volontà di non essere nominata. La disposizione in
esame appare di difficile applicazione poiché l'ufficiale di stato civile non ha possibilità di
sapere se la nascita che gli viene denunziata come da donna che non consente di essere nominata
sia
conseguenza di fecondazione medicalmente assistita.
Di notevole rilevanza è il principio affermato dall'art. 93, secondo il quale in caso di
applicazione di tecniche di tipo etcrologo in violazione del divieto di cui all'art. 43, il donatore
dei gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere
nei suoi confronti alcun diritto, né essere titolare di obblighi.
Le moderne tecniche mediche non hanno coinvolto il solo profilo della paternità: anche la
maternità, infatti, ha dato luogo a questioni rilevanti, sia sul piano etico che giuridico.
Il fenomeno più noto è quello cd. della "maternità surrogata", che vede una donna assumersi
l'obbligo di portare a termine una gravidanza per conto di una coppia sterile, alla quale
s'impegna poi a consegnare il bambino. La donna che si presta a condurre a termine la
gravidanza può essere fecondata artificialmente con il seme del marito, oppure può ricevere il
trasferimento di un embrione già concepito 'in vitro'. Nel primo caso, si parla di maternità
surrogata o di madre in affitto, nel secondo di maternità portante o affitto di ventre.
La 1. n. 40/2004 pone espressamente il divieto, sanzionato penalmente in maniera molto severa
anche nei riguardi della coppia committente e della madre portante, oltre che del medico.
Inoltre, il disposto dell'art. 93, conferma che la donna che ha partorito è l'unica cui va attribuita
la maternità, essendo irrilevante giuridicamente il fatto che l'embrione che le è stato impiantato
in
utero fosse formato da materiale genetico di un'altra donna (la madre committente).
10° - L'ADOZIONE E L'AFFIDAMENTO
1. L'evoluzione dell'istituto
La legge riconosce al fanciullo il diritto di crescere ed essere educato nella propria famiglia. Per
assicurare l'effettivo soddisfacimento di tale diritto, come richiesto dall'art. 31 Cosi, ed al fine di
prevenire l'abbandono, sono previsti interventi di sostegno e di aiuto da parte dello Stato, delle
regioni e degli enti locali.
Per l'ipotesi in cui la famiglia biologica non sia in grado di provvedere alla crescita e
all'educazione del fanciullo, la legge disciplina gli istituti dell'affidamento e dell'adozione.
L'affidamento ha lo scopo di fornire un ambiente familiare idoneo al fanciullo che ne sia
temporaneamente privo, mentre con l'adozione si crea un pieno rapporto di filiazione fra soggetti
che non sono unita da vincolo di sangue.

120
Negli ultimi decenni l'istituto dell'adozione ha conosciuto una profonda evoluzione, che ha finito
per modificarne l'originaria funzione.
In passato, l'adozione aveva, infatti, principalmente lo scopo di consentire a soggetti privi di figli
di trasmettere il proprio cognome ed il proprio patrimonio. Tale funzione - che peraltro non è
venuta meno del tutto, essendo ancora assolta dall'adozione dei maggiorenni - non è più quella
che, attualmente, l'istituto è chiamato a svolgere.
L'adozione ha, infatti, fondamentalmente lo scopo di consentire l'inserimento di un fanciullo,
privo di una famiglia che sia in grado di provvedere alle sue esigenze di vita, all'interno di una
nuova famiglia, nell'ambito della quale possa trovare un ambiente adatto alla sua crescita.
L'adozione si pone, dunque, come strumento essenzialmente diretto a tutelare l'interesse
dell'adottato ad avere una famiglia idonea e, solo in via indiretta, assolve la funzione di
soddisfare l'interesse degli adottanti ad avere un figlio.
La svolta fra vecchia e nuova adozione fu attuata dalla 1. 5 giugno 1967, n. 431, che introdusse
la cd. adozione "speciale" avente carattere legittimante; la successiva 1. 4 maggio 1983, n. 184,
ha adeguato la legge del 1967 ai principi espressi nella Convenzione di Strasburgo del 24 aprile
1967. Essa ha abolito l'originario limite massimo di età di 8 anni, rendendo possibile l'adozione
per tutti i minori abbandonati, ed ha anche regolato l'adozione internazionale, la cui disciplina è
stata successivamente riformata dalla 1. 31 dicembre 1998, n. 476, che ha ratificato e dato
esecuzione alla Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993.
Infine, con la 1. 28 marzo 2001, n. 149 il legislatore è nuovamente intervenuto a modificare la 1.
n. 184/1983, provvedendo, fra l'altro, a cambiarne l'intitolazione - ora "Diritto del minore ad una
famiglia" - e ad introdurre una nuova disciplina processuale.
Il mutamento di titolo della legge non ha esclusivo carattere formale. Esso anzi intende
sottolineare l'intenzione del legislatore di mettere al centro della disciplina legale l'interesse del
minore che è in prima istanza quello di crescere ed essere educato nella propria famiglia e non
può essere ostacolato dalle condizioni d'indigenza dei genitori; per questo motivo sono disposti
interventi di sostegno e di aiuto, e, solo quando la famiglia non sia in grado di provvedere alla
crescita e all'educazione, possono trovare applicazione gli istituti dell'affidamento e
dell'adozione.
Le disposizioni dell'art. 28, in cui, per la prima volta, si contempla il diritto dell'adottato ad
essere informato dai genitori adottivi della propria condizione, onde evitare che segreti e
menzogne disturbino le relazioni familiari e la crescita del fanciullo, che, una volta raggiunto il
25° anno di età, potrà accedere alle informazioni relative alle sue origini.
2. L'affidamento dei minori
L'affidamento, nel disegno del legislatore, costituisce un rimedio destinato ad operare per un
periodo limitato di tempo. Affinché l'affidamento possa essere disposto occorre che a causa di
circostanze di carattere transitorio, i genitori del minore non siano in grado di offrirgli le cure

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che gli necessitano. Può farsi luogo all'affidamento solo laddove gli interventi di sostegno e di
aiuto disposti a favore della famiglia non abbiano dato buoni risultati.
L'affidamento viene disposto a favore di una famiglia o di una persona singola. Solo qualora ciò
non sia possibile, può farsi luogo all'inserimento del minore in una comunità di tipo familiare, o
in un istituto di assistenza pubblico o privato. Si deve ritenere peraltro che il ricovero in istituto è
un rimedio oramai in via di superamento: il legislatore ha, infatti, stabilito che dopo il 31
dicembre 2006 gli affidamenti potranno essere disposti solo nei confronti di famiglie o di
comunità di tipo familiare, ed ha anche vietato il ricovero in istituto per minori di età inferiore ai
6 anni. Nel caso in cui i genitori esercenti la potestà abbiano manifestato il consenso
dell'affidamento (ed. affidamento consensuale), questo viene disposto dal servizio sociale locale,
sentito il minore che abbia compiuto dodici anni, ed anche il minore di età inferiore in
considerazione della sua capacità di discernimento. Il provvedimento del servizio sociale viene
poi reso esecutivo con provvedimento del giudice tutelare.
Qualora invece il consenso dei genitori manchi, l'affidamento può essere disposto dal tribunale
per i minorenni (ed. affidamento contenzioso).
Il provvedimento deve indicare le motivazioni per le quali l'affidamento è stato disposto, i tempi
e i modi dell'esercizio dei poteri riconosciuti all'affidatario, nonché le modalità tramite cui i
genitori e gli altri componenti del nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il fanciullo;
disposizione, quest'ultima, di notevole rilievo poiché l'affidamento è destinato ad operare per un
periodo di tempo limitato, in attesa che la famiglia d'origine superi difficoltà contingenti. Nel
provvedimento è anche indicato il servizio sociale cui è attribuita la responsabilità del
programma di assistenza e il potere di vigilanza durante l'affidamento; il servizio sociale deve
inoltre informare il tribunale per i minorenni sull'evolversi della situazione, con l'obbligo di
presentare una relazione semestrale. Il provvedimento deve infine indicare la presumibile durata
del periodo di affidamento, da rapportarsi ai prevedibili tempi di recupero della famiglia. La 1. n.
149/2001 ha stabilito che tale durata non può superare i 24 mesi, pur essendo prorogabile dal
tribunale per i minorenni qualora la sospensione dell'affidamento sia suscettibile di recare
pregiudizio al minore.
La legge attribuisce all'affidatario quel complesso di facoltà che si fanno rientrare nella cd.
potestà interna: egli ha il dovere di accogliere il minore presso di sé e di provvedere al suo
mantenimento, alla sua istruzione ed educazione, tenendo comunque conto delle prescrizioni
fissate dall'autorità e delle indicazioni dei genitori che non siano stati dichiarati decaduti dalla
potestà (o del tutore), nonché delle capacità e delle inclinazioni naturali del minore. La 1. n.
149/2001 ha altresì specificato che l'affidatario esercita i poteri relativi ai rapporti ordinari con
l'istituzione scolastica e con le autorità sanitarie e che dev'essere sentito nei procedimenti in
materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato. Il compito di
agevolare i rapporti fra il minore e la sua famiglia di origine e di favorire il rientro nella stessa
spetta al servizio sociale, che si occupa inoltre di svolgere opera di sostegno educativo e
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psicologico. Queste stesse disposizioni si applicano in quanto compatibili nel caso di minori
ospitati presso una comunità di tipo familiare o che si trovino presso un istituto di assistenza
pubblico o privato. A vantaggio delle persone affidatarie la legge riconosce taluni benefici e
misure economiche di sostegno.
L'affidamento familiare cessa quando la situazione di temporanea difficoltà della famiglia sia
stata superata, oppure qualora la sua prosecuzione risulti pregiudizievole per il minore. Viene
meno anche nel caso in cui sopravvenga una definitiva situazione di abbandono, dovendosi
procedere, in tal caso, ad aprire la procedura di adottabilità; allo scopo di salvaguardare i
rapporti affettivi già sorti fra il minore e gli affidatari, l'affidamento preadottivo potrà
eventualmente essere disposto a favore di questi ultimi, sempre che essi abbiano i requisiti
richiesti per adottare.
3. L'adozione dei minori
L'adozione rappresenta un rimedio estremo cui fare ricorso solo quando la famiglia d'origine non
possa offrire al minore quel minimo di cure e di affetto che sono indispensabili per una crescita
sana ed equilibrata.
L'adozione è consentita solo nei confronti dei minori dichiarati in stato di adottabilità: in
particolare vengono dichiarati in stato di adottabilità, dal tribunale per i minorenni del distretto
nel quale si trovano, i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di
assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, che, sono
quelli entro il quarto grado. Ad escludere lo stato di abbandono non è sufficiente che tali soggetti
si limitino a manifestare la loro disponibilità per il futuro, ma occorre che abbiano già maturato
con il bambino un rapporto continuativo da cui sia scaturito un vincolo di affetto. La situazione
di abbandono sussiste, sempre che vi siano le condizioni appena indicate, anche quando i minori
si trovino ricoverati presso istituti pubblici o privati, o presso comunità di tipo familiare, ovvero
siano in affidamento familiare.
Il legislatore ha formulato una previsione generale ed elastica, lasciando così alla giurisprudenza
il compito di individuare in quali casi concretamente si configuri una situazione di abbandono.
In proposito è frequente l'affermazione secondo cui la situazione di abbandono presuppone una
mancanza di quel minimo di cure materiali, calore affettivo e aiuto psicologico indispensabili
per lo sviluppo e la formazione della personalità del fanciullo. Si precisa peraltro che lo stato di
abbandono non richiede necessariamente un comportamento omissivo dei genitori, ma sussiste
anche quando questi ultimi, con comportamenti commissivi, espongano ad un grave e
irreversibile pregiudizio il sano sviluppo psico-fisico del figlio. L'abbandono comunque,
secondo un consolidato orientamento, va inteso in senso oggettivo, prescindendo da qualsiasi
elemento di volontarietà o di colpevolezza dei genitori e dando perciò rilievo unicamente alla
violazione dei diritti del figlio. È stata affermata la sussistenza di uno stato di abbandono, ad es.,
in ipotesi di condotta gravemente immorale o disordinata dei genitori, di maltrattamenti ai danni

