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RIASSUNTO SESTA DIRITTO DI FAMIGLIA

CAPITOLO 1: LE RELAZIONI FAMILIARI E IL DIRITTO


La Costituzione prevede una definizione vera e propria della famiglia: infatti all'art. 29 è stabilito che la
Repubblica ne riconosce e garantisce i diritti come società naturale fondata sul matrimonio  leggendo
la disposizione potrebbe sembrare che la legge consideri la famiglia un'entità tendenzialmente
immutabile che esiste in natura, la cui base ha come fondamento il matrimonio: dalla lettura della
formula oggi tuttavia si può evincere come il significato della norma assuma nel contesto di altre regole
costituzionali e sovranazionali una diversa eccezione in quanto bisogna tenere conto della struttura
sociale dell'istituzione che si intende tutelare. In questo senso la qualifica di società naturale può essere
intesa come riferimento alle forme concrete che la realtà familiare assume in un certo contesto sociale,
pertanto si può constatare che la Costituzione vuole che l'ordinamento si relazioni al concreto
atteggiarsi dei rapporti familiari seguendo questa via, la strada per l'interprete si complica,
soprattutto alla luce dell'evoluzione normativa e sociale che ha connotato la famiglia (si vedano le
riforme in materia di riconoscimento di figli naturali e di riconoscimento di coppie dello stesso sesso),
deviando pertanto da quello che era il modello originario costituzionale di famiglia: oggi il matrimonio
infatti non è il necessario presupposto per dare vita a relazioni legalmente familiari, le quali possono
pertanto sorgere indipendentemente dalla sussistenza di tale vincolo.
Del resto oggi l'art. 29 Cost. deve altresì coordinarsi con quanto disposto dall'art. 9 Carta dei diritti
fondamentali dell'Ue, ove viene riconosciuto ad ogni soggetto il diritto fondamentale di sposarsi e di
costituire una famiglia; anche la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo all'art. 12 prevede il diritto
dell'uomo e della donna di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano
l'esercizio di tale diritto.
Il principio di cui all'art. 29 va interpretato secondo criteri sistematici e in primo luogo va coordinato
con quanto disposto dall'art. 2 Cost: ne deriva che la formula costituzionale, sebbene caratterizzata
dal richiamo al matrimonio, tuttavia non impedisce di ritenere che anche una relazione di fatto
basata su uno schema familiare di convivenza secondo un modello socialmente tipizzato possa
dare vita a una formazione sociale (cd famiglia di fatto). In conclusione si può constatare che
attualmente nell'ordinamento il termine famiglia non designa un modello unitario ma è riferito a una
pluralità di relazioni, la cui natura familiare è data dalla sussistenza di vincoli di vario genere:

 vincoli giuridici quale il matrimonio


 vincoli giuridici e biologici come ad esempio la filiazione nel oppure fuori dal matrimonio
purché riconosciuta
 vincoli meramente biologici, come ad esempio la filiazione non riconosciuta
 rapporti di fatto, come ad esempio la convivenza senza matrimonio a riguardo vi sono alcuni
profili che godono di tutela e che quindi possono essere ricompresi nell'ambito delle relazioni
familiari giuridicamente rilevanti

La normativa individua una pluralità di modelli familiari socialmente tipizzati e giuridicamente tutelati:

 in primo luogo il modello tradizionale di famiglia basato sul matrimonio nell'ambito del quale si
distingue tra famiglia nucleare (riferito alla coppia e agli eventuali figli) e famiglia allargata
(ricomprende a livello giuridico parenti e affini)
 in secondo luogo la famiglia non matrimoniale, intesa quale convivenza di 2 partner ed
eventualmente dei loro figli
Il diritto di famiglia è quindi l’insieme di norme giuridiche che disciplina queste relazioni e queste
norme appartengono a diversi settori dell'ordinamento quali il diritto privato, il diritto
costituzionale, il diritto penale sostanziale e il diritto processuale civile e penale, oltre al diritto
ecclesiastico, tributario e del lavoro, nonché norme di ordinamenti diversi quali quello canonico e quello
di matrice internazionalistica.
Nel disciplinare le relazioni tra familiari, il diritto in passato non ha attribuito specifica rilevanza alla
sfera dei sentimenti e degli affetti in quanto il modulo di riferimento era quello del potere e della
soggezione: non c'era spazio per la tutela della sfera individuale, in quanto l'interesse del singolo era
subordinato a quello superiore della famiglia, il quale veniva garantito attraverso il dogma
dell'indissolubilità del matrimonio, come ad esempio si evince nell'art. 68 cc, ove viene sancita la nullità
del matrimonio celebrato ai sensi dell'art. 65 cc qualora la persona dichiarata morta tornasse o
comunque fosse accertata la sua esistenza in vita. Anche la disciplina dell'errore nel matrimonio è
paradigmatica in passato ai fini della annullabilità del matrimonio era riconosciuto il solo errore
sull'identità della persona, negando ogni rilevanza a situazioni di travisamento delle qualità personali del
coniuge, che oggi trovano giusto riconoscimento; inoltre le malattie fisiche e psichiche nonché
situazioni di gravi precedenti penali non consentivano al coniuge ignaro di ciò di poter impugnare il
matrimonio. Punto di emergenza della istituzionalizzazione della famiglia era rappresentato dal
l'indissolubilità del vincolo matrimoniale che tuttavia è venuto meno con la l. 898/1970 che ha
introdotto l'istituto del divorzio, derogando così al principio dell'indissolubilità (questo principio
comportava che il matrimonio non potesse mai essere messo in discussione dagli sposi).

Il sistema del diritto di famiglia elaborato nel codice nella versione originaria prevedeva una concezione
gerarchica e autoritaria delle relazioni familiari comportando una diseguaglianza giuridica tra coniugi e
tra figli legittimi e figli nati fuori dal matrimonio, derogando così a quei principi di uguaglianza
giuridica e morale tra i coniugi e di parità tra figli nati in fuori dal matrimonio previsti agli artt. 29 e 30
Cost occorre constatare tuttavia che l'incertezza e la titubanza con cui gli interpreti hanno ricevuto il
dettato costituzionale sono stati favoriti dal carattere compromissorio delle disposizioni, come emerge
dalla lettura degli artt. 29 e 30: nel formulare le disposizioni è stato necessario contemperare le opinioni
delle diverse espressioni politiche all'interno dell'Assemblea Costituente in quanto vi era
contrapposizione ideologica tra forze cattoliche, liberali e comuniste.
Ci si chiede quale sia l'origine e che cosa intendesse esattamente il costituente definendo la famiglia
società naturale fondata sul matrimonio la formula è frutto della fusione di quanto proposto dalle
forze cattoliche e di quanto proposto dai comunisti, i quali ritenevano che lo stato riconosce e tutela la
famiglia quale fondamento della prosperità materiale e morale dei cittadini della nazione; invece le
forze laiche facevano rilevare che tale definizione era diretta ad imporre costituzionalmente un
determinato modello di famiglia senza tener conto della variabilità storica della convivenza familiare.
Un'altra disposizione di particolare rilievo è quella di cui al comma 2 art. 29 che dispone che il
matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge
a garanzia dell'unità familiare il costituente non ha avuto piena coscienza della rilevanza giuridica
del principio affermato, che sembrava piuttosto enunciare una formula meramente programmatica
destinata ad essere corretta dalla previsione dei limiti stabiliti a garanzia dell'unità familiare, i quali
facevano riferimento alle norme codicistiche fondate sull'autorità del marito come capofamiglia,
pertanto al modello che all'epoca della Costituzione era accettato dal costume sociale e che sembrava
destinato a durare per sempre. Significativo è il fatto che in questo quadro l'art. 37 Cost riferendosi alla
donna lavoratrice dispone che le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua
essenziale funzione familiare e assicurare alla madre è al bambino una speciale adeguata protezione.
In sede di assemblea costituente viene data la rilevanza alla questione dell'indissolubilità del vincolo
coniugale, anche se tuttavia non vi è traccia nel testo costituzionale: a tal proposito si sono
manifestati contratti profondi tra le diverse forze politiche in quanto l'indissolubilità era uno di quei temi
ove non era possibile trovare un compromesso e le discussioni si conclusero con una votazione che ha
visto prevalere l'opinione contraria alla costituzionalizzazione del principio di indissolubilità, sebbene
alcuni giuristi cattolici hanno ritenuto che il principio in questione si potesse desumere dalla
costituzionalizzazione del concordato tra Italia e Santa Sede di cui all'art. 7 Cost.
L'art. 30 Cost. fissa i principi in materia di filiazione affrontando il rapporto tra filiazione nel o fuori dal
matrimonio: il comma 1 stabilisce che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i
figli, anche se nati fuori dal matrimonio. La norma sottolinea la centralità della persona del figlio il
quale ha diritto di essere mantenuto, istruito ed educato. È altresì rilevante che gli obblighi genitoriali
siano identicamente enunciati anche con riguardo ai figli nati fuori dal matrimonio in quanto tale
principio all'epoca era radicalmente innovativo, sebbene risulti temperato con quanto previsto dal
comma 3, ove si stabilisce che la legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e
sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.
Il comma 2 art. 30 Cost stabilisce che nei casi di incapacità dei genitori la legge provvede a che siano
assolti i loro compiti la norma prevede l'obbligo dello stato di predisporre forme di tutela in favore
della famiglia e non interventi pubblici di natura sostitutiva, pertanto la famiglia di origine si conferma
come il luogo di formazione della personalità minorile costituzionalmente privilegiato e la rottura dei
rapporti tra figlio e famiglia biologica viene visto come evento di natura eccezionale. L'art. 31 comma 2
Cost. prevede l'impegno dello stato alla protezione della maternità, dell'infanzia e della gioventù e pone
le basi per la realizzazione di obiettivi di politica di sicurezza sociale che hanno segnato l'ordinamento.

In materia di diritto di famiglia rileva altresì il principio di cui all'art. 2 Cost che, nel riconoscere e
garantire i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, pone le fondamenta
di un sistema pluralistico aperto che impone il rispetto di tutte le formazioni sociali che coinvolgono la
persona. Anche la regola dell'eguaglianza giuridica ex art. 3 Cost pone questioni in ordine alla sua
applicabilità all'interno delle relazioni familiari in quanto ci si è chiesti quale sia il rapporto tra gli artt.
29, 30 e 31 Cost. e gli artt. 2 e 3 Cost.--> il problema è quello di vedere se vi sia una graduazione
gerarchica all'interno del testo costituzionale in quanto gli artt. 2-3 non sarebbero principi fondamentali
necessariamente rilevanti anche con riferimento all'ambito familiare; nello specifico ci si chiede se il
riconoscimento dei diritti inviolabili e delle garanzie della persona ex art. 2 possa trovarsi compresso
nell'ambito della famiglia oppure se il principio di eguaglianza possa subire limitazioni a causa dei
vincoli che si instaurano nell'ambito familiare il contrasto che si può riscontrare tra disposizioni di
uguale rango può essere risolto richiamando la regola secondo cui la norma speciale deroga a quella
generale (in questo caso prevalgono gli artt. 29 e 30 Cost.) oppure riconoscendo l'esistenza di una
gerarchia tra posizioni costituzionalmente tutelate che non consentirebbe di introdurre deroghe ai
principi generali da parte di norme pure di grado costituzionale.
Oggi una lettura delle norme costituzionali non può lasciare dubbi in ordine al loro carattere innovativo
rispetto all'originario modello codicistico, ben lontano dalle regole dell’eguaglianza tra coniugi e della
parità tra figli.
Verso la fine degli anni 70 era diffuso il convincimento che non fosse rinviabile una riforma radicale
della disciplina della famiglia e la stessa corte cost era più volte intervenuta invitando il legislatore ad
adeguare la normativa ai principi costituzionali il risultato è stato l'approvazione della l. 151/1975 che
ha riformato radicalmente la materia, anche se preceduta da interventi settoriali come ad esempio la
legge sull'adozione del 1967 che ha creato il nuovo istituto dell'adozione cd speciale volto a superare la
logica del l'istituzionalizzazione dei minori in stato di abbandono e di favorirne l'inserimento a pieno
titolo in una vera famiglia, alla cui base della legge c'è l'idea di una famiglia intesa come comunità di
soggetti uguali tra loro e responsabili nei confronti dei figli, indipendentemente dalla qualificazione
giuridica del rapporto di procreazione. Altro intervento settoriale è quello del 1970 che ha introdotto
l'istituto dello scioglimento del matrimonio.
I principi che hanno ispirato la riforma del diritto di famiglia sono stati anzitutto i principi
costituzionali dell'eguaglianza tra coniugi e della parità tra figli nello specifico è stata valorizzata
la volontà dei coniugi all'atto della celebrazione del matrimonio e sono stati loro attribuiti eguali poteri
nel governo della famiglia, anche con riferimento alla potestà genitoriale. Per quanto riguarda la
separazione personale questa è stata svincolata dal principio della colpa e subordinata al verificarsi di
fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio
all'educazione della prole. Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, la riforma ha introdotto la
comunione legale dei beni e regolato l’impresa familiare al fine di valorizzare il lavoro svolto dalla
donna all’interno del nucleo familiare o nell’impresa del coniuge.
Sono state altresì introdotte innovazioni in materia di azioni di stato, in particolare con riguardo alla
stazione di disconoscimento della paternità e di dichiarazione giudiziale della paternità naturale,
prevedendo strumenti che consentono all'interessato di conseguire una posizione giuridica aderente alla
realtà biologica.
L'abbandono della visione istituzionale della famiglia e il riconoscimento dei diritti individuali
costituiscono i motivi che hanno guidato i mutamenti del diritto di famiglia: ecco quindi che i diritti del
singolo hanno ricevuto protezione sempre più estesa, a discapito delle ragioni dell'istituzione familiare.
Ne deriva che l'istituzione familiare è venuta a indebolirsi: in particolare il capofamiglia ha perso il
suo potere, la moglie ha maturato sicurezza e responsabilità fuori dalla famiglia, i figli godono di una
maggiore e progressiva autonomia in sostanza i vincoli di soggezione si sono allentati al fine di
lasciare spazio alle libere scelte e questo mutamento è stato recepito dall'ordinamento in quanto è stato
anzitutto introdotto il divorzio e si è data piena attuazione alle regole costituzionali dell'eguaglianza tra
coniugi e della parità tra figli nati nel-fuori dal matrimonio.
Si può quindi affermare che la disciplina che si è avuta con la riforma del diritto di famiglia ha
comportato una crisi del modello istituzionale, prevedendo una nuova disciplina dei rapporti tra
coniugi e ad esempio prevedendo all'art. 144 cc che l'indirizzo della vita familiare sia deciso sulla base
dell'accordo tra i coniugi, ove al comma 1 si dispone che i coniugi nel determinare l'indirizzo della vita
familiare debbano tenere conto delle esigenze di entrambi e di quelle preminenti della famiglia la
dottrina ha osservato che da tale formulazione si evince che l'interesse della famiglia altro non è se non
l'interesse dei singoli che di essa fanno parte, pertanto non si può considerare superiore e distinto da
quello dei suoi componenti.
In conclusione si evince che la libertà di attuare la separazione o la creazione di un nuovo nucleo
familiare contraddistingue il modello odierno di famiglia che si contrappone a quello istituzionale
venendosi in sostanza a creare una privatizzazione delle relazioni familiari, che è resa possibile
dall’affievolirsi dei compiti tradizionali di cura della persona, che in passato erano esclusivamente
affidati alla famiglia.

Dopo la riforma del 1975 la tendenza all'affermazione di diritti individuali nell'ambito delle relazioni
familiari ha avuto ulteriori conferme:

 ad esempio si evince dalla legge sull'interruzione della gravidanza del 1978 la quale consente
alla donna, anche coniugata, l'interruzione della gravidanza senza che il marito possa
contrastarne la decisione
 ad esempio si evince dalle disposizioni in materia di violenza familiare di cui agli art 342 bis-ter
cc introdotti nel 2001 che consentono al giudice l'allontanamento dalla casa familiare del
coniuge o del convivente il responsabile
 ad esempio si evince dalla l. 74/1987 che ha modificato la disciplina del divorzio, che è possibile
dopo un periodo di separazione di 3 anni anziché di 5 (tale legge è stata coi successivamente
rivista nel 2015 portando il termine dei 3 anni a 1 anno in caso di separazione giudiziale oppure
6 mesi in caso di separazione consensuale)

L'attribuzione di diritti in capo ai membri della comunità familiare ha trovato attuazione ad opera della l.
40/2004 che attribuisce alle coppie infertili il diritto a trattamenti di procreazione; la l. 54/2006 ha
affermato il diritto dei figli alla bigenitorialità a seguito del venir meno del rapporto di coppia tra i
genitori, oltre che la riforma del 2012 in materia di filiazione che ha eliminato la distinzione tra figli
legittimi e figli naturali dando vita a un unico status giuridico di filiazione, proclamando i diritti dei figli
e configurando le prerogative generatori ali in termini di responsabilità funzionale al soddisfacimento
dei diritti dei figli  nello specifico è stato rivisto il rapporto tra genitori e figlio nato fuori dal
matrimonio: in precedenza questo rapporto era trattato alla stregua di una relazione intercorrente
esclusivamente tra genitori e figlio a cui la legge attribuiva diritti personali, patrimoniali e successori ma
il figlio restava al di fuori della famiglia del genitore in quanto il vincolo di parentela non era
contemplato. Oggi il figlio entra a tutti gli effetti in famiglia sia in quella ristretta sia in quella estesa in
qualità di parente, instaurandosi così un legame con l'intera rete parentale.
Ci si è chiesti se il nuovo modello di famiglia sia compatibile con quanto prescritto nel comma 1 art. 29
Cost (pone il matrimonio come elemento costitutivo della famiglia) e anche rispetto a quanto previsto
dall'art. 30 comma 3 che assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale
compatibile con i membri della famiglia legittima in forza delle nuove regole si affievolisce il
principio della compatibilità della tutela giuridica e sociale dei figli nati fuori dal matrimonio con i
diritti dei membri della famiglia legittima in quanto di famiglia legittima non se ne parla più né sotto il
profilo personale nei sotto il profilo patrimoniale.
Per quanto riguarda la relazione matrimoniale il processo di valorizzazione dei diritti individuali dei
coniugi non è ancora giunto a compimento, in quanto da più parti si auspicano nuovi interventi
legislativi a seguito dell'evoluzione del costume sociale. In anni recenti in particolare si è sviluppato un
ampio dibattito in relazione alla possibilità di riconoscere tutela giuridica alle relazioni affettive
instaurate tra persone del medesimo sesso, ritenendo che tra persone del medesimo sesso possa
sorgere quella comunione di vita basata sull'esistenza di un rapporto affettivo, di assistenza e solidarietà
identico a quello tra persone di sesso opposto e inoltre si è ritenuto che la mancata tutela di questa
relazione potrebbe comportare un’illegittima discriminazione fondata sull'orientamento sessuale,
espressamente vietata dall'art. 21 Carta dei diritti fondamentali dell'Ue nel 2010 la corte cost è stata
investita della questione di legittimità delle norme del codice civile che non consentono il matrimonio
tra persone dello stesso sesso: la corte, pur riconoscendo che l'unione tra persone del medesimo sesso
può assumere rilevanza giuridica, ha ritenuto che la questione fosse inammissibile in quanto riservata
alle scelte discrezionali del legislatore. La Cassazione ha poi affermato che i componenti della coppia
omosessuale sono titolari del diritto alla vita familiare e possono adire i giudici per far valere il diritto a
un trattamento omogeneo rispetto a quello assicurato dalla legge la coppia eterosessuale (alcuni giudici
di merito si sono spinti a pronunciare provvedimenti in materia di affidamento in favore di coppie dello
stesso sesso).
Tuttavia anche con riferimento alle coppie coniugate eterosessuali si prospettano vari interventi, in
quanto è stata evidenziata l'opportunità di modificare le regole di attribuzione del cognome familiare e
di abrogare l'addebito della separazione e inoltre in relazione ai rapporti patrimoniali si è proposto di
abrogare la comunione legale. È altresì condivisa la necessità di riconoscere margini più ampi
all'autonomia di coniugi nel regolare anche in via preventiva le conseguenze patrimoniali del divorzio al
fine in particolare di favorire una soluzione stragiudiziale della crisi della coppia coniugata la
valorizzazione dell'autonomia dei coniugi nel predeterminare le regole che governano i profili
economici della vita familiare e della rottura dell'unione induce a considerare il problema di garantire
che l'esercizio dell'autonomia privata sia consapevole: l'ordinamento dovrebbe quindi dotarsi di
strumenti idonei a far sì che i coniugi siano chiamati a riflettere sulle implicazioni patrimoniali delle
scelte che possono fare prima di sposarsi e quelle che possono fare durante.
Avanza altresì la consapevolezza della necessità di rafforzare gli strumenti di tutela dei figli sia con
riguardo ai comportamenti richiesti ai genitori sia con riguardo all'intervento pubblico  oggi la
situazione prevede che la stabilità della famiglia sia nelle mani dei coniugi o partner, salvo il limite che
il diritto dei genitori non può compromettere quello dei figli alla cura e all'educazione: emerge la
crescente attenzione del diritto verso il minore e in particolare verso i suoi bisogni e diritti  il tema
della tutela del minore riguarda anche il diritto internazionale e a tal proposito si ricorda la Convenzione
delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, che rappresenta un vero e proprio programma anche
pedagogico di formazione del minore, che impegna gli stati che l'hanno ratificata ad adottare una serie
di misure appropriate per la realizzazione. Un aspetto innovativo della convenzione è l'affermazione del
diritto del fanciullo a partecipare in prima persona alla propria formazione e alle scelte che lo
riguardano: infatti l'art. 12 Convenzione (oggi trasposto nell’art. 337 octies cc) riconosce in caso di
procedura di separazione del figlio dai genitori il diritto del fanciullo di partecipare e far conoscere la
propria opinione su ogni questione che lo interessa, tenendo conto della sua età e del suo grado di
maturità. L'art. 315 bis cc stabilisce altresì che il figlio minore che abbia compiuto gli anni 12, e anche
di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le
procedure che lo riguardano.
Innovativa è altresì la Convenzione europea sull'esercizio del diritto dei bambini, che riconosce al
minore dotato di sufficiente capacità di discernimento il diritto di ricevere ogni informazione pertinente,
di essere consultato e di esprimere la propria opinione, di essere informato delle eventuali conseguenze
della messa in pratica della sua opinione e di ogni decisione, con l'obbligo per l'autorità giudiziaria di
assicurarsi prima di adottare ogni decisione del soddisfacimento dei diritti in questione è di tenere in
debito conto l'opinione espressa. La Convenzione dell'Aja sulla protezione dei minori e sulla
cooperazione in materia di adozione internazionale ribadisce questo modo di guardare al bambino e
rappresenta un ulteriore passo verso il riconoscimento dell'identità e della dignità del bambino in quanto
richiede che debbano essere tenute in considerazione le sue opinioni ma altresì si debba tener conto dei
suoi desideri e lo si debba informare sulle conseguenze derivanti dalla sua adozione. Per quanto
concerne l'ordinamento interno in ordine alla protezione del minore nel 1997 è stata istituita la
Commissione parlamentare per l'infanzia e l'Osservatorio nazionale per l'infanzia; nel 1998 è stata
approvata una legge che contiene norme contro lo sfruttamento della prostituzione, pornografia e
turismo sessuale e nel 2001 è stata approvata una legge contro la violenza nelle relazioni familiari.
In questi anni si è assistito altresì alla progressiva valorizzazione delle posizioni individuali nell'ambito
delle relazioni familiari e l'elaborazione giurisprudenziale in materia di risarcimento del danno alla
persona hanno favorito l'applicazione dei principi della responsabilità civile nell'area dei rapporti tra
coniugi e tra genitori e figli: la violazione di un dovere coniugale o genitoriale può comportare
anche l'obbligo alla risarcimento del danno qualora la violazione in questione abbia cagionato un
danno ingiusto al familiare conseguente alla lesione di un suo diritto inviolabile.

CAPITOLO 2: IL MATRIMONIO
Secondo una distinzione di matrice canonistica il termine matrimonio ha un doppio significato:
 da un lato designa l'atto che lo fa venire ad esistenza ed è officiato dall’ufficiale dello stato civile
secondo le regole di cui al codice civile oppure può essere officiato dal ministro del culto
cattolico oppure ancora dai Ministri di culti ammessi dallo stato
 dall'altro lato il termine matrimonio designa il rapporto che si instaura tra gli sposi a seguito
della celebrazione

In difetto di una definizione legale, il matrimonio-atto viene configurato come un negozio bilaterale
puro (non può essere sottoposto a termine o condizione) solenne (la manifestazione della volontà deve
essere espresso attraverso una certa forma e in un determinato contesto da 2 soggetti di sesso opposto).
Con riferimento al matrimonio-rapporto secondo quanto previsto dall'art. 1 l. div. si demanda al giudice
l'accertamento del definitivo venir meno della comunione spirituale e materiale tra i coniugi, che
rappresenta quindi l'esistenza stessa della relazione coniugale e che quindi può valere come una sintetica
definizione della fattispecie.

Nel disciplinare la promessa di matrimonio di cui agli artt. 79-81 cc il legislatore non fornisce una
definizione, sebbene la giurisprudenza la identifichi nel cd fidanzamento ufficiale e sussiste quando
ricorra una dichiarazione espressa o tacita di volersi frequentare con il serio proposito di sposarsi
affinché ciascuno dei promessi sposi possa acquisire la maturazione necessaria per celebrare
responsabilmente il matrimonio. La disciplina della promessa è ispirata alla salvaguardia del principio
della libertà del consenso matrimoniale: l’art. 79 cc sancisce la non vincolatività della promessa di
matrimonio tuttavia la promessa di matrimonio produce alcuni effetti giuridici quali ad esempio
l'obbligo alla restituzione dei doni e il risarcimento danni, infatti il codice prevede che il promittente
possa domandare la restituzione dei doni fatti a causa del fidanzamento purché ci sia stata una
promessa e qualora sia mancata la celebrazione del matrimonio e sussista un nesso di causalità tra
doni e promessa ai sensi dell'art. 80 cc. Per quanto riguarda il risarcimento danni l'art. 81 cc tende a
contemperare 2 principi tra loro opposti: il principio della libertà del consenso del promittente e il
principio dell'affidamento incolpevole del fidanzato che in presenza dello scambio delle promesse abbia
subito conseguenze patrimoniali negative in funzione della preparazione al matrimonio il danno
risarcibile è circoscritto alle spese effettuate e alle obbligazioni contratte a causa della promessa di
matrimonio come ad esempio le spese relative al viaggio di nozze, le spese relative alla cerimonia
nuziale, le spese di acquisto per beni destinati ad essere utilizzati solo in occasioni del matrimonio. La
dottrina e la giurisprudenza escludono il risarcimento dei danni indiretti e dei danni inerenti a spese
effettuate e ad obbligazioni contratte prima della promessa scritta di matrimonio, anche se
posteriormente all'effettivo fidanzamento; del pari è escluso il risarcimento dei danni morali. L'azione
di cui all'art. 81 cc è soggetta al termine di decadenza di 1 anno dal giorno del rifiuto di celebrare
il matrimonio.

Il codice civile detta le regole che disciplinano il matrimonio inteso come atto e in particolare enuncia le
condizioni necessarie per contrarre matrimonio, che costituiscono le condizioni indispensabili per
una valida assicurazione in quanto la loro mancanza costituisce motivo di invalidità ai sensi dell'art. 117
cc. Affinché il matrimonio sia valido devono altresì sussistere determinati presupposti quali la diversità
di sesso tra gli sposi, lo scambio del consenso, la forma.
La dottrina distingue 3 categorie di requisiti per contrarre matrimonio:
1. requisiti necessari per l'esistenza giuridica dell'atto
2. requisiti prescritti come condizione di validità del matrimonio
3. requisiti che ne condizionano la semplice regolarità
Gli impedimenti si distinguono in impedimenti indispensabili o impedimenti non indispensabili a
seconda che postano o meno essere rimasti con autorizzazione giudiziale.
Il principio cardine secondo cui il matrimonio presuppone la diversità di sesso tra gli sposi è stato
messo in discussione, tanto che in alcuni paesi europei è stato disciplinato il matrimonio tra persone
dello stesso sesso, sul presupposto che il rispetto dell'orientamento sessuale della persona comporti che
l'ordinamento le debba consentire di accedere al matrimonio in conformità alle proprie inclinazioni,
altrimenti si tratterebbe di una discriminazione. Nell'ordinamento italiano in presenza del principio
secondo cui il matrimonio è l'unione di un uomo una donna la questione si è posta con riferimento alla
trascrivibilità in Italia del matrimonio contratto all'estero tra persone del medesimo sesso e si è discusso
anche sotto il profilo della costituzionalità delle norme che non consentono alle persone del medesimo
sesso di contrarre matrimonio. Per quanto riguarda i matrimoni celebrati all'estero da cittadini
italiani del medesimo sesso in un primo momento la giurisprudenza li aveva dati inesistenti puoi
comprare all'ordine pubblico e pertanto non erano trascrivibili; successivamente la Cassazione ha
ritenuto tale argomentazione non più adeguata al quadro giuridico sovranazionale ritenendo che la non
trascrivibilità delle unioni omosessuali non può farsi dipendere dalla loro inesistenza ma dipende dalla
loro inidoneità a produrre effetti giuridici nell'ordinamento italiano in particolare la Cassazione
muove dall'art. 12 Cedu, che ha acquisito un nuovo e più ampio contenuto che include il matrimonio
contratto tra persone dello stesso sesso: la Cedu ha affermato che il matrimonio omosessuale rimane un
istituto la cui integrazione è riservata agli stati membri. Da questa pronuncia la Cassazione argomentato
per ritenere che il requisito della differenza di sesso tra i nubendi dipende da una scelta del legislatore
nazionale superando la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi sia presupposto
indispensabile dell’esistenza stessa del matrimonio.
Per quanto riguarda la questione di legittimità costituzionale che alcuni giudici hanno sollevato in
quanto hanno ritenuto che alcuni articoli del codice civile non consentono che le persone di
orientamento omosessuale possono contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, si è ritenuto
che le norme in questione si pongono in contrasto con l'art. 2 Cost e anche con l'art. 117 comma 1 Cost
che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali, in particolare rilevando che le norme di diritto interno contrastano con le disposizioni
sovranazionali che riconoscono il diritto di sposarsi come un diritto fondamentale della persona, quale
ad esempio l'art. 12 Cedu e l'art. 9 Carta dei diritti fondamentali dell'Ue la corte cost ha dichiarato
inammissibile la questione di legittimità delle norme indicate nella parte in cui non consentono che le
persone di orientamento omosessuale possono contrarre il matrimonio con persone dello stesso sesso : in
particolare la corte ha sottolineato che l'art. 2 Cost non impone di pervenire ad una declaratoria di
illegittimità della normativa censurata né di estendere alle unioni omosessuali la disciplina del
matrimonio civile. Inoltre, sebbene nella nozione di formazione sociale possa rientrare anche l'unione
omosessuale, si deve tuttavia escludere che l'aspirazione al riconoscimento giuridico possa essere
realizzata solo attraverso un’equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio, pertanto ne deriva
che spetta al Parlamento individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni
omosessuali. La Cassazione ha affermato che nelle formazioni sociali di cui all'art. 2 è inclusa l'unione
omosessuale, sicché nell'ambito applicativo della norma da un lato spetta al Parlamento individuare
forme di garanzie di riconoscimento per tali unioni e dall'altro lato spetta alla corte cost intervenire a
tutela di specifiche situazioni che postulino un trattamento omogeneo tra condizione della coppia
coniugata e condizione della coppia omosessuale la corte cost è nuovamente intervenuta a decidere
della legittimità costituzionale della normativa che impone il divorzio in caso di rettificazione
dell'attribuzione di sesso: intervenendo la corte ha ribadito che la nozione di matrimonio del costituente
e quella definita dal codice civile, che stabilisce che i coniugi devono essere persone di sesso diverso, in
tale contesto l'unione omosessuale è da annoverarsi tra le formazioni sociali in cui all'art. 2 Cost le quali
devono essere oggetto di tutela da parte del legislatore.

Il requisito dell'età per essere ammessi a contrarre matrimonio è per entrambi i nubendi il compimento
dei 18 anni. L'art. 84 comma 2 cc prevede che il tribunale per i minorenni su istanza dell'interessato,
accertata la sua maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni addotte, sentiti il pm, i genitori o il
tutore, può con decreto emesso in camera di consiglio ammettere che possa essere legittimato a
contrarre matrimonio per gravi motivi colui che abbia compiuto i 16 anni. Per quanto riguarda il
requisito della maturità il tribunale dovrà accertare non solo la consapevolezza del minore in ordine agli
obblighi coniugali ma anche la sua idoneità ad affrontarli ed adempiere. Mancando la maturità
psicofisica non può essere prese in considerazione alcun motivo per quanto grave mentre qualora venga
verificato tale presupposto, resta ancora al giudice il compito di accertare la fondatezza delle ragioni
addotte e la sussistenza dei gravi motivi.
Ai sensi dell'art. 85 cc l’interdetto per infermità di mente non può contrarre matrimonio la ratio
della norma risiede nell’esigenza di proteggere l'incapace, il quale potrebbe subire un pregiudizio
nell'assumere un vincolo di fonte di doveri e di responsabilità; inoltre la rilevanza sociale e giuridica del
matrimonio escludono dal matrimonio colui non sia in grado di provvedere ai propri interessi: per
questo motivo il divieto non opera nel caso di interdizione legale (ha natura meramente sanzionatoria) e
non opera neppure in caso di inabilitazione (l'inabilitato può liberamente contrarre matrimonio senza
l'assistenza del curatore). Il divieto di contrarre matrimonio non è previsto per il soggetto sottoposto ad
amministrazione di sostegno, tuttavia si ritiene che il giudice tutelare possa estendere al beneficiario la
previsione ex art. 85 cc ovvero il divieto di sposarsi. Qualora l'ufficiale di stato civile rilevi che uno dei
nubendi sia incapace di intendere e di volere può darne notizia al pm, il quale dovrà promuovere
giudizio nel corso del quale chiederà che venga disposta la sospensione della celebrazione ai sensi
dell'art. 85 comma 2 cc. Se l'interdetto giudiziale abbia contratto matrimonio concordatario, questo non
potrà conseguire gli effetti civili in base all'art. 8 Accordo 1984 tra Italia-Santa Sede l’interdizione per
infermità di mente ne preclude la trascrizione.

L'ordinamento italiano stabilisce che non può contrarre un matrimonio chi sia già vincolato da un
precedente matrimonio art. 86 cc. Il divieto risponde ad esigenze di ordine pubblico e la violazione
del divieto comporta la nullità del secondo matrimonio e anche la sanzione penale prevista per il delitto
di bigamia. Il precedente matrimonio deve essere giuridicamente efficace per l'ordinamento,
indipendentemente dalla forma della sua celebrazione mentre è irrilevante il precedente matrimonio
nullo o sciolto per morte dell'altro coniuge oppure per divorzio o in seguito a dichiarazione di morte
presunta.

L'art. 87 cc attribuisce rilievo impeditivo ai legami derivanti da parentela, affinità e adozione:

 la parentela in linea retta all'infinito in linea collaterale di secondo grado dà luogo ad


impedimenti non dispensabili in quanto a questi sono sottese esigenze di ordine pubblico
 la parentela di terzo grado in linea collaterale è dispensabile ai sensi dell'art 87 comma 2 che
prevede l'autorizzazione del matrimonio da parte del Tribunale

Nella sua formulazione originaria l'articolo precisava che i divieti di contrarre matrimonio si applicano
anche se il rapporto dipende da filiazione naturale, anche se tale precisazione è venuto meno alla luce
della nozione di parentela introdotta con la riforma del 2012 che ricomprende tutti i soggetti discendenti
da uno stesso stipite.
L'impedimento derivante da affinità sussiste in linea retta all'infinito e in linea collaterale in secondo
grado l'impedimento in linea collaterale è dispensabile mentre in linea retta l'impedimento è
dispensabile solo se il matrimonio dal quale deriva la finita sia stato dichiarato nullo e non invece se sia
stato o sciolto o mi sia stata pronunciata la cessazione degli effetti civili.
Per quanto riguarda l’impedimento derivante da adozione, i n° 6-9 art. 87 cc riguardano l'adozione civile
dei maggiori di età nel caso di adozione di minori infatti valgono i divieti dei n° 1-2 art. 87 cc.
L'impedimento di cui all'art. 88 cc è fondato su ragioni di ordine pubblico e comporta il divieto di
celebrare il matrimonio tra persone delle quali l’una sia stata condannata per omicidio consumato o
tentato sul coniuge dell'altra.
L'art. 89 cc prevede del divieto temporaneo di nuove nozze, la cui ratio consiste nell'esigenza di
assicurare la certezza nell'attribuzione della paternità, evitando un potenziale conflitto tra le varie
presunzioni previste dalla legge perciò prima di contrarre nuovo matrimonio la donna deve attendere
che siano trascorsi 300 gg dalla morte del coniuge o dal passaggio in giudicato della sentenza di
divorzio o annullamento del precedente matrimonio, salvo il caso di dichiarazione per impotenza di uno
dei coniugi. In base a quanto disposto dal comma 2 art. 89 cc il tribunale può comunque autorizzare il
matrimonio quando viene escluso lo stato di gravidanza l'impedimento in questione è soltanto
impediente: se vengono comunque celebrate nuove nozze queste sono valide, anche se i coniugi e
l'ufficiale dello stato civile che ha celebrato il matrimonio incorrono nella sanzione pecuniaria di cui
all'art. 140 cc.

Il matrimonio deve di regola essere preceduto dalla pubblicazione, la cui mancanza non ne consente la
celebrazione è un procedimento disciplinato dagli art. 93 ss cc e artt. 50 ss D.P.R 396/2000 che ha lo
scopo di rendere conoscibile ai terzi l'intenzione delle parti di contrarre matrimonio al fine di consentire
l'eventuale proposizione di opposizione ai sensi dell'art. 102 ss cc e di avviare gli accertamenti
dell'ufficiale dello stato civile sull'inesistenza di impedimenti al matrimonio.
Legittimati a proporre l'opposizione al matrimonio (dà luogo a un procedimento contenzioso davanti al
tribunale), sono i genitori e in loro mancanza gli ascendenti e collaterali entro il terzo grado; in caso di
tutela curatela il diritto a proporre opposizione compete anche al tutore e curatore e nel caso di cui al
comma 5 anche al pm.
Il matrimonio ai sensi dell'art. 106 cc deve essere celebrato pubblicamente nella casa comunale 
l'art. 110 cc prevede tuttavia che la celebrazione possa tenersi anche in un luogo diverso dalla presenza
di testimoni quando uno degli sposi a causa di infermità impedimento sia nell'impossibilità di
presentarsi nella casa comunale; il matrimonio deve essere celebrato davanti all'ufficiale dello stato
civile gli sposi hanno presentato la richiesta di pubblicazione e si tratta di una competenza derogabile in
quanto l'art. 109 cc ammette la celebrazione in un comune diverso per ragioni di necessità o
convenienza. L'art. 107 cc la forma della celebrazione prevede la seguente sequenza:

1) la lettura da parte dell'ufficiale dello stato civile degli artt. 143, 144, 147 cc sui diritti e doveri
dei coniugi
2) la dichiarazione di ciascuna delle parti personalmente di volersi prendere rispettivamente in
marito e moglie
3) la dichiarazione dell'ufficiale di stato civile che le parti sono unite in matrimonio

Immediatamente dopo la celebrazione l'ufficiale compila l'atto di matrimonio, il cui contenuto è


disciplinato dall'art 64 d.p.r. 396/2000 dal quale si evince che il documento ha un contenuto necessario
(è costituito dalle generalità dei coniugi e dalla dichiarazione di volersi unire in matrimonio) e contiene
altresì un contenuto eventuale (se i nubendi intendano riconoscere figli nati fuori dal matrimonio o
compiere la scelta relativa al regime patrimoniale). Ai sensi dell'art. 108 cc la dichiarazione degli sposi
di prendersi rispettivamente in marito e moglie non può essere sottoposta né a termine né a condizione.
Il matrimonio celebrato davanti a una persona che non ha la qualifica di ufficiale di stato civile ma ne
esercita le funzioni è valido, salvo che entrambi gli sposi al momento della celebrazione siano a
conoscenza che la persona in questione non ne abbia la qualità→ art. 113 cc.
La riforma del 1975 ha valorizzato il consenso matrimoniale e privilegiato le ragioni di protezione e di
promozione del singolo rispetto a quelle della stabilità del vincolo. Ciò ha comportato un allargamento
delle cause di invalidità matrimoniali ad esempio ampliando la rilevanza dell'errore e prevedendo la
figura della simulazione.
Le invalidità matrimoniali sono disciplinate nella sezione intitolata Della nullità del matrimonio agli
artt. 117-129 bis cc, che raggruppa tutte le ipotesi di invalidità senza distinguere tra inesistenza, nullità e
annullabilità del matrimonio per quanto riguarda l'inesistenza, dottrina e giurisprudenza fanno
riferimento a questa con riguardo a situazioni estreme in cui il matrimonio non sia neppure
riconoscibile, ad esempio qualora manchi la celebrazione prevista nelle forme dell'art. 107 cc oppure
manchi il consenso delle parti. La distinzione tra nullità e annullabilità rileva in particolare con
riferimento alla convalida e alla imprescrittibilità delle relative azioni vanno ricomprese nella nullità
tutte quelle situazioni in cui legislatore tutela un interesse generale (ossia l'art. 86 in materia di bigamia,
l'art. 87 in materia di incesto l’art. 88 in materia di delitto) mentre tutte le altre ipotesi devono essere
ricondotte nella categoria dell'annullabilità in cui è protetto un interesse del singolo.
Una prima serie di invalidità del matrimonio deriva dalla mancanza di una delle condizioni richieste
dalla legge per la sua celebrazione sia i requisiti che riguardano l'età, la capacità, la libertà, il delitto 
ciascuna di queste condizioni se al momento della celebrazione è inesistente si converte in invalidità di
cui agli artt 117, 119 120 cc.
Altre ipotesi di invalidità derivano da vizi del consenso in quanto il matrimonio è atto di volontà che
richiede la formazione di un consenso libero e consapevole, il quale può essere impugnato dallo sposo il
cui consenso sia stato estorto con violenza, determinato dal timore di eccezionale gravità derivante da
cause esterne allo sposo o si è stato dato per effetto di errore art. 121 cc:

 violenza deve trattarsi di violenza morale e non di violenza fisica, in quanto quest'ultima
darebbe luogo a una mancanza assoluta di consenso; la giurisprudenza ha più volte affermato
che la violenza di cui all'art. 122 cc e non è diversa da quella prevista dall'art. 1435 cc in materia
di annullamento del contratto, pertanto la minaccia deve essere idonea a far temere un male
ingiusto e notevole sebbene si sia precisato in dottrina che l'equiparazione non possa esserci fino
al punto di considerare il rilevante la minaccia pura e semplice di far valere un diritto visto che
in materia matrimoniale e coinvolta la libertà della persona e pertanto ogni minaccia diretta ad
estorcere il consenso viene reputata di per sé ingiusta. La violenza per essere invalidante deve
essere effettiva e non semplicemente presunta, pertanto si esclude la rilevanza di un
atteggiamento imperioso; la minaccia può esprimersi con qualsiasi me anche senza evidenti
manifestazioni interiori. La minaccia alla persona può riguardare sia l'integrità fisica sia
l'integrità morale come ad esempio l'onorabilità o la reputazione del soggetto nell'ambiente
sociale in cui vive. Legittimato all'impugnazione è solo il coniuge il cui consenso è stato estorto
con violenza, tuttavia l'azione non può essere proposta se vi è stata coabitazione per 1 anno dopo
che sia cessata la violenza; in mancanza di coabitazione il termine di prescrizione dell'azione
quello ordinario di 10 anni che decorre dal giorno in cui è cessata la violenza
 timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo definito come
l'impulso psicologico che la percezione di un pericolo esercita sulla persona : la causa esterna
può consistere sia in un comportamento umano sia in una situazione oggettiva. Si esclude la
rilevanza del timore reverenziale (è quel timore che il soggetto prova verso le persone per le
quali nutre sentimenti di rispetto e di riverenza) e del timore putativo (timore che scaturisce
unicamente da interne rappresentazioni mentali dello sposo). Legittimato a proporre l'azione non
può essere proposta di coabitazione per un anno dopo che siano state le cause che hanno
determinato il timore mentre nel caso in cui non sia stata cavitazione il termine è quello
ordinario decennale
 errore la riforma del 1975 ha introdotto delle novità: accanto alla errore sull'identità della
persona, è stata introdotta la figura dell'errore essenziale sulle qualità personali dell'altro
coniuge è essenziale l'errore che abbia avuto efficienza determinante nel procedimento
formativo della volontà nel senso che occorre accettare tenute presenti le condizioni dell'altro
coniuge, che lo stesso non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute .
L'errore essenziale, oltre ad essere determinante del consenso, deve cadere su una delle 5 ipotesi
tassativamente elencate dalla norma che sono riconducibili a situazioni di ignoranza o falsa
rappresentazione della realtà:
1) l'esistenza di una malattia fisica o psichica o  di un'anomalia o deviazione sessuale tali
da impedire lo svolgimento della vita coniugale: si tratta di malattie fisiche come ad
esempio la sieropositività oppure malattie come ad esempio la psicosi maniaco-
depressiva, oppure anomalie sessuali come l’amenorrea primaria con impedimento alla
procreazione. Per quanto riguarda l'impotenza in passato era prevista come causa diretta
di nullità mentre oggi vale solo in quanto oggetto di errore da parte dell'altro coniuge al
pari delle altre malattie e anomalie sessuali l'impotenza coeundi maschile o femminile
rientra nel novero delle malattie o anomalie al pari dell'impotenza generandi.
L'impotenza oltre che antecedente deve essere perpetua (non guaribile). Per quanto
concerne l’impotenza generandi ci si è chiesti se l'esistenza di tecniche di procreazione
assistita potenzialmente in grado di sopperire alla incapacità di procreare sia rilevante
si ritiene che tali tecniche non possono essere considerate mere terapie della sterilità, con
la conseguenza che il matrimonio potrebbe essere invalido anche ove l'impotenza fosse
superabile solo attraverso il ricorso ad esse; tuttavia nel caso di spontanea sottoposizione
con esiti positivi non può più esercitarsi l'azione di annullamento, in quanto in questa
ipotesi non è ragionevole affermare che la condizione dello sposo impedisca lo
svolgimento della vita coniugale
2) l'esistenza di una sentenza di condanna per delitto non colposo alla reclusione non
inferiore a 5 anni, salvo il caso di intervenuta riabilitazione prima della celebrazione del
matrimonio. L'azione di annullamento non può essere proposta prima che la sentenza di
condanna sia divenuta irrevocabile e l'errore deve essere sull'esistenza di una condanna
penale anteriore al matrimonio, con la conseguente irrilevanza della mancata conoscenza
di fatti delittuosi commessi prima del matrimonio per intervenuta dopo la celebrazione
dello stesso
3) la dichiarazione di delinquenza abituale o professionale
4) circostanza che l'altro coniuge sia stato condannato per delitti concernenti la
prostituzione appena non inferiore a 2 anni
5) lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore  se la
gravidanza è portata a termine può essere esercitata purché sia stato disconoscimento
della paternità, al fine di evitare l'eventuale di un matrimonio annullato per errore sulla
gravidanza causato da persona diversa dallo sposo. Se la gravidanza si è interrotta si
ritiene che l'azione sia ugualmente esperibile
La legittimazione spetta al coniuge caduto in errore, il quale deve esercitare l'azione prima che sia
trascorso 1 anno di coabitazione dalla scoperta dell'errore, decorrente per la malattia dalla certezza della
sua inguaribilità e per le condanne penali dalla loro irrevocabilità; se non vi è stata fabbricazione
l'azione si prescrive nel termine ordinario di 10 anni.

La simulazione è stata introdotta all'art. 123 cc quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere
agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti. Presupposto fondamentale affinché si abbia
simulazione del matrimonio è la pattuizione precedente al matrimonio per gli sposi volta ad escludere la
società coniugale una volta sposati, accordo dal quale deve emergere i coniugi vogliono dar vita solo a
un apparente matrimonio pertanto è irrilevante la riserva mentale e sono irrilevanti i motivi per i quali
si è contratto matrimonio e la relativa simulazione parziale.
La giurisprudenza ha ritenuto simulato il matrimonio celebrato previo reciproco accordo degli sposi al
fine di acquistare la cittadinanza, per consentire la partecipazione a pubblici concorsi, per sottrarsi alle
insistenze per un matrimonio riparatore.
La prova dell'accordo simulato può essere fornita con ogni mezzo di prova, derogando quindi alla
disciplina prevista in materia contrattuale che prevede delle specifiche limitazioni, pertanto è ammessa
anche la prova testimoniale (non sono ammessi la confezione il giuramento decisorio trattandosi di
diritti indisponibili). La legittimazione all'impugnazione spetta a ciascuno dei coniugi l'art. 123
comma prevede 2 ipotesi di decadenza:

 l'azione non può essere proposta nel caso in cui abbiano convissuto come successivamente alla
celebrazione delle nozze
 l'azione non può essere proposta nel caso in cui sia proposta decorso 1 anno dalla celebrazione
del matrimonio

Si parla di matrimonio putativo con riferimento al matrimonio invalido celebrato in buona fede da
almeno 1 dei coniugi che lo ha considerato valido al momento della celebrazione.
L'art. 128 cc sancisce una deroga al principio generale dell’improduttività di effetti di un atto giuridico
nullo, stabilendo che il matrimonio putativo produce egualmente effetti in favore dei coniugi o di uno di
essi e dei figli e tale eccezione si giustifica per tutelare il coniuge in buona fede e la prole--> il comma 1
stabilisce che se il matrimonio è dichiarato nullo gli effetti del matrimonio valido si producono in favore
dei coniugi fino alla sentenza che pronuncia la nullità, quando i coniugi stessi lo hanno contratto in
buona fede oppure quando il loro consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di
eccezionale gravità derivante da causa esterna; il comma 3 dispone che se tali condizioni si verificano
per uno solo dei coniugi gli effetti valgono solo in favore di se entrano in malafede al tempo della
celebrazione non si applica il comma 1, sebbene sopravvivano limitati quali le prestazioni contributive
effettuate spontaneamente. Gli effetti del matrimonio valido si producono senza limiti temporali rispetto
i figli, anche qualora 1 solo dei coniugi si trovi nelle condizioni per poter beneficiare degli effetti del
matrimonio valido; inoltre anche se entrambi i coniugi siano in malafede il matrimonio dichiarato nullo
produce gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli nati o concepiti durante lo stesso come
prescritto dal comma 4, salvo che la nullità dipenda da incesto (in questo caso occorre il riconoscimento
giudizialmente autorizzato).
Il legislatore prevede una sorta di ultrattività degli effetti del matrimonio nullo l'art. 129 cc
stabilisce che quando le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi,
il giudice può disporre, e per un periodo non superiore a 3 anni, l'obbligo di corrispondere somme
periodiche di denaro a favore dell'altro ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a
nuove nozze. L'art. 129 bis cc è ritenuto applicabile anche alla nullità del matrimonio concordatario
dichiarata esecutiva nell'ordinamento statale e prevede che il coniuge al quale sia imputabile la nullità
del matrimonio sia tenuto a corrispondere all'altro coniuge in buona fede, qualora il matrimonio sia
annullato, una congrua indennità la buona fede si identifica nel incolpevole ignoranza della specifica
circostanza per la quale è stata pronunciata la novità e non può essere qualora la situazione invalidante
fosse percepibile con l'uso dell'ordinaria diligenza.

