Sei sulla pagina 1di 46

PARTE V

FAMIGLIA
Famiglia
CAP.1 FAMIGLIA E ORDINAMENTO GIURIDICO

LA FAMIGLIA NELLA SOCIETa’ E LA SUA DISCIPLINA GIURIDICA


La famiglia costituisce un fenomeno sociale che l'ordinamento giuridico non crea ma col quale è chiamato
a confrontarsi.
La famiglia si inserisce tra le ‘’formazioni sociali ove si svolge la personalità dell'uomo’’ cui allude l’art.2
cost.
Nel contesto di tali formazioni sociali, essa occupa una posizione sicuramente primaria, per il carattere
di necessari ta che la contraddistingue, quale nucleo fondamentale dell’organizzazione della società.
L'idea della famiglia come realtà sociale emerge con chiarezza dall'art.29 cost. che allude alla ‘’famiglia
come società naturale.”

Abbandonata l’idea che la materia familiare possa ritenersi rientrare nell’esclusiva competenza dei
costumi, della morale e della religione, il legislatore si trova a dover fare i conti con un duplice ordine di
pericoli di segno opposto:
-da una parte c’è l’incapacità di prendere atto dell’evoluzione dei rapporti sociali. Pertanto c’è il rischio
che l’ordinamento finisca col rispecchiare una realtà sociale non più esistente.
-d’altra parte, intervenire avventatamente, in assenza di condizioni tali, nella società.
—> cercando di evitare tali pericoli l’ordinamento deve trovare una propria via, in vista di quella
giuridificazione dei rapporti familiari, che vale a conferire ad essi una garanzia sociale.

Il necessario rispetto dell’autonomia della famiglia, non può precludere un interessamento da parte
dell’ordinamento stesso. —> ‘’ i diritti inviolabili dell’uomo’’ sono da garantire anche e soprattutto ‘’ nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità’’
—> la disciplina giuridica della famiglia è investita dal delicato compito di assicurare che la famiglia stessa
svolga la sua funzione essenziale di formazione sociale atta a garantire adeguate condizioni per lo
sviluppo della personalità dei suoi membri, in modo coerente con i valori costituzionali di libertà ed
effettiva eguaglianza.
—> quest’ottica dei rapporti tra ordinamento giuridico e famiglia tende ad imporsi ormai a livello
sovranazionale mondiale.
—> si evidenzia che la famiglia “deve ricevere la protezione e l’assistenza di cui necessita per poter
svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività”. Il suo ruolo è quello di ‘’ unità fondamentale della
società ed ambiente naturale per la crescita del benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei
fanciulli’’.
—> Lo stato non può intervenire dettando il modello di organizzazione della vita familiare, non può
piegare la famiglia ai fini pubblici, ma deve prestare il rispetto e lasciare libera organizzazione alle singole
famiglie. Se tale formazione sociale devia dalla sua funzione e non realizza lo sviluppo della persona
interviene lo stato a tutela dei singoli componenti. C’è un limite all’intervento dello stato, ma anche un
limite all’autorganizzazione.

NOZIONE GIURIDICA DI FAMIGLIA


Il codice civile non dà una definizione della famiglia.
La costituzione, art.29 cost, si limita ad affermare che ‘’la Repubblica riconosce i diritti della famiglia
come società naturale fondata sul matrimonio’’.
—>La famiglia che la Costituzione, all’ART.29, assume come modello è quella “fondata sul matrimonio”,
ossia la famiglia legittima.
—> anche se non senza resistenze, si accreditato pure nel linguaggio giurisprudenziale l’impiego del
termine famiglia e, in particolare l’espressione famiglia di fatto, per indicare il gruppo costituito senza
matrimonio dalla coppia dei figli eventualmente procreati.nucleo, questo assunto anche esso, nella
prospettiva dell’art.2 cost, quale “formazione sociale” il luogo di sviluppo della personalità dei suoi
membri.

La considerazione della famiglia come ‘’ formazione sociale dove è destinata a svilupparsi la personalità
dei suoi membri’’, implica la valorizzazione della convivenza come ‘’ espressione di una concreta
esperienza di solidarietà e di vita’’.
—>Il modello di famiglia a cui fa riferimento l'ordinamento giuridico è quello di famiglia nucleare, cioè
composta dai coniugi e dai loro eventuali figli.
È proprio tale modello di famiglia che trova garanzia costituzionale all'interno dell’ART. 29 cost. —>Tale
gruppo trae origine dal matrimonio (rapporto di coniugio) eventualmente arricchito dai figli generati
(rapporto di filiazione), con l'esclusione di altri parenti.
—>Un'altra modello è quello della famiglia di fatto con cui si indica un gruppo costituito, senza matrimonio,
dalla coppia e dai figli eventualmente procreati. Nucleo anch'esso as sunto nella prospettiva dell'art.cost.,
quale ‘’formazione sociale’’ e luogo di sviluppo della personalità dei suoi membri.

Il recepimento di un simile modello di famiglia, da parte dell’attuale ordinamento, rispecchia l’evoluzione del
modello familiare nella società, quale risultato dei fenomeni di imponente trasformazione economico
sociale.
Sotto il profilo storico della società industriale si è avuto il tramonto della cosiddetta famiglia in senso
ampio progressivamente disintegratasi in singoli nuclei familiari perlopiù costituiti da genitori e figli
minori.
Pertanto si è andata a sostituire la famiglia in senso stretto, famiglia nucleare.
—> il modello della grande famiglia o famiglia patriarcale, cioè aggregazioni di soggetti accomunati dalla
stessa discendenza, era legato ad un’organizzazione sociale incentrata su attività economiche di tipo
agricolo e artigianale.
Il gruppo della famiglia, non svolgeva solo la funzione di allevamento ed educazione delle nuove generazioni,
ma anche funzioni formative, assistenziali e previdenziali nei confronti dei suoi membri.
—> la complessità della struttura organizzativa familiare comportava che la coesione del gruppo restasse
affidata all’autorità del capofamiglia: a vincoli di carattere gerarchico. Infatti era necessaria una
rigorosa ripartizione di ruoli tra le componenti maschili e femminili del gruppo.
—> i vari fenomeni storici hanno modificato la struttura e la vita del gruppo familiare, difatti molte delle
sue tradizionali funzioni sono state trasferite ad altri enti pubblici e privati. Così facendo nell’esperienza
familiare si è andata a valorizzare essenzialmente la dimensione personale ed affettiva, che si esprime nella
comunità di vita.
—> attualmente però il ricorso alla famiglia nucleare non esclude l’allargamento della sfera soggettiva cui
conferire rilevanza, in vista di una migliore tutela degli interessi fondamentali dei suoi membri.

Da un tale punto di vista, nella prospettiva della tutela dei minori significativi risultano ad esempio :
-il ricorso degli ascendenti negli oneri di mantenimento, ove i genitori non abbiano mezzi sufficienti.
-la possibilità riconosciuta ai parenti di ricorrere al tribunale per l’assunzione di provvedimenti, nel caso di
turbamento della relazione tra genitori e figli.
-il rilievo accordato gli eventuali rapporti del minore con i parenti dalla legislazione in materia di adozione.
—> è evidente come l’ambito delle relazioni familiari giuridicamente rilevanti si allarga o si restringe a
seconda delle esigenze o degli interessi presi di volta in volta in considerazione dalla legge.

—> famiglia anagrafica, intesa quale insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità,
adozione, tutela o da vincoli affettivi, co abitanti e da aventi dimora nello stesso comune.
Il significato di tale concetto dunque, è esclusivamente anagrafico e di controllo della popolazione sul
territorio.
LA DISCIPLINA DELLA FAMIGLIA: COSTITUZIONE, CODICE CIVILE E ALTRE
FONTI
La disciplina dei rapporti familiari, a partire dal code civil francese 1804, ha trovato la sua collocazione nel
codice civile. È comunque da sottolineare che la disciplina del code civil e quella del codice civile del 1865
rispecchiassero il modello di famiglia borghese, la cui economia rappresentava il punto di riferimento
dell’intera regolamentazione dei rapporti privati.

—>Il modello familiare che emerge dal codice civile del 1942 è quello ancora fondato su una struttura
gerarchica tendente a far convergere nel marito poteri autoritari nei confronti della moglie e nei
confronti dei figli, nonché una chiara ripartizione dei ruoli tra i coniugi, che riconosce alla moglie una
funzione meramente domestica, emarginata oltre che dal governo della famiglia anche nelle relazioni
economiche del gruppo familiare.
Restava poi un atteggiamento di marcato sfavore per la filiazione fuori dal matrimonio, derivandone
quindi l'irriconoscibilità dei figli adulterini e drastici limiti alla possibilità di accertamento giudiziale della
paternità, e una posizione deteriore dei figli illegittimi rispetto i figli legittimi e di tutti gli altri parenti.
Per quanto concerne il sistema matrimoniale nel codice civile risulta disciplinato il matrimonio civile,
rinviandosi al concordato con la santa sede ed alla relativa legislazione applicativa, per la disciplina del
cosiddetto matrimonio concordatario.

—>Una vera rottura con il vecchio sistema di disciplina dei rapporti familiari è da ricollegare all'avvento
della costituzione entrata in vigore l'1.1.1948.
L'adeguamento dei principi familiari ai principi fondamentali della costituzione è stato un processo lento.
Così in attesa di una riforma organica del diritto di famiglia, avvenuto solo nel 1975, il delicato compito di
adeguare la disciplina vigente ai principi costituzionali e all’evoluzione in atto della coscienza sociale è
toccato: ai numerosi interventi della corte costituzionale e ad un’opera di interpretazione evolutiva della
giurisprudenza ordinaria.
Circa i principi costituzionali, l’art.29, nell'affermare che la ‘’Repubblica riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio’’, valorizza innanzitutto contro ogni possibile eccessiva
invadenza dell'ordinamento, l'autonomia della famiglia nell'organizzazione della propria vita. —> autonomia
che trova espressione nel diritto dei genitori di educare i figli senza condizionamenti ideologici.
—>Il secondo comma dello stesso art.29 stabilisce il profilo di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

—>L'ART. 30 contempla unitariamente, sotto il profilo del ‘’dovere e il diritto dei genitori’’ di ‘’mantenere,
educare ed istruire i figli’’, il rapporto di filiazione. stabilisce che tale dovere si estenda anche ai figli nati al
di fuori del matrimonio. Inoltre ai ‘’nati fuori dal matrimonio’’ viene garantita ogni tutela giuridica e
sociale.
—>Completa il quadro costituzionale di riferimento della materia familiare, il sostegno da parte dello
stato per quelle famiglie numerose.

—>Come già indicato l'attuazione dei principi costituzionali ha richiesto tempi non brevi.
La tappa fondamentale è rappresentata senza dubbio dalla riforma del diritto di famiglia con la quale
l'intero impianto codistico della disciplina dei rapporti familiari è stato ridisegnato. —> nell’intento di
adeguare il sistema della legge ordinaria ai principi costituzionali.
Il diritto di famiglia vigente trova la sua fonte principale nel codice civile, sopratutto in materia di
filiazione, dalla L. 219/2012.
La riforma è stata preceduta e seguita da altri importanti provvedimenti, regolanti materie che si è
ritenuto opportuno, per motivi di ordine diverso, lasciare al di fuori del codice.
—>In primo luogo è da ricordare la legislazione in tema di affidamento e di adozione dei minori 149/200.
—>Importanza fondamentale assume poi la legislazione sul divorzio.
—> una svolta in materia di disciplina dei rapporti familiari è stata operata con la L. 154/2001, concernente
le ‘’unioni civili tra persone dello stesso sesso’’ e le ‘’convivenze’’.
—> nel codice civile invece sono state inserite disposizioni concernenti ‘’ misure contro la violenza nelle
relazioni familiari’’.
CONVIVENZA, FAMIGLIA DI FATTO E UNIONI REGISTRATE
—>LA VALORIZZAZIONE DELL’ESPERIENZA DI VITA NELLA SUA EFFETTIVITÀ E DELLA CONTINUITÀ DELLA
RELAZIONA AFFETTIVA (NELLA FAMIGLIA), HA DETERMINATO UN PROFONDO MUTAMENTO DI ATTEGGIAMENTO NEI
CONFRONTI DEL FENOMENO DELLA CONVIVENZA FUORI DAL MATRIMONIO.

—> chiarita la diversità della situazione di convivenza rispetto a quella conseguente al matrimonio e,
soprattutto alla luce della garanzia costituzionale che sostiene nel nostro ordinamento il matrimonio, la
giurisprudenza si è sforzata di precisare i tratti distintivi della convivenza cui riconnette eventuali
conseguenze giuridiche, in modo da distinguerla, quale famiglia di fatto, dal semplice rapporto occasionale.
Il carattere ritenuto decisivo è la stabilità temporale del rapporto. Non si è mancato pure di alludere al
dover essa risultare instaurata tra due soggetti di sesso diverso.
—> nei tempi più recenti, sulla problematica della rilevanza giuridica della famiglia di fatto si è innestata
quella del riconoscimento delle unioni omosessuali, rendendo ancora più complessa l’eventuale definizione
di un quadro normativo atto a soddisfare le esigenze dei conviventi eterosessuali e la realtà di tali ultime
unioni.

—> i diversi ordinamenti hanno percorso vie differenti, pur nella comune prospettiva di una possibile
formalizzazione della convivenza:
-in Francia si è optato per una disciplina unitaria delle convivenze registrate, eterosessuali e omosessuali
che siano.
-in Germania si è preferito, prendendo atto della diversità delle problematiche, intervenire solo con
riferimento alle unioni omosessuali.
-e in altri paesi, si presenta diffusa la previsione dell’apertura alle coppie omosessuali del medesimo
istituto matrimoniale, quale esito finale dell’intento di non discriminare i cittadini sulla base delle relative
tendenze sessuali.
—> lo stesso discusso ART.9 cARTA DIR.FOND.U.E, distingue il ‘’ diritto di sposarsi’’ da quello di ‘’ costituire una
famiglia’’, intendendo rispecchiare l’articolato esperienze dei diversi paesi membri e rinviando alle
legislazioni nazionali la scelta del modello di disciplina di attuare.

—> nel quadro di un crescente riconoscimento di rilevanza giuridica della convivenza, il nostro legislatore e
la giurisprudenza hanno continuato a muoversi con cautela, limitandosi ad offrire risposta a singole
questioni e, la cui soluzione è stata ricercata nella valorizzazione di interessi esigenze di tutela peculiari
ad ogni specifico rapporto considerato, indipendenza del relativo carattere fondamentale per la
persona.
—>ad esito di un acceso dibattito, il legislatore si è deciso di intervenire con la L. 76/2016 (legge Cirinnà),
con la quale:
-da una parte, si è inteso cogliere i richiami della corte costituzionale e della corte Europea dei diritti
dell’uomo, nella direzione del necessario riconoscimento di un adeguato statuto alle coppie di persone
dello stesso sesso.
-dall’altro se è conferito esplicito riconoscimento al rapporto di mera convivenza, dettando anche una
specifica disciplina del contratto di convivenza.
—> la scelta è stata in primo luogo non estendere alle coppie di persone dello stesso sesso l’istituto
matrimoniale, consentendo loro di contrarre un’unione civile, la quale larga misura rispecchia la disciplina
del matrimonio attraverso la riproduzione o il richiamo delle relative regole.
—> la seconda parte invece, concerne la disciplina della convivenza, ‘’convivenza di fatto’’, di coppie
eterosessuali o omosessuali, nonché del contratto di convivenza.
È un corpo normativo che è stato oggetto di pareri contrastanti.

—> la regolamentazione introdotta si presenta ampiamente riproduttiva di pregressi approdi legislativi e


giurisprudenziali sulle singole questioni, ma muove da una definizione, nell’ART.1, di ‘’ conviventi di fatto’’
indubbiamente restrittiva, così da avere immediatamente indotto la generalità degli interpreti a porsi
come inevitabile la questione del trattamento da riservare a quelle ‘’convivenze’’ risultanti, sotto qualche
profilo, estranee alla fattispecie di ‘’convivenza’’, per così dire ‘’formalizzata’’ dal legislatore.

—> in questa fase di transizione, pare allora senz’altro preferibile procedere ad una trattazione del tema
della rilevanza giuridica della ‘’convivenza’’, facendo prima cenno a quanto sin qui è il risultato costituire
‘’diritto vivente’’ in materia, per procedere poi al sintetico esame della disciplina era dettata nel contesto
della L.76/2016.
A) INTERVENTI LEGISLATIVI:
-anche alle coppie conviventi, solo se di sesso diverso, è stato consentito l’accesso alle tecniche di
procreazione medicalmente assistita.
-la convivenza prematrimoniale è stata presa in considerazione, al fine di ammettere all’adozione i coniugi
che ‘’ abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni’’.
-il convivente more uxorio può opporsi al prelievo di organi.
-la stabile convivenza consente la promozione delle procedure finalizzate alla amministrazione di sostegno,
alla interdizione o alla inabilitazione (L. 6/2004).

-se anche alla famiglia di fatto sono da ritenere riferibili le garanzie che gli ARTT. 31,34, 36,37 COST. (Dal punto di
vista della formazione della famiglia, delle provvidenze per rendere effettivo il diritto allo studio, della
sufficienza della retribuzione della posizione della donna lavoratrice), giustificate si presentano le previsioni
tendente ad estendere anche le convivenze non matrimoniali forme di tutela nel campo dell’accesso
all’abitazione ed in quello assistenziale soprattutto quando interessi in gioco finiscono con l’essere in
sostanza, quelli dei figli.
La disciplina del fenomeno della convivenza non matrimoniale è restata affidata al di fuori degli specifici
interventi legislativi, all’opera della giurisprudenza, costituzionale ed ordinaria, spesso chiamata a
confrontarsi con esso. Ciò tanto nei rapporti dei conviventi nei confronti dei terzi, quanto in quelli
reciproci.
Dal primo punto di vista, la rilevanza della convivenza è stata riconosciuta sia ai fini della successione del
convivente nel contratto di locazione stipulato dall’altro, nel caso di morte di quest’ultimo o di cessazione
della convivenza, sia per accordare al convivente il risarcimento del danno, patrimoniale o non patrimoniale,
nel caso di uccisione, da parte di un terzo del partner.

—> Sotto il profilo dei rapporti tra conviventi, dal carattere di dovere morale e sociale reputato proprio
dell'impegno di assistenza reciproca tra i conviventi more uxorio, si è dedotta l'applicabilità del regime delle
obbligazioni naturali (art. 2034) alle contribuzioni da ciascuno di essi effettuate per soddisfare le esigenze
del ménage familiare. Proprio una tale configurazione di simili somministrazioni ha indotto a concludere che
esse, facendo venir meno l'eventuale situazione di bisogno del convivente, ostino all'obbligo della
corresponsione di un assegno (di mantenimento, di alimenti o di divorzio) a suo favore da parte del coniuge
separato o dell'ex coniuge.
La diversità delle rispettive situazioni del convivente e del coniuge, costantemente ribadita dalla
giurisprudenza, è stata ritenuta idonea a legittimare, dal punto di vista della legittimità costituzionale,
l'attuale limitazione ai coniugi del reciproco diritto di successione a causa di morte, così come di escludere
l'applicazione, in via analogica, alla famiglia di fatto del regime patrimoniale legale.
Diffusa, piuttosto, è stata la tendenza a indirizzare i conviventi, ai fini della definizione degli assetti
patrimoniali della convivenza, nella direzione della utilizzazione degli strumenti negoziali, anche in vista della
relativa eventuale cessazione

—> L’ART.1 L. 76/2016 definisce i ‘’ conviventi di fatto’’ come ‘’ due persone maggiorenni unite stabilmente da
legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolante da rapporti di
parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile’’.
—> ai fini dell’accertamento della ‘’stabile convivenza’’, l’ART.1 rinvia ‘’ alla dichiarazione anagrafica’’.
—> in dipendenza di una avvenuta ‘’giuridicizzazione’’ della situazione di ‘’ convivenza’’, ormai si può parlare di un
vero e proprio nuovo Stato familiare, quello appunto di ‘’ convivente’’.

—> Risulta istituzionalizzata, la relativa posizione verso la pubblica amministrazione, nel campo delle esigenze
di assistenza reciproca, comunque già ampiamente tutelate a livello legislativo e regolamentare.
Vengono, poi, previsti una serie di diritti nei confronti dei terzi e dell'altra parte. Tra i primi, pare il caso di
sottolineare il diritto a succedere nel contratto in caso "di morte del conduttore o di suo recesso dal
contratto di locazione della casa di comune residenza" (art. 1), nonché, in caso di fatto illecito comportante
il decesso del convivente, l'applicazione dei "medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al
coniuge superstite" (art. 1).
Tra i secondi, spiccano i nuovi diritti in campo abitativo, in caso di morte del convivente (art. 1), nonché la
pretesa agli alimenti, ove ne ricorra il presupposto dello stato di bisogno, in caso di cessazione della
convivenza, "per un periodo proporzionale alla durata della convivenza" (art. 1).
L'art. 1, poi, ha introdotto nel codice civile un art. 230 ter, concernente i diritti derivanti al convivente dalla
partecipazione all'impresa familiare (dell'altro convivente).
—>Notevole rilevanza assume l'opzione a favore della possibilità, per i conviventi, di "disciplinare i rapporti
patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza" (art. 1).
Per la forma del contratto di convivenza si prevede, sotto pena di nullità, l'atto pubblico o la scrittura
privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato, che, assumendo le conseguenti
responsabilità, "ne attestano la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico" (art. 1). L'opponibilità
ai terzi viene, poi, fatta dipendere dall'iscrizione all'anagrafe del comune di residenza dei conviventi, ai sensi
del D.P.R. 223/1989 (art. 1).
Peraltro, la portata dell'istituto si presenta decisamente angusta, almeno alla luce dei suoi possibili
contenuti, quali enunciati nell'art. 1 concernendo essi, oltre che la "indicazione della residenza",
essenzialmente, le "modalità di contribuzione alle necessità della vita comune" e l'eventuale scelta del regime
patrimoniale legale della comunione dei beni: manca, infatti, qualsiasi riferimento, in particolare, alla materia
delle conseguenze economiche della dissoluzione della convivenza. Ciò induce, allora, a riflettere circa il
carattere tassativo o meno della previsione e ad interrogarsi sul valore conseguentemente da riconoscere
ad eventuali pattuizioni al riguardo.
Singolare si presenta la previsione di cause di "nullità insanabile" del contratto di convivenza (art. 1),
riecheggianti veri e propri impedimenti matrimoniali, quasi, insomma, da indurre a credere che il legislatore
abbia finito col sovrapporre due concezioni dell'istituto: la prima, tendente a individuare in esso (solo) un
possibile arricchimento della situazione di convivenza, di per se stessa giuridicizzata e, come tale, fondativa
di uno stato personale (di natura familiare); l'altra, invece, propensa a riconoscere il contratto di
convivenza quale unica via consentita agli interessati per conseguire un peculiare status personale e
familiare.
L'intrinseca debolezza dei vincoli derivanti dal contratto di convivenza emerge, comunque, dalla relativa
risolubilità, oltre che in caso di morte di uno dei contraenti o di matrimonio (o unione civile) "tra i contraenti
o tra un contraente ed altra persona" , non solo a seguito di "accordo delle parti", ma anche per "recesso
unilaterale" (art. 1). In effetti, unica sicura forma di tutela resta la eventuale insorgenza dell'obbligo
alimentare. Per la dichiarazione risolutiva della convivenza è richiesta la stessa forma del contratto di
convivenza (art. 1). Un peculiare regime di notifiche è stabilito per il caso di recesso unilaterale (art. 1), così
come nell'ipotesi di matrimonio o di unione civile di uno dei contraenti, nonché in quella di morte di uno dei
contraenti (art. 1)
CARATTERI DEGLI ATTI E DEI DIRITTI FAMILIARI
Gli atti concernenti i rapporti familiari devono ritenersi contrassegnati da caratteri peculiari.
Ai fini della caratterizzazione degli atti in questione e delle situazioni giuridiche che ne derivano, è destinato
ad assumere rilievo: l'accreditarsi, cioè, di una visione della famiglia come formazione sociale, la cui
meritevolezza di riconoscimento da parte dell'ordinamento dipende dalla sua concreta funzionalità ad
assicurare lo sviluppo della personalità dei relativi membri, nel rispetto dei valori di libertà e di eguaglianza.
L'intimità e l'essenzialità dei vincoli esistenziali che legano i membri del gruppo familiare sembrano imporre,
comunque, che tali valori siano equilibrati con quelli di responsabilità e di solidarietà.
Di qui la marcata specificità che è da ritenere continui a contraddistinguere gli atti familiari.
Se all'accordo dei coniugi deve, oggi, essere riconosciuta una portata ben maggiore che in passato, tanto
nella fase fisiologica della vita familiare, quanto in quella patologica, esso è destinato ad operare, pur
sempre, entro una griglia di principi inderogabili (quali, in particolare, quello della preminenza dell'interesse del
minore e quello di necessaria contribuzione ai bisogni della famiglia).
La specificità risulta, ovviamente, maggiore per gli atti su cui venga a fondarsi la stessa società coniugale e
si determini l'acquisto (o la modificazione) degli stati familiari (status di coniuge, unito civilmente, figlio,
genitore).
Tali atti sono annoverabili tra quelli puri (non ammettendo l'apposizione di termini o condizioni) e
personalissimi, oltre che tipici (prefigurati secondo rigidi modelli legali) e formali (o solenni, in considerazione
dell'importanza che essi rivestono per le parti e di quella loro rilevanza sociale che ne impone spesso il
compimento con l'intervento di organi pubblici).
La tipicità dell'atto tende a riflettersi anche in quella degli effetti, disposti con norme, almeno in linea di
massima, inderogabili. Una simile inderogabilità è più marcata per gli effetti di natura personale, mentre,
quanto agli assetti patrimoniali della famiglia, sicuramente più estesa è la sfera di operatività riconosciuta
all'autonomia degli interessati.
La natura degli interessi esistenziali in gioco nei rapporti familiari condiziona i caratteri delle situazioni
giuridiche soggettive di cui sono titolari, in quanto tali, i membri della famiglia. Quali diritti fondamentali della
persona, i diritti familiari presentano i caratteri della indisponibilità (non potendo la volontà degli stessi
titolari incidere sulle relative vicende: essi risultano irrinunciabili e inalienabili) e della imprescrittibilità,
nonché della intrasmissibilità e della non patrimonialità (pur potendo, infatti, avere un contenuto
economicamente rilevante, essi sono riconosciuti in vista della funzione che svolgono a tutela di esigenze
esistenziali fondamentali della persona).