123
del fanciullo - anche se posti in essere nella convinzione che costituiscano una forma di
educazione -, d'induzione all'accattonaggio, di abusi sessuali, di malnutrizione, di cattiva cura
dell'igiene personale del figlio, di tossicodipendenza dei genitori. È stata invece negata la
sussistenza di uno stato di abbandono nell'ipotesi in cui i genitori risultino affetti da anomalie
della personalità, a meno che queste non si traducano in incapacità di allevare ed educare la
prole.
Integra altresì lo stato di abbandono l'affidamento prolungato ad una coppia estranea cui si
accompagni un sostanziale disinteresse da parte dei genitori o il ricovero in istituto quando vi sia
una ragionevole probabilità che detta situazione si cronicizzi.
La legge impedisce la dichiarabilità dello stato di abbandono quando la mancanza di assistenza
morale e materiale sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio, da intendersi
come
causa contingente e comunque reversibile, estranea alla condotta dei genitori: la rilevanza di tale
situazione è stata esclusa, ad es., in caso di detenzione, essendo quest'ultima la conseguenza di
un comportamento criminoso del genitore, posto in essere nella consapevolezza della possibile
carcerazione; è stata anche esclusa in caso di malattia inguaribile del genitore e di
disoccupazione volontaria. Per espressa disposizione, non sussiste causa di forza maggiore in
caso d'ingiustificato rifiuto delle misure di sostegno offerte dai servizi sociali locali.
Il giudice deve comunque tener conto, al fine di escludere la sussistenza dello stato di
abbandono, anche di sopravvenute manifestazioni di disponibilità provenienti da genitori che in
precedenza avevano trascurato il minore, fermo restando che non sono sufficienti formali
dichiarazioni d'intenti non accompagnate da un autentico e profondo interesse e dettate solo da
un mero proposito di
riscatto o di reazione.
# I requisiti degli adottanti:
La legge stabilisce i requisiti che devono possedere coloro i quali aspirano ad adottare un
fanciullo. In particolare richiede che gli aspiranti adottanti siano uniti in matrimonio da almeno
tre anni e che fra loro non sussista e non abbia avuto luogo negli ultimi 3 anni uno stato di
separazione personale, neppure di fatto. Il requisito della stabilità del rapporto può ritenersi
realizzato anche quando i coniugi hanno convissuto prima del matrimonio per un periodo di 3
anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della
convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto.
La legge, sul presupposto che la famiglia adottiva debba costituirsi sul modello di quella
biologica e contemplare quindi sia la figura materna che quella paterna, non prevede la
possibilità di adottare da parte di una persona singola, se non in casi particolari.
Altro requisito di carattere formale richiesto dalla legge è quello dell'età: l'età degli adottanti
deve essere superiore a quella dell'adottato di almeno 18 anni, mentre la differenza massima di

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età è stata portata a 45 anni.
I limiti suindicati possono essere derogati qualora il tribunale per i minorenni accerti che dalla
mancata adozione deriverebbe al minore un danno grave e non altrimenti evitabile; l'adozione
non è preclusa quando il limite massimo di età sia superato solo da uno degli adottanti in misura
non superiore ai 10 anni, oppure quando essi siano già genitori di figli "naturali" (espressione
usata in senso atecnico) o adottivi, di cui almeno uno sia in età minore, ovvero quando
l'adozione riguardi un fratello o una sorella del minore già dagli stessi adottato.
Sotto il profilo sostanziale si richiede che i coniugi siano affettivamente idonei e capaci di
educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare.
# Il procedimento e gli effetti:
L'adozione legittimante viene pronunciata al termine di un complesso procedimento che si snoda
attraverso 3 passaggi: la dichiarazione dello stato di adottabilità, l'affidamento preadottivo e il
provvedimento di adozione.
Il procedimento di adottabilità deve svolgersi sin dall'inizio con l'assistenza legale del fanciullo e
dei genitori o degli altri parenti che abbiano rapporti significativi con il medesimo.
Prima di emanare i singoli provvedimenti, vi è l'obbligo di ascoltare il minore che abbia
compiuto i dodici anni; mentre il minore infradodicenne, può essere sentito in considerazione
della sua capacità di discernimento.
Lo stato di adottabilità viene dichiarato dal tribunale per i minorenni del distretto in cui il minore
si trova, previo accertamento della situazione di abbandono.
Chiunque ha facoltà di segnalare all'autorità pubblica situazioni di abbandono; per i pubblici
ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio e gli esercenti un servizio di pubblica necessità, la
legge pone invece un obbligo di segnalazione al procuratore della Repubblica presso il tribunale
per i minorenni. Uno specifico obbligo d'informativa è posto a carico degli istituti pubblici e
privati e delle comunità di tipo familiare, che semestralmente devono trasmettere al procuratore
della Repubblica l'elenco dei minori che sono collocati presso di loro: quest'ultimo, a sua volta,
ogni 6 mesi effettua ispezioni negli istituti di assistenza, potendo procedere in ogni tempo ad
ispezioni straordinarie. Un obbligo di segnalazione grava infine anche su chi, non essendo
parente entro il quarto grado, accolga stabilmente presso di sé un minore per un periodo
superiore ai 6 mesi; il medesimo obbligo opera anche per il genitore: l'omissione della
segnalazione può comportare, nel primo caso, l'inidoneità ad ottenere affidi familiari o adottivi,
mentre nel secondo caso la decadenza dalla potestà sul figlio e l'apertura della procedura di
adottabilità.
Il procuratore della Repubblica, assunte le informazioni necessarie, chiede con ricorso al
tribunale per i minorenni di dichiarare l'adottabilità di quelli fra i minori segnalati o collocati
presso istituti di assistenza, comunità di tipo familiare o presso una famiglia affidataria, che
risultino in situazione, di abbandono specificandone i motivi.