Ai sensi dell'art. 130 cc l'atto di matrimonio estratto dai registri dello stato civile costituisce la
fonte di prova privilegiata dell'unione coniugale in quanto attraverso tale documento l’ufficiale di
stato civile o il ministro di culto celebrante attesta che le nozze sono avvenute in sua presenza e con la
sua partecipazione nel luogo e nel tempo che risultano dall'atto.
Il possesso di stato conforme all'atto di matrimonio vale a sanare ogni difetto di forma dell'atto; i suoi
elementi costitutivi si ricavano in via analogica da quanto disposto dall'art. 237 cc e sono rappresentati:

 dal nomen (circostanza che i coniugi si siano sempre identificati come tali che la moglie abbia
portato il cognome del marito)
 dal tractatus (i coniugi hanno sempre agito alla stregua di persone sposate)
 dalla fama (circostanza che la generalità dei consociati gli abbia sempre considerati come marito
e moglie)

L'art. 82 cc stabilisce che il matrimonio celebrato davanti a un ministro del culto cattolico è
regolato in conformità del concordato con la Santa Sede e delle leggi speciali sulla materia 
significa che il matrimonio concordatario è regolato dal diritto canonico per quanto riguarda la
celebrazione e requisiti di validità e acquista effetti civili dal momento della celebrazione delle nozze a
seguito della trascrizione nei registri dello stato civile. Con l'Accordo di revisione del 1984 sono state
introdotte alcune importanti modifiche in quanto sono stati riconosciuti effetti civili ai matrimoni
contratti secondo le norme del diritto canonico a condizione che l'atto relativo sia trascritto nei registri
dello stato civile previa pubblicazione nelle case comunali; subito dopo la celebrazione il parroco o un
suo delegato spiegherà ai contraenti gli effetti civili del matrimonio dando lettura degli articoli del cc
che riguardano i diritti e doveri dei coniugi e redigerà in doppio originale l'atto di matrimonio nel quale
potranno essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite secondo la legge civile, ossia l'opzione
per il regime patrimoniale e/o riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio.
La seconda novità rispetto al Concordato del 1929 si registra in relazione alla produzione degli effetti
civili che non è più automatica ma subordinata alla volontà degli sposi manifestata in tal senso per
quanto riguarda la trascrizione, la norma pattizia prevede che di regola la richiesta di trascrizione sia
fatta per iscritto al parroco del luogo dove il matrimonio è stato celebrato entro 5 gg dalla
celebrazione e che l'ufficiale di stato civile vi provveda entro 24 h dandone poi notizia al parroco .
È tuttavia possibile la trascrizione tardiva che può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei
contraenti (o anche di uno solo di essi con la conoscenza e senza l'opposizione dell'altro), sempre che
entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello
della richiesta di trascrizione ne consegue che la trascrizione post mortem non è consentita e che,
richiedendo nel caso di istanza da parte di uno solo dei coniugi l’attuale conoscenza e la mancanza di
opposizione dell'altro, tali requisiti non possono dedursi da una dichiarazione degli sposi di consentire
alla trascrizione del vincolo.
A seguito dell'accordo di revisione è nata in dottrina in giurisprudenza una discussione in ordine alla
fine o meno della riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità del
matrimonio, riserva espressamente prevista nell'accordo del 1929 le S.U. hanno stabilito che l'art. 13
Accordo 1984 prevede l'abrogazione delle disposizioni del precedente concordato che non sono
riprodotte nello stesso, concludendo per l'esistenza di un concorso tra giurisdizione italiana nelle cause
di nullità del matrimonio; successivamente la corte cost si è espressa a favore della persistenza della
riserva rimane comunque aperta in dottrina la questione di quale sia da parte del giudice italiano il
diritto applicabile nei giudizi di nullità dei matrimoni concordatari.
Per quanto concerne la questione del riconoscimento nel diritto interno delle sentenze ecclesiastiche
di nullità matrimoniale, l'accordo del 1984 ha sancito la scomparsa dell'automatismo: oggi il
procedimento non è più installabile d'ufficio ma esige l’iniziativa dei coniugi, in seguito alla quale la
Corte d'Appello compie gli accertamenti di rito e di merito previsti dall'Accordo del 1984 e in
particolare si stabilisce che le sentenze di nullità del matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici
che sono munite del decreto di esecutività sono dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con
sentenza della Corte d'Appello competente (nel giudizio di delibazione è necessario l'intervento del pm,
la cui mancanza rende nullo il procedimento e la procedura). La Corte d'appello dichiara l'efficacia delle
sentenze ecclesiastiche quando accerta la competenza del giudice ecclesiastico a conoscere della causa.
Nonostante la diversità di disciplina dell'ordinamento canonico rispetto alle disposizioni del codice
civile in tema di invalidità del matrimonio, la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di delibare tutte
le ipotesi di nullità matrimoniale canonico, sebbene ci sia qualche incertezza in ordine alla rilevanza
della riserva mentale unilaterale su uno dei bona matrimonii in ossequio al principio di tutela della
buona fede e dell'affidamento incolpevole nei confronti della parte che ignorava la riserva dell'altro in
merito vi sono stati diversi orientamenti in quanto si è passati da una posizione rigida che ammette la
delibazione solo quando la riserva mentale non sia rimasta nella sfera psichica del suo autore e sia stata
manifestata all'altro coniuge, per arrivare a una posizione più aperta per la quale l'ostacolo alla
delibazione non può essere ravvisato quando il coniuge chieda la declaratoria di esecutività della
sentenza ecclesiastica la Corte d'Appello.
Ci si è posta la questione se la prolungata convivenza fra i coniugi costituisca elemento ostativo alla
delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio secondo alcuni il protrarsi della
convivenza matrimoniale rappresenta una manifestazione della volontà di accettazione del rapporto che
risulta incompatibile con il successivo esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione . Le S.U. hanno
affermato che la convivenza coniugale che si sia protratta per almeno 3 anni dalla data di celebrazione
del matrimonio concordatario trascritto crea una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali
che non consente sia dichiarata efficace nel territorio della Repubblica, per contrarietà all'ordine
pubblico interno, la sentenza definitiva di nullità del matrimonio pronunciata dal giudice ecclesiastico
per qualsiasi vizio genetico accertato e dichiarato nell'ordine canonico. Per quanto concerne i
provvedimenti riguardanti i coniugi e figli, la giurisprudenza ha affermato che la delibazione da parte
della Corte d'Appello di una sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio rende applicabili le
norme dettate in tema di matrimonio putativo, le quali a loro volta rinviano agli artt. 337 bis ss cc.
La disciplina applicabile ai matrimoni celebrati davanti a ministri dei culti è quella prevista dal
codice per il matrimonio celebrati davanti all'Ufficiale di Stato Civile, salvo quanto diversamente
previsto dalla l. 1159/1929 a cui l'art. 83 cc rinvia. La legge in questione prevede una disciplina generale
e relativa ai matrimoni di tutte le religioni diverse da quella cattolica. In anni recenti lo stato ha stipulato
varie intese con rappresentanza di confessioni religiose diverse da quella cattolica , come ad esempio nel
1984 l'intesa stipulata con la Tavola Valdese che ha portato alla riduzione degli oneri procedimentali
a carico del ministro di culto e ha soppresso l'approvazione governativa del ministro di culto , per cui
ciascun ministro nominato è automaticamente abilitato alla celebrazione di matrimonio avente rilevanza
civile; inoltre è stata eliminata anche l'autorizzazione scritta al matrimonio che è stata sostituita con un
nulla osta con il quale l'ufficiale dello stato civile attesta che non ci sono ostacoli alla celebrazione del
matrimonio.
Altre intese che si possono ricordare sono quella con le comunità israelitiche, quella con le comunità
Battista, quella con la chiesa luterana e quella con l'Unione buddhista italiana.

I cittadini italiani possono celebrare il matrimonio in un paese straniero secondo le forme stabilite
nello stato purché ricorrano le condizioni necessarie dettate dal codice civile agli artt. 84 ss cc  il
principio si collega a quanto affermato dall'art. 27 l. 218/1995 che stabilisce che la capacità
matrimoniale e le altre condizioni sono regolate dalla legge nazionale al momento del matrimonio e
l'art 28 stabilisce che il matrimonio è valido se considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione.
Lo straniero può contrarre matrimonio in Italia secondo quanto prescritto dall'art. 116 cc, ossia
deve presentare all'ufficiale dello stato civile una dichiarazione dell'autorità competente del proprio
paese dalla quale risulta il nulla osta al matrimonio (nel 2009 era stata prevista una legge dove si
prevedeva che lo straniero avesse l'obbligo di presentare un documento attestante la regolarità del
soggiorno nel territorio italiano: la norma è stata dichiarata illegittima in quanto contrasta con la libertà
di contrarre matrimonio). In mancanza del rilascio del nulla osta è sempre possibile rivolgersi al
tribunale ex art. 112 cc, il quale può autorizzare la celebrazione qualora ritenga che il rifiuto o
l'omissione dell'autorizzazione giustificata della libertà matrimoniale.

CAPITOLO 3: I RAPPORTI PERSONALI TRA CONIUGI


In passato il tema dei doveri nascenti dal matrimonio era strettamente connesso alla disciplina della
separazione giudiziale, che era fondata sul principio della colpa il catalogo dei doveri e la
determinazione della loro estensione rappresentavano uno strumento indispensabile per il giudice
chiamato a pronunciarsi sulla richiesta del coniuge incolpevole si domandava la separazione.
Negli anni più recenti si è assistito ad una rivalutazione della rilevanza giuridica dei doveri coniugali, la
cui violazione ritenuta fonte di responsabilità in capo al coniuge che l'abbia posta in essere.
L'art. 143 cc stabilisce che con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e
assumono i medesimi doveri. Il comma 2 elenca i doveri reciproci che attengono che derivano dal
matrimonio:

 fedeltà l'obbligo di fedeltà riveste una posizione importante tra i doveri reciproci derivanti dal
matrimonio, riguardando la persona di entrambi i coniugi nella sua interezza. L'obbligo di
fedeltà permane durante il temporaneo allontanamento di un coniuge dalla residenza familiare;
tuttavia secondo l'orientamento più recente si ha cessazione dell'obbligo una volta che avviato
l'iter formale di separazione giudiziale sia stata emessa l'autorizzazione del presidente del
tribunale a vivere separati ai sensi dell'art. 708 cpc
 assistenza l'obbligo di assistenza morale e materiale costituisce il necessario completamento
di quell’impegno di vita assieme che i coniugi assumono con il matrimonio in una prospettiva
generale può essere interpretato quale dovere dei coniugi di proteggersi a vicenda e di
proteggere la prole, ma il profilo morale dell'assistenza riguarda il sostegno reciproco
nell'ambito affettivo, psicologico e spirituale: quello che è certo è che nell’obbligo di assistenza
morale deve farsi rientrare il dovere di rispettare la persona dell'altro coniuge (la Cassazione ha
affermato che quest'obbligo deve ritenersi violato in presenza di un rifiuto non giustificato di
aiuto e conforto spirituale accompagnato dalla volontaria aggressione della personalità dell'altro
per annientarla). Il profilo materiale dell'assistenza riguarda invece d'aiuto che i coniugi nella
vita di tutti i giorni debbono fornirsi reciprocamente
 collaborazione la collaborazione nell'interesse della famiglia riguarda comportamenti
necessari a soddisfare le esigenze del nucleo familiare nel suo complesso: la collaborazione non
può essere pretesa oltre limiti derivanti dalla capacità e dalla personalità di ciascun coniuge
 coabitazione questo dovere nel testo originario dell'art. 143 occupava una posizione
preminente, mentre oggi invece la coabitazione si riferisce ad abitare sotto lo stesso tetto,
sebbene la definizione non vada letta esclusivamente in chiave materiale in quanto si deve
ritenere che il termine coabitazione si riferisca alla comunione di vita che si instaura tra i coniugi

I coniugi fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della
famiglia stessa art. 144 cc: il riferimento alle esigenze della famiglia lascia intendere che i coniugi,
nel determinare il luogo della residenza comune, devono tenere conto non solo degli interessi personali
ma anche di quelli dei figli e contemperare gli uni agli altri.
La scelta della residenza familiare diventa problematica quando entrambi i coniugi svolgono il proprio
lavoro in luoghi diversi, in quanto in questo caso è difficile stabilire quale sia da considerare la dimora
familiare a tal proposito l'art. 45 cc stabilisce che ciascuno dei coniugi ha il proprio domicilio nel
luogo in cui ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi , pertanto si evince come ciascuno
dei coniugi può avere un proprio domicilio. Può esserci il caso in cui uno/entrambi i coniugi siano
costretti a dimorare abitualmente nel luogo in cui hanno eletto il proprio domicilio e allontanarsi
stabilmente dalla residenza comune: in questi casi i coniugi avranno residenze autonome ma
l'unità della famiglia non sarà compromessa, fino a quando permane l'intento di dare vita a un
unione.
Nell'ordinamento manca uno statuto legale che disciplini in modo organico i profili che scaturiscono
dalla specifica destinazione familiare impressa a un immobile e manca altresì una definizione di casa
familiare, che la giurisprudenza intende come quell’insieme di beni (mobili e immobili) finalizzati
all'esistenza domestica della comunità familiare e alla conservazione degli interessi in cui si esprime e si
articola la vita familiare. Per la persona coniugata il diritto fondamentale di abitazione si declina con
modalità speciali e porta con sé quello di attuarlo unitamente allo sposo: a tal proposito l’art. 146 cc
sospende il diritto all'assistenza morale e materiale nei confronti di quel coniuge che allontanatosi
senza giusta causa dalla residenza familiare rifiuta di tornarvi; inoltre l’art. 144 cc, nello stabilire il
principio del necessario accordo in ordine all'indirizzo della vita familiare, specifica che i coniugi
fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia
stessa: ne consegue che è l'individuazione della casa familiare è frutto dell'accordo.
In questo contesto viene in rilievo il tema della natura del diritto che spetta al coniuge sulla casa
familiare la situazione di comproprietà prevede che ciascuno dei coniugi possa godere uti dominus
della casa ai sensi dell’art. 1102 cc realizzandosi così una situazione di compossesso mentre per quanto
attiene il potere di disporre questo è regolato ai sensi dell’art. 180 comma 2. L'art. 194 comma 2 cc
prevede che in sede di divisione dei beni della comunione legale il giudice, in relazione alle necessità
della prole, ha il potere di custodire a favore di uno dei coniugi l'usufrutto su una parte dei beni spettanti
all'altro. Nell'ipotesi di comunione ordinaria, ciascun coniuge può compiere validamente atti di
disposizione concernenti la sua quota ai creditori del coniuge possono aggredire la predetta quota al fine
di soddisfare qualsiasi loro credito pertanto, sebbene il bene sia comune e funzionale alla destinazione
abitativa familiare, non ci sono eccezioni rispetto alle regole proprietarie ordinarie  il caso più
controverso attiene a quello in cui i coniugi abbiano stabilito di utilizzare quale casa familiare quella di
proprietà esclusiva di uno di loro: in linea di principio non si ravvisano limitazioni al diritto del
proprietario di godere e disporre della casa e nemmeno tali limitazioni sono riscontrabili ai sensi dell'art.
143 cc, il quale impone al coniuge proprietario di non compiere atti che impediscano o rendano più
gravoso il godimento della casa familiare la disciplina legislativa mostra tutte le sue lacune, in quanto
non viene tutelato fino in fondo il diritto fondamentale dei familiari all'abitazione, che può essere
pregiudicato dagli atti di disposizione del proprietario.
Per quanto attiene la natura di tale diritto sembra doversi concludere che si tratta di diritto personale
di godimento, ancorché in linea di principio non potrebbe escludersi il sorgere di un diritto reale di
abitazione, considerato che il diritto di abitazione può scaturire dalla legge. Tuttavia deve negarsi la
sussistenza di un diritto reale in quanto:

 da un lato manca un’esplicita previsione normativa in tal senso


 dall'altro lato l'art. 540 cc dispone in favore del coniuge superstite l'attribuzione del diritto di
abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei mobili che la corredano a titolo di
legato ex lege

Per quanto concerne il contenuto di questo diritto personale di godimento, il diritto in questione
ricalca quello del diritto reale di abitazione e in ordine alla durata sussiste fino a quando nuovi accordi
non lo facciano cessare la regola dell'accordo sembra escludere che il coniuge proprietario possa
unilateralmente sciogliersi dei patti stipulati ai sensi dell'art. 144 cc in ordine alla destinazione del suo
immobile a casa familiare. Qualora la casa familiare non sia di proprietà dei coniugi o di uno di essi ma
ivi abitano in virtù di un contratto di locazione di comodato, il contratto in questione può essere
concluso da parte di entrambi i coniugi oppure di uno solo di essi: in ogni caso si realizza una co-
detenzione che da un lato garantisce la successione nel contratto da parte del coniuge di altri familiari
conviventi e dall'altro lato prevede che in caso di separazione o scioglimento del matrimonio succeda
nel contratto di locazione il coniuge a cui sia stato attribuito dal giudice il diritto ad abitare nella casa
familiare.
Un altro problema è quello di fare in modo che la casa di abitazione della famiglia sia protetta dalle
decisioni unilaterale del coniuge proprietario, le quali possono eventualmente pregiudicare i diritti
dell'altro coniuge e dei figli in questo caso il profilo proprietario si scontra con quello personale dei
doveri di contribuzione ai bisogni familiari, che potrebbe giustificare la fissazione di limiti al potere di
disposizione; la questione tuttavia non viene affrontata in quanto non esiste uno strumento giuridico
previsto dalla legge che consenta al coniuge dissenziente di contrastare la decisione del titolare
dell'immobile in cui si trova l’abitazione familiare in altri ordinamenti la questione invece viene
affrontata: ad esempio in Francia è prevista una disposizione che stabilisce che gli sposi non possono
singolarmente disporre dei diritti attraverso i quali assicurata l'abitazione della famiglia ne possono
disporre dei beni mobili che arredano, in Spagna è stato stabilito che il coniuge proprietario non può
senza il consenso dell'altro coniuge compiere atti di alienazione o comunque di disposizione del suo
diritto sull'abitazione familiare o sui mobili che ne compromettano l'uso, salvo l'autorizzazione
dell'autorità giudiziaria qualora sussista una giusta causa.

Tra i doveri che nascono dal matrimonio c'è quello di contribuzione ai bisogni della famiglia e in
particolare la legge stabilisce che entrambi i coniugi sono tenuti a contribuire ai bisogni della famiglia ai
sensi del comma 3 e ai sensi dell’art. 147 cc sono entrambi tenuti a mantenere, istruire, educare e
assistere moralmente la prole in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la propria capacità di
lavoro professionale o casalingo queste disposizioni, pur essendo dettate nell'ambito dei rapporti
personali tra i coniugi, in realtà si riverberano sul loro matrimonio che viene impegnato per assolvere a
tali doveri: a questo riguardo si parla di regime patrimoniale primario imperativo che è volto a
regolare l'obbligo di contribuzione ed è inderogabile. Le regole che lo costituiscono disciplinano il
dovere di contribuzione per il soddisfacimento dei bisogni familiari e tali norme sono complementari a
quelle dettate in materia di rapporti patrimoniali coniugi.
L'art. 143 comma 3 cc enuncia espressamente il dovere dei coniugi di contribuire ai bisogni della
famiglia in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo:
la contribuzione assume una configurazione paritaria e reciproca e si identifica nell'obbligo di
concorrere a soddisfare le necessità della famiglia, pertanto viene rafforzata l'idea della famiglia intesa
come formazione dove i singoli possono perseguire lo sviluppo dei propri diritti della personalità e trova
le sue basi in un impegno comune di solidarietà. L'individuazione dei bisogni della famiglia non dipende
solo dalle scelte dei coniugi ma anche dalla loro capacità contributiva.
L'art. 143 cc fa riferimento anche alla capacità di lavoro di entrambi i coniugi, sia professionale
sia casalingo, e non più solo alle loro sostanze la dottrina ha sottolineato come il lavoro casalingo
venga preso in considerazione al pari del lavoro esterno: ciò evidenzia il rapporto di parità morale e
giuridica dei coniugi nell'aspetto legislativo, nonché il contributo preminente della donna in ragione
della sua essenziale funzione familiare come prescritta dall'art. 37 Cost. L’obbligo di contribuzione
permane per tutta la durata della convivenza e grava anche sul coniuge che si allontana, il cui
comportamento è passibile di sanzione penale ai sensi dell'art. 570 cp.
Ci si chiede se il coniuge che non sia intervenuto nella conclusione di un contratto stipulato
dall'altro coniuge con un terzo per soddisfare le esigenze della famiglia sia comunque responsabile
nei confronti del creditore per le obbligazioni sorte dal contratto la giurisprudenza
tendenzialmente esclude questo sulla base del principio di relatività ex art. 1372 cc, anche se sovente
afferma che un coniuge è responsabile delle obbligazioni assunte in suo nome dall'altro qualora sia stata
posta in essere una situazione tale da far ritenere al terzo contraente sulla base del principio
dell'apparenza giuridica che il coniuge avesse il potere di impegnare anche l'altro.

L'art. 143 bis cc stabilisce che la moglie aggiunge al proprio il cognome del marito: questa norma
costituisce una deroga al principio di uguaglianza previsto dall'art. 29 Cost e appare ispirata dalla
necessità di assicurare primarie esigenze di carattere collettivo che impongono l'esistenza di un nome
familiare: per conseguire l’obiettivo il legislatore ha rispettato la tradizione e sociale che prevede che la
famiglia abbia un unico cognome che si identifica nel cognome del marito, anche se tuttavia sono
possibili altre soluzioni come ad esempio l'attribuzione ai coniugi della facoltà di scelta in ordine al
cognome familiare. L'art. 143 bis cc precisa che la moglie conserva il cognome del marito durante lo
stato vedovile finché non passi a nuove nozze e la l. div. ne determina la perdita in caso di divorzio,
sebbene all’art. 5 comma 2 stabilisce che la perdita del cognome del marito, in caso di nuove nozze o di
divorzio, può essere vietata qualora la donna abbia particolari interessi meritevoli di tutela a
conservarlo. Una proposta di superamento del sistema in questione era stata presentata durante il corso
della XV legislatura ove è stato presentato un d.d.l. che prevedeva che ciascun coniuge potesse
conservare il proprio cognome; al tema del cognome della moglie si affianca il problema del cognome
dei figli ai quali attualmente viene imposto il cognome del marito, sebbene la corte cost e la Corte Edu
ritengano che tale modalità appaia in via di superamento.

L'art. 144 cc stabilisce che i coniugi concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la
residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa  la
regola dell'accordo deve essere coordinata con il principio di libertà individuale: ad esempio si è spesso
prospettato il caso di un coniuge accusato di violazione dei propri doveri coniugali per aver cambiato
fede religiosa la giurisprudenza prevalente ritiene che se l'art. 19 Cost stabilisce che tutti sono liberi di
professare la propria fede religiosa in qualsiasi forma, tale diritto non può non essere garantito anche
all'interno della famiglia, pertanto il mutamento di fede non può costituire violazione dei doveri
coniugali, salvo che il comportamento di vita adottato dal coniuge non abbia reso intollerabile la vita
coniugale.
(La legge riconosce talvolta ad uno solo dei coniugi il potere di prendere alcune decisioni è il
caso della legge sull'ivg, che attribuisce in via esclusiva alla donna il diritto di interrompere la
gravidanza e le dà facoltà di consultare il marito in quanto padre del concepito: la corte cost è
intervenuta sulla legittimità della norma in quanto era stata sollevata questione di legittimità lamentando
la violazione del principio di eguaglianza ma la corte ha dichiarato infondata la questione evidenziando
come la scelta di lasciare la donna unica responsabile della decisione sia stata il risultato di una
valutazione di tipo politico, la quale è insindacabile.)
Per quanto riguarda la definizione dell'indirizzo familiare, in dottrina emerge una vasta gamma di
pareri: tuttavia quasi tutti gli autori concordano nel ritenere che nelle scelte di indirizzo vengano
ricompresi profili a carattere sia personale sia economico proprio perché l'indirizzo della vita
familiare riguarda la determinazione dei modi di svolgimento dei contenuti e dei doveri coniugali,
l'accordo su di esso non può essere cristallizzato ma è in continuo sviluppo e viene adattato secondo le
esigenze concrete. Il comma 1 art. 144 cc si occupa del criterio al quale coniugi devono attenersi nel
determinare l'indirizzo della vita familiare, stabilendo l'obbligo di tenere conto delle esigenze di
entrambi e di quelle preminenti della famiglia  la dottrina ha rilevato che le 2 ipotesi a prima vista
sembrano essere in conflitto tra di loro poi che mentre la prima sottintende un dovere di solidarietà
reciproca, la seconda sembra identificare nel gruppo in sé il portatore di esigenze non confondibili con
quelle dei singoli.
Il comma 2 stabilisce che ciascuno dei coniugi ha il potere di dare, individualmente, concreta attuazione
al programma concordato, in armonia con il principio di eguaglianza il legislatore ha quindi voluto
rendere agevole la conduzione del menage.
Tuttavia l'art. 145 cc dispone che se i coniugi non raggiungono spontaneamente all'accordo possono
ricorrere all'intervento del giudice il quale è chiamato a svolgere un'attività di supporto a beneficio della
famiglia in crisi e apprezzare la propria assistenza per risolvere i contrasti coniugali  il comma 1
stabilisce che entrambi i coniugi, in caso di disaccordo, possono richiedere l'intervento del giudice:
compito del giudice è quello di tentare di raggiungere una soluzione concordata svolgendo una funzione
conciliativa in particolare sentendo i coniugi e, per quanto opportuno, i figli conviventi maggiori di 16
anni. Qualora non sia raggiunta la conciliazione entrambi i coniugi possono chiedere di adottare con un
provvedimento non impugnabile la soluzione che più si ritiene adatta alle esigenze dell'unità e della vita
della famiglia.

L'art. 146 cc attiene al dovere del reciproco obbligo all'assistenza morale e materiale il comma 1
disciplina la fattispecie del coniuge che si allontana senza giusta causa dalla residenza familiare e che
rifiuti, nonostante l'invito dell'altro, di farvi ritorno e si dispone che nei suoi confronti sia sospeso il
diritto all'assistenza morale e materiale previsto dall'art. 143 cc (l'allontanamento è tale se intenzionale e
duraturo). Per quanto concerne la nozione di giusta causa, questa è generale ed è indeterminata di modo
che il giudice possa valutarla in concreto caso per caso è stato osservato che il mero riferimento alla
clausola generale di cui all'art. 151 cc non è idoneo ad individuare tutte le possibili situazioni che
giustificano un allontanamento, in quanto prende in considerazione solo delle soluzioni che sono
irreparabili, quando in realtà un allontanamento potrebbe anche protrarsi solo temporaneamente. Il
comma 2 elenca una serie di cause quali la proposizione della domanda di separazione o di
annullamento o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio che legittimano
l'allontanamento in quanto sinonimo della fine della comunione di vita: non si tratta di un elenco
tassativo ad esempio la giurisprudenza ritiene che possa essere considerata una giusta causa di
allontanamento anche i frequenti litigi domestici della moglie con la suocera convivente.
Il comma 3 prevede che secondo le circostanze il giudice possa ordinare il sequestro dei beni del
coniuge che sia allontanato affinché questo non si sottragga agli obblighi di contribuzione e di
mantenimento della prole sebbene il coniuge decida di allontanarsi dalla casa coniugale, costui deve
comunque adempiere agli obblighi previsti dall'art. 143 comma 2 cc (tranne quello di coabitazione) in
quanto la cessazione senza giusta causa della convivenza non fa venire meno gli obblighi di
assistenza morale e materiale e questo viene sancito anche dall'art. 570 cp il quale prevede che
chiunque abbandonando il domicilio domestico comunque serbando una condotta contraria all'ordine o
alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale o
alla qualità di coniuge è punito.
Il legislatore inoltre si è posto l'obiettivo di contrastare ogni forma di violenza maturata all'interno
del nucleo familiare, introducendo nel cc, nel cpc e nel cpp alcune misure urgenti in favore della
vittima della violenza familiare l'obiettivo è quello di tutelare il convivente debole.
Per quanto attiene ai profili privatistici è stato introdotto il titolo IX bis nel cc cd Ordini di protezione
contro gli abusi familiari, introducendo gli artt. 342 bis-342 ter:

 l'art. 342 bis cc stabilisce che quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di
grave pregiudizio all'integrità fisica e morale o alla libertà dell'altro coniuge o convivente, il
giudice può adottare con decreto uno o più provvedimenti tra quelli espressamente individuati
nell'art. 342 ter
 l'art. 342 ter cc stabilisce che è dato imporre al coniuge o al convivente responsabile dell'abuso,
oltre che la cessazione della violenza, anche l'allontanamento dalla casa familiare prescrivendo
altresì, se necessario, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima

La legge prende in considerazione l'eventualità che l'autore della condotta pregiudizievole sia colui
che di regola provvede al sostentamento della famiglia, e consente al giudice di imporre al coniuge o
convivente allontanato il pagamento periodico di un assegno a favore dei familiari, fissando altresì
modalità e termini di versamento e prescrivendo se necessario che la somma sia versata direttamente
all'avente diritto dal datore di lavoro dell'obbligato, detraendola dalla retribuzione. Le norme in
questione devono essere coordinate con gli artt. 330 e 333 cc, che consentono al T.M., nell'assumere
provvedimenti sulla responsabilità genitoriale, di disporre l'allontanamento dalla casa familiare del
genitore o convivente che maltratta il minore. Queste misure non possono essere adottate qualora sia
pendente un procedimento di separazione o di divorzio, sempre che, al momento della decisione, si sia
già svolta l'udienza presidenziale: in questo caso si applicano i provvedimenti provvisori, tra i quali c'è
quello di assegnazione della casa coniugale.
La durata dell'ordine di protezione è stabilita dal giudice ma in ogni caso è limitata in quanto non
si può protrarre per oltre 6 mesi, con possibilità di proroga su istanza di parte qualora ricorrano
gravi motivi.

CAPITOLO 4: I RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI


Secondo una definizione consolidata il regime patrimoniale della famiglia è rappresentato dalla
disciplina delle spettanze e dei poteri dei coniugi dei familiari in ordine all'acquisto e alla gestione dei
beni. In origine il codice prevedeva che in mancanza di apposite convenzioni matrimoniali i rapporti
patrimoniali tra coniugi si svolgessero nel regime della separazione dei beni, pertanto ciascun coniuge
rimaneva titolare esclusivo dei propri beni. Con la riforma del 1975 il regime legale dei rapporti tra i
coniugi e quello della comunione dei beni, inoltre è stata vietata la costituzione della dote ed è stata
disciplinata l'impresa familiare.
Nel sistema pattizio, ossia quello che si instaura mediante una volontà espressa dei coniugi, ci sono 3
tipi di convenzioni matrimoniali:
1. fondo patrimoniale: uno o più beni vengono destinati a far fronte ai bisogni della famiglia e in
parte vengono sottratti alla disponibilità dei coniugi e alla garanzia generica dei creditori ex art.
170 cc letto in combinato disposto con l'art. 2740 cc
2. comunione convenzionale: il regolamento viene fissato dai coniugi in parziale deroga rispetto a
quello della comunione legale
3. separazione dei beni: la titolarità e la gestione dei beni acquistati durante il matrimonio rimane
esclusiva in capo a ciascun coniuge
Il fondo patrimoniale ha un oggetto limitato in quanto può concernere solo beni immobili o beni mobili
registrati oppure titoli di credito, mentre invece la separazione dei beni e la comunione convenzionale
sono veri e propri regimi patrimoniali in quanto ineriscono la totalità del patrimonio dei coniugi . Il
regime della comunione legale ha avuto un impatto complesso con la realtà sociale: oggi ci si chiede se
sia soltanto una clausola di stile, in quanto il regime di separazione dei beni riscuote crescente
consenso i dati statistici dimostrano l'inadeguatezza del sistema legale, il quale era pensato per una
realtà sociale che non teneva sufficientemente conto della raggiunta parità uomo-donna e della diffusa
instabilità matrimoniale. Sembra corretto affermare che il legislatore non abbia inteso dare attuazione ai
principi espressi negli artt. 3 e 29 Cost tramite il regime della comunione; piuttosto il principio di parità
ha fatto il suo ingresso nel diritto di famiglia riformato attraverso la disposizione dell'art. 143 comma 3
cc, che sancisce l'obbligo per entrambi i coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia in proporzione
alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo. Questa disposizione è
destinata a trovare applicazione, stante la sua inderogabilità ai sensi dell'art. 160 cc e dalla sua
inderogabilità si può trarre conferma del fatto che costituisce espressione di un principio costituzionale;
l'inderogabilità assoluta non è invece stabilita per il regime della comunione in quanto questo ai sensi
dell'art. 159 cc è derogabile, pertanto risulta evidente che la previsione di questo regime come legale
non ha lo scopo di dare attuazione all'art. 29 Cost, anche se la comunione è tendenzialmente apparsa
come il regime più idoneo a controbilanciare l'eventuale debolezza della donna.

La comunione è il regime legale dei rapporti patrimoniali tra i coniugi che vige in mancanza di diversa
stipulazione ai sensi dell'art. 162 cc la comunione si instaura automaticamente all'atto del matrimonio,
prima ed indipendentemente dall'eventuale acquisto di beni, salvo che i coniugi non vivere vino
mediante specifica convenzione (prima della riforma del ’75 la comunione costituiva un’ipotesi di
convenzione matrimoniale). Per quanto riguarda la natura giuridica della comunione legale sono state
formulate diverse soluzioni, in particolare emergono 2 indirizzi:

 l'indirizzo soggettivistico il quale fa valere quanto prescritto dall'art. 180 cc che implicitamente
ammetterebbe l'esistenza di un altro soggetto diverso dai coniugi
 l'indirizzo oggettivistico ritiene invece che l'art. 180 cc contiene solo un'espressione impropria,
in quanto se si considerano l'art. 194 e l'art. 189 cc si conclude che non è configurabile un
patrimonio autonomo, bensì una contitolarità dei beni coniugali con ciò non deve però
ritenersi che si possa configurare una contitolarità ordinaria sui singoli cespiti come nella
comunione ex artt. 1100 ss cc in quanto i 2 istituti divergono tra di loro: anzitutto con riguardo
alla fonte, in quanto per la comunione legale la fonte è sempre e solo la legge mentre per la
comunione ordinaria può anche essere la volontà delle parti. Inoltre il comproprietario non può
disporre dell'intero cespite ma può solo alienare o ipotecare la propria quota secondo quanto
disposto dall'art. 1103 e l'atto con cui si disponga dell'intero è inidoneo a produrre effetto reale
mentre invece il coniuge in comunione può qualora ricorrono i presupposti di cui agli artt. 181-
183 cc disporre dell'intero e anche al di fuori di queste ipotesi l'atto con cui dispone del bene
comune non è inefficace ma è sanzionato con la nullità.
Per quanto riguarda l'amministrazione, le norme in materia di comunione ordinaria prevedono che
l'amministrazione sia congiunta da attuarsi attraverso un processo deliberativo con maggioranza oppure
all'unanimità a seconda della natura degli atti; invece per la comunione legale è prevista
un’amministrazione disgiunta per quanto riguarda l’ordinaria amministrazione mentre è congiunta per il
compimento di atti di straordinaria amministrazione.
Tuttavia il patrimonio della comunione legale non costituisce patrimonio di destinazione l’art.
186 cc sancisce espressamente che i beni della comunione rispondono per le obbligazioni contratte dai
coniugi congiuntamente, non occorrendo che esse siano state contratte per i bisogni della famiglia.
Nel regime di comunione legale possono coesistere 3 distinte masse di beni:
1. beni comuni, i quali sono oggetto di comunione immediata di cui alla lett. a) e d) Art 177 cc,
ove la comproprietà nasce come effetto legale indipendentemente dal fatto che un solo coniuge
abbia acquistato il bene o ne sia l'intestatario formale
2. beni oggetto di comunione differita che divengono comuni solo al momento dello
scioglimento della comunione stessa ex art 177 lett. b) e c) e art. 178 cc
3. beni personali che rimangono nella titolarità esclusiva di ciascun coniuge
L'oggetto immediato della comunione legale si restringe agli acquisti compiuti durante il matrimonio e
alle aziende gestite da entrambi i coniugi o agli utili e agli incrementi derivanti dalla gestione comune 
da ciò deriva la definizione della comunione legale come comunione degli acquisti: se il concetto di
acquisto viene inteso nel senso di risultato, si deve escludere la titolarità delle azioni che nascono dal
contratto anche in capo al coniuge che non ne sia stato parte formale. Se si intende l'acquisto come
risultato si pone il problema se l'oggetto sia rappresentato dai soli bene oppure anche dai diritti: la
dottrina che riferisce il concetto di acquisto al bene conclude che l'art. 177 lett. a) cc esclude tutti gli
acquisti che non abbiano ad oggetto diritti reali in quanto solo per questi è prevista una comunione di
godimento; viceversa la tesi minoritaria ritiene che il consulto di acquisto vada riferito al diritto e quindi
anche al diritto di credito. Una tesi intermedia ritiene invece che nel consulto di acquisto rientra ogni
diritto purché rappresenti un investimento che arricchisca in modo stabile il patrimonio e non abbia
carattere strumentale. In virtù della loro capacità di incrementare in modo stabile il patrimonio, sono
stati annoverati tra i beni che cadono in comunione i titoli di stato, i titoli di partecipazione azionaria
acquistati in costanza di matrimonio da 1 solo dei coniugi e allo stesso intestati e i fondi agricoli
riscattati ai sensi della l. 369/1967.
Problemi particolari sorgono per alcune fattispecie di acquisto dottrina e giurisprudenza si sono
poste il problema della compatibilità degli acquisti a titolo originario con quanto disposto dall'art. 177
lett. a) cc che definisce i beni che cadono in comunione immediata. Sono state addotte 3 argomentazioni
per sostenere la tesi negativa:
 la prima argomentazione verte sul tenore letterale dell'art. 177 lett. a) cc che non riporta più la
dizione “acquisti a qualunque titolo” come prevista nel vecchio cc in materia di comunione
convenzionale
 la seconda argomentazione ricava dall'art. 179 lett. b) cc il principio generale della qualità di
personale di quei beni non acquistati a titolo oneroso
 la terza argomentazione si basa sul tenore del termine “compiuti”, da cui si inserisce che
l'acquisto a titolo originario non potrebbe ritenersi compiuto in quanto presuppone un
comportamento materiale che lo oppone all'acquisto negoziale
La dottrina maggioritaria ritiene che gli acquisti a titolo originario costituiscano oggetto di comunione
immediata.
Particolari questioni emergono con riguardo all'usucapione e all'accessione:
 l'usucapione opera in virtù del possesso continuato nel tempo e alcuni autori ritengono che i beni
usucapiti non possano essere oggetto di comunione in quanto la nozione del concetto di acquisto
escluderebbe i beni a titolo originario, stante l'incertezza del momento in cui il bene entra nel
patrimonio del soggetto; altro rientramento (prevalente) ritiene invece che non rileva l'eventuale
anteriorità del possesso rispetto alla data di inizio del regime legale ed indipendentemente dal
fatto che il possesso sia stato esercitato da un solo coniuge
 l’accessione è stata oggetto di dibattito sia in dottrina sia in giurisprudenza e in particolare i
contrasti riguardano il caso in cui sul terreno di proprietà esclusiva di un coniuge sia stata
edificata in regime di comunione una costruzione mediante l'utilizzo di denaro comune  la
giurisprudenza, avallata dalle S.U., si è orientata verso la tesi della prevalenza dell’accessione,
in considerazione del fatto che una conclusione di segno opposto porterebbe ad ammettere la
costituzione di un diritto di superficie in favore del coniuge non proprietario del fondo al di fuori
dei casi previsti dalla legge

Tra gli acquisti a titolo originario vengono esclusi dalla comunione quelli per alluvione, avulsione,
unione e commistione in quanto sono semplici espansioni del diritto personale preesistente.
Per quanto riguarda l'occupazione, l'invenzione e la specificazione si ritiene che i relativi acquisti
cadano in comunione immediata se non derivano da attività separate del coniuge; per quanto riguarda
gli acquisti a non domino si ritiene che al di fuori dei casi di cui all'art. 179 cc, l'acquisto cade in
comunione secondo le regole ordinarie. Per quanto riguarda le creazioni intellettuali, l'opinione
prevalente ritiene che al coniuge inventore spetti in via esclusiva il diritto all'attribuzione del bene
immateriale e la facoltà di trasmissione dei diritti di utilizzazione mentre cadono in comunione de
residuo i proventi che l'autore-inventore ricava dallo sfruttamento di questi ultimi.
Oggetto della comunione possono anche essere diritti reali minori si discute in ordine all'ipotesi di
acquisto della servitù: stante l'impossibilità di scindere il diritto reale di servitù dalla titolarità del fondo,
questo seguirà la sorte del diritto di proprietà, salvo la nascita di un diritto di credito a favore del
coniuge non titolare nel caso di investimento di beni comuni per l'acquisto di servitù a favore del fondo
di proprietà dell'altro. Per quanto concerne l’uso e l’abitazione secondo alcuni a causa del loro carattere
personale entrano in comunione solo nei rapporti interni tra coniugi e non sono opponibili ai terzi:
tuttavia l'orientamento prevalente ritiene che i diritti in questione, pur conservando la loro peculiare
natura, entrino a far parte della comunione. Per quanto riguarda l'usufrutto questo può tranquillamente
far parte della comunione e la peculiarità consiste nella sua durata, in quanto secondo alcuni è
commisurata alla vita del coniuge intestatario dell'usufrutto mentre secondo altri con la caduta del bene
in comunione l'estinzione avviene con la morte del coniuge che vive più a lungo.
Si discute in ordine al tema delle partecipazioni societarie in relazione alle partecipazioni che
comportano assunzione di responsabilità illimitata, la dottrina prevalente inquadra il loro acquisto come
strumento del coniuge per l'esercizio della propria attività economica, con la conseguenza per cui queste
rimangono nella piena ed esclusiva titolarità e disponibilità del coniuge stesso salvo il diritto dell'altro
sui proventi sulla liquidazione della quota; tuttavia la giurisprudenza ritiene che le quote di
partecipazione del coniuge a una società di persone e i loro aumenti costituiscano oggetto della
comunione legale tra coniugi e rientrano tra gli acquisti.
Per quanto riguarda gli acquisti di partecipazioni sociali di società di capitali si ritiene che gli acquisti
cadono in comunione in quanto le partecipazioni devono considerarsi a tutti gli effetti beni mobili e
come tali sono ricompresi nel disposto dell'art. 177 letta. a) cc.
La comunione de residuo è quella forma di comunione relativa a beni che diventano comuni per la
parte che residua al momento dello scioglimento della comunione legale. La comunione de residuo
comprende:

A. i frutti dei beni propri di ciascun coniuge percepiti e non consumati al momento dello
scioglimento della comunione
B. i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se allo scioglimento della comunione non
siano stati consumati
C. i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli
incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente

Sono proventi dell'attività separata quelle utilità conseguite da ciascun coniuge per lo svolgimento di
qualsiasi prestazione lavorativa, subordinata, autonoma o professionale. Secondo una parte della
dottrina non rileva distinguere tra frutti e proventi in quanto la disciplina di fondo e unitaria visto che
rientrano entrambi nella comunione de residuo; altri invece ritengono che la distinzione sia importante
in quanto la legge detta una disciplina differente poiché mentre i frutti rientrano in una comunione de
residuo solo se percepiti, invece i proventi cadono in comunione anche se questi non sono di pronta
percezione. Cadono comunque in comunione differita le somme non consumate dei cd accantonamenti.
Dall'appartenenza dei beni alla categoria della comunione de residuo discende che durante la vigenza
del regime di comunione legale rimangono di proprietà di chi li percepisce e l'amministrazione è
affidata al solo coniuge proprietario perciò i beni in questione rimangono nella libera disponibilità
del titolare fino a quando non opera lo scioglimento della comunione. Presupposto per la caduta in
comunione de residuo al momento dello scioglimento è che i frutti e proventi non siano stati
consumati si possono considerare frutti consumati quelli che il percettore o comunque utilizzato, per
cui cadono in comunione solo i frutti ancora esistenti nel patrimonio al momento dello scioglimento :
questa nozione è stata oggetto di critiche in quanto si è attribuita rilevanza a comportamenti del coniuge
contrari alla solidarietà familiare (la dottrina ha riconosciuto l'esistenza di un diritto di buona
amministrazione in capo a ciascun coniuge nei riguardi dell'altra). Da parte di alcuni autori è stata
prospettata la sussistenza di un’aspettativa al futuro ingresso di frutti e proventi in comunione, in quanto
non appare conforme a buona fede un comportamento del coniuge non rispettoso dell'interesse dell'altro;
altra dottrina invece ritiene che sia configurabile una responsabilità ex art. 2043 cc nel caso in cui il
coniuge titolare abbia dolosamente disposto del proprio denaro al fine di evitarne la caduta in
comunione.
Ci si interroga se al momento dello scioglimento si instaura una vera e propria contitolarità sui beni
della comunione de residuo o nasca un diritto di credito a favore del coniuge non titolare nei confronti
dell'altro corrispondente al valore dei beni una parte della dottrina ritiene che sui beni in questione si
instauri una contitolarità tra coniugi; viceversa altra dottrina ritiene che ciò non sia possibile sia per
ragioni di opportunità sia per ragioni di carattere tecnico.
Profilo di particolare interesse è quello che attiene ai rapporti tra comunione e attività
imprenditoriale di 1 o di entrambi i coniugi l'art. 177 lett. d) cc stabilisce che costituisce oggetto
della comunione immediata le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio , il
comma 2 precisa che qualora si tratti di aziende appartenenti a uno dei coniugi antecedentemente al
matrimonio ma gestite da entrambi la comunione attiene solo per gli utili e incrementi.
In primo luogo si deve stabilire se l'attività di impresa che i coniugi svolgono congiuntamente
debba essere regolata come gestione di un'azienda in comunione legale soggetta alle norme in
tema di amministrazione della comunione oppure se si considera preferibile ritenere i coniugi alla
stregua di soci di una società semplice una parte della dottrina ritiene applicabili le norme della
comunione in quanto il fondersi degli elementi della cogestione e della comunione legale deriva una
figura particolare; altri invece ritengono che sia preferibile ricorrere alla figura della società di persone
in quanto questa appare maggiormente favorevole ai creditori. Una posizione intermedia invece
valorizza la distinzione tra i profili che attengono alla proprietà (soggetti alle norme sulla comunione) e
quelli che attengono la gestione (soggetti alle norme sulla società).
L’art. 178 cc colloca nella comunione de residuo i beni destinati all'attività di impresa quando questa sia
esercitata da 1 solo coniuge e non congiuntamente i beni in questione sono inclusi nella comunione de
residuo per il solo fatto della destinazione all'impresa, non essendo necessario né un atto formale di
destinazione né la partecipazione dell'altro coniuge.
Sono esclusi dal regime di comunione di beni personali ex art. 179 cc. L'elencazione dei beni
personali ha carattere composito l'esclusione della contitolarità può aversi infatti in ragione:

 del tempo dell'acquisto: sono considerati personali i beni dei quali ciascuno coniuge era
titolare prima del matrimonio. Sotto il profilo del momento acquisitivo ci sono ipotesi che
possono dare i dubbi circa la natura personale del bene, in particolare i casi più frequenti
riguardano il contratto preliminare, il negozio sottoposto a condizione e la vendita con riserva di
proprietà:
 per quanto riguarda il contratto preliminare alcuni ritengono che occorre avere riguardo
al momento in cui viene stipulato il contratto definitivo perché solo in questo momento
viene a prodursi l'effetto reale, invece altri ritengono che si tratti di acquisto personale
perché il bene è rappresentato dalla situazione giuridica preliminare
 per quanto riguarda il contratto sottoposto a condizione che è stato stipulato prima del
matrimonio il problema si pone qualora la condizione si verifica dopo il matrimonio
per effetto della retroattività della condizione si ritiene che l'acquisto sia personale
 per quanto riguarda il caso della vendita con riserva di proprietà, parte della
giurisprudenza ha ritenuto che nel caso in cui l'ultima rata pagata nella vigenza del
regime legale il bene acquistato cade in comunione; altra parte della dottrina ha ritenuto
che vada qualificato come personale in quanto il momento economico più significativo
si è realizzato prima del matrimonio, sebbene poi il trasferimento della proprietà in capo
all'acquirente si sia verificato dopo il pagamento dell'ultima rata
 del titolo: risultano esclusi dalla comunione di beni acquistati per donazione o successione,
sebbene sia consentito al donante e al testatore attribuire il bene alla comunione la
ragione dell'esclusione viene individuata nel rispetto della volontà del disponente e della fiducia,
che di regola caratterizza questo attribuzioni. Il riferimento alla successione è stato interpretato
in dottrina in modo ampio, comprendendo le disposizioni a titolo universale e quelle a titolo
particolare. Ci si domanda se nel termine “donazioni” rientrino le liberalità che si caratterizzano
attraverso la donazione indiretta e il contratto a favore di terzo: si ritiene preferibile
l'applicazione estensiva della norma, la quale si estenderebbe fino a ricomprendere la donazione
remuneratoria
 della destinazione economica del bene acquistato: viene in rilievo l'uso strettamente personale
di cui all'art. 179 lett. c) cc i beni di uso strettamente personale sono personali in virtù della
loro destinazione oggettiva volta a soddisfare le esigenze del coniuge; tali solo sicuramente quei
beni che non possono essere utilizzati dall'altro, come ad esempio un paio di occhiali. Per la
dottrina prevalente questi beni non esauriscono la categoria in esame in cui si fanno rientrare
anche quei beni che sono utilizzati abitualmente da un solo coniuge e servono per soddisfare
interessi o esigenze personali, come ad esempio l'attrezzatura per praticare uno sport. Il
problema nasce quando un bene non ha una destinazione naturale all'uso personale, come nel
caso dei beni mobili registrati oppure dei beni mobili in quanto sono suscettibili di destinazione
diverse.
Anche i beni che servono all'esercizio della professione sono caratterizzati da una particolare
destinazione che ne giustifica l'esclusione dalla comunione e i presupposti affinché operi
l'esclusione sono 2:
1. l'effettivo esercizio di una professione
2. la strumentalità del bene all'esercizio della professione
Anche la proprietà di un immobile può essere ricompresa nell'ambito di cui all'art. 179 lett. d)
cc il comma 2 stabilisce che sia necessaria la formalità della dichiarazione dell'altro coniuge.
La lett. e) stabilisce che sono personali i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno e la
pensione attinente alla perdita parziale e totale della capacità lavorativa (si esclude che rientri in
questa categoria la rendita percepita in forza di un contratto di assicurazione sulla vita In quanto
rientra nella previsione di cui all'art. 177 lettera c) cc). In ordine ai beni acquistati con il prezzo
del trasferimento dei beni personali o con il loro scambio la lett. f) dispone che è personale
il bene che provenga da un atto di scambio di un bene personale la finalità della norma in
esame è di concedere al coniuge disponente la possibilità di evitare l'effetto legale della caduta
in comunione del nuovo bene acquistato garantendogli il potere di modificare la composizione
del proprio patrimonio; il principio di surrogazione di cui alla lett. f) si atteggia diversamente a
seconda che il bene che si surroga sia un bene mobile o un bene immobile: nel caso di beni
mobili la norma richiede lo scambio + una dichiarazione del coniuge titolare, mentre in caso di
beni mobili registrati/beni immobili è richiesto anche che all'atto di acquisto intervenga il
coniuge dell'acquirente.
L'interpretazione dell'art. 179 cc ha fatto emergere incertezze sotto diversi profili:
o quello della dichiarazione del coniuge acquirente: con riferimento alla posizione del
coniuge acquirente si ritiene che sia necessaria una dichiarazione di conseguire il bene
personale e delle ragioni oggettive che ne giustificano il conseguimento individuale
o quello relativo all'essenzialità della partecipazione all'atto del coniuge non acquirente
le S.U. hanno sancito l'essenzialità della partecipazione del coniuge non acquirente
all'acquisto dei beni immobili o mobili registrati effettuato dopo il matrimonio dell'altro
coniuge in regime di comunione legale; non è sufficiente che il coniuge non acquirente
intervenga nell'atto ma è indispensabile che ricorrano in concreto le cause di esclusione
dalla comunione indicate all'art. 179 comma 1 lett. c, d, f) cc
o quello della natura giuridica della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente all'atto
dell'acquisto--> la Cassazione ha operato alcune precisazioni riguardo alla natura della
dichiarazione resa dal coniuge non acquirente: è stato chiarito che la natura personale del
bene si atteggia diversamente nel caso in cui dipende dall’acquisto dello stesso con il
prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente oppure dalla
destinazione del bene all'uso personale o all'esercizio della professione di quest'ultimo--
> nel primo caso la dichiarazione assume natura ricognitiva e ha portata confessoria di
presupposti di fatto già esistenti; nel secondo caso esprime la condivisione dell'intento
del concedente in ordine alla destinazione professionale del bene. Per quanto concerne
l'acquisto di beni immobili personali non sono richieste particolari formalità, stabilendo
che colui che intenda conseguire l'esclusione dalla comunione dei beni acquistati con il
trasferimento di beni strettamente personali e con il loro scambio e tende nella
dichiarazione in parola solo quando possono sorgere dubbi in ordine alla natura
personale del bene impiegato per l'acquisto
Un problema è quello di stabilire se i coniugi di comune accordo possono escludere l'acquisto in
comunione a prescindere dal ricorrere dei presupposti di cui all'art. 179 lett. c), d), f) cc  in un
primo momento la Cassazione aveva ritenuto che l'operatività del principio del coacquisto
potesse essere esclusa in forza della sola dichiarazione con la quale il coniuge non acquirente
aderisce alla non caduta in comunione del bene. In senso contrario si è affermato anche la
dichiarazione resa dal coniuge non acquirente non basta da sola ad impedire la caduta in
comunione del bene in quanto al fine di evitare la caduta del bene in comunione è necessario che
ricorrono sia i presupposti oggettivi sia una dichiarazione in tal senso del coniuge non
acquirente. Ci si chiede come vada interpretato il rifiuto del coniuge di partecipare all'atto in
forza del quale l'altro voglia procedere all'acquisto di un bene personale e quale sia il possibile
rimedio: secondo alcuni si può adire il giudice per ottenere l'autorizzazione all'acquisto, mentre
secondo altri è necessario promuovere un giudizio contenzioso per accertare l'illegittimità del
rifiuto

Il principio fondamentale che presiede alla amministrazione dei beni comuni è ispirato alla assoluta
parità dei coniugi in quanto la legge conferisce a questi il potere di compiere disgiuntamente gli atti di
ordinaria amministrazione e congiuntamente gli atti di straordinaria amministrazione ai sensi dell'art.
180 cc, che è norma inderogabile in quanto collegata alla regola costituzionale della parità--> sono atti
di straordinaria amministrazione quelli astrattamente idonei ad apportare modifiche alla
composizione o alla consistenza del patrimonio; rientrano tra gli atti di ordinaria amministrazione
quegli atti tendenti al normale godimento del bene e alla sua conservazione.
Per l'ipotesi di amministrazione congiunta al fine di evitare che il rifiuto del consenso di uno dei coniugi
paralisi i complimenti di un'operazione necessaria nell'interesse della famiglia o dell'azienda facente
parte della comunione, il legislatore all'art. 181 cc ha previsto una specifica autorizzazione del tribunale
a compiere l'atto.
L'art. 182 comma 1 cc nel disciplinare l'ipotesi della lontananza o di impedimento di uno dei coniugi
fa riferimento all'eventualità che sia stata rilasciata all'altro una procura che gli consenta di agire per gli
atti di straordinaria amministrazione anche in mancanza dell'altro; l'art. 183 cc prevede una serie di
ipotesi in cui uno dei coniugi può essere escluso dall'amministrazione dei beni della comunione
l'esclusione può essere chiesta all'autorità giudiziaria da un coniuge qualora l'altro sia minore di età o
abbia male amministrato mentre invece opera di diritto in caso di interdizione.