PARENTELA E AFFINIta’
Il matrimonio e la generazione costituiscono la fonte dei rapporti che legano i membri della famiglia.
Dal matrimonio scaturisce, così, tra i coniugi, il rapporto di coniugio, derivandone anche quello di affinità,
che lega ciascun coniuge ai parenti dell'altro. La generazione si pone alla base del rapporto di parentela.
La parentela è il "vincolo tra le persone che discendono dallo stesso stipite" (art. 74).
Ai sensi dell'art. 75, sono parenti in linea retta coloro che discendono l'uno dall'altro, immediatamente
(genitori e figli), o per generazioni successive (nonni e nipoti); sono parenti in linea collaterale coloro che,
pur avendo un ascendente comune, non discendono uno dall altro (fratelli e sorelle, zii e nipoti, cugini).
Circa i gradi che misurano la prossimità della parentela (art. 76), nella linea retta, si computano tanti gradi
quante sono le generazioni, non contando lo stipite (il rapporto tra genitore e figlio è di primo grado, di
secondo quello tra nonno e nipote); nella linea collaterale, i gradi si computano sulla base delle generazioni,
risalendo da un parente fino all'ascendente comune e da questo discendendo all'altro parente (sempre
escludendo lo stipite: di secondo grado è la parentela tra fratelli e sorelle, di terzo quella tra zio e nipote,
di quarto quella tra cugini).
Il rapporto di parentela è giuridicamente rilevante, in linea di massima, fino al sesto grado (art. 77).
Modificando l'art. 74, la L. 219/2012, ha precisato - in applicazione del principio di cui al nuovo art. 315, per cui
"tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico" - che il vincolo di parentela sussiste "sia nel caso in cui la
filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso
in cui il figlio è adottivo. Il sorgere del vincolo di parentela viene escluso solo "nei casi di adozione di
persone maggiori di età.
Meno rilevante del rapporto di parentela è quello di affinità (art. 78), quale "vincolo tra un coniuge e i
parenti dell'altro coniuge". Linee e gradi di affinità corrispondono a quelli di parentela: il coniuge è affine di
secondo grado in linea collaterale (cognato), rispetto al fratello del proprio coniuge (parente di secondo
grado in linea collaterale di costui); i genitori sono affini in linea retta di primo grado (suoceri), rispetto al
coniuge del proprio figlio di cui sono, appunto in quanto genitori, parenti in linea retta di primo grado. Il
rapporto di affinità (che assume, in particolare, rilievo in materia di impedimenti al matrimonio) non cessa
con la morte del coniuge da cui deriva (e neppure col divorzio); cessa, invece, in caso di dichiarazione di
nullità del matrimonio (salvo quanto previsto dall'art. 87, n. 4).
GLI ALIMENTI
L'obbligo di prestare gli alimenti, quale tipica ipotesi di obbligazione legale, trova il proprio fondamento
nella solidarietà familiare (art. 433).
Esso, peraltro, grava pure sul donatario (art. 437). Tale obbligo, comunque, può avere quale fonte anche
l'autonomia privata (contratto, testamento: legato di alimenti, art. 660).
L'obbligazione alimentare tra i componenti della famiglia è disciplinata, quanto all'identificazione degli
obbligati, dall'art. 433, che stabilisce un ordine tra di essi, ponendo al primo posto il coniuge , quindi i
soggetti legati da un rapporto di discendenza (figli e discendenti prossimi, genitori e ascendenti
prossimi), poi gli affini in linea retta (generi e nuore, suoceri) e, infine, i fratelli e le sorelle.
Nell'ambito della famiglia nucleare, in realtà, l'obbligo alimentare finisce con l'avere una funzione
residuale: tra i coniugi (e tra le parti dell'unione civile: art. 1 L. 76/2016) opera, ai sensi dell'art. 143, il
dovere (reciproco) di contribuzione, cui è tenuto anche il figlio finché dura la convivenza; a favore dei
figli (art. 315 bis) e del coniuge, in ipotesi di separazione a lui non addebitata (ove ne ricorrano i
presupposti), è dovuto il mantenimento. L'obbligazione di mantenimento si ritiene caratterizzata, in
effetti, da un contenuto più ampio di quella alimentare, in quanto riferita al parametro del tenore di
vita familiare, al quale il beneficiario, quindi, deve essere messo in grado di partecipare.
Il presupposto del sorgere del diritto a ricevere gli alimenti (art. 438) è costituito dallo stato di
bisogno di chi non sia in grado di soddisfare le proprie necessità di vita (anche se una simile condizione
derivi da comportamenti del soggetto medesimo). La relativa misura si determina in proporzione del
bisogno dell'alimentando e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli: le necessità di vita, che
rappresentano il parametro di riferimento per la relativa concreta determinazione, non si reputano
limitate allo stretto essenziale per la sopravvivenza, ma estese a tutto quanto consenta una vita
dignitosa (pure, in particolare, in considerazione di eventuali esigenze di istruzione e formazione
professionale), anche tenendo conto della posizione sociale del soggetto. Allo stretto necessario
sono limitati, peraltro, gli alimenti tra fratelli (art. 439).
Gli alimenti sono dovuti solo dal momento della domanda giudiziale o dalla costituzione in mora
dell'obbligato (art. 445), possibile essendo, fino alla relativa determinazione definitiva, un assegno
provvisorio (art. 446). Circa le modalità di somministrazione, essi possono essere prestati, a scelta
dell'obbligato, mediante un assegno periodico, ovvero mantenendo direttamente l'alimentando nella
propria casa: in ultima analisi, in caso di divergenti vedute tra le parti, è il giudice a determinare il modo
di somministrazione (art. 443).
L'obbligazione degli alimenti è destinata a restare collegata alla sussistenza dei relativi presupposti. Di
conseguenza, se dopo la relativa assegnazione "mutano le condizioni economiche di chi li somministra o
di chi li riceve", sarà l'autorità giudiziaria a provvedere, secondo le circostanze, nel senso della
cessazione, riduzione o aumento (art. 440).
L'obbligazione ha natura personale e, quindi, cessa con la morte dell'obbligato (art. 448), dovendosi, in
conseguenza di ciò, individuare, in tal caso, un altro obbligato, in applicazione dell'ordine stabilito
dall'art. 433.
Il diritto agli alimenti, per la sua peculiare funzione, si ritiene rientrare tra i diritti fondamentali della
persona e avere - nonostante la rilevanza economica del relativo contenuto - natura non patrimoniale
(dato il carattere esistenziale dell'interesse che deve soddisfare). Proprio per questo, è da reputare
irrinunciabile (e imprescrittibile, anche se si prescrivono le relative rate scadute da almeno 5 anni: art.
2948, n. 2), essendone prevista la incedibilità, oltre che l'inammissibilità di compensazione (art. 447), pure
ove si tratti di prestazioni arretrate. Il credito alimentare, inoltre, è impignorabile (tranne che per
causa di alimenti dovuti ad altri: art. 545 c.p.c.) e, di riflesso, insequestrabile (art. 671 c.p.c.).
ORDINI E PROTEZIONI
Nel corpo del codice civile, con la L. 154/2001 (recante "misure contro la violenza nelle relazioni familiari"),
sono stati inseriti gli artt. 342 bis e ter, che contemplano la possibile adozione di ordini di protezione
contro gli abusi familiari, in caso di condotte "causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale
ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente" precisandone il relativo contenuto.
Le misure adottate quali, l'eventuale allontanamento dalla casa familiare, con provvedimento del giudice
penale, nei confronti dell'imputato e la previsione di un peculiare procedimento per l'emanazione dei
provvedimenti in questione.
Il complesso delle misure introdotte dalla L. 154/2001 risulta coordinato, per quanto riguarda la posizione
familiare dei minori, con il contemporaneo intervento - inquadrato nella L. 28.3.2001, n. - diretto a
consentire, attraverso la modifica degli artt. 330 e 333, l'ordine di allontanamento dalla residenza
familiare del genitore o convivente che maltratti o abusi del minore (con la relativa competenza del
tribunale per i minorenni, invece che del tribunale ordinario).
Per coprire l'intera area di possibile esplicazione di violenza nelle relazioni familiari, da una parte, lo
strumentario di tutela risulta allargato ad ogni situazione di convivenza - non solo, quindi, matrimoniale o
di unione civile (art. 114 L. 76/2016) - caratterizzata da una certa stabilità della relazione di vita (anche tra
persone dello stesso sesso).
Dall'altra, la disciplina risulta applicabile pure nel caso di condotta pregiudizievole tenuta da altro
componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o convivente, ovvero nei relativi confronti (art. 5).
Gli ordini che possono essere adottati concernono essenzialmente la cessazione della condotta
pregiudizievole e l'allontanamento del responsabile dalla casa familiare, oltre alla inibizione di avvicinarsi ai
luoghi in cui si svolge la vita della vittima. Risulta anche possibile imporre il pagamento di un assegno
periodico a favore delle persone conviventi destinate a restare prive di mezzi adeguati (con l'eventuale
corresponsione diretta da parte del datore di lavoro dell'obbligato). Puntuale è la disciplina tendente ad
assicurare l'osservanza dei provvedimenti, la cui elusione espone il responsabile alle sanzioni penali
(concernente la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) (art. 6).
CAP.2 MATRIMONIO

MATRIMONIO E FAMIGLIA
Per l'art. 29 Cost., il matrimonio costituisce il fondamento della famiglia.
Manca una definizione del matrimonio, ma esistono elementi per individuarne l'essenza già in quella
proclamazione di esso come "fondamento" di una "società naturale" (la famiglia: art. 29).
Il matrimonio può essere, quindi, considerato l'atto col quale gli sposi assumono l'impegno di realizzare una
comunione di vita stabile e socialmente garantita, caratterizzata dalla esclusività della relazione personale e
dalla reciprocità dell'assistenza e della contribuzione al soddisfacimento delle esigenze comuni.
Se la stabilità dell'impegno non ne implica la indissolubilità, essendo ammesso il divorzio, la garanzia sociale che
l'impegno stesso consegue col matrimonio si manifesta conferendo quel connotato di doverosità ai
comportamenti delle parti, che si riflette anche nella tutela apprestata dall'ordinamento ai relativi interessi
personali e patrimoniali pure in caso di dissoluzione della comunità familiare.
Il matrimonio, allora, si presta ad essere visto sia nella prospettiva dell'atto, nel quale si esprime l'impegno di
fondare la famiglia, sia in quella del rapporto che ne deriva, da intendere come complesso dei diritti e dei doveri
che sostanziano lo stato coniugale.
Il matrimonio, come atto, è un negozio bilaterale, concorrendo alla sua formazione la volontà dei due nubendi.
Esso ha le caratteristiche proprie degli atti familiari, di cui costituisce l'ipotesi esemplare.
Il matrimonio ha una propria regolamentazione, significativamente in larga misura divergente da quella
dettata per il contratto.
Non si è mancato, già nel code civil del 1804, di dettare una normativa del tutto peculiare, rispetto a quella
generale del contratto, anche dell'atto matrimoniale, oltre che dei suoi effetti.
L'elemento costitutivo del matrimonio è rappresentato dalla sola volontà manifestata personalmente ed
incondizionatamente dagli sposi nelle forme previste dalla legge (trattandosi di negozio solenne): l'atto è,
infatti, personalissimo e puro. Ciò si deduce, in particolare, dall'art. 111, data l'eccezionalità della celebrazione
per procura (con la partecipazione di un altro soggetto quale mero portavoce) e dall'art. 108 (divieto di
apposizione di termini o di condizioni).
La partecipazione del celebrante, risulta necessaria, ma si pone sul piano formale della richiesta solennità
dell'atto (significativamente, l'art. 106 allude alla celebrazione "davanti all'ufficiale dello stato civile")

A)ATTO
LE FORME MATRIMONIALI
—> L'unico matrimonio riconosciuto come produttivo di effetti per l'ordinamento dello stato restò quello
contratto secondo le condizioni e le formalità previste dal codice civile.
Un tale sistema fu quello seguito dal nostro codice del 1865 (sulle orme del code civil), con la conseguenza che il
cittadino interessato a vedere pure consacrato religiosamente il proprio vincolo matrimoniale doveva
ricorrere ad una doppia celebrazione. (Restando comunque quella civile rilevante per il conseguimento degli
effetti civili).
Il sistema fu profondamente mutato, nel quadro dei Patti Lateranensi, dal concordato fra stato e chiesa
del 1929, ratificato con la L. 810/1929, cui diede attuazione alla legge matrimoniale 847/1929.
La L. 1159/1929 consentì e regolamentò la celebrazione del matrimonio secondo riti religiosi diversi da quello
cattolico.

—> a fronte della conservazione dell’unicità della disciplina degli effetti del matrimonio, il nostro
ordinamento è risultato caratterizzato così da una pluralità di forme matrimoniali.
Fin dall’entrata in vigore del nuovo sistema, si è evidenziato come, in realtà, le forme matrimoniali da
prendere in considerazione sono solo, quella civile e quella concordataria.
Quello concordatario, richiamato dal codice civile nell’art.82, rappresenterebbe il modello di atto
matrimoniale, essendosi l'ordinamento statale impegnato a riconoscere effetti civili al matrimonio quale
disciplinato dal diritto canonico, dal punto di vista delle modalità della celebrazione, ma soprattutto sotto il
profilo del regime dei relativi requisiti sostanziali, riservando proprio all’ordinamento confessionale la
competenza giurisdizionale esclusiva sulla validità del matrimonio stesso.

—>Il matrimonio celebrato secondo riti religiosi dei culti diversi da quello cattolico altro non sarebbe, nel
sistema del 1929 che un matrimonio civile nella sostanza, solo la cui celebrazione avviene con le formalità
proprie delle singole confessioni religiose, per consentire ai nubendi di evitare una doppia celebrazione.
La disciplina dei requisiti dell’atto e la competenza a giudicare circa la relativa validità spetta esclusivamente
alll’ordinamento statale.
LIBERTa’ MATRIMONIALE E PROMESSA DI MATRIMONIO
—>Il diritto alla formazione di una famiglia, (e quindi a contrarre matrimonio) rappresenta un vero e
proprio diritto fondamentale della persona, garantito dall'ordinamento come espressione della sua
libertà.
—>un tale diritto è sancito, a livello sopranazionale:
-ART.12 CONV.EUR.DIR.UOMO
-ART.9 CARTA DIR.FOND.U.E.

—>La libertà matrimoniale è garantita contro ogni tentativo di influenzarla (art.636). Così l’art.636
considera espressamente illecita la condizione testamentaria è rivolta ad impedire “le prime nozze e le
ulteriori”, dovendosi considerare pure illecita qualunque clausola negoziale tendente al medesimo fine di
condizionare la volontà matrimoniale.
—>In tal modo la promessa di matrimonio non solo non obbliga a contrarre matrimonio, ma neppure ad
adempire prestazioni cui ci si sia eventualmente impegnati per il caso di ripensamento (art.79).
Essa se reciproca e formale, obbliga esclusivamente a risarcire il danno cagionato dall'altra parte per le
spese fatte e per le obbligazioni assunte in vista del matrimonio.
Ciò solo se il rifiuto a contrarre il matrimonio non sia stato determinato da un giusto motivo e sempre
entro i limiti della relativa congruità rispetto alla condizione sociale delle parti.
—>Devono essere in ogni caso restituiti i doni fatti dai due fidanzati a causa della promessa di
matrimonio.
Si ritiene inoltre che vi sia un obbligo di restituzione delle fotografie e della corrispondenza, non tanto in
quanto doni, ma in osservanza di una consuetudine.

IL MATRIMONIO CIVILE. REQUISITI


—> per assicurare che il matrimonio sia idoneo, per contrarre matrimonio, l'ordinamento richiede che i
nubendi abbiano dei requisiti, cioè le ‘’condizioni necessarie per contrarre matrimonio’’.
In taluni casi, la mancanza dei requisiti può essere superata mediante autorizzazione.
—>Non risulta esplicitamente annoverata tra i requisiti del matrimonio la diversità di sesso.
È un principio inespresso, ma posto a fondamento dell’insieme delle disposizioni dettate in materia
matrimoniale.
—>In virtù dell’importanza che assume il matrimonio, quale atto fondativo della famiglia, ha indotto a
richiedere che gli sposi abbiano un’età tale da farne presumere un’adeguata maturità di determinazione
volitiva.
—>L’art. 84, in linea di principio, ammette al matrimonio solo il maggiorenne.
—>Può essere ammesso al matrimonio, su istanza dell'interessato, anche il sedicenne, ma solo a seguito di
un autorizzazione del tribunale per i minorenni, ove ricorrano gravi motivi, previo accertamento della
sua maturità psico-fisica e della fondatezza delle ragioni addotte.
—>Preclude la possibilità di contrarre matrimonio l’interdizione per infermità di mente (ART.85).
—>Possono invece contrarre matrimonio l'interdetto a seguito di una condanna penale e l'inabilitato.
—>Un altro requisito è la libertà di stato (è uno dei principi cardine del nostro sistema familiare e della
nostra stessa organizzazione sociale), per cui non può contrarre matrimonio chi sia già vincolato
matrimonialmente, essendo il nostro matrimonio fondato sul principio della monogamia.

—>Uno dei pilastri della nostra civiltà è anche la esogamia, divieto di contrarre matrimonio in vista di uno
stretto rapporto di parentela e affinità (art. 87).
Il divieto riguarda gli ascendenti e discendenti, i fratelli e le sorelle, gli affini in linea retta, nonché
l’adottante l’adottato, i figli adottivi della stessa persona, il figlio adottivo di figli della stessa persona,
l’adottato e il coniuge dell’adottante (e viceversa).
—> può essere autorizzato dal tribunale il matrimonio tra zii e nipoti e quello tra figli linea collaterale di
secondo grado, cioè cognati.

—>L’art.88 preclude il matrimonio tra le persone delle quali l’una sia stata condannata per omicidio,
consumato o tentato, nei confronti del coniuge dell’altra (delitto). L’omicidio deve essere doloso.
—> l’insorgere di eventuali difficoltà nell’attribuzione della paternità, si pone storicamente a base del
divieto temporaneo di nuove nozze. Esso è disposto per la donna prima che siano trascorsi i 300 giorni
dallo scioglimento (per morte o divorzio) o dall’annullamento del precedente matrimonio.
Si tratta di un’ipotesi tipica di mera irregolarità, dato che la relativa trasgressione comporta solo
l’irrogazione di una modesta sanzione pecuniaria. (art.140),
FORMALITa’ E CELEBRAZIONE
—>Le formalità che precedono la celebrazione del matrimonio, rispondono alla funzione di rendere nota la
relativa intenzione dei nubendi, consentendo a chi ne sia a conoscenza di proporre opposizione.

Le formalità sono:
1) la pubblicazione (affissione per 8 gg dell’avviso delle nozze, a cura dell'ufficiale dello stato civile, presso la
porta della casa comunale, di un avviso contenente i dati identificativi di chi intende sposarsi).
—> la celebrazione in sua mancanza, prevede una sanzione pecuniaria per i trasgressori.
La formalità può essere abbreviata o Omessa con autorizzazione del tribunale.
2)l’opposizione.
L’art.102 indica le persona che possono fare opposizione (in genere genitori e parenti prossimi e il P.M, ove
siano a conoscenza di un impedimento).
Sull'opposizione, da proporre con ricorso al presidente del tribunale del luogo dove è stata eseguita la
pubblicazione, decide il tribunale con decreto motivato.
Dopo 3 giorni dalla pubblicazione senza opposizione, l’ufficiale dello stato civile può procedere alla
celebrazione del matrimonio.
Questa avviene pubblicamente, in linea di massima, nella casa comunale, alla presenza di due testimoni, con le
relative dichiarazioni, fatte personalmente, di ciascuno degli sposi, previa lettura degli artt. 143, 144, 147,
cui segue la dichiarazione dell’ufficiale dello stato civile che essi sono uniti in matrimonio (art. 107).

—>Il matrimonio è atto puro, che non ammette termini e condizioni. Ove le parti le appongano, l'ufficiale di
stato civile non può procedere alla celebrazione del matrimonio, che, comunque, ove ugualmente celebrato,
produrrà i suoi effetti normali, il termine o la condizione dovendosi considerare non apposti (art. 108).
—>L’ufficio dello stato civile redige l’atto di matrimonio, che viene poi iscritto nell’archivio informatico del
comune.
L’atto di matrimonio, quale documento, assume rilevanza in quanto rappresenta l’essenziale strumento
prova del matrimonio (art.130).

INVALIDITa’ DEL MATRIMONIO


—> Taluni difetti del procedimento di celebrazione del matrimonio danno luogo a mera irregolarità, con
conseguenti sanzioni pecuniarie a carico dell'ufficiale civile e ,eventualmente, degli sposi.
(Omissione della pubblicazione, mancata presenza dei testimoni, incompetenza dell'ufficiale civile,
inosservanza del divieto temporaneo di nuove nozze ecc.)
—>la violazione delle prescrizioni in materia di requisiti richiesti per contrarre matrimonio e la
difettosità del consenso determinano l'inettitudine dell'atto matrimoniale a produrre i suoi effetti, con
la relativa possibilità, accordata ad una sfera più o meno ampia di soggetti, di contestarne la validità.
-L’invalidità del matrimonio si ricollega ai difetti genetici dell’atto matrimoniale, mentre un difettoso
svolgimento del rapporto matrimoniale consente, nei casi ed alle condizioni stabilite dall’ordinamento, la
richiesta della separazione personale e del divorzio (cui consegue lo scioglimento del rapporto stesso.