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Ricevuto il ricorso del procuratore della Repubblica, il presidente del tribunale, o un giudice da
lui delegato, provvede all'immediata apertura della procedura: dell'apertura del procedimento
sono
avvisati i genitori o in mancanza, i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi
con il minore, che vengono anche invitati a nominare un difensore e informati sulla circostanza
che, altrimenti, verrà loro nominato un difensore d'ufficio.
Il tribunale dispone, valendosi dei servizi sociali e degli organi di pubblica sicurezza,
l'effettuazione di più approfonditi accertamenti sulle condizioni del minore al fine di verificare
se sussista
effettivamente lo stato di abbandono.
Allo scopo di evitare che il protrarsi della situazione di abbandono possa recare al minore
pregiudizi ulteriori, la legge consente al tribunale di disporre in ogni momento e fino
all'affidamento preadottivo, tutti i provvedimenti provvisori che appaiano opportuni
nell'interesse del minore, compresi il collocamento temporaneo presso una famiglia o una
comunità di tipo familiare - cd. affidamento provvisorio - la sospensione della potestà dei
genitori, la sospensione dell'esercizio delle funzioni del tutore e la nomina di un tutore
provvisorio.
Se il minore ha i genitori o i parenti entro il quarto grado che abbiano rapporti significativi con
lui, essi vengono convocati innanzi al tribunale per essere sentiti e per verificare la loro
disponibilità a prendersi cura del minore: qualora se ne ravvisi l'opportunità, potranno essere
loro impartite prescrizioni a tutela del fanciullo stabilendo al tempo stesso periodici
accertamenti. Il tribunale provvede a dichiarare lo stato di adottabilità se i genitori e i parenti,
ritualmente convocati, non si siano presentati senza giustificato motivo, se la loro audizione ha
dimostrato la persistenza della mancanza di assistenza morale e materiale e la non disponibilità
ad ovviarsi, ovvero se le prescrizioni impartite siano rimaste inadempiute.
Se invece dalle indagini effettuate i genitori risultino deceduti e non vi siano parenti entro il
quarto grado che abbiano mantenuto significativi rapporti con il minore, il tribunale dichiara lo
stato di abbandono, a meno che non vi siano istanze di adozione semplice: in quest'ultimo caso il
collegio decide nell'esclusivo interesse del minore. Ugualmente si provvede all'immediata
dichiarazione dello stato di adottabilità se i genitori sogni ignoti, a meno che non venga fatta
istanza di sospensione da parte di chi, affermando di essere il genitore naturale, chieda un
termine, la cui durata massima è di due mesi, per procedere al riconoscimento; qualora invece il
genitore naturale abbia meno di 16 anni - e non sia quindi stato in grado di effettuare il
riconoscimento - la procedura è rinviata e può restare sospesa per ulteriori due mesi dopo il
compimento del 16° anno. In entrambi i casi occorre comunque che nel frattempo al minore sia
garantita un'adeguata assistenza; se necessario il tribunale potrà nominare un tutore provvisorio:
trascorsi i termini suindicati, se il riconoscimento avviene, la procedura si conclude, in
mancanza, viene invece dichiarato con sentenza lo stato di adottabilità.
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Durante lo stato di adottabilità la potestà dei genitori è sospesa: qualora non abbia già
provveduto in precedenza, il tribunale nominerà al minore un tutore.
Una volta dichiarato, lo stato di adottabilità cessa per adozione e per raggiungimento della
maggiore età; esso può altresì cessare per revoca, sempre che non sia già in atto l'affidamento
preadottivo: la revoca è pronunciata dal tribunale per minorenni nell'interesse del minore,
qualora, dopo l'emanazione della sentenza dichiarativa dello stato di adottabilità, sia venuta
meno la situazione di abbandono.
Alla dichiarazione dello stato di adottabilità segue rafifidamento preadottivo del minore ad una
coppia di coniugi che abbia presentato la relativa domanda al tribunale per i minorenni; la
domanda, che può essere inoltrata anche a più tribunali minorili, decade dopo 3 anni dalla
presentazione, ma può essere rinnovata. Il tribunale per i minorenni, accertata la sussistenza dei
requisiti, dispone l'effettuazione di adeguate indagini, dando la precedenza nell'istruttoria alle
domande dirette all'adozione di minori di età superiore ai 5 anni o con handicap accertato. Sulla
base delle indagini svolte, il tribunale procede ad una valutazione comparativa delle coppie che
aspirano all'adozione e sceglie quella maggiormente in grado di corrispondere alle esigenze del
minore. Durante il periodo di affidamento, il tribunale, avvalendosi anche del giudice tutelare e
dei servizi sociali e dei consultori, esercita un'attività di vigilanza allo scopo di verificarne il
buon andamento. In caso di accertate difficoltà, provvede a convocare anche separatamente gli
affidatari e il fanciullo allo scopo di valutare le cause che ne sono all'origine, disponendo ove
necessario interventi di sostegno psicologico e sociale e, se del caso, revocando l'affidamento.
Decorso un anno dall'affidamento preadottivo, il tribunale per i minorenni, previa verifica della
sussistenza di tutti i presupposti richiesti, e dopo aver sentito i coniugi affidatari ed i loro figli
legittimi o legittimati se maggiori di 14 anni, il minore che abbia compiuto gli anni 12 e anche il
minore di età inferiore in considerazione della sua capacità di discernimento, il p.m., il tutore e
coloro che hanno svolto l'attività di sorveglianza e di sostegno, si pronuncia sull'adozione con
sentenza. Il minore che abbia compiuto i 14 anni deve espressamente manifestare il proprio
consenso ad essere adottato dalla coppia prescelta.
Se durante l'affidamento preadottivo uno dei coniugi muore o diviene incapace, l'altro coniuge
può comunque domandare che l'adozione venga pronunciata a favore di entrambi: in tal caso
l'adozione, per il coniuge deceduto, produce effetto dalla data di morte anziché dal momento in
cui la sentenza diviene definitiva. Se durante l'affidamento preadottivo i coniugi si separano,
l'adozione può essere pronunciata nell'esclusivo interesse del minore, a favore di entrambi o di
uno solo, qualora venga avanzata istanza in tal senso.
La sentenza definitiva, trascritta nell'apposito registro tenuto presso la cancelleria del tribunale,
viene inoltre annotata a margine dell'atto di nascita dell'adottato: in forza di tale pronuncia
l'adottato diviene figlio legittimo degli adottanti assumendone e trasmettendone il cognome;
vengono meno, per contro, tutti i rapporti con la famiglia d'origine, salvi i divieti matrimoniali.
L'adozione non è suscettibile di revoca.
127
4. L'adozione dei minori nei casi particolari: le singole ipotesi
L'adozione dei minori in casi particolari si differenzia dall'adozione legittimante, oltre che per un
più ristretto ambito applicativo, per la previsione di requisiti meno rigidi per gli aspiranti
adottanti e per la maggiore semplicità del procedimento.
Le peculiarità di tale figura riguardano soprattutto gli effetti, che sono più limitati, non
importando un'interruzione dei rapporti fra l'adottato e la sua famiglia d'origine - verso cui
l'adottato mantiene tutti i diritti e doveri - né la creazione di rapporti di parentela con i parenti
dell'adottante. Inoltre, non è necessaria la sussistenza di uno stato di abbandono in capo al
minore di cui trattasi. L'adozione particolare può essere pronunciata a favore:
di persone coniugate o di persone singole unite al minore da un vincolo di parentela entro il
sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo qualora il minore sia orfano;
del coniuge, qualora il minore sia figlio (anche adottivo) dell'altro coniuge;
di persone coniugate o anche di persone singole, quando si tratti di minore orfano affetto da
handicap;
di persone coniugate o anche di persone singole, nell'ipotesi in cui vi sia la constatata
impossibilità di procedere all'affidamento preadottivo.
Se l'adottante è persona coniugata e non separata, l'adozione potrà essere pronunciata solo su
istanza di entrambi i coniugi: se ne deduce che il singolo può adottare solo se non sia sposato o
qualora sia separato. L'adozione è consentita anche in presenza di figli legittimi. È comunque
vietata l'adozione del proprio figlio naturale.
5. L'adozione internazionale:
la Convenzione dell'Aja e la riforma del 1998 Con l'espressione adozione internazionale si fa
riferimento ad ogni ipotesi in cui gli adottanti abbiano nazionalità diversa da quella dell'adottato.
Il fenomeno ha trovato per la prima volta una regolamentazione organica nella 1. n. 184/1983,
che, tuttavia, è apparsa sotto alcuni aspetti inadeguata. Essa lasciava, infatti, ampio spazio
all'iniziativa degli aspiranti adottanti, liberi di recarsi all'estero e di prendere contatto tramite
intermediari non qualificati, o anche direttamente, con operatori stranieri o addirittura con la
famiglia d'origine del minore. Vi era dunque il rischio di abusi; inoltre, in diversi Paesi esteri le
condizioni per fare luogo all'adozione sono molto meno rigorose rispetto a quelle fissate dalla
legge italiana (addirittura in alcuni Stati il giudice si limita ad apporre un visto ad un accordo
privato intercorso fra le parti).
A questi problemi ha inteso dare una soluzione la Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993 per
la tutela dei bambini e la cooperazione nell'adozione internazionale di cui anche l'Italia si è resa
firmataria.
La Convenzione individua in modo preciso le condizioni necessarie affinché l'adozione possa
avere luogo: dichiarazione di adottabilità del minore da parte delle autorità straniere;
accertamento da parte delle stesse autorità dell'impossibilità di far luogo all'affidamento del

128
fanciullo nello stato di origine, di modo che l'adozione internazionale, in relazione al suo
preminente interesse, appaia l'unica via praticabile (ed. criterio di sussidiarietà); svolgimento
della necessaria attività di consulenza a beneficio dei soggetti il cui consenso è richiesto ai fini
dell'adozione, consenso che deve essere da loro manifestato senza alcun corrispettivo e per
iscritto, previa adeguata informazione circa le sue conseguenze, in particolare in ordine
all'eventuale cessazione di ogni vincolo giuridico fra il minore e la sua famiglia d'origine (in
special modo è richiesto che il consenso della madre, ove occorra, sia stato prestato dopo la
nascita del bambino); svolgimento della necessaria attività di consulenza anche a beneficio del
minore, il cui consenso, ove richiesto, dovrà essere manifestato in piena libertà, gratuitamente e
per iscritto e preceduto da adeguata informazione circa i suoi effetti.
La Convenzione afferma poi la necessità che ogni singolo Paese aderente individui un'Autorità
centrale, cui sono attribuiti molteplici e disparati compiti, al fine di garantire il rispetto delle
previsioni della Convenzione stessa. La 1. 31 dicembre 1998, n. 476, con cui l'Italia ha ratificato
e ha dato esecuzione alla Convenzione, ha opportunamente riservato al tribunale per i minorenni
i compiti propriamente giudiziari, attribuendo invece quelli di carattere amministrativo e di
politica generale alla Commissione per le adozioni internazioni. Quest'organismo, istituito
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato introdotto ex novo dalla legge di riforma:
si compone di 11 membri a prevalente nomina governativa ed è presieduto da un magistrato
avente esperienza nel settore minorile. La Commissione ha numerosi compiti: essa oltre a
rilasciare l'autorizzazione agli enti, autorizza l'ingresso del minore in Italia, certifica la
conformità dell'adozione alla Convenzione dell'Aja, conserva tutti gli atti relativi alla procedura,
promuove iniziative di formazione per coloro che operano nel campo dell'adozione, collabora
con le Autorità centrali degli altri Stati.
La nuova legge ha anche introdotto l'obbligo per coloro che aspirano all'adozione internazione di
rivolgersi ad uno degli enti autorizzati, con ciò ponendo fine al fenomeno delle "adozioni fai da
te". Agli enti sono attribuiti compiti estremamente delicati, quali, in particolare, di svolgere tutte
le pratiche necessarie, di ricevere le proposte d'incontro formulate dall'autorità straniera, di
assistere i coniugi in tutte le attività da svolgersi all'estero, di ricevere dall'autorità straniera
l'attestazione circa la sussistenza dei requisiti di cui all'art. 4 della Conv. dell'Aja e di concordare
con essa l'opportunità di procedere all'adozione, di chiedere alla Commissione per le adozioni
internazionali l'autorizzazione ad introdurre il fanciullo in Italia e di vigilare sul suo
trasferimento, di svolgere
insieme ai servizi locali un'attività di sostegno a beneficio del nucleo adottivo una volta che il
minore sia stato condotto in Italia. Vista la rilevanza dei compiti loro affidati, la legge richiede
agli enti che aspirino ad ottenere il riconoscimento il possesso di determinati requisiti: in
particolare si richiede che l'ente sia diretto e composto da persone aventi adeguata preparazione
e competenza nel campo dell'adozione internazionale e con idonee qualità morali; che si avvalga
dell'ausilio di professionisti in campo sociale, giuridico, psicologico iscritti nei relativi albi; che
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disponga di un'adeguata struttura organizzativa; che non abbia fini di lucro; che non operi
discriminazioni fra gli aspiranti all'adozione.
L'autorizzazione viene rilasciata agli enti dalla Commissione per le adozioni internazionali, che
cura la tenuta del relativo albo, vigila sul loro operato e in caso di gravi inadempienze dispone la
revoca.
6. Il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini
La 1. n. 149/2001 introduce principi nuovi rispetto al passato, primo fra tutti quello per cui il
fanciullo deve essere informato della sua condizione dai genitori adottivi, che devono
provvedervi nei modi e termini che ritengono più opportuni.
Sono state introdotte disposizioni innovative in ordine alla possibilità per l'adottato di avere
notizie sulla propria famiglia d'origine, possibilità che in precedenza veniva generalmente negata
anche dopo il raggiungimento della maggiore età, eccettuato il caso in cui la richiesta di
conoscere l'identità dei genitori biologici fosse giustificata dalla necessità di salvaguardare la
salute dello stesso adottato.
È riconosciuta poi, durante la minore età, la possibilità per i genitori adottivi, di avere
informazioni sull'identità dei genitori biologici, previa autorizzazione del tribunale per i
minorenni, qualora vi siano gravi e comprovati motivi. Il tribunale è obbligato ad accertare che
l'informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore.
Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera, se vi
sia necessità ed urgenza e sussista un grave pericolo per la salute del minore.
L'adottato, raggiunta l'età di 25 anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e
l'identità dei suoi genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono
gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L'istanza deve essere presentata al
tribunale per i minorenni del luogo di residenza. L'autorizzazione del tribunale per i minorenni
occorre anche per chi ha già compiuto il 25° anno di età, pur senza l'ulteriore requisito dei gravi
e comprovati motivi attinenti alla salute psico-fisica; e quindi l'autorizzazione del giudice
minorile si ritiene necessaria in ogni caso.
Il tribunale sente le persone di cui ritiene opportuno l'ascolto e assume le informazioni di
carattere sociale e psicologico allo scopo di valutare che l'accesso alle notizie richieste non nuoci
gravemente all'equilibrio psico-fisico del richiedente.
L'art. 1772, del D.lg. 30 giugno 2003, 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) si
limita ad impedire l'accesso alle informazioni nei soli confronti della madre che abbia dichiarato
di non volere essere nominata.
L'autorizzazione non è richiesta per l'adottato maggiorenne quando i genitori adottivi siano
deceduti o siano divenuti irreperibili.
7. L'adozione dei maggiorenni
L'adozione delle persone maggiori di età soddisfa l'interesse dell'adottante, privo di discendenti