L'art. 184 al comma 1 cc prevede che gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso
dell'altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni
mobili elencati nell'art. 2683 la formula è riferita solamente agli altri dispositivi di cose della
comunione, pertanto se si attua l'alienazione di un bene comune il contratto è ricompreso nella sfera di
applicazione dell'art. 184 comma 1 cc mentre se l'atto dispositivo di acquisto il bene di cui si dispone è
il denaro trova applicazione la disciplina dell'ultimo comma.
Nel caso in cui uno dei coniugi non abbia prestato il consenso, si distingue tra gli atti concernenti i beni
immobili o mobili registrati e gli atti inerenti i beni mobili:

o per quanto riguarda i beni immobili o mobili registrati l'atto è sanzionato con l'annullabilità,
la cui azione va esercitata entro 1 anno dalla data in cui il coniuge ha avuto conoscenza dell’atto
e comunque della trascrizione; nel caso in cui l’atto non sia stato trascritto e l’altro coniuge non
ne sia venuto a conoscenza, il termine annuale di prescrizione decorre dallo scioglimento della
comunione
o per i beni mobili l'atto resta valido ed efficace, con la sola conseguenza del sorgere di un
obbligo per il coniuge disponente di ricostituire la comunione o qualora non sia possibile di
pagarne l'equivalente ad istanza dell'altra

Si evince come il legislatore abbia cercato di contemperare da un lato l'interesse del terzo acquirente e
dall'altro quello del coniuge pretermesso non che far salva la sicurezza della circolazione dei beni: a tal
proposito taluni hanno ritenuto che sarebbe stato più appropriato prevedere il ricorso all’inefficacia
piuttosto che all'azione di annullabilità in quanto l'interesse del coniuge non partecipante sarebbe meglio
salvaguardato con l'applicazione dei principi generali in tema di relatività del contratto. La corte cost ha
affermato che l'atto con il quale un coniuge dispone di un bene comune è efficace anche con riguardo
alla quota dell'altro qualora quest’ultimo non proponga azione di annullamento ai sensi dell'art. 184
comma 2 cc e così facendo finisce per convalidare implicitamente l'atto.

La legge prevede degli obblighi gravanti sui beni comuni, distinguendoli da quelli particolari di
ciascuno dei coniugi: ne deriva che nell'ambito delle obbligazioni facenti capo a un soggetto coniugato
in regime di comunione legale, si deve distinguere tra obbligazioni riguardanti la comunione e
obbligazioni personali di ciascun coniuge, per il cui adempimento il debitore risponde in primo luogo
con i beni personali.
Nell'ipotesi in cui il credito rimanga insoddisfatto, se il debito è della comunione e i beni di questa non
sono sufficiente a far fronte al debito, i creditori in via sussidiaria possono agire sui beni personali di
ciascun coniuge nella misura della metà del credito secondo quanto stabilito dall'art. 190 cc. Se invece si
tratta di debito personale, qualora i creditori non si soddisfano con il patrimonio dell'obbligato possono
aggredire i beni della comunione fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato ai sensi
dell'art. 189 comma 2 cc.
Secondo parte della dottrina l'elencazione di cui all'art. 186 cc deve considerarsi tassativa, pur non
essendo preclusa un'interpretazione estensiva delle categorie indicate sono debiti della comunione:

 tutti quelli gravanti sui beni della comunione al momento dell'acquisto: tale previsione sembra
ricomprendere esclusivamente i vincoli di natura reale in senso stretto gravanti sui singoli beni
quali ipoteche, pegni, privilegi e ogni genere di oneri reali e di obbligazione propter rem
 quelli derivanti dall' amministrazione ordinaria del patrimonio comune: per carichi
dell'amministrazione si intendono quelle obbligazioni che hanno la loro fonte negli atti di
ordinaria amministrazione che ciascuno dei coniugi può validamente compiere, come ad
esempio il pagamento di contributi condominiali, le spese di assicurazione e manutenzione.
Qualora l'obbligazione derivi da un altro di straordinaria amministrazione compiuto da 1 solo
dei coniugi si applica l'art. 189 comma 1 cc; la dottrina ricomprende in questa categoria anche le
obbligazioni di fonte extracontrattuale che discendono da responsabilità collegate all'utilizzo dei
beni che fanno parte della comunione
 le spese per il mantenimento della famiglia e per istruzione ed educazione dei figli, nonché ogni
altra obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia
 ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi l’interesse della famiglia è presunto
in quanto insito nell’agire congiunto dei coniugi

L’art. 190 cc pone problemi di coordinamento con le norme di carattere generale in tema di obbligazioni
solidali e responsabilità patrimoniale allorché si riferisce alla posizione del coniuge che si è
personalmente obbligato: si ritiene che la limitazione di responsabilità nella misura della metà valga
solo per il coniuge che non abbia assunto personalmente l'obbligazione congiuntamente e che l'art. 190
cc non possa invocarsi quando l'obbligazione sia stata assunta congiuntamente.
Per quanto riguarda i debiti personali di ciascuno dei coniugi è previsto che i beni della comunione,
sia pure in via sussidiaria, rispondono fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato 
sono debiti personali quelli assunti nell'interesse del proprio o altrui patrimonio oppure quelli derivanti
dallo svolgimento di attività separata, ai quali sono equiparati debiti nascenti dal compimento di un atto
che eccede l'ordinaria amministrazione senza il consenso dell'altro coniuge.
Nel caso in cui i creditori personali del coniuge aggrediscono i beni della comunione ci si chiede quale
sia l'oggetto dell'azione esecutiva la dottrina si divide tra la posizione di chi ritiene che il limite del
valore della rilevi per ogni singolo bene e altri che invece ritengono che il limite venga in rilievo con
riferimento al valore globale della quota potendo i beni, fino al valore, essere aggrediti per intero.

I casi che determinano lo scioglimento della comunione sono elencati all'art. 191 cc, i quali portano in
realtà alla cessazione del regime di comunione legale e non necessariamente una divisione dei beni (per
ottenere la divisione occorre un contratto di divisione oppure un provvedimento giudiziale).
La cessazione avviene:

 a seguito di rottura del vincolo matrimoniale


 a seguito di dichiarazione di morte presunta o di assenza
 a seguito di separazione personale si discutere in ordine al momento in cui si verifica la
cessazione del regime, anche se l'opinione prevalente ritiene che la cessazione avvenga nel
momento in cui passa in giudicato la sentenza di separazione personale, sebbene ciò comporti
gravi conseguenze dal punto di vista pratico: infatti i coniugi durante il tempo necessario per
terminare la causa di separazione personale si trovano nel regime di comunione, con l'effetto di
paralizzare il compimento di atti di disposizione. Per questo la giurisprudenza di merito ha
ritenuto che la cessazione retroagisce al momento della comparizione dei coniugi davanti al
presidente; la Cassazione ha ribadito che il fatto costitutivo del diritto ad ottenere lo
scioglimento della comunione legale dei beni coincide sempre con il passaggio in giudicato
della sentenza di separazione giudiziale o l'omologa, precisando però che il passaggio in
giudicato della sentenza di separazione non costituisce una condizione di procedibilità della
domanda giudiziale di scioglimento della comunione legale e divisione dei beni ma solo una
condizione dell'azione, per cui la domanda diretta a conseguire la divisione dei beni che sono
oggetto di comunione è proponibile anche durante la pendenza del giudizio di separazioneper
porre rimedio a questa discrasia nel 2014 è stato introdotto il cd divorzio breve che, prevede
l'aggiunta di un ulteriore comma all'art. 191 cc ove si dispone che nel caso di separazione
personale la comunione tra i coniugi venga meno nel momento in cui presidente del tribunale
autorizza i coniugi a vivere separati ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di
separazione consensuale dei coniugi davanti al Presidente, purché omologato. Qualora i coniugi
siano in regime di comunione legale la domanda di separazione deve essere comunicato
all'ufficiale dello stato civile ai fini dell'annotazione margine dell'atto di matrimonio.
 a seguito di separazione giudiziale dei beni secondo quanto disposto dall'art. 193 cc la
separazione giudiziale dei beni può essere pronunciata in caso di interdizione o inabilitazione di
uno dei coniugi o di cattiva amministrazione della comunione; può anche essere pronunciata
quando il disordine degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta
nell'amministrazione dei beni metta in pericolo gli interessi dell'altro, della comunione, della
famiglia oppure quando uno dei coniugi non contribuisca ai bisogni familiari in misura
proporzionale alle proprie sostanze e incapacità di lavoro. La sentenza che pronuncia la
separazione dei beni viene annotata a margine dell'atto di matrimonio e sull'originale delle
convenzioni matrimoniali e retroagisce al momento della domanda giudiziale e ha l'effetto di
instaurare retroattivamente il regime di separazione, fatti salvi i diritti dei terzi
 a seguito di mutamento convenzionale del regime
 a seguito di fallimento di uno dei coniugi

Può accadere che una volta separati i coniugi si riconciliano facendo cessare gli effetti della sentenza di
separazione è controverso il verificarsi o meno dell'automatica ricostituzione della comunione:
secondo la Cassazione, a seguito della riconciliazione si ripristina automaticamente il regime di
comunione legale. Tuttavia in difetto di segnalazione esterna dell'evento il ripristino non è opponibile ai
terzi di buona fede che abbiano acquistato a titolo oneroso dal coniuge che risultava unico ed esclusivo
tutelare dell'immobile alienato, dovendosi applicare le norme generali in tema di pubblicità delle
vicende giuridiche a tutela dei terzi e il sistema di annotazione previsto per la riconciliazione dei
coniugi.

La cessazione della comunione legale produce seguenti effetti:

 l'acquisizione nel patrimonio comune di beni di cui agli artt. 177 lett. b) e c) e 178 cc
 l'applicazione ai beni comuni della disciplina della comunione ordinaria e conseguentemente la
possibilità di compiere atti di disposizione sulla propria quota da parte dei coniugi
 inapplicabilità dell'art. 184 cc per gli atti compiuti senza consenso
 la nascita del diritto potestativo di domandare la divisione
 il venir meno della responsabilità ex art. 186 cc

Lo scioglimento della comunione è soggetto a pubblicità che varia in base alla causa che lo ha
determinato e la disciplina è quella dettata dal d.p.r. 396/2000.
In seguito alla cessazione del regime legale si può porre il problema di effettuare rimborsi o ottenere
restituzioni nei confronti del patrimonio comune le obbligazioni di rimborso e restituzione
nascono per il solo verificarsi dei presupposti indicati dalla legge: l’art. 192 cc stabilisce che ciascun
coniuge è tenuto a rimborsare le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi
dall'adempimento dell'obbligazione di cui all'art. 186 cc ed altresì il valore dei beni di cui all'art .189 cc,
a meno che non riesca a dimostrare che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione, lo stesso sia
stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto l'interesse della famiglia. È previsto il diritto di
domandare la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed indicati in spese e
investimenti a favore del patrimonio comune.
L’art. 194 cc stabilisce che la divisione dei beni comuni si effettua ripartendo in parti eguali l'attivo e il
passivo ed è prevista la possibilità per il giudice di costituire un diritto di usufrutto a favore di un
coniuge sui beni dell'altro con la roccia si renda opportuno per le necessità della prole. Il procedimento
di divisione presuppone l'individuazione del patrimonio comune, per cui è necessario che ciascun
coniuge prelevi preliminarmente i beni mobili che gli appartengono in via esclusiva o ripeta il valore
provando nel ammontare qualora gli stessi non vengano rinvenuti salvo che la mancanza di quei beni sia
dovuta a consumazione per uso o per perdita o per altra causa comunque non imputabile all'altro
coniuge ai sensi dell'art. 196 cc.
Nell'ambito del regime patrimoniale secondario l’autonomia privata può trovare molteplici
esplicazioni: in primo luogo può manifestarsi nella scelta di uno dei regimi tipicamente previsti e nella
sua integrazione a modificazione secondo le modalità previste dalla legge in questo caso si fa
riferimento alla possibilità di dare vita a un regime di comunione convenzionale mediante il quale
ampliare/restringere l'oggetto della comunione. Significativo riconoscimento di un ulteriore ambito di
operatività dell'autonomia privata è quello di cui all’art. 161 cc dispone che gli sposi non possono
pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto in parte regolati da leggi alle
quali non sono sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei fatti con i
quali intendono regolare questi loro rapporti la dottrina ha sottolineato come la previsione risponda
alle esigenze di evitare 3 inconvenienti:

 che i coniugi si sottraggano al formalismo ex art. 162 cc, adottando per relationem disposizioni
di cui il notaio difficilmente potrebbe dar loro lettura
 che il giudice sia costretto ad una difficile ricerca del diritto straniero o degli usi richiamati dai
coniugi
 che vengano frustrate le esigenze di tutela dei terzi connesse al sistema pubblicitario attraverso
rinvii ad indici difficilmente rintracciabili

L’art. 161 cc apre ulteriori ambiti di esplicazione all'autonomia privata, in quanto consente di
importazione di schemi di regimi patrimoniali ulteriore rispetto a quelli tipicamente previsti
dall'ordinamento e inoltre legittima la costruzione di un regime atipico risultante dalla combinazione di
più alimenti, dei quali soltanto alcuni di origine straniera o derivanti dagli usi : la dottrina maggioritaria è
orientata a favore dell'ammissibilità di convenzioni atipiche purché non contrastino con i diritti e doveri
inderogabili previsti dalla legge per effetto del matrimonio.
L’art. 163 cc attiene alla modifica delle convenzioni e rappresenta indice del riconoscimento
dell'autonomia negoziale dei coniugi in quanto ha eliminato il principio di immodificabilità delle
convenzioni matrimoniali, le quali sono liberamente stipulabile e modificabili dei coniugi in qualsiasi
momento e le modifiche devono essere annotate a margine dell'atto di matrimonio e devono essere
trascritte sia quando contengono uno degli altri per cui la trascrizione è imposta dall'art. 2643 sia per se
stesse. L'art. 164 cc attiene alla simulazione delle convenzioni e la dottrina ritiene che i terzi siano
ammessi a provare la simulazione secondo i principi generali quindi senza incontrare le limitazioni
probatorie che la legge pone a carico delle parti.
Ai sensi dell’art. 162 cc le convenzioni matrimoniali devono essere stipulate per atto pubblico sotto
pena di nullità; il comma 4 stabilisce la non opponibilità delle convenzioni matrimoniali qualora
queste non siano state annotate a margine dell'atto di matrimonio la giurisprudenza afferma che
l'annotazione di cui al comma 4 è l'unica forma di pubblicità idonea ad assicurare il opponibilità della
convenzione matrimoniale ai terzi, mentre la trascrizione di cui all'art 2647 cc ha funzione di mera
pubblicità notizia.

La comunione convenzionale può avere caratteristiche modificative del regime legale oppure
disciplinare un regime autonomo. Questa facoltà però è limitata:

 in primo luogo si richiede che i fatti in questione non siano in contrasto con le disposizioni di cui
all'art. 161 cc: si vuole evitare che i coniugi disciplinano il loro rapporti mediante pattuizioni che
rinviino a leggi o usi ai quali non sono sottoposti
 i beni di cui alle lett. c), d), e) art. 179 cc non possono essere ricompresi nella comunione
convenzionale: si esclude la possibilità di dare vita ad una comunione universale allargando la
portata della comunione legale anche ai beni strettamente personali
 dall'inderogabilità delle norme della comunione legale relative all'amministrazione dei beni della
comunione e all'uguaglianza delle quote e limitatamente i beni che formerebbero oggetto della
comunione legale

La separazione dei beni si caratterizza per il fatto di essere un regime generale che fornisce una
disciplina esaustiva volta a regolare l'intero complesso dei rapporti patrimoniali tra i coniugi--> ai sensi
dell'art. 215 cc i coniugi convengono che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni
acquistati durante il matrimonio: il termine acquistati sembra fare riferimento alle modalità di
acquisizione, in particolare nelle ipotesi di acquisto a titolo derivativo inter vivos il pene appartiene al
coniuge che abbia stipulato il contratto avente ad oggetto il trasferimento di quel bene.
La situazione di coniugio in regime di separazione dei beni può rendere incerta la determinazione della
titolarità di alcuni beni acquistati durante la vita matrimoniale--> le maggiori incertezze riguardano
l'acquisto dei beni mobili in quanto per gli immobili e per i beni mobili registrati vige il regime della
documentazione che attesta l'acquisto fatto dalla parte acquirente--> per quanto riguarda i beni mobili si
pone il problema di individuare il titolo di acquisto e determinarne la portata attributiva. Alcune
situazioni possibili:
 sono personali tutti i beni acquistati dal coniuge separatamente dall'altro per sue esigenze
personali, come ad esempio vestiti o oggetti volti ad essere utilizzati per interessi strettamente
personali--> ai fini dell’acquisto della proprietà non rileva la appartenenza del denaro utilizzato
per il pagamento pertanto la titolarità individuale si realizza anche quando l'acquisto effettuato
separatamente da un coniuge sia stato finanziato dall'altro: in queste ipotesi il coniuge acquirente
diventa proprietario anche se l'altro potrebbe vantare un diritto al rimborso, anche se comunque
deve escludersi la possibilità di richiedere il rimborso quando oggetto dell'acquisto siano beni
essenziali e il coniuge acquirente sia privo di redditi propri
 se l'oggetto dell’acquisto è un bene destinato ad essere fruito per soddisfare esigenze anche
dell'altro coniuge o del nucleo familiare come ad esempio gli arredi domestici in questo caso la
vita coniugale rende frequente che l'acquisto sia fatto dai coniugi in insieme, pertanto l'acquisto
potrebbe in concreto effettuarsi con la compresenza di entrambi i coniugi al momento della
conclusione dell'affare; tuttavia anche un acquisto effettuato singolarmente da uno solo dei
coniugi può comportare una proprietà comune qualora si alleghi l'esistenza di un mandato
conferito all'altro coniuge--> in questo caso se l'acquisto è deciso insieme il bene sarà comune,
anche se solo un coniuge è parte del contratto e abbia corrisposto il presto.
Ci si chiede se nel caso in cui un coniuge abbia pagato anche per l'altro sorga il diritto a ripetere la parte
di presto riferibile a quest’ultimo--> sul punto non ci sono opinioni unanime in quanto accanto alla
fattispecie in cui il regresso deve essere riconosciuto c'è quella per cui l'acquisto è riconducibile al
dovere di contribuzione gravante sul coniuge che ha pagato.
Il regime di separazione può essere scelto dei coniugi tramite un'apposita convenzione che dovrà
rivestire la forma dell'atto pubblico a pena di nullità--> per quanto attiene il suo contenuto questa
convenzione è semplice in quanto i coniugi possono limitarsi a manifestare unicamente la scelta positiva
nei riguardi di questo regime senza ulteriori specificazioni. Ai sensi dell'art. 162 comma 2 cc il regime
di separazione può essere instaurato anche in via semplificata tramite una dichiarazione di scelta
effettuata nell'atto di celebrazione del matrimonio e quale dichiarazione può essere resa anche davanti al
ministro del culto celebrante; inoltre il regime di separazione si instaura in tutti i casi allo scioglimento
del regime legale non si accompagni lo scioglimento del vincolo coniugale, in particolare a seguito della
separazione giudiziale dei beni e della separazione personale.
L'art. 217 comma 1 cc stabilisce che ciascun coniuge al godimento e l'amministrazione dei beni di cui è
esclusivo titolare--> qui va comunque coordinata con i principi di carattere generale, in particolare con il
principio di contribuzione. Il comma 2 regola il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata conferita la
procura ad amministrare i beni dell'altro coniuge con l'obbligo di rendere conto dei frutti → a tal
proposito si richiamano le norme sul mandato, pertanto verrà applicato l'art. 1710 comma 1 cc in base al
quale il mandatario deve eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia. Il comma 3
stabilisce il caso in cui non sia stato convenuto l'obbligo di rendere conto di frutti: in questo caso il
coniuge amministratore e i suoi eredi, a richiesta dell'altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione
degli effetti civili del matrimonio saranno tenuti a consegnare unicamente i trucchi esistenti e non
risponderanno per quelli consumati.
L'art. 219 cc attiene alla prova della proprietà dei beni--> il comma 1 stabilisce che il coniuge può
provare con ogni mezzo, nei confronti dell'altro, la proprietà esclusiva di un bene mentre il comma 2
afferma che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà
indivisa per fare i quota di entrambi i coniugi-->a fronte di una tesi minoritaria secondo cui la norma
avrebbe un vero e proprio valore attributivo della proprietà, la dottrina maggioritaria ritiene che la
norma si limiti ad enunciare una semplice presunzione legale relativa di proprietà del bene oggetto della
controversia e in assenza della prova di titolarità esclusiva da parte del coniuge attore il bene si ritiene
che appartenga ad entrambi i coniugi: ecco che il comma 2 introduce una deroga al principio
dell'onere della prova in quanto emerge la necessità di garantire la parità di trattamento tra i coniugi
anche sotto il profilo probatorio.

L'adozione del regime di comunione comporta la soggezione ad una serie di regole in tema di
amministrazione, responsabilità patrimoniale e cessazione della comunione stessa alle quale i coniugi
che scelgono il regime della separazione dei beni non sottostanno emerge come l'ordinamento metta i
futuri sposi di fronte ad una scelta radicale.
In altri ordinamenti è prevista un'alternativa ulteriore, in particolare vengono previsti dei regimi in cui la
compartecipazione viene attuata in modo differito:

 ad esempio il diritto tedesco prevede la compartecipazione agli acquisti solo nel momento in cui
l'unione viene meno e prevedendo in costanza di matrimonio che ciascun coniuge sia proprietari
individuale sia nei beni che già gli appartenevano prima del matrimonio sia di quelli acquistati
dopo il matrimonio. Durante il matrimonio i coniugi possono amministrare i propri beni
disponendo di un certo grado di autonomia ma anche soggiacendo a dei limiti imposti per
presidiare l'integrità dei futuri diritti di ciascuno di essi, ad esempio il coniuge non può disporre
integralmente del proprio patrimonio senza il consenso dell'altro
 ad esempio il diritto francese prevede una partecipazione differita degli incrementi, ove si
prevede che nell'arco della durata del matrimonio ciascuno dei coniugi ha pieni poteri sui beni
che sono già suoi e su quelli acquistati a titolo oneroso durante il matrimonio. Al momento dello
scioglimento si producono effetti che sono simili a quelli del regime della comunione degli
acquisti con l'unica differenza per cui la partecipazione agli acquisti si attua in valore--> infatti
ciascuno degli sposi ha diritto al valore corrispondente alla metà degli acquisti dell'altro e se ci
sono acquisti da una parte dall'altra questi si compensano, mentre nel caso ci sia una eccedenza
lo sposo il cui patrimonio è inferiore diventa creditore dell'altro coniuge per la metà di questa
eccedenza
 ad esempio il diritto spagnolo prevede che i coniugi possono optare per un regime nel quale, pur
conservando durante il matrimonio la titolarità esclusiva dei beni acquistati autonomamente, la
compartecipazione agli incrementi viene comunque attuata mediante una compensazione per
equivalente al momento dello scioglimento del matrimonio

Tali modelli possono essere recepiti nell'ordinamento italiano anzitutto in quanto ricordano elementi di
estraneità richiesti avvalendosi della previsione di cui all'art. 30 l. 218/1995 che consente ai coniugi di
derogare al criterio dettato in ordine all'individuazione della legge applicabile ai loro rapporti; in
secondo luogo i coniugi possono stipulare convenzioni nei quali vengono espressamente riportate le
disposizione di altri ordinamenti che i coniugi tendono a scegliere per disciplinare il proprio regime
patrimoniale.
Il fondo patrimoniale è stato introdotto con la riforma del 1975 in sostituzione del patrimonio
familiare. Si attua attraverso la destinazione di determinati beni (immobili o mobili registrati o titoli di
credito) per far fronte ai bisogni della famiglia--> si configura pertanto come un patrimonio separato da
quello del costituente e di conseguenza deroga al principio generale di cui all'art 2740 c.c. in materia di
responsabilità in quanto l'esecuzione sui beni del fondo non può aver luogo per i debiti che il
creditore sapeva essere stati contratti per scopi estranei alla famiglia. Oggetto del fondo possono
essere:

 beni immobili
 beni mobili registrati
 titoli di credito→ l’art. 167 cc prevede che siano vincolati rendendoli i nominativi mediante
annotazione del vincolo o in altro modo idoneo

La dottrina dubita dell'ammissibilità della costituzione del fondo patrimoniale su beni futuri in quanto
l'art. 167 cc si riferisce a beni determinati e c'è il divieto di donazione di beni futuri, (tuttavia è dubbio
che si possa parlare di vera e propria donazione in caso di costituzione di fondo patrimoniale).
Il vincolo di destinazione può essere apposto anche su cd diritti reali minori la dottrina dominante
ammette la destinazione al fondo patrimoniale dell'usufrutto, della superficie e delle enfiteusi mentre si
esclude che possano costituire oggetto del fondo il diritto di uso e di abitazione in quanto inalienabili .
La dottrina dubita anche della possibilità di includere nel fondo patrimoniale le partecipazioni societarie
in quanto non sono menzionate dalla norma perplessità sorgono con riguardo alle quote delle società a
responsabilità limitata, la cui natura di bene mobile non è contestata poiché alcuni ritengono che
possano considerarsi iscritti in pubblici registri e quindi possano essere comprese nel fondo
patrimoniale; tuttavia altri ritengono che l'indicazione dell'art. 167 cc sia di stretta interpretazione e vada
riferita solo ai beni immobili indicati all'art. 2683 cc.
Il fondo deve essere costituito attraverso atto pubblico da parte di ciascuno o di ambedue i coniugi
oppure da parte di un terzo (in questo caso può essere costituito anche per testamento) si è discusso
se l'atto costitutivo del fondo patrimoniale dovesse considerarsi una convenzione matrimoniale: la
risposta alla domanda è positiva, anche se a differenza della comunione e della separazione dei beni il
fondo patrimoniale non è un regime patrimoniale in quanto non è idoneo a regolare interamente i
rapporti patrimoniali tra i coniugi ma coesiste necessariamente con un regime matrimoniale. La
ricostruzione pone il problema della pubblicità del fondo patrimoniale e della sua opponibilità ai
terzi: le S.U. hanno precisato che la costituzione del fondo patrimoniale è soggetta alle disposizioni in
materia di convenzioni matrimoniali e in particolare l'art. 162 comma 4 cc prevede l'annotazione a
margine dell'atto di matrimonio ai fini dell'opponibilità della convenzione stessa ai terzi.
La proprietà dei beni che costituiscono il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi, salvo
che sia diversamente stabilito nell'atto di costituzione: l’art. 168 cc consente quindi al costituente di
riservarsi la proprietà dei beni conferiti nel fondo e secondo una parte della dottrina l'apposizione del
vincolo di destinazione caratteristico di questo istituto fa sorgere un particolare diritto in capo ad
entrambi gli sposi, ai quali deve riconoscersi natura reale riconducendolo nell'ambito dell'usufrutto.
L'amministrazione dei beni che costituiscono il fondo patrimoniale è regolata dalle norme relative
all'amministrazione della comunione legale ma con la peculiarità che, se non è stato espressamente
consentito nell'atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque
vincolare beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, in caso di figli
minori, con l'autorizzazione concessa dal giudice solamente in casi di necessità o utilità evidente  art.
169 cc. Il fondo patrimoniale è quindi caratterizzato dal vincolo ai bisogni della famiglia e dalla
limitazione di responsabilità sancita dall'art. 170 cc che dispone che l’esecuzione sui beni del fondo e
sui frutti non può aver luogo per i debiti che il creditore conosceva essere stati i contratti per scopi
estranei ai bisogni della famiglia spesso accade che il debitore in difficoltà al fine di sottrarre beni
immobili alle azioni dei creditori li costituisca in un fondo patrimoniale ma i creditori, qualora
ricorrano i presupposti, possono esercitare azione revocatoria oppure possono provare la
simulazione della convenzione. La Cassazione ha precisato come il criterio identificativo dei crediti il
cui soddisfacimento può realizzarsi in via esecutiva sui beni del fondo vado a ricercato nella relazione
tra la fonte delle obbligazioni e i bisogni della famiglia.
Ai sensi dell'art. 171 cc la destinazione del fondo termina a seguito del divorzio, ma se ci sono figli
minori il fondo dura fino al compimento della maggiore età dell'ultimo figlio : in questo caso il giudice
può dettare norme per l'amministrazione del fondo e può anche attribuire i figli a titolo di godimento o
di proprietà di una quota dei beni del fondo.

L'impresa familiare è un istituto introdotto allo scopo di tutelare il lavoro prestato dai familiari
nell'impresa o nella famiglia. In forza della previsione di cui all'art. 230 bis cc colui che presta la
propria attività di lavoro in modo continuativo a favore di un imprenditore a lui legato da vincolo di
coniugio, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo, gode di una complessiva posizione
partecipativa che consta sia di diritti patrimoniali sia di diritto amministrativo-gestori. Sotto il profilo
economico, il familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e,
in caso di buon andamento dell'attività di impresa, ha diritto a una quota degli utili e degli incrementi
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e inoltre partecipa ai beni acquistati con gli utili;
per quanto attiene la gestione dell'impresa è prevista l'adozione a maggioranza delle decisioni che
riguardano l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli
indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa.
In virtù nell'incipit “salvo che sia configurabile un diverso rapporto”, l'applicabilità di questa disciplina
è esclusa quando le parti abbiano preventivamente è regolato il rapporto tra esse intercorrente, ad
esempio stipulando contratto di lavoro subordinato; attraverso l'enunciazione della natura suppletiva
della norma si è inteso dettare una disciplina di chiusura del sistema, evitando che il lavoro prestato da
un familiare possa restare sfornito di tutela.
Un aspetto particolarmente problematico è della natura giuridica dell'impresa familiare la
giurisprudenza prevalente ritiene che l'impresa familiare configuri un’ipotesi di collaborazione
all'interno dell'impresa: la norma si preoccupa unicamente di indicare il rapporto che si instaura tra
familiare e imprenditore per effetto dello svolgimento di una prestazione di lavoro, senza andare ad
interferire sul l'imputazione dell'attività di impresa. La titolarità dell'impresa rimane di pertinenza
dell'imprenditore originario ed è costui che agisce sul piano dei rapporti esterni. La giurisprudenza
ritiene che possa configurarsi impresa familiare solo qualora il titolare dell'impresa sia imprenditore
individuale e al familiare che presta in modo continuativo la propria attività è riconosciuto un
complessivo diritto di partecipazione, che si sostanzia in una serie di posizioni patrimoniali e
amministrative, la cui natura è quella dei diritti di credito.
Il lavoro effettuato all'interno dell'impresa può consistere in qualsiasi attività che possono formare
oggetto di un rapporto di lavoro subordinato o di un rapporto di lavoro autonomo  elemento essenziale
ai fini dell’applicabilità della tutela offerta dalla norma in questione è la continuità da parte del
familiare dell'attività prestata, ossia regolarità e costanza nel tempo senza che sia necessario un
impiego a tempo pieno. Tuttavia in assenza di precise indicazioni ricavabili dal dato letterale si sono
posti problemi di coordinamento della disposizione in questione con le norme di cui agli artt. 143 e 147
cc che disciplinano i doveri che incombono sui coniugi per effetto del matrimonio  ci si è chiesti se il
lavoro domestico svolto in adempimento dei doveri scaturenti dal matrimonio sia idoneo a fondare una
pretesa ex art. 230 bis cc o sia necessario che il lavoro svolto all'interno della famiglia presenti
caratteristiche tali da poter rendere riscontrabile in esso un rapporto di lavoro per l'impresa che deve
avvantaggiare il coniuge imprenditore: sulla questione le S.U. hanno escluso la rilevanza ex art. 230
bis cc del lavoro domestico tout court sulla base del rilievo che se il lavoro casalingo della moglie
costituisse di per sé titolo sufficiente per la partecipazione all'impresa del marito, non ci sarebbe
possibilità per il marito di impedire questa partecipazione, poiché dovrebbe inibire prestazioni
che costituiscono adempimento dell'obbligo di solidarietà e di contribuzione ai bisogni della
famiglia, pertanto è necessario un nesso di funzionalità reciproca tra l'esercizio dell'impresa e l'attività
di lavoro prestata all'interno della famiglia.
Possono partecipare all'impresa familiare:

 il coniuge
 i parenti entro il terzo grado
 gli affini entro il secondo

La disciplina dell'impresa familiare è stata invocata per tutelare la posizione di chi, pur essendo privo
dello status di coniuge, risulti legato al titolare dell'impresa da un rapporto che è quello di convivenza
more uxorio e a tal proposito parte della dottrina ha prospettato la possibilità di applicare in via
analogica la tutela offerta dall'art. 230 bis cc anche al convivente; tuttavia la giurisprudenza ha negato
l'estensibilità della disciplina legislativa al convivente.
Al partecipante all’impresa familiare spetta il diritto al mantenimento, commisurato alla condizione
patrimoniale della famiglia; inoltre gli è riconosciuto il diritto a partecipare agli utili dell’impresa
familiare e ai beni acquistati con essi la maturazione del diritto agli utili secondo la dottrina
prevalente coincide con la cessazione della prestazione di lavoro, tuttavia nulla vieta che i familiari
possono decidere diversamente prevedendo una distribuzione periodica; i familiari possono decidere di
utilizzare gli utili per acquistare dei beni e con l'acquisto tutti diventano titolari di un diritto di
partecipazione sui beni sì è discusso se l'acquisto dei beni determini una situazione di comproprietà
oppure l'acquisizione in capo a ciascun familiare di un diritto di credito nei confronti dell'imprenditore:
parte della dottrina ritiene che si tratti di diritto reale, anche se mancando un sistema di pubblicità delle
imprese familiari tale soluzione rischia di creare situazioni di intralcio alla normale circolazione dei
beni, pertanto sarebbe preferibile optare per la soluzione che sancisce un diritto di credito nei riguardi
dell'imprenditore.
Strumento di tutela della posizione lavorativa del familiare partecipante è costituito dal diritto di
prelazione di cui al comma 5 in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda la
giurisprudenza ha esteso anche all'impresa familiare il rimedio del retratto, per cui il familiare che vede
violato il suo diritto di prelazione può recuperare l'azienda oggetto del trasferimento a danno del terzo
acquirente, anche se tale soluzione è stata criticata da una parte della dottrina in quanto sacrifica i terzi
acquirenti in buona fede visto che non sussiste un regime di pubblicità dell'impresa familiare.
Per quanto attiene alla gestione dell'impresa, l’art. 230 bis cc accorda i familiari partecipanti un ruolo di
rilievo che consiste nel potere di adottare a maggioranza alle decisioni che riguardano l'impiego degli
utili e degli incrementi nonché le decisioni attinenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e
alla cessazione dell'impresa si tratta di diritti a contenuto patrimoniale che sono volti a garantire la
posizione partecipativa del collaboratore all'interno dell'impresa. Nell'adozione delle decisioni ex
comma 1 spetta il diritto di voto, indipendentemente dal fatto che l'attività di lavoro venga svolta
nell'impresa o all'interno della famiglia.
L'oggetto delle decisioni può riguardare l'impiego degli utili e degli incrementi i familiari possono
infatti decidere di distribuire gli utili maturati o impiegarli per l'acquisto di beni aziendali. Inoltre i
familiari adottano le decisioni che riguardano la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi per
quanto concerne la gestione straordinaria in questa rientrano tutti quegli atti che in relazione alle
dimensioni dell'azienda, all'importanza patrimoniale dell’atto, alle conseguenze che derivano non
assumono carattere di normalità nell'esercizio dell'attività imprenditoriale.
Il comma 4 rimette al consenso unanime dei partecipanti la possibilità che il diritto di partecipazione
venga trasferito a favore di un altro familiare purché legato all'imprenditore da un vincolo personale:
l'unanimità si giustifica in considerazione del fatto che la norma costituisce una eccezione al principio
della intrasferibilità del diritto di partecipazione e spetta ai partecipanti la valutazione in ordine
all'opportunità che il familiare che abbia deciso di cessare la collaborazione venga sostituito.
Alla cessazione della prestazione si ricollega la liquidazione in denaro del diritto di partecipazione  si
tratta della liquidazione del diritto di partecipazione in senso stretto, con esclusione del diritto al
mantenimento; è tuttavia consentito alle parti di optare per una liquidazione in natura e per una
rateizzazione del pagamento in più annualità.

Nel 2006 il legislatore ha introdotto il patto di famiglia agli artt. 768 bis ss cc al fine di soddisfare
l’esigenza di fornire adeguati strumenti per garantire il passaggio generazionale dell'impresa di famiglia:
in concreto accadeva che a seguito della morte dell'imprenditore la prosecuzione dell'attività
imprenditoriale risultasse pregiudicata dalla caduta dell'azienda nella comunione ereditaria  al fine di
superare questi ostacoli è stato previsto il contratto con cui l'imprenditore trasferisce in tutto in
parte l'azienda oppure il titolare di partecipazioni societarie trasferisce in tutto in parte le proprie
quote ad uno o più discendenti.

Il contratto deve avere la forma dell’atto pubblico a pena di nullità; richiede la manifestazione di
volontà dell'imprenditore, del beneficiario del patto di famiglia oltre che secondo quanto previsto
dall'art. 768 quater comma 1 cc del coniuge e di tutti coloro che sarebbero legittimari prove in
quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore per quanto riguarda il
requisito della partecipazione di questi soggetti la dottrina è divisa tra chi ritiene che tutti debbano
necessariamente partecipare al contratto a pena di nullità (tesi prevalente) e chi invece ritiene che il
patto sia comunque valido e i legittimari non partecipanti beneficino della liquidazione all'apertura della
successione.
Il patto di famiglia produce:

 effetti reali (trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie al familiare assegnatario)


 effetti obbligatori con riguardo a questi ultimi l’art. 768 quater comma 2 prevede che
l'assegnatario dell'azienda/partecipazioni societarie debba liquidare i legittimari non assegnatari
versando loro una somma oppure in natura mediante il trasferimento di beni pari al valore delle
quote di riserva come previste dalla legge. Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a
collazione e riduzione pertanto l'imprenditore qualora non provveda successivamente con
donazione o testamento, l'assegnatario riceve complessivamente più di quanto ricevono gli altri
legittimari poiché costoro in sede di liquidazione hanno percepito un importo corrispondente al
valore della solo loro quota di riserva sull' azienda

Il patto di famiglia può essere sciolto ricorrendo ipotesi tassative:

 conclusione di un nuovo patto


 recesso (se previsto espressamente) tale strumento può essere adatto al fine di consentire
all'imprenditore di tornare titolare dell'azienda qualora il discendente assegnatario non gestisca
bene l'impresa
La legge tutela anche i legittimari che al tempo del patto di famiglia non esistevano stabilendo il diritto
di costoro di ricevere, al momento dell'apertura della successione, da parte di tutti i partecipanti al pasta
di famiglia, una somma pari alla propria quota sul valore dell'azienda indicato nel patto.

CAPITOLO 5: LA CRISI CONIUGALE


La crisi coniugale viene disciplinata dall'ordinamento:

 da un lato prevede il ricorso al giudice nei casi in cui coniugi siano tra loro in disaccordo in
ordine alle decisioni da assumere in relazione all’indirizzo della vita familiare oppure a scelte
che riguardano figli minori
 dall’altro lato quando la prosecuzione della convivenza sia divenuto intollerabile separazione
 quando il conflitto appaia insanabile e la comunione di vita sia venuta meno  scioglimento del
matrimonio

In realtà anche le regole in materia di nullità del matrimonio hanno a che fare con la crisi della coppia in
quanto sebbene la nullità si riferisca un vizio genetico e altresì evidente che solo in presenza di una
rottura del rapporto personale uno o entrambi i coniugi avranno effettivo interesse a farlo valere: il
legislatore di questo è consapevole e nel disciplinare l'affidamento dei figli minori ha dettato una
disciplina uniforme trattando allo stesso modo sia la nullità del matrimonio sia la separazione e il
divorzio.
Nel caso in cui il contrasto non trovi una composizione vengono in gioco gli istituti della separazione
legale e del divorzio in passato la separazione rappresentava l'unico rimedio il conflitto coniugale e
consentiva ai coniugi di non coabitare e aveva carattere tendenzialmente temporaneo poiché i suoi
effetti potevano cessare in qualsiasi momento senza formalità qualora i coniugi decidessero riconciliarsi.
La separazione legale può essere:

 giudiziale trova la sua fonte in una sentenza emessa al termine di un giudizio contenzioso
 consensuale trova la sua fonte in un atto sottoposto ad omologa giudiziale

Con l'introduzione del divorzio qualora la vita separata si protragga per oltre un triennio, questa
situazione legittima ciascun coniuge ad agire per ottenere lo scioglimento del matrimonio.
Negli anni recenti si è manifestata l'esigenza di affiancare nuove figure professionali a quelle
tradizionali dei giudici e degli avvocati e in particolare si è sviluppato un forte interesse per le procedure
di mediazione familiare, che hanno lo scopo di consentire una gestione non litigiosa dei problemi
conseguenti al venir meno della comunione tra i coniugi, in particolare con riferimento all’affidamento
dei figli. Il punto di partenza di queste tecniche muove dalla constatazione che la convivenza
matrimoniale fallisce per ragioni complesse e non necessariamente per responsabilità precise di uno dei
coniugi: sulla base di queste premesse si tratta di convincere i coniugi a rinunciare ad affrontarsi l'un
l'altro in cerca di una vittoria giudiziale in termini patrimoniali o personali si evince come la
mediazione sia nata per offrire un'alternativa alla lotta per la vittoria, che ha l'obiettivo di
sostituire la fase giudiziale della crisi coniugale al fine di addivenire ad una composizione della lite
(a livello internazionale il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nel 1998 ha ribadito la necessità
di introdurre o promuovere la mediazione familiare). Sul piano del diritto interno non c'è una disciplina
della mediazione familiare, anche se alcune leggi come ad esempio la l. 54/2006 in materia di
affidamento condiviso e la l. 154/2001 la menzionano espressamente. Significativa è la disciplina
dell'art. 337 octies comma 2 cc che dispone che il giudice, prima di emanare provvedimenti relativi
all'affidamento di figli minori nell'ambito di procedimenti di annullamento, nullità, separazione o
divorzio può, qualora ne ravvisi l'opportunità e con il consenso degli interessati, rinviare l'adozione di
provvedimenti riguardanti i figli per consentire che i genitori tentino una mediazione per raggiungere un
accordo, con particolare riferimento alla tutela dell'interesse morale e materiale dei figli.
Finora i giudici si sono aperti solo in via sperimentale alla mediazione familiare e in alcune realtà
territoriali esiste da tempo una collaborazione con centri convenzionati prima dell'introduzione del
riferimento alla mediazione familiare nell'art. 337 octies comma 2 cc si prospettava un intervento di
questo genere sulla scorta di quanto previsto dall'art. 68 cpc che attribuisce al giudice la possibilità,
qualora necessario, di farsi assistere da esperti in una determinata arte o professione o comunque da
persona idonea al compimento di atti che egli non è in grado di compiere personalmente: sulla scorta di
questa previsione si riteneva che il giudice inviare le parti in conflitto ai competenti servizi pubblici
territoriali.
Al fine di valorizzare soluzioni condivise che potessero al contempo ridurre l'arretrato in materia di
processo civile recentemente il legislatore ha previsto 2 nuove modalità di separazione e divorzio che
operano fuori dal processo:

 negoziazione assistita da avvocati


 separazione/divorzio davanti all'ufficiale dello stato civile

Per quanto riguarda la separazione consensuale, questa forma di separazione presuppone l'accordo dei
coniugi di vivere separati e sulla regolamentazione dei rapporti reciproci e di quelli con figli. Il cc
stabilisce che il diritto di chiederne l'omologazione spetta esclusivamente ai coniugi si tratta di un
diritto personalissimo, irrinunciabile ed indisponibile, tant'è che sono nulle eventuali pattuizioni
stipulate prima che il diritto sia storto che implicano la rinuncia al suo esercizio; sono nulli i patti di
ricorrere esclusivamente alla separazione consensuale e le rinunce preventive alla richiesta di
declaratoria di addebito.
L’art. 158 comma 1 cc dispone che la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza
l'omologazione del Tribunale: il giudice esercita un controllo di legalità sugli accordi dei coniugi e ha il
potere di rifiutare l'omologa quando le decisioni in ordine all'affidamento al mantenimento dei figli
siano in contrasto con l'interesse di questi a tal fine il giudice può indicare i consigli e le
modificazioni da adottare nell'interesse dei figli, fermo restando in caso di non accoglimento da parte
dei coniugi opera il rifiuto dell'omologa ai sensi del comma 2. La dottrina sembra orientata ad estendere
il controllo giudiziale anche al contenuto di singoli aspetti dell'accordo concernenti i rapporti tra i
coniugi, ma solo in presenza di clausole nulle perché contrarie al buon costume, all'ordine pubblico o a
norme imperative, ossia quando i coniugi abbiano disposto in ordine a diritti indisponibili (in questo
caso si tratta di un controllo di legittimità e non di merito per cui il giudice non può suggerire le
opportune modifiche).
Pur trattandosi di atto avente natura negoziale, l'accordo di separazione una volta omologato non può
essere impugnato per simulazione, poiché l'iniziativa processuale stessa depone nel senso della volontà
di ottenere gli effetti della separazione e quindi supera l'eventuale precedente accordo simulatorio;
invece la giurisprudenza ritiene ammissibile l'azione di annullamento dell'accordo di separazione
ancorché sia intervenuta l'omologazione.
In ordine al problema della revocabilità dell'accordo di separazione, se si riconosce all’omologa
efficacia costitutiva si riterrà revocabile il consenso fino all'omologa stessa, mentre se invece le si
attribuisce una funzione di mero controllo sull'accordo si tenderà ad escludere la revocabilità la
giurisprudenza è orientata nel senso del riconoscimento della revocabilità del consenso da parte di
ciascun coniuge ritenendo che da un lato la natura giuridica di negozio bilaterale di diritto di famiglia
renderebbe inapplicabile all'accordo di separazione il principio della irrevocabilità del consenso di cui
all'art. 1372 cc e dall'altro lato il tenore letterale dell'art. 158 comma 1 cc implicitamente finisce con il
rendere il consenso manifestato davanti al presidente del tribunale privo di efficacia fino alla pronuncia
del provvedimento di omologazione.
La dottrina individua nell'accordo di separazione:

 un contenuto necessario si ricomprende la decisione di vivere separati e le pattuizioni che


riguardano il mantenimento del coniuge e quello dei figli
 un contenuto eventuale attiene a determinazioni di contenuto vario: si ritiene che l'accordo di
separazione possa comprendere anche partizioni che trovano occasioni nella decisione di vivere
separati. La giurisprudenza è orientata a far rientrare nell'accordo anche statuizioni non
causalmente collegate con quelle di separazione distinguendo un contenuto tipico (comprende
oltre al consenso a vivere separati tutte quelle clausole necessari all'instaurazione del nuovo
regime di vita) e un contenuto atipico (accordi privi di diretto collegamento con i diritti e gli
obblighi che dal perdurante matrimonio derivano)

Per quanto riguarda il regime a cui soggiace l'accordo di separazione, deve negarsi l'applicabilità della
disciplina contrattuale al contenuto necessario o fisico dell'accordo mentre invece parte della dottrina e
della giurisprudenza l’ammettono per le clausole che eventualmente disciplinano l'aspetto dei rapporti
patrimoniali tra i coniugi, in quanto questi sono espressione di una libera autonomia contrattuale.
La configurabilità di trasferimenti immobiliari nel contesto della separazione consensuale in passato
ha posto problemi interpretativi sia dal punto di vista dell'ammissibilità e sia dal punto di vista
dell’opponibilità:

 per quanto riguarda l'ammissibilità oggi prevale l'orientamento secondo cui questi costituiscono
negozi atipici che perseguono un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento e in
particolare si è sostenuto che possono trovare la loro giustificazione in una casa familiare atipica
 per quanto riguarda l’opponibilità ai terzi dell'accordo traslativo concluso in sede di separazione,
la Cassazione ha affermato che questo accordo in quanto inserito nel verbale di udienza ha
natura di atto pubblico e costituisce titolo idoneo per la trascrizione