—> Si parla talvolta anche di inesistenza del matrimonio, per alludere alla situazione in cui risultino, nel
procedimento, carenze tali da impedire la stessa identificabilità come atto matrimoniale.

—>La disciplina della invalidità dell’atto matrimoniale conferma la peculiarità della materia familiare
rispetto a quella contrattuale.
Le categorie generali dell’invalidità quali previste per il contratto (nullità e annullabilità) risultano
estranee alla disciplina dettata per il matrimonio. Ciò pare attestato già dal contestuale impiego della
terminologia di ‘’nullità’’ e quella di ‘’impugnazione’’, per indicare l’azione finalizzata a far valere le carenze
dell’atto matrimoniale, alludendosi, poi, per regolarne gli effetti prodotti dal matrimonio dichiarato nullo.
—>sembra preferibile limitarsi quindi a constatare come, in materia matrimoniale, assai articolato risulti
la regolamentazione della legittimazione ad agire. Il matrimonio può essere impugnato oltre che dai
coniugi, dagli ascendenti prossimi e dal P.M., anche da tutti coloro che abbiano ‘’un interesse legittimo e
attuale’’. In altri casi, dal tutore, dal P.M. e da tutti coloro abbiamo un ‘’interesse legittimo’’, ovvero dai
coniugi , dai genitori e dal P.M. In altri casi ancora dai due coniugi o solo dal coniuge il cui consenso risulti
viziato.
—>La distinzione tra nullità ed annullabilità può essere utilizzata per contrapporre le ipotesi di invalidità
insanabile (mancanza di libertà di stato, di delitto, nonché di vincolo di parentela, affinità, adozione e
affiliazione, non superabile con autorizzazione), a quelle in cui il vizio dell’atto matrimoniale sia rimediabile
(sanabile).
La sanatoria del vizio opera, in genere, in conseguenza della coabitazione (nel senso di vera e propria
convivenza come coniugi), successivamente al venir meno del motivo di invalidità.

—>Il matrimonio è impugnabile ove sia stato contratto in assenza di uno dei suoi requisiti, per l'art. 84
relativo all'età, 86 relativo alla libertà di stato (non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un
matrimonio precedente), 87 inerente ai gradi di parentela, 88 che fa riferimento all'impossibilità di contrarre
matrimonio per le persone delle quali l'una è stata condannata per omicidio consumato o tentato suo coniuge
dell'altra. Esso può essere impugnato pure nell'ipotesi di interdizione per infermità di mente.
Il matrimonio risulta impugnabile per capacità di intendere o di volere (incapacità naturale), qualunque sia la
causa, anche transitoria, della menomazione della sfera decisione del soggetto, purché sussistente al
momento della celebrazione (art.120)
Quale vizi del consenso, l’art. 122 contempla la violenza (minaccia di un male finalizzata all’estorsione del
consenso), il timore (quando sia di eccezionale gravità e derivi da cause esterne allo sposo. Circa invece il
timore invalidante, si considerano i casi in cui il matrimonio si è avvertito come mezzo per sottrarsi a
situazioni quali guerre civili e persecuzioni politiche, religiose o razziali), l’errore (falsa rappresentazione della
realtà che induce a prestare il consenso). Oltre all’ipotesi dell’errore sull’identità della persona persona, cioè
le ipotesi di uno scambio fra la persona che si intendeva sposare e quella sposata, e considerata quella
dell’errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge.essenziale è l’errore che, oltre ad essere
determinante del consenso, cada sulle qualità previste. Si tratta dell’esistenza di malattie, fisiche o psichiche,
o di anomalie o delle azioni sessuali, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale, ad es. Malattie
sessualmente trasmissibili. Sono rilevanti poi la condanna per delitto non colposo ad almeno cinque anni di
reclusione, la dichiarazione delle delinquenza abituale o professionale, nonché la condanna per delitti
concernenti la prostituzione. Infine il marito può invocare l’essere stata la gravidanza causata da altri.
Resta a privo di una propria autonoma incidenza il dolo: l’errore, indotto, quindi, può essere fatto valere solo
nei limiti in cui risulta rilevante l’errore spontaneo.

—> Con la riforma è possibile impugnare il matrimonio per simulazione, cioè quando “gli sposi abbiano
convenuto di non adempiere agli obblighi e non esercitare i diritti” discendenti dal matrimonio (art.123).
L’accordo deve riguardare l'esclusione della comunione di vita nel suo insieme e non di singoli diritti e doveri
matrimoniali.
Le parti, attraverso quello che per loro si presenta quale matrimonio meramente apparente, perseguono gli
scopi più diversi. Le ipotesi maggiormente ricorrenti sono quelle dei matrimoni contratti (spesso con anziani)
per ottenere permessi di soggiorno, di espatrio o una diversa cittadinanza (c.d. matrimoni di cittadinanza),
nonché per conseguire vantaggi nell'attribuzione di alloggi e posti di lavoro. La disposta improponibilità
dell'azione (comunque riservata ai soli coniugi) trascorso un anno dalla celebrazione del matrimonio, oltre che
nel caso di convivenza, pur se di breve durata, circoscrive drasticamente, peraltro, la reale portata della
simulazione matrimoniale nel nostro ordinamento

CONSEGUENZE DELLA Invalidita’


La pronuncia di invalidità del matrimonio dovrebbe comportare l'azzeramento (la relativa eliminazione,
cioè, retroattiva) degli effetti del matrimonio, come se esso non fosse mai stato contratto. Il rilievo
che il matrimonio assume come fondamento di una comunità familiare, anche in vista della procreazione,
ha peraltro indotto a superare qui la rigidità dei principi in materia negoziale che imporrebbero tale
risultato. Già nel quadro della riforma, poi, in armonia con la valorizzazione, nella famiglia, della concreta
esperienza di vita, nonché in vista di una più piena tutela dei figli (da non pregiudicare per comportamenti
tenuti dai genitori), sono stati ricollegati al matrimonio dichiarato nullo effetti più rilevanti di quelli già
antecedentemente riconosciutigli nella prospettiva del c.d. matrimonio putativo (tale essendo
considerato quello contratto in buona fede dai coniugi).
Quanto ai figli, è ora affermato il principio secondo cui gli effetti del matrimonio valido si producono nei
loro confronti (art. 128). E questo, per i figli nati o concepiti durante il matrimonio dichiarato nullo,
anche in caso di matrimonio contratto in malafede da entrambi i coniugi, salvo che la nullità dipenda da
incesto (art. 128). Per i provvedimenti da assumere relativamente ai figli, l'art. 129 rinvia a quanto
previsto per disciplinare le conseguenze della separazione personale dei genitori (art. 155).
Per quanto concerne i coniugi, gli effetti del matrimonio valido si producono, fino alla sentenza che
pronunzia nullità, in favore dei coniugi che lo abbiano (o del solo coniuge che lo abbia) contratto in buona fede
(art. 128).
Ove ambedue i coniugi siano in buona fede, può essere disposto (per un periodo non superiore a tre anni) a
carico di uno di essi l'obbligo di corrispondere all'altro, se costui non abbia adeguati redditi propri, un
assegno determinato in proporzione delle sue sostanze (art. 129).
È evidente l'analogia con l'assegno di mantenimento, spettante in dipendenza della separazione personale
(art. 156), finendo, così, il matrimonio col proiettare effetti tra i coniugi anche oltre la relativa dichiarazione
di invalidità.
Ai sensi dell'art. 129 bis, il coniuge in buona fede ha diritto ad ottenere da quello cui sia imputabile l'invalidità
del matrimonio una congrua indennità (in ogni caso, pure in mancanza, cioè, di prova del danno sofferto).
L'indennità deve essere commisurata almeno - ma può risultare eventualmente superiore - a quanto
necessario al mantenimento per tre anni. Tale indennità deve essere corrisposta dal terzo, ove a lui sia
imputabile l'invalidità del matrimonio (se costui abbia concorso con uno dei coniugi a determinare l'invalidità,
sarà con lui responsabile solidalmente). Quale ulteriore effetto destinato a proiettarsi al di là della
dichiarazione di invalidità, il coniuge responsabile è anche tenuto a prestare all'altro, che versi in stato di
bisogno, gli alimenti, sempre che non vi siano altri obbligati (insomma, dopo i soggetti indicati nell'art. 433).

IL MATRIMONIO CONCORDATARIO
L'originaria disciplina concordataria - coerentemente con l'intento, enunciato nell'art. 34 del
Concordato dell'11.2.1929, di riconoscere "al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto
canonico, gli effetti civili" - limitava l'intervento dell'ordinamento statale, da una parte, ai fini della
efficacia civile del matrimonio, alla formalità della trascrizione nei registri dello stato civile (preclusa
solo in caso di matrimonio contratto da persona interdetta per infermità di mente o già legata da
altro matrimonio valido agli effetti civili); dall'altra, ai fini del riconoscimento delle sentenze in tema di
validità del matrimonio dei tribunali ecclesiastici (cui era riservata la giurisdizione in materia), ad
un'attività (della competente Corte di appello) correntemente intesa come di mera presa d'atto della
regolarità formale del procedimento in sede ecclesiastica.

—>La regolamentazione risulta mutata a seguito dell'Accordo di revisione del 18.2.1984, con il cui art. 8
(completato dall'art. 4 del Protocollo addizionale) si è modificato il regime della trascrizione
(assoggettandola a più rigorose condizioni), nonché soppressa la riserva di giurisdizione a favore dei
tribunali ecclesiastici per le cause di nullità matrimoniale.
Un fattore di incertezza del sistema che ne deriva è rappresentato dalla persistente mancata
riformulazione della c.d. legge matrimoniale (L. 27.5.1929, n. 847, applicativa dell'originaria disciplina
concordataria).

—>Circa le formalità preliminari al matrimonio, sono necessarie le pubblicazioni civili su richiesta dei
nubendi - che, così, effettuano la scelta per la forma matrimoniale concordataria - e del parroco che
ha provveduto a quelle religiose. Ad esse segue il rilascio del nulla-osta alla celebrazione, col quale viene
assicurata la trascrizione agli effetti civili del matrimonio. La celebrazione avviene col rito religioso,
con prevista lettura degli articoli del codice civile relativi ai diritti e doveri dei coniugi. La celebrazione è
seguita dalla redazione dell'atto di matrimonio - in cui possono essere inserite le dichiarazioni dei
coniugi relative alla scelta della separazione dei beni ed al riconoscimento di figli naturali - in doppio
originale, per consentire la trasmissione (con la richiesta di trascrizione, da fare entro cinque giorni
dall'avvenuta celebrazione) di uno di essi all'ufficiale dello stato civile.
La trascrizione non può avere luogo quando gli sposi non abbiano l'età prescritta dalla legislazione civile
e, in genere, in tutti i casi in cui sussista un impedimento al matrimonio che l'ordinamento civile
considera inderogabile. Il matrimonio, intervenuta la trascrizione (trascrizione ordinaria o
tempestiva, in quanto preceduta dal rilascio del prescritto nulla-osta e richiesta entro cinque giorni
dalla celebrazione, anche se effettuata dall'ufficiale di stato civile oltre il termine previsto di
ventiquattro ore dal ricevimento dell'atto), produce effetti civili dal momento della celebrazione. È
ammessa anche la trascrizione tardiva, ove l'atto di matrimonio non venga trasmesso entro cinque
giorni dalla celebrazione: occorre, a tal fine, la richiesta dei due sposi e che entrambi abbiano
conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta.
Nell'originario sistema concordatario - caratterizzato dalla riserva alla giurisdizione dei tribunali
ecclesiastici dei giudizi circa la validità del matrimonio contratto secondo le norme del diritto canonico e
ammesso a produrre effetti civili - la esecutorietà agli effetti civili delle decisioni ecclesiastiche era
subordinata a un intervento della Corte di appello competente, correntemente inteso quale vaglio
meramente formale della regolarità del procedimento.

—>La Corte costituzionale è, però, intervenuta, concludendo per la illegittimità della legislazione applicativa
del Concordato, laddove essa non prevedeva che spettasse alla Corte di appello "accertare che nel
procedimento innanzi ai tribunali ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in
giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza non contenga disposizioni contrarie all'ordine pubblico
italiano”.
—>A seguito della sopravvenuta revisione del Concordato, la Corte di appello provvede alla dichiarazione di
efficacia per l'ordinamento statale delle sentenze ecclesiastiche, controllando, in particolare, che sia stato
assicurato alle parti il diritto di agire e di difendersi in giudizio in conformità dei principi fondamentali
dell'ordinamento, nonché che ricorrano le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la
dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere.
Ne consegue che, in particolare, le sentenze ecclesiastiche non sono suscettibili di essere rese esecutive in
caso di contrarietà all'ordine pubblico italiano, da valutare, però, tenendo presente la peculiarità dei
rapporti tra Stato e Chiesa e la specificità dell'ordinamento canonico, così da non potersi quest'ultimo
ritenere senz'altro violato in caso di qualsiasi divergenza tra la disciplina delle cause di nullità nei due
ordinamenti.
—>Ciò ha condotto ad una applicazione fin troppo permissiva, rispetto a quanto si sarebbe potuto
attendere, di un simile "filtro". Considerata sostanzialmente pacifica - in linea di principio, ma senza
effettivo riscontro nella pratica - la contrarietà all'ordine pubblico di sentenze eventualmente fondate su
impedimenti di carattere tipicamente religioso (come l'ordine sacro o il voto di castità), una simile
contrarietà è stata affermata soprattutto in caso di esclusione, da parte di uno solo degli sposi, di uno dei
caratteri che l'ordinamento canonico considera essenziali per il matrimonio (c.d. bona matrimoni: prolificità,
indissolubilità e fedeltà), ovvero di apposizione unilaterale di una condizione, purché non manifestate
all'altro coniuge, né da lui conosciute o conoscibili. Non è stato reputato tale da impedire la delibazione un
errore su qualità dell'altro coniuge sicuramente irrilevanti per l'ordinamento civile, né si è persistentemente
ritenuta ostativa della delibazione la circostanza che l'azione sia stata esercitata quando, data
l'instaurazione della convivenza e la relativa persistente stabilità, essa non avrebbe più potuto essere
proposta per l'ordinamento civile, in considerazione dell'effettiva realizzazione di una operante comunità di
vita familiare.

—>Con la revisione del Concordato si considera venuta meno la riserva di giurisdizione.


Pure i tribunali civili possono, dunque sindacare la validità del matrimonio concordatario. Ciò ha anche
indotto a concludere che la sentenza ecclesiastica, pure una volta delibata, non travolga senz'altro la
sentenza di divorzio (o, almeno i suoi effetti economici).
Indubbiamente, la via del procedimento innanzi ai giudici ecclesiastici, con la successiva delibazione della
relativa sentenza, viene spesso battuta per evitare le conseguenze patrimoniali del divorzio, maggiormente
onerose per la parte economicamente più forte: all'efficacia civile della sentenza ecclesiastica si ricollega,
infatti, l’applicabilità del regime delle conseguenze dell'invalidità, quali disciplinate per il matrimonio civile dagli
artt. 128 ss. e, in particolare, artt. 129 e 129 bis.
Una migliore tutela del coniuge debole, allora, nei casi in cui non sia addirittura da considerarsi radicalmente
preclusa la delibazione della sentenza ecclesiastica di invalidità, può derivare solo dal ritenere
persistentemente operanti le statuizioni economiche adottate in sede di giudizio di divorzio, nonostante la
eventuale successiva delibazione della sentenza di invalidità.
B) EFFETTI
RAPPORTI PERSONALI TRA CONIUGI
La riforma del 1975 ha dato piena attuazione - nei rapporti tra i coniugi (e di questi nei confronti dei figli) - al
principio costituzionale per cui "il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei
coniugi" (art.29).
La disciplina ora contenuta nel codice civile istituzionalizza un modello di famiglia paritario e partecipato, in
cui i valori di rispetto reciproco e solidarietà sono affidati soprattutto all'impegno profuso dai suoi membri.
I necessari interventi disposti dall'ordinamento risultano finalizzati esclusivamente ad assicurare che anche
la formazione sociale fondamentale sia veramente luogo di promozione e sviluppo della personalità di
ciascuno.
Invece di concentrare i poteri di governo della famiglia nel marito (quale capo della famiglia e, di conseguenza,
titolare della potestà maritale e della patria potestà), ogni predefinita ripartizione di ruoli è superata dalla
perentoria affermazione, secondo cui "con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e
assumono i medesimi doveri" (art. 143): al loro accordo viene demandata la concreta articolazione degli
assetti organizzativi della vita familiare (art. 144).
Gli obblighi reciproci che derivano dal matrimonio sono quelli di fedeltà, assistenza morale e materiale,
collaborazione nell'interesse della famiglia, coabitazione e contribuzione ai bisogni della famiglia (art. 143).
La famiglia ne risulta organismo la cui vitalità è da ricercare nel reciproco rispetto della dignità di ciascuno,
attraverso quell'impegno di solidarietà, che riflette il carattere anche collettivo degli interessi, dei quali
ognuno è portatore in quanto membro del gruppo. Pure i doveri verso i figli (art. 147), del resto, sono regolati
anche nel quadro della delineazione dei contenuti del rapporto coniugale, in quanto assunti ad oggetto di
reciproca pretesa dei coniugi, nell'ambito della dimensione solidaristica del matrimonio.
La fedeltà rappresenta imprescindibile espressione della esclusività del rapporto personale, che si è visto
essere connaturale all'idea di matrimonio.
Più che all'angusta prospettiva dei rapporti sessuali, pare doversi avere riguardo a quella complessiva del
necessario rispetto, in un'ottica di leale dedizione reciproca, della dignità dell'altro coniuge nei rapporti
sociali.
Il dovere di assistenza morale e materiale si presenta quale espressione particolarmente significativa di quel
legame di solidarietà che è alla base del matrimonio e che impone il vicendevole aiuto (personale, oltre che
economico), soprattutto nei momenti, per ciascuno, più difficili.
Non a caso, il diritto all'assistenza morale e materiale è sospeso nei confronti del coniuge che si allontani
ingiustificatamente dalla residenza familiare (art. 146). I doveri di assistenza familiare (legati alla qualità di
coniuge e di genitore) sono tutelati penalmente.
Il dovere di collaborazione, poi, vale a precisare il precedente dovere, di un'attiva partecipazione secondo le
proprie capacità ed attitudini, alla vita del gruppo familiare nella sua dimensione collettiva. In tale
prospettiva, ad esso si ricollega strettamente quello di contribuzione, che rappresenta il pilastro su cui la
riforma ha fondato l'assetto economico della famiglia ed il relativo regime.
L'importanza del dovere di coabitazione e della conseguente localizzazione della vita familiare è attestata
dalla insistenza del legislatore nel riferirsi alla residenza familiare (art. 144, per la relativa scelta; art. 146, per
l'allontanamento ingiustificato da essa) , con i possibili risvolti pure penali del suo abbandono. Alle ipotesi
patologiche della convivenza ha riguardo la disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi familiari (artt.
342 bis e ter, introdotti nel codice civile dalla L. 4.4.2001, n. 154), che possono comportare anche l'imposizione
dell'allontanamento dalla casa familiare.

Problema discusso è quello della sanzione per l'inosservanza dei doveri familiari, una volta ritenuta pacifica la
loro incoercibilità. L'avere il comportamento, tenuto dal coniuge in violazione di tali doveri, causato la crisi
coniugale rende a lui eventualmente addebitabile la separazione personale (art. 151), rientrando, inoltre, la
valutazione delle ragioni della decisione anche tra gli elementi da considerare per la determinazione
dell'assegno di divorzio (art. 5 L. 1.12.1970, n. 898).

In conseguenza del matrimonio, la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito (art. 143 bis), mentre,
prima della riforma, era previsto che essa lo sostituisse al proprio.
Secondo quella che viene correntemente definita come regola dell'accordo nel governo della famiglia, i coniugi
concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia, alla luce delle esigenze di
entrambi e quelle collettive (art. 144). La necessità di soluzioni concordate riguarda, dunque, le scelte da cui
dipende l'organizzazione della vita familiare, quali, in particolare, oltre che appunto la determinazione della
residenza familiare, la precisazione del ruolo che ogni membro deve svolgere nel quadro dell'organizzazione
stessa, innanzitutto con riguardo allo svolgimento di attività lavorative extradomestiche ed alla relativa
compatibilità con gli impegni familiari. Il rispetto dell'accordo, comunque, non può essere preteso quando
mutino le circostanze nel rispetto delle esigenze di tutti.
A ciascuno dei coniugi spetta, poi, per ovvi motivi di opportunità pratica nello svolgimento della vita familiare,
il potere di attuare l'indirizzo concordato (art. 144).
Indubbiamente, il governo della famiglia fondato sulla regola dell'accordo pone il problema delle
conseguenze della relativa mancanza. La soluzione, in vista della salvaguardia dell'unità familiare, è stata
trovata nel prevedere un intervento del giudice in caso di disaccordo (art. 145). Per evitare che un simile
intervento determini una lesione dell'autonomia dei coniugi, si è previsto che esso abbia carattere
essenzialmente conciliativo, in quanto mirato al raggiungimento di una soluzione concordata. Ove tale
tentativo non riesca ed il contrasto concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, solo
su richiesta espressa e congiunta dei coniugi - i quali, così, esercitano pur sempre il loro potere di scelta,
sia pure rimettendo al giudice la decisione - il giudice adotterà la soluzione più opportuna.

REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA. IL REGIME PRIMARIO


La disciplina del regime patrimoniale della famiglia costituisce un elemento di rilevanza fondamentale
nella delineazione del modello familiare che il legislatore intende vedere realizzato. Si tratta, infatti, del
complesso delle norme destinate a regolare i rapporti di natura patrimoniale dei coniugi proprio in
considerazione di tale loro specifica condizione: risultano determinati i riflessi che il matrimonio
produce sul patrimonio (passato, presente e futuro) di ciascuno di essi.

La scelta della riforma è stata nel senso di privilegiare il momento comunitario e partecipativo anche
nello svolgimento delle relazioni economiche interessanti i membri della famiglia.
L'esigenza avuta di mira è stata quella della tutela della eguaglianza sostanziale dei coniugi, cui è stata
ritenuta funzionale la previsione, quale regime legale, del regime di comunione, dei beni.
Si è ritenuto opportuno, peraltro, conciliare una simile esigenza col rispetto di una certa indipendenza
economica di ciascun coniuge, quale espressione di quella libertà che, a salvaguardia della dignità
personale, non può essere conculcata in conseguenza del matrimonio.
Ciò ha avuto riflessi tanto dal punto di vista della conformazione dello stesso regime legale di
comunione dei beni, quanto sotto il profilo della sfera di autonomia riconosciuta agli interessati nella
determinazione del proprio regime patrimoniale coniugale, in considerazione della molteplicità delle
tipologie degli assetti economici familiari in una società complessa come la nostra.
Il regime patrimoniale legale di comunione risulta, così, destinato ad operare solo ove le parti non
abbiano scelto, nei limiti consentiti, un diverso regime con apposita convenzione (art. 159), in tal senso
dovendosi intendere il suo carattere legale.