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legittimi o legittimati, ad acquisire un figlio cui trasmettere il proprio cognome e le proprie
sostanze. Resta tuttora l'impossibilità di procedere all'adozione di persone maggiori di età per chi
abbia figli legittimi minori o maggiorenni non consenzienti e anche per chi abbia figli naturali
riconosciuti minori o maggiorenni non consenzienti.
Fra l'adottante e l'adottato deve intercorrere una differenza di età di almeno 18 anni: ne discende
che l'adottante deve avere 36 anni, anche se è prevista la possibilità per il tribunale di autorizzare
comunque l'adozione al compimento dei 30 anni, qualora eccezionali circostante lo consiglino.
Nessuno può essere adottato da più di una persona, a meno che gli adottanti non siano coniugi. È
vietato adottare i propri figli nati fuori dal matrimonio.
Affinché l'adozione possa essere pronunciata occorre il consenso dell'adottante e dell'adottando,
i quali possono revocarlo finché non sia intervenuta la pronuncia del tribunale; occorre altresì
l'assenso dei genitori dell'adottando e l'assenso del coniuge dell'adottante e dell'adottando che
non sia legalmente separato. Il tribunale, previa verifica della convenienza dell'adozione per
l'adottando, si pronuncia con sentenza, dalla cui data decorrono gli effetti dell'adozione. La
sentenza definitiva che dispone l'adozione è trascritta in un apposito registro tenuto presso la
cancelleria del tribunale ed annotata a margine dell'atto di nascita dell'adottato. Gli effetti
dell'adozione dei maggiorenni sono i medesimi dell'adozione particolare: mantenimento dei
vincoli con la famiglia d'origine, acquisto del cognome e acquisto dei diritti successori solo in
capo all'adottato.
L'adozione può essere revocata per indegnità dell'adottato o dell'adottante: la competenza spetta
al tribunale ordinario.
11° - PARENTELA, OBBLIGO ALIMENTARE E SOLIDARIETÀ FAMILIARE
1. La parentela e l'affinità
La parentela è il legame di sangue che unisce persone discendenti da un medesimo stipite.
L'intensità del vincolo va determinata tenendo conto di due elementi: la linea, e il grado. Sono
parenti in linea retta le persone che discendono l'una dall'altra (ad es., nonni, genitori, figli),
mentre sono parenti in linea collaterale coloro che hanno un ascendente comune, ma che non
discendono l'uno dall'altro (fratelli, cugini, ecc.). Il grado è l'intervalle generazionale che separa
tra loro due o più soggetti: nella linea retta, per ogni generazione si computa un grado, ma si
deve escludere lo stipite (tra padre e figlio intercorre, quindi, una parentela di primo grado);
nella linea collaterale, il computo deve essere eseguito effettuando la somma dei gradi che
intercorrono tra ognuno dei due parenti e il comune ascendente, il quale deve essere escluso dal
computo (due fratelli sono, infatti, parenti di secondo grado).
Il vincolo di parentela non viene riconosciuto dalla legge oltre il sesto grado, salvo che per
alcuni effetti specificamente determinati.
La parentela viene tradizionalmente distinta in legittima, che intercorre tra individui legati da un
vincolo di sangue scaturente dalla generazione in costanza di matrimonio, e naturale, basata sul

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solo legame di sangue.
La parentela naturale pone questioni alquanto dibattute in dottrina. In particolare, prima della
riforma del diritto di famiglia, si riteneva che la parentela naturale fosse circoscritta al rapporto
tra il genitore, il figlio riconosciuto e i discendenti di questo; le novità introdotte con la riforma
hanno spinto a riconsiderare il concetto di parentela naturale, tant'è che si tende oggi a
riconoscerle capacità espansiva, quanto meno in linea retta. Inoltre, si rinvengono ipotesi in cui
assume rilevanza il rapporto tra il figlio naturale ed i parenti del genitore: l'art. 148 c.c., che
stabilisce il dovere degli ascendenti legittimi o naturali di fornire, in ordine di prossimità, ai
genitori privi di mezzi sufficienti quanto necessario affinché questi possano, a loro volta,
adempiere ai loro doveri nei confronti dei figli; l'art. 1551, c.c. - introdotto dalla 1. 8 febbraio
2006, n. 54, che disciplina l'affidamento condiviso dei figli - che, trovando applicazione anche
alla filiazione naturale, tratta come parenti quelli naturali, prevedendo che, anche in caso di
separazione personale dei genitori, il minore ha diritto a mantenere rapporti significativi con gli
ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale; l'art. 433, nn. 2 e 3, c.c., il quale parifica i
discendenti e gli ascendenti naturali ai legittimi in ordine agli alimenti; infine, l'art. 467 c.c., che
riconosce ai figli naturali il diritto di succedere per rappresentazione al proprio ascendente che
non voglia o non possa accettare l'eredità.
È invece molto controversa la rilevanza della parentela naturale in linea collaterale. In sintesi,
coloro che ammettono un rapporto di parentela tra fratelli naturali giungono a tale conclusione
osservando come l'art. 433, n. 6, c.c. stabilisca l'obbligo di prestare gli alimenti a carico dei
fratelli dell'alimentando, senza fare alcuna distinzione fra fratelli legittimi e naturali. Per contro,
la tesi che esclude la configurabilità di un rapporto di parentela tra fratelli naturali, fa
essenzialmente leva sull'istituto della legittimazione, il quale, essendo lo strumento per attribuire
al figlio naturale lo stato di figlio legittimo, sarebbe spogliato di qualsiasi utilità ove lo stato di
filiazione naturale fosse idoneo a generare un rapporto di parentela uguale a quello che sorge con
lo stato di figlio legittimo.
Appare comunque certo che una visione discriminante dei rapporti di parentela naturale si ponga
in conflitto non solo con significativi indici normativi d'indole sopranazionale, ma anche con i
principi fondamentali espressi dalla Costituzione e con quelli introdotti dalla riforma del 1975.
La parentela è produttiva di effetti patrimoniali e non patrimoniali. Tra i primi meritano
menzione quelli previsti nel campo della successione necessaria, legittima, nonché in ordine agli
alimenti. Per quanto, invece, concerne gli effetti non patrimoniali, i più significativi sono quelli
di cui agli artt. 87 c.c. (impedimento a contrarre matrimonio), 348 ce (idoneità a ricoprire il
ruolo di tutore), 417 ce (legittimazione a proporre istanza d'interdizione o inabilitazione), e 251
ce (non riconoscibilità dei figli incestuosi). La prova, tanto del rapporto, quanto del grado di
parentela, si fornisce attraverso le risultanze degli atti dello stato civile oppure, qualora vi sia
l'impossibilità di avvalersene, con qualsiasi altro mezzo.
L'affinità è il vincolo che unisce un coniuge ai parenti dell'altro coniuge. Anche raffinità è
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computata in virtù della linea e del grado, in quanto nella linea e nel grado in cui taluno è
parente di uno dei coniugi, egli è affine dell'altro coniuge. L'affinità non viene meno per morte,
anche senza prole, del coniuge da cui essa deriva, mentre cessa qualora il matrimonio sia
dichiarato nullo, ancorché permanga l'impedimento alle nozze per gli affini in linea retta. Un
punto controverso concerne l'idoneità della pronuncia di scioglimento o di cessazione degli
effetti civili del matrimonio a far cadere il vincolo di affinità, anche se sembra prevalere
l'orientamento favorevole alla permanenza del vincolo dopo la pronuncia di divorzio.
2. La tutela dei soggetti deboli nella famiglia
Negli anni recenti si è sviluppata una notevole riflessione circa il ruolo della famiglia nell'ambito
della tutela dei soggetti deboli (portatori di handicap, anziani, ecc.).
Merita di essere in tale prospettiva richiamata la 1. 9 gennaio 2004, n. 6, la quale ha introdotto
l'amministrazione di sostegno; tale istituto sottende una nuova più ampia prospettiva di 'cura',
che si estende al di là degli aspetti di natura meramente patrimoniale, fino a ricomprendere ogni
esigenza, globalmente intesa, del soggetto debole. Per tal via l'ordinamento offre tutela e
protezione a favore di chi, per infermità o menomazione fisica o psichica, si trovi
nell'impossibilità di curare autonomamente i propri interessi.
Il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno s'ispira ai principi di gradualità e flessibilità,
per offrire tutela alla persona non autonoma con la minore limitazione possibile della capacità di
agire.
Si è quindi voluto predisporre una "protezione su misura", che tuteli la persona in quanto tale,
piuttosto che i suoi interessi patrimoniali e che - a differenza dell'interdizione e
dell'inabilitazione - possa diversamente atteggiarsi a seconda delle esigenze del singolo
beneficiario, alla luce del principio di proporzionalità tra disagio e rimedio, non avendo un
contenuto predeterminato ex lege, bensì definito dal giudice volta per volta.
Nel segno di una maggiore flessibilità si muovono anche le innovazioni apportate dalla 1. n.
6/2004 alle tradizionali figure dell'interdizione e dell'inabilitazione.
Il nuovo testo dell'art. 427 c.c. prevede che il giudice possa stabilire che taluni atti di ordinaria
amministrazione possano essere compiuti dall'interdetto, senza l'intervento ovvero con la mera
assistenza del tutore e che taluni atti eccedenti l'ordinaria amministrazione possano essere
compiuti dall'inabilitato senza l'assistenza del curatore.
Ai fini del discorso in svolgimento assume particolare rilievo la disposizione che disciplina la
scelta dell'amministratore di sostegno; infatti, il giudice tutelare, avendo esclusivo riguardo
all'interesse del beneficiario, deve, ove possibile, preferire il coniuge che non sia legalmente
separato, la persona stabilmente convivente, uno dei genitori, i figli, i fratelli del beneficiario
ovvero un parente entro il quarto grado oppure, ancora, il soggetto designato dal genitore in un
testamento, in un atto pubblico o in una scrittura privata autenticata.
La preferenza viene accordata dal legislatore affinché i compiti di cura siano assolti in prima