I problemi della natura dell'accordo di separazione e del ruolo dell'omologa del tribunale comportano
conseguenze con riferimento alla validità e all'efficacia delle pattuizioni intercorse tra coniugi
precedenti o successive alla separazione che non siano state sottoposte al controllo del giudice per
l'omologazione nella prassi possono esserci accordi anteriori o successivi alla separazione con le
quali i coniugi regolano alcuni aspetti dei propri rapporti patrimoniali o dei rapporti con i figli: la
validità di questi patti non sottoposti al controllo del tribunale è stata oggetto di discussione e dottrina e
giurisprudenza all'inizio hanno negato validità a questi accordi ma successivamente li hanno riconosciuti
solo con riferimento ai patti che non riguardano il mantenimento dei figli; altri invece ammettono una
piena autonomia dei coniugi nella stipulazione di accordi non sottoposti ad omologa.
Il problema è quello della diversa funzione che l'omologa svolge in riferimento alle pattuizioni che
disciplinano i rapporti tra coniugi e a quelle relative all'obbligo di mantenimento dei figli  queste
ultime secondo quanto affermato dalla Cassazione sono inefficaci in mancanza di omologa in quanto il
comma 2 art. 158 cc affida al giudice un controllo sulla loro rispondenza all'interesse dei figli; per
quanto riguarda gli accordi destinati a regolare esclusivamente i rapporti tra coniugi, la dicotomia tra
accordi non omologati precedenti e successivi alla separazione emerge da un orientamento della
Cassazione secondo cui i primi operano solo se si collocano in posizione di non interferenza rispetto
all'accordo di separazione omologato mentre i secondi trovano fondamento nell'art. 1322 cc e devono
quindi ritenersi validi ed efficaci quando non vadano oltre il limite di derogabilità consentito dall'art.
160 cc.
La separazione giudiziale ha subito delle modificazioni in quanto nel precedente sistema la pronuncia
era fondata sulla colpa che in generale era riconducibile alla violazione dei doveri derivanti dal
matrimonio e il diritto di chiederla era attribuito ai coniugi nei soli casi determinati dalla legge la
previsione di una serie di cause tassative impediva l'accesso al rimedio della separazione in tutte quelle
ipotesi in cui la situazione conflittuale traeva origine da situazione di oggettiva intollerabilità della
convivenza. Con la riforma del 1975 legislatore ha eliminato le ipotesi tassative ed è venuto meno
l'elemento della colpa, sicché la separazione giudiziale può essere chiesta quando si verifichino,
anche indipendentemente dalla volontà di uno dei coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la
prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole . Venuta
meno l'affectio coniugalis può ottenersi una pronuncia di separazione e risulta altresì consentita la
domanda anche da parte dello stesso coniuge che abbia posto in essere infatti che sono la causa
dell'intollerabilità della prosecuzione della convivenza o che abbiano recato grave pregiudizio
all'educazione della prole.
L'art. 151 cc nuova formulazione individua genericamente nei fatti che rendono intollerabile la
prosecuzione della convivenza uno dei presupposti che legittimano il giudice affrontare la
separazione dei coniugi la genericità di tale formula ha reso necessario individuare criteri di
valutazione alla cui stregua determinare le circostanze dalle quali deve risultare di intollerabilità della
convivenza: si tratta di situazioni di oggettiva difficoltà di attuazione della convivenza coniugale,
qualunque possa esserne la causa, ma tali da rendere intollerabile sotto il profilo soggettivo la sua
prosecuzione per uno o entrambi i coniugi. L'altro presupposto indicato dalla legge quale fondamento
della domanda di separazione giudiziale è quello riguardante fatti tali da arrecare pregiudizio alla
prole si tratta di un presupposto controverse in dottrina e che viene ignorato dalla giurisprudenza.
La separazione può essere chiesta in base all'oggettiva intollerabilità della convivenza e il
comportamento colpevole del coniuge acquista rilevanza ai fini della dichiarazione di addebitabilità il
comma 2 art. 151 cc prevede che nel pronunciare la separazione il giudice dichiara, ove ne ricorrano
le circostanze, e ne sia richiesto, a quale dei due coniugi essa sia addebitabile, in considerazione del
suo comportamento contrario ai doveri che nascono dal matrimonio. In quanto conseguenza della
violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, la pronuncia di addebito consente di attuare la funzione
sanzionatoria che era prevista per la vecchia colpa: affinché venga pronunciato l'addebito non è
sufficiente il verificarsi di una condotta che violi i doveri matrimoniali, in quanto è necessario anche
l'accertamento della colpevolezza del coniuge e il nesso causale tra la sua condotta e l'evento della
intollerabilità della convivenza, pertanto non ogni violazione dei doveri matrimoniali sarà rilevante
rileverà solo quella che abbia determinato intollerabilità della convivenza.
Ai fini della pronuncia di addebito assumono rilievo le violazioni dei doveri matrimoniali: secondo
la Cassazione la violazione del reciproco dovere di fedeltà non legittima la pronuncia dell’addebito a
carico del coniuge adultero, in quanto la pronuncia di addebito potrà aversi solo qualora l'infedeltà abbia
reso intollerabile la prosecuzione della convivenza o abbia arrecato grave pregiudizio all'educazione
della prole: ecco quindi che il giudice deve controllare l'obiettivo verificarsi di tali conseguenze,
valutando in sede di legittimità in quale misura la violazione di quel dovere abbia inciso sulla vita
familiare, tenuto conto delle modalità e frequenza dei fatti, del tipo di ambiente in cui si sono verificati e
della sensibilità morale dei soggetti interessati. Secondo i giudici infatti deve trattarsi di una
violazione particolarmente grave e ripetuta, che dia a causa all’intollerabilità della convivenza o che
comunque integri un comportamento gravemente offensivo dell'onore e del decoro dell'altro coniuge.
La violazione del dovere di assistenza è stato ravvisato dei giudici del comportamento del coniuge
freddo, scostante, privo di ogni manifestazione di affetto; anche il comportamento ingiurioso e violento,
se si traduce in una situazione patologica tale da creare e distacco tra i coniugi rendendo intollerabile la
prosecuzione della convivenza si considera rilevante ai fini dell'addebito e inoltre costituisce violazione
del dovere di assistenza morale cercare di ostacolare i rapporti del coniuge con la famiglia di origine ,
impedendo le visite o condizionando le alla propria approvazione e infine chi, non accettando la sterilità
dell'altro coniuge, chiede la separazione con addebito finisce per sottrarsi al dovere di assistenza morale
che in questo caso si deve intendere come dovere di accettare la persona che si è scelta per quello che è .
Ci si chiede se integri violazione del dovere di assistenza morale l'ingiustificato diniego ai rapporti
sessuali oggi risulta preminente la necessità di garantire la dignità il rispetto della personalità del
coniuge il quale non può essere privato nei confronti dell'altro della facoltà di disporre del proprio
corpo, mantenendo la propria libertà di rifiutare e rapporti sessuali; ci si è chiesti se rappresenti ipotesi
di violazione dell'obbligo di assistenza morale l'istanza di separazione avanzata da uno dei coniugi a
causa della grave infermità dell’altro non c’è dubbio che la malattia possa rappresentare causa di
separazione, comportando intollerabilità della prosecuzione della convivenza. Secondo la
giurisprudenza l'addebito non può fondarsi sulla mera inosservanza dei doveri che l'art. 143 pone a
carico dei coniugi ma occorre verificare l'effettiva incidenza della violazione nel determinarsi della
situazione di intollerabilità della convivenza o di grave pregiudizio all'educazione della prole e da ciò ne
deriva che se è vero che in una situazione di grave stato di infermità mentale di uno dei coniugi il dovere
di assistenza assume una connotazione forte, è altrettanto vero che la violazione di tale dovere non può
essere considerata di per se stessa ma va rapportata al dato oggettivo degli intollerabilità della
convivenza, pertanto ai fini dell'addebito è necessario valutare se la condotta del coniuge si sostanzi in
un mero rifiuto dell’impegno solidaristico o non costituisca una presa di coscienza di una non superabile
situazione di impossibilità della convivenza. Si è discusso se il mutamento di fede religiosa di uno dei
coniugi che mette in crisi il matrimonio possa costituire motivo di addebito della separazione e di
esclusione dell'affidamento dei figli minori giurisprudenza e dottrina concordano che il contrasto tra i
diversi orientamenti religiosi non può avere rilevanza come motivo di addebito in quanto si ricollega
all'esercizio di diritti costituzionalmente garantiti; l'addebito potrebbe esserci nel caso in cui l'esercizio
della fede religiosa superi i limiti di compatibilità con i doveri di coniuge per le modalità del
comportamento adottato.
Per quanto riguarda la violazione del dovere di coabitazione, l’art. 146 cc dà rilievo alla giusta causa
dell'allontanamento: è stato ritenuto giustificato l'abbandono della casa coniugale in presenza di una
situazione di tensione tra i coniugi causata da una suocera eccessivamente invadente, mentre
l'abbandono della casa coniugale è stato ritenuto ingiustificato nei casi in cui questo consegue
all'instaurazione di una relazione extraconiugale.
L'addebito della separazione comporta conseguenze patrimoniali sul piano del mantenimento e su
quello successorio:

 il coniuge al quale viene addebitata la separazione perde nei confronti dell'altro coniuge
l'eventuale diritto al mantenimento e conserva solo il diritto agli alimenti ove ricorrano i
presupposti previsti dall'art. 433 cc
 per quanto riguarda gli aspetti successori l'addebito determina la perdita della qualità di erede,
pertanto il coniuge al quale è stata addebitata la separazione è che goda della prestazione
alimentare conserva solamente il diritto ad un assegno a carico dell'eredità

I coniugi che possono porre fine alla convivenza coniugale in via meramente di fatto senza ricorrere al
giudice, dando vita a situazioni rilevanti per l’ordinamento giuridico.
Viene in rilievo la separazione di fatto; inoltre la previsione contenuta all'art. 146 cc, ove si precisa che
l'allontanamento senza giusta causa del coniuge dalla residenza familiare ha come effetto la sospensione
dell'obbligo di assistenza materiale e morale da parte dell'altro induce a ritenere che l'allontanamento per
giusta causa non faccia venire meno tale obbligo, dando luogo ad una sorta di stato legittimo di non
convivenza. Con l'espressione separazione di fatto si fa riferimento alle ipotesi in cui all'origine della
decisione di vivere separati ci sia un accordo dei coniugi di porre fine alla convivenza, sia che si tratti di
accordo che per volontà degli stessi non venga poi sottoposto al controllo del giudice per
l'omologazione, sia che si tratti di accordo che non abbia raggiunto il grado di concreta determinazione
di un negozio di separazione. Rientra nell’accezione di separazione di fatto anche l’abbandono
unilaterale della residenza familiare da parte di un di coniugi seguito però dal consenso o
dall’acquiescenza del coniuge abbandonato.
La nozione di giusta causa è generale ed indeterminata affinché il giudice possa individuarla in
concreto, anche se il legislatore all'art. 146 comma 2 elenca una serie di cause giuste la cui esistenza
rende legittimo l'allontanamento e la cessazione della convivenza; la dottrina ha ritenuto di poter
individuare le ipotesi di giusta causa dell'allontanamento nei casi in cui, indipendentemente dalla
volontà di uno o di entrambi i coniugi, siano tali da rendere intollerabile la prosecuzione della
convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole.
La separazione di fatto produce effetti limitati che sono regolati da singole norme di legge: l'art. 3
n. 2 lett. b) l. div. colloca la separazione di fatto iniziata almeno 2 anni prima del 18/12/1970 tra i casi
nei quali uno dei coniugi può chiedere lo scioglimento del matrimonio; l'art. 6 l. adoz. equipara la
separazione di fatto a quella giudiziale considerandole entrambe come impedimento all'adozione.
Per quanto riguarda gli effetti personali e patrimoniali che si producono in capo ai coniugi, l'art. 146
comma 1 cc stabilisce la sospensione del diritto all'assistenza morale e materiale nei confronti del
coniuge che si allontana senza giusta causa dalla residenza e che rifiuta di tornarci. Nulla è detto in
ordine agli effetti patrimoniali che si producono in presenza di uno stato legittimo di non coabitazione
in queste ipotesi permane tra i coniugi il reciproco dovere di contribuzione, che si converte in dovere di
mantenimento di contenuto simile a quello che caratterizza il regime della separazione legale. Per
quanto attiene ai doveri di natura non patrimoniale si afferma che restano fermi tutti gli obblighi che
derivano dall'art. 143 cc, purché ne sia possibile l'adempimento in stato di cessazione della coabitazione :
secondo la dottrina il dovere di assistenza morale e perderebbe il carattere di assolutezza di una piena
comunione di vita mentre il dovere di fedeltà non renderebbe più esigibili quei comportamenti
funzionali all'unità della convivenza, salvo comunque il dovere di reciproco rispetto.
Dalla separazione di fatto si distingue la separazione temporanea dei coniugi disciplinata all'art. 126
cc, che va accostata ai provvedimenti presidenziali previsti nella separazione giudiziale, trovando il suo
fondamento nell'esigenza di evitare disagi alla coppia e alla prole; l'art. 126 cc stabilisce che quando è
proposta domanda di nullità del matrimonio il tribunale su istanza di uno dei coniugi ordinare la loro
separazione durante il giudizio, anche d'ufficio se entrambi i coniugi siano minori interdetti . La
domanda di separazione temporanea è ammissibile secondo la giurisprudenza, anche se tra i coniugi
sussista lo stato di separazione di fatto: a tal proposito si afferma che anche quando sia cessata di fatto la
coabitazione permane il diritto di ottenere la pronuncia di separazione temporanea al fine di attribuire
carattere legale a tale stato di fatto.

L'art. 149 cc stabilisce che lo scioglimento del matrimonio può avvenire per morte di uno dei
coniugi e negli altri casi previsti dalla legge la norma va letta in combinato disposto con la l.
898/1970 che ha introdotto l'Istituto dello scioglimento del matrimonio (divorzio). Il divorzio,
consacrando l'irreversibile frattura del consorzio familiare, comporta lo scioglimento del matrimonio o
la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario e la perdita dello status di coniuge.
Gli artt. 1-2 l. div. stabiliscono che il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio civile o la
cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario quando accerta che la comunione
materiale si può essere mantenuta per l'esistenza di una delle cause previste nell'art. 3 .
La sussistenza di una delle ipotesi previste non determina automaticamente l'estinzione del vincolo
coniugale in quanto è necessario che il tribunale in via preliminare valuti l'irreversibilità della crisi
coniugale: la giurisprudenza ribadisce che in virtù degli effetti pubblicistici riconosciuti
dall'ordinamento all'istituto familiare, la dichiarazione di divorzio non può conseguire automaticamente
alla constatazione della presenza di una delle cause tassativamente previste ma richiede l'accertamento
del venir meno della comunione materiale e spirituale tra i coniugi.
La separazione legale costituisce la causa statisticamente più frequente di scioglimento del
matrimonio l'art. 3 n. 2 lett. b) l. div. stabilisce che il divorzio può essere domandato da 1 dei
coniugi quando sia stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale
ovvero sia stata omologata la separazione consensuale: per pronunciarsi sentenza di divorzio è inoltre
necessario che il giudice accerti che la separazione si sia protratta ininterrottamente da almeno un
triennio è quindi necessario per proporre la domanda di divorzio che siano trascorsi almeno 3 anni
ininterrotti di separazione, che decorrono a far data dalla comparizione dei coniugi davanti al
presidente del tribunale nella procedura di separazione personale o dalla data certificata nell'accordo di
separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato o dalla data
dell'atto di separazione concluso davanti all'ufficiale dello stato civile i termini in questione sono
stati modificati nel 2015, prevedendo che il termine dei 3 anni venga abbreviato ad 1 anno in caso
di separazione giudiziale e 6 mesi in caso di separazione consensuale (la riforma prevedeva inoltre la
possibilità dell'introduzione del divorzio immediato, ossia la possibilità dello scioglimento del
matrimonio anche in assenza di separazione legale qualora richiesto da entrambi i coniugi con ricorso
congiunto presentate esclusivamente all'autorità giudiziaria competente: tale progetto non ha trovato
l'approvazione del Parlamento).
L'art. 3 n. 1 l. div. prevede una serie di ipotesi che in ragione della condanna di uno dei coniugi in
sede penale legittima non la domanda di divorzio dell’altro: in questo caso la causa dello
scioglimento del matrimonio si giustifica in virtù delle eccessiva lunghezza della pena detentiva o per il
particolare disvalore del reato commesso; legittimato a domandare il divorzio è solo il coniuge non
condannato. Condizione comune alle diverse ipotesi è quella che la condanna sia avvenuta dopo la
celebrazione del matrimonio e che la sentenza sia passata in giudicato prima della proposizione della
domanda di divorzio. Nello specifico sono causa di scioglimento del matrimonio le condanne:

 all'ergastolo o a pena superiore a 15 anni per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici
e quelli convessi per motivi di particolare valore morale sociale
 a qualsiasi pena detentiva per il reato di incesto e per i delitti di cui al titolo XII del cp attinenti
ai Delitti contro la persona, in particolare il capo III si tratta dei Delitti contro la libertà
individuale; inoltre per induzione, costrizione, sfruttamento e favoreggiamento della
prostituzione
 a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio o per tentato omicidio a danno del coniuge
o di un figlio
 a qualsiasi pena detentiva, con 2 o più condanne, per i delitti di lesione personale quando ricorre
la circostanza aggravante di cui al comma 2 art. 583 cp, nonché per il reato di violazione degli
obblighi di assistenza familiare, maltrattamenti in famiglia, circonvenzione di incapace, in danno
del coniuge o di un figlio

La lett. e) prevede la possibilità che uno dei coniugi sia straniero e che ottenga all'estero sentenza di
annullamento o di scioglimento del matrimonio o contragga un nuovo matrimonio e questo legittima il
coniuge italiano a proporre domanda di divorzio.
La lett. f) prevede come causa di scioglimento del matrimonio la non consumazione si tratta di
disposizione riconducibile alla tradizione canonica, che risponde all'esigenza del legislatore di
armonizzare la disciplina del matrimonio civile con quella del matrimonio concordatario
La riforma del 1987 ha aggiunto quale ulteriore causa di divorzio il passaggio in giudicato della
sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso il legislatore ha successivamente risposto che la
sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso non ha effetto retroattivo. Essa determina lo
scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del
matrimonio celebrato con rito religioso. Si applicano le disposizioni del Codice Civile e quelle della
legge divorzile: è quindi prevalsa l'interpretazione secondo cui il passaggio in giudicato della sentenza di
rettificazione dell'attribuzione di sesso determini l'automatico scioglimento del matrimonio. Tuttavia la
Cassazione ha dubitato della legittimità di queste norme in quanto comportano un sacrificio
indiscriminato del diritto di autodeterminarsi nelle scelte relative all'identità personale oltre che del
diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale e ha quindi sollevato questione di
legittimità degli artt. 2 e 4 l. 164/1982 con riferimento agli artt. 2, 3, 24, 29, 117 Cost nella parte in cui
dispongono che la sentenza di rettificazione provochi l'automatico scioglimento del matrimonio senza la
necessità di una domanda di una pronuncia giudiziale: la corte cost ha dichiarato costituzionalmente
illegittimi (con riferimento all'art. 2 Cost.) gli artt. 2 e 4 l. 164/1982 nella parte in cui non prevedono che
la sentenza di rettificazione, che provoca e determina lo scioglimento del matrimonio, consenta
comunque ove entrambi lo richiedano di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente
regolato con altra forma di convivenza registrata che tuteli adeguatamente diritti ed obblighi della
coppia medesima.

La l. 162/2014 ha previsto 2 nuove modalità di separazione e divorzio che operano:

 per il tramite di una negoziazione assistita da avvocati seguita dal nulla osta o
dall'autorizzazione del procuratore della Repubblica
 in forza di accordi raggiunti dei coniugi davanti al sindaco nella sua qualità di ufficiale dello
stato civile

è consentito ai coniugi di raggiungere fuori dal processo in forza di un atto di autonomia privata la
separazione personale, la cessazione degli effetti civili del matrimonio oppure lo scioglimento del
matrimonio ovvero la modifica delle condizioni di separazione divorzio.

L’art. 6 prevede la possibilità per i coniugi di stipulare una convenzione di negoziazione assistita da
almeno 1 avvocato per parte, secondo un procedimento che si differenzia a seconda che gli interessati
abbiano meno figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero
economicamente non autosufficienti in questo secondo caso l'accordo raggiunto a seguito di
negoziazione assistita deve essere trasmesso al procuratore della Repubblica che, se non ravvisa
irregolarità, comunica agli avvocati il nulla osta a procedere. Nel caso invece in cui ci siano figli minori
e maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti, l'intesa
raggiunta a seguito della negoziazione assistita deve essere trasmessa al procuratore della Repubblica
che se ritiene che l’accordo risponda all’interesse dei figli lo autorizza altrimenti entro 5 gg lo trasmette
al presidente del tribunale, che entro 30 gg fissa la comparizione delle parti e provvede senza ritardo .
Una volta intervenuta l'autorizzazione l'avvocato di ciascuna parte entro i 10 gg successivi deve
trasmettere copia autenticata dell'accordo all'ufficiale dello stato civile del comune in cui il matrimonio
è stato trascritto ai fini della sua annotazione nell'atto di nascita e nell’atto di matrimonio, nonché
dell’iscrizione nei registri informatici. L'accordo raggiunto in seguito a negoziazione assistita produce
gli effetti dei provvedimenti giudiziali che definirebbero le procedure contenziose costituisce titolo
esecutivo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale ed è altresì idoneo a fondare richieste di garanzie
patrimoniali ai sensi dell'art. 156 cc e 8 l. div. oltre che costituire mezzo per l'esecuzione diretta contro il
terzo debitore.
L'accordo delle parti deve dare atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno
informate della possibilità di esperire la mediazione familiare e deve altresì contenere l'indicazione che
gli avvocati hanno informato le parti dell'importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con
ciascun genitore è altresì previsto che gli avvocati debbano rendere edotte le parti dei diritti
inderogabili che la legge riconosce loro, specialmente quelli di carattere patrimoniale e degli obblighi
genitoriali nei confronti dei figli. Si ritiene che in sede di negoziazione assistita i coniugi possono
raggiungere accordi che comportino a trasferimenti di beni immobili o altri contratti o atti
soggetti a trascrizione ai fini della trascrizione la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve
essere autenticata da un pubblico ufficiale

L'art. 12 disciplina l'accordo delle parti davanti al sindaco del comune di residenza di una di esse o
del comune presso il quale è trascritto l'atto di matrimonio possibilità riservata solo ai coniugi che
non abbiano figli minori o figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o economicamente
non autosufficienti. Il sindaco riceve da ciascuna delle parti personalmente la dichiarazione che queste
vogliono separarsi o sciogliere il matrimonio oppure modificare le condizioni di separazione divorzio di
service tra di loro concordati; ricevuta la dichiarazione di accordo il sindaco invita i coniugi a comparire
non prima dei 30 giorni successivi davanti a sé per la conferma dell'accordo, oltre che per provvedere
l'annotazione dell'accordo negli atti di nascita e di matrimonio (la mancata comparizione delle parti
equivale a mancata conferma dell'accordo). Rispetto alla negoziazione assistita l'accordo davanti al
sindaco non può prevedere patti di trasferimento patrimoniale; la circolare del Ministero
dell'Interno n° 19/2014 ritiene che vada esclusa dall’accordo davanti all'Ufficiale quella clausola avente
carattere dispositivo sul piano patrimoniale come ad esempio l'uso della casa coniugale, l'assegno di
mantenimento ovvero qualunque altra utilità economica tra i coniugi dichiaranti (a seguito della
pronuncia del Consiglio di Stato ottobre 2016 è stato previsto che i coniugi possano concordare un
assegno di mantenimento in caso di separazione o divorzio davanti all'ufficiale dello stato civile,
permanendo il divieto di trasferimenti immobiliari). L’accordo ricevuto dal sindaco produce gli stessi
effetti dei provvedimenti giudiziali che definirebbero la procedura contenziosa.

CAPITOLO 6: GLI EFFETTI DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO RISPETTO AI


CONIUGI
La legge nel disciplinare gli effetti della separazione giudiziale tra i coniugi si riferisce esclusivamente
ai rapporti patrimoniali, in particolare al mantenimento e alla somministrazione degli alimenti mentre
nulla viene detto in ordine ai rapporti personali, salvo quanto disposto dall'art. 156 bis cc in ordine
all'uso del cognome del marito si ritiene che nel silenzio della legge a seguito della separazione
giudiziale o consensuale prestino sospesi tra i coniugi i reciproci doveri derivanti dal matrimonio: nello
specifico si afferma che venendo meno la coabitazione la convivenza si affievoliscono i doveri di
fedeltà, assistenza morale e collaborazione pur restando a carico dei coniugi il dovere di reciproco
rispetto.
Permane l’obbligo di assistenza patrimoniale la pronuncia di separazione comporta la
persistenza l'obbligo dei doveri di solidarietà economica che derivano dal matrimonio, anche se il
loro contenuto risulta modificato dal venir meno della convivenza familiare. Permane l’obbligo
reciproco dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alle proprie sostanze
e alla capacità di lavoro professionale e casalingo; si sostituisce l’obbligo di mantenimento a
vantaggio del coniugi cui non sia addebitabile la separazione, qualora lo stesso non abbia adeguati
redditi propri.
Venuto meno con la separazione il dovere di collaborare nell'interesse della famiglia, il dovere di
contribuzione si trasforma, nei confronti del coniuge economicamente più debole, in quello di
corrispondergli un assegno di mantenimento a riguardo l’art. 156 cc dispone che il giudice
stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione diritto di ricevere dall'altro
coniuge quanto necessario al suo mantenimento, qualora non abbia adeguati redditi propri. L'entità di
tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze ed ai redditi dell'obbligato : le
condizioni alle quali è subordinato il diritto di mantenimento e il suo concreto a montare consistono
nella sussistenza di una disparità economica tra i coniugi determinata dall'insufficienza dei redditi del
beneficiario e dall'entità di quelli dell'obbligato. Il concetto di mantenimento comporta il far partecipare
il coniuge alla propria condizione economica in proporzione i mezzi dei quali dispone  in riferimento
al mantenimento comporta che il difetto di redditi adeguati vada inteso come mancanza di redditi
sufficienti ad assicurare al coniuge il tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale ; la
Cassazione ha affermato il principio secondo cui il tenore di vita al quale rapportare il giudizio di
adeguatezza dei mezzi a disposizione del richiedente sia quello offerto dalle potenzialità economiche
dell'altro coniuge.
In ordine al coniuge tenuto al mantenimento, secondo la giurisprudenza il termine redditi deve essere
inteso in senso ampio quale sinonimo di mezzo pertanto si deve fare riferimento non solo ai redditi
in senso stretto ma anche ai cespiti in godimento diretto e alle altre utilità suscettibili di
valutazione economica. Nel valutare i bisogni del coniuge economicamente debole e il reddito di
quello forte, al fine della determinazione dell'assegno di mantenimento occorre tener conto di
qualsivoglia utilità comunque fruita da entrambe le parti il giudice dovrà quindi tener conto del valore
da attribuirsi al godimento della casa coniugale e ciò tanto nel caso in cui l’immobile resti nella
disponibilità del coniuge unico titolare di diritto reale o obbligatorio su di esso, tanto nell'ipotesi in cui
vi sia un formale provvedimento di assegnazione a favore dell'altro coniuge; secondo l'orientamento
prevalente il giudice può disporre l'assegnazione della casa coniugale in favore del coniuge non
proprietario solo qualora con cui conviva con figli minori e maggiorenni non autosufficienti in
applicazione di quanto disposto dall'art. 337 sexies cc; il giudice dovrà altresì considerare anche i profili
non prettamente economici quali ad esempio l'età, la salute, la capacità di lavoro e latitudine del coniuge
di provvedere al proprio mantenimento svolgendo un lavoro adeguato alle proprie capacità
professionali a tal proposito l’art. 5 comma 6 l. div. subordina la somministrazione dell'assegno di
divorzio alla circostanza che il coniuge beneficiario non abbia mezzi adeguati o comunque non possa
procurarseli per ragioni obiettive: la giurisprudenza prevalente applica il principio dettato all'art. 156 cc
anche al divorzio, ritenendo che l'obbligo di mantenimento non sussista quando il coniuge abbia redditi
adeguati e anche nell'ipotesi in cui possa procurarseli.
In ordine agli eventuali aiuti economici a carattere continuativo elargiti dai genitori e dai parenti o
da un convivente, considerato che le condizioni economiche del coniuge beneficiario prescindono dalle
circostanze che determinano, si ritiene che le elargizioni continuative ricevute da parenti o dal
convivente more uxorio concorrono a formare il reddito e devono essere valutate ai fini della concreta
determinazione dell'assegno di mantenimento la giurisprudenza ha ritenuto concorrere alla
determinazione del reddito adeguato ogni utilità suscettibile di valutazione economica, ivi compresi gli
aiuti forniti dai genitori e dai parenti che hanno carattere di continuità.
Al coniuge al quale è stata addebitata la separazione perde il diritto al mantenimento ma
conserva, solo qualora versi in stato di bisogno, il diritto agli alimenti: lo stato di bisogno
presuppone l'incapacità provvedere alle fondamentali esigenze di vita, ossia nei casi in cui si ravvisa uno
stato totale di carenza di mezzi di sostentamento unitamente all'impossibilità di trovare un lavoro
adeguato con riferimento alle attitudini, condizioni fisiche, età e posizione sociale dell’alimentando.
Inoltre al coniuge al quale viene addebitata la separazione perde i diritti successori inerenti allo
stato patrimoniale e ha solo diritto ad un assegno vitalizio commisurato alle sostanze ereditarie,
alla qualità e al n° degli eredi legittimi, a condizione che al tempo dell'apertura della successione
godesse degli alimenti a carico del defunto. Il coniuge separato con addebito ha inoltre diritto alla
pensione di reversibilità, a condizione che sia titolare dell'assegno alimentare.

La riconciliazione è l'accordo che interviene tra i coniugi diretto ad impedire o far cessare lo stato di
separazione gli artt. 154 e 157 cc distingue tra:

 riconciliazione che si verifica in pendenza del processo di separazione coniugale


 riconciliazione successivo all'emanazione della sentenza di separazione giudiziale omologa

Gli effetti della separazione possono essere fatti cessare con un’espressa dichiarazione dei coniugi che
può essere orale o scritta, per scrittura privata o per atto pubblico o, se in corso di causa, inserita nel
verbale sottoscritto dal presidente del Tribunale, oppure con un comportamento incompatibile con lo
stato di separazione. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere presupposto essenziale della
riconciliazione l'intenzione inequivocabile materiale e spirituale non è più necessario il requisito della
coabitazione, oggi sostituito con il riferimento ad un’espressa dichiarazione o comportamento non
equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.
L'art. 154 cc stabilisce che la riconciliazione comporta l'abbandono della domanda di separazione
già proposta, mentre l'art. 157 comma 2 cc prevede che la separazione può essere pronunciata
nuovamente sono in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la ricreazione alcuni
autori ritengono che gli effetti prodotti dalla riconciliazione avvenuta in corso di causa siano differenti
rispetto a quelli della riconciliazione che si verifica dopo la conclusione del procedimento: in
quest'ultimo caso la riconciliazione toglie ogni valore ai comportamenti tenuti dei coniugi nel periodo
precedente, che non possono più essere valutate al fine di ottenere una nuova pronuncia di separazione.
Invece nel primo caso la riconciliazione ha effetti meramente processuali, in quanto comporta
l'abbandono della domanda giudiziale che è stata proposta ma non l'estinzione del diritto di chiedere
nuovamente la separazione invocando le ragioni addotte in precedenza. Un altro orientamento ritiene
che, poiché la conciliazione richiede il sia il perdono delle colpe precedenti sia il completo ripristino
della convivenza coniugale, ne deriva che i fatti anteriori devono ritenersi tollerati dai coniugi nel
momento in cui opera la riconciliazione e che non possono più essere invocati come causa di
intollerabilità della prosecuzione della convivenza.

Il principale effetto del divorzio è il riacquisto per ciascun coniuge della libertà di stato  il
passaggio in giudicato della sentenza di divorzio e la sua annotazione nei registri dello stato civile
consentono ad entrambi di contrarre un nuovo matrimonio, fatto salvo il divieto temporaneo di nuove
nozze per la donna previsto all'art. 89 cc. Il divorzio non produce nessun effetto sulla cittadinanza
italiana acquisita a seguito del matrimonio da parte del coniuge straniero in quanto l'art. 11 l. 91/1992
stabilisce che il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella
italiana e può rinunciarvi solo qualora richiede o stabilisca la residenza all'estero.
Per quanto riguarda il cognome, l'art. 143 bis cc dispone che la moglie aggiunge al proprio cognome
quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a quando non passi a nuove nozze l'art.
5 l. div. prevede che la donna a seguito dello scioglimento del matrimonio perde il diritto all'uso del
cognome del marito che aveva aggiunto a seguito del matrimonio, salvo che non dimostri che il
conservarlo corrisponda ad un apprezzabile interesse proprio o dei figli, ad esempio quando il
cognome del marito sia diventato per la donna segno distintivo della sua attività professionale e in questi
casi il tribunale può autorizzare la donna a mantenerlo. Qualora la moglie continui senza autorizzazione
del tribunale ad utilizzare il cognome del marito, quest'ultimo può esercitare azione inibitoria ai sensi
dell'art. 7 cc e chiedere la cessazione del fatto lesivo e in questo caso deve dimostrare l'uso illegittimo
del proprio nome e la possibilità che da ciò derivi un pregiudizio.

La cessazione del matrimonio comporta il verificarsi di alcuni doveri, come ad esempio quello di
carattere patrimoniale in cui il coniuge economicamente più forte deve provvedere alla
somministrazione periodica o una tantum di un assegno a favore del coniuge economicamente più
debole l'art. 5 comma 6 l. div. nel prevedere l'obbligo di corrispondere un assegno al coniuge che non
abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive, indica una serie di
criteri che il tribunale deve considerare nel determinarne la spettanza e l'entità. I criteri in
questione sono i seguenti:

 condizioni dei coniugi


 ragioni della decisione
 contributo personale ed economico apportato da ciascuno di essi alla conduzione familiare e alla
formazione del patrimonio di ciascuno è di quello comune e del reddito di entrambi

Presupposto fondamentale per l'erogazione dell'assegno è costituito dallo squilibrio reddituale tra i
coniugi, per effetto del quale uno di essi, privo di mezzi adeguati al proprio mantenimento, si trovi
nell'impossibilità transitoria o permanente di procurarseli il legislatore ha quindi previsto una
funzione assistenziale dell'assegno di divorzio, superando quella concessione fondata sulla concorrenza
dei criteri assistenziale, compensativo e risarcitorio; prima della riforma del 1987 l'art. 5 si limitava ad
elencare alcuni criteri per la determinazione dell'assegno di divorzio a favore del coniuge che richiedeva
la somministrazione, senza prendere in considerazione la situazione economica di questi e la sua
possibilità di renderla adeguata alle proprie esigenze con lo svolgimento di un'attività lavorativa. La
riforma collega il diritto all'assegno al solo presupposto dell'inadeguatezza dei mezzi posseduti dal
coniuge che ne richiede la somministrazione e dell'impossibilità di procurarsi per ragioni oggettive.
La Cassazione ha affermato la natura assistenziale dell'assegno di divorzio e ha individuato l'unico
presupposto per concederlo nell' inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare il tenore
di vita in costanza di matrimonio, senza che sia necessario un vero e proprio stato di bisogno della
richiedente, il quale può essere anche economicamente autosufficiente: ciò che rileva è l’apprezzabile
deterioramento a causa del divorzio delle sue condizioni economiche, che devono essere ripristinate in
modo da ristabilire un equilibrio. Nel valutare il tenore di vita coniugale il giudice deve fare riferimento
al tenore di vita goduto al momento della cessazione della convivenza e compararlo con quello del
coniuge richiedente al momento della pronuncia del divorzio eventuali miglioramenti della situazione
reddituale del coniuge nei cui confronti l'assegno venga richiesto assumono rilevanza solo se
costituiscono sviluppi naturali e prevedibili dell'attività svolta e del tipo di qualificazione professionale
o collocazione sociale dell'onerato mentre non assumono rilievo i miglioramenti che scaturiscono da
eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto e alle aspettative maturate nel corso del
matrimonio.
L'obbligo di corresponsione dell'assegno viene meno se il coniuge beneficiario passa a nuove
nozze, mentre è discusso l'effetto dell'instaurazione di una convivenza more uxorio che, in casi
particolari, può comportare una diminuzione, l'azione o addirittura l'estinzione dell’assegno in alcune
pronunce si è attribuito rilievo anche alla convivenza more uxorio instaurata dell'ex coniuge
beneficiario dell'assegno divorzile, sostenendo che il diritto dell'ex coniuge a percepire un assegno
divorzile commisurato in funzione della condizione di benessere economico goduta in costanza di
matrimonio possa venir meno qualora costui abbia instaurato una convivenza che si caratterizzi
per i connotati della stabilità, continuità e regolarità nell'ambito della quale riceva prestazioni di
assistenza che escludono o riducano lo stato di bisogno.
Qualora a seguito del divorzio si verifica uno squilibrio patrimoniale e tra gli ex coniugi l'ordinamento
prevede forme di riequilibrio della situazione patrimoniale attraverso l'attribuzione di un assegno di
mantenimento oppure attuando un'equa distribuzione di beni acquistati anche separatamente dagli sposi
durante il matrimonio negli Usa l’Uniform Marriage and Divorce Act stabilisce un'equa distribuzione
delle proprietà degli ex coniugi e anche gli American law Principles of the Law family dissolution
prevedono un'equa divisione della proprietà coniugale. L'attribuzione della proprietà nella generalità dei
casi consente di evitare la previsione di un assegno di divorzio, in modo tale da realizzare un taglio netto
è definitivo tra gli ex coniugi (clean break). Altra importante indicazione che emerge nei Principles of
the law of family dissolution è quella secondo cui il principio dell'equa divisione delle ricchezze della
famiglia viene attuato con modalità differenziate in ragione della durata del matrimonio, dell'impegno
che si è dedicato alla cura della famiglia e anche di quello che ad essa si dedicherà successivamente al
divorzio.

Per determinare la concreta entità dell'assegno al coniuge economicamente più debole il giudice si deve
attenere ai criteri di cui all'art. 5 l. div., che possono condurre ad una riduzione del tetto massimo
dell'assegno stesso se non anche al suo azzeramento. Questi criteri sono stati oggetto di un'ampia
elaborazione giurisprudenziale:

 per quanto riguarda le ragioni della decisione si risolvono nelle cause che hanno portato allo
scioglimento del vincolo coniugale e alle eventuali responsabilità accertate a carico dell'uno o
dell'altro coniuge, pertanto potrà trovare tutela il coniuge al quale non sia imputabile il
fallimento del matrimonio, ad esempio colui a favore del quale è stata pronunciata la
separazione con addebito. L'indagine riguarda l'intero periodo della vita coniugale e risolve in
una valutazione che attiene anche al comportamento successivo dei coniugi che abbia costituito
impedimento al ripristino del consorzio familiare. La previsione di questo criterio pone un
problema di coordinamento con la norma secondo la quale il coniuge al quale viene addebitata
la separazione perde il diritto all'assegno di mantenimento: si è posto l’interrogativo se i
comportamenti che conducono alla pronuncia di addebito e alla perdita dell'assegno di
mantenimento possono riflettersi anche sull'assegno di divorzio si ritiene che l'assegno di
divorzio vada riconosciuto al coniuge che non dispone di mezzi adeguati, a prescindere da
valutazioni del suo comportamento durante il matrimonio dopo la separazione, e quindi anche se
gli sia stata addebitata la separazione in quanto tale circostanza in sede di divorzio viene in
rilievo solo al fine di diminuire l'ammontare dell'assegno ma non ne determina necessariamente
l'esclusione
 per quanto riguarda le condizioni dei coniugi, queste sottintendono anche le condizioni
personali ossia le condizioni sociali e di salute, l'età, le consuetudini e il sistema di vita
dipendenti dal matrimonio, il contesto sociale ed ambientale sotto il profilo della loro influenza
sulle capacità economiche e di guadagno per entrambi i coniugi tra le condizioni personali
rileva anche l'eventuale convivenza more uxorio instaurata dall'avente diritto all'assegno o
dall'obbligato nonché i contributi che il coniuge divorziato possa ricevere dalla famiglia di
origine
 per quanto riguarda il criterio del contributo personale ed economico dato alla conduzione
familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune rileva sotto il profilo
delle cure dedicate alla persona dell'altro coniuge, alla casa e ai figli ma anche al lavoro
domestico e, in generale, sotto il profilo economico
 per quanto riguarda il criterio della durata del matrimonio, secondo la giurisprudenza assume
valore di parametro fondamentale, di filtro attraverso il quale devono essere esaminati e
considerati tutti gli altri criteri. Il criterio in questione appare di notevole rilevanza in quanto
consente al giudice di trattare in maniera differenziata i rapporti matrimoniali di breve durata
rispetto a quelli che hanno accompagnato la vita dei coniugi e nel primo caso si giustificano le
decisioni volte a ridurre o eliminare l'assegno intanto sarebbero del tutto inique

A seguito della crisi e dello scioglimento del matrimonio può accadere che un coniuge si trovi
impoverito, non avendo un reddito adeguato a mantenere il tenore di vita matrimoniale e non si rivela
capace di produrlo si pone quindi il problema di garantire un'effettiva parità tra i coniugi, in
quanto il principio di eguaglianza affermato dall'art. 29 Cost esige che i coniugi escano dal matrimonio
in condizioni patrimoniali e reddituali equilibrate e coerenti con le loro comuni scelte di vita, tenuto
conto delle capacità rispettivamente godute all'inizio del rapporto.
In ogni sistema nel quale il legislatore voglia garantire la parità tra i coniugi e compensare la situazione
di debolezza in cui viene a trovarsi che ha investito le proprie energie nella cura della famiglia sono
previsti diversi strumenti, ad esempio l'ordinamento italiano afferma che l'assegno di mantenimento e
l'assegno di divorzio costituiscono gli unici strumenti al quale affidare inderogabilmente l'attuazione del
principio secondo cui i coniugi devono lasciare il matrimonio in posizione di eguaglianza muovendo
da queste premesse si avanzata la tesi che attribuisce all'assegno di mantenimento e assegno
divorzile una funzione assistenziale-perequativa: in particolare si è osservato che l'affermazione della
natura assistenziale degli assegni non sia inconciliabile con la loro funzione perequativa, che si risolve
nella finalità di perseguire un tendenziale riequilibrio dei redditi ed eliminare o limitare le
disuguaglianze. La configurazione dell'assegno con finalità perequativa si attaglia a quei matrimoni nei
quali, dopo molti anni di convivenza, si riscontra un forte squilibrio tra la situazione patrimoniale di
colui che abbia svolto un ruolo extradomestico e di chi invece si sia dedicato in prevalenza alla famiglia.
Il problema di realizzare un’equilibrata divisione delle richieste della famiglia tra il coniuge che si
dedica maggiormente all'attività extra domestica e quello che si fa prevalente carico della cura dei figli
si può evincere con riferimento alle ipotesi in cui siano presenti figli in tenera età al momento della
rottura del matrimonio in questo caso permangono esigenze di organizzare la vita comune della
famiglia nonostante la dissoluzione della coppia, in particolare occorre tenere conto che la divisione dei
ruoli si accentua quando a seguito della separazione e del divorzio uno dei partner assume il ruolo di
genitore prevalente: questa prospettiva ha trovato conferma nelle pronunce della Cassazione che, nel
riconoscere alla parte debole l'assegno di mantenimento o l'assegno divorzile, hanno sottolineato la
fondamentale importanza rivestita dalla assunzione degli obblighi di cura dei figli e le ricadute negative
in termini di capacità lavorativa.
I provvedimenti di natura economica adottati dal giudice sono sempre soggetti ad eventuale
revisione in considerazione delle eventuali sopravvenute nuove circostanze che vanno ad incidere
significativamente sull'equilibrio dei rapporti tra i coniugi con riferimento all’assegno può aver luogo
un incremento della misura in origine fissata in ragione delle sopravvenute esigenze del beneficiario o di
significativi incrementi patrimoniali dell'onerato, mentre, al contrario, può essere disposta una riduzione
o la revoca in considerazione dei miglioramenti della situazione economica del beneficiario o del
sopravvenuto deterioramento delle condizioni patrimoniali del soggetto obbligato.
L'organo competente per il procedimento di revisione dell'assegno è il tribunale; il procedimento ha
inizio su domanda di parte e l'onere di dimostrare il ricorrere delle sopravvenute circostanze di fatto
idonee a determinare la modificazione dell'assegno grava sulla parte che aspiri alla revisione. Il
provvedimento è adottato in camera di consiglio e ha natura di decreto motivato, che può essere oggetto
di reclamo in Corte d'Appello entro 10 gg ed è impugnabile mediante ricorso per cassazione.
L’art. 5 comma 7 l. div. ha disposto l'obbligo per il Tribunale di disporre un criterio di
adeguamento automatico almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria si tratta di
un criterio minimo, ma non esclude la possibilità che il giudice utilizzi altri criteri qualora la peculiarità
della situazione lo imponga, ad esempio determinando l'assegno di divorzio in misura percentuale
rispetto al reddito dell'obbligato nell'ipotesi in cui tale reddito provenga da fonti certe, come ad esempio
un lavoratore subordinato. In giurisprudenza da un lato si è stabilito che l'adeguamento automatico
dell'assegno deve essere disposto anche in caso di mancanza di esplicita domanda, di modo che qualora
il tribunale, nel determinare l'assegno di divorzio, abbia omesso di stabilirne il criterio di adeguamento
automatico, la parte possa chiedere la correzione della sentenza; dall'altro lato si ritiene che la
disposizione che impone la previsione giudiziale della indicizzazione dell'assegno, prescindendo dalla
necessità di una specifica domanda dell'interessato, non trova applicazione in caso di domanda
congiunta di divorzio, in considerazione dell'intenzione delle parti di sottrarre all'assegno qualsiasi
meccanismo di adeguamento preventivo.
Per quanto riguarda le modalità di liquidazione dell'assegno di divorzio, nel 1987 si è conservata
all'alternativa tra:

 corresponsione periodica
 corresponsione in un'unica soluzione in relazione alla corresponsione una tantum, mentre
resta fermo il requisito dell’accordo tra i coniugi come condizione necessaria, la nuova
disciplina ha introdotto la previsione di un controllo giudiziale di equità sull'adeguatezza della
corresponsione: l'art. 5 comma 8 l div dispone la definitività della stato patrimoniale delineato,
prevedendo che l'assegno corrisposto in un'unica soluzione non sia suscettibile di revisione o
ove sopraggiungono motivi che la giustificherebbero; inoltre si prevede che il coniuge
beneficiario, accettando tale forma di liquidazione, perde il diritto alla percentuale dell'indennità
di fine rapporto percepita dall'altro coniuge nonché al trattamento pensionistico di reversibilità.

Parametro fondamentale del controllo giudiziale è costituito dall’idoneità dell'assegno a soddisfare


l'esigenza del coniuge beneficiario di disporre di mezzi adeguati per il tempo in cui non posso
procurarseli per ragioni oggettive. Per quanto concerne il quantum secondo alcuni occorre procedere ad
una vera e propria capitalizzazione dell'assegno periodico in relazione alla presumibile durata della vita
del beneficiario, mentre altri estendono l'ambito di autonomia dei coniugi anche al quantum della
prestazione, ritenendo le parti libere di determinarne la natura in piena autonomia.

Ci si è chiesti se i coniugi possono stipulare in sede di separazione accordi preventivi diretti a


regolare l'assetto dei loro futuri rapporti patrimoniali nell'eventualità del divorzio  la questione
attiene all’ammissibilità degli accordi prematrimoniali volti a regolare in anticipo le conseguenze
di una futura crisi matrimoniale: recentemente la Cassazione ha confermato la decisione di merito che
aveva riconosciuto la validità di un contratto stipulato dagli sposi il giorno prima del matrimonio in
forza del quale gli sposi avevano convenuto che, in caso di rottura del matrimonio, la moglie avrebbe
dovuto trasferire al marito la proprietà di un immobile quale indennizzo delle spese da costui sostenute
per ristrutturare l'immobile è destinato ad abitazione familiare. Nello specifico la Cassazione ha
affermato che tale accordo configura un accordo atipico espressione dell'autonomia negoziale dei
coniugi che è diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 1322 comma 2 cc.
Per quanto riguarda altri ordinamenti è ammessa ed è regolata la possibilità di dare vita da accordi che
determinino gli aspetti patrimoniali successivi al divorzio in modo vincolante per il giudice, ad esempio
nell'ordinamento australiano è previsto che possono essere stipulati fatti relativi al mantenimento e alla
divisione della proprietà.
Per quanto concerne le pattuizioni raggiunte in sede di separazione in vista del divorzio, la
cassazione, valorizzando il carattere esclusivamente assistenziale acquisito dell'assegno di divorzio, ha
ritenuto che essendo sottratta alla piena disponibilità la definizione del diritto al trattamento economico
di divorzio, non possa essere ammessa la disponibilità del diritto con riguardo alla sua vicenda
impeditiva a tale argomento si aggiunge poi quello fondato su un commercio di status e anche la
considerazione basata sulla violazione dell'art. 160 cc, che sancisce la nullità di ogni accordo che
deroghi ai diritti e ai doveri che scaturiscono dal matrimonio. La dottrina maggioritaria non concorda
con la giurisprudenza e osserva che gli accordi preventivi in vista del divorzio non possono essere
considerati illeciti in quanto il contegno del coniuge convenuto nel giudizio di divorzio ha perso
rilevanza dal momento che, se sussistono i presupposti per ottenere il divorzio, questo potrà comunque
essere ottenuto a prescindere dalla volontà contraria dell'altro coniuge si sostiene quindi che un
eventuale accordo di carattere patrimoniale ha solo lo scopo di abbreviare il procedimento, anticipando
un evento che, in presenza delle condizioni legali, è inevitabile, pertanto non è possibile parlare di
commercio di status.
Per quanto riguarda il riferimento all'art. 160 cc è stato dimostrato come questa norma riguardi
esclusivamente la fase fisiologica del matrimonio e quindi non abbia a che vedere con la
regolamentazione dei rapporti tra i coniugi separati tra coniugi divorziati è stato inoltre notato come
la posizione della cassazione sia in contrasto con gli artt. 4 comma 13 e 5 comma 8 l. div., dalle
quali si può desumere un favor del legislatore per una sistemazione concordata dei rapporti
patrimoniali tra i coniugi, escludendo quindi che ci sia una indisponibilità. Inoltre anche
l'introduzione degli strumenti negoziali per la risoluzione della crisi coniugale sembra comportare il
riconoscimento di maggiori margini di autonomia negoziale in sede di separazione in vista del divorzio,
prevedendo che l'intesa che preveda la corresponsione di una tantum concordata prima del giudizio di
divorzio sarebbe in linea di principio vincolante per i coniugi, ma comunque soggetta al controllo di
equità del Tribunale che pronuncia lo scioglimento.

L'art. 12 bis l. div. attribuisce al coniuge titolare dell'assegno divorzile che non sia passato a nuove
nozze il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto di
cessazione del rapporto di lavoro, anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza  la
percentuale è pari al 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso
con il matrimonio.
La legge sul divorzio disciplina inoltre i diritti del divorziato sulla pensione di reversibilità in caso di
morte dell'ex coniuge in assenza di nuovo coniuge si prevede che l'ex coniuge che non sia passato a
nuove nozze e solo in quanto già titolare di assegno di divorzio abbia diritto alla pensione di
reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla
sentenza; invece nel caso in cui ci sia un coniuge superstite, la pensione di reversibilità e gli altri assegni
sono ripartiti tra coniuge superstite e coniuge divorziato titolare di assegno in base al criterio della
durata dei rispettivi rapporti patrimoniali; se in tale condizione si trovino più persone, il tribunale
provvede a ripartire tra tutti la pensione e gli altri assegni e ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi
sia successivamente deceduto o passato una notte. L'assunto secondo il quale la durata del matrimonio
costituisce criterio fondamentale al fine di operare la ripartizione della pensione di reversibilità tra l'ex
coniuge titolare dell'assegno divorzile al coniuge superstite è stato confermato dalla Cassazione.

La pronuncia di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio determina il venir meno
dello status di coniuge e di conseguenza la perdita dei diritti successori inerenti in caso di morte
dell'ex coniuge il tribunale può riconoscere all'altro, se titolare di assegno divorzile e qualora versi in
stato di bisogno e non sia passato a nuove nozze, un assegno periodico a carico dell'eredità , che deve
essere determinato tenendo conto dell'importo dell’assegno divorzile, dell'entità del bisogno,
dell'eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze, del n° e della qualità degli eredi, delle loro
condizioni economiche. Non si tratta parere della giurisprudenza di una prosecuzione dell'assegno di
divorzio ma di un attribuzione caratterizzata da una propria autonoma configurazione: secondo
l'opinione prevalente in dottrina si tratta di un diritto successorio attribuito tramite legato ex lege.
L'assegno, stante l'art. 9 bis l. div. secondo cui occorre che il beneficiario si sia visto riconoscere il
diritto alla corresponsione periodica di somme di denaro, non spetta nel caso in cui la corresponsione sia
avvenuta in un'unica soluzione.

CAPITOLO 7: L’UNIONE CIVILE E LE CONVIVENZE


SEZIONE I: L’UNIONE CIVILE
In anni recenti si è sviluppato un ampio dibattito relativo alla tutela giuridica delle relazioni di
convivenza instaurate tra persone dello stesso sesso il presupposto di tale possibile tutela è duplice:

 da un lato quello per cui tra persone dello stesso sesso possa sorgere quella comunione di vita
basata sull'esistenza di un rapporto affettivo, di assistenza e solidarietà identico a quello tra
persone di sesso opposto
 dall'altro lato che la mancata tutela di una consimile situazione si traduca in una discriminazione
fondata sull'orientamento sessuale vietata dall'art. 21 Carta diritti fondamentali dell'Ue di
recente il principio di non discriminazione in ragione dell'orientamento sessuale è stato invocato
dalla Cassazione con riferimento alla posizione del genitore omosessuale in sede di affidamento
del proprio figlio; inoltre questo principio è stato affermato dalla Corte Edu con riferimento al
diritto del membro di una coppia omosessuale di adottare il figlio del partner e in particolare la
Corte Edu ha condannato la Grecia ritenendo che la legge che nel 2008 ha introdotto l'istituto
dell'unione civile come forma di partnership alternativa al matrimonio, riservandolo
esclusivamente alle coppie eterosessuali, configura una discriminazione basata sull'orientamento
sessuale e come tale contraria all'art. 14 Cedu oltre che violare il diritto al rispetto della vita
familiare delle coppie omosessuali ex art. 8 Cedu. Nella sentenza emessa contro la Grecia la
Corte non si limita a constatare che le relazioni omosessuali stabili rientrano nella sfera di vita
familiare ai sensi dell'art 8 CEDU ma estende la nozione di vita familiare fino ad includere le
coppie omosessuali stabili ma che per motivi professionali o sociali non convivano, ritenendo
che l'assenza della coabitazione non priva le coppie dell'elemento della stabilità.