Indipendentemente dal regime patrimoniale esistente tra i coniugi (comunione legale o regime
convenzionale), a salvaguardia degli obiettivi di eguaglianza e perequazione avuti di mira dal
legislatore, in ogni caso opera il principio contributivo: regolamentazione inderogabilmente
finalizzata ad assicurare un livello essenziale di integrazione delle sfere patrimoniali dei coniugi in
quanto tali.
È proprio in una tale prospettiva che si parla di regime primario (inderogabile) con riferimento,
appunto, al dovere di contribuzione, per il quale "entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione
alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai
bisogni della famiglia” (art. 143).
Viene, così, sancita espressamente la pari dignità, ai fini dell'assolvimento del proprio dovere
contributivo da parte di ciascuno dei coniugi, del lavoro prestato all'interno della famiglia, rispetto a
quello extradomestico. Pure il coniuge impegnato, in via esclusiva o prevalente, nell'attività lavorativa
domestica (come tale improduttiva di reddito) è partecipe, allora, durante la convivenza
matrimoniale, del tenore di vita consentito dalla complessiva economia familiare (e deciso d'accordo,
ai sensi dell'art. 144). Il regime successorio e quello delle conseguenze patrimoniali della crisi familiare
valgono ad assicurargli un'adeguata partecipazione agli incrementi patrimoniali venutisi a realizzare
nel corso della vita familiare.
Per garantire una reale posizione di eguaglianza dei coniugi, peraltro, pare imprescindibile riconoscere
loro, in ogni caso, poteri paritari di iniziativa economica nei confronti dei terzi, in vista del
soddisfacimento delle necessità familiari.
Solo conferendo una rilevanza esterna al dovere di contribuzione - legittimando, cioè, ciascun coniuge alla
stipulazione di obbligazioni nell'interesse della famiglia, con efficacia direttamente vincolante nei confronti
dei terzi anche per l'altro (pure, quindi, ove il regime operante sia quello della separazione dei beni) - si
sottrae, in effetti, il coniuge meno provveduto di mezzi economici a condizionamenti da parte di quello più
provveduto.
Una simile conclusione, anche in assenza di una disposizione espressa come quelle esistenti in altri
ordinamenti, può essere argomentata proprio sulla base della vigenza del principio contributivo (quale
emerge dagli artt. 143 e 144).
Al piano del regime primario vengono diffusamente ricondotte, inoltre, le vicende relative alla casa
familiare, sulla base delle numerose disposizioni che ad essa conferiscono autonoma considerazione
rispetto agli altri beni di cui i coniugi (individualmente o insieme) siano titolari: art. 144, per l'accordo di
fissazione della residenza della famiglia; art. 540, per la sorte della casa adibita a residenza familiare in caso
di morte del coniuge che ne sia proprietario; art. 142 L. 76/2016, per il diritto spettante al convivente
superstite sulla casa di comune residenza; art. 337 sexies, per l'assegnazione della casa familiare a seguito
di cessazione della convivenza della famiglia (anche ove non sussista il vincolo coniugale).

CONVENZIONI MATRIMONIALI
Le convenzioni matrimoniali sono gli accordi coi quali gli sposi - eccezionalmente con l'intervento di un terzo
(art. 167) - adottano un regime patrimoniale della famiglia diverso da quello legale di comunione (art. 159),
ovvero modificano quello in atto.
Si tratta di atti di natura negoziale, caratterizzati da una propria disciplina (artt. 159 ss.), ai quali quella
generale in materia di contratto sembra poter essere applicata solo in quanto compatibile con tale
specifica disciplina.
L'autonomia delle parti - cui è consentito avvalersi dei regimi tipizzati dal legislatore, ma anche dar vita a
regimi atipici - incontra il limite del carattere inderogabile dei diritti e doveri conseguenti al matrimonio
(art. 160). L'allusione è a quel dovere di contribuzione, che sostanzia il regime primario e che svolge, così, la
funzione di "cerniera" tra i profili personali e quelli economici del rapporto matrimoniale. Gli sposi, poi, non
possono, per la disciplina dei propri rapporti patrimoniali, rinviare genericamente a regimi previsti da altri
ordinamenti o agli usi, dovendo enunciare specificamente le regole che intendono adottare (art. 161). Sono
vietate, infine, le convenzioni tendenti a far comunque rivivere il regime della dote (art. 166 bis), soppresso
dalla riforma, in quanto tipicamente espressione del modello di organizzazione familiare sconfessato
(perché fondato sulla preminenza del ruolo del marito).
Le convenzioni possono essere stipulate e modificate in ogni tempo (art. 162), prima, ma anche dopo la
celebrazione del matrimonio, a differenza di quanto previsto, in linea di principio, anteriormente alla
riforma.
Circa la capacità di agire richiesta, anche il minore ammesso a contrarre matrimonio è reputato capace di
stipulare le relative convenzioni, con l'assistenza dei genitori o del tutore (ovvero di un curatore speciale,
ove nominato ai sensi dell'art. 90) (art. 165). L'inabilitato deve essere assistito dal curatore (art. 166).
La forma richiesta, sotto pena di nullità, è quella dell'atto pubblico (art. 162).
La scelta del regime di separazione di beni, prima della riforma costituente regime legale, è facilitata,
potendo essere semplicemente dichiarata nell'atto di celebrazione del matrimonio (e ciò anche in caso di
matrimonio concordatario) (art. 1627). Una normale convenzione occorrerà, in tal caso, per optare,
successivamente, a favore del regime di comunione.
Poiché il regime patrimoniale della famiglia interessa i rapporti dei coniugi coi terzi, è previsto, a loro
tutela, un peculiare regime di pubblicità, per metterli a conoscenza del regime patrimoniale di chi sia
coniugato. Ai fini della opponibilità ai terzi, le convenzioni devono risultare da annotazione a margine
dell'atto di matrimonio, contenente l'indicazione della relativa data, del notaio rogante e delle generalità dei
contraenti (ovvero della scelta del regime di separazione dei beni) (art. 162). L'art. 264 prescrive, inoltre, se
abbiano per oggetto beni immobili, la trascrizione nei registri immobiliari delle convenzioni costitutive del
fondo patrimoniale, ovvero tendenti ad escludere tali beni dalla comunione, nonché degli atti di
scioglimento della comunione e degli atti di acquisto di beni personali. In mancanza di annotazioni a margine
dell'atto di matrimonio, il terzo può senz'altro ritenere che tra i coniugi operi il regime di comunione legale
( pubblicità negativa).
Le convenzioni modificative di convenzioni precedenti richiedono il consenso (manifestato per atto
pubblico) di tutti coloro che ne erano parti e la relativa pubblicità è operata con annotazione in margine
all'atto di matrimonio, nonché con annotazione a margine della trascrizione, ove prescritta, della
convenzione originaria (art. 163).
COMUNIONE LEGALE
Il regime di comunione è stato, in sede di riforma del 1975, ritenuto meglio rispondere all'esigenza di
rispecchiare, anche nel campo dei rapporti patrimoniali, un modello familiare che valorizzi la comunità di
vita tra i coniugi. Con tale regime si è inteso, in effetti, assicurare a costoro una partecipazione, in piena
eguaglianza, all'accumulo ed alla gestione delle ricchezze familiari: l'obiettivo risulta perseguito, peraltro,
in modo da salvaguardare una certa autonomia di ciascun coniuge.
La comunione legale ha un carattere non universale, sia in quanto non si estende ai beni di cui i coniugi
erano titolari anteriormente al matrimonio, sia perché lascia ciascuno dei coniugi comunque titolare di
taluni beni essenziali per garantirgli una sfera di libertà in campo personale e professionale (e ciò
inderogabilmente: art. 210)

a) Quanto all'oggetto, essa si atteggia come comunione degli acquisti: ne costituiscono oggetto, per
l'art. 177, appunto, gli acquisti compiuti dai coniugi, insieme o separatamente (in tal caso, l'acquisto si
ritiene comunicarsi automaticamente ex lege all'altro coniuge), durante il matrimonio (lett. a).
La sua disciplina (e, quindi, la sua natura), comunque, si discosta in maniera incisiva da quella generale della
comunione.
Da una simile comunione immediata restano esclusi i frutti dei beni propri ed i proventi dell'attività
separata (stipendi, onorari e simili) (lett. b e c). Tali beni (e, quindi, i risparmi non utilizzati per acquisti)
sono destinati a rientrare nella comunione solo al momento del suo scioglimento ed esclusivamente in
quanto ancora non consumati (c.d. comunione di residuo).
Un regime analogo, per rispettare la sua autonomia di iniziativa economica (ma anche per meglio tutelare
i creditori), si applica ai beni destinati all'esercizio dell impresa di uno dei coniugi costituita dopo il
matrimonio ed agli incrementi dell'impresa costituita anche prima di esso (art. 178). Costituiscono
oggetto di comunione immediata, invece, le aziende gestite insieme dai coniugi, se costituite dopo il
matrimonio (lett. d); mentre se essi gestiscono insieme l'azienda già appartenente ad uno dei coniugi
prima del matrimonio, competono ad entrambi gli utili e gli incrementi (art. 177).
—>Controverso, peraltro, è il concetto di acquisti destinati ad entrare in comunione.
La giurisprudenza tende ad escludere che tali siano taluni acquisti a titolo originario come, in
particolare, gli acquisti per accessione (nella comunione ritenendosi quasi pacificamente rientrare,
comunque, quelli per usucapione). Pure esclusi dalla comunione sarebbero i diritti di credito (anche, in
particolare, con riguardo a quelli nascenti da un contratto preliminare stipulato da uno solo dei coniugi).
—>Sono beni personali, esclusi dalla comunione legale, ai sensi dell'art. 179: i beni posseduti anteriormente
al matrimonio; i beni acquisiti successivamente per donazione o successione (quando non specificamente
destinati dal disponente alla comunione); i beni di uso strettamente personale (vestiti, ornamenti, ecc.); i
beni che servono all'attività professionale del singolo coniuge (attrezzature, suppellettili, ecc.); i beni
ottenuti a titolo di risarcimento del danno (nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale
della capacità lavorativa); i beni acquistati con il prezzo (o con lo scambio) di beni personali (c.d. acquisti
per surrogazione), purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto.

b) L'amministrazione dei beni della comunione spetta (inderogabilmente: art. 210), di regola, ai coniugi
disgiuntamente; congiuntamente, invece, per gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione (quelli
comportanti una significativa modificazione della consistenza del patrimonio) (art. 180).
Il rifiuto del consenso dell'altro coniuge può essere superato con un'autorizzazione giudiziaria, richiesta
dal coniuge interessato, nel caso di atto necessario nell'interesse della famiglia o dell'azienda comune
(art. 181).
In talune circostanze (lontananza od altro impedimento di un coniuge), il compimento di atti di
amministrazione richiedenti il consenso di entrambi i coniugi può essere affidato, con apposita
autorizzazione del giudice, ad uno solo di essi (art. 182); in altre (minore età, interdizione, impedimento
durevole, cattiva amministrazione), il giudice può addirittura escludere uno dei coniugi
dall'amministrazione (restando salva la sua possibile reintegrazione, una volta venute meno le ragioni
dell'esclusione) (art. 183).
Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell'altro (art. 184), ove concernano beni
immobili o mobili registrati, sono annullabili, su richiesta del coniuge il cui consenso era necessario (e in
mancanza di convalida da parte sua), entro un anno (decorrente dalla data in cui quest'ultimo abbia
avuto conoscenza dell'atto, ovvero dalla data della relativa trascrizione; comunque, non oltre un anno
dallo scioglimento della comunione). Se l'atto ha ad oggetto beni mobili, esso resta valido (a tutela dei
terzi), ma il coniuge che lo ha compiuto deve ripristinare la comunione nello stato in cui si trovava
precedentemente.
c) Ai fini della responsabilità per i debiti, rileva la distinzione tra i creditori personali di ciascun coniuge
(anche per obbligazioni anteriori al matrimonio: art. 187) e quelli per obblighi gravanti sui beni della
comunione (c.d. creditori della comunione). I primi possono rivalersi sui beni personali del coniuge debitore
e solo sussidiariamente, fino al valore corrispondente alla sua quota (metà), sui beni comuni. I secondi
hanno a disposizione il patrimonio comune e solo sussidiariamente possono agire sui beni personali di
ciascun coniuge (per la metà del credito non soddisfatto) (art. 190).

d) Lo scioglimento della comunione è determinato da eventi che comportano il venir meno della comunità
di vita (morte, dichiarazione di assenza o di morte presunta, annullamento del matrimonio, divorzio,
separazione personale), oltre che dal mutamento convenzionale del regime patrimoniale (con passaggio
al regime di separazione dei beni) e dal fallimento di uno dei coniugi (art. 191).
Esso è determinato, su richiesta di uno dei coniugi, anche dalla separazione giudiziale dei beni (in caso di
interdizione, inabilitazione, cattiva amministrazione della comunione, disordine negli affari e condotte di
un coniuge tali da esporre a pericolo gli interessi dell'altro e della famiglia, carente contribuzione alle
necessità familiari) (art. 193).
Con lo scioglimento si tende a ritenere che subentri un regime di comunione ordinaria sui beni già oggetto
di comunione legale (e se, in considerazione del tipo di causa di scioglimento, il rapporto matrimoniale
persiste, il regime sarà, successivamente, quello di separazione dei beni). La divisione dei beni (art. 194)
avviene ripartendo in parti (inderogabilmente: art. 210) eguali l'attivo e il passivo, dopo gli opportuni
rimborsi e restituzioni (art. 192) (in sede di divisione, i coniugi hanno diritto al prelevamento dei beni mobili
ad essi appartenenti prima della comunione o ad essi pervenuti durante la medesima per successione o
donazione: artt. 195 ss.).
Il giudice può costituire, in relazione alle necessità della prole, a favore di uno dei coniugi l'usufrutto (c.d.
usufrutto giudiziale) su una parte dei beni spettanti all'altro (art. 194)
REGIMI CONVENZIONALI
a) Ai sensi dell'art. 210, le parti, con una convenzione matrimoniale, possono modificare il regime della
comunione legale. È discusso, di conseguenza, se quello della comunione convenzionale costituisca un regime
autonomo, ovvero una mera comunione legale modificata. Si tende a ritenere che gli interessati, in realtà,
possano sia limitarsi ad apportare modifiche al regime legale, sia dar vita ad un modello atipico di comunione.
Alle parti è consentito ampliare l'oggetto della comunione, allargandola a beni che non vi rientrerebbero (beni
posseduti prima del matrimonio, comunione immediata di frutti e redditi professionali), ma anche
restringere la relativa portata (con riferimento a categorie di beni).
Sono insuscettibili di essere ricompresi nella comunione i beni di uso strettamente personale, quelli che
servono all'esercizio della professione e quanto ottenuto a titolo di risarcimento del danno (art. 210).
Le regole di funzionamento della comunione legale possono essere modificate, ma con limiti rilevanti: sono
inderogabili quelle concernenti l'amministrazione e l'uguaglianza delle quote (sia pure limitatamente ai beni che
formerebbero comunque oggetto della comunione) (art. 210).

b) Diffusa è l'opzione degli sposi per la separazione dei beni, unico regime patrimoniale generale alternativo a
quello di comunione. Essa, indubbiamente agevolata dalla possibilità di dichiarane la scelta nell'atto di
celebrazione del matrimonio (art. 162), attribuisce una maggiore autonomia individuale ai coniugi, restando
ciascuno titolare esclusivo dei beni acquistati durante il matrimonio (art. 215) e potendo goderli e
amministrarli liberamente (art. 217).
L'inderogabile dovere di contribuzione resta comunque a garanzia delle finalità perequative e partecipative
cui si è ispirata la riforma.
Regole particolari disciplinano i rapporti tra i coniugi per il caso in cui il patrimonio di uno di essi sia, a
seguito di procura, amministrato dall'altro (artt. 217 e 218). Di notevole rilevanza è il principio per cui, ove
manchi la prova della proprietà esclusiva di un bene (che può essere fornita dal coniuge con ogni mezzo: art.
219), esso si presume in comunione (ordinaria) per quote uguali (art. 219).

c) Una certa diffusione ha assunto il fondo patrimoniale. Con esso, determinati beni immobili o mobili
registrati o titoli di credito (resi nominativi per assicurare la conoscibilità del vincolo: art. 167) sono
destinati a far fronte ai bisogni della famiglia (art. 167).
La proprietà dei beni spetta ai coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell'atto costitutivo (art. 168).
La costituzione avviene con una convenzione matrimoniale, come tale assoggettata alle relative regole
generali di forma e pubblicità. A destinare i beni (art. 167), i cui frutti sono impiegati per i bisogni della famiglia
(art. 168), possono essere i coniugi, insieme o individualmente, ovvero un terzo (anche con testamento). Il
consenso di entrambi coniugi pare necessario in ogni caso (art. 167).
L'amministrazione spetta ad entrambi i coniugi, con applicabilità delle stesse regole dettate per la
comunione legale (art. 168). Gli atti di disposizione dei beni devono essere compiuti congiuntamente e, se vi
sono figli minori, con l'autorizzazione giudiziale, nei soli casi di necessità o utilità evidente (art. 169).
La cessazione del fondo consegue all'annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del
matrimonio (art. 171). Peraltro, se vi sono figli minori, la destinazione dei beni dura fino alla maggiore età
dell'ultimo figlio (art. 171), con ciò risultando esaltata quella funzionalizzazione dei beni alle esigenze
dell'intera famiglia, che consente al giudice, a seguito della cessazione del fondo, addirittura di attribuire ai
figli, in godimento o in proprietà, una quota dei beni (art. 171).

IMPRESA FAMILIARE
Nel contesto del regime patrimoniale della famiglia, è stato disciplinato quel particolare tipo di impresa,
l'impresa familiare, caratterizzata dal fatto che in essa collaborano familiari dell'imprenditore (tali
essendo considerati il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo) (art. 230 bis).
La finalità perseguita è quella di garantire una tutela adeguata a costoro, ove prestino
continuativamente la propria attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa, senza che sia
giuridicamente configurabile un rapporto di diversa natura (in particolare, di lavoro dipendente o di
società) (art. 230 bist).
Pur non assumendo la veste di imprenditori (l'impresa è preferibilmente da ritenere che resti individuale
di chi la organizza e la gestisce a proprio rischio, assumendo egli solo la qualifica di imprenditore), i
familiari partecipanti hanno, da una parte, il diritto al mantenimento, secondo la condizione
patrimoniale della famiglia; dall'altra, quello a partecipare agli utili ed agli incrementi dell'azienda, in
proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (il lavoro femminile è da considerarsi
equivalente a quello maschile: art. 230 bis).
Inoltre, le decisioni di maggiore rilevanza per la vita dell'impresa (es. cessazione dell'impresa), devono
essere adottate a maggioranza dai familiari partecipanti (art. 230 bis).
Oltre ad avere diritto, ove venga a cessare il rapporto o sia alienata l'azienda, alla liquidazione in
danaro del proprio diritto di partecipazione, il familiare ha pure un diritto di prelazione sull'azienda, in
caso di divisione ereditaria o di relativo trasferimento (art. 230 bis)
C)UNIONE CIVILE
UNIONE CIVILE e matrimonio
Si è avuto modo di vedere come, di fronte all'emersione dell'istanza di tutela della relazione di vita instaurata
tra persone dello stesso sesso, gli ordinamenti abbiano battuto vie diverse, considerate dalla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo comunque conformi ai principi della CEDU, se tali da garantire il
rispetto dei "diritti fondamentali" degli interessati (non imponendosi, quindi, come via obbligata, quella del
superamento del tradizionale principio di eterosessualità del matrimonio).
In una simile prospettiva, il nostro legislatore ha preferito muovendosi, piuttosto, nella direzione
dell'introduzione di un peculiare (nuovo) istituto, quello della "unione civile", appunto finalizzato a
regolamentare il rapporto di vita tra costoro (e considerando, comunque, anche le persone dello stesso
sesso destinatarie della contestualmente introdotta "disciplina delle convivenze"). Nel far ciò, ci si è
dichiaratamente ispirati alle opzioni di altri paesi (in primo luogo, la Germania), nei quali, peraltro, la tendenza
sembra nel senso di avvicinare progressivamente - in funzione antidiscriminatoria - al modello matrimoniale la
disciplina specificamente introdotta al fine di regolamentare i rapporti tra le persone dello stesso sesso
(con l'eventuale approdo finale della loro ammissione al matrimonio).
Il testo della L. 20.5.2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina
delle convivenze") risente del suo travagliato iter parlamentare, con la finale necessità di complesse
mediazioni di carattere ideologico-politico, le quali non hanno certo contribuito alla relativa qualità e
linearità, oltretutto finendo col demandare implicitamente alla giurisprudenza scelte di indubbia rilevanza di
principio (oltre che al legislatore delegato la necessaria opera di completamento). La struttura stessa del
provvedimento, consistente nell'alquanto confuso succedersi di 69 commi in un unico articolo, costituisce
fedele specchio di ciò.
Delle due parti di cui si compone la legge, la prima, di cui all'art. 1, è quella dedicata all'introduzione dell'istituto
della unione civile tra persone dello stesso sesso, i contrasti vertendo, in buona sostanza, su come riuscire a
differenziarlo dal matrimonio: differenziazione, ovviamente, che gli uni tendevano ad emarginare, mentre gli
altri ad esaltare, col risultato del ricorso a formule, la cui ambiguità ha finito, talvolta, col rispecchiare le
(incrociate) riserve mentali di ciascuno. E quasi inutile pare sottolineare come ciò abbia determinato non
pochi contrasti anche tra coloro che si sono da subito cimentati nella valutazione ed interpretazione del
testo legislativo.
Il tentativo di superare le resistenze nei confronti di una completa assimilazione dell'unione civile al
matrimonio si è tradotto in alcune dichiarazioni di principio (invero, alquanto ridondanti e, nella sostanza,
scarso peso, come quella, di cui al comma 1, consistente nel definire "l'unione civile tra persone dello stesso
sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione") e differenziazioni,
peraltro di sapore più che altro formale, attraverso l'eliminazione di taluni rinvii originariamente operati
(salvo, poi, a trascrivere, più o meno fedelmente, il contenuto delle corrispondenti disposizioni), con un
disordinato (oltre che talvolta incomprensibilmente lacunoso e contraddittorio) accatastamento di
proposizioni normative.

COSTITUZIONE DELLA UNIONE CIVILE


La disciplina è introdotta dall'art. 13, in cui si prevede che "due persone maggiorenni dello stesso sesso
costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile ed alla presenza di
due testimoni", precisandosi nel comma 3 che "l'ufficiale di stato civile provvede alla registrazione degli atti di
unione civile tra persone dello stesso sesso nell'archivio dello stato civile".
Manca, quindi, una disciplina delle "formalità preliminari al matrimonio" (ed è stato ridotto all'essenziale il
momento della manifestazione della volontà degli interessati), con ciò, evidentemente, essendosi inteso
operare sul valore simbolico della relativa regolamentazione in materia matrimoniale.
Ma, anche a prescindere dallo scarso valore che ormai assume tale aspetto della normativa matrimoniale,
non si può mancare di sottolineare come la disciplina attuativa della delega contenuta nell'art. 128, lett. a
(concernente l'adeguamento alle previsioni della presente legge delle disposizioni dell'ordinamento dello
stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni), con il D.Lgs. 19.1.2017, n. 5, abbia finito proprio
con l'omologare la disciplina dell'unione civile a quella del matrimonio, in particolare facendosi rivivere quella
tempistica bifasica, nel matrimonio funzionale all'accertamento delle relative cause ostative. Né si è
mancato, addirittura, di rispecchiare la celebrazione matrimoniale, con la menzione dei commi relativi ai
diritti ed ai doveri delle parti, delineando, del resto, i contenuti del "documento attestante la costituzione
dell'unione" sulla falsariga dell' “atto di matrimonio" (di cui all'art.1).
Essendovi un diffuso consenso circa la sostanziale omogeneità delle cause ostative e dell'invalidità in
ordine alla costituzione dell'unione civile, rispetto al modello matrimoniale, pare qui il caso di limitarsi ad
accennare le (scarse) divergenze, per il resto rinviando alla trattazione precedentemente svolta.
Non si è fatto riferimento, innanzitutto, alla "inapponibilità di termini e condizioni", di cui all'art. 108.
Difficile è pensare, però, che non si sia trattato di una mera svista come tale inidonea a determinare una
qualche reale diversità rispetto al matrimonio: l'inapponibilità in questione deve, infatti, ritenersi
implicita caratteristica degli atti fondativi di uno status familiare, quale sicuramente è da considerare
quello che deriva alle parti dalla costituzione dell'unione civile.
Quanto all'età, una scelta precisa è stata quella nel senso di limitare alle "persone maggiorenni" l'accesso
all'unione civile. In ciò, indubbiamente, la relativa disciplina viene a differenziarsi rispetto a quella
matrimoniale (e di qui, di conseguenza, rilievi nel senso di un suo carattere discriminatorio). Peraltro, non
si può mancare di evidenziare come lo stesso legislatore della riforma abbia considerato, ai fini del
matrimonio, quale principio quello della maggiore età (84), la previsione del matrimonio del minore
risultando ridotta al rango di ipotesi eccezionale: un residuo di passate concezioni, quindi, la cui
liquidazione con riferimento all'unione civile sembra allinearsi ad altre previsioni, a ben vedere adombranti
innovative prospettive in materia familiare.
Piuttosto, non può sfuggire come, l'art. 1, nel riprodurre l'art. 122 (relativo ai vizi del consenso
matrimoniale) e, in particolare, l'art. 122, n. 1, abbia omesso il riferimento, ai fini della rilevanza dell'errore
sulle qualità personali, alla esistenza di una "anomalia o deviazione sessuale". Comunque, onde considerare
concretamente ininfluente una simile lacuna, può ricordarsi come la stessa omosessualità tenda ad
essere ormai presa in considerazione, in materia matrimoniale, non in una simile prospettiva, ma in
termini di "orientamento" atto a "definire l'identità sessuale" della persona: ricostruzione, questa , in
chiave di rilevanza dell'identità sociale della persona, che sembrerebbe, invero, riferibile anche alla
costituzione di una unione civile, ove viziata sotto il profilo della ricorrenza, appunto, di un (ignorato)
orientamento sessuale di una delle parti incompatibile con un progetto di vita comune conforme alla
ratio dell'istituto qui in esame.