133
istanza proprio nel contesto delle relazioni familiari.
Quanto sopra trova conferma con riferimento agli obblighi attualmente previsti in capo ai
genitori di figlio portatore di handicap grave. L'art. 155 quinquies2, c.c., dettato in materia di
affidamento dei figli a seguito di crisi coniugale - ma in realtà riferibile a qualsiasi coppia
genitoriale -, prevede che ai figli maggiorenni portatori di handicap siano applicabili le
disposizioni in materia di affidamento dei minori. Il legislatore non ha voluto disporre
puramente e semplicemente un'equiparazione tra figlio minore e figlio maggiorenne portatore di
handicap, che in sé porrebbe rilevanti dubbi di natura costituzionale, quanto piuttosto esplicitare
a carico dei genitori il perdurare, anche dopo il raggiungimento della maggiore età del figlio,
degli obblighi di cura. Ciò peraltro pare non comportare necessariamente il dovere che la
predetta cura sia attuata mediante un'assistenza diretta del figlio, che, anche in considerazione
delle patologie da cui sia affetto, potrà essere prestata anche mediante il ricorso a personale e
strutture a ciò deputate, dovendosi peraltro ritenere la sussistenza in capo ai genitori di una sorta
di dovere di direzione e di sorveglianza.
4. Il ricongiungimento familiare
L'imponente flusso migratorio che da vari anni interessa il Paese pone in termini nuovi il
problema del rispetto della vita familiare e dell'attuazione dei doveri di solidarietà ad essa
connessi. Al riguardo è particolarmente rilevante la disciplina del ricongiungimento familiare,
mediante il quale si consente a chi risiede o soggiorna regolarmente in uno Stato diverso da
quello di appartenenza di essere raggiunto dai familiari provenienti da altri Paesi, che può
genericamente ricondursi nell'area delle norme costituzionali a tutela dell'unità familiare (artt.
29, 30, 31 Cost.), ed è positivamente riconosciuto da accordi internazionali, quali l'art. 10 della
Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo (New York, 1989), l'art. 44, n. 2 della
Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie (New York,
1990), l'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali (Roma, 1950), a tutela del rispetto della vita privata e familiare.
Nonostante le fonti richiamate paiano ricondurre l'istituto del ricongiungimento familiare entro
l'area dei diritti inviolabili dell'uomo, come tali meritevoli di una tutela assoluta, non si rinviene
un riconoscimento pieno ed incondizionato. Questo in considerazione del fatto che l'ingresso
dello straniero nel territorio nazionale coinvolge svariati interessi pubblici - sicurezza, ordine
pubblico, sanità -, la cui ponderazione spetta in primo luogo al legislatore interno, che appare
legittimato a bilanciare l'interesse dello Stato a controllare i flussi migratori in entrata con le
esigenze di tutela della vita familiare dello straniero.
Il diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini dell'U.E. risulta consacrato nella direttiva
2004/3 8/CE, mentre quello dei cittadini extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio
di uno Stato membro dell'Unione viene disciplinato dalla direttiva 2003/86/CE, cui lo Stato
italiano si è adeguato solo di recente con d.lgs. 8 gennaio 2007, n. 5, contenente modifiche ed

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integrazioni al d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). L'art. 29 del t.u.,
contenente la disciplina del ricongiungimento familiare, ha, subito nel tempo numerose
modifiche: dapprima, con 1. 30 luglio 2002, n. 189 (ed. legge Bossi-Fini), che ha introdotto
sensibili limitazioni alla concessione del visto di ingresso per il ricongiungimento familiare; poi,
con il citato d.lgs. n. 5/2007, che ha semplificato le procedure e mitigato le condizioni per
l'esercizio del ricongiungimento familiare; da ultimo, con d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160, che, nel
modificare ed
integrare il d.lgs. n. 5/2007, ha reintrodotto requisiti più restrittivi ed onerosi per l'accesso al
ricongiungimento familiare.
L'art. 291, così come da ultimo novellato, riconosce allo straniero legalmente soggiornante in
Italia il diritto di ricongiungersi con i seguenti familiari: a) il coniuge non legalmente separato e
di età non inferiore ai 18 anni; b) i figli minori, anche del coniuge o nati fuori del matrimonio,
non coniugati, a condizione che l'altro genitore, qualora esistente, abbia dato il suo consenso. Ai
figli minori sono espressamente equiparati i minori adottati o affidati o sottoposti a tutela. La
giurisprudenza è arrivata a estendere il ricongiungimento familiare ai minori legati allo straniero
da un legame che abbia un contenuto sostanzialmente paragenitoriale, indipendentemente dal
'nomen iuris' e dalla coincidenza assoluta di effetti tra la misura straniera a protezione dei minori
e gli istituti italiani testualmente richiamati dalla norma.
Sono poi previste, quali ulteriori restrizioni introdotte dal d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160 per essere
ammessi al ricongiungimento familiare, l'innalzamento del livello di reddito dello straniero e il
ricorso all'esame del DNA per comprovare i suoi legami parentali con il soggetto da
ricongiungere qualora manchi idonea documentazione rilasciata dalle competenti autorità
straniere o sussistano fondati dubbi sulla sua autenticità.
12° - LA RESPONSABILITÀ CIVILE NELLE RELAZIONI FAMILIARI
1. I nuovi danni nella famiglia che cambia
La progressiva valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia ha fatto
emergere il problema della responsabilità civile all'interno della stessa, in particolare, rispetto ai
ed 'nuovi' danni alla persona e alle mutate relazioni giuridiche tra familiari.
In conseguenza di questi due temi da un lato, si è ampliata la categoria dei danni risarcibili e,
dall'altro, sono state create nuove figure che riflettono una più marcata attenzione
dell'ordinamento nei confronti della persona e delle sue prerogative, non più attinenti alla
capacità di reddito, quanto piuttosto alla sfera fisica ed esistenziale. La più recente
giurisprudenza ha, infatti, abbandonato la tradizionale ottica patrimonialista, che relegava la
risarcibilità del danno non patrimoniale al solo caso in cui il fatto integrasse un reato;
interpretazione legata alla lettura restrittiva dell'inciso contenuto nell'art. 2059 c.c., secondo cui i
danni non patrimoniali possono essere risarciti nei soli casi determinati dalla legge, sino ad un

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recente passato individuati, appunto, nelle sole ipotesi a rilevanza penalistica. Al contrario, oggi
l'interpretazione corrente vede nell'espressione "danno non patrimoniale", di cui all'art. 2059 c.c.,
una formula comprensiva non solo del danno morale in senso stretto (danno morale soggettivo),
ma anche di tutte le lesioni di valori costituzionalmente protetti inerenti alla persona e non
connotati da rilevanza economica, da ritenersi precettivi ed immediatamente efficaci nei rapporti
tra privati.
La stessa centralità della persona contraddistingue oggi la disciplina giuridica dei rapporti
familiari e l'illecito civile ha conquistato nuovi spazi nei rapporti tra coniugi e tra genitori e figli.
Come ha affermato la Corte di Cassazione, nel sistema delineato dal Legislatore del 1975, il
modello di famiglia-istituzione, al quale il ce del '42 era ancorato, è stato superato da quello di
famiglia-comunità, i cui interessi non si pongono su un piano sovraordinato, ma s'identificano
con quelli solidali dei suoi componenti.
È stato, infatti, evidenziato come il sistema della responsabilità civile debba, in linea di
principio, applicarsi anche ai rapporti tra coniugi, poiché non vi sono motivi per ritenere che lo
status di coniuge possa comportare una riduzione ed una limitazione alla tutela della persona;
tuttavia, ciò presuppone che la condotta del coniuge che abbia cagionato un danno ingiusto, ex
art. 2043 c.c., nell'ambito della sfera d'interessi dell'altro, senza, peraltro, che ciò porti a
concludere che la semplice violazione dei doveri matrimoniali possa in sé legittimare una
condanna al risarcimento del danno, in quanto all'assunzione di un dovere matrimoniale si
contrappone un diritto inviolabile
di libertà (si pensi all'obbligo di fedeltà, al quale corrisponde la libertà di autodeterminarsi,
comprensiva anche della libertà di separarsi e divorziare).
Tale ricostruzione interpretativa è confermata dalle nuove norme in materia di affidamento
condiviso, in particolare laddove, nell'art. 709 c.p.c, si prevede espressamente la possibilità di
condannare il genitore che sia inadempiente ai provvedimenti del giudice in ordine all'esercizio
della potestà al risarcimento dei danni nei confronti del minore o dell'altro genitore; si è quindi
così pervenuti alla prima "tipizzazione" dell'illecito endofamiliare.
2. Rapporto di coniugio e responsabilità civile
La constatazione che il rispetto dei doveri coniugali sia affidato all'osservanza spontanea
piuttosto che alla forza del diritto non ne sminuisce tuttavia l'attitudine a caratterizzare la stessa
relazione matrimoniale, che s'identifica proprio con l'adempimento di quei doveri; ciò
semplicemente testimonia un mutato atteggiamento dell'ordinamento, che sembra aver
rinunciato a sanzionare il rispetto di regole indirizzate essenzialmente all'intima coscienza della
persona. Peraltro, negli anni più recenti si è assistito ad una rivalutazione della rilevanza
giuridica dei doveri coniugali, la cui violazione, in circostanze determinate, è stata ritenuta da
talune recenti pronunce fonte di responsabilità da fatto illecito in capo al coniuge che l'abbia
posta in essere. A lungo si è dibattuto sulla possibilità di ottenere, in caso di violazione dei