La giurisprudenza è più volte intervenuta nel senso di riconoscere efficacia giuridica alla relazione tra
persone dello stesso sesso sotto profili specifici:

 il Tribunale di Roma ai fini della sublocazione di un immobile equiparato la convivenza more


uxorio omosessuale a quella tradizionale
 il Tribunale di Firenze ha ricondotto un rapporto tra due persone dello stesso sesso nella
categoria della famiglia di fatto e di conseguenza applicato il principio in base al quale le
prestazione di carattere assistenziale e le donazioni spontanee si qualificano come obbligazioni
naturali e non sono oggetto di ripetizione
 la Corte d'Appello di Torino ha esteso la disciplina sul diritto di astensione dal testimoniare
contro un convivente omosessuale
 la Cassazione ha affermato che il rapporto di convivenza omosessuale risponde agli elementi
essenziali del rapporto di coniugio, che vanno identificati nell'esistenza di un legame affettivo
stabile che includa la reciproca disponibilità a intrattenere rapporti sessuali

La corte cost ormai riconosce che nella formazione sociale di cui all'art. 2 Cost. vada compresa anche
l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra 2 persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto
fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone il riconoscimento giuridico
con i connessi diritti e doveri la Cassazione afferma che i componenti della coppia omosessuale,
conviventi stabile relazione di fatto, se non possono far valere il diritto a contrarre matrimonio e il
diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all'estero, tuttavia quali titolari del diritto alla vita
familiare e nell'esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia possono
adire i giudici comuni per far valere il diritto a un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge
alla coppia coniugata e eventualmente sollevare eccezioni di illegittimità costituzionale delle
disposizioni delle leggi vigenti nella parte in cui non assicurino il trattamento in questione violando così
il principio di ragionevolezza.
Per quanto riguarda gli altri ordinamenti la prima legge che per prima si è occupata del fenomeno delle
coppie omosessuali è stata quella danese nel 1989 prevedendo la registrazione dell'unione e in
particolare estendendo a tale unione gli effetti giuridici del matrimonio salvo quanto previsto in materia
di adozione tale modello è stato poi ripreso dalla Norvegia, dalla Svezia, dall'Olanda, dalla Germania
e dalla Svizzera. Olanda, Norvegia, Svezia e Danimarca hanno esteso la possibilità di contrarre
matrimonio alle coppie dello stesso sesso: in particolare i cittadini danesi che erano uniti in una
partnership registrata hanno visto la possibilità di convertire questa unione in matrimonio. Per quanto
riguarda l'ordinamento francese qui già dal 1999 sono in vigore i patti civili di solidarietà e viene
stabilito che anche quella tra persone dello stesso sesso rappresenta convivenza more uxorio questa
legge che ha introdotto i patti prevede che il patto abbia natura contrattuale e venga definito come un
contratto concluso tra 2 persone fisiche maggiorenni, di sesso diverso o dello stesso sesso, per
organizzare la loro vita comune: per concludere il contratto è necessario che le parti non si trovino tra
loro legate da un legame di parentela o affinità e nemmeno che siano legate da un precedente vincolo
matrimoniale o da altro patto civile e tale fatto, al fine di acquisire a rilevanza pubblica, va iscritto in un
apposito registro. Le parti del contratto sono obbligate solidamente nei riguardi dei terzi per debiti
contratti da uno di loro per bisogni della vita corrente e per le spese relative all'alloggio Comune. I beni
acquistati a titolo oneroso che costituiscono l'arredo si presumono comuni per metà, salvo che la
convenzione abbia escluso questa presunzione o sia stato previsto una cosa diversa mentre gli altri beni,
se l'atto di acquisto non disponga diversamente, sono soggetti alla medesima regola della presunzione di
comunione per metà. Il patto può essere sciolto:

 per mutuo consenso


 per volontà unilaterale
 a seguito di celebrazione del matrimonio

Nel 2013 in Francia è stato poi riconosciuto l'indirizzo delle coppie omosessuali di sposarsi e di adottare
figli stabilendo che il matrimonio è il contratto tra 2 persone di sesso opposto o dello stesso sesso.
Negli Usa per effetto del Defense of marriage act manca una normativa federale che consenta l'unione
coniugale alle coppie omosessuali, ma sono sempre di più le legislazioni dei singoli stati che ammettono
questi tipi di matrimoni la Corte Suprema ha dichiarato contrario alla Costituzione questa legge in
quanto definire matrimonio solo quello che può essere concluso tra un uomo e una donna costituisce una
privazione della libertà delle persone che è protetta dal quinto emendamento.
La lacuna legislativa in tema di convivenza ha portato la dottrina ad interrogarsi sull'opportunità di un
intervento normativo e sulle modalità attraverso cui questo intervento dovrebbe attuarsi:

 alcuni si mostrano favorevoli ad un processo di assimilazione tra la disciplina della coppia


coniugata a quella di fatto, da realizzarsi mediante un'operazione interpretativa che faccia
ricorso generalizzato all'analogia
 altri ritengono che l'unica via che possa assicurare idonea tutela giuridica alla convivenza more
uxorio sia quella dell'autonomia privata pertanto gli interventi legislativi in materia dovrebbero
restare circoscritti e settoriali
 altri ancora suggeriscono di raggiungere un contemperamento tra libertà e responsabilità dei
conventi prospettando a tal fine uno statuto delle coppie conviventi destinato ad assicurare alla
famiglia di fatto un nucleo minimo di giuridicità solo tendenzialmente coincidente con la
disciplina del matrimonio

Nel febbraio 2007 il governo aveva presentato un d.d.l. che si proponeva di disciplinare i diritti e doveri
delle persone stabilmente conviventi che però non è stato mai approvato dalle Camere: i cd DICO il
progetto prevedeva il sorgere in capo ai conviventi per effetto di una dichiarazione resa all'ufficio
anagrafe un complesso di diritti, doveri e facoltà: queste disposizioni erano indirizzati a persone
maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, stabilmente
conviventi e chi si prestassero assistenza e solidarietà materiale e morale; in particolare si prevedeva che
in caso di malattia ricovero le strutture sanitarie regolano l'esercizio del diritto di accesso del convivente
per fini di visita di assistenza che ciascun convivente potesse designare l'altro in caso di malattia di
morte, per concorrere alle decisioni in materia di salute o per decidere in merito alla donazione di
organi. Inoltre il ddl prevedeva che trascorsi 9 anni dall'inizio della convivenza potesse concorrere alla
successione legittima dell'altro.
Sempre nel 2007 è stato presentato un progetto di legge che prevedeva un Contratto d’unione solidale,
che poteva essere concluso da persone maggiorenni per l'organizzazione della vita in comune o dopo la
successione e volto a regolare la convivenza tra 2 individui a prescindere dalle ragioni sottostanti ; i
soggetti firmatari dovrebbero prestarsi aiuto reciproco secondo quanto stabilito dal contratto e in
proporzione ai propri redditi, alle proprie sostanze alle capacità di lavoro professionale casalingo,
nonché rispondere dei debiti contratti da uno solo in ragione dei bisogni della vita in comune e delle
spese relative all'alloggio; inoltre era previsto che i firmatari potessero optare per il regime della
comunione dei beni. Per quanto riguarda gli effetti della cessazione della convivenza questi sarebbero
stati regolati contrattualmente dai firmatari, salvo l'intervento del giudice in assenza di un’espressa
regolamentazione pattizia.
Altri progetti di legge riguardanti questo settore sono stati quelli della XVI legislatura ove vi è stata
una proposta di legge che aveva l'obiettivo di disciplinare i diritti individuali e doveri di soggetti
maggiorenni, conviventi stabilmente da almeno 3 anni, uniti da legami affettivi e di solidarietà ai
fini di reciproca assistenza e solidarietà materiali e morali, non legati da rapporti di parentela e
non vincolati da precedenti matrimoni sulla base di questi principi era prevista la disciplina dei
diritti del convivente all'assistenza in caso di malattia o ricovero, oltre alla possibilità di designare l'altro
convivente quale proprio rappresentante in caso di grave malattia o di donazione di organi in seguito a
decesso, nonché prevedendo il diritto all'abitazione nella casa del convivente premorto fino a quando
non si fosse passati a nuova convivenza e prevedendo altresì il diritto alla successione nel contratto di
locazione e la possibilità di richiesta di alimenti.
Sempre durante tale legislatura è stato presentato un altro ddl volto a garantire l'attuazione del diritto
inviolabile di ciascuna persona alla sua piena realizzazione nell'ambito di una relazione affettiva
di coppia, quale formazione sociali ove si svolge la sua personalità in attuazione degli artt. 2 e 3 Cost 
questo progetto definiva l'unione civile come l'accordo tra 2 persone dello stesso sesso stipulato al fine
di regolare i rapporti personali e patrimoniali relativi alla loro vita in comune, specificando che 2
persone fisiche dello stesso sesso, almeno 1 delle quali in possesso della cittadinanza italiana
regolarmente residente nel territorio della Repubblica, possono contrarre unione civile secondo
quanto previsto dal d.d.l. queste unioni avrebbero beneficiato della disciplina dalle norme dettate in
materia di matrimonio civile in quanto compatibili. Nel 2012 è stata presentata un'ulteriore proposta di
legge che prevedeva la sostituzione dei riferimenti codicistici a marito e moglie con il termine coniugi e
l'introduzione dell'art. 90 bis cc dove si prevedeva che il matrimonio può essere contratto tra persone di
sesso diverso o dello stesso sesso con i medesimi requisiti ed effetti.
Durante l'attuale legislatura sono in esame proposte di legge ispirate al modello tedesco dell'unione
registrata a cui possono accedere anche le coppie eterosessuali, ma che in via principale è stato pensato
per le coppie omosessuali, le quali potranno registrare in comune in un apposito registro la loro
unione in questo modo alle coppie omosessuali sono riconosciuti gli stessi diritti e doveri delle coppie
eterosessuali sposati quali:

 reversibilità della pensione


 diritto alla successione in caso di morte
 possibilità di assistenza negli ospedali e nelle carceri
 congedo matrimoniale
 concorso per assegnazione di case popolari

Non e però previsto che queste coppie abbiano la capacità di adottare, se non il figlio del partner,
sempre che non sia stato riconosciuto dall'altro genitore biologico o rispetto a quest'ultima non sia stata
giudizialmente dichiarata la genitorialità.
Nel mese di giugno 2016 è stata finalmente approvata dopo una lunga gestazione la legge sulle unioni
civili l. 76/2016, cha trovato il suo fondamento nel ddl Cirinnà con il quale si sono disciplinate le
convivenze more uxorio con norme applicabili anche alle coppie omosessuali, recependo quelle
indicazioni provenienti in tal senso dal diritto convenzionale e dalla giurisprudenza delle corti
sovranazionali. Si tratta di una legge composta da 1 unico articolo suddiviso in 69 commi, frutto di un
maxi emendamento presentato per superare le difficoltà del dibattito parlamentare, ove viene affidata ai
successivi d.lgs. la messa a punto delle regole specifiche in tema di ordinamento di stato civile, di diritto
internazionale privato, di tutte quelle modificazioni e integrazioni necessarie per il coordinamento con le
leggi vigenti secondo quanto prescritto nel comma 28.
Si constata come le nuove disposizioni presentino un’ambiguità di fondo, ai limiti della schizofrenia
legislativa:

 da un lato alle coppie omosessuali unite in unione civile sono riconosciuti diritti e doveri
coincidenti, in ampia parte, con quelli che competono ai coniugi, nel matrimonio
 dall’altro lato si è evitato di riprodurre o richiamare (ma non del tutto) le disposizioni che
potessero con più forza evocare il matrimonio

In ogni caso si evince come il legislatore abbia realizzato una sostanziale equiparazione tra matrimonio
e unione civile, che sarebbe invece preclusa dalla sentenza corte cost. 138/2010; guardando al panorama
sovranazionale la tendenziale “matrimonializzazione” delle unioni civili è stata imposta dalla Corte Edu
del 2015 nella quale, sebbene non venga previsto un obbligo in capo allo stato italiano di indicare il
contenuto minimo di tutela da accordare, ritiene tuttavia che la tutela delle coppie conviventi e delle
coppie dello stesso sesso non possa essere meramente apparente ma debba deve riguardare tutti i diritti e
i doveri connessi alla vita di coppia, nonché quelli che alla coppia, in quanto tale, competono dalle
istituzioni.
Per quanto concerne l’istituzione dell’unione civile, il comma 2 l. 76/2016 enuncia che l’unione civile
è costituita mediante dichiarazione resa da 2 persone dello stesso sesso di fronte all’ufficiale dello stato
civile, ed alla presenza di 2 testimoni ecco quindi che si manifestano alcune peculiarità rispetto alla
disciplina dettata dal cc per il matrimonio: infatti per il matrimonio è prevista una disciplina organica
riguardante le pubblicazioni (artt. 93-100 cc), le opposizioni (artt. 102-104 cc), il rito di celebrazione
(artt. 106-113 cc). In realtà la costituzione delle unioni civili conserva gli elementi essenziali propri
della celebrazione del matrimonio, infatti è previsto che vengano rese dalle parti personalmente e
contestualmente innanzi all’ufficiale di stato civile le relative dichiarazioni, alle quali segue la
formazione dell’atto l’unione civile deve quindi intendersi costituita con lo scambio delle
dichiarazioni di volontà, (si tratta di atti negoziali bilaterali e recettizi); una volta rese le dichiarazioni
queste vengono raccolte nel relativo atto e ai sensi del comma 3 l'ufficiale di stato civile provvede alla
registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell'archivio dello stato civile.
Per quanto riguarda le cause di impeditive alla costituzione dell’unione, il comma 4 fa un’elencazione,
riprendendo le cause impeditive già previste nel codice civile:

 la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un'unione civile tra persone
dello stesso sesso
 l'interdizione di una delle parti per infermità di mente; se l'istanza d'interdizione è soltanto
promossa, il pubblico ministero può chiedere che si sospenda la costituzione dell'unione civile;
in tal caso il procedimento non può aver luogo finché la sentenza che ha pronunziato sull'istanza
non sia passata in giudicato
 la sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all'articolo 87, primo comma, del codice civile; non
possono altresì contrarre unione civile tra persone dello stesso sesso lo zio e il nipote e la zia e
la nipote; si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 87
 la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia
coniugato o unito civilmente con l'altra parte; se è stato disposto soltanto rinvio a giudizio
ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare la
costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso è sospesa sino a quando non è
pronunziata sentenza di proscioglimento

Le conseguenze in caso di violazione delle norme sui divieti sono la nullità dell'unione civile tra persone
dello stesso sesso; in ogni caso il comma 6 stabilisce che l'unione civile costituita in violazione di una
delle cause impeditive di cui al comma 4, ovvero in violazione dell'articolo 68 del codice civile, può
essere impugnata da ciascuna delle parti dell'unione civile, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico
ministero e da tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale.
Per quanto riguarda le ipotesi di vizi del consenso, la l. cit. riprende le ipotesi di cui al codice civile il
comma 7 infatti stabilisce che l'unione civile può essere impugnata dalla parte il cui consenso è stato
estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità determinato da cause esterne alla
parte stessa. Può essere altresì impugnata dalla parte il cui consenso è stato dato per effetto di errore
sull’identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell'altra parte. L'azione non può
essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che è cessata la violenza o le cause che
hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l'errore. L'errore sulle qualità personali è
essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell'altra parte, si accerti che la stessa non avrebbe
prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purché' l'errore riguardi:

 l'esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimento della vita comune
 le circostanze di cui all'articolo 122, terzo comma, numeri 2), 3) e 4), del codice civile

Per quanto concerne i rapporti personali che vengono ad instaurarsi tra le persone unite civilmente, La
disciplina dei diritti e dei doveri delle parti dell’unione civile è contenuta nei commi 11 e 12 l.
76/2016 in particolare il comma 11 stabilisce che con la costituzione dell'unione civile tra persone
dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall'unione civile
deriva l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono
tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e
casalingo, a contribuire ai bisogni comuni: si tratta di una disposizione che ricalca in buona parte il
contenuto dell’art. 143 cc, pertanto si tratta di doveri inderogabili parimenti a quelli derivanti dal
matrimonio, stante la portata pubblicistica delle disposizioni che li esprimono  tuttavia la novità
eclatante sta nel fatto che il comma 11 non prevede l’obbligo di fedeltà, che viene invece previsto
(anche se sono stati presentati diversi ddl per la sua abrogazione) all’art. 143 cc tra i doveri
matrimoniali. Il dovere in questione ha un contenuto negativo (dovere di astensione da rapporti sessuali-
affettivi con altre persone), ma è anche diritto-dovere reciproco alla fiducia di ciascuno nell’altro,
pertanto sotto questo profilo la fedeltà è essenzialmente lealtà reciproca, finendo per confinare con il
dovere di assistenza morale, espressamente richiamato dal comma 11 l. 76/2016: si può quindi
affermare che, nonostante le intenzioni del legislatore, il dovere di fedeltà non sia stato veramente
espunto dalle unioni civili in quanto una stabile vita di coppia (eterosessuale con il matrimonio o
omosessuale con l’unione civile) che venisse privata del dovere di fedeltà sarebbe inconcepibile e
svuotata di significato.
Con riguardo ai rapporti patrimoniali tra persone civilmente unite, si ha una pressoché equiparazione
per quanto riguarda i profili sia economici sia patrimoniali il principio solidaristico di cui all’art. 2
Cost. viene ripreso nel comma 13 ove si stabilisce che il regime patrimoniale dell'unione civile tra
persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla
comunione dei beni. In materia di forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula delle
convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile. Le parti non
possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell'unione civile. Si applicano
le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice
civile.
Sotto il profilo dei diritti successori, anche qui è piena l’equiparazione con il matrimonio infatti il
comma 21 stabilisce che alle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le
disposizioni previste dal capo III e dal capo X del titolo I, dal titolo II e dal capo II e dal capo V-bis del
titolo IV del libro secondo del codice civile (ecco quindi che l’unito civilmente superstite viene ad
essere legittimario del de cuius, al pari del coniuge superstite, e per esempio avrà diritto alla pensione di
reversibilità, aspetto che è stato oggetto di dibattito parlamentare)

Per quanto riguarda lo scioglimento dell’unione civile, questa in primo luogo si scioglie in caso di
morte di uno dei 2 uniti e, ai sensi del comma 22, qualora vi sia la dichiarazione di morte presunta di
una delle parti. Gli altri casi di scioglimento dell’unione civile sono i seguenti:

 comma 23 l'unione civile si scioglie altresì nei casi previsti dall'articolo 3, numero 1) e
numero 2), lettere a), c), d) ed e), l.div.
 comma 24 quando le parti hanno manifestato, anche disgiuntamente, la volontà di
scioglimento dinanzi all'ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento
dell'unione civile è proposta decorsi 3 mesi dalla data della manifestazione di volontà di
scioglimento dell'unione la previsione del termine di 3 mesi non integra una condizione di
proponibilità o di procedibilità della domanda: di conseguenza nel silenzio della legge
l’omissione della dichiarazione non dovrebbe avere alcuna incidenza processuale
 la dichiarazione di volontà rilevante ai fini dello scioglimento può essere sia congiunta sia
unilaterale
 comma 26 in caso sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso; il comma 27 precisa
tuttavia che alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà
di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica
instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso

Per quanto attiene al procedimento per lo scioglimento del vincolo nel ddl era prevista l’estensione
alle unioni civili della disciplina del cpc dettata in materia di separazione e divorzio nel testo
definitivo invece il legislatore, in un’ottica di semplificazione della disciplina, ha soppresso ogni
riferimento al regime della separazione legale: perciò le parti dell’unione civile non avranno altra scelta
che il divorzio nello specifico per quanto riguarda l’aspetto procedurale opera un pressoché integrale
rinvio a quello divorzile in forza di quanto disposto dal comma 25, pertanto troverà applicazione l’art. 5
l.div. per cui ove ricorrano i presupposti dettati dall’art. 5 la parte dell’unione economicamente più
debole avrà diritto all’assegno divorzile.

In materia di rapporti di filiazione, il legislatore al comma 20 l. 76/2016 ha escluso dall’applicazione


della clausola di equivalenza la materia delle adozioni di cui alla l. 184/1983: le ragioni che stanno a
fondamento di questa decisione sono per lo più di tipo politico. Il ddl originario lasciava ampi margini
di apertura, prevedendo la possibilità per le coppie omosessuali di accedere all’adozione speciale ex art.
44 lett. b) l. cit. ove si afferma che i minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le
condizioni di cui all’art. 7 comma 1: dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo
dell’altro coniuge (cd stepchild adoption). Tuttavia l’ultimo periodo del comma 20 contiene una
clausola residuale che stabilisce che resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione
dalle norme vigenti alcuni hanno interpretato questa frase come una clausola di salvezza, volta a non
impedire il consolidamento di un orientamento giurisprudenziale che ha aperto all’adozione in casi
particolari di cui all’art. 44 comma 1 lett. d) l. adoz.--> ad esempio la Cassazione nel 2016 ha
confermato l’adozione da parte di una coppia di donne omosessuali, affermando come questa
(l’adozione) non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore
adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia in concreto accertato dal giudice, precisando poi
che questa adozione…può essere ammessa sempreché alla luce in una rigorosa indagine di fatto svolta
dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore.

SEZIONE II: LE CONVIVENZE E LA FAMIGLIA DI FATTO


La convivenza more uxorio, che ricalca i tratti essenziali di una relazione fondata sul matrimonio ma
priva di formalizzazione del rapporto di coppia*, rimane priva di una disciplina giuridica organica,
sebbene la questione sia da tempo oggetto di dibattito per le forze politiche vi è infatti l'orientamento
secondo cui emerge l'esigenza di non creare vincoli giuridici a chi non ne vuole e dall'altro lato emerge
l'orientamento secondo cui non bisogna contaminare il modello di famiglia fondata sul matrimonio di
cui all'art. 29 Cost. Da tempo in base all'art. 2 cost si tende ad attribuire alla coppia non unita in
matrimonio la natura di formazione sociale, anche alla luce di quanto disposto dall'art. 9 Carta dei diritti
fondamentali Ue secondo cui il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti
secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio.
Inoltre si è accumulato un complesso di norme eterogenee che ricollega alla convivenza alcuni effetti
giuridici rilevanti, come ad esempio quelli di cui agli artt. 316 comma 4, 330, 342 bis, 342 ter, 416, 417
cc, l'art 6 l. adoz. in materia di requisiti per l'adozione, l'art. 3 l. 91/1999 in tema di prelievo di organi e
tessuti, l'art. 5 l. 40/2004 in tema di procreazione medicalmente assistita, l’art. 4 l. 54/2006 in tema di
affidamento dei minori.
In assenza di una disciplina legislativa, questa terminologia utilizzata per indicare questa realtà si è
modificata in sintonia con i mutamenti del costume passando dall'espressione concubinato a convivenza
more uxorio fino a famiglia di fatto il termine concubinato aveva valenza negativa ed era indice di
una chiusura sociale in quanto l'unica organizzazione familiare e ritenuta degna di tutela era quella
legittima fondata sul matrimonio indissolubile; grazie l'intervento della corte cost e alla riforma del
diritto di famiglia l'ordinamento ha superato quei pregiudizi che lo caratterizzavano e a questa
espressione si è preferito invece ricorrere all'espressione convivenza more uxorio in quanto neutra e
priva di disvalori. Negli anni recenti la giurisprudenza ha intrapreso una lettura delle norme
costituzionali tale da riconoscere allE coppie non unite in matrimonio la natura di formazione sociale, il
che consente di riferirsi ad essa come ad una famiglia di fatto nello specifico, l’art. 29 Cost è stato
letto come semplice indice del favor matrimonii e altresì si è ritenuto che l'art 31 cost possa riferirsi
anche la famiglia di fatto.
Persiste tuttavia una difficoltà nell'individuare gli elementi che configurano la convivenza more uxorio,
anche in considerazione della l. 219/2012 che ha unificato lo stato di filiazione ea ricompreso nel novero
dei parenti anche quelli nati fuori del matrimonio, consentendo di configurare giuridicamente la famiglia
anche senza che sussista un legame di coppia tra i genitori poiché il figlio è comunque a pieno titolo
inserito nella rete parentale da cui discende ciò comporta un ripensamento del significato da
attribuirsi alla locuzione famiglia di fatto che fino ad ora era riferito al nucleo composto da genitori non
coniugati e figli: non c'è dubbio che la convivenza instaurata tra i genitori non coniugati i propri figli
riconosciuti debba essere ricompresa nell'ambito della famiglia di diritto, in quanto si instaura una vera e
propria relazione giuridica non solo tra il genitore e figlio riconosciuto ma tra il figlio e l'intera rete
parentale, pertanto l'espressione di fatto deve essere riferita alla sola relazione di coppia .
In termini negativi ciò che distingue la coppia di fatto da quella coniugata è la costituzione di
quest'ultima attraverso un atto formale (invece la coppia di fatto sorge spontaneamente, in assenza di
qualsiasi formalizzazione pubblica); in termini positivi invece si valorizza l’affectio quale elemento di
caratterizzazione della convivenza (la Cassazione ha ritenuto che debba trattarsi di una convivenza
caratterizzata da inequivocità, serenità e stabilità).

*La l. 76/2016, in particolare i commi 36-65, contengono una disciplina organica della famiglia fondata
sulla convivenza di fatto, prevedendo che questa disciplina si applichi in primo luogo alle coppie
omosessuali, ma anche alla coppia eterosessuale composta da 2 maggiorenni, uniti stabilmente da
legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza materiale e morale, non vincolati da rapporti di
parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile
Ci si chiede se i doveri e diritti che nascono dal matrimonio valgano anche per la coppia di fatto  in
primo luogo appare evidente come quelli che sono obblighi legali per i coniugi per i conviventi di
fatto sono invece espressione della loro autonomia. Per quanto riguarda il dovere coniugale di
abitazione, in particolare questo rileva per quanto riguarda il diritto di abitazione della casa familiare 
anche nell'ambito della convivenza more uxorio si è posto il problema dei diritti del convivente rispetto
alla casa familiare del quale non sia proprietario, soprattutto in caso di fine della convivenza : in linea
generale la persona convivente, in quanto legata al partner proprietario dell'immobile da un mero
rapporto di fatto, non gode di un diritto autonomo di coabitazione come quello previsto all'art. 143 cc a
favore dei coniugi: tuttavia è titolare di una posizione di detenzione autonoma sulla base del rapporto di
fatto degli eventuali patti di convivenza che sono stati stipulati a riguardo la giurisprudenza si è
mostrata incline a riconoscere al convivente la tutela possessoria, sul presupposto che la sua detenzione
debba ritenersi qualificata e non sia assimilabile a quella dell'ospite. Nell'ambito dei doveri che nascono
dalla convivenza in particolare rileva quello relativo alla somministrazione delle prestazioni
riconducibili all'assistenza materiale e dei contributi necessari al soddisfacimento delle comuni
esigenze di vita la giurisprudenza riconduce questi doveri nell'ambito delle obbligazioni naturali ex
art. 2034 cc, sul presupposto che quanto prestato da un convivente a favore dell'altro o nell'interesse
comune trovi la propria giustificazione nell'adempimento di un dovere di natura morale caratterizzato
dalla irripetibilità come previsto dalla disposizione in questione. In precedenza invece si sosteneva che
le prestazioni compiute dall'uomo a favore della donna fossero qualificabili come donazione
rimuneratoria ma la Cassazione ha inseguito ha mutato il proprio orientamento, qualificando la
prestazione come adempimento di un'obbligazione naturale (in un primo momento di natura indennitaria
e successivamente come solidaristica) al fine di poter configurare un’obbligazione naturale non è
tuttavia sufficiente accertare che la prestazione sia stata eseguita in adempimento di un dovere morale,
in quanto occorre che la prestazione risulti adeguato alle circostanze è proporzionata all'entità del
patrimonio e alle condizioni sociali del solvens La Cassazione precisa che il diritto a percepire un
assegno commisurato in funzione della condizione di benessere economico goduta in costanza di
matrimonio possa venire meno qualora il beneficiario abbia instaurato una convivenza che si
caratterizza per i connotati della stabilità, continuità e regolarità. Per quanto riguarda il godimento della
casa dove i conviventi risiedono, si riconosce in capo al convivente non proprietario una situazione di
detenzione autonoma, il cui titolo si rinviene in un rapporto di fatto o in un contratto atipico a contenuto
personale: la convivenza pertanto configura il titolo giuridico costitutivo della detenzione, che legittima
il convivente all'azione di spoglio nei confronti dell'altro che voglia estrometterlo in via di fatto dal
godimento dell'abitazione sia degli eredi, i quali per conseguire il possesso della casa non potranno
invocare l'art. 460 cc e dovranno esperire l'azione di restituzione. Per quanto riguarda i rapporti
patrimoniali si esclude l'applicazione ai conviventi del regime di comunione legale dei beni e si esclude
che il convivente che presta attività lavorativa nell'impresa dell'altro possa godere della tutela attribuita
al coniuge ex art. 230 bis cc.

In caso di cessazione della convivenza si profilano delle conseguenze sia nel caso in cui la cessazione
abbia luogo per volontà di uno/entrambi i partner sia in caso di morte di un convive nel primo caso si
è discusso della possibilità di configurare in capo all'ex convivente responsabile della rottura della
relazione un’obbligazione risarcitoria che consiste nell'erogazione di una somma di denaro per le
conseguenze negative derivanti all'altro partner dalla rottura dell'unione: è opinione consolidata
che non ci sia alcun obbligo di risarcimento del danno causato dalla rottura della relazione a carico del
convivente che abbia unilateralmente deciso di porre termine alla relazione, in quanto la convivenza
more uxorio si caratterizza come rapporto fondato sulla libertà e spontaneità dei comportamenti ,
pertanto la coppia di fatto così come è nata da una libera scelta altrettanto può liberamente sciogliersi
senza che il convivente che ne abbia causato la rottura possa essere ritenuto civilmente responsabile. In
caso di rottura della convivenza, al convivente non spetta alcun diritto sulla casa familiare appartenente
all'altro (salvo che in presenza di prole). Per quanto attiene ai profili di diritto successorio si registrano
interventi della giurisprudenza diretti a sollecitare la corte cost sulla base delle norme relative al
matrimonio:

 da un lato sono intervenute pronunce di segno negativo che non hanno ammesso l'estensibilità
ad istituti e disposizioni propri del rapporto matrimoniale alla relazione di fatto
 dall'altro lato ci sono state pronunce in favore del superstite superstite  ad esempio la corte cost
ha dichiarato illegittimo l’art. 6 l. 392/1978 nella parte in cui non prevedeva tra i successibili
mortis causa nella titolarità del contratto di locazione il convivente more uxorio del conduttore
in presenza di prole naturale

Per quanto attiene all'abitazione familiare, si sottolinea che nessun diritto compete per legge al
convivente superstite in quanto non trova applicazione l'art. 540 cc, che dispone la riserva a vantaggio
del solo coniuge del diritto di abitazione sulla casa familiare e del diritto di uso dei mobili che la
corredano, fatta salva la tutela di carattere possessorio nei riguardi degli eredi del partner. Rimane
aperto il problema di quali siano i rimedi con cui si possa affrontare la tutela del superstite, tenuto
conto anche del divieto di patti successori ex art. 458 cc la dottrina ha ipotizzato il ricorso allo
strumento contrattuale, in particolare del contratto a favore di terzo; si è altresì ipotizzata l'adozione del
convivente ai sensi dell'art. 291 cc, con la quale quest'ultimo diviene legittimario (tuttavia l'istituto in
questione presenta ostacoli rilevanti sia in relazione alla natura del rapporto che è destinato ad instaurare
sia a causa del presupposto della differenza di età di cui all'art. 291 cc, nonché qualora l'adottante e
l'adottando siano sposati dei consensi richiesti ai sensi dell'art. 297 cc).
Un altro problema dibattuto è quello della sussistenza del diritto al risarcimento del danno subito da
un convivente seguito dell'uccisione dell'altro la giurisprudenza per un lungo periodo è stata
costante nell'escludere qualsiasi forma risarcitoria, successivamente ha mutato orientamento
riconoscendo il diritto al risarcimento del danno morale per morte del convivente. Recentemente la
Cassazione ha ammesso il risarcimento del danno patrimoniale, precisando che questo non può farsi
discendere ipso iure dalla morte del convivente né può consistere nella sopravvenuta mancanza di
elargizioni episodiche, né in una mera ed eventuale aspettativa spetta al convivente che agisce per il
risarcimento del danno patrimoniale fornire la prova del contributo patrimoniale e personale apportato
in vita con carattere di stabilità, che è venuto a mancare in conseguenza della morte.

Tuttavia il quadro è venuto a mutarsi con l’entrata in vigore della l. 76/2016 la quale, sebbene non
disciplini espressamente la cessazione della convivenza, prevede che non manchino effetti giuridici che
la legge a questa riconnette, tra le parti e verso i terzi in primo luogo va richiamato il comma 65 l.cit.
che dispone che in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del
convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in
grado di provvedere al proprio mantenimento. Il disegno originario del testo prevedeva addirittura un
diritto al mantenimento il testo definitivo si limita solamente al riconoscimento del diritto agli
alimenti (la cui disposizione ricalca quanto stabilito nell’art. 438 comma 1 cc) ed è un palese   riflesso
della solidarietà postmatrimoniale, fondata sull’art. 2 Cost: tuttavia questa formulazione suscita dubbi in
ordine alla legittimità costituzionale in quanto la convivenza, a differenza del matrimonio e delle unioni
civili, si fonda pur sempre su una libera scelta, sempre revocabile; inoltre viene previsto che gli alimenti
sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai
sensi dell’articolo 438, secondo comma, del codice civile  non è chiaro il riferimento alla proporzione
con la durata del matrimonio: evidentemente il diritto agli alimenti non potrà essere riconosciuto per un
periodo più lungo della durata della convivenza.
Infine la norma disciplina la sorte della casa familiare in caso di morte di uno dei conviventi ai commi
42-44 il comma 42 stabilisce che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il
convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un
periodo pari alla convivenza se superiore a 2 anni e comunque non oltre i 5 anni. Ove nella stessa
coabitino figli minori o disabili del convivente superstite il medesimo ha diritto di continuare ad abitare
nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a 3 anni: si tratta di una disposizione
innovativa, che sembra introdurre una nuova fattispecie di successione necessaria.
In assenza di una disciplina che regolamenta i rapporti patrimoniali tra conviventi (infatti la legge sulle
unioni civili non prevede un regime patrimoniale della convivenza, pertanto continueranno ad operare in
relazione ai beni acquistati dai conviventi, assieme o separatamente, le ordinarie disposizioni del cc), la
dottrina ha individuato nel contratto uno strumento potenzialmente idoneo a coniugare le esigenze di
libertà e autonomia che la convivenza esprime a riguardo si parla di contratti di convivenza, che
sono delle convenzioni che i partner possono stipulare allo scopo di regolare gli aspetti patrimoniali del
loro rapporto, le quali mirano a sottoporre a regole prefissate la soluzione di eventuali compiti di natura
patrimoniale che potrebbero insorgere: questi sono espressamente disciplinati al comma 50 l. 76/2016,
che stabilisce che attraverso il contratto di convivenza che i conviventi possono disciplinare i rapporti
patrimoniali relativi alla loro vita in comune, il cui oggetto è stabilito al comma 53 il contratto può
contenere: 

a) l’indicazione della residenza


b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di
ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo
c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI
del libro primo del codice civile

Il comma 56 dispone che al contratto di convivenza non possono essere apposti termini o condizioni (si
tratta quindi di un actus legitimus) di conseguenza tutto quello che è estraneo alla causa ovvero
all’oggetto tipico potrebbe certo essere oggetto di negozi atipici, anche accessori a quello di convivenza,
suscettibili del giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322 cc.
Per quanto riguarda la forma del contratto, il comma 51 prevede che il contratto, le sue modifiche e la
sua risoluzione, sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con
sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato gli operatori giuridici hanno inoltre il
compito di attestare la conformità del contratto alle norme imperative e all’ordine pubblico. Affinché il
contratto produca effetti verso i terzi, divenendo opponibile, il professionista che l’ha ricevuto o ha
autenticato le sottoscrizioni deve nel termine di 10 gg trasmetterne copia al comune di residenza dei
conviventi per l’iscrizione nell’anagrafe
Il contratto di convivenza è un contratto modificabile in qualsiasi momento dalle parti e che, in qualsiasi
momento, può essere oggetto di recesso, come prescritto al comma 59 il recesso viene previsto per:

a) accordo tra le parti


b) recesso unilaterale nello specifico in questo caso è previsto ai commi 60-61 il ricorso alla
forma solenne (ossia forma scritta ad substantiam) e l’onere per l’avvocato/notaio di notificare
copia del recesso all’altro contraente all’indirizzo dichiarato nel contratto
c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona
d) morte di uno dei contraenti

Per quanto attiene ai requisiti soggettivi la dottrina ritiene necessaria la capacità di agire dei
conviventi.

CAPITOLO 8: IL RAPPORTO GENITORI-FIGLI


L'art. 30 Cost. stabilisce che è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se
nati fuori dal matrimonio; il comma 3 stabilisce che è riconosciuta ai figli nati fuori dal matrimonio ogni
tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima la previsione
costituzionale nel suo insieme sembra riferirsi al vincolo biologico e naturalistico di filiazione, senza
consentire a discriminazioni tra figli. Anche l’art. 14 CEDU e l'art. 21 Carta diritti fondamentali dell'Ue
vietano ogni discriminazione tra persone sulla base della nascita.
Fino all’entrata in vigore della l. 219/2012 che ha introdotto lo stato unico di filiazione e il relativo
decreto attuativo del 2013, la disciplina giuridica della filiazione era ripartite differenziata a seconda che
i genitori fossero meno uniti nel vincolo del matrimonio:

 nel caso fossero sposati si aveva filiazione legittima


 nel caso non fossero sposati si aveva filiazione naturale, la quale era distinta in filiazione
naturale riconosciuta o giudizialmente accertata oppure filiazione naturale non riconosciuta o
irriconoscibile

Nell’originario assetto del codice a ciascuna di queste situazioni corrispondeva una diversa condizione
giuridica del figlio la pienezza dello status di filiazione era attribuita alla sola filiazione legittima, la
quale godeva di ogni tutela: i genitori erano obbligati al mantenimento, all'educazione e all'istruzione
degli ascendenti e a tali doveri erano altresì tenuti i parenti in determinate circostanze, che sono i
presupposti per l'obbligo alimentare. I figli naturali riconosciuti godevano della medesima tutela ma solo
nei riguardi del genitore che aveva effettuato il riconoscimento, mentre ai figli non riconosciuti o non
riconoscibili era attribuita una protezione limitata, in quanto costoro potevano ricevere dal genitore solo
un sussidio di natura alimentare ai sensi dell'art. 279 cc.
Anche sotto il profilo successorio la condizione dei figli nati da genitori uniti in matrimonio era diversa
rispetto degli altri figli ai figli legittimi era riservata una quota indisponibile dell'eredità, mentre i figli
naturali riconosciuti erano eredi necessari ma la loro quota era di identità ridotta e questi erano esclusi
dalla successione dei parenti in linea collaterale; per quanto riguarda i figli non riconosciuti o non
riconoscibili era invece attribuito solamente un assegno vitalizio di natura alimentare.
Si evince quindi che il modello familiare accettato era quello fondato sul matrimonio, il quale
rappresentava l'unico ambito in cui la filiazione trovava dignità e piena protezione presupposto
implicito del sistema era che la filiazione, per essere lecita, dovesse sempre originare da genitori uniti in
matrimonio e il matrimonio, in quanto in principio indisponibile, da un lato conferiva legittimità alla
prole in quanto impediva a chi era coniugato di riconoscere un figlio adulterino, il quale non poteva
neppure agire per l'accertamento della filiazione: pertanto solo i figli concepiti in pendenza di
matrimonio ricevevano una tutela integrale mentre i figli nati da unioni di fatto o da rapporti
occasionali subivano un trattamento deteriore.
Con la riforma di famiglia del ‘75 alla filiazione naturale è stata data la stessa dignità di quella legittima
prevedendo la sostanziale parificazione tra le categorie di figli e l'abolizione di quei divieti che
impedivano l'accertamento della verità biologica e proteggevano il nucleo legittimo in particolare
è stata stabilita la parità sia nell'ambito dei rapporti personali sia successori e inoltre le norme che hanno
abrogato il divieto dell'accertamento giudiziale nei riguardi dei figli adulterini nonché quelle che hanno
fissato i principi della libertà della prova e della imprescrittibilità dell'azione hanno consentito al figlio
naturale di conseguire l'accertamento del proprio status giuridico: ecco quindi che il figlio riceve piena
tutela giuridica nei confronti del genitore. Tuttavia restava una profonda differenziazione tra filiazione
legittima e naturale in quanto solo il figlio legittimo era collocato nella rete parentale, mentre al figlio
naturale non erano riconosciuti di vincoli giuridici con i parenti dei propri genitori il che comportava
conseguenze anche sotto il profilo dei diritti successori rispetto ai parenti del genitore che lo avesse
riconosciuto tale disparità di trattamento è stata superata con la l. 219/2012 e d.lgs. 2013 in cui è stata
fatta una vera e propria rivoluzione prevedendo il superamento della precedente disciplina e riformando
l'intera materia della filiazione, stabilendo all'art. 315 cc che tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico,
modificando altresì l'art. 74 cc che stabilisce che la parentela è il vincolo tra le persone che discendono
dallo stesso stipite sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in
cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui figlio è adottivo : ecco che il soggetto diventa
parente delle persone che partecipano allo stipite da cui discendono i suoi genitori, pertanto entra a far
parte della loro famiglia indipendentemente dal fatto che sia stato concepito nel/fuori/contro il
matrimonio questo ha portato delle conseguenze sotto il profilo ereditario in quanto in virtù del
rapporto di parentela che si instaura tra il figlio e i relativi consanguinei il figlio viene chiamato a pieno
titolo alla successione legittima sulla base di quanto disposto dagli artt. 565 ss cc.
Affinché sorga il vincolo giuridico tra genitore-figlio è indispensabile un accertamento secondo
modalità prestabilite infatti se non si forma un ruolo di stato (un atto di nascita da cui risulti l'identità
dei genitori del figlio) il rapporto genitore-figlio resta confinato nell'ambito di quanto disposto dagli artt.
279, 585 184 cc e inoltre in mancanza del titolo dello stato la legge stabilisce, salvo eccezioni, che dia
corso immediatamente alla procedura di adozione, rompendo ogni legame con i genitori biologici. Le
modalità di formazione del titolo dello stato della filiazione sono differenti a seconda che si tratta di
filiazione nel o fuori del matrimonio:

 in caso di genitori coniugati il titolo dello stato si forma automaticamente in sede di


dichiarazione di nascita
 in caso di genitori non coniugati il titolo dello stato può formarsi solo in dipendenza di una
dichiarazione del/i genitore/i oppure di un accertamento giudiziale richiesto dal figlio

L’art. 30 d.p.r. 396/2000 attribuisce rilevanza alla volontà della madre nella formazione del titolo dello
stato in quanto consente l'indicazione delle generalità dei genitori coniugati, purché la madre non si
opponga, e di quelli non coniugati, qualora i medesimi rendano la dichiarazione di riconoscimento o
abbiano espresso mediante atto pubblico il proprio consenso ad essere nominati.

Il legislatore con la riforma del 2012 ha attuato un mutamento di prospettiva nella disciplina giuridica,
ponendo al centro i diritti e gli interessi della prole piuttosto che i poteri dei genitori che fino al 2013
hanno configurato la potestà genitoriale secondo questo modello i genitori erano titolari di poteri che
erano finalizzati all’interesse preminente dei figli, i quali erano soggetti all'autorità dei genitori; con la
riforma del 2013 sia invece introdotta la responsabilità genitoriale, che intende porre l'accento sui
doveri di cura volti all'attuazione dell'interesse del figlio, rispetto al quale il ruolo dei genitori si
configura alla stregua di una vera e propria funzione. Sotto il profilo sistematico il legislatore ha
apportato innovazioni alla disciplina del titolo IX del libro I rubricato Della responsabilità genitoriale e
dei diritti e doveri del figlio si evince il cambiamento di prospettiva attuato si riguardo al rapporto
genitori figli, nell'ottica di valorizzare i diritti dei figli e non i poteri genitoriali, oltre che dettare una
disciplina unitaria della rapporto genitori figli; l'art. 315 cc contiene il principio cardine della riforma
prevedendo l'unicità dello stato giuridico di filiazione stabilendo un vero e proprio statuto unitaria del
rapporto genitori figli, ponendo in primo piano i diritti dei figli al mantenimento, all'educazione,
all'istruzione e menziona espressamente il dovere all'assistenza morale compiuta dai genitori, tenendo
conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio come prescritto dall'art. 315
bis comma 1 cc la disposizione riconosce poi espressamente il diritto del figlio a crescere in famiglia
ea mantenere rapporti significativi con i parenti come previsto dal comma 2 e l'ultimo comma prevede il
dovere del figlio di rispettare i genitori e di contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie
sostanze al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con questa. Si ritiene che i
diritti al mantenimento, all'educazione, all'istruzione e all'assistenza morale spettino al figlio per il solo
fatto di essere nato e il relativi doveri gravino sui genitori indipendentemente dalla attribuzione formale
e della responsabilità genitoriale sembra che questi diritti non vengano meno per il compimento della
maggiore età del figlio, il quale finché non diventa autosufficiente dal punto di vista economico
conserverà il diritto al mantenimento, il diritto all'istruzione, all'educazione e all'assistenza morale e a
quello della crescita in famiglia.
Comparando il testo dell'art. 315 bis cc con quello previgente dell'art. 315 ove erano enunciati solo i
doveri del figlio, è chiaro come l'intervento legislativo abbia rovesciato la tradizionale prospettiva
valorizzando la posizione del figlio nel precedente sistema i genitori erano tenuti a conformare la
personalità del figlio ad un modello morale oggettivo e socialmente accettato, per questo motivo
venivano loro attribuiti poteri ampi e il figlio era tenuto ad adeguarsi ai comandi genitoriali e addirittura
il genitore in caso di cattiva condotta del figlio poteva adire l'autorità giudiziaria al fine di collocarlo in
un istituto di correzione. Oggi la riforma ha eliminato la locuzione di potestà genitoriale sostituendola
con quella di responsabilità genitoriale, pertanto appare chiaro come il rapporto genitori figli ponga in
evidenza il profilo dei diritti dei figli e nel contempo configura l'esercizio della funzione genitoriale
come strumento funzionale al soddisfacimento dei diritti del figlio e al tempo stesso alla compiuta
attuazione dei doveri genitoriali è in questa prospettiva che va letta la responsabilità dei genitori nei
riguardi dei figli, in quanto costoro sono tenuti all’attuazione dei diritti enunciati nell'art. 315 bis cc.
Il nuovo testo dell'art. 316 cc nulla dice in ordine al momento in cui sorge la responsabilità genitoriale
anche se tendenzialmente si ritiene che è il momento coincida con la nascita della persona, anche se ciò
non è sempre vero in linea di principio la responsabilità genitoriale presuppone l'acquisizione dello
stato di figlio e la formazione del titolo dello stato, pertanto prima di questo momento i genitori non ne
sono investiti; dall’altro lato è anche vero che l'esistenza di alcune norme che prevedono in capo i
genitori il potere di rappresentare il nascituro ha indotto parte della dottrina a ritenere che l'inizio della
responsabilità genitoriale si colloca in un momento precedente alla nascita del figlio.
Per quanto concerne il contenuto della responsabilità genitoriale, le regole del cc in materia di
responsabilità genitoriale si occupano del conferimento, dell'estensione e dell'esercizio delle funzioni
genitoriali rispetto alla persona del figlio e rispetto alla sua sfera patrimoniale nonché del controllo
giudiziale sull'esercizio di queste funzioni queste norme si intersecano con quelle che regolano i
doveri genitoriali, pertanto in primo luogo viene in rilievo l’art. 30 cost che sancisce l'obbligo di
mantenere, istruire ed educare la prole. A seguito della riforma del 1975 nell'ambito della affermazione
del principio di eguaglianza tra genitori legislatore ha attribuito ad entrambi l' esercizio congiunto della
potestà che fino a quel momento era stato esclusivamente di prerogativa materna e ha previsto che in
caso di contrasto tra genitori la possibilità di ricorrere al giudice nel passaggio dalla potestà alla
responsabilità genitoriale il legislatore ha mantenuto fermo il principio dell' esercizio congiunto della
responsabilità genitoriale di cui all'art 316 comma 1 cc la quale si deve esercitare di comune accordo
tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni del figlio ed è stata altresì
prevista la regola dell'esercizio congiunto anche con riferimento alla scelta della residenza del minore . È
stato poi previsto che anche i genitori non coniugati siano tenuti a condividere la responsabilità
genitoriale, indipendentemente dall'eventuale convivenza in passato la disciplina della potestà era
dettata distinguendo tra genitori uniti in matrimonio e genitori non coniugati: in caso di genitori non
coniugati l'esercizio del potere spettava al genitore che avesse effettuato il riconoscimento e, nel caso in
cui entrambi vi avessero proceduto, ad ambedue se conviventi mentre in caso di non convivenza al solo
genitore con cui il figlio convivente; il giudice nell'esclusivo interesse del minore poteva disporre
diversamente e anche nominare un tutore, escludendo entrambi i genitori dall'esercizio della potestà
tale disciplina è stata innovata con la riforma del 2013 che ha riscritto l’art. 316 cc prevedendo al
comma 4 la regola generale dell'esercizio congiunto della responsabilità genitoriale estendendola anche
all'ipotesi in cui i genitori non coniugati non conviventi non abbiano mai convissuto. Alla luce
dell'unicità dello stato di filiazione la responsabilità genitoriale si atteggia unitariamente,
indipendentemente da ogni relazione giuridica o di fatto sussistente tra i genitori.
Nell'assetto riformato le disposizioni degli artt. 316 e 317 cc trovano applicazione generalizzata a
tutti i rapporti genitori figli, senza che sia dato distinguere tra genitori coniugati, conviventi o non
conviventi poiché la responsabilità deve essere esercitata di comune accordo, vige tra i genitori il
dovere giuridicamente rilevante di relazionarsi tra loro al fine di assolvere i compiti genitoriali : sotto
questo aspetto la coppia genitoriale non è mai una coppia di fatto bensì una coppia di diritto, in quanto
l'ordinamento ne disciplina le funzioni. Se tra i genitori sorge un contrasto in ordine all'esercizio della
responsabilità genitoriale si applica l'art. 316 comma 2 cc, con conseguente possibilità per ciascuno dei
genitori di ricorrere al giudice senza formalità indicando i provvedimenti ritenuti più idonei; qualora il
genitore si trovi nell'impossibilità dell'esercizio della responsabilità genitoriale l'art. 317 comma 1 cc
pone l'esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale in capo all'altro genitore e allo stesso modo
deve ritenersi applicabile ai genitori non coniugati il comma 2 secondo il quale la responsabilità di
entrambi i genitori non cessa a seguito della crisi della famiglia in questo caso l'esercizio della
responsabilità è regolato dalle norme di cui al capo II del Titolo IX a cui l'art. 317 comma 2 cc fa
espresso rinvio.
Nel nuovo testo dell'art. 316 cc è stato eliminato ogni riferimento alla durata della responsabilità
genitoriale, non prevedendo che il figlio fosse soggetto alla potestà genitoriale sino all'età maggiore o
alla emancipazione emerge quindi la differenza sostanziale e il carattere più ampio della
responsabilità genitoriale rispetto alla previgente Istituto della potestà genitoriale. Essendo venuta meno
la limitazione in termini generali della durata della funzione genitoriale, il legislatore ha dovuto
esplicitare i casi in cui la predetta responsabilità perdura fino alla maggiore età o all'emancipazione e si
tratta dei seguenti casi:

 ex art. 318 cc concernente l'abbandono della casa del genitore


 ex art. 320 cc concernente la rappresentanza e l'amministrazione
 ex art. 324 cc in materia di usufrutto legale

Inoltre la responsabilità genitoriale viene meno:

 per morte del figlio/dei genitori


 per dichiarazione di adottabilità di adozione
 per effetto del provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale
 nel caso di disconoscimento della paternità
 nel caso di accoglimento l'impugnativa del riconoscimento

Al venir meno della responsabilità genitoriale non corrisponde l'estinzione di tutti i diritti dei figli e dei
corrispondenti doveri dei genitori.