EFFETTI DELLA UNIONE CIVILE


Anche in relazione alla regolamentazione degli effetti della costituzione dell'unione civile, vi è una
sostanziale equiparazione della posizione della parte dell'unione civile a quella del coniuge. Così, in
particolare, attraverso il richiamo integrale della disciplina in materia di regime patrimoniale (13) e
successorio (art. 121). Solo a complicazioni interpretative prestandosi, del resto, l'essersi voluto
(approssimativamente) trascrivere la disciplina concernente la protezione degli incapaci (1)
e quella relativa agli "ordini di protezione contro gli abusi familiari" (144). Assai più lineare, in effetti,
sarebbe stato semplicemente inserire anche la parte dell'unione civile, in aggiunta al coniuge, nelle
corrispondenti disposizioni codicistiche.
Vi sono, peraltro, taluni profili in ordine ai quali il legislatore sembra aver voluto prendere le distanze
dalla disciplina matrimoniale.
Manca, innanzitutto, un riferimento all'art. 78 (concernente il vincolo di affinità). Ma c'è da chiedersi se,
trattandosi di un vincolo certamente legato a concezioni familiari storicamente datate, non si sia anche
qui in presenza dell'emersione di una possibile linea di tendenza evolutiva dell'ordinamento.
Indubbiamente, l'ansia di differenziazione ha finito col trionfare nella riformulazione, nell'art. 1, del
contenuto degli artt. 143 e 144. Scarsa rilevanza, dal punto di vista sostanziale, assume, in proposito, il
tentativo di espunzione di ogni riferimento al carattere "familiare" dell'unione civile (parlandosi qui di
"bisogni comuni" cui orientare il dovere di contribuzione e di "residenza comune" come oggetto di
necessaria fissazione).
Resta l'espunzione del dovere di "collaborazione" e di quello di "fedeltà", evidentemente da ricollegare
all'idea (latente) che l'unione civile sia caratterizzata, rispetto al matrimonio, da un vincolo di minore
intensità.
Poco significativa pare l'omissione concernente il dovere di collaborazione, data la relativa incerta
perimetrazione a fronte del "dovere di assistenza morale e materiale".
Sicuramente di maggiore pregnanza si presenta l'omissione relativa al dovere di fedeltà. Comunque, la
relativa scarsa portata concreta emerge da due ordini di considerazioni.
In primo luogo, in relazione a tale dovere, è da tempo tramontata la sua angusta prospettiva legata alla
sfera della sessualità, finendo esso col risolversi nella valorizzazione di esigenze di lealtà, di dedizione (e
fiducia) reciproca e di rispetto della dignità dell'altra parte: esigenze che non possono non considerarsi
connaturate anche al rapporto di unione civile, come riflesso indefettibile dell'essere esso assunto
proprio quale unione di coppia, caratterizzata da esclusività (art. 14, lett. a), in quanto fondata su forti
legami di affetto e solidarietà. In secondo luogo, adeguato rilievo pare da accordare anche al risultare
estraneo alla disciplina dettata per la crisi dell'unione civile ogni riferimento all'istituto della separazione
personale, con quella possibilità di relativo addebito, in cui finisce tradizionalmente col risolversi
l'eventuale sanzione della violazione del dovere in questione.
Anche in relazione a quanto previsto, dall'art. 1, con riguardo alla problematica del cognome, come
elemento funzionale all'identificazione del gruppo familiare nella sua unitarietà, la ricerca di soluzioni
originali - rispetto a quelle attualmente vigenti per i coniugi (art. 143 bis, "cognome della moglie") - nella
regolamentazione dell'unione civile ha finito col risolversi nell'anticipazione di modelli di disciplina,
prevedibilmente destinati ad estendersi al rapporto matrimoniale nella prospettiva, evidentemente, del
superamento di residue discriminazioni tra coniugi in materia.
Infatti, con una soluzione rispettosa dell'uguaglianza delle parti, si stabilisce che esse, "per la durata
dell'unione civile", "possono stabilire di assumere un cognome comune scegliendolo tra i loro
cognomi" (restando comunque consentito alla parte il cui cognome non è stato scelto di "anteporre o
posporre al cognome comune il proprio cognome").
La disciplina dell'unione civile ha finito col lasciare (intenzionalmente) del tutto in ombra ogni questione
legata all'eventuale presenza di figli nel relativo nucleo familiare.
Ovviamente, una simile scelta di principio è destinata a demandare alla giurisprudenza di colmare la lacuna,
in quei casi in cui, già attualmente, un comune rapporto di filiazione giuridicamente rilevante venga
comunque a sorgere, in particolare attraverso l'adozione (secondo la legge italiana o all'estero). In
effetti, da una parte, manca un riferimento agli artt. 147 e 148, conservati in sede di novellazione della
disciplina della filiazione, per evidenziare che i doveri verso i figli costituiscono anche oggetto di una
reciproca pretesa nel contesto del rapporto coniugale. Dall'altra, in sede di finale definizione del testo
del provvedimento è caduta l'inizialmente contemplata - sul modello di altri ordinamenti - possibilità di
adozione del figlio dell'altra parte, nella prospettiva dell'adozione in casi particolari, ai sensi dell'art. 44,
lett. 6, L. 184/1983. Peraltro, con una formula carica di ambiguità, nell'art. 12 si è previsto, una volta
testualmente esclusa l'estensibilità alle parti dell'unione civile delle "disposizioni di cui alla legge 4 maggio
1983, n. 184, che "resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti"
CAP.3 CRISI CONIUGALE

UNITa’ E CRISI DELLA FAMIGLIA


La disciplina della crisi del rapporto coniugale rappresenta l'aspetto più delicato della regolamentazione
complessiva del fenomeno familiare.
Il legislatore è chiamato ad assicurare il rispetto della piena eguaglianza dei coniugi, garantendo l'interesse
dei figli ad idonee condizioni di sviluppo della personalità.
L'esigenza di realizzare un giusto equilibrio tra i valori di libertà e responsabilità, tende a indirizzare
l'intervento legislativo verso forme di prevenzione e risoluzione dei confitti familiari fondate sulla
valorizzazione dell'impegno degli interessati ad una consapevole ricerca di soluzioni condivise, quale via
maestra per assicurare una migliore tutela di tutti i soggetti coinvolti nella crisi.
Nel nostro ordinamento, non poche difficoltà interpretative sono legate alla persistente segmentazione
della regolamentazione (a doppio binario) della crisi familiare, tra codice civile, novellato nel 1975, in cui è
contemplata la separazione personale, e legislazione sul divorzio del 1970, a sua volta, prima integrata nel
1978, poi profondamente rivisitata nel 1987 (oggetto di anche successivi interventi). Impegno esegetico
notevole, quindi, ha richiesto la frammentazione e stratificazione della disciplina dettata con riferimento a
problematiche caratterizzate da omogeneità di esigenze, in caso di venir meno della famiglia come comunità
di vita.
Il principio da quale non può prescindere qualsiasi intervento legislativo è quello rappresentato dalla
protezione costituzionale del matrimonio e della famiglia, nella relativa interdipendenza.
Il carattere fondamentale della garanzia dell'unità familiare si presenta, in effetti, come valore
chiaramente emergente dall'art. 29 Cost. Prioritario risulta, quindi, nel caso di situazione di crisi, la
promozione del recupero del fisiologico funzionamento della comunità familiare, nella pienezza del suo
significato di "comunione spirituale e materiale".
I podromi della crisi del rapporto coniugale tendono a farsi avvertire attraverso l'insorgere di una
conflittualità in relazione alle decisioni concernenti la gestione della comunità familiare.
Le procedure di separazione personale e di divorzio sono indirizzate espressamente alla riconciliazione dei
coniugi attraverso l'apertura di spazi di riflessione e di ripensamento contro iniziative avventate e
dettate dal prevalere di fattori emozionali.
La necessità di garantire ai membri della famiglia condizioni di vita tali da non pregiudicarne in maniera
decisiva personalità e dignità ha indotto a propendere per una disciplina della crisi familiare che pone in
primo piano l'esigenza di non esasperare la situazione di conflittualità esistente tra i coniugi. L'adozione di
soluzioni della crisi familiare congegnate in modo tale da smussare l'esistente conflittualità, in quanto
fondate sulla valorizzazione del consenso delle parti, si impone specialmente per la tutela degli interessi dei
figli.

Separazione personale dei coniugi


Nel regime di indissolubilità del matrimonio, vigente fino all'introduzione del divorzio nel 1970, il venir meno della
comunione di vita coniugale e le sue conseguenze erano disciplinati esclusivamente attraverso la separazione
personale, comportante una modificazione dei rapporti tra i coniugi, destinati a restare, comunque, tali
(destinati, cioè, a rimanere nella condizione di separati a tempo indeterminato, in caso di mancanza di
riconciliazione).
—>Con l'introduzione del divorzio, la separazione personale, con la relativa conservazione del rapporto
coniugale, ha assunto i connotati di situazione funzionalmente provvisoria, dato che essa vale a determinare
una pausa di riflessione nei rapporti tra i coniugi, destinata a sfociare nel superamento della conflittualità,
con la riconciliazione, ovvero, in caso di constatata irreversibilità della crisi coniugale, nel divorzio:
nell'attuale quadro ordinamentale, quindi, l'eventuale persistenza della situazione di separazione, al di là di
quanto necessario per una meditata riflessione sulla sorte del rapporto, costituisce frutto di una libera
scelta di ambedue le parti nel senso della conservazione del rapporto stesso.
—>La riforma del 1975 ha abbandonato il previgente modello di separazione basato, almeno in mancanza
dell'accordo circa l'interruzione della convivenza e le relative conseguenze, sulla necessaria dimostrazione, da
parte del coniuge richiedente, di una responsabilità dell'altro (secondo un catalogo tassativo di colpe
coniugali: adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce, ingiurie gravi) (separazione per colpa).
L'opzione è stata per un modello di separazione fondato sulla mera constatazione di una situazione di
intollerabilità della convivenza, in quanto più aderente alle normali dinamiche della crisi coniugale e atto ad
evitare la massimizzazione delle lacerazioni, in vista sia di una possibile riconciliazione, sia dello stabilimento di
pacifici e dignitosi futuri rapporti reciproci, soprattutto nell'interesse dei figli.
Se rilevanti effetti l'ordinamento ricollega alla separazione legale, quale momento di formalizzazione della
crisi familiare anche nella prospettiva - in mancanza del ripristino della comunione di vita in quel necessario
periodo di riflessione nel quale la separazione stessa si traduce - del successivo divorzio, taluni effetti
derivano pure dalla mera separazione di fatto, che consegue alla decisione di interrompere la convivenza,
presa d'accordo o unilateralmente.

—>L'allontanamento dalla residenza familiare, se non fondato sull'accordo e privo di giusta causa,
determina la sospensione del diritto all'assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge che,
allontanatosi, rifiuti di tornarvi (art. 146), il quale vi resta invece tenuto. Costituisce giusta causa di
allontanamento, in particolare, la proposizione della domanda di separazione, annullamento e divorzio (art.
146).
—>La situazione di separazione di fatto, ritenuta ostativa all'adozione (art. 6 L. 4.5.1983, n. 184), risulta
parificata a quella legale ai fini della successione nel contratto di locazione ed è considerata causa di
divorzio, se iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970.
—>La separazione legale, nella sistematica del codice civile, può essere consensuale o giudiziale. Il legislatore,
con il D.L. 12.9.2014, n. 132, conv. nella L. 10.11.2014, n. 162, ha messo a disposizione degli interessati due nuove
procedure di definizione della crisi coniugale, comuni alla separazione personale e al divorzio (utilizzabili
anche per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio): quella consistente nella conclusione di una
convenzione di negoziazione assistita (la quale prevede pur sempre un intervento giudiziale di controllo)
(art. 6) e, in presenza di specifiche condizioni, quella fondata su un accordo innanzi all'ufficiale dello stato
civile (che si esaurisce, quindi, sul piano amministrativo) (art. 12).

a) SEPARAZIONE CONSENSUALE, Si fonda su un accordo dei coniugi, necessariamente esteso sia alla decisione
di separarsi, sia alla regolamentazione dei propri futuri rapporti reciproci e di quelli con i figli.
L'accordo produce effetti solo con l'omologazione giudiziale (art. 158), che è data con decreto del tribunale,
ad esito di un procedimento (in cui interviene il pubblico ministero) che inizia con un tentativo di
conciliazione e consiste in un controllo delle condizioni pattuite dai coniugi (non, invece, delle ragioni che
hanno indotto i coniugi a chiedere la separazione).
Ove gli accordi relativi all'affidamento ed al mantenimento dei figli siano reputati contrari ai loro interessi,
il tribunale indica le modificazioni che considera opportune (senza potersi sostituire alle parti
nell'apportarle) e, nel caso di inadeguata soluzione adottata dai coniugi, può rifiutare l'omologazione (art.
158).

b) Ciascuno dei coniugi può chiedere la separazione giudiziale sul fondamento di situazioni tali da rendere
intollerabile la prosecuzione della convivenza o da esporre a grave pregiudizio la educazione della prole (art.
151). L'accento posto dalla stessa norma, poi, sul poter essere una simile situazione indipendente dalla
volontà di uno o di entrambi i coniugi attesta come la separazione, sia vista quale rimedio ad una situazione
di crisi familiare. Di conseguenza, si è ritenuto necessario che l'intollerabilità abbia carattere oggettivo.
Un compromesso dell'ultimo momento in sede di riforma ha, però, indiscutibilmente nuociuto alla linearità
del sistema, incentrato su quel carattere rimediale della separazione, che dovrebbe valere ad evitare,
nell'interesse dei coniugi e (soprattutto) della prole, la conflittualità inevitabilmente innescata da giudizi
condotti in termini di responsabilità.
Ci si riferisce alla conservazione della possibilità di perpetuare la prospettiva sanzionatoria della
separazione, attraverso la richiesta e la conseguente dichiarazione di addebitabilità della separazione al
coniuge, "in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio" (art.
151). L'addebito (che può essere pure dichiarato, su reciproca richiesta, a carico di entrambi i coniugi),
infatti, produce conseguenze tanto rilevanti da indurre le parti, nella prassi, a richiederne correntemente
la pronuncia.
L'abrogazione dell'art. 151 risulta, quindi, a ragione insistentemente proposta.
Solo abbastanza di recente, del resto, la giurisprudenza ha ritenuto inammissibile il c.d. mutamento del
titolo della separazione, la possibilità, cioè, di chiedere una pronuncia di addebitabilità per comportamenti
successivi alla separazione, trasformando una separazione consensuale (o giudiziale senza addebito) in
separazione con addebito. Possibilità - incentivo ad una persistente conflittualità e fonte di ricatti nei
confronti del coniuge economicamente più debole - che risulta in contrasto con la lettera dell'art. 151, ove
l'ammissibilità della richiesta e della dichiarazione di addebitabilità risulta ristretta al giudizio di
separazione.
La tendenza a disciplinare la separazione personale in modo tale da non esasperare la conflittualità, causa
della crisi coniugale, si presenta evidentemente funzionale alla conservazione degli ancora sussistenti
elementi di coesione tra i coniugi, in vista di una eventuale ripresa, nella sua pienezza, del consorzio
coniugale o, almeno, di successivi rapporti collaborativi, soprattutto nell'interesse dei figli.
Una indubbia valorizzazione dei profili di consensualità nella definizione della crisi familiare si è avuta con il
ricordato recente intervento del legislatore, tendente a introdurre (con una disciplina approssimativa,
equivoca e, sotto molti profili, lacunosa) due nuove procedure, comuni a separazione personale e divorzio
(e utilizzabili anche per la modifica delle relative condizioni) (artt. 6 e 12 D.L. 132/2014, conv. nella L. 162/2014).
c) La convenzione di negoziazione assistita (art. 6) è conclusa, con l'assistenza di almeno un avvocato per
parte, "al fine di raggiungere una soluzione consensuale" di separazione personale.
Fondamentale, in tale procedura risulta il ruolo degli avvocati: essi, infatti, devono operare un tentativo di
conciliazione delle parti, informarli circa la possibilità di esperire la mediazione familiare e, in presenza di
figli minori, informarli "dell'importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei
genitori". Essi devono, altresì, assicurare l'attuazione del necessario l'intervento di controllo in sede
giudiziale, nonché adempimenti nei confronti dei competenti uffici dello stato civile.
In relazione all'accennato controllo giudiziale, esso si presenta più semplice in assenza di figli (minori,
nonché maggiorenni economicamente non autosufficienti, incapaci o portatori di handicap grave).
L'accordo dev'essere trasmesso al procuratore della repubblica presso il tribunale competente e, ove non
siano riscontrate irregolarità, viene comunicato agli avvocati, per i successivi adempimenti, un nullaosta.
In presenza di figli (rientranti nelle accennate categorie), la procedura risulta più complessa. L'accordo
pure sarà trasmesso all'ufficio del pubblico ministero, che ne valuta la rispondenza agli interessi dei figli e,
in caso di esito positivo di tale controllo, lo autorizza. In caso di valutazione negativa, l'accordo viene
comunicato al presidente del tribunale, che fissa la comparizione delle parti e provvede senza ritardo.
L'accordo produce gli stessi effetti del corrispondente provvedimento giudiziale (di separazione
personale, divorzio o modifica delle relative condizioni).