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doveri coniugali, il risarcimento dei danni extracontrattuali cagionati da un coniuge all'altro, in
aggiunta ai rimedi specifici previsti dal diritto di famiglia, come la dichiarazione di addebito
nella separazione.
I primi segnali di apertura del sistema delle relazioni familiari alla responsabilità civile sono
pervenuti dalla giurisprudenza di merito, mossa dalla considerazione della scarsa rilevanza
pratica della declaratoria di addebito della separazione; la perdita del diritto all'assegno di
mantenimento, infatti, presenta il duplice limite di colpire soltanto il coniuge che ne avrebbe
avuto diritto e di non avere alcuna conseguenza in presenza di modeste capacità finanziarie
dell'obbligato. Anche la perdita del diritto a succedere è una sanzione nella pratica svuotata di
significato dall'istituto del divorzio. Pertanto, la dichiarazione di addebito può essere inidonea al
fine di riparare le conseguenze negative provocate dalla condotta illecita di un coniuge nella
sfera d'interessi dell'altro. Nondimeno, è da escludere che la funzione risarcitoria sia svolta
dall'assegno di mantenimento o di divorzio, la cui natura è esclusivamente assistenziale.
Anche le sanzioni penali di norma sono insufficienti a tutelare il coniuge, anzitutto perché i
caratteri restrittivi delle fattispecie delittuose sembrano ostacolare un'applicazione ampia e
adattabile alle diverse situazioni bisognevoli di tutela, ma anche in quanto è improbabile che
nell'ambito delle relazioni familiari la tutela penale possa condurre a risultati effettivi.
Attualmente dottrina e giurisprudenza riconoscono la risarcibilità del danno endofamiliare,
sempre che la condotta del coniuge contraria ai doveri nascenti dal matrimonio abbia cagionato
un danno ingiusto suscettibile di essere risarcito ai sensi degli artt. 2043 ss. c.c. Il presupposto è
dunque la clausola generale dell'ingiustizia del danno, di cui all'art. 2043 c.c. Tale norma, infatti,
prevede che il risarcimento debba essere accordato ogniqualvolta si verifichi un danno ingiusto,
identificabile con il danno che l'ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima
e che perciò deve essere trasferito sull'autore del fatto, in quanto lesivo d'interessi giuridicamente
rilevanti, quale che sia la loro qualificazione formale. L'esistenza dell'ingiustizia del danno non
può essere messa in discussione e non può subire limitazioni per il fatto che il danno sia stato
cagionato dal coniuge, anzi, semmai ciò può comportare un aggravamento delle conseguenze a
carico del familiare responsabile.
La semplice violazione dei doveri matrimoniali non può tuttavia legittimare una condanna al
risarcimento del danno: l'adempimento dei doveri coniugali è normalmente affidato allo
spontaneo atteggiarsi del rapporto matrimoniale, tanto che, con riferimento ai doveri di carattere
personale si è assistito ad un processo di tendenziale degiuridificazione, derivante
dall'affermazione dei valori di autonomia della famiglia e di libertà nella famiglia; la loro
violazione non può costituire materia di pretese coercibili, poiché al soggetto attivo del rapporto
non è accordata alcuna azione per l'adempimento.
Il comportamento di un coniuge in violazione dei doveri matrimoniali può, infatti, provocare
l'addebito della separazione soltanto se ha determinato l'intollerabilità della prosecuzione della
convivenza, oppure il grave pregiudizio all'educazione della prole.
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Ai fini dell'operatività delle regole della responsabilità aquiliana, dunque, è necessario qualche
cosa in più, cioè che si verifichi un danno ingiusto. Il risarcimento del danno, pertanto, può
essere accordato nel caso in cui la condotta, particolarmente grave, del coniuge abbia violato non
solo uno dei diritti nascenti dal matrimonio, ma abbia provocato anche la lesione di un interesse
ulteriore tutelato dall'ordinamento. In tal caso, infatti, se non si riconoscesse il risarcimento del
danno, tale interesse rimarrebbe privo di tutela, perché non potrebbe essere compensato con i
rimedi specifici previsti nell'ambito del diritto di famiglia.
L'ingiustizia del danno, quindi, non può essere ravvisata nella "crisi coniugale", in sé e per sé
considerata, ovvero nella separazione o nel divorzio, poiché ciascun coniuge ha diritto di
separarsi, di divorziare, di contrarre un nuovo matrimonio e formare una nuova famiglia.
Pertanto, il danno che eventualmente un coniuge possa subire per il fatto stesso della rottura del
vincolo coniugale non è un danno risarcibile, perché ciascun coniuge - al verificarsi dei
presupposti di legge - ha diritto di porre fine al rapporto coniugale.
La violazione dei doveri matrimoniali, pertanto, deve rappresentare il presupposto della concreta
lesione di un interesse tutelato. La Corte di Cassazione ha messo in evidenza come il rapporto tra
violazione dei doveri coniugali e responsabilità aquiliana debba essere inquadrato nel più ampio
contesto del risarcimento del danno per lesione di un interesse costituzionalmente rilevante ex
art. 2059 c.c. L'art. 2059 c.c., infatti, consente di offrire tutela risarcitoria alla persona che abbia
subito la lesione di situazioni giuridiche non patrimoniali costituzionalmente garantite. Uno dei
più significativi casi che dimostrano l'opportunità dell'apertura del diritto di famiglia alle norme
sulla responsabilità civile ha avuto ad oggetto il comportamento tenuto dal marito ai danni della
moglie affetta da una patologia psichica, la quale si era progressivamente isolata dal mondo
esterno, rinchiudendosi nel salotto di casa, senza che il primo si preoccupasse in alcun modo
della situazione. La donna aveva quindi vissuto, nella più completa incuria, per 4 anni, fino a
quando il marito, dovendo rilasciare l'abitazione, richiese un trattamento sanitario obbligatorio.
La donna fu allora ricoverata per oltre 40 giorni e il marito si recò a visitarla solo due volte,
rifiutando inoltre di riaccoglierla in casa una volta dimessa dall'istituto di cura.
Nell'accertamento del fatto, il tribunale appurò che la patologia psichica della moglie non era
causalmente ricollegabile al logorato rapporto coniugale, ma che l'aggravarsi della stessa era
invece da ricondursi a un inescusabile ritardo nel fornire gli adeguati e necessari sussidi
terapeutici; ritardo che, da un lato, aveva rallentato il recupero della paziente e, dall'altro, aveva
determinato la definitiva perdita di parte delle potenzialità psichiche della stessa. In ciò
ravvisando la sussistenza di tutti gli elementi necessari ad integrare un fatto illecito, cioè la
dolosa omissione da parte del marito (stante il suo dovere di prestare assistenza morale e
materiale), il danno ingiusto, ravvisabile nella lesione del diritto alla salute della moglie ed il
nesso causale tra i due elementi indicati, evidenziato dal fatto che le condizioni della moglie si
erano notevolmente aggravate in conseguenza del comportamento del marito e del trascorrere
del tempo senza gli idonei trattamenti terapeutici, il tribunale ha dunque condannato il marito al
138
risarcimento del danno in favore della moglie, essendo evidente come, in caso contrario, si
sarebbe prodotta una paradossale 'immunità' proprio nei confronti di quel soggetto che, in virtù
del vincolo familiare, era più vicino al danneggiato.
Con riferimento all'obbligo di assistenza morale e materiale, è stata pronunciata la risarcibilità
del danno in favore della moglie in un caso in cui una coppia di coniugi tentava da tempo di
avere un figlio, anche sottoponendosi ad esami e trattamenti medici; non appena la moglie
rimase incinta, tuttavia, il marito dichiarò di non voler diventare padre e di non avere più
interesse nemmeno al vincolo coniugale, iniziando ad allontanarsi spesso da casa, senza dare
proprie notizie anche per giorni, comunicando con la moglie solo attraverso biglietti scritti e
disinteressandosi totalmente all'evoluzione della gravidanza. In tale situazione, la moglie
sviluppò una sindrome depressiva ed il
feto subì un rallentamento della crescita. Il tribunale ha perciò ravvisato, nel comportamento del
marito, non solo la violazione dell'obbligo di assistenza morale e materiale di cui all'art. 143 c.c.,
ma anche un illecito civile, trattandosi, nel caso di specie, di una condotta lesiva dei diritti
inviolabili della persona, tutelati in modo pieno ed assoluto ex art. 2 Cost. anche nelle
formazioni sociali ove si svolge la personalità di ogni individuo, e quindi anche nell'ambito
familiare. Anche con riferimento alla violazione del dovere di fedeltà, i giudici di merito hanno
ritenuto che la tutela aquiliana possa trovare applicazione; ciò in particolare quando la relazione
extraconiugale sia stata svolta, rispetto all'ambiente in cui i coniugi vivono, con modalità tali da
offendere la dignità e l'onore dell'altro coniuge. In ipotesi di questo genere, l'ingiustizia del
danno non deve essere ravvisata nella violazione del dovere di fedeltà, bensì nella violazione
dell'onore del coniuge. A tal riguardo è significativa una pronuncia di merito, poi riformata in
seconda istanza, che aveva riconosciuto, come fonte di responsabilità extracontrattuale nei
confronti della moglie, l'infedeltà omosessuale del marito, ritenendo che tale comportamento
fosse in sé gravemente lesivo della personalità della donna nella sua dignità e nell'esplicazione
della sua personalità all'interno della famiglia. Il tribunale sosteneva che il comportamento era
rilevante sia ai fini della separazione, sia quale fatto generante responsabilità aquiliana. La
decisione è stata riformata in grado di appello, non potendo attribuirsi rilevanza automatica al
carattere omosessuale dell'infedeltà ai fini della sussistenza dell'ingiustizia del danno. In secondo
grado, dunque, si è pervenuti all'affermazione dell'insussistenza, nel caso di specie, di un danno
ingiusto, sulla base del rilievo che la relazione extraconiugale, sia essa omosessuale o
eterosessuale, non è mai di per sé idonea a determinare la lesione d'interessi meritevoli di tutela
dell'altro coniuge, dovendosi raggiungere la prova specifica dell'esistenza della predetta lesione
ai fini di una condanna risarcitoria.
3. Rapporto di filiazione e responsabilità civile
La nuova dimensione dei doveri genitoriali è stata integralmente recepita dalla giurisprudenza
con specifico riguardo all'applicazione dei principi della responsabilità civile nell'ambito dei