Il diritto del figlio al mantenimento e l’obbligo in capo ai genitori si inscrivono nel catalogo dei diritti
dei figli enunciato dall'art. 315 bis cc nonché dal testo costituzionale nell’art. 315 bis cc il legislatore
ha inserito anche il diritto del figlio a essere assistito moralmente dai genitori, ponendo in rilievo il
profilo della cura dei figli: la nozione di cura del figlio era già stata enunciata dalla normativa in tema di
affidamento condiviso, che dispone l'obbligo di cura dei figli a carico dei genitori separati, oggi
disciplinata dall'art. 337 ter cc. Tuttavia l’esplicita menzione nell’art. 315 bis cc del diritto del figlio
all'assistenza morale appare rilevante in quanto richiama l'interessamento premuroso che spinge a
provvedere direttamente alle esigenze di una persona che ha un significato più ampio rispetto a quello di
mantenimento, in quanto quest'ultima si riferisce al sostentamento e alla somministrazione dei mezzi
necessari a soddisfare le normali esigenze di vita della persona.
Il diritto al mantenimento configura il diritto del figlio all'assistenza materiale, ossia a ricevere quanto
occorre per le normali esigenze di vita e di crescita e in particolare si ritiene che non possa esaurirsi
nelle cure prestate al figlio nella normale convivenza, bensì riguardi anche la sfera della vita di relazione
e le esigenze di sviluppo della personalità quest’obbligo si differenzia da quello meramente
alimentare sotto vari aspetti:

 la prestazione dovuta a titolo di mantenimento ha un contenuto più esteso, non essendo limitata
al soddisfacimento dei bisogni elementari di vita ma ricomprende anche ogni altra spesa
necessaria per arricchire la personalità del beneficiario
 il mantenimento non è subordinato allo stato di bisogno del beneficiario e discende
automaticamente dalla posizione del singolo all'interno della famiglia
 l’onerato, per essere esonerato, deve dimostrare oltre alla mancanza di mezzi anche di
incolpevole impossibilità di procurarseli

Il mantenimento dei figli grava su ciascun genitore, che è chiamato a contribuire in proporzione alle
proprie sostanze e alla capacità di lavoro, professionale o casalingo (porterà in quest'ultimo caso ad un
soddisfacimento diretto dei bisogni del minore attraverso la predisposizione di un ambiente idoneo alla
sua crescita). La regola della proporzionalità di cui all'art. 316 bis cc rappresenta il mezzo per
l'adempimento dell'obbligo di mantenimento e il mezzo per far fronte agli oneri economici connessi
all'adempimento di tutti gli obblighi gravanti sui genitori che sono quelli di cui all'art. 315 bis cc la
regola della proporzionalità vale solo nei rapporti interni tra genitori e non anche nei rapporti nei
confronti dei figli o dei terzi: ogni genitore è tenuto ad adempiere agli obblighi connessi al
mantenimento del figlio, salvo poter richiedere all'altro genitore la quota di sua spettanza, calcolata in
proporzione alle rispettive sostanze e alla propria capacità di lavoro.
Si ritiene che il dovere di mantenimento gravi sui genitori indipendentemente dalla attribuzione formale
della responsabilità genitoriale ad ulteriore conferma di questo si richiama l'art. 316 bis cc che
impone agli ascendenti di fornire ai genitori indigenti i mezzi necessari per l'adempimento dei loro
doveri nei confronti dei figli, facendosi rilevare che gli assunti, pur essendo obbligati, non hanno
responsabilità genitoriali. Il diritto al mantenimento non viene meno con la maggiore età ma
perdura fino a che i figli non siano in grado di inserirsi nel mondo del lavoro e ottenere una fonte
autonoma di sostentamento ovvero si siano volontariamente messi in condizione di non conseguire un
proprio reddito questo principio enunciato all'art. 337 septies cc che prevede esplicitamente la
sussistenza dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti;
l’art. 337 septies cc prevede che il mantenimento si attui mediante il pagamento di un assegno periodico
versato direttamente al figlio maggiorenne, tuttavia tale modalità vale tendenzialmente anche con
riferimento al figlio dei genitori non separati ma in queste ipotesi il giudice potrebbe disporre il
mantenimento diretto da parte dei genitori qualora il figlio continui a convivere con loro. Nei riguardi
dei figli maggiorenni portatori di handicap grave secondo quanto disposto dalla l. 104/1992 l'art 337
septies comma 2 cc prevede l'integrale applicazione delle disposizioni in tema di affidamento previste
per i figli minori e questa norma si applica anche ai genitori non separati e comporta l'obbligo dei
genitori di farsi carico per sempre della cura del figlio, il quale a causa dell'handicap non è in grado di
provvedere a se stesso in modo autonomo.
L’art. 316 bis cc disciplina l'ipotesi in cui i genitori non abbiano mezzi sufficienti per adempiere
l'obbligo di mantenimento, individuandone gli ascendenti, in ordine di prossimità, i soggetti tenuti a
fornire i genitori i mezzi necessari per l'adempimento dei loro doveri il legislatore ha inteso escludere
ogni intromissione degli ascendenti nell'esercizio della responsabilità genitoriale:
 da un lato tutelando i genitori, ai quali spetta in via esclusiva il compito di stabilire come il
contributo dei nonni debba essere utilizzato
 dall'altro lato tutelando i minori, ai quali viene garantito il mantenimento del legame familiare in
tutti i suoi aspetti anche in caso di difficoltà economica

Il comma 2 art 316 bis prevede la possibilità che il presidente del tribunale, su istanza di chiunque ne
abbia interesse, ordini con decreto che una quota dei redditi dell'obbligato, in proporzione agli stessi, sia
versata dal terzo debitore come ad esempio il datore di lavoro direttamente all'altro genitore o a chi
sopporta le spese per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione della prole: in caso di inadempimento
possono trovare applicazione le norme relative alle limitazioni della responsabilità genitoriale di cui agli
art 330 è 333 cc e può aggiungersi anche la dichiarazione dello stato di adottabilità se si dovesse
configurare la condizione di abbandono del minore.

La Costituzione riconosce e tutela un diritto all’istruzione non solo in relazione al rapporto tra genitori
e figli ma anche con riguardo a quello tra minore e istituzioni esterne alla famiglia  all’interno della
famiglia i figli devono essere istruiti nelle forme e nei limiti connaturati alle possibilità dei genitori e,
nello stesso tempo, deve essere consentito loro di esercitare il proprio diritto all’istruzione in una sede
diversa da quella familiare; allo stato spetta il dovere di predisporre le strutture attraverso le quali i
genitori possono adempiere al compito loro affidato. Considerando che responsabili dell'obbligo
scolastico da un lato e lo stato e dall'altro lato sono i genitori, si deduce anche in questo ambito si
realizza una coesistenza di doveri e responsabilità e quindi una necessaria collaborazione tra diversi
soggetti e in senso ampio tra pubblico e privato. Per quanto attiene i genitori la responsabilità per
l'istruzione dei figli fino ai 14 anni viene sanzionato ai sensi dell'art. 731 cp che punisce chiunque,
rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore, ometta senza giusto motivo di
impartirgli o fargli impartire l'istruzione elementare.

Per quanto attiene il diritto all'educazione, questo è stato sancito già nell'art. 147 cc vecchia
formulazione e ha ribadito nell'art. 147 cc nuova formulazione in particolare il vecchio testo
prescriveva che l'educazione doveva essere conforme ai principi della morale: in questo modo il
legislatore mostrava adesione a una prospettiva che favoriva un particolare tipo di programma educativo
uniformato la principi morali di tipo oggettivo provenienti dall'esterno della famiglia. A seguito della
riforma e a seguito della novella del 2013 l'art. 147 cc obbliga i genitori a rispettare le capacità e le
inclinazioni naturali e le aspirazioni del soggetto nei cui confronti deve essere esercitata la funzione
educativa.
Per quanto riguarda il contenuto, nella Costituzione non vengono indicati i principi ai quali attenersi
nell'educazione della prole, risultano infatti solo che i compiti educativi appartengono alla famiglia, alla
quale deve essere riconosciuta piena libertà nella scelta dei criteri e dei mezzi educativi ritenuti più
idonei la libertà educativa incontra un limite nel rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento
che risultano dalla Costituzione e dalla legislazione penale.
Il rapporto tra minore e famiglia per quanto riguarda lo svolgimento della funzione educativa trova
soluzione partendo dal concetto di persona poiché il principio costituzionale di eguaglianza non
tollera ripartizioni delle persone in classi di età, ne consegue che avere minore età non significa avere
minor valore rispetto agli adulti e sulla base di queste osservazioni occorre ricordare quanto previsto
dall'art 2 cost, nel quale viene evidenziato il rapporto tra garanzia della persona e comunità, prima tra
tutte la famiglia, all'interno della quale si svolge la propria personalità: tale comunità adempie così alla
sua funzione che è quella educativa in quanto contribuisce al potenziamento della persona.
Se il legislatore costituzionale, riconosciuta l'autonomia della famiglia, si è astenuto dall’indicare i fini
verso i quali l'educazione del minore deve tendere, ha fatto tuttavia salvi i diritti di libertà del minore in
modo tale da coordinare con questi il potere-dovere dei genitori all’art. 315 bis cc è stato
opportunamente esplicitato il diritto del figlio ultradodicenne ovvero dotato di adeguato discernimento
di essere ascoltato nelle questioni che lo riguardano.
Alcuni ritengono che la funzione educativa sia parte integrante della responsabilità genitoriale, mentre
altri invece fanno rilevare che nell'ordinamento esistono ipotesi di scissione tra adempimento dei doveri
di cui all'art. 315 bis cc e investitura formale nell'ufficio la giurisprudenza di merito ha
riconosciuto un dovere dei genitori di rispettare le scelte dei figli, soprattutto con riferimento allo
studio, alla formazione professionale, all'impegno politico sociale alla fede religiosa : già nel 1959 il
Tribunale di Genova affermava che un giovane di 17 anni fosse in grado di scegliere autonomamente il
proprio credo religioso senza che i genitori forse è permesso utilizzare in mezzi coercitivi per adeguare
la volontà del figlio alla propria; il Tribunale di Bologna ha affermato che la potestà non può
comprendere il diritto di contrastare, anche mediante restrizioni personali, le scelte ideologiche e
culturali del figlio minore, ma deve essere esercitata nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti
inviolabili dell'uomo queste decisioni hanno segnato l'avvio di un nuovo corso nell'approccio alla
realtà minorile che da un lato è fondata su una concezione della famiglia intesa come libera comunità di
uguali all'interno della quale arricchire la propria personalità e dall'altro su una diversa considerazione
del minore, quale soggetto titolare di diritti perfetti e autonomi; la giurisprudenza successiva ha cercato
di individuare i limiti entro i quali dovesse essere correttamente esercitata la potestà dei genitori al fine
di garantire l'autonomia delle scienze del minore e di costituire attorno a costui una struttura familiare
aperta in vista di uno sviluppo armonico della sua personalità a riguardo la giurisprudenza si è
soffermata sul problema relativo all'uso dei mezzi di correzione nell'esercizio dell'attività educativa,
affermando che le norme del cp che disciplinano l'abuso dei mezzi di correzione vanno interpretate alla
luce della Costituzione e delle disposizioni del codice, pertanto secondo la Cassazione il termine
correzione va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente
conformativi propri di ogni processo educativo.
L'art. 315 bis comma 2 cc prevede il diritto del figlio a crescere nella famiglia, da intendersi come
diritto a compiere il percorso affettivo, formativo ed educativo tracciato dalla legge all'interno del
proprio nucleo familiare non si tratta di una novità assoluta, in quanto già la l. adoz. garantisce il
diritto del minore di crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia, così da relegare gli
istituti dell'affidamento familiare e dell'adozione a rimedi residuali ai quali ricorrere solo in casi di
mancanza temporanea di ambiente familiare idoneo o in caso di oggettivo stato di abbandono materiale
e morale. L'attribuzione del diritto a crescere in famiglia si prospetta complessa per il figlio che ha i
genitori non conviventi oppure convivono con altra persona in un diverso nucleo familiare: in questo
caso il diritto del figlio si declina mediante l'applicazione delle norme dettate in materia di affido
condiviso.
Per quanto riguarda la situazione della persona coniugata che abbia concepito un figlio con una
persona diversa dal coniuge, l'art. 252 cc disciplina l'ipotesi in cui detto genitore intende inserire il
figlio nella propria famiglia, prevedendo un sistema articolato di consensi da parte dei soggetti
interessati, oltre a richiedere l'autorizzazione al tribunale, al fine di realizzare l’equilibrio tra il diritto del
figlio riconosciuto a crescere in un ambiente familiare idoneo ad assicurarne un armonico sviluppo della
personalità e indirizzo dei membri della famiglia fondata sul matrimonio non vedere turbata la loro
armonia l'art. 252 cc distingue a seconda che il riconoscimento sia avvenuto durante il matrimonio
oppure prima del matrimonio:
o se il figlio è stato riconosciuto durante il matrimonio, il suo inserimento nella famiglia di uno dei
genitori può essere autorizzato dal giudice a condizione che:
1. non sia contrario all’interesse del minore
2. sia accertato il consenso del coniuge in quanto convivente il suo consenso non sarà
più necessario nelle ipotesi in cui sia venuta meno la sua partecipazione alla vita
familiare
3. sussista il consenso dei figli nati nel matrimonio che abbiano compiuto i 16 anni e siano
conviventi
4. sia accertato il consenso dell'altro genitore che abbia effettuato il riconoscimento
o se il figlio è stato riconosciuto prima del matrimonio, il suo inserimento non è soggetto ad
autorizzazione giudiziale, ma è subordinato al solo consenso del coniuge e al consenso dell'altro
genitore che abbia effettuato il riconoscimento

L’art. 252 cc richiede sia per il figlio riconosciuto dopo il matrimonio sia per quello riconosciuto prima
del matrimonio il consenso dell'altro genitore che abbia effettuato il riconoscimento il rifiuto non
impedisce al Tribunale di concedere l'autorizzazione, ove il rifiuto risulti contrario all'interesse del
minore: il comma 5 infatti prevede che il giudice possa superare il mancato consenso dell'altro genitore
o dei figli conviventi tenendo conto dell'interesse del minore, pertanto il giudice può intervenire in caso
di rifiuto ingiustificato dell'altro genitore, in modo da poter autorizzare l'inserimento in presenza del
solo consenso del coniuge. Prima dell'adozione del provvedimento di inserimento il giudice deve
disporre l'ascolto dei figli minori che abbiano compiuto 12 anni o anche di età inferiore ove capace di
discernimento come previsto al comma 5.

L'art. 315 bis comma 2 cc riconosce al figlio il diritto di mantenere rapporti significativi con i
parenti in precedenza già l'art. 155 comma 1 garantiva il diritto del minore di mantenere, a seguito
della separazione tra i genitori e nelle ipotesi di crisi del rapporto genitoriale, rapporti significativi con
gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale: l'enunciazione all' art. 315 bis cc attribuisce
portata generale al diritto del minore ad avere rapporti significativi con i parenti, avendo un ambito
applicativo più ampio rispetto a quello della disciplina precedente.
L'art. 317 bis cc riconosce in capo agli ascendenti un diritto speculare, ossia il diritto di mantenere
rapporti significativi con i nipoti minorenni e al comma 2 stabilendo che l'ascendente che risulti inibito
nell'esercizio di questo diritto possa ricorrere al giudice (T.M.) che, previo ascolto del minore che abbia
compiuto 12 anni o anche di età inferiore ove capace di discernimento, adotta in camera di consiglio e
provvedimenti più idonei nell'esclusivo interesse del minore si tratta di una norma innovativa in
quanto prende in considerazione la prospettiva degli ascendenti ed eleva la loro posizione a diritto
soggettivo perfetto. Questo articolo prevede un rimedio volto a dare effettività a questo diritto,
consentendo ai nonni di installare un apposito giudizio ogni qualvolta i genitori o il genitore oppure III
pregiudichino le relazioni personali tra nonni e nipoti il legislatore delegato non si è spinto a
riconoscere i nonni anche la legittimazione ad agire o intervenire nei procedimenti della crisi familiare,
pertanto perdura la loro impossibilità ad agire o intervenire nei giudizi di separazione e divorzio, sì che
devono instaurare un autonomo giudizio presso il T.M. al fine di evitare un’indebita intromissione degli
ascendenti nei giudizi di separazione e divorzio.

Il diritto all'ascolto del minore in tutti i processi che lo riguardano (e in particolare nei procedimenti in
tema di responsabilità genitoriale e di affidamento) è acquisito nel ns ordinamento ed è stato
positivamente sancito nelle carte internazionali ed europee sui diritti del fanciullo, in particolare:
 l'art. 12 Convenzione sui diritti del fanciullo
 l'art. 6 Convenzione europea sull'esercizio dei diritti del fanciullo
 l'art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell'Ue
 art. 337 octies cc nei procedimenti di affidamento dei figli a seguito della crisi della famiglia
il giudice dispone l'audizione del minore che abbia compiuto gli anni dodici o anche di età
inferiore ove capace di discernimento

La novella sulla filiazione ha consacrato il diritto all'ascolto del minore nell’art. 337 octies cc e all'art.
315 bis comma 3, che ha disposto che il figlio minore che abbia compiuto gli anni 12 e anche di età
inferiore ove capace di discernimento ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure
che lo riguardano quest'ultima norma supera la prospettiva che collocava il diritto all'ascolto
nell'ambito di procedimenti giudiziali, infatti la nuova norma mette in evidenza l'obbligo dei genitori di
confrontarsi con il figlio ultradodicenne con riferimento alle questioni che lo riguardano, indicando
perciò un criterio pedagogico ai quali devono attenersi nella relazione educativa con il figlio.
Sebbene l’ascolto del minore rappresenti una sorta di atto dovuto, in dottrina è prevalsa
un'interpretazione più elastica in considerazione del fatto che l’ascolto, soprattutto se non attuato con
modalità tecnicamente adeguate al rispetto della personalità e degli affetti del minore, può rappresentare
per lui un vero e proprio trauma che il giudice deve poter risparmiare all'interessato omettendone
l'audizione pertanto è lasciata al giudice la possibilità di optare per il mancato ascolto .
La riforma sulla filiazione ha positivamente sancito sia in una previsione di carattere generale come
l’art. 336 bis cc, sia più specificamente in riferimento ai procedimenti di affidamento dei figli a seguito
della crisi di famiglia come all'art. 337 octies cc che il giudice posta omettere, previa adeguata
motivazione del provvedimento di diniego, l'ascolto del minore ove in contrasto con l'interesse del
minore o manifestamente superfluo in tal senso si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità, che
ha affermato che il giudice, ove accerti che l'ascolto sebbene doveroso possa essere contrario
all'interesse del minore e anche solo potenzialmente dannoso, possa omettere tale incombente dandone
adeguata motivazione. La consacrazione del diritto all'ascolto in una norma collocata nel titolo dedicato
alla responsabilità genitoriale lascia intendere che l'ascolto si riferisca ai procedimenti specificamente
afferenti all'esercizio della responsabilità genitoriale, ossia alle procedure aventi ad oggetto il
diritto del figlio all'educazione, all'istruzione, all'assistenza morale, a crescere in famiglia e a
mantenere rapporti significativi con i parenti in tal senso sembra orientata alla previsione di cui
all'art. 316 comma 3 cc che prescrive l'ascolto del minore nelle controversie insorte tra genitori
sull'esercizio della responsabilità genitoriale e l'art. 336 bis ha introdotto proprio una disposizione
generale sulle modalità di ascolto del minore. Per quanto riguarda i procedimenti in cui è previsto
l'ascolto del minore, si possono ricordare quelli relativi all'affidamento del minore a seguito della crisi
della coppia genitoriale coniugata o non in questi casi si ritiene che si debba procedere all'ascolto del
minore quando si tratta di assumere provvedimenti di natura meramente economica; il minore deve
essere sentito nelle procedure in cui agisce resiste in qualità di parte, ossia nelle controversie riguardanti
il suo status o nei giudizi dichiarativi dello stato di adottabilità o nei giudizi sulla responsabilità
genitoriale.
L’art. 336 bis cc disciplina la procedura dell'ascolto del minore e prevede che il minore debba essere
ascoltato dal giudice, il quale potrà avvalersi di esperti o di altri ausiliari e, prima di procedere alla
ascolta, informa il minore della natura del procedimento e degli effetti dell'ascolto ; genitori, difensori,
curatore speciale del minore e pm possono presenziare solo se il giudice autorizza, al fine di garantire
l'assoluta spontaneità delle dichiarazioni del minore. Il legislatore ha introdotto l'art. 38 bis disp.att.cc
ove si prevede che quando la salvaguardia del minore è assicurata con mezzi tecnici idonei, quali l'uso
di un vetro specchio unitamente ad impianto citofonico, i difensori delle parti, il pm e il curatore del
minore possono seguire l'ascolto in luogo diverso da quello in cui il minore si trova, senza dover
richiedere al giudice alcuna preventiva autorizzazione; è previsto l'obbligo di redigere processo verbale
dell'ascolto oppure la registrazione audio video. La violazione del diritto di ascolto non viene prevista
da alcuna norma, anche se dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che il mancato ascolto del
minore comporta la nullità degli atti processuali.

I doveri dei figli verso i genitori sono disciplinati all'art. 315 bis cc che prevede in capo al figlio sia il
dovere di rispettare i genitori sia il dovere di contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie
sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa:

 per quanto attiene il dovere di rispettare i genitori, la precedente formulazione ricorreva


l'espressione onorare e rispettare e tale formulazione intendeva rimarcare che la posizione dei
figli rispetto ai genitori non si configura in termini di soggezione obbedienza, bensì di rispetto
nei confronti di coloro che sono investiti della responsabilità genitoriale
 sotto il profilo dei rapporti patrimoniali è stato previsto il dovere di contribuzione del figlio a
vantaggio della famiglia l'espressa previsione di questo obbligo deve considerarsi un
corollario della mutata concezione della famiglia, in particolare della posizione del figlio
all'interno di essa.

L'art. 318 cc sancisce il dovere del figlio di non abbandonare, fino alla maggiore età o
all'emancipazione, la casa dei genitori e in capo a questi ultimi riconosce il potere di richiamarlo
ricorrendo, se necessario, al G.T.--> il genitore potrà ricondurre alla abitazione familiare il figlio che si è
allontanato anche mediante l'uso della coercizione fisica e secondo un certo orientamento anche i
comportamenti che internet grano il reato di sequestro di persona con quello di violenza privata si
ritengono scriminati dall'esercizio di tale diritto.

L'art. 316 comma 1 cc attribuisce la titolarità della responsabilità genitoriale in capo ad entrambi
genitori, i quali sono tenuti ad esercitarla di comune accordo determinando insieme l'indirizzo generale
che ciascuno potrà poi attuare anche separatamente alla luce dello stato unico di filiazione, la norma
ha assunto una nuova dimensione in quanto si indirizza anche ai genitori non coniugati e non
conviventi: il comma 4 estende la regola dell' esercizio congiunto della responsabilità genitoriale anche
all'ipotesi in cui i genitori non coniugati non convivano. La responsabilità genitoriale deve essere
esercitata tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio secondo
quanto previsto dall'art. 316 comma 1 cc; il comma 5 prevede che il genitore che non esercita la
responsabilità genitoriale vigila sull'istruzione, sull'educazione e sulle condizioni di vita del figlio la
norma si riferisce in primo luogo al caso in cui il figlio minore sia affidato ad uno solo dei genitori e
questa norma va letta in combinato disposto con l'art. 337 quater cc che prevede che il genitore al quale i
figli vengano affidati in via esclusiva sia l'unico legittimato ad esercitare la responsabilità genitoriale,
salvo il limite delle decisioni di maggiore interesse per i figli le quali debbono essere adottate da
entrambi i genitori, e che il genitore non affidatario abbia il diritto dovere di vigilare sulla loro
istruzione ed educazione e possa ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni
pregiudizievoli al loro interesse. La previsione di cui all'art. 316 comma 5 cc e altresì idonea a
ricomprendere la situazione in cui un genitore sia impossibilitato all'esercizio della responsabilità
genitoriale a causa di lontananza, incapacità o altro impedimento ai sensi dell'art. 317 comma 1 cc.
Il comma 2 art. 316 cc prevede che in caso di disaccordo dei coniugi ciascuno dei genitori possa
ricorrere senza formalità al giudice, indicando i provvedimenti che ritiene più opportuni: in questo caso
il giudice, sentiti i genitori e il figlio, suggerisce le determinazioni che ritiene più adeguate nell'interesse
del figlio e dell'unità familiare; qualora permanga il contrasto il giudice può attribuire il potere di
decidere, nel singolo caso, al genitore che ritenga più idoneo a curare l'interesse del figlio  l'intervento
del tribunale ordinario, il quale è divenuto competente in luogo del T.M. a seguito delle modifiche
all'art. 38 disp.att.cc, si articola in 2 fasi:

1. la prima fase ha natura conciliativa e il giudice si limita a suggerire una soluzione che tenga
conto dell'interesse del figlio e dell'unità familiare, tentando di superare il contrasto attraverso
una soluzione concordata
2. la seconda fase a natura di carattere sostitutivo, nella quale giudice attribuisce il potere di
decidere al genitore che nella situazione concreta ritenere più idoneo a curare l'interesse del
minore

Quando i genitori non esercitano in modo adeguato l'ufficio nell'interesse del figlio il giudice può
intervenire privandoli della responsabilità genitoriale, dettando prescrizioni o anche arrivando a
sostituirsi ai genitori al fine di assicurare al minore il pieno soddisfacimento dei suoi diritti  i
provvedimenti che possono essere adottati variano in misura della condotta dei genitori e della gravità
del pregiudizio che tale condotta arreca al minore:
 lo strumento più incisivo è quello della pronuncia di decadenza della responsabilità
genitoriale, che ai sensi dell'art. 330 cc può essere comminata quando il genitore viola o
trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio
 qualora il comportamento del genitore non sia tale da richiedere la decadenza della
responsabilità genitoriale ma appaia comunque pregiudizievole l'art. 333 cc consente al giudice
di adottare i provvedimenti che ritenga convenienti nell'interesse del minore
In entrambi i casi il giudice per gravi motivi può disporre anche l'allontanamento del figlio dalla
residenza familiare o l'allontanamento del genitore del convivente che maltratta o abusa del minore.
L'art. 334 cc prevede nel caso in cui il patrimonio del minore e stia male amministrato che il tribunale
possa rimuovere uno o entrambi i genitori dall'amministrazione provvedendo in questo caso a nominare
un curatore.
I provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 cc sono di competenza del T.M., salva, con riguardo a questi
ultimi, la competenza del tribunale ordinario per l'ipotesi in cui sia in corso tra i genitori un giudizio di
separazione o di divorzio o un procedimento ai sensi dell'art. 316 cc.
La misura della decadenza prevista dall'art. 330 cc costituisce un rimedio conseguente alla violazione o
all’inosservanza dei doveri che l'ordinamento pone in capo ai genitori quando essa determini un grave
pregiudizio al minore agli effetti della decadenza, l'inadempimento deve concernere i doveri inerenti i
profili personali, in quanto la violazione di quelli relativi all'amministrazione del patrimonio del minore
ha come conseguenza la rimozione dell'amministratore. I casi in cui si può emettere un provvedimento
ai sensi dell'art. 330 cc difficilmente sono riconducibili ad unità ad esempio in giurisprudenza la
decadenza è stata comminata rispetto al genitore separato non affidatario che smetta di tenere presso di
sé figli per determinati periodi di tempo, oppure nel caso di maltrattamenti a carico del solo coniuge
quando quei maltrattamenti possono turbare l'equilibrio psicofisico dei figli, oppure ancora nei casi in
cui c'è uso di sostanze stupefacenti da parte dei genitori. La decadenza dalla responsabilità
genitoriale può anche essere conseguenza degli irrogazione di una condanna penale nei casi
previsti dalla legge ai sensi dell'art. 34 comma 1 cp:

 di condanna all'ergastolo
 di condanna alla reclusione per reati di incesto
 di condanna alla reclusione per supposizione o soppressione di stato
 di condanna alla reclusione per occultamento di stato di un figlio
 per i reati di cui agli articoli 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies cp
 per il reato di impiego di minori nell'accattonaggio

La decadenza determina l'effetto di sospendere tutti i diritti ei doveri connessi alla responsabilità
genitoriale, salvo l'obbligo di mantenimento; il genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la
decadenza rimane privo della responsabilità genitoriale sul figlio, il cui esercizio spetterà in via
esclusiva all'altro genitore; se il provvedimento è pronunciato nei confronti di entrambi i genitori si avrà
luogo alla tutela ex art. 343 cc. Nel 2012 è stato introdotto l'art. 448 bis cc ove si prevede che il figlio,
anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi non sono tenuti all'adempimento dell'obbligo
di prestare gli alimenti a favore del genitore nei cui confronti è stata pronunciata la decadenza dalla
responsabilità genitoriale e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all'art. 463 cc, possono
escluderlo dalla successione.
L'art. 332 cc stabilisce che il giudice possa reintegrare nella responsabilità genitoriale il genitore che è
decaduto quando, cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, escluso ogni pericolo
di pregiudizio per il figlio.

Quando il comportamento di uno o di entrambi i genitori non sia tale da richiedere una pronuncia di
decadenza dalla responsabilità genitoriale, ma appaia comunque pregiudizievole nei confronti del figlio,
l’art. 333 cc consente al giudice di adottare, secondo le circostanze, i provvedimenti che ritiene
opportuno, compreso se necessario l'allontanamento del minore o del genitore dalla casa
familiare si tratta di quelle ipotesi in cui nella condotta dei genitori nel pregiudizio per il minore
siano così gravi da richiedere la cessazione della responsabilità genitoriale, pertanto si ritiene sufficiente
emanare un provvedimento che ne limiti o condizioni l'esercizio; stabilire quando il comportamento dei
genitori costituisca espressione della loro discrezionalità educativa o quando invece oltrepassi i limiti
imposti nell'interesse del minore non è facile ed è affidato alla sensibilità del giudice  ad esempio
giudici in più occasioni di fronte al rifiuto ingiustificato dei genitori di autorizzare trattamenti sanitari
necessari per salvaguardare la salute del minore, hanno ravvisato in tale diniego un comportamento
pregiudizievole nei confronti della prole; è stato considerato pregiudizievole all'interesse del minore il
comportamento del genitore che senza giustificazione impedisca il figlio ogni contatto con i nonni 
oggi i diritti dei nonni sono tutelati dall'art. 317 bis cc, che riconosce loro la legittimazione a far valere
in giudizio il diritto ad un rapporto significativo con il nipote. Il problema si è posto particolarmente nei
casi di giudizi di separazione dei coniugi in particolare nel caso di rifiuto del genitore affidatario della
prole di consentire ai parenti la prossima lezione dei rapporti con il minore  l'orientamento finora
prevalso in giurisprudenza, che nega l'esistenza favore dei nonni di un vero e proprio diritto di visita,
oggi deve essere rivisto alla luce di quanto previsto all'art. 317 bis.

La cura degli interessi del minore rientra tra i compiti affidati ai genitori i quali, a tal fine, sono titolari
del potere di rappresentanza e amministrazione l’art. 320 cc stabilisce che i genitori rappresentano i
figli nati e nascituri fino alla maggiore età o all'emancipazione in tutti gli atti civili e ne amministrano i
beni. L'esercizio dei poteri di rappresentanza e amministrazione deve avvenire congiuntamente
con riguardo agli atti di straordinaria amministrazione nonché ai contratti con cui si concedano o
si acquistano diritti personali di godimento, mentre può avvenire disgiuntamente quando si tratta
di compiere atti di ordinaria amministrazione. L'amministrazione concerne il momento interno dei
rapporti tra rappresentato e rappresentante si distingue dalla rappresentanza e costituisce
l’estrinsecazione di quel comune accordo ex art. 316 cc. La rappresentanza attribuita agli esercenti la
responsabilità genitoriale mira a far fronte alla situazione di incapacità in cui si trova il minore,
consentendogli comunque di partecipare alla vita giuridica anche se attraverso il tramite dei genitori
per quanto riguarda l’aspetto patrimoniale, la rappresentanza viene in considerazione con riguardo
all'amministrazione del patrimonio, mentre sotto il profilo della cura del minore i genitori agiranno in
qualità di rappresentanti in primo luogo per la tutela dei diritti della personalità del minore in particolare
riguardo alla manifestazione del consenso per i trattamenti sanitari. Sono esclusi dalla rappresentanza
i cd atti personalissimi: ad esempio genitori non possono in vece del loro figlio fare testamento o
procedere al riconoscimento di un suo figlio. Vi sono atti rispetto ai quali minore è dotato ex lege di
capacità di agire e pertanto non possono essere compiuti dei genitori, come ad esempio in tema di
contratto di lavoro.
Gli atti di straordinaria amministrazione non possono essere compiuti se non per necessità o
utilità evidente del figlio e solo dopo l'autorizzazione del G.T. Il potere di rappresentanza che la
legge riconosce i genitori subisce delle limitazioni nei casi in cui si profili un conflitto di interessi
l’art. 320 u.c. prevede la nomina di un curatore speciale ogni qualvolta sorga un conflitto di interessi tra
i figli soggetti alla responsabilità genitoriale oppure sorge un contrasto tra i genitori o tra colui che
esercita in via esclusiva la responsabilità: il conflitto di interessi è rilevabile d’ufficio dal giudice e
consiste nel pericolo di abuso da parte dei genitori dal quale possono scaturire un danno per il figlio  si
devono verificare circostanze oggettive tali per cui si renda configurabile il pericolo che dal
compimento di una determinata attività si possa verificare un danno.
Gli atti compiuti in violazione delle disposizioni che regolano il potere di rappresentanza e
amministrazione dei genitori possono essere annullati su istanza dei genitori che esercitano la
responsabilità genitoriale, del figlio o dei suoi eredi o aventi causa art. 322 cc. In primo luogo
dovrà ritenersi invalido l'atto compiuto senza l'autorizzazione del G.T. e l’atto deve essere considerato
ugualmente mancante di autorizzazione quando il suo contenuto sia difforme rispetto a quanto previsto
dall'autorizzazione; inoltre l'annullamento può essere domandato quando sia stato posto in essere da uno
solo dei genitori un atto per il quale è prevista la partecipazione congiunta o quando i genitori abbiano
agito in conflitto di interessi oppure nei casi in cui l'atto sia stato compiuto direttamente dal minore.

L’art. 324 cc dispone che i genitori che esercitano la responsabilità genitoriale hanno in comune
l'usufrutto dei beni del figlio fino alla maggiore età o all'emancipazione. La previsione dell’usufrutto
legale dei genitori è ispirata dal principio della solidarietà familiare e tale impostazione risulta
confermata dall'introduzione del dovere di contribuzione del figlio ai sensi dell'art. 315 bis cc.
L’art. 324 comma 3 indica alcune categorie di beni sottratte all'usufrutto legale:

 beni che il figlio ha acquistato con i proventi del proprio lavoro


 beni lasciati o donati al figlio per intraprendere una carriera, un'arte o una professione
 beni lasciati o donati sotto la condizione che i genitori esercenti la responsabilità genitoriale non
ne abbiano l'usufrutto
 beni pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione e accettati nell'interesse del figlio contro
la volontà dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale in questo caso il figlio accetta per
mezzo di un curatore speciale e i genitori amministrano, ma sono privati dell'usufrutto legale

La tutela è diretta alla cura del minore rimasto privo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale e
trova fondamento nell'art. 30 comma 2 Cost, ove è previsto che in caso di incapacità dei genitori sia la
legge a disporre che siano assolti i loro compiti al minore viene nominato un tutore che lo rappresenta
di fronte ai terzi e che si sostituisce i genitori, provvedendo alla cura della persona e del patrimonio.
L'organo deputato a sovrintendere la tutela e il giudice tutelare, che è colui che nomina il tutore e il
protutore appena ha notizia del fatto dal quale deriva l'apertura della tutela; le funzioni di tutore e
protutore sono svolte gratuitamente, tuttavia in considerazione dell'entità del patrimonio del minore e
delle relative difficoltà di amministrazione il G.T. può assegnare al tutore un'indennità ed eventualmente
autorizzarlo a farsi coadiuvare da persone stipendiate. Il tutore viene scelto è nominato dal G.T., anche
se è possibile per il genitore che ha esercitato per ultimo la responsabilità genitoriale indicare nel
testamento, con atto pubblico, con scrittura privata autenticata la persona che ritieni più idonea ad
assumere il ruolo di tutore per il figlio in questo caso il G.T. potrà discostarsi da tale designazione
solo per gravi motivi, che generalmente ottengono alla mancanza dei requisiti di ineccepibile condotta,
idonei a fondare l'affidamento sulle capacità del designato di educare e istruire il minore.
Nel caso in cui manchi la designazione da parte del genitore o non possa essere presa in considerazione,
il G.T. deve individuare la persona più idonea al ruolo di tutore, preferibilmente scegliendolo tra gli
ascendenti o gli altri parenti prossimi o affini del minore prima della nomina il G.T. deve disporre
l'ascolto del minore che abbia compiuto i 12 anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento.
Una volta individuato, il tutore deve prestare giuramento davanti al G.T. di esercitare il proprio ufficio
con fedeltà e diligenza: tale atto testimonia la rilevanza pubblicistica dell'istituto. Dopo il giuramento il
tutore assume formalmente all'ufficio e prima di questo momento è compito del G.T. (d'ufficio o su
richiesta del pm) assumere i provvedimenti urgenti necessaria la cura del minore o all'amministrazione
del suo patrimonio.
Il tutore deve provvedere alla cura della persona del minore, è presente in tutti gli atti civili e
amministrativi ai sensi dell’art. 357 cc. I poteri del tutore relativi alla cura della persona sono meno
estesi e soggetti a maggiori controlli rispetto a quelli dei genitori; il tutore non è tenuto a convivere con
il minore ne ha alcun obbligo di mantenimento nei suoi confronti, deve eseguire le direttive impartite
dal G.T. con riguardo a tutte le principali decisioni in materia di istruzione ed educazione del
minore, dovendo inoltre sempre prendere in considerazione la volontà espressa dal minore che abbia
raggiunto capacità di discernimento sentito il parere del tutore, il G.T. dovrà deliberare sul luogo dove
il minore deve essere allevato, sul suo avviamento agli studi e sulla spesa annua che occorre per il suo
mantenimento: le somme necessarie per la crescita del minore devono essere reperite all'interno del
patrimonio del minore stesso e, in caso di incapienza, saranno erogate da un ente di assistenza. Il potere
di rappresentanza del minore in capo al tutore trova il limite nei atti personalissimi come ad esempio il
matrimonio, con riferimento ai quali il tutore sarà semplicemente sentito dal G.T., il quale dovrà
valorizzare la volontà del minore che abbia raggiunto una sufficiente capacità di discernimento.
Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia,
rispondendo dei danni cagionati in violazione dei propri doveri il primo atto al quale il tutore
deve provvedere entro 10 gg dalla nomina è l'inventario dei beni, con il quale si documenta in modo
analitico la composizione e l'ammontare del patrimonio del minore; prima che sia compiuto l'inventario
il tutore deve limitarsi agli affari che non ammettono dilazione, depositando denaro, titoli al portatore
preziosi, che eventualmente appartengono al minore, presso un istituto di credito indicato dal G.T.;
dopodiché il tutore previa autorizzazione del G.T. deve investire i relativi capitali con modalità tali da
contemperare le esigenze di sicurezza con quelle di fruttuosità dell'investimento stesso; se nel
patrimonio del minore esiste un'azienda commerciale o agricola, si procede all'inventario separato e
spetterà al G.T. deliberare se continuare l'esercizio dell'impresa commerciale oppure alienarla, salva
l'autorizzazione del tribunale.
A maggior garanzia del minore, per tutti gli atti di straordinaria amministrazione del suo
patrimonio il tutore deve richiedere la preventiva autorizzazione del G.T. o del tribunale (sempre
previo parere del G.T.) gli atti compiuti dal tutore senza osservare le autorizzazioni giudiziali possono
essere annullati su istanza del tutore del minore o dei suoi eredi o aventi causa e allo stesso modo
possono essere annullati gli acquisti di beni o diritti del minore effettuati dal tutore e del protutore. Il
tutore deve poi regolare la contabilità della sua amministrazione e renderne conto al G.T. 1 volta
l'anno il G.T. può decidere di sottoporre il rendiconto all'esame del produttore o di qualche prossimo
parente o affine del minore; tenuto conto della particolare natura ed entità del patrimonio del minore, il
G.T. può imporre al tutore di prestare una cauzione, determinandone l'importo e le modalità.
Salvo il caso del raggiungimento della maggiore età, il tutore non è tenuto a continuare l'esercizio del
proprio ufficio oltre i 10 anni, ad eccezione degli ascendenti al di là del decorso di questo limite, il
G.T. può sempre esonerare il tutore qualora l'esercizio dell'ufficio sia divenuto soverchiamente gravoso
e se vi sia altra persona idonea a sostituirlo: l'esonero costituisce una causa di cessazione dall'ufficio
pronunciata nell'interesse del tutore (fino al momento in cui il G.T. non procede alla sostituzione, il
tutorial rimane comunque nel pieno esercizio del proprio ufficio).  Altra causa di decadenza dall'ufficio
del tutore si ha nel caso in cui il G.T. rimuove il tutore che si sia reso colpevole di negligenza, abbia
abusato dei propri poteri o si sia dimostrato inadeguato al compito, anche per atti estranei alla tutela.
Il tutore che cessa dalle proprie funzioni deve consegnare immediatamente i beni del minore prestare al
G.T. il conto finale dell'amministrazione entro 2 mesi, salva eventuale proroga.
Il minore che abbia compiuto i 16 anni che sia stato autorizzato a contrarre matrimonio viene
emancipato diritto, con la capacità di compiere gli atti di ordinaria amministrazione mentre per
quanto riguarda quelli di straordinaria amministrazione necessità dell'assistenza di un curatore
il concetto di assistenza comporta che il curatore debba limitarsi ad affiancare l'emancipato nelle
decisioni più rilevanti, senza potergli imporre una determinata decisione, dovendo invece esercitare la
sua influenza perché il minore opti per una soluzione condivisa da entrambi: se non si giunge a una
soluzione condivisa, il minore può ricorrere al G.T. il quale si ritiene ingiustificato il rifiuto nomina un
curatore speciale per assisterlo nel compimento di quel determinato atto. Per gli atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione oltre l'assistenza del curatore è necessaria l'autorizzazione del G.T.--> per
gli atti di cui all'art 375 cc se il curatore non è il genitore del minore è invece necessaria l'autorizzazione
del tribunale su parere del G.T.; gli atti compiuti senza la necessaria assistenza del curatore o senza
l'autorizzazione giudiziale sono annullabili su istanza del minore o dei suoi eredi o aventi causa.
L'autorizzazione del tribunale, previo parere del G.T., e sentito il curatore, è necessaria anche per
permettere all’emancipato di esercitare un'impresa commerciale.

È maturata la consapevolezza che il minore necessita di tutte le appropriate che devono essere
affrontate anche fuori dell'ambiente familiare, e ciò con specifico riguardo ai suoi rapporti con i
mass media che ne condizionano la formazione della personalità alla luce della sempre maggiore
invasività dei media è palese che il minore abbia un interesse tutelabile ad essere da un lato produttore
di programmazioni adeguata alle proprie conoscenze e alle corrispondenti necessità di apprendimento e
dall'altro lato soggetto che necessita di cautele particolari di casi in cui esso stesso produce
informazione: a riguardo il primo intervento è quello della l. 47/1948 che ha sanzionato le pubblicazioni
destinate ai fanciulli agli adolescenti se offensive del loro sentimento morale o se idonee a costituire per
questi un incitamento alla corruzione, al delitto o suicidio, ovvero quando la descrizione di illustrazione
di vicende poliziesche e di avventure sia fatta, sistematicamente un ripetutamente, in modo da favorire
lo sviluppo distinti di violenza e di indisciplina e inoltre quelle che descrivano o illustrino con
particolari impressionanti avvenimenti realmente verificatisi o anche solo immaginari in modo da poter
turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare. In ambito penalistico la l. 66/1996 ha
disposto la tutela del minore vittima di violenza sessuale prevedendo lo svolgimento del dibattimento a
porte chiuse, con divieto di pubblicazione dei relativi atti e di tutti i documenti idonei ad identificare il
minore; il d.lgs. 196/2003 ha previsto il divieto di pubblicazione e divulgazione di notizie idonee a
consentire l'identificazione del minore coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento giudiziario anche
in materia diversa da quella penale. Il d.lgs 177/2005 all'art. 4 prevede che la disciplina del sistema
radiotelevisivo garantisca la trasmissione di programmi che rispettino i diritti e le libertà fondamentali
delle persone, nonché la dignità umana, e dedica la tutela dei minori nelle programmazioni audiovisive
un apposito capo, disponendo l'applicazione di specifiche misure a tutela dei minori nella fascia oraria di
programmazione dalle ore 16 alle ore 19 e all'interno dei programmi direttamente rivolti ai minori, con
particolare riguardo ai messaggi pubblicitari, alle promozioni e ogni altra forma di comunicazione
commerciale audiovisiva; sono vietate tutte le trasmissioni televisive che possono nuocere gravemente
allo sviluppo fisico, mentale e morale dei minori e in particolare i programmi che presentano scene di
violenza gratuita o insistita o efferata ovvero pornografiche e altresì sono vietati i film vietati ai minori
di 14 anni, salvo che la scelta dell'ora di trasmissione sia ricompreso tra le 23 e le ore 7. L'Autorità per
le garanzie delle comunicazioni ha il compito di garantire l'effettività delle disposizioni monitorando le
telecomunicazioni ed adottando la disciplina di dettaglio contenente l'indicazione degli accorgimenti
tecnici idonei ad escludere che i minori vedano o ascoltino programmi per loro non adatti. Per quanto
riguarda la pubblicità ingannevole e comparativa sono state emanate norme a tutela dei giovani
spettatori, definendo ingannevole la pubblicità che minacci la sicurezza dei bambini e adolescenti, o
abusi della loro naturale credulità o mancanza di esperienza oppure che è, impiegando bambini ed
adolescenti i messaggi pubblicitari, abusi dei naturali sentimenti adulti verso i più giovani.

Negli ultimi anni assunto rilievo il fenomeno della sottrazione internazionale di minori, ovvero il
rapimento del bambino da parte di uno dei genitori per condurlo in uno stato diverso da quello dove egli
abitualmente risiede in violazione di provvedimenti sull'affidamento al fine di contrastare questo
fenomeno sono state stipulate la Convenzione europea di Lussemburgo sul riconoscimento e
l'esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e la Convenzione dell'Aja sugli
aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, il cui scopo è garantire l'immediato rientro
del minore illecitamente sottratto nel luogo di residenza abituale. Le convenzioni predispongono un
procedimento accessibile rapido, il cui fulcro è rappresentato dall'istituzione in ciascuno stato contraente
di un’autorità centrale che ha il compito di intrattenere rapporti di collaborazione e scambio di
informazioni con le autorità centrale degli altri stati contraenti al fine di agevolare l'immediato rientro
del minore--> l'art. 12 conv. Aja prevede che le autorità giurisdizionali o amministrative possono
ordinare il ritorno del minore se adita entro il termine di 1 anno dall'avvenuta sottrazione; decorso il
termine il giudice può sempre ordinare il ritorno, salvo che non venga dimostrato che il minore si sia
integrato nel nuovo ambiente. La convenzione del Lussemburgo presuppone che, anteriormente al
trasferimento del minore, sia stato emanato un provvedimento sull'affidamento oppure che
successivamente al trasferimento sia stato emanato un provvedimento sull'affidamento che abbia statuito
sull’illiceità del trasferimento questione chiunque abbia ottenuto un provvedimento relativo
all'affidamento di un minore può, attivando lo strumento della convenzione, ottenere il riconoscimento e
l'esecuzione del provvedimento in un altro stato contraente mediante il ricorso all'autorità centrale: tale
riconoscimento però non avviene automaticamente ma è subordinato a un procedimento di exequatur
nel quale il giudice adito dovrà verificare l'esistenza di alcune condizioni, tra cui la competenza
dell'autorità che ha emanato il provvedimento sull'affidamento. La Convenzione dell'Aja invece è volta
a ripristinare la custodia come situazione di fatto mediante il rientro immediato del minore illecitamente
sottratto alla custodia del genitore affidatario tale convenzione affronta strumenti diversi a seconda
che sia stato leso il diritto di custodia, il quale ai sensi dell'art 5 conv attiene ai diritti concernenti la cura
della persona del minore, o un diritto di visita: nell'ipotesi in cui venga violato un diritto di custodia
l'obiettivo della convenzione è quello di ripristinare la situazione antecedente la sottrazione e quindi
prevedere il l'immediato rimpatrio del minore nel luogo di residenza abituale mentre qualora venga
violato il diritto di visita del genitore non affidatario la convenzione permette di avviare una procedura
legale volta a garantire l'esercizio del diritto.
Solo in casi tassativi il giudice può negare il rimpatrio del minore:
o quando la persona affidataria non esercita effettivamente il diritto di affidamento al momento
del trasferimento del mancato rientro
o quando la persona affidataria abbia acconsentito al trasferimento o al mancato rientro
o quando sussista un fondato rischio per il minore di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, a
pericoli fisici o psichici o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile
o quando l'autorità giudiziaria amministrativa certi che il minore si oppone al ritorno e ha
raggiunto un'età e un grado di maturità tali che sia opportuno tener conto del suo parere

In nessun caso il giudice potrà ammettere nel giudizio questioni attinenti alla sussistenza del diritto di
custodia in capo al genitore che presenta l'istanza.
A seguito dell'entrata in vigore del regolamento Bruxelles II bis relativo alla competenza, al
riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale in materia di responsabilità
genitoriale, la Convenzione del Lussemburgo non si applica nei rapporti tra gli stati membri dell'Ue in
quanto la materia rientra nel campo di applicazione del regolamento; per quanto attiene ai rapporti tra
regolamento e Convenzione dell'Aja Art 60 del regolamento sancisce la Del regolamento sulla
Convenzione dell'Aja, sebbene emerge che il regolamento stesso non aspira a sostituirsi alla
Convenzione ma ad integrarla, pertanto la convenzione si applicherà anche tra stati membri dell'Ue con
le integrazioni previste dal regolamento.

CAPITOLO 9: GLI EFFETTI DELLA CRISI GENITORIALE RISPETTO AI FIGLI


L'affidamento dei figli a seguito della rottura della coppia genitoriale e disciplinato dagli artt. 337 bis
ss cc a seguito della riforma del 2013 la normativa riproduce quanto era già stato previsto con la l.
54/2006 che era intervenuta sugli artt. 155-155-sexies cc e aveva completamente rinnovato la disciplina
originaria, la quale disponeva che l'affidamento dei figli in occasione dei procedimenti di separazione e
divorzio e forze di norma stabilito dal giudice in favore dell'uno o dell'altro coniuge. Negli anni
successivi alla riforma del 1975 la crescente consapevolezza dell'importanza di conservare al figlio
rapporti significativi con entrambe le figure genitoriali anche dopo la disgregazione del nucleo aveva
indotto il legislatore ad esplicitare modalità differenti rispetto a quella tradizionale dell'affidamento
esclusivo e in particolare l'art. 6 l. div. prevedeva la possibilità per il giudice di disporre l'affidamento
congiunto e quello alternato il luogo di quello monogenitoriale: sull'affidamento alternato erano state
sollevate critiche in quanto si era ritenuto fonte di instabilità di vita tale da compromettere l'equilibrio
del minore mentre invece era stato accolto favorevolmente l'affidamento congiunto, che era stato
identificato nella situazione in cui entrambi i genitori esercitavano in comune e la potestà sui figli,
mantenuti, istruiti ed educati sulla base di un unico e concorde progetto--> per disporlo la
giurisprudenza dominante riteneva necessario alcune condizioni quali:

 l'accordo dei genitori nel richiederlo


 l'assenza di conflittualità tra di loro
 la sussistenza di stili di vita omogenei
 la vicinanza delle rispettive abitazioni

Con la l. 54/2006 il legislatore aveva inteso attuare appieno il diritto del minore ad un rapporto
equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, prevedendo la loro partecipazione attiva alla vita del
figlio anche dopo la disgregazione del nucleo familiare in questa prospettiva la legge era intervenuta
con lo scopo di favorire un rapporto equilibrato con entrambi i genitori anche in caso di dissoluzione
della famiglia, al fine di ottenere una tutela uniforme i figli, a prescindere dalla natura dell'unione tra i
genitori ed alle sue possibili vicende e in particolare era previsto che le norme della legge si
applicassero anche in caso di scioglimento del matrimonio e ai procedimenti relativi ai figli dei genitori
non coniugati: questa previsione aveva colmato una lacuna, in quanto il sistema non prevedeva norme
per la regolamentazione della distruzione della coppia genitoriale e non coniugata neppure con riguardo
alla filamento dei figli. Nonostante ciò residuava una sorta di discriminazione sistematica nei confronti
dei figli nati fuori dal matrimonio, in quanto la disciplina dell'affidamento dei figli era dettata per la
famiglia coniugata e poi estesa ad ogni ipotesi di dissoluzione del nucleo familiare, ivi compresa la
famiglia di fatto: questa discriminazione è venuta meno con la riforma della filiazione nel 2012/13.

La legge stabilisce che il figlio minore abbia il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e
continuativo con ciascuno dei genitori, ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da
entrambi secondo quanto disposto dall'art. 337 ter comma 1 cc la disposizione valorizza l'esigenza
che il figlio goda di un rapporto con entrambi i genitori nonostante la fine della vita di coppia e, al
contempo, enfatizza l'importanza dei più ampi legami familiari, riconoscendo il diritto del figlio a
conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascuno dei genitori. Al fine di
realizzare questi obiettivi il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento
all'interesse morale e materiale di questa e valuta la possibilità che i figli minori restino affidati ad
entrambi i genitori, oppure può stabilire a quale di essi i figli siano affidati la legge quindi prevede 2
modalità di affidamento:

 affidamento condiviso ad entrambi i genitori


 affidamento esclusivo ad uno solo dei genitori

Affidamento condiviso e affidamento monogenitoriale non sono posti sullo stesso piano, in quanto si
vuole che il giudice valuti prioritariamente la possibilità di disporre l'affidamento condiviso e, solo
qualora questo sia in contrasto con l'interesse del minore, opti ai sensi dell'art 337 quater cc per quello
ad uno solo dei genitori ove si accerti la temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei
genitori, il giudice dispone l'affidamento familiare secondo quanto prescritto dal comma 2; ai sensi
dell'art. 337 octies comma 1 prima dell'emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti che
riguardano i figli il giudice, oltre a poter assumere anche d'ufficio mezzi di prova, dispone l'ascolto del
minore che abbia compiuto gli anni 12 e anche di età inferiore ove capace di discernimento la
previsione relativa all'ascolto del minore costituisce una speciale applicazione della disposizione di
carattere generale contenuta nell'art. 315 bis dettata in ambito di responsabilità genitoriale; sebbene
l'ascolto del minore rappresenti una sorta di atto dovuto da parte del giudice, l'art. 337 octies comma 1
cc prevede che il giudice possa non procedere all'ascolto del minore se questo è in contrasto con
l'interesse del minore o sia manifestamente superfluo. Ci si potrà interrogare sul perché l'art. 337 octies
cc, a differenza della formulazione contenuta all'art. 336 bis cc, limiti la possibilità di non procedere
all'ascolto, per contrarietà all'interesse del minore o per sua manifesta superfluità, ai procedimenti in cui
si omologa o si prende atto di un accordo dei genitori, relativo alle condizioni di affidamento dei figli
a riguardo sembra doversi accogliere l'interpretazione secondo la quale il riferimento ai procedimenti
consensuali contenuto nella norma non valga a limitare a tali procedimenti la regola del mancato
ascolto, ma semmai ad esemplificare i casi in cui non debba procedersi all’ascolto in quanto
manifestamente superfluo.
Il comma 2 art. 337 octies cc consente di rinviare l'adozione di provvedimenti riguardanti l'affidamento
dei figli, per consentire che genitori, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un
accordo, con particolare riferimento alla tutela dell'interesse morale e materiale dei figli.