d) L'accordo innanzi all'ufficiale dello stato civile (art. 12, specifica "innanzi al sindaco, quale ufficiale dello
stato civile"), che contempla l'assistenza facoltativa dell'avvocato, concerne la separazione personale
(nonché il divorzio o la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio). Tale procedura - di carattere
amministrativo - non è ammessa, però, in presenza di figli.
Per assicurare il carattere ponderato della loro comune decisione, è stato previsto - in caso di procedura
concernente separazione o divorzio - che l'ufficiale dello stato civile, il quale riceve le dichiarazioni dei
coniugi, li invita a comparire nuovamente, per confermare l'accordo (la mancata comparizione equivalendo
a mancata conferma). Si è previsto che, in questa procedura, "l'accordo non può contenere patti di
trasferimento patrimoniale".
Qui, ovviamente, è lo stesso ufficiale dello stato civile a curare i successivi necessari adempimenti. Anche in
questo caso, l'accordo produce gli stessi effetti del corrispondente provvedimento giudiziale.
La separazione personale, lascia sussistere il vincolo coniugale.
Per riconciliazione si intende l'accordo con cui i coniugi fanno cessare gli effetti della separazione, non
essendo richiesto, a tal fine, l'intervento giudiziale. Non solo, infatti, è sufficiente una dichiarazione
espressa, ma il medesimo risultato è conseguibile, addirittura, tacitamente con un comportamento non
equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione, in quanto attestante, appunto, il ripristino
della comunione di vita (art. 157).
La riconciliazione vale a privare di rilevanza quanto verificatosi in precedenza, potendo la separazione
essere nuovamente pronunciata solo per fatti e comportamenti intervenuti successivamente ad essa
(art. 157). Interrompe il decorso del periodo di separazione richiesto per il divorzio (ai cui fini, occorrerà,
quindi, una nuova procedura di separazione ed il decorso, da essa, del periodo di tempo richiesto).
EFFETTI DELLA SEPARAZIONE PERSONALe
La separazione determina, con la cessazione della convivenza, una modificazione del rapporto coniugale,
soprattutto con riguardo ai rapporti personali. È da ritenere che permanga - in quel periodo che
l'ordinamento assume come necessaria fase di riflessione - tra i coniugi un rapporto solidaristico,
destinato a cessare solo col divorzio (ed il conseguente riacquisto dello stato libero), (doverosa si
presenta l'assistenza morale, materiale, ed un peculiare dovere di rispetto reciproco).
Sicuramente coerenti con la situazione di cessazione della convivenza in cui si risolve la separazione sono, sul
piano personale, il venir meno della presunzione di concepimento durante il matrimonio (art. 232), nonché
l'esclusione della possibilità di adozione; su quello patrimoniale, lo scioglimento della comunione legale (art.
191).
La separazione, a conferma della sopravvivenza del rapporto coniugale, non priva la moglie del diritto all'uso
del cognome del marito, salvo divieto giudiziale, quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole. Il giudice
può autorizzare, nelle stesse condizioni, la moglie a non farne uso (da ritenere, quindi, per lei, in linea di
principio, doveroso) (art. 156 bis).
Se con la separazione, venendo meno la convivenza, si ritiene cessare il dovere (reciproco) di contribuzione,
sulle sue ceneri, in considerazione del vincolo solidaristico ed assistenziale che continua a legare i coniugi,
sorge il dovere di sopperire alle esigenze del coniuge economicamente meno provveduto. Al coniuge cui non
sia addebitabile la separazione spetta, così, un assegno di mantenimento, qualora non abbia adeguati redditi
propri, dovendosi determinare l'entità della somministrazione in rapporto alle risorse economiche dell'altro
coniuge (art. 156). Per la valutazione della disparità economica tra i due coniugi, occorre tenere presente la
situazione patrimoniale complessiva di ciascuno, da ritenere comprensiva non solo dei redditi ma anche dei
cespiti (soprattutto se facilmente monetizzabili) e di ogni altra utilità a disposizione (non essendo da
trascurare, in particolare, le concrete attitudini e potenzialità in campo lavorativo).
L'obiettivo è quello di consentire al coniuge economicamente più debole la conservazione di un tenore di vita
analogo a quello goduto in precedenza.
L'ammessa rivedibilità del contributo riconosciuto in sede di separazione (art. 156) assicura il
perseguimento di un simile obiettivo (proteggendo, peraltro, anche il coniuge obbligato, tanto nel caso di
modificazione peggiorativa delle sue condizioni economiche, quanto in quello di un eventuale miglioramento
delle condizioni economiche dell'altro).
All'assegno di mantenimento viene, poi, applicata, in via analogica, la disposizione dettata per l'assegno di
divorzio (art. 57 L. 1.12.1970, n. 898), relativa all'adeguamento monetario automatico in dipendenza della
svalutazione.
È da ricordare come l'art. 156 preveda pure incisive garanzie per la corresponsione dei contributi dovuti in
conseguenza della separazione (in particolare, il sequestro dei beni dell'obbligato e l'ordine giudiziale di
pagamento rivolto a terzi, a loro volta, suoi debitori).
Il coniuge cui sia stata addebitata la separazione non gode, invece, del diritto all'assegno di mantenimento,
potendo vedersi attribuire solo un più esiguo assegno alimentare, se versi (o venga successivamente a
versare) in condizione di bisogno, secondo la generale disciplina dettata, per gli alimenti, dagli artt. 433 ss.
(art. 156).
Si tratta di una conseguenza di notevole rilevanza della dichiarazione di addebitabilità, in considerazione della
diversità sia delle condizioni che consentono, rispettivamente, l'attribuzione dell'assegno di mantenimento e
di quello alimentare, sia della relativa entità.
Mentre, infatti, il coniuge cui non è addebitata la separazione continua a godere in pieno dei diritti
successori che gli derivano dalla qualità, appunto, di coniuge (artt. 548 e 585), quello al quale la separazione sia
stata addebitata ha diritto solo ad un assegno vitalizio, ove al momento della morte dell'altro coniuge goda
degli alimenti a suo carico. Tale assegno (da commisurare alle sostanze ereditarie ed alla qualità e al numero
degli eredi legittimi) non può, inoltre, essere di ammontare superiore a quello alimentare goduto in
precedenza (artt. 548 e 585).
DIVORZIO
Difficile è stato, nel nostro ordinamento, il passaggio, con la L. 898/1970 detta anche legge Fortuna-Baslini,
dal regime di indissolubilità del matrimonio a quello di dissolubilità: l'esigenza di rendere meno traumatico
possibile un simile passaggio ha finito col condizionare molte scelte in proposito, addirittura sconsigliando
lo stesso impiego del termine "divorzio" nella relativa legislazione, non a caso lasciata fuori del codice civile,
nell'iniziale incertezza, oltretutto, della sua sorte.
Il matrimonio, secondo il vigente art. 149, si scioglie con la morte di uno dei coniugi e negli altri casi previsti
dalla legge (nel testo originario, invece, era presa in considerazione solo la morte). Alla "disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio" è intitolata, appunto, la legge ricordata, la quale distingue la pronuncia di
scioglimento del matrimonio civile (art. 1) da quella di cessazione degli effetti civili conseguenti alla
trascrizione del matrimonio concordatario (art. 2), per chiarire che il provvedimento giudiziale incide qui
non sull'atto, ma sugli effetti del matrimonio (cioè sul rapporto). Ciò soprattutto, in considerazione della
peculiarità del nostro sistema matrimoniale, per fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale in ordine
all'intervento statale in materia, in presenza delle competenze riconosciute dalla disciplina concordataria
(garantita dall'art. 7 Cost.) alla Chiesa in ordine all'atto matrimoniale ed all'accertamento della relativa
validità.
Il modello di divorzio accolto nel nostro ordinamento ed il suo fondamento si colgono nell'essere la relativa
pronuncia conseguente all'accertamento "che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può
essere mantenuta o ricostituita" (artt. 1 e 2). Un tale modello, che vede il divorzio quale presa d'atto
dell'irreversibilità della crisi del rapporto coniugale e rimedio alla sua definitiva frattura (c.d. divorzio-
rimedio), si contrappone a quello tendente a configurarlo quale sanzione per la violazione dei doveri
matrimoniali (c.d. divorzio-sanzione). Proprio una simile concezione del divorzio ha consentito, del resto, la
conclusione nel senso della legittimità dell'istituto, pur in presenza della garanzia costituzionale della
famiglia e del matrimonio, di cui all'art. 29 Cost.
La pronuncia di divorzio - una volta esperito il tentativo di conciliazione - richiede la necessaria ricorrenza
di una delle cause elencate (tassativamente) nell'art. 3.
Su di esse ha inciso la riforma del divorzio operata con la L. 6.3.1987, n. 74, la quale, in particolare, ha
abbreviato il periodo di separazione personale, il cui decorso rappresenta, nella più gran parte dei casi, la
causa su cui si basa, appunto, la pronuncia (valendo, evidentemente, la persistenza della separazione, al di là
del tempo reputato dall'ordinamento necessario per un'adeguata riflessione delle parti in ordine alla sorte
del proprio rapporto matrimoniale, ad attestare 'irreversibilità della relativa frattura). Il periodo di
separazione è stato, poi, ulteriormente e drasticamente abbreviato - oltre che differenziato - dall'art. 1 L.
6.5.2015, n. 55.
—>La separazione legale rappresenta, dunque, la più diffusa causa di divorzio (la separazione di fatto rileva
solo se iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970). Essa deve essersi protratta ininterrottamente
per almeno dodici mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella
procedura di separazione personale ovvero per sei mesi nel caso di separazione consensuale. Il decorso del
termine finisce col coincidere, quindi, con lo svolgimento della procedura di separazione, la quale deve
risultare anche conclusa prima della domanda di divorzio (col passaggio in giudicato della relativa sentenza
o con la omologazione della separazione consensuale) (art. 3, n. 2, lett. b).
Inoltre, il divorzio può essere chiesto da uno dei coniugi quando l'altro sia stato condannato, dopo la
celebrazione del matrimonio, con sentenza passata in giudicato (anche per fatti precedenti), all'ergastolo
o a pena superiore a quindici anni, ovvero a qualsiasi pena detentiva per incesto, per reati sessuali, per
reati connessi alla prostituzione, per reati gravissimi contro la persona del figlio o dello stesso coniuge,
per reati contro l'assistenza familiare (art. 3, n. 1, lett. a, b, c, d).
In tutte queste ipotesi, la domanda non è proponibile in caso di concorso nel reato e ove la convivenza
coniugale sia ripresa. Il divorzio può essere chiesto, poi, anche se l'altro coniuge è stato assolto per
infermità di mente da taluni dei delitti dianzi accennati (art. 3, n. 2, lett. a), nonché nel caso di estinzione del
reato per gli stessi delitti (art. 3, n. 2, lett. c) e di procedimento per incesto per il quale non vi sia stata
condanna per carenza del "pubblico scandalo" (art. 3, n. 2, lett. d).
Altre cause di divorzio sono rappresentate: dall'avere l'altro coniuge, cittadino straniero, ottenuto
all'estero l'annullamento del matrimonio o il divorzio, ovvero contratto all'estero nuovo matrimonio (art. 3,
n. 2, lett. e); dalla mancata consumazione del matrimonio (art. 3, n. 2, lett. f); dall'essere passata in giudicato
sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, a norma della L. 14.4.1982, n. 164 (art. 3, n. 2, lett. g). Con tale
ultima previsione, si è inteso riportare nell'alveo della disciplina generale del divorzio la previsione dell'art. 4
della legge citata, per cui "la sentenza di rettificazione di sesso provoca lo scioglimento del matrimonio" (lo
"determina" , secondo la terminologia impiegata dall'art. 31 D.Lgs. 1.9.2011, n. 150).
Notevoli sono state, pure in sede di riforma del 1987, le remore nei confronti della valorizzazione
dell'elemento consensuale in relazione allo scioglimento del matrimonio, temendosi uno snaturamento
dell'esistente modello di divorzio. Quale soluzione di compromesso, è stata consentita la proposizione di
una domanda congiunta di divorzio, "che indichi anche compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai
rapporti economici" (art. 416): da essa non viene fatta dipendere un'abbreviazione del necessario periodo
di separazione, ma una mera semplificazione della procedura di divorzio.

—>Si è inteso offrire una via più rapida della procedura ordinaria, quando l'infruttuoso trascorrere del
periodo di separazione convinca della irreversibilità della frattura coniugale, indirizzando le parti nel
senso di una gestione concordata delle conseguenze della - concordemente perseguita - dissoluzione del
matrimonio, quale soluzione atta a meglio evitare presenti e future conflittualità (anche nell'interesse dei
figli).
Il procedimento di divorzio su domanda congiunta si svolge con rito abbreviato ("in camera di consiglio"): il
tribunale, sentiti i coniugi, verificata l'esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle
condizioni concordate all'interesse dei figli, decide con sentenza (con la quale vengono disposti i
provvedimenti concernenti i coniugi ed i loro rapporti con i figli). Ove, peraltro, il tribunale ravvisi che le
condizioni concordate relativamente ai figli siano in contrasto con i loro interessi, il procedimento
prosegue con la procedura ordinaria.

EFFETTI DEL DIVORZIO


Il tribunale, con l'intervento obbligatorio del pubblico ministero, pronuncia con sentenza lo
scioglimento del matrimonio, ordinando la relativa annotazione all'ufficiale dello stato civile
competente (art. 5). Il divorzio, infatti, ha "efficacia, a tutti gli effetti civili, dal giorno
dell'annotazione della sentenza" (art.
103). Da tale momento, riacquistato lo stato libero, ciascuno degli ex coniugi può contrarre nuove
nozze.
In conseguenza del divorzio, la donna perde il cognome del marito (art. 5), ma può essere autorizzata
(dal tribunale nella sentenza di divorzio) a conservarlo, ove sussista un interesse meritevole di tutela
suo o dei figli (art. 5).
Per quanto concerne gli effetti patrimoniali, il legislatore è chiamato ad una difficile mediazione tra
l'esigenza di tutela del coniuge più debole ed il perseguimento dell'obiettivo, a seguito dello scioglimento
del matrimonio, di un'effettiva eliminazione del vincolo coniugale.
A tale ultimo riguardo, non si può trascurare di sottolineare come alla base del riconoscimento del
divorzio sia proprio l'accoglimento di una istanza di libertà.

—>Anche a seguito della riforma del 1987, esplicitamente finalizzata alla "tutela del coniuge
economicamente più debole" , ha continuato a sussistere, comunque, la contraddittoria convivenza di
due modelli di tutela: l'uno, fondato su istanze solidaristico-assistenziali (diffusamente evocate col
richiamo ad una pretesa solidarietà postconiugale); l'altro, invece, sul riconoscimento a ciascun
coniuge di una vera e propria aspettativa ad una compartecipazione alla complessiva situazione
economica della famiglia, quale venutasi a realizzare col contributo di ambedue i coniugi alla vita
familiare.
Una simile contraddittorietà ha finito col condizionare la ricostruzione della figura dell'assegno di
divorzio, quale essenziale strumento finalizzato ad assicurare, la tutela “del coniuge economicamente
più debole” in dipendenza del divorzio.
In tale disposizione, il suo presupposto viene individuato nella mancanza di mezzi adeguati" e nella
impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (in particolare, per l'impossibilità di svolgere
un'idonea attività lavorativa), essendo inoltre prescritto che si debba tenere conto di una serie di
criteri, rispecchianti il concreto "vissuto" matrimoniale (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione,
contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del
patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi: indici, tutti da apprezzare in rapporto
alla durata del matrimonio).

—>L’accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi disponibili e la conseguente determinazione


dell'assegno, devono avvenire attraverso l'applicazione dei criteri individuati nell'art. 5, decisivi, allo
stesso tempo, tanto per l'attribuzione, quanto per la quantificazione dell'assegno: criteri, questi,
atti a sostanziare una valutazione complessiva e comparativa della situazione delle parti al momento
del venir meno della compagine coniugale.
Dell'assegno, in quanto periodico e, quindi, destinato a durare nel tempo, deve essere assicurato
l'adeguamento automatico con riferimento agli indici di svalutazione monetaria (art. 5). La sua
corresponsione è garantita, oltre che dall'eventuale imposizione di garanzie all'obbligato, dalla possibilità,
per il beneficiario, di ottenerne il pagamento diretto da chi deve corrispondere periodicamente
all'obbligato stesso somme di danaro (in particolare, dal suo datore di lavoro) (art. 8), nonché, in quanto
tale, dall'irrogazione di sanzioni penali a carico dell'ex coniuge inadempiente.
Le disposizioni concernenti l'assegno per l'ex coniuge (così come quelle relative all'affidamento dei figli ed ai
contributi a loro favore) possono essere, ove sopravvengano giustificati motivi legati alla evoluzione delle
condizioni personali ed economiche degli ex coniugi, assoggettate a revisione (art. 9), con conseguente
possibile modificazione del relativo ammontare. L'obbligo di corrisponderlo cessa, poi, se il beneficiario
contrae un nuovo matrimonio (art. 5).
—>L’assegno periodico può essere sostituito, previo accordo delle parti, da una prestazione detta “una
tantum” (consistente in somme di danaro, titoli obbligazionari e azionari o beni immobili). Si tratta di una
soluzione, sicuramente più rispettosa dell'opportunità di non perpetuare, pure a tempo indeterminato,
rapporti (anche solo economici) tra gli ex coniugi. Poiché nessuna pretesa economica ulteriore - anche di
carattere solo alimentare - può essere successivamente avanzata, la prestazione pattuita (è da ritenere
anche in caso di domanda congiunta di divorzio) deve essere ritenuta equa dal tribunale (art. 5).
Il divorzio determina il venir meno dei diritti in ordine alla successione del coniuge.
Spetta, peraltro, un assegno periodico a carico dell'eredità, di natura alimentare, all'ex coniuge cui sia
stato, in precedenza, riconosciuto il diritto all'assegno di divorzio e che versi in stato di bisogno. Esso non
compete in caso di corresponsione una tantum di quanto dovuto in dipendenza del divorzio e si estingue nel
caso di passaggio del beneficiario a nuove nozze o ove venga meno il bisogno (in tale ultima ipotesi, con
possibilità di reviviscenza) (art. 9 bis).

—>Il riconoscimento del diritto all'assegno di divorzio condiziona, inoltre, la tutela previdenziale del
divorziato. Solo in quanto titolare di esso, infatti, quest'ultimo, in caso di morte dell'ex coniuge (e,
ovviamente, se non passato a nuove nozze), ha diritto alla pensione di reversibilità (art. 9).
—>Ove esista - nell'ipotesi di successivo matrimonio dell’ex coniuge - anche un coniuge superstite, il
trattamento di reversibilità deve essere dal tribunale ripartito tra gli eventi diritto (eventualmente più di
due, nell'ipotesi di una pluralità di successivi matrimoni) (art.9). Per la ripartizione è previsto il criterio della
durata dei rispettivi rapporti matrimoniali.
Il divorziato ha anche diritto ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro ex
coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro. Anche a tal fine, il divorziato deve essere titolare
dell'assegno di divorzio. La quota è pari al quaranta per cento della indennità, con riferimento agli anni in
cui il matrimonio sia coinciso col rapporto di lavoro (art. 12 bis).
SCIOGLIMENTO DELLA UNIONE CIVILE
La disciplina della crisi dell'unione civile presenta, rispetto a quella fin qui esaminata concernente il
matrimonio, tratti di notevole originalità: tratti che, pur riconducibili forse ad una visione dell'unione
civile come destinata ad una maggiore instabilità del matrimonio (in quanto caratterizzata da una
pretesa minore intensità solidaristica), finiscono col risolversi nella prospettazione di un modello di
disciplina della crisi familiare, il quale, recependo diffuse istanze già emerse a livello normativo e
giurisprudenziale, appare probabilmente destinato ad imporsi anche in materia matrimoniale.

—>In primo luogo, così, non si è esteso all'unione civile l'istituto della separazione personale. Opzione,
questa, ragionevole, dato che, nel nostro ordinamento, tale istituto, con la relativa disciplina,
sembra ancora troppo largamente condizionato dalla sua storica funzione di alternativa al divorzio.
—>In una simile prospettiva, allora, pare soluzione ragionevole l'essersi limitato il legislatore a
prevedere una pausa di riflessione di tre mesi tra una prima manifestazione di volontà di
scioglimento dell'unione civile, "dinanzi all'ufficiale dello stato civile", e la successiva proposizione della
domanda di scioglimento (art. 124 L.76/2016). È chiaro come si sia, in tal modo, introdotta una nuova
causa di divorzio, sostitutiva, limitatamente all'unione civile, di quella rappresentata, in materia
matrimoniale, dalla pregressa separazione personale, che lascia comunque ferma, ovviamente, la
necessità di azionare una delle procedure attualmente previste per lo scioglimento del vincolo.
—>In proposito, l'art. 12 richiama in blocco, appunto, l'art. 4 L. 898/1970, disciplinante la procedura di
divorzio, nonché, le recentemente introdotte procedure, di cui agli artt. 6 e 12 D.L. 132/2014, conv. con
L. 162/2014 (rispettivamente, convenzione di negoziazione assistita e accordo innanzi all'ufficiale di
stato civile), evidentemente ove ne ricorra la condizione, rappresentata dall'accordo circa il ricorso
ad una delle procedure extragiudiziali di definizione della crisi familiare. Di conseguenza, in caso
d'iniziativa unilaterale (prevedendo l'art. 1 che la manifestazione della "volontà di scioglimento" possa
avvenire pure "disgiuntamente" e, quindi, provenire anche da una sola delle parti dell'unione civile), la via
non potrà che essere quella della procedura giudiziale (sulla base, appunto, della nuova peculiare
causa di divorzio).
—>Quanto agli effetti dello scioglimento dell'unione civile, l'art. 1 rinvia in toto alla disciplina dettata
dalla L. 898/1970, con la sola esclusione delle relative parti concernenti il cognome della moglie (art.
524), nonché le problematiche che investono i rapporti con i figli (art. 6 L. 898/1970, in coerenza con
l'atteggiamento accennato supra, V, 2.17)».
Di conseguenza, in relazione ai riflessi patrimoniali dello scioglimento dell'unione civile non si può qui
che rinviare alla trattazione svolta supra.
CAP.4 FILIAZIONE

FILIAZIONE: ATTUALE ARTICOLAZIONE DELLA DISCIPLINA


La disciplina della filiazione è forse quella che ha più inciso sulla legislazione in materia familiare.
Si tratta di una progressiva e globale revisione che, muovendo dall'art.30 della costituzione trova il suo
fulcro nella riforma del 1975 e il suo completamento nell’intervento operato dalla legge 219/2012.
I principi fondamentali sono quelli risultanti dall'art.30, il cui primo comma 1 sancisce che è “un dovere e
diritto dei genitori provvedere al mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, anche quelli nati fuori dal
matrimonio”.
Di particolare importanza risulta l'esigenza di garantire al minore il più completo sviluppo della persona
umana; inoltre va evidenziato come la genitorialità rappresenti espressione della personalità del genitore,
esso implica il diritto all’esercizio di funzioni. Tuttavia l'ordinamento prevede che nel caso in cui il genitore o i
genitori risultino incapaci questi sono sollevati da tali obblighi verso i figli.
La disciplina che viene fuori dalla riforma prende le nette distanze dal precedente modello caratterizzato
dalla discriminazione legata ai figli nati al di fuori del matrimonio, poiché appunto l’obiettivo principale è
proprio la tutela della personalità in via di formazione del figlio.
Tale categoria oggi trova una sua tutela nel comma 3 dell'art. 30 della costituzione secondo cui, per i figli
nati al di fuori del matrimonio l'ordinamento prevede una forma di “tutela giuridica e sociale”.

I risultati conseguiti dalla riforma del 1975 sono stati oggetto di un unanime apprezzamento raggiungendo
così l'equiparazione sostanziale tra i figli nati nel matrimonio e i figli nati al di fuori del matrimonio. Tuttavia
sul piano quotidiano permaneva ancora qualche contrasto tra filiazione legittima e filiazione naturale, cioè
i figli nati al di fuori del matrimonio.
L’obiettivo finale perseguito dal legislatore con la legge 219/2012 fu quello di superare qualsiasi residua
discriminazione tra i figli e unificare i due termini, ossia filiazione nel matrimonio e filiazione fuori il
matrimonio, sotto lo status di figlio.
Principio che, enunciato in termini che non lasciano spazio a possibili equivoci nel nuovo art. 3 15 ("Tutti i figli
hanno lo stesso stato giuridico"), trova la sua più significativa espressione nella riscrittura dell'art. 74 ai
fini della sussistenza del vincolo di parentela e della sua rilevanza giuridica, alla discendenza in quanto tale,
radicata o meno che sia nel matrimonio.
Tale unitarietà è stata completata poi sul piano lessicale provvedendo ad una sostituzione nel codice civile
della terminologia di figli legittimi e figli naturali con quella di figli.
Non si è, comunque, inteso superare la rilevanza tradizionalmente accordata al matrimonio ai fini
dell'attribuzione al nato dello stato di figlio, continuando ad articolare di conseguenza la relativa materia a
seconda che la nascita avvenga nel matrimonio o fuori di esso. Anche al riguardo, quindi, è rimasta l'esigenza
di una eventuale diversità di qualificazione, recepita nell'art. 2, laddove si fa "salvo l'utilizzo delle
denominazioni di 'figli nati nel matrimonio' o di 'figli nati fuori del matrimonio' quando si tratta di
disposizioni a essi specificamente relative".
Si può, ormai, ritenere pienamente attuata nell'ordinamento l'impostazione di fondo emergente dall'art. 30
Cost., che conferisce rilevanza al fatto della procreazione assicurando incondizionatamente al procreato
il soddisfacimento delle sue esigenze esistenziali. Lo stesso accertamento formale dello status filiationis,
attraverso procedure amministrative e giudiziali, risulta oggetto di un vero e proprio diritto del
procreato, che non può trovare limiti se non nel suo stesso interesse.

Per l'instaurazione di un rapporto di filiazione, in mancanza di procreazione, filiazione civile, risulta essere di
particolare importanza l'istituto dell'adozione atto alla tutela dell'interesse del nato che si trovi
irrimediabilmente senza assistenza.
Anche in tema di procreazione medicalmente assistita l'unico interesse rilevante non può che essere quello
del generato, dovendosi conseguentemente adattare, in vista della sua migliore tutela, i principi che
governano il rapporto tra derivazione biologica e responsabilità genitoriale.
L’ATTO DI NASCITA
L'atto di nascita assume una fondamentale importanza in quanto presenta la funzione di strumento di
accertamento formale del rapporto di filiazione, anche attraverso il regime delle prescritte annotazioni
degli atti relativi alle vicende via via incidenti sulla situazione personale del soggetto.
Proprio per la sua efficacia probatoria lo si definisce in termini di titolo dello stato di figlio.
L'atto di nascita è formato sulla base della dichiarazione di nascita, correlato dall'attestazione di
avvenuta nascita, resa all'ufficiale dello stato civile da parte di uno dei due genitori, dal procuratore o da
parte di chi ha assistito al parto.
Viene sottolineato come la madre possa esprimere la volontà di non essere nominata in tale atto, volontà
che deve essere rispettata.
Nell'atto di nascita sono menzionate le generalità, cittadinanza e residenza dei genitori legittimi oppure di
chi intende proporre una dichiarazione di riconoscimento di filiazione naturale.