139
rapporti di filiazione, segnatamente per l'ipotesi in cui il genitore li abbia trascurati arrecando al
figlio un danno ingiusto.
Appare in proposito molto significativa una sentenza di merito la quale ha affermato la
responsabilità di un padre, giudizialmente dichiarato, che si era completamente disinteressato
della propria figlia naturale - ignorandone volutamente la nascita, le sorti, la vita, le esigenze
economiche -, rilevando la conseguente violazione di diritti soggettivi assoluti di rango
costituzionale. Il concepimento, infatti, non si riduce a un fatto meramente materiale, poiché la
Carta costituzionale obbliga i genitori, anche naturali, ad assistere materialmente e moralmente
la prole; si tratta dunque
di un obbligo non meramente patrimoniale, ma esteso all'assistenza educativa. Solo in caso di
assenza o d'incapacità di costoro la stessa fonte costituzionale prevede forme sostitutive di
assistenza (tutela, curatela); non assolvere tale obbligo costituisce dunque un fatto illecito.
Laddove, cioè, la condotta del genitore sia 'contra ius' l'applicazione delle regole della
responsabilità civile consente al figlio di conseguire un ristoro tanto del danno patrimoniale,
quanto di quello non patrimoniale.
Nella prima voce di danno vengono risarciti i pregiudizi arrecati alla sfera patrimoniale del figlio
per non aver goduto del mantenimento, dell'istruzione e dell'educazione che il genitore
"inadempiente" avrebbe potuto offrirgli. A tal riguardo, la giurisprudenza ha precisato come la
quantificazione di tali danni debba essere effettuata sulla base della differenza tra quanto
effettivamente percepito dal figlio ad opera del genitore "adempiente" e quanto avrebbe potuto
ricevere dal genitore assente, tenuto conto della posizione patrimoniale e reddituale di
quest'ultimo. Il danno va perciò quantificato alla luce di una valutazione probabilistica che tenga
in considerazione le possibilità di cui il figlio non ha in concreto goduto, ma delle quali avrebbe
invece potuto giovarsi ove il proprio genitore non fosse stato inadempiente; devono, quindi,
essere presi in considerazione, tra l'altro, i pregiudizi relativi alla perdita della prospettiva di un
inserimento sociale e lavorativo adeguato alla classe socio-economica di appartenenza del
genitore inadempiente, perdita direttamente ricollegabile alla mancanza dei dovuti apporti
finanziari, ma anche alla mancanza di quei consigli e di quel sostegno morale che, nella
fisiologia del rapporto genitori-figli, favoriscono la formazione della personalità, della cultura,
della capacità di intrattenere relazioni sociali di livello pari a quello che la famiglia del genitore
inadempiente avrebbe potuto/dovuto offrirgli.
Tali ultimi profili di danno, di natura non patrimoniale, si collegano alla lesione del diritto
fondamentale del figlio al rapporto parentale, all'educazione e all'assistenza morale e sono oggi
risarcibili ex art. 2059 c.c. a seguito di recenti sviluppi giurisprudenziali.
In tal senso si è anche espresso lo stesso legislatore, introducendo l'art. 709 ter c.p.c, secondo cui
il giudice - in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore
od ostacolino il corretto svolgimento della modalità di affidamento - può non solo "ammonire" il
genitore inadempiente, ma anche condannarlo al risarcimento del danno in favore dell'altro
140
genitore o del figlio, ovvero condannarlo al pagamento di una sanzione amministrativa
pecuniaria. La natura sanzionatoria delle previsioni relative all'ammonimento e alla sanzione
amministrativa pecuniaria appare indubbia, mentre non è chiaro se il risarcimento del danno
previsto dalla medesima norma abbia natura riparatoria ovvero anche punitiva. In quest'ultimo
caso, ai fini del risarcimento sarebbe necessario e sufficiente fornire la prova dell'inadempienza
del genitore, la cui
gravità sarebbe poi lasciata all'apprezzamento del giudice, mentre l'esistenza e la prova di un
danno patrimoniale effettivamente subito dall'altro genitore o dal figlio non costituirebbe un
presupposto indefettibile del risarcimento. La giurisprudenza che fino ad oggi si è espressa in
argomento sembra propendere nettamente per la teoria del danno punitivo, affermando che la
funzione della norma è da individuare nella volontà legislativa di offrire soluzione al fino ad
oggi irrisolto problema dell'effettività dei provvedimenti giudiziali pronunciati in materia di
affidamento dei minori e di esercizio della potestà.
Con l'art. 709 ter c.p.c, si ritiene, quindi, che il giudice sia stato dotato di quel potere coercitivo,
prima sostanzialmente assente, diretto a rendere attuabili in concreto i provvedimenti assunti,
sulla base della coazione anche psicologica (oltre che economica) dell'obbligato
all'adempimento.
4. La responsabilità dei genitori per l'illecito dei figli minori
La responsabilità dei genitori per l'illecito dei figli minori è espressamente disciplinata dall'art.
2048 c.c., ai sensi del quale la responsabilità del minore concorre con quella del padre e della
madre. Secondo l'orientamento prevalente, il disposto della predetta norma va coordinato ed
integrato con quello dell'art. 2047 c.c., che genericamente disciplina la responsabilità del
sorvegliante dell'incapace in considerazione di quanto previsto dall'art. 2046 c.c., alla cui stregua
non risponde del fatto lesivo chi non aveva la capacità di intendere o di volere nel momento in
cui lo ha commesso.
Ne consegue che il quadro normativo di riferimento è rappresentato dagli artt. 2047 e 2048 c.c., i
quali trovano applicazione all'evento dannoso cagionato dal minore a seconda rispettivamente
che sia privo o meno della capacità naturale.
La prima delle anzidette norme, rubricata "danno cagionato dall'incapace" - che la
giurisprudenza ritiene applicabile anche ai genitori relativamente ai fatti commessi dai figli
minori incapaci -, prevede la responsabilità dei sorveglianti d'incapaci per i fatti dannosi posti in
essere da questi ultimi e trova applicazione ove si riscontri la simultanea presenza dell'incapacità
del danneggiante, dell'evento lesivo da questi cagionato, nonché dell'obbligo di sorveglianza
posto in capo al soggetto responsabile.
La ricorrenza del primo requisito, ossia della condizione d'incapacità dell'agente, va accertata dal
giudice caso per caso, facendo non solo ricorso a criteri di comune esperienza ed alle nozioni di
scienza, ma considerando anche l'età, gli studi frequentati, lo sviluppo fisico e intellettivo,

141
nonché l'assenza di eventuali malattie ritardanti. L'accertamento dell'imputabilità è tuttavia
escluso laddove il danno sia stato determinato da un soggetto in tenera età, data la quale la prova
dell'incapacità si ritiene 'inreipsa'.
Quanto al secondo presupposto, è comune opinione che l'atto lesivo dell'incapace debba rivestire
carattere di antigiuridicità, ossia presentare tutti gli estremi dell'illecito aquiliano richiesti
dall'art. 2043 c.c.
Venendo infine all'obbligo di sorveglianza, esso va riferito a chi, in base alla legge, sia tenuto ad
adoperarsi affinchè il comportamento dell'incapace non costituisca fonte di danno, vale a dire ai
genitori, ai tutori, agli affidatari familiari ed agli affidatari preadottivi. Il dovere di vigilanza può
tuttavia temporaneamente gravare su determinati soggetti in ragione del proprio ufficio (si pensi
alle istituzioni competenti a svolgere attività d'istruzione, cura e simili), della specifica attività
professionale svolta (è il caso della babysitter) o in forza della scelta di accogliere l'incapace
nella propria sfera personale e familiare, assumendo spontaneamente il compito di prevenire od
impedire che il suo comportamento possa arrecare danno ad altri (è quanto accade, ad es., con
riguardo al convivente del genitore o ai nonni).
Stando al dettato dell'art. 2047 c.c., i soggetti appena menzionati possono andare esenti da
responsabilità laddove dimostrino di "non avere potuto impedire il fatto". Anche il contenuto del
dovere di vigilanza - la quale deve essere costante ed ininterrotta - va determinato con
particolare riguardo all'età del minore, allo sviluppo intellettivo e fisico, all'assenza di eventuali
malattie ritardanti, nonché alla forza del carattere; esso deve inoltre rapportarsi alle circostanze
di tempo, luogo, ambiente, pericolo, che, considerando la natura e il grado d'incapacità del
soggetto sorvegliato, possano consentirne o facilitarne il compimento di atti lesivi.
Il capoverso dell'art. 2047 c.c., prevede, infine, che il danneggiato possa ottenere un'equa
indennità dall'incapace laddove non sia dato ottenere il risarcimento dal sorvegliante. Il disposto
dell'art. 2048 c.c. trova applicazione qualora il minore che cagioni danno a terzi sia capace di
intendere e di volere e prevede la concorrente responsabilità del padre e della madre per l'illecito
del figlio non emancipato con essi coabitante, del tutore per il fatto danno determinato dalla
persona soggetta a tutela, nonché dei precettori e dei maestri d'arte per gli eventi lesivi compiuti
dagli allievi e dagli apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. La stessa norma
stabilisce ulteriormente che tutti i soggetti indicati possono liberarsi da responsabilità fornendo
la prova di "non aver potuto impedire il fatto".
Per quanto concerne i genitori una consolidata giurisprudenza ritiene che siffatta prova
liberatoria implichi la dimostrazione di avere impartito al figlio un'adeguata educazione e di
avere esercitato sul medesimo la vigilanza necessaria al fine di prevenire il compimento di fatti
illeciti nei riguardi dei terzi. I doveri di educazione e di vigilanza non vengono comunque intesi
in senso assoluto, bensì relativo, poiché il primo viene valutato sulla base della personalità del
minore e delle condizioni ambientali e sociali nelle quali è inserito, mentre l'obbligo di
sorveglianza - che non implica la protratta presenza fisica accanto al figlio - è commisurato
142
all'età, al carattere e all'indole del figlio stesso, ovvero alla sua personalità e capacità di
discernimento.
I "precettori" - tale locuzione designa qualsiasi tipo d'insegnante - ed i maestri d'arte sono invece
chiamati a rispondere del fatto illecito degli allievi e degli apprendisti solo in ragione di omessa
sorveglianza e non anche in virtù di una carenza nell'educazione ad essi impartita: la loro
responsabilità concorre quindi con quella dei genitori, i quali, per andare esenti da
responsabilità, possono, in tal caso, limitarsi a dimostrare di avere impartito al minore
un'educazione adeguata a prevenire comportamenti illeciti.