I caratteri dell'affidamento condiviso non sono disciplinati dalla legge secondo il significato letterale
condividere significa spartire insieme con altri e nel caso di specie ciascun genitore spartisce con l'altro
la cura e i compiti educativi del figlio: la giurisprudenza ritiene la caratteristica peculiare del nuovo tipo
di affidamento nella paritaria condivisione del ruolo genitoriale e a tal fine il giudice determina i tempi e
le modalità della presenza del figlio presso ciascun genitore, fissando altresì la misura il modo con cui
ciascuno dei genitori debba contribuire al mantenimento, alla cura, all'educazione e all'istruzione dei
figli. Prima della riforma del 2006 l’art. 155 cc attribuiva al genitore affidatario l'esercizio esclusivo
della potestà sui figli mentre solo per quanto riguardava le decisioni di maggiore interesse queste
dovevano essere assunte di comune accordo: in conseguenza di ciò al genitore non affidatario spettava
solo il diritto di vigilare sulle decisioni assunte dall'altro genitore con la riforma del 2006 è stato
stabilito che l'esercizio della potestà spettante ad entrambi i genitori e questo principio è stato mantenuto
fermo con la riforma del 2013, il quale lo ha riprodotto nel testo dell'art. 337 ter comma 3 cc che
dispone che la responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Il comma 3 stabilisce poi
che le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione, alla salute e alla
scelta della residenza familiare del minore devono essere assunte di comune accordo, tenendo conto
delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli e in caso di disaccordo la decisione
è rimessa al giudice a differenza di quanto disposto dall'art. 316 non attribuisce la responsabilità al
genitore che nel singolo caso ritenga in più idoneo a curare l'interesse del figlio: se il giudice in caso di
perdurante contrasto tra i genitori che non convivono e che non abbiano mai convissuto attribuisce il
potere di decisione a quello che nel singolo caso ritiene più idoneo a tutelare l'interesse del figlio, non si
vede per quale ragione un’identica regola non possa trovare applicazione nell'ipotesi dell'art. 337 ter
comma 3.
Il comma 3 stabilisce poi che limitatamente alle questioni di ordinaria amministrazione il giudice può
stabilire che i genitori esercitano la responsabilità genitoriale separatamente il richiamo all'ordinaria
amministrazione deve intendersi riferita a questioni di carattere routinario, pertanto spetta a ciascun
genitore adottare determinate decisioni direttamente e senza il consenso dell'altro quando il figlio si
trovi con lui. L'ultima parte del comma 3 prevede che qualora il genitore non si attenga alle
condizioni dettate, il giudice valuterà detto comportamento anche al fine della modifica delle modalità
di affidamento. Nella concreta attuazione del rapporto genitoriale condiviso hanno un ruolo decisivo gli
accordi tra i genitori a cui, se non valutati in contrasto con l'interesse del figlio, il giudice dovrà fare
riferimento nel dettare le prescrizioni relative ai tempi alle modalità della presenza dei figli presso
ciascun genitore, alle modalità di mantenimento, alla cura, istruzione ed educazione; la residenza
abituale del figlio sarà fissata presso un genitore, salvo disciplinare i tempi di permanenza presso la casa
dell'altro e la residenza ai sensi del comma 3 sarà scelta di comune accordo dai genitori, o in caso di
disaccordo dal giudice. L’art. 337 ter comma 1 riconosce il figlio minore ha il diritto di mantenere
rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti questa regola corrisponde a quella normale
situazione che è dettata all'art 315 bis cc che si riferisce al diritto del figlio di mantenere significativi
rapporti con i parenti; per quanto riguarda il diritto dei nonni ad avere rapporti significativi con i minori
si ritiene che la norma ex art. 317 bis cc sia destinata ad operare anche a seguito della distruzione della
coppia genitoriale.
Ai sensi dell'art. 337 quater cc giudice può disporre l'affidamento ad uno solo dei genitori al ricorrere
del presupposto che l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del figli  l'affidamento condiviso
non può ritenersi precluso di per sé dalla mera conflittualità esistente tra i genitori e tale orientamento
viene condiviso dalla giurisprudenza maggioritaria che è, in osservanza del principio di bigenitorialità,
ritiene non possa procedersi all'affidamento ad uno solo dei genitori sul nero preso posto della
conflittualità tra genitori. Per disporre l'affido monogenitoriale non è necessario il verificarsi di
situazioni estreme, pertanto non è necessario che l’affido rechi un pregiudizio grave nell'interesse del
figlio ma è sufficiente che l'affido condiviso sia contrario all'interesse del figlio, ad esempio perché non
consentirebbe al minore ha una condizione di vita equilibrata: in ogni caso sarà il giudice a valutare caso
per caso ciò che è contrario agli interessi del minore.
Ci si chiede quali siano i caratteri che differenziano l'affido esclusivo da quello condiviso affidare il
figlio significa attribuire ai genitori la responsabilità connessa al compito di crescerlo e di prendersene
cura, pertanto la differenza tra 2 le forme di affidamento risiede nello strumento dato ai genitori per
esercitare la responsabilità genitoriale:
 il genitore affidatario dei figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, è titolare
dell'esercizio della responsabilità genitoriale e deve attenersi alle condizioni determinate dal
giudice e l'altro genitore avrà solo titolo per adottare congiuntamente all'affidatario le decisioni
di maggiore interesse per il figlio e avrai il diritto e il dovere di vigilare sull'istruzione ed
educazione dei figli, potendo ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte
decisioni pregiudizievoli al loro interesse
Per quanto riguarda il mantenimento, l’art. 337 ter comma 4 cc prevede che ciascuno dei genitori
provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito qualora sia necessario
il giudice stabilisce la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di
proporzionalità, da determinare considerando:
1. le attuali esigenze del figlio
2. il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori
3. i tempi di permanenza presso ciascun genitore
4. le risorse economiche di entrambi i genitori
5. la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore
La norma è intesa a privilegiare il mantenimento in forma diretta, ossia quel mantenimento attuato da
ciascun genitore in favore del figlio mediante la somministrazione di servizi, ponendo fine alla
tradizionale modalità di mantenimento che era prevista a carico del genitore non affidatario, che si attua
mediante il pagamento di un assegno in favore del genitore affidatario, il quale solo provvedeva alla
predetta somministrazione. Il mantenimento in forma diretta richiede un preciso accordo tra i genitori in
ordine alle modalità concrete della sua effettuazione ciascun genitore dovrà farsi carico del
mantenimento per il tempo in cui il figlio vive con lui, mentre le spese generali dovranno essere
necessariamente ripartite d'accordo tra i genitori; qualora i genitori non siano d'accordo il giudice dovrà
stabilire le modalità di mantenimento diretto a carico di ciascuna è il contributo in denaro che un
genitore debba versare eventualmente all'altro ai fini perequativi qualora non si possa attuare una totale
suddivisione del contributo India diretta rispettosa dell'effettiva cura prestata da ciascun genitore e del
criterio di proporzionalità con messo ai redditi di ciascuno. Per quanto riguarda la determinazione, il
giudice deve valutare l'effettivo peso che la cura del figlio comporta a carico di ciascun genitore come
emerge dal richiamo ai tempi di permanenza presso ciascun genitore e alla valenza economica dei
compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
L’obbligo di mantenimento non viene meno quando il figlio abbia raggiunto la maggiore età, ma
continua fino a quando non abbia conseguito un grado di provvedere al soddisfacimento delle proprie
necessità l’art. 337 septies comma 1 cc prevede che il giudice, tenuto conto delle circostanze, possa
disporre in favore dei figli maggiorenni non economicamente indipendenti e pagamento di un assegno
periodico, da versarsi direttamente all'avente diritto. Questioni delicate si sono poste con riferimento alla
definizione dell'estensione temporale del diritto del figlio maggiorenne al mantenimento--> la
giurisprudenza ha riconosciuto costantemente il diritto al mantenimento in capo al figlio impegnato
negli studi universitari, nelle attività di formazione post università e in quelle di pratica professionale
non sufficientemente retribuita; ci si interroga nelle ipotesi del problema del diritto al mantenimento del
figlio impiegato in un lavoro precario è un problema si afferma l'orientamento che sancisce il venir
meno dell'obbligo di mantenimento, il quale non è destinato a risorgere una volta che il rapporto di
lavoro precario sia giunto a termine. Ci si interroga per il caso in cui il figlio maggiorenne non
autosufficiente decida di contrarre matrimonio in questo caso dovrebbe venir meno del dovere di
mantenimento in capo al genitore: tuttavia la Cassazione ha precisato che il diritto al mantenimento in
capo al figlio maggiorenne non viene meno per il fatto che questo abbia contratto matrimonio, pertanto
il figlio conserverà il diritto al mantenimento ai sensi dell'art 337 comma 1 laddove continui a vivere nel
nucleo familiare originario. Per quanto riguarda i figli maggiorenni portatori di handicap grave valgono
le disposizioni dettate in favore dei figli minori.

L'art. 337 sexies cc prevede che il godimento della casa familiare di essere assegnato tenendo
prioritariamente conto dell'interesse dei figli l'avverbio prioritariamente lascia spazio per ritenere
che secondariamente all'interesse della prole possono provare soddisfazione altri interessi, ad esempio le
esigenze del coniuge debole (le S.U. sono orientate un'interpretazione restrittiva, nel senso che
l'abitazione della casa familiare può essere assegnata unicamente al genitore che si occuperà in modo
prevalente delle esigenze della prole) o convivente con figli maggiorenni ma non ancora autosufficienti;
in assenza di figli il giudice non può derogare alle regole ordinarie sulla comunione, sebbene la legge
tutela.
Un orientamento giurisprudenziale favorevole a riconoscere l'assegnazione della casa familiare
quale modalità di attuazione dell'obbligo di mantenimento del coniuge debole in particolare nel
caso di abitazione familiare appartenente ad entrambi i coniugi e in assenza di figli minori/maggiorenni
non autosufficienti o in presenza di figli minori ma affidati ad entrambi i genitori, i giudici hanno
ritenuto di poter favorire il coniuge economicamente più debole attraverso l'assegnazione dell'immobile,
al fine di consentirgli di conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio .
Incontroverso è che il beneficio economico derivante dalla assegnazione della casa familiare debba
essere considerato ai fini della quantificazione dell'assegno di mantenimento secondo quanto
prescritto dall'art. 337 sexies comma 1 cc che stabilisce che il giudice debba tener conto
dell'assegnazione della casa familiare in sede di regolazione dei rapporti economici tra i genitori.
Il provvedimento di assegnazione della casa familiare presuppone la sussistenza di un titolo di
godimento dell'immobile, reale o personale, in capo ad entrambi o uno solo dei genitori qualora il
godimento della casa sia da attribuire a un genitore unico proprietario o unico titolare del contratto di
locazione di comodato, non è necessario alcun provvedimento espresso di assegnazione; è invece
necessario un provvedimento di assegnazione nel caso in cui il godimento della casa sia da attribuirsi al
genitore non proprietario o titolare del contratto di locazione o comodato in questo caso in dottrina si
discute della facoltà di godimento derivante dal provvedimento:

 secondo alcuni costituisce un diritto reale di abitazione in virtù del richiamo all'art. 2643 cc
contenuto dell'art. 337 sexies cc al riconoscimento della natura reale del diritto in primo luogo
osta la considerazione che nel ns ordinamento i modi di costituzione dei diritti reali sono
tassativamente previsti dalla legge, nonché la tendenziale temporaneità della situazione che
deriva dal provvedimento assegnazione
 secondo altri si tratta di un'ipotesi particolare di comodato
 secondo altri ancora si tratta di un diritto personale di godimento atipico l'orientamento della
giurisprudenza ritiene che il provvedimento di assegnazione al genitore non titolare di un diritto
di proprietà o di godimento sulla casa coniugale ha natura di diritto personale di godimento in
quanto trattasi di diritto personalissimo, strettamente collegato la funzione genitoriale, pertanto
intrasmissibile
Nel caso di assegnazione di un immobile in proprietà di entrambi o dell'altro genitore, il provvedimento
avrà efficacia fino alla sua modifica da parte del giudice e sarà opponibile, mediante trascrizione, anche
ai terzi per quanto attiene la trascrizione a favore del genitore assegnatario e contro il genitore
proprietario, l'art. 337 sexies comma 1 cc dispone che il provvedimento di assegnazione della casa
coniugale e quello della sua revoca siano trascrivibili e opponibili ai terzi ai sensi dell'art. 2643 cc ; ci si
chiede se la trascrizione sia da considerarsi presupposto indispensabile ai fini dell'opponibilità ai terzi
dell'assegnazione o se sia necessaria solo per rendere opponibile il provvedimento per una durata
superiore ai 9 anni: l’art. 337 sexies si limita a prevedere l'onere della trascrizione ai fini
dell'opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione della casa familiare senza distinzioni di
sorta sotto il profilo temporale e senza la disposizione di cui all'art. 1599 cc. Tuttavia si può attribuire
rilievo al fatto che l'art. 6 comma 6 l. div. non ha formato oggetto di modifica da parte della riforma
sulla filiazione e quindi è ancora presente il richiamo all'art 1599 cc, da intendersi quale sintomo della
volontà del legislatore di rendere sempre opponibile ai terzi provvedimenti di assegnazione di durata
inferiore ai 9 anni e da potersi ritenere operante anche in ambito di separazione.
La Cassazione ha poi affrontato il problema che si pone in caso in cui l'abitazione familiare assegnata
al genitore che convive in prevalenza con i figli sia aggredita dai creditori del coniuge
proprietario a riguardo è stato previsto che il diritto vantato dalla assegnatario non paralizza quello
del creditore di procedere in via esecutiva sul bene oggetto dell'assegnazione, ignorandolo e facendolo
vendere coattivamente, sebbene il bene resti gravato dal diritto del coniuge assegnatario. Per quanto
riguarda l'ipotesi di comodato della casa coniugale, senza previsione di termine finale, tra il genitore e
uno dei coniugi, le S.U. hanno stabilito che il provvedimento di assegnazione conseguente alla
separazione personale dei coniugi è opponibile al comodante, il quale potrà riottenere la consegna
dell'immobile solo allegando l'esistenza di urgente e imprevisto personale (art. 1809 comma 2 cc).
In origine era previsto che il diritto di godimento della casa familiare venisse meno nell'eventualità che
l'assegnatario non vi abitasse più ma anche nell'ipotesi in cui costui intraprendere una convivenza more
uxorio oppure avesse contratto un nuovo matrimonio  tale formulazione presentava delle criticità in
quanto consentiva che sull'assegnazione della casa familiare influisse una variabile indipendente
dall’interesse dei figli, suscettibile di indebolire la posizione del coniuge economicamente debole, che
veniva ad essere condizionato nelle proprie scelte personali; inoltre vi erano forti dubbi di
costituzionalità in quanto sembrava violare il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost l'idea per
cui il diritto ad abitare nella casa familiare potesse venir meno aseguito del nuovo matrimonio o della
instaurazione di una convivenza more uxorio la corte cost ha dato un'interpretazione
costituzionalmente orientata della norma: pur ritenendo infondata la questione sollevata dai giudici ha
dichiarato che l'art. 155 quater cc dovesse essere interpretato nel senso che la revoca di diritto a seguito
della celebrazione di un nuovo matrimonio, ma solo ove in concreto la nuova unione si fosse rivelata in
contrasto con l'interesse del minore.
I genitori di comune accordo (in caso di contrasto il giudice) devono individuare la residenza anagrafica
del figlio, che dovrà essere fissata presso la casa familiare e che potrà essere modificata solo su
decisione concorde dei genitori si sono poste questioni in relazione al diritto del genitore presso il
quale il figlio è collocato di cambiare la propria residenza, facoltà che gli è riconosciuta in forza dei
principi costituzionali e che l’art. 337 sexies comma 2 cc prevede, disponendo che ciascuno dei
genitori che abbia cambiato la propria residenza/domicilio è tenuto a comunicarlo all'altro entro il
termine perentorio di 30 gg, a pena di dover risarcire i figli abbiano subito a causa della difficoltà di
reperirlo; la libertà del genitore di decidere liberamente in ordine alla propria residenza va tuttavia
bilanciata con il diritto del minore a conservare il rapporto con entrambi i genitori, diritto che di regola
presuppone la conservazione dell’habitat domestico in cui minore è cresciuto, perciò il mutamento della
residenza del minore in un luogo diverso rientra tra le decisioni che devono essere assunte di comune
accordo ne consegue che il mutamento di residenza del genitore unilateralmente potrà giustificare una
modifica delle condizioni di affidamento e della collocazione del minore: vi sono diverse norme che,
laddove il trasferimento di residenza di un genitore interferisca con le modalità dell'affidamento,
autorizzano il giudice modificare ad istanza dell'altro genitore i provvedimenti adottati sia con
riferimento alla collocazione del figlio sia riguardo ai profili economici giungendo anche a disporre
l'affidamento monogenitoriale a tal proposito l'art. 337 quinquies cc stabilisce che i provvedimenti
relativi all'affidamento e mantenimento dei figli sono sempre soggetti a revisione al sopravvenire di
nuove circostanze; inoltre l'art. 709 ter cpc prevede che in caso di gravi inadempienze o dirti che
comunque arrechino pregiudizio al minore o ostacoli no il corretto svolgimento della modalità di
affidamento, il giudice può modificare i provvedimenti in vigore o eventualmente ammonire il genitore
inadempiente, condannarlo al risarcimento del danno in favore dell'altro genitore del figlio.

I provvedimenti concernenti l'affidamento dei figli, l'attribuzione dell'esercizio della responsabilità


genitoriale, la misura e le modalità del mantenimento possono essere sempre oggetto di revisione
secondo quanto prescritto dall'art. 337 quinquies cc la modifica è disposta dal giudice su istanza di
uno dei genitori al sopravvenire di nuove circostanze: a riguardo si parla di provvedimenti rebus sic
stantibus nel senso che questi provvedimenti valgono fino a quando non sopravvengano nuove
circostanze.
La domanda di revisione può anche essere diretta ad ottenere l'affidamento esclusivo e l'art. 337
quater comma 2 prevede che ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l'affidamento
esclusivo quando sussistono le condizioni indicate al primo comma se la domanda dell'istante risulti
infondata manifestamente questa domanda può essere valutate dal giudice ai fini della revisione dei
provvedimenti relativi ai figli, oltre che per quanto riguarda la lite temeraria. La modifica dei
provvedimenti può anche essere disposta a seguito di inadempienze o comportamenti dei genitori
pregiudizievole per il minore secondo quanto previsto dall'art. 709 ter cpc. Il procedimento di revisione
può avere ad oggetto anche i provvedimenti relativi al mantenimento dei figli: va precisato che è il
procedimento di revisione concernente l'assegno non ha luogo in caso di svalutazione monetaria, posto
che l'assegno di mantenimento per legge è automaticamente adeguato agli indici Istat.
Competente a conoscere delle domande di revisione e il giudice del procedimento davanti al quale
pende giudizio di separazione, divorzio, affidamento dei figli di genitori non coniugati nel caso in cui
i giudizi si siano già concluse la competenza spetta al tribunale del luogo ove il minore ha la residenza
ai sensi dell'art. 709 ter comma 1 cpc.

Si parla di famiglia ricomposta con riferimento alla convivenza di una coppia ed i figli nati da
precedenti relazioni matrimoniali/convivenze dell'uno e/o dell’altro coniuge si tratta di un fenomeno
diffuso ma ignorato dall'ordinamento. Da un certo punto di vista la famiglia ricostituita non rappresenta
una novità, come ad esempio succedeva in caso di vedovanza giovanile che induceva a contrarre
seconde nozze, mentre in caso di divorzio si realizza la coesistenza del genitore biologico e di quello
sociale occorre in primo luogo ricordare che l'ordinamento è sensibile al protrarsi della responsabilità
genitoriale anche dopo la rottura della coppia in quanto si vuole affermare che il rapporto tra i genitori
di figli comuni e indissolubile; diventa problematico riconoscere un ruolo allo step parent in quanto
costui viene ad essere in potenziale collisione con il genitore biologico la risposta data
dall'ordinamento è insufficiente ed è diventata difficoltosa in seguito all'introduzione delle disposizioni
in materia di affidamento condiviso.
In primo luogo è disciplinata una particolare forma di adozione che può essere pronunciata dal
tribunale con riguardo al figlio del coniuge ai sensi dell'art. 44 comma 1 lett. B) l. adoz. ove si
prevede che lo step parent può a certe condizioni adottare il figlio del proprio coniuge  il ricorso
all'adozione pone questioni delicate in quanto incide sulle prerogative del genitore biologico, il quale
deve comunque dare il suo consenso, ancorché il tribunale laddove ritenga il rifiuto
ingiustificato/contrario all'interesse dell'adottando possa comunque pronunciare l'adozione, salvo che
l’assenso sia stato rifiutato dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale: al di fuori
dell’adozione non vi sono alcune forme di disciplina dei rapporti tra genitore sociale e figli conviventi
del coniuge mentre, in via di fatto, il genitore sociale può essere chiamato a svolgere un compito molto
rilevante sia con riguardo alla funzione educativa sia con riguardo alla tutela degli interessi del minore .
Nel silenzio del legislatore non è facile individuare strumenti appropriati: per quanto riguarda i rapporti
tra i genitori si può anche pensare ad accordi riconducibili a quelli previsti dall'art. 144 cc attinenti
all'indirizzo della vita familiare attraverso gli accordi gli interessati possono in primo luogo stabilire
obblighi di mantenimento del figlio a carico dello step parent oppure riconoscere la facoltà di esercitare
poteri educativi nei suoi riguardi. I problemi che affliggono la famiglia ricostituita si riverberano anche
per quanto riguarda profili successori, in quanto una convivenza che dura molti anni e si interrompe per
la morte del genitore sociale non fa sorgere diritti successori in favore dello step child (l'unica soluzione
possibile è fare testamento); inoltre in caso di rottura del secondo matrimonio si pone il problema
dell'affidamento del minore che abbia un rapporto affettivo e sociale significativo con lo step parent, in
particolare ci si domanda se possa disporsi l'affidamento in favore dello step parent o comunque se sia
configurabile a seguito della rottura un diritto di visita dello step parent. Per quanto riguarda gli altri
ordinamenti, negli Usa la tendenza è quella di valorizzazione degli accordi tra i conviventi, in
particolare sono stabiliti obblighi legali veri e propri di mantenimento da parte del genitore sociale
mentre in altri stati l'ordinamento equipara il genitore sociale ad un genitore biologico; in Inghilterra il
giudice ha il potere di emettere ordinanze con cui attribuisce poteri al genitore sociale; in Olanda è
previsto l'obbligo di mantenimento a carico del genitore sociale e anche l'esercizio della responsabilità
per il fatto della convivenza. In Svizzera è previsto che il nuovo coniuge è tenuto ad assistere l'altro
coniuge in maniera appropriata nell'esercizio della potestà genitoriale verso il figlio dell'altra pertanto il
genitore sociale e visto come un assistente e si evince come si tratti di una disciplina prudente e leggera
che non si pone in potenziale conflitto con il ruolo dei genitori biologici.

CAPITOLO 10: L’ACCERTAMENTO DELLO STATO DI FILIAZIONE


Con la riforma del 2012 e la sua attuazione nel 2013, lo stato di filiazione viene ad essere unico,
indipendentemente dalla sussistenza del vincolo matrimoniale tra i genitori tuttavia il legislatore
ha mantenuto distinte le modalità di attribuzione dello stato di filiazione di formazione del relativo titolo
dello stato a seconda della sussistenza o meno del legame matrimoniale tra i genitori:

 nel caso di sussistenza del vincolo matrimoniale, il matrimonio determina l'attribuzione


automatica dello stato dei figli dei coniugi, in considerazione dell'obbligo reciproco di fedeltà e
di esclusività della loro relazione sessuale, che consente al legislatore di stabilire la presunzione
di paternità secondo la quale ai sensi dell'art. 231 cc il marito è padre del figlio concepito o nato
durante il matrimonio
 nel caso di mancanza di matrimonio tra i genitori, l'accertamento della filiazione avviene
mediante atto volontario (riconoscimento) o, in difetto, mediante accertamento giudiziale ex art.
269 cc

Anche dopo la riforma la formazione di un titolo è sempre necessaria perché si possa propriamente
parlare di stato di filiazione e questo titolo si forma d’ufficio per il figlio nato durante il matrimonio,
mentre l'ordinamento lascia liberi i genitori biologici di far emergere o meno il rapporto genitoriale  a
riguardo vige il principio della volontarietà del riconoscimento, pertanto anche nei confronti della
madre il rapporto con il figlio nato fuori dal matrimonio non sorge automaticamente; l'ordinamento
italiano al fine di evitare l'aumento degli aborti e degli infanticidi legati a gravidanze non desiderate ha
confermato il principio della volontarietà del riconoscimento anche rispetto alla madre, la quale può
esercitare il diritto a non essere nominata nell'atto di nascita
Queste regole appaiono legate al vecchio sistema in cui l'accertamento e il trattamento tra figli legittimi
e naturali era differenziato al fine di enfatizzare il valore dell'unione matrimoniale; oggi il quadro si
presenta più complesso e il canone della volontarietà del riconoscimento materno appare in contrasto sia
con il diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente il figlio e
assicurargli il diritto a crescere in famiglia e a intrattenere rapporti significativi con i parenti, sia con lo
stato unico di filiazione ne deriva che se da un lato continua a valere il principio della volontarietà del
riconoscimento, dall'altro lato il legislatore ha generalizzato la possibilità di agire per la dichiarazione
giudiziale di genitorialità o, in difetto di accertamento a seguito del diniego della madre a essere
nominata, è prevista la dichiarazione dello stato di abbandono ai sensi della l. adoz.

Per quanto riguarda l'attribuzione dello stato nei riguardi del figlio della donna coniugata i
presupposti della filiazione nel matrimonio e della attribuzione dello stato di figlio sono:
 il matrimonio dei genitori il matrimonio può essere civile o religioso con effetti civili; non è
necessario che il matrimonio sia valido, poiché in virtù di quanto disposto dall'art. 128 comma 2
cc il matrimonio di creato nulla ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli; rispetto i
figli gli effetti del matrimonio valido si producono anche qualora entrambi i coniugi siano in
malafede, salvo che la nullità dipenda da incesto
 il parto della moglie la donna che ha dato alla luce un figlio ne risulta giuridicamente la
madre: a riguardo è opportuno ricordare che l'ordinamento dello stato civile all'art 30 d.p.r.
396/2000 impone che nei 10 gg successivi alla nascita venga resa dai soggetti legittimati la
relativa dichiarazione in base alla quale l'ufficiale dello stato civile forma l'atto di nascita e in
questa sono individuati in luogo, l'anno, il mese, il giorno e l'ora della nascita, le generalità, la
cittadinanza e la residenza dei genitori coniugati e sono altresì indicati il sesso del bambino e il
nome che gli viene dato
 il concepimento o la nascita in costanza di matrimonio a seguito della riforma della
filiazione si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora
trascorsi 300 gg dalla data dell'annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti
civili del matrimonio
 la paternità del marito l’art. 231 cc stabilisce che il marito è il padre del figlio concepito o
nato durante il matrimonio: si tratta di una presunzione in forza della quale la paternità del figlio
nato da donna coniugata viene attribuita per legge, senza che sia necessaria alcuna dichiarazione
da parte del marito una concreta dimostrazione dell'effettiva paternità. Qualora la madre,
sebbene coniugata, non venga nominata non può esserci alcuna attribuzione di paternità in capo
al marito. La riforma del 2012 ha esteso la presunzione di paternità del marito rispetto ai figli
comunque nati durante il matrimonio, anche se concepiti prima del matrimonio

In mancanza di matrimonio affinché lo stato di filiazione sia accertata nei confronti di ciascuno dei
genitori occorre che entrambi procedono al riconoscimento o che intervenga ad accertamento giudiziale
della paternità o della maternità: il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è un atto
unilaterale, spontaneo ed irrevocabile del genitore in forza del quale un soggetto dichiara la propria
maternità o paternità nei confronti di una determinata persona. Caratteristica del riconoscimento è la sua
spontaneità stante l'assoluta discrezionalità del genitore nell'effettuarlo si tratta di una discrezionalità
variamente condizionata in quanto:

o presuppone la veridicità della rapporto biologico che mira ad accertare


o il mancato riconoscimento consente l'accertamento mediante la dichiarazione giudiziale di
genitorialità
o in mancanza di riconoscimento da parte di entrambi i genitori generalmente si ha apertura della
procedura di adozione

Nel sistema il riconoscimento rappresenta una facoltà e non un obbligo del genitore  si discute se
possa configurarsi un diritto del genitore al riconoscimento: la questione si è posta in giurisprudenza con
riguardo a quanto previsto dall'art. 250 comma 3 cc, dove si prevede che il riconoscimento del figlio che
non ha compiuto i 14 anni può avvenire senza il consenso dell'altro genitore che abbia già effettuato il
riconoscimento. Sotto altro riguardo il limite sussiste anche con riferimento all'art. 250 commi 2 e 3 e
all'art. 251 comma 2 cc: dalla lettura di queste disposizioni si conferma la priorità dell'interesse del
minore rispetto al diritto del genitore al riconoscimento. Il riconoscimento è un atto giuridico in senso
stretto in cui l'elemento della volontà risulta circoscritto al compimento dell'atto e non ai suoi effetti in
quanto la disciplina del rapporto di filiazione che si instaura è regolata dalla legge  si tratta di una
dichiarazione specifica e mirata e l'art. 254 cc richiede, per l'ipotesi in cui il riconoscimento non sia fatto
nell'atto di nascita, un'apposita dichiarazione.
Con la riforma del 2012 è stato modificato l'art. 258 comma 1 cc che ora prevede che il
riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso (la
vecchia formulazione prevedeva che il riconoscimento non producesse effetti che riguardo al genitore
da cui fu fatto, salvo i casi previsti dalla legge). Il principio dell'esclusività degli effetti del
riconoscimento sancito ex art. 258 comma 1 cc conferma il carattere autonomo di ciascun
accertamento della filiazione, nel senso che il riconoscimento effettuato da uno dei genitori non
produce effetti rispetto all'altro il quale non voglia o non possa effettuare il riconoscimento nei commi
successivi la norma ricollega al principio della volontarietà del riconoscimento l'esigenza di tutelare il
diritto al riserbo del genitore che non voglia effettuare il riconoscimento, precisando che l'atto di
riconoscimento non può contenere indicazioni relative all'altro genitore che, nel caso in cui fossero fatto,
devono essere cancellate. Secondo quanto disposto dall'art. 250 comma 1 cc il figlio può essere
riconosciuto dal padre e dalla madre anche se già uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del
concepimento; per quanto riguarda invece il riconoscimento dei figli nati da genitori legati da vincolo di
parentela in precedenza la legge prevedeva che la riconoscimento fosse consentito al solo nei casi
determinati dalla legge mentre ora invece è sempre ammesso, salva l'autorizzazione del giudice. Per
quanto riguarda il riconoscimento da parte della donna coniugata che abbia concepito il figlio con
persona diversa dal marito, secondo l'opinione prevalente la madre è ammessa al riconoscimento fin
dalla denuncia di nascita, indipendentemente dal fatto che sia intervenuto un contestuale riconoscimento
del padre e senza che debba ricorrere alla dichiarazione di nascita come figlio di ignoti: ciò è disposto
all'art. 239 comma 3 cc che attribuisce l'azione di reclamo dello stato di figlio matrimoniale, in
conformità alla presunzione di paternità, a chi sia stato riconosciuto in contrasto con detta presunzione,
senza che in tal caso sia necessario impugnare il previo riconoscimento materno per difetto di veridicità
in quanto la maternità non è contestata.
Il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio può essere effettuato solo dal genitore e la
dichiarazione di riconoscimento contestuale all'atto di nascita può farsi ad opera di un procuratore
speciale, purché costi per atto pubblico il consenso del genitore ad essere nominato come tale. In ordine
alla capacità del genitore che effettua il riconoscimento questa prevede la capacità legale di agire,
precisando che il genitore che abbia compiuto 16 anni è ammesso al riconoscimento e anche quello < 16
anni può essere autorizzato dal giudice ai sensi dell'art. 250 u.c.--> al fine di ovviare al rischio che il
figlio del < 16 anni sia posto in caso di adozione, l'art. 11 l. aodz. stabilisce che nei casi di non
riconoscibilità per difetto di età dei genitori la procedura sia rinviata fino al compimento del 16 anno di
età del genitore, purché nel frattempo il minore sia assistito dal genitore o dai parenti fino al quarto
grado o in altro modo conveniente. Con riguardo alla capacità per effettuare il riconoscimento, la legge
prevede che il riconoscimento effettuato da persona interdetta giudizialmente sia impugnabile mentre la
persona che è stata interdetta legalmente ai sensi dell'art. 32 cp può procedere validamente al
riconoscimento non essendo previsto relativo divieto.

L'art. 250 cc richiede quali condizioni di efficacia del riconoscimento:


 l’assenso del figlio se > 14 anni
 se il figlio < 14 anni il consenso del genitore che per primo lo ha riconosciuto--> solo in questo
caso è possibile un riconoscimento immediatamente efficace
La norma intende evitare riconoscimenti interessati o sgraditi. Sul presupposto che il figlio >14 anni
abbia maturato la consapevolezza necessaria per valutare se rilasciare o meno il proprio senso, la legge
non prevede alcun surrogato in caso di sua opposizione, pertanto l’assenso è totalmente discrezionale il
figlio poter rilasciarlo in qualsiasi momento anche qualora l'altro genitore abbia in precedenza rifiutato il
proprio consenso; la forma dell’assenso è quella prevista per il riconoscimento ex art. 254 cc.
Il genitore che intende riconoscere il figlio <14 anni già riconosciuto dall'altro deve ottenere il consenso
ai sensi dell'art. 250 comma 3 cc: scopo è quello di impedire riconoscimenti tardivi prestati contro di
interesse del minore e questo interesse viene anzitutto tutelato dal genitore che per primo lo ha
riconosciuto. L'art. 250 comma 4 cc dispone che il consenso dell'altro genitore non posso essere
rifiutato nell'ipotesi in cui sussista l'interesse del minore, che configura l'unica ragione giustificativa del
diniego in caso di rifiuto del consenso il genitore che voglia riconoscere il figlio può ricorrere al
giudice, che fissa un termine per la notifica del ricorso all'altro genitore:

o se non viene proposta opposizione entro 30 gg dalla notifica, il giudice decide con sentenza che
tiene luogo del consenso mancante
o se viene proposta opposizione il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone
l'audizione del figlio minore che abbia compiuto 12 anni o anche di età inferiore ove capace di
discernimento e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la
relazione, salvo che l'opposizione non sia palesemente fondata: la sentenza tiene luogo del
consenso mancante e con essa il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione
all'affidamento e al mantenimento del minore e per quanto concerne il suo cognome

L'art. 251 vecchia formulazione stabiliva il divieto del riconoscimento dei figli nati da persone tra le
quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all'infinito oppure in linea collaterale nel secondo grado
ovvero un vincolo di affinità in linea retta l'originaria formulazione della norma escludeva
l'operatività del divieto in 2 casi:

1. qualora i genitori all'epoca del concepimento ignorassero il vincolo che intercorreva tra loro
2. qualora fosse stato dichiarato nullo il matrimonio dal quale derivava l’affinità
3. quando 1 dei genitori era in buona fede il riconoscimento del figlio poteva essere fatto solo da
lui

In tutti questi casi il riconoscimento avrebbe dovuto essere autorizzato dal giudice, avuto riguardo
all'interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio . Tradizionalmente
questo divieto veniva associato al disvalore sul piano morale e sociale e l'interesse del figlio al
conseguimento dello status di figlio rilevava solo in via subordinata, ossia ove il comportamento dei
genitori non fosse sanzionabile e solo in questo caso il giudice avrebbe potuto autorizzare il
riconoscimento valutandone la convenienza per il minore. La vecchia formulazione nel definire
incestuosi i figli in questione appariva inopportuna in quanto attribuiva loro una caratteristica
disonorevole e poneva il figlio incestuoso in una condizione discriminatoria rispetto agli altri figli in
quanto non era consentito al genitore procedere al riconoscimento e non era possibile per il figlio
giungere ad un accertamento giudiziale della paternità o maternità, in quanto vigeva la previsione di cui
all'art. 278 comma 1 cc che vietava le indagini sulla maternità e paternità nei casi in cui la norma
dell'art 251 il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato l'unica forma di tutela a questi riconosciuta
era quella di cui all'art. 269 cc, che consentiva di agire per ottenere i mezzi necessari al mantenimento,
all'istruzione e all'educazione e, in caso di maggiore età e qualora il figlio versasse in stato di bisogno,
per ottenere gli alimenti.
Con riguardo alla questione era stata sollevata questione di costituzionalità del riconoscimento dei figli
incestuosi, in quanto si ritenevano illegittimi gli artt. 251 e 278 comma 1 cc la corte cost ha limitato
nel suo intervento all'art. 278 cc, ritenendolo illegittimo in quanto contrastante con gli artt. 2, 3 e 30
Cost nella parte in cui escludeva l'ammissibilità dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità e
maternità nei casi in cui, ai sensi dell'art 251 cc, non era ammesso il riconoscimento: permaneva quindi
il divieto di riconoscimento. Questa incongruenza è stata superata nel 2012 riscrivendo l’art. 251 cc
prevedendo la riconoscibilità, previa autorizzazione del giudice, del figlio nato tra persone tra le quali
esiste un vincolo di parentela in linea retta all'infinito o in linea collaterale nel secondo grado o un
vincolo di affinità in linea retta; l’autorizzazione deve essere concessa/negata avuto riguardo
all'interesse del figlio e alla necessità di evitare a costui qualsiasi pregiudizio.
Il nuovo art. 251 cc non ha distinto a seconda che il riconoscimento sia compiuto nei confronti di un
figlio minore o maggiore di età, pertanto l'autorizzazione giudiziale sembra essere necessaria in
entrambi i casi: tuttavia questa soluzione desta perplessità, in quanto il vaglio del giudice sull'interesse
del figlio e sulla necessità di evitare a costui qualsiasi pregiudizio non sembra essere conciliabile con la
maggiore età del figlio, in quanto costui viene ad essere pienamente capace di valutare autonomamente i
propri interessi. La competenza per l'autorizzazione è rimessa al T.M.: sull'art. 251 cc è nel 2013 un
d.lgs che ha rimesso alla competenza del giudice l'autorizzazione del riconoscimento di una persona
minore di età, anche se ai sensi dell'art. 38 comma 1 disp.att.cc vi è un periodo finale che richiama
espressamente, ai provvedimenti rispetto ai quali permane la competenza del T.M., quelli di cui all'art.
251 cc

L'art. 253 cc fissa il principio dell'inammissibilità di un riconoscimento in contrasto con lo stato di


figlio in cui la persona si trova in origine l'articolo prevedeva che in nessun caso è ammesso un
riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio legittimo: il divieto si giustifica in quanto
diversamente si porrebbe in contrasto con quanto risulta dall'atto di nascita. La norma comporta che
l'inammissibilità operi esclusivamente qualora il figlio che si intende riconoscere risulti nato nel
matrimonio, riconosciuto o giudizialmente dichiarato, perché dotato del corrispondente titolo dello stato .
Qualora venga effettuato un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio nato nel matrimonio il
riconoscimento non è efficace e il successivo venir meno del titolo di stato di cui era titolare il figlio, ad
esempio a seguito di un disconoscimento di paternità, consente al riconoscimento di acquistare effetti in
virtù del carattere retroattivo della sentenza che fa venir meno l'originario status di figlio.
L'art. 254 cc dispone che il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio è fatto nell'atto di
nascita, oppure con una apposita dichiarazione, posteriore alla nascita dal concepimento, davanti
all'ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di
questo alla forma pubblica dell’atto sta l'esigenza di garantire la certezza in ordine al tempo e
all'autore del riconoscimento. L'accertamento della filiazione fuori del matrimonio può essere contenuto
dell'atto di nascita, se contestuale alla dichiarazione di nascita, ma può anche essere effettuato con
dichiarazione successiva alla nascita ovvero precedente alla nascita purché successiva al concepimento .
L'atto di riconoscimento è pubblicizzato attraverso l'iscrizione nei registri dello stato civile, qualora sia
ricevuto dall’ufficiale dello stato civile separatamente dalla dichiarazione di nascita ovvero attraverso la
trascrizione nei medesimi registri nel caso in cui sia ricevuto da altro pubblico ufficiale. Il carattere di
irrevocabilità dell’atto di riconoscimento comporta che questo resti fermo nonostante l'intervenuta
revoca del testamento in cui è contenuto ai sensi dell'art. 256 cc.

Nel 2012 la riforma ha previsto la ridefinizione della disciplina del possesso di stato e della prova
della filiazione prevedendo la riscrittura degli artt. 236, 237 e 241 cc.
L'art. 236 comma 1 cc dispone che la filiazione sì prova con l'atto di nascita che è atto iscritto nei
registri dello stato civile che raccoglie la dichiarazione della nascita proveniente dai soggetti indicati
all'art 30 comma 1 d.p.r. 396/2000 l’atto di nascita vale come prova principale della filiazione anche
ove avvenuta al di fuori del matrimonio; tuttavia resta fermo che le diverse modalità di accertamento
dello stato di figlio in dipendenza della sussistenza o meno del vincolo matrimoniale tra i genitori si
riflettono anche sulla concreta attitudine probatoria dei rispettivi atti di nascita.
L'atto di nascita non ha tuttavia carattere costitutivo e in sua mancanza la filiazione può essere
provata ai sensi dell'art. 236 comma 2 e 237 cc con il possesso continuo dello stato di figlio, che risulta
da una serie di fatti che nel loro complesso valgano a dimostrare le relazioni di filiazione e di parentela
tra una persona e la famiglia alla quale questa pretende di appartenere  tali fatti sono stati ridefiniti nel
2013 al fine di rendere applicabile questo mezzo di prova anche alla filiazione fuori del matrimonio e il
nuovo testo dell'art 237 comma 2 richiede il concorrere dei seguenti presupposti:
 che il genitore abbia trattato la persona come figlio e abbia provveduto in questa qualità al
mantenimento, all'educazione e al collocamento del figlio tractatus
 che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali fama
 che sia stata riconosciuta in detta qualità della famiglia
Le figure dell'atto di nascita e del possesso di stato differiscono dal punto di vista strutturale in quanto la
prima è prova documentale, mentre la seconda si riassume in un insieme di fatti che allora volta devono
essere provati: tuttavia sono entrambe assimilabili sotto il profilo funzionale, essendo entrambe prove
legali della filiazione e in questo ambito si vengono a trovare in rapporto di sussidiarietà, in quanto in
possesso di stato vale quale prova dello status di figlio solo in mancanza dell'atto di nascita.
In mancanza sia dell'atto di nascita sia del possesso di stato, la prova della filiazione può essere dato
in giudizio con ogni mezzo secondo quanto disposto dall'art. 241 comma 3 cc (la vecchia
formulazione contemplava la sola prova per testimoni).

Per quanto concerne lo stato di filiazione, la riforma del 2013 ha introdotto modifiche volte
all'armonizzazione della disciplina delle azioni di stato, ossia azioni attraverso le quali si chiede al
giudice ha una pronuncia sullo stato della persona importante novità è quella rappresentata
dall’adeguamento della disciplina delle azioni di stato all'unificazione dello stato di figlio: dopo la
riforma non è più prospettabile la contrapposizione tra azioni di stato legittimo e azioni di stato riferite
alla filiazione naturale. Tuttavia la dicotomia nella sostanza perdura, infatti continuano ad essere in
concreto riferibili alla prima categoria le azioni di disconoscimento della paternità, di reclamo e l'azione
di contestazione dello stato di figlio; mentre in caso di filiazione fuori dal matrimonio provano ingresso
l'azione di dichiarazione giudiziale di genitorialità e di impugnativa del riconoscimento. Altra novità
introdotta nel 2013 è quella che riguarda la collocazione sistematica delle azioni di stato: sebbene il
capo III del libro VII del libro I sia rubricato Dell'azione di disconoscimento e delle azione di
contestazione e di reclamo dello stato di figlio, i presupposti dell'azione di reclamo e di quella di
contestazione sono invece dettati agli artt. 238, 239, 240 cc; mentre la dichiarazione giudiziale della
genitorialità è disciplinata negli artt. 269-278 cc e quella di impugnazione del riconoscimento degli artt.
263-268 cc sarebbe stato più opportuno raggruppare l'intera materia, sia con riguardo all'attribuzione
sia con riguardo all'accertamento dello stato di figlio, collocandola in un unico capo che ricomprendesse
quanto previsto in norme sparse qua e là nel codice.
Sebbene le singole azioni presentino sensibili differenze opzioni, la riforma del 2013 ha contribuito ad
armonizzare le relative discipline alla stregua di principi comuni basti pensare alla regolamentazione
relativa all'ipotesi di interdizione o abituale e grave infermità di mente dei legittimati attivi all’azione,
posta dall'art. 245 cc in materia di disconoscimento della paternità ed estesa alle azioni di reclamo, di
contestazione, nonché alle azioni per l'impugnazione del riconoscimento e per la dichiarazione
giudiziale di paternità o maternità; quanto detto vale anche per quanto riguarda il regime di
trasmissibilità mortis causa delle azioni dal lato passivo, che a seguito della riforma è divenuto identico
per quanto riguarda la dichiarazione giudiziale di genitorialità sia per quanto riguarda l'azione di
reclamo e per l'azione di contestazione dello stato di figlio in virtù del rinvio che l'art. 249 comma 3 e
l'art 248 comma 3 compiono all'art. 247 cc.

L'azione di disconoscimento della paternità è diretta privare il figlio dello stato di nato nel
matrimonio, attribuitogli in forza delle previsioni previste dagli artt. 231 e 232 cc  ha come finalità il
superamento della presunzione di paternità, di cui l'attore in disconoscimento intende dimostrare la
falsità e in particolare l'esercizio di questa azione è subordinato a 2 presupposti:
1. la nascita del figlio
2. l’esistenza del titolo dello stato di figlio nato nel matrimonio
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere quale presupposto dell'azione la nascita di un figlio
vivo, mentre non è considerata di ostacolo all'esercizio del disconoscimento la morte del figlio nato
vivo. Si è esclusa la proponibilità del riconoscimento prima della nascita in quanto l'inesistenza del
titolo dello stato impedisce il sorgere dell’azione in quanto presupposto dell'esercizio di azione di
disconoscimento della paternità è l'esistenza del titolo dello stato di figlio nato nel matrimonio in capo al
disconoscendo da ciò deriva che l'azione sarà ammissibile solo se diretta a contestare uno stato
accertato e documentato dall'atto di nascita, con l'ulteriore effetto che i termini di cui all'art. 244 cc non
decorreranno se non si sia formato un atto di nascita in costanza di matrimonio.
Questa azione è stata rinnovata nel 2013, abrogando gli artt. 233 e 235 cc, facendo sì che l'azione ora
sia integralmente regolamentata nell'art. 243 bis, ove al comma 2 si prevede che chi esercita l'azione è
ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre  la prova
della non paternità del marito è libera, potendo essere data con ogni mezzo, primo fra tutti la prova
genetica, da cui poter far risultare direttamente la mancanza della rapporto genetico tra padre e figlia,
senza che la storia deve in alcun modo allegare le circostanze che erano previste dall'art. 235 cc , che
subordinava l'esame delle prove genetiche alla previa dimostrazione della mancata coabitazione tra i
coniugi, assenza del marito o dell'adulterio della moglie. Nel rendere la prova della mancanza del
rapporto genetico tra padre-figlio libera, il legislatore ha recepito quanto affermato dalla corte cost, che
in precedenza aveva pronunciato una declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 235 cc e
aveva abbandonato l'impianto casistico sono quale si fondava l'azione di disconoscimento e incentrato
l'esito dell'intero procedimento sui risultati degli esami ematologici istituti di per sé soli idonei a fondare
l'accoglimento della domanda. Con questa riforma la disciplina dell'azione di disconoscimento veniva di
fatto parificata a quella dettata in tema di impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori del
matrimonio per difetto di veridicità e di dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, le quali non
conoscevano limitazioni probatorie.
Rimangono validi gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali emersi nel vigore del testo previgente
secondo cui:

 il giudice non ha solo la facoltà di ammettere la prova genetica ma, salvo che ritenga già provata
la domanda, è obbligato a disporla anche d'ufficio
 al fine di svolgere le indagini genetiche o del gruppo sanguigno, il giudice nomina il CTU
conferendogli il potere di effettuare i necessari per prelievi ematici o di altra natura sulle persone
interessate
 il giudice non può obbligare coattivamente la parte a sottoporsi al prelievo
 il rifiuto ingiustificato della parte consente al giudice di desumere argomenti di prova a sostegno
della pretesa di controparte; lo stesso vale con riguardo al rifiuto opposto dal curatore nominato
ai sensi dell'art. 247 cc

L’art. 243 bis u.c. cc precisa che la sola dichiarazione della madre non esclude la paternità  questo
principio deriva dal carattere di indisponibilità dell’azione e quindi dall’irrilevanza della
confessione: a riguardo la cassazione aveva precisato che, pur se alla dichiarazione della madre non può
essere riconosciuta efficacia di prova a piena e determinante, ciò non esclude che la dichiarazione
medesima possa essere valutata dal giudice come elemento di prova nel quadro delle altre risultanze
processuali.
La legittimazione attiva all'esperimento compete al marito, alla madre e al figlio la riforma del
2013 non ha innovato rispetto alla disciplina previgente. L'azione può altresì essere promossa ai sensi
dell'art 244 u.c. cc:

 da un curatore speciale nominato dal giudice su istanza del figlio minore che abbia compiuto 14
anni
 su istanza del pm o dell'altro genitore quando si tratti di minore di età inferiore ai 14 anni

Alla nomina di un curatore speciale si procede anche nel caso in cui il figlio versi in stato di interdizione
o comunque in condizione di abituale grave infermità di mente che lo rende incapace di provvedere ai
propri interessi: l’art. 245 comma 2 cc prevede che l’azione possa essere esperita da un curatore speciale
nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del pm, del tutore o dell'altro genitore .
Laddove a versare in queste condizioni siano gli altri legittimati attivi è previsto che il decorso del
termine di esercizio dell'azione di cui all'art. 244 cc rimanga sospeso fino a quando perduri lo stato di
interdizione o perdurino le condizioni di infermità mentale.
Il termine di decadenza per l'esercizio dell'azione ed dettato all’art. 244 cc è stato riformato nel 2013
recependo gli interventi con cui la corte cost aveva modificato il momento a partire dal quale far
decorrere il termine di decadenza si tratta di termini disciplinati in maniera diversa per ogni soggetto
legittimato ad agire per il disconoscimento e in particolare:

 la madre deve proporre l'azione entro 6 mesi dalla nascita del figlio o dalla conoscenza dello
stato di impotenza del marito al tempo del concepimento
 il marito può disconoscere il figlio nel termine di 1 anno, che decorre dal giorno della nascita
quando si trovava li, al tempo di questa, nel luogo in cui è nato il figlio; se tuttavia prova di aver
ignorato la propria impotenza di generare o l’adulterio della moglie al tempo del concepimento
il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. Se invece il marito al tempo della
nascita era lontano dal luogo in cui questa è avvenuta, o comunque provi di non averne avuto
conoscenza, il termine decorre rispettivamente dal gg del suo ritorno nel luogo in cui è nato il
figlio o in cui è stata fissata la residenza familiare o dal gg in cui ha avuto notizia della nascita
 l'azione può essere promossa dal figlio che abbia raggiunto la maggiore età

L’attore per dimostrare la tempestività della propria azione sembra che sia tenuto a dare la prova del
momento in cui ha scoperto l'impotenza di generare o l'adulterio quali presupposti di fatto che restano
distinti rispetto alla nonna paternità. Tuttavia le novità introdotte con la riforma del 2013 sono le
seguenti:

 imprescrittibilità dell'azione con riguardo al figlio ai sensi dell'art 244 comma 5 cc


 improponibilità dell'azione decorsi 5 anni dalla nascita, prevista a carico della madre e del
marito che si trovava al tempo della nascita nel luogo in cui la stessa è avvenuta ai sensi del
comma 4

La scelta dell'imprescrittibilità è coerente con l'interesse del figlio, perché gli conferisce il potere
incondizionato di rimuovere in ogni tempo uno status fittizio; per contro la previsione della decadenza
quinquennale a carico della madre e del padre genera dubbi di costituzionalità infatti in base alla
norma decorsi 5 anni dalla nascita il marito non può più agire, anche se abbia scoperto la propria
impotenza o l'adulterio della moglie in epoca successiva: a tal proposito devono richiamarsi le sentenze
con cui la corte cost aveva dichiarato illegittimo l'art. 244 comma 2 cc nella parte in cui non disponeva
che il termine dell'azione di disconoscimento decorresse dal giorno in cui il marito fosse venuto a
conoscenza dell'adulterio della moglie o della propria impotenza a generare, ed altresì allo stesso modo
con riferimento alla decorrenza del termine per la moglie venuta a conoscenza dell'impotenza a generare
del marito. La corte aveva evidenziato che, in caso di incolpevole ignoranza di un fatto costitutivo
dell’azione, la decorrenza del termine dall'evento nascita potesse in concreto vanificare il diritto di
azione, il che contrasta con i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei
diritti recentemente la Corte Edu ha svolto analoghe considerazioni; le ragioni addotte dalla Corte
Cost conservano la loro persuasività pertanto può pronosticarsi un nuovo intervento correttivo della
Corte tenuto conto che dopo la riforma il favor veritatis e l'effetto rispetto alla vita privata e familiare
dei genitori risultano ingiustificatamente compressi dalla disposizione che impedisce di agire
all'interessato che sia rimasto inconsapevole della non paternità. In conclusione può rilevarsi che mentre
negli ultimi decenni diritto della filiazione era stato caratterizzato dal passaggio dal favor legitimitatis al
favor veritatis, le nuove regole sembra uno indirizzare la tutela della stabilità dello stato di filiazione
prima ancora che della verità della procreazione a fronte di questo nuovo bene soccombono le ragioni
del padre presunto nonché, in caso di tardiva scoperta del impotenza del marito, anche quelle della
madre.
La norma che impedisce al marito di esercitare l'azione di disconoscimento della paternità decorsi 5 anni
dalla nascita, nonostante la tardiva scoperta dell'adulterio o della propria impotenza, appare inopportuna
anche sotto un riguardo pratico in quanto è probabile che la tardiva scoperta dell'adulterio del coniuge
crei nel marito sentimenti di risentimento tali da provocare la crisi della coppia e la conseguente
richiesta di separazione con addebito; a seguito della separazione il marito che, nonostante l'attribuzione
della paternità, non è padre si troverebbe a dover esercitare l'affidamento condiviso unitamente alla
moglie e rispetto ad un figlio che è suo solo sul piano formale, mentre il padre biologico non può agire
in alcun modo per far constatare la propria genitorialità in questo contesto si ritiene che ciò provochi
sentimenti di forti conflitti, pertanto non sembra felice la soluzione di costringere gli interessati in quella
situazione di menzogna derivante dalla prevalenza del riconoscimento rispetto alla verità fattuale.
Qualora il figlio titolare dell'azione morisse senza averla promossa, l'azione può essere esercitata in sua
vece dal coniuge/dai discendenti nel termine di 1 anno dalla morte del figlio o dal raggiungimento della
maggiore età di ciascuno dei discendenti ai sensi dell'art 246 cc; in caso di morte del marito o della
madre senza che gli stessi l'abbiano promossa, ma prima che sia decorso il termine dell'art. 244 cc sono
ammessi ad esercitare l'azione in loro vece i discendenti o gli ascendenti→ il nuovo termine decorre
dalla morte del presunto padre o della madre o dalla nascita del figlio se si tratta di figlio postumo o dal
raggiungimento della maggiore età da parte di ciascuno dei discendenti.
La legittimazione passiva spetta al presunto padre, alla madre e al figlio che sono litisconsorti
necessari secondo quanto previsto dall'art. 247 cc l'articolo disciplina anche le ipotesi di minore
età, interdizione e morte di uno dei legittimati passivi; per il caso di minore età o interdizione di un
legittimato passivo, si stabilisce che l'azione deve essere proposta in contraddittorio con un curatore
nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso ai sensi del comma 2 mentre il
comma 3 estende la necessità di nomina del curatore speciale al caso di legittimato passivo a minore
emancipato o maggiore inabilitato. L'ultimo comma disciplina l'ipotesi della morte di un legittimato
passivo, disponendo che hai, se il presunto padre o la madre o il figlio siano morti l'azione si propone
nei confronti delle persone indicate nell'art. 246 o, in loro mancanza, nei confronti di un curatore
parimenti nominato dal giudice.