ACCERTAMENTO DELLA FILIAZIONE


Per l'attribuzione dello stato di figlio, si continua a seguire il tradizionale indirizzo, tendente a
valorizzare il rapporto coniugale della madre: è considerato padre il marito della madre, se il
concepimento o la nascita sono avvenute durante il matrimonio (presunzione di paternità: art. 231).
Al fine di fissare il tempo del concepimento, è prevista una presunzione di concepimento durante il
matrimonio (art. 232). Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato non oltre 300 giorni
dall'annullamento del matrimonio, dal relativo scioglimento (per morte o divorzio), dalla separazione
personale, ovvero dalla data dell'udienza di prima comparizione in tali giudizi (ove i coniugi siano stati
autorizzati a vivere separatamente) (art. 232).
Del nato dopo i 300 giorni, per il quale non opera tale presunzione, ciascuno dei coniugi ed i loro eredi
possono provare il concepimento durante il matrimonio (o la convivenza nei casi considerati dall'art.
232) (art. 234).
Il figlio può, comunque, proporre azione per provare di essere stato concepito durante il matrimonio
(art. 234).
La prova della filiazione avviene attraverso l'atto di nascita e, in sua mancanza, dimostrando il continuo
possesso di stato di figlio (art. 236).
Quest'ultimo risulta da un serie di fatti, dai quali sia complessivamente consentito desumere, per il
soggetto, la relazione di filiazione e di parentela con la famiglia a cui pretende di appartenere (art. 237).
Devono concorrere il trattamento (l'essere sempre stato trattato come figlio, risultando assolti, nei
suoi confronti, gli obblighi che la legge pone a carico dei genitori), la fama (l'essere sempre stato
considerato come figlio nei rapporti sociali e riconosciuto come tale in famiglia, da intendere qui in una
accezione allargata) (art. 237).
L'atto di nascita preclude la pretesa all'attribuzione di uno stato diverso (art. 238): è necessario, a tal
fine, l'esercizio di una delle azioni (definite azioni di stato, in cui deve intervenire il pubblico ministero), che
la legge prevede tassativamente per l'accertamento, appunto, di uno stato diverso da quello risultante
dall'atto di nascita (con la sua conseguente modificazione).

a) La presunzione di paternità del marito (evidentemente con riferimento alla filiazione nel matrimonio)
può essere vinta con l'azione di disconoscimento di paternità.
L'azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata, oltre che
dal marito anche dalla madre e dal figlio (art.243 bis); inoltre il legislatore richiede semplicemente che chi
agisce provi (con ogni mezzo) "che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto
padre" (art. 243 bis). Si è ribadito, inoltre, che la sola dichiarazione della madre (in particolare, quindi,
l'ammissione di avere commesso adulterio) non vale ad escludere la paternità del marito (art. 243 bis).
I termini per l'esercizio dell'azione sono diversi a seconda del soggetto legittimato.
Il marito può agire entro un anno decorrente dalla nascita, quando egli si trovava nel luogo di essa,
ovvero, in caso di lontananza, dal giorno del suo ritorno (se prova di non aver avuto notizia della nascita
al momento del ritorno, dal giorno in cui ne abbia avuto notizia). Se prova di avere ignorato la propria
impotenza di generare, ovvero l'adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre solo
dal giorno in cui ne abbia avuto conoscenza (art. 244).
La madre può agire entro sei mesi dalla nascita (art. 244), ovvero dal giorno in cui sia venuta a
conoscenza dell'impotenza di generare del marito.
si è preclusa la possibilità di proporre, da parte della madre e del marito, l'azione di disconoscimento
oltre i cinque anni dal giorno della nascita (art. 244).
Per il figlio minorenne, l'azione può essere promossa da un curatore speciale, nominato dal tribunale
(ordinario) su istanza dello stesso minore che abbia compiuto i quattordici anni, ovvero del pubblico
ministero, se di età inferiore (art. 244).
b) L'azione di reclamo dello stato di figlio può essere proposta, per far valere uno stato di figlio diverso
da quello emergente dall'atto di nascita, qualora vi siano state supposizione di parto (quando, cioè, la
donna indicata nell'atto di nascita come madre non è tale) o sostituzione di neonato (art. 239).
Con riguardo alla filiazione nel matrimonio, si prevede che l'azione di reclamo possa essere esercitata
anche da chi sia nato nel matrimonio, ma sia stato iscritto anagraficamente come figlio di ignoti (come
accade tipicamente quando la madre non abbia voluto essere nominata nell'atto di nascita) (art. 239, che
fa salvo il caso di intervenuta sentenza di adozione). Si prevede pure, sempre con riguardo alla filiazione
nel matrimonio, che possa essere reclamato uno stato di figlio conforme alla presunzione di paternità
da chi sia stato riconosciuto in contrasto con tale presunzione, nonché da chi sia stato iscritto
anagraficamente in conformità di altra presunzione di paternità (art. 239).
Con riguardo al primo caso, si pensi alla possibile denuncia, da parte di donna coniugata, del figlio come
nato fuori del matrimonio, con conseguente suo riconoscimento da parte di un terzo come proprio
figlio; con riguardo alla seconda ipotesi, un conflitto di presunzioni di paternità è ipotizzabile nel caso in
cui la madre abbia contratto un nuovo matrimonio in violazione del divieto temporaneo di nuove nozze
(art. 89) Caso particolare di reclamo dello stato di figlio nato nel matrimonio è quello, già accennato, di
cui all'art. 234.
Viene anche previsto, quale criterio finale di esercizio dell'azione, che essa può essere esercitata, altresì,
per reclamare un diverso stato di figlio, quando il precedente sia stato comunque rimosso (art. 239).
È da sottolineare che, ove il soggetto risulti avere uno stato di figlio diverso da quello reclamato, dovrà
preventivamente rimuovere tale stato mediante l'esercizio delle opportune azioni (di contestazione dello
stato di figlio o impugnazione del riconoscimento). L'azione spetta al figlio (art. 249) ed è imprescrittibile
(art. 249).

c) L'azione di contestazione dello stato di figlio, che è imprescrittibile (art. 248), spetta a chi, dall'atto di
nascita, risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse (art. 248).
Il legislatore la dichiara esercitabile nei (soli) casi in cui l'art. 239 ammette l'azione di reclamo dello stato
di figlio (art. 240), con riguardo al caso di mancanza del matrimonio dei genitori o di non concepimento
durante il matrimonio).
L'azione in esame, comunque, si ritiene aver carattere residuale Sul piano della prova della filiazione,
infine, il nuovo art. 241 ha senz'altro ammesso, in mancanza dell'atto di nascita e del possesso di stato, la
possibilità di fornirla in giudizio con ogni mezzo.

ACCERTAMENTO DELLA FILIAZIONE fuori dal matrimonio


L'attribuzione dello stato di figlio nato al di fuori del matrimonio avviene con un atto di
accertamento volontario della procreazione da parte del genitore (riconoscimento) o con un atto di
accertamento giudiziario di tale fatto (dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità).
La dichiarazione giudiziale della filiazione fuori dal matrimonio produce gli stessi effetti del
riconoscimento (art.277) e quindi l'attribuzione dello stato di figlio nella sua unitarietà, ai sensi
dell’art. 315, anche con riguardo all'instaurazione di vincoli di parentela.
Per quanto concerne la natura del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, essa è
discussa. Si presenta come atto volontario inquadrabile nella categoria di negozio di accertamento.
Si tratta di un atto unilaterale, pur se può avvenire congiuntamente dai genitori (art. 250), sempre
personalissimo e puro, puro perché dichiara nulle le clausole dirette a limitarne gli effetti (senza
viziare l’atto). La sua irrevocabilità è così marcata da farlo sopravvivere alla revoca del testamento
in cui sia eventualmente contenuto (art.256).
Con la riforma del 1975 era venuto meno il divieto di riconoscimento da parte di chi fosse coniugato,
al tempo del concepimento, con persona diversa dall’altro genitore (filiazione adulterina) (art.250).
Era rimasto invece, quale ipotesi di irriconoscibilitá, il divieto relativo ai figli incestuosi, cioè quelli
generati attraverso il rapporto tra due soggetti legati dagli stessi vincoli di parentela, in linea retta
o in linea collaterale nel secondo grado (fratelli e sorelle).

A) Oggi, nuovo art.251, la nuova disposizione prevede il riconoscimento anche di questa categoria di
figli. Per effettuare il riconoscimento il genitore deve aver compiuto 16 anni e qualora presenti un
età inferiore, il tribunale può predisporre il riconoscimento attraverso un'autorizzazione giudiziale.
Il riconoscimento del figlio che abbia compiuto 14 anni resta inefficace senza il suo assenso (art. 250).
Inoltre il riconoscimento del figlio infraquattordicenne non può avvenire senza il consenso dell’altro
genitore che lo abbia riconosciuto.
In caso di rifiuto del consenso, il genitore che intende effettuare il riconoscimento, può rivolgersi al
tribunale, il quale, con le modalità procedimentali previste e valutate le condizioni autorizzerà il
riconoscimento se lo ritiene corrispondente agli interessi del figlio.
Il riconoscimento può avvenire prima della nascita. Il riconoscimento del nascituro da parte del padre
può avvenire o contestualmente a quello della gestante o dopo il riconoscimento di quest'ultima (e col suo
consenso, ai sensi dell'art. 2503). È ammesso anche, nell'interesse dei suoi discendenti, il riconoscimento del
figlio premorto (art. 255).
Il riconoscimento è atto formale. Esso può avvenire: nell'atto di nascita (con dichiarazione resa
all'ufficiale dello stato civile); con dichiarazione al momento del matrimonio (inserita nell'atto di
matrimonio: art. 64 D.P.R. 396/2000); con apposita dichiarazione resa all'ufficiale dello stato civile o ad un
notaio; in un testamento, qualunque sia la relativa forma (art. 254). In tale ultima ipotesi, il
riconoscimento - avente effetto dal giorno della morte del testatore - ha valore di atto autonomo (solo
incluso nel testamento), onde la sua irrevocabilità, nonostante l'eventuale revoca del testamento (art.
256).
Il riconoscimento è inammissibile (e, quindi, inefficace) se in contrasto con il già esistente stato di figlio
(art. 253). Esso può essere impugnato per violenza (dall'autore del riconoscimento, entro un anno dalla
cessazione della violenza o dal conseguimento dell'età maggiore, se l'autore è minore: art. 265), per
interdizione giudiziale'' (dal rappresentante dell'interdetto o dallo stesso autore dopo la revoca
dell'interdizione, entro un anno da essa: art. 266), per difetto di veridicità (art. 263).
In tale ultimo caso, l'azione può essere proposta dal suo autore, dal riconosciuto e da chiunque vi abbia
interesse. Durante la minore età, l'impugnazione per difetto di veridicità può essere promossa da un
curatore speciale (art. 264). La imprescrittibilità dell'azione risulta ora disposta esclusivamente riguardo
al figlio: l'autore del riconoscimento lo può impugnare solo entro un anno (dall'annotazione del
riconoscimento sull'atto di nascita), salvo che provi di avere ignorato la propria impotenza al tempo del
concepimento, il termine decorrendo, allora, dalla relativa conoscenza (analogo regime si applica anche
alla madre che abbia effettuato il riconoscimento).
L'azione di riconoscimento non può essere proposta oltre i cinque anni dall'annotazione del
riconoscimento.

B) Nel codice civile del 1865 la dichiarazione giudiziale di paternità era ammessa solo in caso di ratto o di
stupro. Nel 1942 si provvide ad allargare i casi.
Nel 1975 è stato sancito poi il principio per cui la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità è
consentita in tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento, potendo la prova essere fornita con ogni
mezzo (art. 269).
La maternità è dimostrata provando l'identità di chi si pretende essere figlio e di colui che fu partorito
dalla donna che si intende madre (art. 269). La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di suoi
rapporti col preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità, in
considerazione dell'eventualità di una pluralità di partners.
Il giudice gode di ampia discrezionalità in relazione all'ammissione e valutazione dei mezzi di prova (art. 269).
Dato che i progressi scientifici hanno reso altamente attendibili i risultati delle prove ematologiche e
genetiche, queste hanno finito con l'assumere un ruolo di primo piano: il rifiuto ingiustificato di
sottoporsi ad esse è valutabile come significativo elemento di prova. Il giudice, comunque, può fondare il
proprio convincimento anche altrimenti (pure escludendo tale genere di prove).

Tale azione è considerata imprescrittibile per il figlio e può essere proseguita, dopo la sua morte, dai suoi
discendenti (art.270); può anche essere promossa da costoro dopo la sua morte entro due anni.
L'azione può essere promossa, nell'interesse del minore, dal genitore che esercita la responsabilità
genitoriale o dal tutore (art.273). Per promuovere o proseguire l'azione, se il figlio ha raggiunto i 14 anni,
Occorre il suo consenso.
Nel caso del minore infraquattordicenne, spetta al tribunale valutare la corrispondenza dell'azione
promossa dal genitore all’interesse del figlio.
LEGITTIMAZIONE DEI FIGLI
L'unificazione dello status di figlio ha comportato, per coerenza, la soppressione della sezione II, capo
II, titolo VII del libro primo, relativa al tradizionale istituto della legittimazione dei figli naturali (art. 1 L.
219/2012). Istituto, questo, di evidente notevole importanza in un sistema, come quello originario del
codice civile, che discriminava incisivamente la posizione dei figli nati fuori del matrimonio rispetto a
quella dei figli nati nel matrimonio, ma di rilevanza già marginale a seguito della relativa sostanziale
equiparazione, a seguito della riforma del 1975.

PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA


La possibilità offerta dal progresso scientifico, di intervenire nel processo riproduttivo ha
determinato l'insorgere di determinati problemi in ordine allo stato di figlio così generati.
Con la procreazione medicalmente assistita assistiamo allo scontro tra principi e regole fin qui
affermatisi in materia di filiazione, in particolare tra derivazione biologica e responsabilità nei
confronti del generato.
Di fronte alla vasta gamma delle situazioni cui può dar luogo la combinazione artificiale dei fattori
della riproduzione (gameti maschili e femminili), arduo è il compito del legislatore e dell'interprete,
comunque destinato a doversi confrontare con questioni intorno alle quali si agitano concezioni
etiche divergenti.
Ad essere posti in discussione sono soprattutto il principio di verità (della corrispondenza, cioè, tra
realtà naturale e stato giuridico del nato, una volta minato lo stesso presupposto sostanziale di tale
principio, rappresentato dalla costante convergenza tra realtà naturale e realtà genetica) e quello
della indisponibilità degli status personali e delle relative azioni (la volontà di chi si avvale delle nuove
tecniche finendo, infatti, col potere incidere sullo stato del generato)
Con la legge 40/2004 il nostro legislatore ha dettato una regolamentazione della procreazione
medicalmente assistita.
Per limitarsi alle norme più direttamente incidenti sullo stato del generato, è opportuno sottolineare
come, pur avendo la legge vietato il ricorso a tecniche di tipo eterologo (comportanti l'utilizzazione di
gameti estranei alla coppia che accede al trattamento), non si sia mancato di disciplinarne le
conseguenze sullo stato del procreato.
Ciò ha consentito di assicurare la piena operatività della preminente tutela dell'interesse del generato
anche nel nuovo contesto della riconosciuta liceità delle tecniche eterologhe, assumendo l'esigenza di
assicurare una simile tutela un peso decisivo nei confronti di chi abbia prestato il proprio consenso
all'applicazione delle tecniche in esame: dunque risulta precluso, se si tratta di coppia coniugata, per
coloro che si sono prestati all’applicazione delle tecniche in esame, l'esercizio dell'azione di
disconoscimento della paternità, adducendo la mancata coabitazione o la propria impotenza , ovvero,
se si tratta di coppia convivente, l'esercizio dell'azione di impugnazione del riconoscimento per difetto
di veridicità (di cui all'art. 263). Il c.d. donatore di gameti resta estraneo comunque a qualsiasi
rapporto col nato (senza acquisto di diritti o assunzione di obblighi) (art. 9).
In relazione alla procreazione a seguito di tecniche omologhe e anche eterologhe, non si può mancare
di evidenziare come, attribuendo ai nati "lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della
coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche" (art. 8), si sia anche conferito un
carattere di automaticità al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, sostituendosi, il
consenso preventivamente prestato al trattamento alla dichiarazione (riconoscimento), altrimenti
sempre necessaria per l'attribuzione al nato dello stato di figlio nato fuori del matrimonio
È stato vietato alla "madre del nato a seguito di applicazione delle tecniche" in questione la possibilità
di avvalersi della facoltà di non essere nominata, restando anonima (art. 9).
Pare opportuno, infine, ricordare come il divieto di applicare post mortem le tecniche di procreazione
assistita (artt. 5 e 12) , nonché quello, anche penalmente sanzionato (nei confronti di chi le realizzi,
organizzi o pubblicizzi), concernente le pratiche di surrogazione di maternità (art. 12) lascino
comunque aperto il problema dello stato di chi sia stato eventualmente generato in violazione di tali.
TUTELA DEL MINORE PRIVO DI ASSISTENZA. AFFIDAMENTO
L'accentuata attenzione per l'interesse del minore pone di fronte a difficili scelte nel delicato rapporto
tra la sua tutela ed il rispetto dell'autonomia della famiglia. Il quadro dei principi costituzionali vale a
fornire le coordinate pure per gli interventi del legislatore di tipo sostitutivo, previsti dall'art. 30
Cost. nelle situazioni di incapacità dei genitori ad assolvere la loro essenziale funzione nei confronti dei
figli. In tal modo il legislatore disciplina l'istituto dell'adozione e dell'affidamento.
Posto il principio per cui "il minore ha diritto di crescere ed esser educato nella propria famiglia", ad
assicurare il rispetto dell'autonomia di questa devono essere finalizzati gli opportuni "interventi di
sostegno e aiuto". Solo nel caso in cui nonostante gli interventi di supporto la famiglia non è in grado di
provvedere alla crescita e all'educazione del minore, sono chiamati ad operare gli interventi con una
funzione sostitutiva.
In un tale prospettiva, il minore, temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, può essere
affidato ad una famiglia o ad una persona singola, ovvero inserito in una comunità di tipo familiare.
L'affidamento (carattere temporaneo) è finalizzato ad assicurare un'adeguata tutela dell'interesse del
minore, nel tempo strettamente necessario a consentire, attraverso opportuni interventi, il recupero
della famiglia di origine, gli sforzi dei servizi sociali dovendo indirizzarsi, nel senso di agevolare i rapporti
con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore.
Peraltro, di fronte alla realtà rappresentata da affidamenti protratti a lungo nel tempo, senza il venir
meno delle difficoltà della famiglia d'origine e con il conseguente realizzarsi delle condizioni dello stato di
abbandono (di cui all'art. 8), il legislatore ha ritenuto opportuno disporre che, ove la famiglia affidataria
del minore chieda di poterlo adottare, "il tribunale per i minorenni, nel decidere sull'adozione, tiene conto,
dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia
affidataria" (conferendosi, così, un certo valore di titolo preferenziale al "prolungato periodo di
affidamento"). E si è pure stabilito che in ogni caso - anche, cioè, ove il minore rientri nella sua famiglia, sia
affidato ad altra famiglia o sia adottato da altra famiglia - dev'essere tutelata la "continuità delle
positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l'affidamento".
Non a caso viene favorito l'affidamento previo consenso dei genitori, solo in mancanza del quale
provvede il tribunale per i minorenni (art.4). Nel provvedimento di affidamento comunque devono essere
sempre disciplinati il mantenimento dei rapporti del minore con i genitori e gli altri componenti della sua
famiglia.
Lo stesso affidatario, che ha il dovere di provvedere all’educazione, al mantenimento ed istruzione del
minore, deve tener conto delle indicazioni dei genitori, salvo che costoro non presentino a loro carico
provvedimenti incidenti sulla loro responsabilità genitoriale.
Non bisogna confondersi con l'affidamento pre-adottivo (fase necessaria dell’adozione), data la
finalizzazione di quest'ultimo all'inserimento definitivo, a seguito dell'adozione in un'altra famiglia.
In relazione all'affidamento, così, è prescritta l'audizione del minore dodicenne o anche di età inferiore, in
considerazione della sua capacità di discernimento (art. 4). Anche con riguardo all'adozione, non solo è
stata mantenuta la necessità del consenso ad essa da parte del minore che abbia compiuto i 14 anni, ma
risulta costantemente prevista la necessità dell'audizione del minore dodicenne o anche di età inferiore,
sempre in considerazione della sua capacità di discernimento. Al minore deve essere, inoltre, assicurata
l'assistenza legale fin dall'inizio (e nel corso) del procedimento di adottabilità (art. 8)
ADOZIONE
L'incremento delle garanzie processuali, tanto per il minore, quanto per i suoi genitori e per i suoi parenti la
cui posizione viene considerata rilevante, rappresenta la novità più appariscente della nuova disciplina
dell'adozione (ai sensi della ricordata L. 149/2001). Tali soggetti, infatti, immediatamente avvertiti
dell'apertura del procedimento, in applicazione del principio del contraddittorio sono messi in grado di far
valere i propri interessi, legalmente assistiti, in ogni fase del procedimento stesso (artt. 8, 10). Il legislatore
sembra, così, tenere adeguatamente conto della gravità, per i soggetti coinvolti, del sacrificio della relazione
fondata sul legame di sangue che l'adozione comporta, sia pure al fine di assicurare al minore la tutela della
sua personalità, nei casi in cui l'ambiente familiare (o la relativa mancanza) ne mettano in pericolo lo sviluppo.
La finalità che l'adozione dei minori risulta chiamata ad assolvere attualmente nel nostro ordinamento è, in
effetti, l'inserimento del fanciullo in una nuova famiglia, con l'acquisto dello stato di figlio legittimo nella
pienezza del relativo rapporto con gli adottanti. Ciò a partire dalla L. 5.6.1967, n. 431, cui si deve l'introduzione
della c.d. adozione speciale, destinata ad essere, poi, superata dalla L. 184/1983 (ampiamente novellata dalla L.
149/2001).

a) L'adozione dei minori è prevista a favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità (art. 7), a seguito
dell'accertamento di una "situazione di abbandono, perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei
genitori o dei parenti tenuti a provvedervi".
La mancata assistenza - per il rispetto che si ritiene dovuto alla famiglia di origine ai fini della formazione di
chi vi è nato - non rileva, ove sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio (art. 8).
Pure a seguito dell'intervento legislativo del 2001, l'adozione resta consentita solo ai coniugi. Ai fini della
necessaria stabilità del relativo rapporto, è richiesto che il matrimonio duri da almeno tre anni (senza
separazione, neppure di fatto), pur essendo sufficiente, ai fini della ricorrenza del requisito della stabilità,
una convivenza stabile e continuativa per almeno tre anni prima del matrimonio (art. 6). Ai singoli è consentita,
invece, solo l'adozione in casi particolari. I coniugi "devono essere affettivamente idonei e capaci di educare,
istruire i minori che intendano adottare" (art. 6) e possono adottare più volte (art. 6, che prevede anche
criteri preferenziali).
La differenza di età minima tra adottanti e adottato viene fissata in 18 anni e quella massima in 45 anni, è
stata pure prevista la relativa derogabilità, ove risulti che dalla mancata adozione derivi un danno grave e
non altrimenti evitabile al minore.
Viene consentita l'adozione, inoltre: quando il limite massimo di età sia superato di non più di 10 anni da uno
solo degli adottanti; quando gli adottanti abbiano già figli, anche adottivi, dei quali almeno uno sia minore;
quando l'adozione riguardi un fratello o una sorella del minore già da essi adottato (art. 6).
Il minore che abbia compiuto i 14 anni deve prestare personalmente il proprio consenso all'adozione e deve
essere personalmente sentito il minore dodicenne o comunque capace di discernimento (art. 7).
L'adozione prescinde da qualsiasi rilevanza del consenso dei genitori (o dei parenti).
Non è accordata, poi, alcuna facoltà di scelta agli aspiranti adottanti, che possono solo dichiarare la propria
disponibilità e, ove reputati idonei, essere selezionati dal tribunale per i minorenni per l'affidamento
preadottivo di un minore dichiarato in stato di adottabilità (art. 22), destinato a sfociare (dopo un periodo
di un anno, prorogabile di un altro anno), se non revocato (art. 23), nella vera e propria dichiarazione di
adozione (art. 25).
Lo stato di adottabilità del minore è dichiarato a seguito dell'accertamento delle condizioni dianzi ricordate,
attraverso una procedura che la riforma del 2001 ha reso più idonea a garantire gli interessi del minore e
quelli dei suoi genitori (o parenti), assicurando il rispetto del contraddittorio e distinguendo nettamente il
ruolo del giudice (tribunale per i minorenni) da quello dell'organo motore della procedura (il procuratore della
Repubblica presso il tribunale per i minorenni) (artt. 9 ss.).
Al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni compete, infatti, proporre al tribunale per
i minorenni il ricorso che mette in moto la procedura (art. 9).
Tale procedura, in relazione alla quale il tribunale dispone dei più ampi poteri istruttori per accertare la
sussistenza dello stato di abbandono del minore (art. 10), si svolge in costante contraddittorio, ove risulti la
relativa esistenza, con i genitori e i parenti la cui posizione è considerata rilevante (quelli "entro il quarto
grado che abbiano rapporti significativi con il minore": art. 10) (art. 12). La sentenza che dichiara lo stato di
adottabilità del minore viene pronunciata ad esito di una rigorosa verifica delle condizioni previste (art.
15): debitamente notificata (art. 16), essa può essere impugnata dal pubblico ministero o dalle altre parti
avanti la Corte d'appello, sezione per i minorenni, contro la cui decisione è ammesso ricorso per Cassazione
(art. 17). Divenuta definitiva, la sentenza è trascritta a cura del cancelliere su apposito registro conservato
presso la cancelleria del tribunale (art. 18). A seguito dell'adozione, l'adottato acquista, a tutti gli effetti, lo
stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome, mentre cessa
ogni suo rapporto con la famiglia di origine (art. 27). L'adottato ha diritto di essere informato di tale sua
condizione dai genitori adottivi (art. 28), essendo pure ammesso a conoscere l'identità dei suoi genitori
biologici, dopo i 25 anni (o la maggiore età se concorrono gravi motivi di salute psicofisica), previa
autorizzazione del tribunale per i minorenni (art. 28; c.d. "diritto alle origini").
b) A prescindere dall'essere stato dichiarato in stato di adottabilità (e, quindi, senza la necessaria ricorrenza
di una "situazione di abbandono"), ai sensi dell'art. 7, il minore può essere adottato ove ricorrano particolari
circostanze (adozione in casi particolari) :
a) da persone a lui (orfano di madre e di padre) unite da vincolo di parentela fino al sesto grado o da un
rapporto stabile e duraturo, preesistente alla morte dei genitori;
b) dal coniuge del genitore (anche adottivo), così da favorire, nel suo interesse, l'unità della famiglia;
c) se si tratta di minori (orfani di padre e di madre) portatori di handicap;
d) quando sia stata constatata l'impossibilità di affidamento preadottivo (art. 44). L'adozione (salvo che nel
caso di adozione da parte del coniuge del genitore) è consentita anche a chi non è coniugato.