143
1° - LA FAMIGLIA E IL DIRITTO.................................................................................................1
1. Premessa...................................................................................................................................1
2. Il diritto di famiglia nella costituzione.....................................................................................1
3. La riforma del diritto di famiglia..............................................................................................2
4. Verso un nuovo diritto di famiglia...........................................................................................2
2 - IL MATRIMONIO......................................................................................................................3
1. Pemessa....................................................................................................................................3
2. La promessa di matrimonio......................................................................................................3
3. Le condizioni per contrarre matrimonio...................................................................................3
# Impedimenti dirimenti = invalidità del matrimonio...........................................................3
# Impedimenti impedienti = irregolarità del matrimonio......................................................4
4 .La pubblicazione e le opposizioni al matrimonio.....................................................................4
5. La celebrazione del matrimonio...............................................................................................4
6. L'invalidità del matrimonio......................................................................................................4
7. La simulazione.........................................................................................................................5
8. Il matrimonio putativo..............................................................................................................5
9. Le prove della celebrazione del matrimonio............................................................................6
10. Il matrimonio concordatario...................................................................................................6
11. Il matrimonio celebrato davanti a ministri dei culti ammessi nello Stato..............................7
12. Il matrimonio celebrato all'estero e il matrimonio dello straniero.........................................7
3° - I RAPPORTI PERSONALI TRA CONIUGI.............................................................................7
1. I diritti ei doveri coniugali........................................................................................................7
2. Gli obblighi di fedeltà, di assistenza e collaborazione, di coartazione.....................................7
3. La contribuzione ai bisogni della famiglia...............................................................................7
4. Il cognome della moglie...........................................................................................................8
5. L'accordo sull'indirizzo della vita familiare.............................................................................8
6. L'intervento del giudice............................................................................................................8
7. L'allontanamento dalla residenza familiare..............................................................................8
8. La legge sulla violenza familiare..............................................................................................8
4° - I RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI.......................................................................9
1. Premessa...................................................................................................................................9
2. La comunione legale.................................................................................................................9
# L'oggetto della comunione...............................................................................................10
# L'amministrazione della comunione:...............................................................................12
# Gli atti compiuti senza il necessario consenso:................................................................12
# La responsabilità gravante sui beni della comunione:......................................................12
# La cessazione della comunione:......................................................................................12
3. L'autonomia dei coniugi e le convenzioni matrimoniali........................................................13
4. La comunione convenzionale.................................................................................................13
5. La separazione dei beni..........................................................................................................14
6. Cenni sui regimi a partecipazione differita di alcuni ordinamenti europei; l'autonomia
privata e la possibilità di recepirli in italia.................................................................................14
7. Il fondo patrimoniale..............................................................................................................14
9. Il patto di famiglia..................................................................................................................15
5° LA CRISI CONIUGALE...........................................................................................................15
1. Premessa.................................................................................................................................15
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2. La separazione consensuale....................................................................................................15
3. La separazione giudiziale.......................................................................................................16
4. L'allontanamento dalla residenza familiare e la separazione di fatto.....................................16
5. Lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio.......................................17
6° - GLI EFFETTI DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO.................................................17
1. Gli effetti personali e patrimoniali della separazione.............................................................17
2. La riconciliazione...................................................................................................................18
3. Gli effetti personali del divorzio.............................................................................................18
4. L'assegno di divorzio..............................................................................................................18
5. I criteri per la determinazione dell'assegno............................................................................19
# L'assegno di mantenimento e l'assegno post-matrimoniale come strumenti per attuare una
equa divisione delle capacità di reddito:.............................................................................19
6. Caratteristiche dell'assegno: revisione, rivalutazione automatica e liquidazione in un'unica
soluzione.....................................................................................................................................19
7. Gli accordi tra i coniugi in vista del divorzio.........................................................................19
8. Le altre conseguenze di natura patrimoniale: il diritto del coniuge divorziato ad una
percentuale dell'indennità di fine rapporto e alla pensione di reversibilità................................20
9. Le conseguenze successorie...................................................................................................20
10. Una disciplina omogenea della separazione, del divorzio, della nullità del matrimonio e
della rottura della convivenza con riguardo all'interesse dei figli..............................................20
11. L'affidamento condiviso e l'esercizio della potestà genitoriale: presupposti e caratteri.......20
12. L'affidamento ad uno solo dei genitori.................................................................................21
13. Il mantenimento dei figli......................................................................................................21
14. L'assegnazione della casa familiare e le prescrizioni in tema di residenza..........................21
15. La famiglia ricomposta.........................................................................................................22
7° - LE CONVIVENZE E LA FAMIGLIA DI FATTO...................................................................22
1. Premessa.................................................................................................................................22
2. I rapporti personali e patrimoniali tra conviventi...................................................................22
3. La cessazione della convivenza..............................................................................................23
4. La cessazione della convivenza ei provvedimenti riguardanti i figli.....................................23
5. I contratti di convivenza.........................................................................................................23
6. Le coppie omosessuali............................................................................................................23
7. I progetti di legge...................................................................................................................23
8° - IL RAPPORTO GENITORI-FIGLI........................................................................................24
1. Premessa.................................................................................................................................24
2. Il cognome..............................................................................................................................24
3. La potestà dei genitori............................................................................................................25
4. Il dovere di mantenimento......................................................................................................25
5. Il dovere di istruzione.............................................................................................................25
6. Il dovere di educazione...........................................................................................................26
7. I doveri dei figli verso i genitori.............................................................................................26
8. L'abbandono della casa familiare...........................................................................................26
9. L'esercizio congiunto della potestà ed il ricorso al giudice....................................................26
10. L'esercizio della potestà nella filiazione naturale.................................................................26
11. Il controllo giudiziario sulla potestà.....................................................................................26
12. La decadenza dalla potestà e la sua reintegrazione..............................................................27
13. I provvedimenti «convenienti» previsti dall'art. 333 c.c......................................................27
14. La rappresentanza e l'amministrazione.................................................................................27
15. L'usufrutto legale..................................................................................................................27
145
16. La tutela e la curatela del minore.........................................................................................27
# La cessazione dall'ufficio:...............................................................................................28
# La curatela del minore emancipato:.................................................................................28
17. Minori e mass media............................................................................................................28
18. La sottrazione internazionale di minori................................................................................29
9° - L'ACCERTAMENTO DELLO STATO DI FILIAZIONE........................................................29
1. Lo stato di figlio legittimo......................................................................................................29
2. La prova della filiazione, titolo dello stato e possesso di stato..............................................29
3. Le azioni di stato legittimo in generale..................................................................................30
4. Il disconoscimento della paternità..........................................................................................30
5. La contestazione di legittimità...............................................................................................30
6. Il reclamo di legittimità..........................................................................................................30
7. Il riconoscimento del figlio naturale.......................................................................................31
# I requisiti per effettuare il riconoscimento:......................................................................31
# L'assenso del figlio ultrasedicenne:.................................................................................31
# Il consenso al riconoscimento:.........................................................................................31
# Il divieto di riconoscimento dei figli nati da persone legate da vincolo di parentela:.......31
# L'inammissibilità del riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo:..........32
# La forma del riconoscimento:..........................................................................................32
# L'impugnativa del riconoscimento per difetto di validità:................................................32
# L'impugnativa del riconoscimento per violenza e incapacità:..........................................32
8. La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità...............................................................32
# La prova della paternità e della maternità:.......................................................................33
# Il giudizio di ammissibilità:.............................................................................................33
# Gli effetti della dichiarazione:.........................................................................................33
9. La filiazione non riconoscibile...............................................................................................33
10. La legittimazione del figlio naturale.....................................................................................33
11. La procreazione medicalmente assistita...............................................................................34
# L'accesso alle tecniche:....................................................................................................34
# Il consenso informato:.....................................................................................................34
# Lo stato del nato:.............................................................................................................35
10° - L'ADOZIONE E L'AFFIDAMENTO....................................................................................35
1. L'evoluzione dell'istituto........................................................................................................35
2. L'affidamento dei minori........................................................................................................35
3. L'adozione dei minori.............................................................................................................36
# I requisiti degli adottanti:.................................................................................................36
# Il procedimento e gli effetti:............................................................................................36
4. L'adozione dei minori nei casi particolari: le singole ipotesi.................................................37
5. L'adozione internazionale:......................................................................................................37
6. Il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini..............................................................38
7. L'adozione dei maggiorenni...................................................................................................38
11° - PARENTELA, OBBLIGO ALIMENTARE E SOLIDARIETÀ FAMILIARE.........................38
1. La parentela e l'affinità...........................................................................................................38
2. La tutela dei soggetti deboli nella famiglia............................................................................39
4. Il ricongiungimento familiare.................................................................................................39
12° - LA RESPONSABILITÀ CIVILE NELLE RELAZIONI FAMILIARI.....................................39
1. I nuovi danni nella famiglia che cambia.................................................................................39
2. Rapporto di coniugio e responsabilità civile..........................................................................40
3. Rapporto di filiazione e responsabilità civile.........................................................................40
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4. La responsabilità dei genitori per l'illecito dei figli minori....................................................41

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