—>È chiaro come l'ordinamento abbia cercato di rendere più elastico il sistema dell'adozione, sempre in vista
della realizzazione del preminente interesse del minore, attraverso la salvaguardia degli affetti consolidati o
in situazioni di difficile attuazione dell'adozione stessa: l'accertamento della ricorrenza dell'interesse del
minore condiziona, appunto, la dichiarazione di adozione, ad esito di una procedura, nella quale sono chiamati
ad intervenire tutti i soggetti i cui interessi risultano coinvolti, rivolta a vagliare la peculiarità della concreta
situazione (artt. 56 s.).
Gli effetti di questo tipo di adozione non sono quelli dell'adozione legittimante, ma, salvo che per l'esercizio delle
tipiche funzioni del genitore da parte dell'adottante (art. 48), quelli dell'adozione delle persone maggiorenni (art.
55, che richiama, in proposito, le relative disposizioni del codice civile). A ciò viene fatta conseguire anche la
possibilità della revoca della adozione (non ammessa, invece, in genere, per l'adozione dei minori), in caso di
indegnità dell'adottato o dell'adottante, oltre che per la violazione dei doveri degli adottanti (artt. 51 ss.).

c) L'originaria disciplina dell'adozione è stata conservata, con talune modificazioni, mantenendone la sua
collocazione nel codice (artt. 291 ss.) e limitandone la portata ai maggiorenni.
Lo scopo dell'adozione delle persone maggiori di età resta essenzialmente quello tradizionale, consistente
nell'assicurare la continuazione della famiglia dell'adottante, come emerge dall'essere stata essa consentita
solo alle persone prive di discendenti (legittimi o legittimati: art. 291).
L'adozione richiede una differenza di età di almeno 18 anni; può avvenire anche da parte di due coniugi ed è
ammessa l'adozione di più persone, pure con atti successivi (art. 294). Occorre, ovviamente, il consenso
dell'adottante e dell'adottato (art. 296), nonché l'assenso dei genitori dell'adottando e del coniuge
dell'adottante e dell'adottando (art. 297). L'adozione viene pronunciata dal tribunale (ordinario) (art. 313),
verificatane la corrispondenza all'interesse dell'adottando (art. 312).
Quanto agli effetti dell'adozione, l'adottato antepone al proprio cognome quello dell'adottante (art. 299) e
acquista gli stessi diritti spettanti ai figli legittimi in ordine alla successione dell'adottante (mentre
quest'ultimo non vanta diritti successori nei confronti dell'adottato) (art. 304). L'adottato conserva tutti i
diritti e i doveri verso la propria famiglia di origine e l'adozione non vale ad instaurare rapporti di parentela
tra l'adottato e i parenti dell'adottante (art. 300). L'adozione, poi, può essere revocata per indegnità
dell'adottato o dell'adottante (artt. 305 ss.).

d) La L. 184/1983 ha regolato anche il fenomeno dell'adozione internazionale, la cui diffusione è legata


soprattutto alla difficoltà del ricorso all'adozione di minori italiani.
La normativa originaria è stata ampiamente modificata dalla L. 31.12.1998, n. 476, con cui è stata ratificata la
Convenzione dell'Aja del 29-5-1993, onde accrescere le garanzie a favore dei minori, evitando abusi e assicurando
in ogni caso la tutela degli interessi dei minori stranieri coinvolti.
Per evitare gli inconvenienti del passato (legati alla ricerca personale del minore all'estero o all'intervento di
intermediari non sempre operanti in modo corretto), è stato fissato un iter procedurale rigoroso. Gli
aspiranti all'adozione di un minore straniero, aventi i requisiti previsti, in genere, per l'adozione di minori,
devono, a seguito di una propria dichiarazione di disponibilità (art. 29 bis), ottenere un decreto - emesso dal
tribunale per i minorenni sulla base di una approfondita relazione dei servizi sociali - attestante l'idoneità ad
adottare (art. 30). Successivamente, essi devono conferire l'incarico a curare la procedura di adozione ad uno
degli enti a ciò autorizzati dalla Commissione per le adozioni internazionali: l'ente svolge tutte le pratiche
necessarie all'estero e le attività necessarie a consentire l'incontro tra gli aspiranti all'adozione ed il minore,
trasmettendo alla Commissione la documentazione richiesta (art. 31).
La Commissione, valutate le conclusioni dell'ente incaricato, dichiara che l'adozione risponde al superiore
interesse del minore e ne autorizza l'ingresso e la residenza in Italia, a condizione che il minore si trovasse in
situazione di abbandono (e fosse impossibile l'adozione all'estero) e che anche nel Paese straniero l'adozione
abbia gli stessi effetti di quella italiana, consistenti nell'acquisto dello stato di figlio legittimo e nella
cessazione dei rapporti con la famiglia di origine (in caso contrario, occorre che i genitori naturali
consentano espressamente alla produzione di tali effetti e che il tribunale per i minorenni riconosca la
conformità dell'adozione alla Convenzione dell'Aja) (art. 32). L'adozione pronunciata all'estero produce gli stessi
effetti dell'adozione dei minori (di cui all'art. 27), una volta che il tribunale abbia accertato che sussistono i
requisiti previsti dalla Convenzione e che il provvedimento sia conforme ai principi fondamentali del nostro
diritto di famiglia e dei minori, ordinandone la trascrizione nei registri dello stato civile (art. 35). Ne consegue
anche l'acquisto, da parte dell'adottato, della cittadinanza italiana (art. 34).
IL RAPPORTO DI FILIAZIONE
La trattazione della materia degli effetti della filiazione non può che essere ora condotta unitariamente,
in considerazione dell'affermazione del principio della unicità della condizione di figlio, alla luce del nuovo
art. 315, per cui "tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico". Nel nuovo quadro normativo - in coerente
sviluppo con riguardo alle conseguenze della crisi familiare - il legislatore, per dare una configurazione
sistematicamente coerente a tale materia, nel titolo IX del codice civile ("Della responsabilità genitoriale
e dei diritti e doveri del figlio"), al capo I intitolato "Dei diritti e doveri del figlio", ha affiancato, nel capo
II, la disciplina concernente l'esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione,
scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all'esito di
procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio.
L'art. 315 bis, guardando al rapporto che deriva dalla generazione dal punto di vista del generato,
riconosce al figlio il "diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori
nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”.
Con tale ultima precisazione si è inteso, evidentemente, richiamare i genitori al rispetto della personalità
in via di formazione del minore, cui deve essere assicurata progressivamente una crescente autonomia.
L'affermazione, poi, del "diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti"
formalizza, in termini di principio generale, l'esigenza che il figlio sia sempre inserito in un contesto
relazionale adeguato ad assicurarne pienamente lo sviluppo della personalità.
Il mantenimento deve essere conforme, ovviamente, al tenore di vita della famiglia.
Il diritto di mantenimento (e il corrispondente dovere dei genitori) perdura anche oltre il raggiungimento
della maggiore età da parte del figlio (e si ricordi come la convivenza del figlio maggiorenne influisca anche
sull'assegnazione della casa familiare, in caso di crisi della famiglia).
L'obbligazione di mantenimento - che si ritiene avere, verso l'esterno, carattere di solidarietà - è, ai sensi
dell'art. 316 bis (cui rinvia ora l'art. 148 con riguardo ai doveri coniugali) ripartita tra i genitori in
proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.
Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, sono gli ascendenti, a dover fornire ad essi i mezzi
necessari all'adempimento dei loro doveri nei confronti dei figli.
Ove vi sia inadempimento da parte del genitore, può essere ordinato che una quota dei redditi
dell'obbligato venga versata direttamente all'altro coniuge o a chi sopporta le spese (art. 316 bis).
Quanto al cognome, nel caso di filiazione nel matrimonio (cui è da assimilare l'ipotesi di adozione del
minore), il figlio assume quello del padre in forza di un principio considerato implicito nella legislazione civile
(pur risultando ormai inevitabile l'adeguamento del nostro ordinamento a quelli che consentono ai
coniugi, nel momento del matrimonio, la scelta del nome da trasmettere ai figli).
Nel caso di filiazione fuori del matrimonio, il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo
riconosce e quello del padre, se il riconoscimento sia stato fatto contemporaneamente dai due genitori.
Il figlio può decidere, ove la filiazione nei confronti del padre sia stata accertata successivamente al
riconoscimento da parte della madre, circa l'assunzione del cognome del padre, aggiungendolo,
anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. Se il figlio è minore, sarà il giudice a decidere circa
l'assunzione del cognome del padre (art. 262).
Il figlio ha il - peraltro non sanzionabile - dovere di rispettare i propri genitori e, finché convive in famiglia,
deve contribuire al relativo mantenimento, in ragione delle sue sostanze e del suo reddito (art. 315 bis).
Tali obblighi non cessano col raggiungimento della maggiore età.
L'esercizio della responsabilità genitoriale (secondo la terminologia, implicante evidenti risvolti
concettuali, introdotta a seguito della recente riforma della materia)" è disciplinato dagli artt. 316 ss. Già
con la riforma del 1975, comunque, risultava abbandonato e sostituito con quello alla potestà dei genitori
- in conformità all'accolto modello di famiglia fondato sulla parità dei coniugi - il previgente riferimento
alla patria potestà, quale prerogativa del marito-padre, esercitabile dalla madre solo in sua mancanza (o
in altri casi particolari). Alla responsabilità genitoriale, la cui titolarità compete ad entrambi i genitori
(salvo il caso di decadenza), il figlio è soggetto sino alla maggiore età o all'emancipazione.
Essa è esercitata dai genitori di comune accordo. Ciò ha indotto ad introdurre un meccanismo atto a
superare, nell'interesse del figlio, le eventuali situazioni di disaccordo, senza violare l'autonomia
decisionale dei genitori e assicurando, al contempo, la loro parità (art. 316).
È stata prevista, quando il contrasto verte su questioni di particolare importanza, la possibilità di
ricorrere al giudice". Il giudice svolge, innanzitutto, ascoltato pure il figlio (maggiore di dodici anni e anche
di età inferiore ove capace di discernimento), una funzione persuasiva e solo se il contrasto permane
(non decide egli stesso ma) attribuisce il potere di decisione al genitore che, nel caso concreto, ritiene più
idoneo a curare l'interesse del figlio.
L'esercizio della responsabilità genitoriale" si concentra in uno dei genitori nel caso di lontananza,
incapacità o altro impedimento dell'altro. La responsabilità genitoriale comune non cessa con il venir
meno della convivenza (a seguito di separazione, annullamento del matrimonio o divorzio) ed il relativo
esercizio è disciplinato nel contesto degli effetti della crisi familiare (art. 317).
Risulta ora riconosciuto agli ascendenti il diritto di mantenere significativi rapporti con i nipoti
minorenni, con possibilità di ricorso al giudice per l'adozione dei provvedimenti più idonei nell'esclusivo
interesse del minore (317 bis).
Il legislatore, pur nel contesto della perseguita unicità dello stato di figlio, ha preso in considerazione,
nell'interesse del figlio nato da genitori non uniti in matrimonio, oltre alla problematica concernente il suo
cognome (art. 262), i problemi peculiari che l'esercizio della responsabilità genitoriale presenta nei relativi
confronti (e, quindi, con riguardo alla c.d. famiglia naturale). Al riconoscimento della filiazione fuori del
matrimonio consegue, per il genitore, la titolarità della responsabilità genitoriale sul figlio. Se il
riconoscimento è avvenuto da parte di uno solo dei genitori, è solo a lui che ne compete l'esercizio. Ove il
figlio nato fuori del matrimonio sia stato riconosciuto da entrambi i genitori, il relativo esercizio spetta
ad entrambi (art. 316).
Con riguardo al caso del riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio da parte di persona
coniugata, effettuato durante il matrimonio, spetta al giudice la decisione circa il relativo affidamento e
l'adozione di ogni altro provvedimento a tutela del suo interesse morale e materiale (art. 252). In tale
ipotesi, può essere autorizzato, nell'interesse del figlio, il suo inserimento nella famiglia del genitore, con le
cautele stabilite dal giudice, una volta accertato il consenso dell'altro coniuge convivente, dei figli
ultrasedicenni conviventi, nonché dell'altro genitore che abbia effettuato il riconoscimento.
Nel caso di riconoscimento anteriore al matrimonio, oltre al consenso dell'altro genitore, occorre solo il
consenso del coniuge (salvo che costui fosse a conoscenza dell'esistenza del figlio o che il figlio già
convivesse col genitore all'atto del matrimonio) (art. 252).
CRISI FAMILIARE E TUTELA DELL’INTERESSE DEI FIGLI
Preso atto dell'inevitabilità del verificarsi di crisi familiari, il legislatore concentra la sua attenzione sulla
sorte dei figli, indicati quali "vittime incolpevoli" della crisi familiare dei genitori. La direttiva di fondo
seguita in materia è nel senso di assicurare ai figli, nei limiti del possibile, al di là della rottura della
compagine familiare, l'effettivo apporto personale, oltre che economico, di ambedue i genitori (principio
della bigenitorialità): di promuovere, cioè, il sorgere di una comunità parentale, che sopravviva al
fallimento di quella familiare.
Data per scontata la continuità, al di là della crisi familiare, dei doveri dei genitori connessi alla
responsabilità genitoriale nei confronti dei figli (art. 317), il principio basilare è quello per cui tutti i
provvedimenti relativi alla prole devono essere adottati "con esclusivo riferimento all'interesse morale e
materiale di essa" (art. 337 ter).
Era criticabile, nel nostro ordinamento, data l'unitarietà della problematica dei rapporti tra genitori e
figli in dipendenza della dissoluzione della comunità di vita familiare, la duplicazione della relativa disciplina
(in sede, cioè, sia di separazione personale che di divorzio), cui si aggiungeva la ancora diversa disciplina dei
rapporti con i figli in conseguenza del venir meno della convivenza dei genitori non coniugati. Una simile
frammentazione il legislatore aveva inteso superare con la L. 8.2.2006, n. 54, recante disposizioni in materia
di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli. Tale provvedimento, nel sostituire l'originario
art. 155 (quale già novellato nel quadro della riforma del diritto di famiglia del 1975), integrandolo con taluni
articoli aggiuntivi, prevedeva espressamente (nel suo art. 43) l'applicabilità della nuova disciplina "anche in
caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti
relativi ai figli di genitori non coniugati": risultava eliminata così quella diversità di regolamentazione con
riguardo ai figli di genitori non coniugati, che finiva col rappresentare per essi una forma di
discriminazione. Il superamento definitivo, anche sotto il profilo sistematico, dell'accennata
frammentazione si è avuto, infine, con la L. 10.12.2012, n. 219 e la relativa normativa applicativa (D.Lgs.
28-12-2013, n. 154), le quali hanno disciplinato unitariamente la problematica connessa alla crisi familiare
negli artt. 337 bis ss., inseriti nel capo II, titolo IX ("Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri dei
figli"), libro I, intitolato, appunto, "Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione,
scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all'esito di
procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio".
Alla luce di quanto accennato, è da sottolineare come ovunque contestato sia risultato il tradizionale
assetto dei rapporti con la prole incentrato sull'affidamento ad uno dei genitori (c.d. monogenitoriale),
prevalendo il favore per modelli di affidamento congiunto o, addirittura, per il superamento dell'idea
stessa di affidamento.
Solo con la riforma del divorzio del 1987, da noi, era stata prevista la possibilità di disporre, ove reputato
utile all'interesse dei minori, l'affidamento congiunto o alternato, mentre il modello dominante nella prassi
ha continuato ad essere quello dell'affidamento ad uno solo dei genitori, col riconoscimento all'altro,
attraverso il c.d. diritto di visita, della conservazione di rapporti personali con i figli.
Questo modello presenta ora tendenzialmente superato, in ossequio alla finalità che l'art. 337 ter
espressamente individua nel diritto del figlio minore, in caso di separazione dei genitori, "di mantenere un
rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione, istruzione e
assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di
ciascun ramo genitoriale".
—>A tal fine, carattere prioritario si è attribuito all'affidamento del figlio ad ambedue i genitori (art. 337
ter) (definito affidamento condiviso).
—>Carattere eccezionale è inevitabilmente destinato a residuare all'affidamento ad uno solo dei genitori:
per disporlo, infatti, occorre un provvedimento motivato con riguardo alla contrarietà all'interesse del
minore dell'affidamento ad ambedue i genitori (art. 337 quater).
In tale ipotesi, evidentemente, l'assetto dei rapporti resta fondato su di un affidamento
sostanzialmente monogenitoriale (con la previsione, comunque, di adeguate modalità di frequentazione e
di contribuzione dell'altro genitore, sempre in considerazione dell'accennato diritto del figlio alla
continuità del rapporto con ambedue i genitori).
È stato chiarito come, ai fini dell'affidamento, non possa conferirsi alcuna rilevanza agli eventuali giudizi di
responsabilità per la crisi (come l'addebito della separazione), né, almeno in quanto tali, a circostanze quali
la religione professata, il trasferimento in altra città o Stato, ovvero l'attività svolta dal genitore:
decisivo deve restare solo il riscontro della idoneità a svolgere i compiti connessi alla qualità di
affidatario.
Secondo la precedente disciplina, pur conservando entrambi i genitori la titolarità della potestà sui figli, il
relativo esercizio spettava, almeno di regola, al solo genitore affidatario. Pur prevedendosi ora che anche
l'esercizio della responsabilità genitoriale compete senz'altro ad entrambi i genitori (art. 337 ter), è stato
affermato il principio per cui, in caso di affidamento esclusivo ad uno dei genitori (e sempre "salva diversa
disposizione del giudice"), è a lui che spetta "l'esercizio esclusivo della responsabilità" (art. 337 quater).
Il tribunale dispone di ampi poteri: pur dovendo prendere atto degli accordi dei genitori, può adottare
soluzioni diverse rispetto a quelle concordate (in caso di loro contrarietà all'interesse dei figli). Il tribunale,
inoltre, può disporre d'ufficio l'assunzione di mezzi di prova che reputi opportuni per formare il proprio
convincimento (consulenze tecniche, relazioni dei servizi sociali). Importante è il ruolo del pubblico ministero,
la cui partecipazione viene assicurata in tutte le procedure che toccano gli interessi dei figli minori.
Pure in dipendenza di quanto disposto da Convenzioni internazionali, è sembrata imporsi la necessità di
conferire attenzione alle opinioni ed ai desideri dei figli, ovviamente da raccogliere nelle forme procedurali
più opportune (direttamente o indirettamente, in relazione alla loro età e capacità di discernimento). Risulta
previsto, quindi, che il giudice sia tenuto a disporre l'ascolto del figlio ultradodicenne e anche se di età
inferiore, ove capace di discernimento (art. 337 octies).
Al fine di evitare il perpetuarsi di situazioni di conflittualità, un ruolo rilevante tende a riconoscersi alla
mediazione familiare, quale strumento funzionale a ristabilire tra i coniugi condizioni di accordo spontaneo,
almeno in vista dei futuri rapporti reciproci e con i figli. Il percorso della mediazione può essere indicato dal
giudice, ove lo ritenga opportuno, alle parti (sempre col loro consenso ed in vista della migliore tutela
dell'interesse dei figli).
Sotto il profilo economico, i genitori restano tenuti a provvedere al mantenimento dei figli in misura
proporzionale alle proprie possibilità (in applicazione del principio dell'art. 316 bis): ove necessario, allora,
potrà essere stabilita, appunto "al fine di realizzare il principio di proporzionalità" , la corresponsione di un
assegno periodico - automaticamente rivalutabile - a carico di uno dei genitori.
Tutti i provvedimenti concernenti i figli (in tema di affidamento, responsabilità genitoriale, contribuzioni
economiche e casa familiare) sono assoggettabili a revisione.
Pare il caso, inoltre, di sottolineare come, in tutti i casi in cui sia venuto a costituirsi un rapporto di
filiazione giuridicamente rilevante - e, quindi, bigenitoriale - con due persone dello stesso sesso, pur nel
silenzio del legislatore, sia da ritenere comunque operante la disciplina comune concernente l'esercizio della
responsabilità genitoriale in dipendenza della crisi familiare.
ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE
Pure la disciplina dell'assegnazione della casa familiare concerne una problematica che si pone in termini
omogenei in tutti i casi di dissoluzione della famiglia come comunità di vita. La regolamentazione della
materia è intervenuta prima, nel 1975, con riguardo alla separazione e, poi, con la riforma del 1987, anche in
tema di divorzio. La disciplina dettata dall'art. 337 sexies (come già l'art. 155 quater, ai sensi della L. 54/2006),
al pari delle altre disposizioni concernenti le conseguenze della crisi familiare nei rapporti tra genitori e
figli, assume portata generale, come tale estesa - oltre che alla separazione, al divorzio e alla invalidità del
matrimonio - anche al venir meno della convivenza di genitori non coniugati.
L'ordinamento conferisce rilevanza alla destinazione dell'immobile a casa familiare e le relative vicende
tendono ad essere correttamente ricondotte al piano del regime primario: un'autonoma considerazione
della sorte di tale bene, emerge oltre che nell'ipotesi di cessazione della convivenza familiare, in quella di
morte di uno dei coniugi (art. 540).
L'assegnazione dell'abitazione nella casa familiare presuppone che i coniugi (o i conviventi) fossero, in
precedenza, legittimati a goderne insieme (e con i figli): ne avessero, cioè, la disponibilità. Ciò sulla base di un
titolo, che può essere rappresentato dal diritto di proprietà comune o di uno di essi, da un altro diritto
reale (usufrutto, abitazione), da un diritto di locazione o di comodato.
L'interesse rilevante ai fini dell'assegnazione si ritiene essere (solo) quello dei figli, anche per la
collocazione delle disposizioni in materia tra quelle concernenti, appunto, i relativi rapporti con i genitori.
Alla luce della disciplina previgente, l'affidamento dei figli o la convivenza con figli maggiorenni ancora non
economicamente autosufficienti erano, così, senz'altro considerati costituire presupposto necessario
per l'assegnazione (al coniuge non titolare, o titolare esclusivo, del diritto sul bene). Tale prospettiva
sembra destinata a rimanere sicuramente ferma pure in applicazione dell'attuale disciplina, la quale si
limita a prevedere, al riguardo, che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo
prioritariamente conto dell'interesse dei figli (art. 337 sexies).
L'esclusiva attenzione riservata all'interesse dei figli, così, ha finito col far escludere che possano essere
presi in considerazione, ai fini della decisione circa l'assegnazione, interessi di diversa natura (come, ad es.,
nel caso di immobile indispensabile per l'attività professionale del coniuge che sia titolare del diritto su di
esso o specificamente attrezzato per una sua grave infermità).
Comunque, l'assegnazione, per contemperare gli interessi e le esigenze di tutti i membri della famiglia, può
essere limitata ad una parte soltanto dell'immobile.
Si è espressamente previsto che dell'assegnazione si debba tenere conto nella regolazione dei rapporti
economici tra i coniugi, considerando, in particolare, la titolarità della proprietà del bene.
Il diritto di godimento della casa familiare, poi, "viene meno" nel caso che l'assegnatario non abiti o cessi di
abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.
Quanto, infine, al discusso problema della opponibilità ai terzi della situazione conseguente
all'assegnazione, si è stabilito che il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono "trascrivibili e
opponibili ai terzi ai sensi dell'articolo 2643".

Potrebbero piacerti anche