L'azione di contestazione dello stato di figlio è diretta rimuovere lo stato di figlio di chi, dall'atto di
nascita, risulti come figlio di soggetti che in realtà non sono i veri genitori nel 2013 si è intervenuti
radicalmente nella disciplina dell'azione, provvedendo a una significativa riduzione dei casi in cui è
possibile esperirla infatti ora l'azione è ammessa nelle sole ipotesi di:

 supposizione di parto: si ha quando dall'atto di nascita risulti come mai avere del neonato una
persona diversa da quella che lo ha partorito
 supposizione di neonato: si tratta della sostituzione di neonato quando l'atto di nascita
attribuisca ad una donna, che ha effettivamente partorito, la maternità di un bambino nato da
altra donna

Mediante questa azione l'attore mira a provare che la donna che risulta essere madre di un determinato
soggetto in realtà non l'ha partorito; nulla aggiunge il richiamo operato dall'art. 240 cc all'ipotesi
contemplata all'art. 239 comma 2 che è quella relativa a un figlio che, sebbene nato nel matrimonio,
risulti iscritto nei registri dello stato civile quale figlio di ignoti. Prima della riforma l'azione era rivolta
alla rimozione dello stato di figlio legittimo, di conseguenza questa poteva indirizzarsi a contestare
l'esistenza o la validità del vincolo matrimoniale dei genitori; nonostante l'unificazione dello stato di
figlio è tuttora da ritenersi che l'azione possa essere esercitata per contestare l'esistenza o la validità del
matrimonio tra coloro che risultano essere indicati come genitori in mancanza di matrimonio o in caso
di nullità del matrimonio a causa di incesto, chi agisce in contestazione fa valere la mancanza di una
valida attribuzione della genitorialità sia con riferimento alla madre sia con riferimento al suo pseudo
marito poiché, mancando il matrimonio, non può validamente operare l'attribuzione automatica della
maternità e della paternità e in questa ipotesi non è altresì ravvisabile alcun valido riconoscimento del
figlio da parte dei genitori, che è necessario per l'attribuzione nell'atto di nascita della genitorialità non
matrimoniale.
Una volta esperita l'azione verrà meno lo stato di figlio potranno alternativamente essere ammessi:

 l'azione di reclamo ex art. 239 comma 4 cc qualora la madre risulti coniugata con altri
 il riconoscimento ai sensi dell'art. 253 cc da parte dei genitori biologici
 l'azione di dichiarazione giudiziale della genitorialità, esperibile dal figlio qualora la madre non
risulti coniugata
In relazione all'ipotesi di contestazione dello stato di figlio per supposizione di parto o di sostituzione di
neonato, non sembra escludersi che l'azione sia proponibile anche per contestare lo stato di un figlio
riconosciuto da genitori non coniugati, qualora questo riconoscimento sia stato effettuato nei riguardi di
un figlio non partorito dalla donna indicata come madre in questo caso il riconoscimento non è
veritiero e l'azione da esperire potrebbe essere quella ai sensi dell'art. 263 cc ma in questa ipotesi
l'impugnativa non è riferita tanto alla non veridicità del riconoscimento quanto piuttosto al fatto naturale
del patto e in questo modo ti consentirà a chiunque ne abbia interesse di promuovere l'azione oltre i
limiti temporali stabiliti dall'art. 263 cc per contestare la maternità.
L'art. 248 comma 1 cc stabilisce che l'azione di contestazione dello stato di filiazione spetta a chi,
dall'atto di nascita del figlio, risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse  in questa nozione si
comprende anche il figlio, poiché non è detto che chi ha un titolo dello stato di figlio abbia sempre
interesse a conservarlo. L'azione di contestazione cui il figlio è legittimato ha sempre carattere
autonomo ed è indipendente dall’eventuale azione di reclamo dello stato di figlio. Ove il figlio,
interessato a promuovere l'azione, sia minorenne questa può essere promossa da un curatore speciale
che viene nominato dal giudice su istanza del minore se ha compiuto 14 anni o su istanza del pm o
dell'altro genitore se il figlio < 14 anni; alla nomina di un curatore speciale si procede altresì nel caso in
cui il figlio si trovi in stato di interdizione o comunque versi in condizione di grave abituale infermità di
mente che lo rende incapace di provvedere ai propri interessi. Se incapaci sono gli altri legittimati attivi,
l'azione può essere proposta dal tutore o in mancanza di questo da un curatore speciale previa
autorizzazione del giudice.
Ai sensi dell'art. 248 comma 2 cc l'azione è imprescrittibile; legittimati passivi sono i titolari del
rapporto ossia il figlio e i genitori i quali sono litisconsorti necessari ai sensi dell'art. 248 comma 4 cc
in caso di loro premorienza, minore età o incapacità, l'azione si propone nei confronti delle persone
indicate nell'art. 247 cc.

L'azione di reclamo dello stato di figlio è l'azione diretta a far accertare giudizialmente il rapporto di
filiazione quando il figlio assume come non veritiero lo stato che gli venga attribuito all'atto di nascita 
con la riforma del 2013 questa azione è disciplinata dagli artt. 238, 239 e 249 cc che sono stati
modificati dal decreto e in particolare i presupposti per esperire l'azione sono dettati all'art. 239 cc 
quest'azione spetta al figlio:

 qualora vi sia stata supposizione di parto o sostituzione di neonato in questi casi l'azione
di reclamo presuppone la rimozione del precedente stato di figlio attraverso l'esercizio
dell'azione di contestazione di cui all'art. 240 cc
 qualora il figlio medesimo, nato nel matrimonio, sia stato iscritto nei registri dello stato
civile quale figlio di ignoti, salvo che sia intervenuta sentenza di adozione questo accade
quando la madre, anche se eventualmente coniugata, si è avvalsa della facoltà di non essere
nominata nell'atto di nascita: in questo caso l'atto di nascita non indica neppure l'identità del
marito e di conseguenza il figlio viene iscritto nei registri dello stato civile quale figlio di ignoti.
Tuttavia il figlio può esercitare l'azione di reclamo per provare la nascita avvenuta nel
matrimonio e in ogni caso l'azione di reclamo rimane sempre preclusa a chi sia titolare di uno
stato di figlio derivante da adozione piena, in quanto facendo cessare ogni legame con la
famiglia di origine rende improponibile qualsiasi domanda volta all'accertamento della filiazione
biologica
 qualora si intenda dimostrare che la presunzione di paternità è stata resa inoperante da un
riconoscimento non veritiero l'azione di reclamo è concessa al fine di far accertare
giudizialmente l'operatività di una presunzione di paternità impedita da un falso riconoscimento
effettuato da un soggetto diverso dal marito della partoriente: qualora il figlio risulti iscritto nei
registri dello stato civile come figlio di ignoti potrebbe accadere che chiunque possa dichiarare
di esserne il padre tuttavia laddove venga giudizialmente accertata la non veridicità del
riconoscimento di paternità ai sensi dell'art. 263 cc, il figlio potrà esercitare l'azione di reclamo
per provare la nascita avvenuta nel matrimonio
 qualora si intenda far valere una presunzione di paternità contrastante con altra
presunzione di paternità l'azione può essere esercitata quando l'attore intende a reclamare
uno stato di figlio conforme a una presunzione di paternità diversa da quella in base alla quale
costui è stato iscritto nell'atto di nascita: l'intento è quello di far valere lo stato di figlio nato
all'interno di un matrimonio diverso da quello a cui si fa riferimento nell'atto di nascita  si
potrebbe determinare quindi un concorso tra contrastanti presunzioni di concepimento in
costanza di matrimonio, ossia un conflitto tra la presunzione di paternità quando la donna abbia
per esempio celebrato un nuovo matrimonio senza osservare il divieto di contrarre nuove nozze
ai sensi dell'art. 89 cc e abbia partorito prima che siano trascorsi 300 gg dall’annullamento,
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio: in questo caso il figlio potrà
reclamare uno stato conforme all'altra presunzione di paternità
 qualora il precedente stato di figlio sia stato comunque rimosso esperita con successo la
contestazione o l'impugnativa del riconoscimento il figlio può reclamare lo stato nei confronti
dei genitori che l'hanno generato, così come direttamente può farlo il figlio privo di stato che,
sebbene nato nel matrimonio, sia stato iscritto come figlio di ignoti salvo che sia intervenuta
sentenza di adozione

Alle ipotesi contemplate dall'art. 239 cc deve aggiungersi la previsione di cui all'art. 238 cc che prevede
l'esperibilità nel reclamo nei casi di cui agli artt. 128, 234, 239, 240 244 cc  delle norme citate dalla
disposizione, l'unica coerente con l'azione di reclamo è quella dell'art. 234 cc, che è volta a consentire al
reclamante di dimostrare di essere stato concepito durante il matrimonio anche se è nato dopo 300 gg
dall'accettazione del medesimo, di modo da rendere operante la presunzione di paternità. Il richiamo agli
artt. 128, 239, 240 e 244 cc può comunque ritenersi pleonastico.
Legittimato attivo alla stazione di reclamo è il figlio, riguardo al quale l'azione è dichiarata
imprescrittibile ai sensi dell'art. 249 comma 2 cc in caso di minore età, l'azione potrà essere promossa
da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio
minore che abbia compiuto 14 anni o del pm o dell'altro genitore qualora il figlio sia < 14 anni; in ogni
caso l'azione non potrà mai essere promossa da chi da titolo risulti genitore e sia titolare della
responsabilità genitoriale sul minore in quanto in questo caso l'azione di reclamo presuppone il previo
esercizio dell' azione di contestazione dello stato di filiazione. Ove il figlio si trovi in stato di
interdizione o comunque versi in una condizione di abituale e grave infermità di mente che lo renda
incapace di provvedere ai propri interessi, l'azione potrà essere proposta da un curatore speciale
nominato dal giudice su istanza del pubblico ministero, del tutore o dell'altro genitore. Qualora il figlio
sia un minore emancipato o un maggiorenne inabilitato si è concordi nel ritenere che l'azione possa
essere autonomamente esercitata senza necessità di assistenza alcuna. Nel silenzio della legge si ritiene
che laddove il figlio non abbia esercitato l'azione prima di morire questa possa essere trasmessa ai suoi
discendenti e si ritiene che anche per i discendenti l'azione sia imprescrittibile in quanto trattasi di diritto
indisponibile.
L'azione deve essere proposta contro entrambi i genitori, pertanto si tratta di un'ipotesi di litisconsorzio
necessario; in caso di morte di entrambi i genitori o di uno solo di questi l'azione va proposta nei
confronti dei discendenti o degli ascendenti o, in loro mancanza, nei confronti di un curatore nominato
dal giudice e a tal proposito l'art. 249 comma 3 c.c. rinvia alle persone indicate nell'art. 247 cc anche per
le ipotesi di minore età o di incapacità dei genitori.
Prima della riforma l'azione andava proposta contro i genitori necessariamente coniugati a seguito
della riforma si tratta di chiarire se questa azione debba rivolgersi nei confronti dei genitori coniugati o
anche non: benché quest'ultima soluzione in linea di principio possa sembrare coerente con l'unicità
dello stato di figlio, si propende per l'ipotesi opposta, ossia che questa azione si rivolga solo contro i
genitori coniugati come si ricava dall'art. 239 commi 2 e 3 e dall'art. 249 comma 4 cc a tenore dei quali:

A. l'azione può essere esercitata da chi è nato nel matrimonio ma fu iscritto come figlio di ignoti
B. l'azione può essere esercitata per reclamare uno stato di figlio conforme alla presunzione di
paternità
C. nel giudizio devono essere chiamati entrambi i genitori

Colui che reclama lo stato di figlio deve provare i relativi presupposti maternità, matrimonio tra i
genitori, nascita nel matrimonio, paternità del marito:
 il matrimonio dei genitori in prova con l'atto di celebrazione estratto dai registri dello stato civile
in quanto non è sufficiente provare il possesso di stato di coniugi
 la prova della maternità si risolve nella prova del parto della donna che si pretende essere la
madre e dell'identità del figlio di lei e del reclamante
 la prova del concepimento in costanza di matrimonio risulterà dal confronto della data di nascita
con quella di scioglimento del matrimonio in quanto nell'ipotesi di reclamo trova applicazione la
presunzione di concepimento di cui all'art. 232 cc
Ai sensi dell'art. 241 cc la prova della filiazione, in mancanza dell'atto di nascita e del possesso di stato,
può essere data con ogni mezzo in particolare attraverso indagini genetiche, le quali da sole sono
ritenute idonee a fornire la prova certa della filiazione e alle quali sarà inevitabile il ricorso qualora i
soggetti del rapporto di filiazione siano in vita ma anche quando fossero noti i caratteri di uno dei
soggetti del rapporto; la prova testimoniale assume invece un ruolo sussidiario per il caso in cui la prova
genetica o ematologica risulti difficile o impossibile esperimento.
Il convenuto può dare la prova contraria agli assunti dell'attore valendosi di ogni mezzo diretta a
dimostrare che il reclamante non è figlio della donna che costui pretende di avere per madre oppure che
non è figlio del marito della madre coniugata, quando risulta provata la maternità, o che non è figlio del
preteso padre.

Il riconoscimento ha come presupposto che il suo autore sia colui che ha concepito il figlio, pertanto
può essere impugnato per difetto di veridicità l’art. 263 comma 1 cc stabilisce che questa
impugnazione spetta all'autore del riconoscimento, a colui che è stato riconosciuto e a chiunque vi abbia
interesse, ossia un interesse apprezzabile e attuale (pertanto potrebbe essere anche l'altro genitore e il
figlio cui spetterebbe il titolo di figlio nato nel matrimonio, oltre che il marito di colei che abbia
falsamente riconosciuto il proprio figlio come è nato fuori del matrimonio anziché come figlio del
marito). In questo caso il difetto di veridicità potrà essere dimostrato mediante accertamenti genetici dai
quali risulti la paternità del marito della donna che ha falsamente riconosciuto come non matrimoniale il
proprio figlio. L'art. 264 cc disciplina l'ipotesi dell’impugnazione del riconoscimento da parte del figlio
minore prevedendo che l'azione sia proposta da un curatore speciale nominato dal giudice su istanza del
minore >14 anni o su istanza del pm o dell'altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio in
caso di figlio <14 anni la possibilità per la nomina di un curatore speciale è stata altresì prevista
nell'ipotesi in cui il figlio riconosciuto sia interdetto o versi in condizioni di grave e abituale infermità di
mente; ove nelle predette condizioni si trovino gli altri legittimati di cui al comma 1 art. 263 cc l'azione
può essere proposto dal tutore o, in mancanza, da un curatore speciale e previa autorizzazione del
giudice.
A seguito della riforma del 2013, l'azione è diventata imprescrittibile solo nei riguardi del figlio mentre
è stato introdotto un termine di decadenza per l'esercizio dell'azione da parte degli altri legittimati 
l'autore del riconoscimento deve proporre l'azione entro 1 anno dall'annotazione del riconoscimento
sull'atto di nascita, salvo che dia prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento
(in questo caso il termine decorre dal giorno lui ne ha avuto conoscenza); nello stesso termine anche la
madre che abbia effettuato il riconoscimento è ammessa a trovare Ignorato l'impotenza del presunto
padre. In ogni caso l'azione non può essere proposta oltre 5 anni dalla notazione del
riconoscimento.
Se l'autore del riconoscimento è morto senza aver esercitato l'azione ma prima che siano trascorsi i
termini di cui al comma 3 l'azione si trasmette ai discendenti o agli ascendenti e può essere promossa
entro 1 anno, che decorre dalla morte dell'autore del riconoscimento o dalla data di nascita se si tratta di
figlio postumo o dal raggiungimento della maggiore età da parte di ciascuno dei discendenti; se è il
figlio riconosciuto ad essere morto senza aver esperito l'azione, sono ammessi ad esercitarla in sua vece
il coniuge oi discendenti nel termine di 1 anno che decorre dalla morte del figlio riconosciuto o dal
raggiungimento della maggiore età da parte di ciascuno dei discendenti.
L'art. 74 l. adoz. ha introdotto la possibilità che il T.M. nomini d'ufficio curatore speciale che proceda
all'impugnazione del riconoscimento di un figlio effettuato da persona coniugata il problema che la
legge ha inteso risolvere è quello dei falsi riconoscimenti diretti ad aggirare la normativa sull'adozione e
funzionali al commercio dei minori: al fine di evitare che nelle more del procedimento si consolidino
situazioni affettive che provocherebbero ulteriori traumi al minore, è prevista la possibilità di negare
l'autorizzazione all'inserimento del figlio nella famiglia e di disporre un affidamento familiare finché il
giudizio non sia definito.
Il falso riconoscimento può essere effettuato:

 in buona fede qualora l'autore sia convinto di essere il genitore


 in mala fede a questa ipotesi è riconducibile il cd riconoscimento per compiacenza, quando
un uomo procede al riconoscimento del figlio della donna con cui si coniuga o convive frutto di
una precedente relazione della donna. Prima della riforma secondo l'orientamento prevalente la
consapevolezza della non veridicità del riconoscimento non era ritenuta ostacolo
all’ammissibilità dell'impugnazione, sul presupposto che l'impugnativa di cui all'art. 263 cc ha
come fondamento alla difformità tra la verità apparente è la verità sostanziale della filiazione;
altra dottrina, in applicazione del principio del favor veritatis, consentiva ad un soggetto di
rimuovere gli effetti di un rapporto di filiazione da lui stesso creato creando perciò un danno per
il figlio: la giurisprudenza di merito aveva forzato il dato testuale della imprescrittibilità
negando la possibilità di impugnativa a colui che avesse effettuato il riconoscimento in
malafede per questo motivo la riforma del 2013 ha introdotto un termine di decadenza per
l'impugnazione del riconoscimento da parte dei legittimati diversi dal figlio, compreso anche
colui che abbia riconosciuto per compiacenza.

Il riconoscimento non veritiero, se effettuato nella consapevolezza della sua falsità, integra la
fattispecie di alterazione di stato di cui all'art. 567 cp ove emerge la sussistenza di un interesse
pubblico alla verità della attribuzione dello stato di filiazione extramatrimoniale sotto questo
aspetto l'introduzione di un limite temporale all'impugnazione del falso riconoscimento che è fissato in 5
anni dalla nascita può comportare che un soggetto conservi il suo status di genitore ma al contempo sia
perseguibile condannabile ex art. 567.
Il riconoscimento può essere impugnato anche per violenza e qualora sia effettuato da una
persona interdetta giudizialmente ai sensi dell'art. 266 cc:

 per il caso dell'impugnazione per violenza, l'impugnazione può essere effettuata dall'autore del
riconoscimento entro 1 anno dal giorno in cui la violenza è cessata; se autore del riconoscimento
soggetto minore entro 1 anno dal raggiungimento della maggiore età per individuare gli
elementi che integrano questo si fa riferimento alla disciplina dettata per il contratto, che
consiste nella minaccia di un male ingiusto e notevole, sia causa di annullamento del
riconoscimento anche quando provenga da un terzo, mentre non rileva né il timore reverenziale
né la minaccia di far valere un diritto. La violenza è l'unico vizio della volontà considerato dal
legislatore ai fini dell'impugnazione dell’atto, mentre nessun rilievo assumono il dolo e l'errore
dell'autore del riconoscimento
 per il caso della persona interdetta giudizialmente, il riconoscimento può essere impugnato dal
rappresentante dell'interdetto e, dopo la revoca dell'interdizione, dall'autore del riconoscimento
entro un anno dalla data della revoca la formulazione della norma sembra non consentire di
impugnazione del riconoscimento per incapacità naturale: una giurisprudenza consolidata ritiene
la previsione dell'art. 266 cc tassativa, pertanto non estensibile né all'ipotesi dell'inabilitato né a
quella dell' incapace di intendere e di volere

L'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità è diretta ad ottenere l'accertamento


dello status di figlio nato fuori del matrimonio ove non sia intervenuto il riconoscimento ai sensi dell'art.
269 cc questa azione è ammessa nei soli casi in cui è ammesso il riconoscimento. Ferma
l'inammissibilità di cui all'art. 253 cc l'azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o maternità
risulta sempre ammessa, stante la caducazione del divieto di riconoscimento dei figli nati da relazione
tra parenti o affini e il conseguente venir meno di questo limite anche per l'esperimento di questa azione
per i casi in cui il riconoscimento è ammesso. L'azione per la dichiarazione giudiziale della paternità o
maternità è proponibile anche quando il figlio sia nato da genitori tra i quali sussiste un legame di
parentela o di affinità non dispensabile posto che l'art. 251 cc condiziona il riconoscimento di questi
figli alla preventiva autorizzazione del giudice, anche l'esperibilità dell'azione per la dichiarazione
giudiziale di paternità o maternità deve ritenersi subordinata alla previa autorizzazione giudiziale
secondo quanto disposto dall'art. 278 cc. Nel riscrivere l'art. 278 cc non si è distinto a seconda che ad
agire per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità sia un figlio maggiorenne o minorenne:
sembra preferibile ritenere che l'autorizzazione giudiziale sia necessaria solo per il figlio minorenne ea
tal proposito a concedere l'autorizzazione debba essere il T.M., sebbene l'art. 38 disp att cc attribuisca la
competenza per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità al T.O. anche qualora si tratti di
accertare la filiazione rispetto a un figlio minore.
Benché la legge tratti allo stesso modo l'azione di dichiarazione della genitorialità contro il padre o
contro la madre, se la madre non consente ad essere nominata nell'atto di nascita il figlio di norma viene
dichiarato in stato di adottabilità e, una volta pronunciata l'adozione, nessun accertamento di
genitorialità è più ammesso pertanto si evince come questa azione sia normalmente esperibile contro
il padre che non abbia riconosciuto il figlio; la prova della genitorialità può essere data con ogni
mezzo.
L'unico caso in cui il mero legame biologico non è idoneo ai fini della dichiarazione di genitorialità sia
nell'ipotesi di procreazione medicalmente assistita eterologa in quanto l'art. 9 comma 3 l. 40/2004
stabilisce che il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non
può far valere nei suoi confronti alcun diritto e nemmeno essere titolare di obblighi.
Per quanto riguarda la legittimazione attiva, l'art. 270 cc prevede che l'azione per ottenere la
dichiarazione giudiziale di paternità o maternità sia promossa dal figlio, riguardo al quale l'azione è
imprescrittibile in caso di minore età l’art. 263 cc prevede che l'azione possa essere promossa,
nell'interesse del figlio medesimo, dal genitore che eserciti la responsabilità o nel caso il minore sia
sottoposto a tutela si tratti di maggiorenni interdetti l'azione può essere proposta dal tutore previa
autorizzazione del giudice; in caso di figlio che abbia compiuto 14 è necessario il suo consenso per
promuovere o proseguire l'azione. La domanda per la dichiarazione di paternità o maternità deve essere
proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza, nei confronti dei suoi eredi ai sensi dell'art.
266 e, in difetto di eredi, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal
giudice davanti al quale giudizio deve essere promosso.
Il principio dell'imprescrittibilità dell'azione consente che la sentenza che accerti lo status di filiazione
intervenga anche dopo la morte del genitore convenuto e quindi rende incerto se, decorsi 10 anni
dall'apertura della successione, il figlio possa accettare l'eredità del genitore ed esercitare i relativi diritti
di erede in passato si era sostenuto che, essendo la norma generale che la prescrizione inizia a
decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, la prescrizione dell'accettazione non decorra
fino al momento in cui sia passata in giudicato la sentenza che dichiara la filiazione pertanto i termini
per poter accettare l'eredità decorrono solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza che accerta lo
status di filiazione e il diritto all'accettazione dell'eredità si prescriverà a partire dal passaggio in
giudicato della sentenza: a tal proposito è stato modificato l’art. 480 comma 2 cc che ha recepito questo
orientamento. Ci si è chiesti se i coeredi possono invocare il usucapione ventennale di beni che fanno
parte dell'asse ereditario al fine di paralizzare l'azione di petizione o di riduzione: Cassazione ha escluso
l'operatività dell'istituto dell'usucapione.
La disciplina legislativa della ricerca della paternità e della maternità si caratterizza in primo luogo
per la libertà della prova in ordine all'accertamento giudiziale della maternità, la legge ribadisce che
la maternità è dimostrata provando l'identità di colui che si pretende essere il figlio e di colui che fu
partorito dalla donna che si assume essere madre. La giurisprudenza ha chiarito che la dimostrazione
diretta dell'identità di colui che pretende di essere il figlio di colui che fu partorito non costituisce l'unica
prova ammissibile, potendosi dare prova della filiazione in mancanza di tale dimostrazione con ogni
altro mezzo, anche ricorrendo alle presunzioni. Per quanto attiene alla prova della paternità, la legge
consente all'attore di fornirla con ogni mezzo il progresso delle scienze mediche ha valorizzato il
principio della libertà della prova, infatti attraverso analisi genetiche che si rifanno allo studio
comparativo del Dna dei soggetti, risulta possibile risalire all'autore del concepimento con un grado di
probabilità pressoché equivalente alla certezza assoluta. Ne consegue che, in assenza di altre risultanze
sufficienti a fondare il proprio convincimento, il giudice potrà disporre i necessari prelievi su richiesta
dell’attore o anche d'ufficio ai sensi dell'art. 118 cpc affinché sia attuato il provvedimento del giudice
che dispone il prelievo, è necessario il consenso del presunto padre in virtù del principio
dell'inviolabilità della persona: a fronte del legittimo ma immotivato rifiuto del convenuto a sottoporsi
alle indagini genetiche, la giurisprudenza è sempre stata costante nel ritenere che il giudice possa
assumere argomenti di prova ai sensi dell'art. 116 comma 2 cpc. In ogni caso il giudice potrà
considerare raggiunta la prova tutte le volte in cui si verifichi una delle fattispecie previste dalla legge
prima della riforma del ‘75:

 la convivenza dei presunti genitori all'epoca del concepimento


 la paternità risultante indirettamente da sentenza civile o penale
 l'esistenza di un’inequivoca dichiarazione scritta del presunto padre
 il rapporto o la violenza carnale al tempo del concepimento
 il possesso di stato di figlio
Nonostante quanto previsto dall'art. 269 comma 4 cc, secondo cui la sola dichiarazione della madre e la
sola esistenza dei rapporti tra la madre e il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono
prova della paternità, può ritenersi che queste circostanze costituiscano indizi rilevanti che,
opportunamente integrate, possono fondare l'accoglimento della domanda.
La sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento e con la stessa sentenza
il giudice può per quanto riguarda la decorrenza dell'obbligo di mantenimento, la Cassazione ha
affermato che i provvedimenti relativi adottati ai sensi dell'art. 277 cc decorrono dalla proposizione
della domanda di merito, essendo estensibile all'obbligo di mantenimento il principio dettato in tema di
alimenti dall'art 445 cc; è tuttavia pacifico che il genitore che abbia provveduto da solo al mantenimento
del figlio minore riconosciuto ha diritto ad ottenere dall'altro il rimborso di quanto sarebbe stato a carico
di quest'ultimo a partire dalla nascita e infatti alcune pronunce hanno riconosciuto che il figlio o il
genitore che lo abbia mantenuto possono altresì agire nei confronti dell'altro genitore per il risarcimento
del danno anche non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 cc a seguito della violazione dei doveri
genitoriali.
Gli artt. 279, 582 594 cc contengono regole da applicarsi ai figli non riconoscibili, i quali sono ammessi
ad agire per conseguire dal genitore il mantenimento, l'educazione, l'istruzione è l'assegno successorio
dopo la riforma 2012 e relativo decreto attuativo si ritiene che questa categoria di figli non esista più,
considerato che tutti i figli ivi compresi quelli di genitori legati da vincolo di parentela siano oggi
riconoscibili occorre chiarire se le disposizioni richiamate abbiano ancora ha ragione di esistere,
sebbene appaiano da ricomprendersi nella categoria di figli non riconoscibili le seguenti fattispecie:

A. figli nati da genitori legati da vincoli di parentela o affinità nelle ipotesi in cui il riconoscimento
o l'accertamento giudiziale della filiazione non sia richiesto oppure non sia stato autorizzato dal
giudice ai sensi dell'art. 251 e 278 cc
B. figli di genitori che non abbiano compiuto 16 anni di età, salvo che il giudice li autorizzi,
valutate le circostanze e avuto riguardo all'interesse del figlio
C. figlio ultraquattordicenne non riconoscibile per mancanza del suo assenso
D. figlio infraquattordicenne non riconoscibile per mancanza di consenso del genitore che ha abbia
già effettuato il riconoscimento, salva l'autorizzazione del tribunale
E. figlio privo di assistenza morale e materiale per il quale siano intervenuti la dichiarazione di
adottabilità e l'affidamento preadottivo
F. figlio matrimoniale e figlio riconosciuto da altri, entrambi non riconoscibili dal preteso padre
biologico ai sensi dell'art 253 cc, ossia nelle ipotesi in cui il riconoscimento sia in contrasto con
lo stato di figlio legittimo e anche con lo stato di figlio riconosciuto o giudizialmente accertato
prima della riforma la tendenza in dottrina e giurisprudenza era quella di ritenere ammesso
all’azione ex art. 269 cc e alla titolarità dei diritti di cui agli artt. 580 e 594 cc anche colui che
avesse lo stato di figlio legittimo altrui e che fosse impossibilitato ad esercitare l'azione di
dichiarazione giudiziale di paternità per aver omesso il tempestivo esperimento dell'azione di
disconoscimento del padre legittimo a seguito della riforma del 2012 che ha modificato l'art.
244 cc e l’art. 263 cc, l'azione di disconoscimento della paternità e di impugnazione del
riconoscimento sono imprescrittibili solo con riguardo al figlio, il quale in qualsiasi momento
può rimuovere l'apparente status di filiazione per poter conseguire quello di figlio del padre
biologico

Nelle ipotesi di cui alla lettera A) primo periodo, C), F) il mancato accertamento della filiazione dipende
dalla volontà del figlio stesso mentre nelle ipotesi di cui alle lettere B), D), E), A) secondo periodo il
figlio si trova dinanzi a un ostacolo che non dipende dalla propria volontà ove il figlio, pur potendolo,
non voglia essere riconosciuto e nemmeno dichiarato, viene meno la ratio delle disposizioni di cui agli
artt. 279, 580 e 594 cc che erano state pensate per tutelare quei soggetti per i quali era vigente il divieto
di indagini sulla paternità o sulla maternità. Queste norme restano invece applicabili in tutti gli altri casi
in cui il mancato accertamento dello status di filiazione sia indipendente dalla volontà del figlio.
In ordine all'effettivo contenuto dei diritti attribuiti ai figli non riconoscibili, la legge attuando
quanto previsto dall'art. 30 cost attribuisce loro il diritto al mantenimento, all'istruzione e all'educazione
e, ove maggiorenni e aventi raggiunto indipendenza economica, il diritto agli alimenti per il caso in cui
versano in stato di bisogno il diritto agli alimenti spetta al figlio maggiorenne in stato di bisogno a
condizione che il diritto al mantenimento di cui all'art. 315 bis cc sia venuto meno, ciò a significare che
anche per i figli che non possono ottenere un riconoscimento dello stato di filiazione l'obbligo del
mantenimento non viene meno con il compimento della maggiore età, ma quando il figlio sia divenuto
economicamente indipendente.
Ci si chiede come possa attuarsi il dovere dell'educazione, il quale presuppone un’influenza nella vita
quotidiana del minore e per quanto riguarda l'esercizio dei poteri che attengono alla responsabilità
genitoriale, dei quali il genitore che non ha riconosciuto il figlio è privo  secondo un certo
orientamento la determinazione in concreto delle prestazioni non patrimoniali quali l'obbligo di
istruzione e di educazione spettacolo lui che esercita la responsabilità genitoriale o la cura della persona,
salvo il controllo del Tribunale per i Minorenni o del giudice tutelare.
L'azione per ottenere il mantenimento, l'educazione e l'istruzione è condizionata alla previa
autorizzazione del giudice ai sensi dell'art. 251 cc il riferimento all'art. 251 cc contenuto nell’art. 279
cc suscita perplessità in quanto sembra voler circoscrivere la portata applicativa della tutela offerta
dall'art. 279 cc alla sola categoria dei figli di genitori incestuosi, che risulterebbero gli unici legittimati
all’azione.
In sede successoria è stato mantenuto il principio secondo cui le disposizioni relative alla successione
dei figli nati fuori del matrimonio si applicano quando la filiazione è stata riconosciuta o
giudizialmente dichiarata: di conseguenza ai figli privi di stato viene attribuito il trattamento di cui
all'art. 580 cc che chiude la disciplina della successione legittima stabilendo che ai figli nati fuori del
matrimonio aventi diritto al mantenimento, all'istruzione e all'educazione ai sensi dell'art. 279 aspetta
un assegno vitalizio pari all'ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbero diritto
se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta e il comma 2 stabilisce che i figli nati fuori del
matrimonio hanno diritto di ottenere su loro richiesta la capitalizzazione dell'assegno loro spettante a
norma del comma 1, in denaro, ovvero, a scelta degli eredi legittimi, in beni ereditari; l'art. 594 cc
obbliga eredi, legatari e donatari, in proporzione a quanto hanno ricevuto, a corrispondere ai figli nati
fuori del matrimonio non riconoscibili un assegno vitalizio nei limiti stabiliti dall'art. 580 cc se il
genitore non ha disposto per donazione o testamento in favore dei figli medesimi.

Sebbene manchi un'espressa disposizione di legge, al nato in costanza di matrimonio viene imposto il
cognome del padre secondo una norma desumibile dal sistema che è frutto di una tradizione sociale
radicata, sebbene altri ordinamenti vi siano soluzioni più rispettose del principio di eguaglianza tra
coniugi, come accade ad esempio in Spagna dove al figlio viene trasmesso sia il cognome della madre
sia quello del padre. Ad esempio in Germania i coniugi hanno la facoltà di scegliere il cognome della
famiglia e qualora marito e moglie non abbiano espressamente scelto un cognome comune continuano a
portare il loro diversi cognomi di nascita.
I criteri per determinare il cognome da attribuire al figlio nato fuori del matrimonio sono quelli di
cui all'art. 262 cc la norma prevede l'assunzione esclusiva del cognome paterno nell'ipotesi di
riconoscimento contestuale effettuato da entrambi i genitori; qualora il riconoscimento avvenga in tempi
diversi la regola è quella della priorità del riconoscimento, salva la possibilità per il figlio, nel caso di
riconoscimento successivo da parte del padre, di assumere il cognome paterno aggiungendolo,
anteponendo o sostituendolo a quello materno. Il comma 3 prevede che se la filiazione nei confronti del
genitore è stata accertata-riconosciuta successivamente all'attribuzione del cognome da parte
dell'ufficiale dello stato civile il figlio possa mantenere il cognome in precedenza attribuitogli, ove lo
stesso sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o
sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in
caso di riconoscimento da parte di entrambi--> questa regola vale per il figlio maggiorenne; nel caso di
minore età è il giudice che decide nell'esclusivo interesse del minore e previo ascolto del minore stesso
qualora abbia compiuto 12 anni o anche età inferiore sei capace di discernimento.
Un altro problema si pone quando il figlio perde il cognome paterno a seguito di azione di
contestazione o di disconoscimento o a seguito all'annullamento dell'atto di riconoscimento in
virtù del quale aveva assunto il cognome paterno l’art. 95 comma 3 d.p.r. 396/2000 prevede che
in questi casi l'interessato possa comunque richiedere al giudice il mantenimento del cognome in origine
attribuitogli, se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale. L'art. 33
d.p.r. prevede che eguale facoltà di scelta è concessa al maggiorenne che subisce il cambiamento o la
modifica del proprio cognome a seguito della variazione di quello del genitore dal quale il cognome
deriva, nonché al figlio di ignoti riconosciuto da uno dei genitori o contemporaneamente da entrambi.
In virtù delle norme sull’attribuzione del cognome familiare rispetto a quanto previsto dalla
Costituzione, la dottrina è divisa tra chi ritiene che queste norme non siano rispettose del principio di
uguaglianza e chi invece giustifica il permanere di questo assetto normativo in virtù di quanto disposto
dall'art. 29 comma 2 cost che prevede che siano posti limiti all'eguaglianza tra coniugi a garanzia
dell'unità familiare la corte cost, intervenuta sulla compatibilità con il principio di eguaglianza del
sistema di attribuzione del cognome ai figli, aveva dichiarato la questione inammissibile, pur non
escludendo che la regola di trasmissione del cognome paterno potesse essere superata in virtù
dell'evoluzione dei costumi sociali. Successivamente la corte ha rigettato la questione di legittimità
affermando tuttavia l'urgenza di un intervento del legislatore per adeguare ai principi costituzionali un
sistema che si pone in contrasto con il principio di uguaglianza; in merito la Corte Edu ha di recente
affermato che viola il diritto al rispetto della vita privata sancito dall'art. 8 nonché il divieto di
discriminazione in ragione del sesso la normativa italiana che impedisce la trasmissione del cognome
materno al figlio nato nel matrimonio e che, nonostante la richiesta dei genitori, impone quello
paterno la corte ha invitato il legislatore a riformare la legislazione al fine di assicurare il rispetto
delle garanzie previste dalla convenzione. Il legislatore a tal proposito ha presentato un ddl nel 2014
che prevede l'abolizione della trasmissione automatica ai figli del cognome paterno, lasciando
libertà di scelta ai genitori: è prevista l'introduzione dell'art. 143 quater cc che prevede che il figlio
nato nel matrimonio possa assumere il cognome del padre o della madre o di entrambi i genitori la
seconda di quanto decidano consensualmente i genitori all'atto della dichiarazione di nascita mentre, in
caso di mancato accordo, al figlio sono attribuiti i cognomi di entrambi i genitori seguendo l'ordine
alfabetico. La medesima regola viene contemplata per i figli nati fuori del matrimonio che sono
riconosciuti i contemporaneamente da entrambi i genitori; invece nel caso di riconoscimenti successivi
nel tempo, il figlio assumerà il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto, al quale
aggiungere il cognome del genitore che lo riconosce in un secondo momento solo a condizione che ci
sia il consenso dell'altro genitore e il consenso del minore che abbia compiuto 14 anni.
Nell’attuale ordinamento sono previste norme relative alle aggiunte o modifiche del cognome
l’art. 89 DPR 396/2000 prevede la possibilità per chiunque di fare richiesta per cambiare il cognome o
aggiungerne un altro al proprio. Il prefetto, che è competente nel decidere sulla richiesta, dovrà valutare
se le ragioni addotte siano idonee a giustificare tale concessione e in particolare dovrà contemperare
l'interesse pubblico alla tendenziale stabilità del nome con gli interessi privati addotti dai ricorrenti.
Nel tempo si sono sviluppate tecniche mediche volte a realizzare il concepimento di un essere umano
indipendentemente dalla congiunzione fisica dell'uomo della donna--> infatti la fecondazione può venire
direttamente nell'utero della donna oppure in vitro mediante la formazione di embrioni che vengono
successivamente trasferiti nel corpo della donna.
Dopo un lungo periodo il legislatore è intervenuto nel 2004 a regolare la materia che è stata introdotta
con l. 40/2004 recante le norme in materia di procreazione medicalmente assistita..> le ragioni del
ritardo con cui legislatore italiano intervenuto e del carattere limitativo e sanzionatorio della legge si
spiegano in considerazione delle opposte visioni della vita umana che caratterizzano la società italiana: è
condivisa una concezione sacrale della vita umana che condanna qualsiasi intervento dell'uomo nella
sfera della riproduzione e della sessualità tale concezione conduce a una legislazione in termini di
divieto delle pratiche di fecondazione assistita. In linea di principio l'ordinamento italiano contempla il
diritto alla procreazione, correlato all'esercizio del diritto alla propria libertà sessuale questo diritto si
desume anche dall'art. 1 l. 194/1978 che disciplina l'interruzione volontaria della gravidanza e inoltre
l'art. 2 cost, nel riconoscere i diritti inviolabili della persona, non può non contemplare quello alla libertà
di trasmettere la vita: se da un lato non si è mai dubitato della piena e assoluta libertà di procreare con
mezzi naturali, tuttavia il ricorso a tecniche artificiali porta dubbi e incertezze, motivati dalla
preoccupazione che siano pregiudicati gli interessi del nascituro.
Tutto l'impianto originario della legge era caratterizzato dall'intento di porre limiti rigorosi alle
tecniche di procreazione assistita:

 il ricorso alle tecniche era consentito qualora non vi fossero altri metodi terapeutici efficaci per
rimuovere le cause di sterilità o infertilità come prescritto all'art 1 comma 2
 vi erano rigidi requisiti soggettivi
 il consenso informato è di tipo circostanziato
 vige il divieto di fecondazione post mortem
 vige di divieto di maternità surrogata
 occorre l'autorizzazione regionale della struttura nella quale gli interventi possono essere
esclusivamente realizzati
 i sanitari possono sollevare obiezione di coscienza

Inoltre era previsto il divieto di fecondazione eterologa, ossia quella fecondazione effettuata con
materiale genetico di soggetto diverso dai membri della coppia in ogni caso la legge disciplinava le
conseguenze della violazione del divieto prevedendo che il nato conseguisse lo status di figlio del
marito o del partner e che il predetto status non potesse essere impugnato e che il donatore dei gameti
non acquisisse alcuna relazione giuridica parentale: la corte cost recentemente ha fatto venir meno il
divieto pertanto oggi la fecondazione eterologa è ammissibile. L'art. 14 nella sua formulazione
originaria sanciva il divieto di produrre più di 3 embrioni per ogni ciclo terapeutico e prevedeva che
tutti quelli prodotti fossero impiantati contemporaneamente, stante il divieto di crioconservazione la
corte cost ha decretato l'illegittimità costituzionale del comma 2, pertanto oggi sono producibili
embrioni in numero maggiore di 3 ma in ogni caso non oltre il limite dello stretto necessario e non tutti
quelli prodotti debbano essere impiantati contestualmente, con la conseguenza che diviene possibile la
crioconservazione degli embrioni prodotti e non impiantati da potersi utilizzare nei successivi tentativi
di gravidanza. Vige tuttora il divieto di sperimentazione sugli embrioni, rispetto ai quali è unicamente
ammessa la ricerca clinica e sperimentale con finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte
alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso, ferma in ogni caso la proibizione di ogni
forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni; è altresì vietata la soppressione degli embrioni,
salvo il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza; è inoltre vietata la riduzione embrionaria
di gravidanza plurima conseguente al trasferimento di più embrioni, salvo il ricorso all'aborto o ove
sia fonte di rischio per la salute psicofisica della donna. L’atteggiamento di prudenza che aveva guidato
il legislatore trova la sua ragione nell'intento di assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti nel
procedimento di procreazione, compreso il diritto del concepito in favore del quale sono state
predisposte specifiche misure di protezione l’embrione umano è destinatario di una tutela
circostanziata, relativa alla fase della sua produzione e della sua esistenza, a giustificazione del divieto
di sperimentazione e di crioconservazione.
Sebbene la disciplina sia stata introdotta nel 2004 stata, è stata oggetto di interventi demolitori
soprattutto da giurisprudenza parte della giurisprudenza al fine di rendere più agevole la scelta di
diventare genitori che viene giudicata meritevole di protezione al pari degli altri valori costituzionale
coinvolti dalle tecniche di fecondazione assistita.

La l. 40/2004 dispone che il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito
solo quando sia accertata l'impossibilità di rimuovere altrimenti le cause di sterilità o infertilità ed è
comunque circoscritto a quei casi di sterilità o infertilità inspiegata o dipendenti da causa accertata e, in
ogni caso, occorre una certificazione medica in proposito pertanto il ricorso alle tecniche presuppone
una vera e propria impossibilità della propria azione e ciò ha significato che coppie fertili ma
portatrici di malattie genetiche non potessero fare ricorso alla fecondazione in vitro, allo scopo di
procedere ad indagini diagnostiche sull'embrione onde accertarne le condizioni di salute e
conseguentemente impiantare i soldi embrioni risultati sani. Il divieto di diagnosi preimpianto a
finalità eugenetica risultava poi sancito nel d.m. del 2004 che conteneva le linee guida in materia di
procreazione medicalmente assistita, il cui scopo era quello di specificare i contenuti tecnici della legge
e nel decreto si era limitato l'ambito della diagnosi sull'embrione da impiantare a quella di tipo
osservazionale, che consentiva di valutare la compattezza e l'aggregazione delle cellule ma non di
individuare eventuali anomalie genetiche e perciò risultava preclusa anche la diagnosi preimpianto
senza finalità eugenetica; successivamente il giudice amministrativo ha dichiarato illegittima, per
eccesso di potere, la limitazione alla sola indagine di tipo osservazionale e aveva annullato la previsione
contenuta nel decreto ministeriale. Con d.m. del 2008 il ministro della Salute ha provveduto
all'aggiornamento delle linee guida originarie eliminando il limite costituito dalla sola indagine di tipo
osservazionale ma mantenendo fermo il divieto di diagnosi preimpianto a finalità eugenetica. Solo a
seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 14 comma 2 e della caducazione del
limite la diagnosi genetica preimpianto è diventata praticabile in quanto i medici avrebbero avuto a
disposizione più embrioni e potevano stabilire secondo le tecniche della scienza quali e quanti embrioni
impiantare rimane dubbio se a tali indagini possono legittimamente fare ricorso anche coppie fertili
ma portatrici di malattie genetiche, in quanto la norma limita l'accesso alla procreazione assistita alle
sole coppie sterili o infertili; il d.m. del 2008 aveva consentito l'accesso alla procreazione medicalmente
assistita anche ai portatori di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezione da HIV, epatite B
ed epatite C l'estensione si fonda sul convincimento che queste malattie, in ragione del rischio elevato
di infezione per la madre o per il feto, costituiscano causa ostativa alla procreazione in quanto
imponendo l'adozione di precauzione si traducono in una condizione di infecondità. A di fuori delle
malattie sessualmente trasmissibili individuate dal d.m. nessuna norma di legge e nessun regolamento
autorizzano a fondare in via interpretativa un'estensione dell’accesso alle tecniche ai casi in cui
all'interno della coppia non ci sia sterilità o infertilità ma solo un rischio di trasmissibilità di malattie
genetiche al feto tuttavia in tal senso a favore delle sensibilità si era pronunciato il Tribunale di
Salerno che ha consentito a una coppia fertile portatrice di una malattia genetica trasmissibile in via
ereditaria di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi preimpianto con selezione
embrionaria. Sul tema è intervenuta la Corte Edu interpellata da una coppia italiana portatrice sana di
una patologia genetica che si era vista negare l'accesso alla propria azione medicalmente assistita e alla
diagnosi preimpianto e chiedeva di poter accedere all'impianto dei soli embrioni sani al fine di
scongiurare il concepimento di un feto affetto da malattia la Corte ha accolto le doglianze della
coppia e ha dichiarato l'incompatibilità della proibizione prevista dalla legge con l’art. 8 Cedu rilevando
che sebbene la legge attribuisca al legislatore spazi di discrezionalità nel limitare la libertà ad operare
scelte attinenti alla sfera personale e familiare, tuttavia il legislatore non può esercitare tale
discrezionalità in modo il ragionevole ad esempio precludendo il ricorso alla procreazione
medicalmente assistita ai genitori non sterili ma portatori di malattie ereditarie al fine di scongiurare il
sacrificio degli embrioni malati ma prevedendo dall'altro lato il ricorso all'aborto terapeutico in caso di
feto malato. Nonostante l'intervento della Corte Edu il divieto di accesso alle tecniche previsto nei
confronti delle coppie fertili ma portatrici di malattie genetiche non può essere superato in via
interpretativa attraverso la disapplicazione diretta del divieto: a tal proposito si può constatare come i
giudici di merito hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 nella parte in cui non
consente il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili ma portatrici di
patologie geneticamente trasmissibili in riferimento agli art 2, 3, 32 e 117 Cost (in relazione agli art 8 e
14 Cedu).

La legge fa espresso divieto di ricorso alla procreazione di tipo eterologo tale divieto è stato
oggetto di dibattito. La legge era fin dall'inizio incoerenze poiché da un lato vietava inseminazione
eterologa ma dall'altro lato attribuiva comunque al nato lo status di figlio del marito, frustrando così
l’unico possibile fondamento razionale del divieto, che è quello di assicurare il diritto all'identità
genetica della persona. Dopo la legge del 2004 il dibattito sulla legittimità del divieto di fecondazione
eterologa ha coinvolto anche la Corte Edu e la Corte Cost per quanto riguarda la Corte Edu, di
recente a seguito della richiesta del governo austriaco di un caso di particolare importanza questa ha
deciso in Grande Camera, sostenendo che il legislatore austriaco nel disciplinare la procreazione
medicalmente assistita e ponendo il divieto di fecondazione eterologa in vitro non aveva ecceduto il
margine di discrezionalità concessogli dalla Convenzione né per quanto riguarda il divieto di donazione
di ovuli né per quanto attiene al divieto di donazione di sperma la corte ha ritenuto che il divieto
previsto dalla legge austriaca persegua uno scopo legittimo, ossia la protezione della salute e della
morale. La Corte ha anche affermato che gli stati godono di un margine di discrezionalità nel
disciplinare la procreazione medicalmente assistita e che, poiché l'utilizzo della fecondazione in vitro ha
sollevato questioni di ordine etico in merito alle quali non c'è omogeneità di giudizio tra gli stati
membri, questa discrezionalità ha un contenuto ampio che ricomprende sia la decisione degli stati di
legiferare in materia sia la possibilità di adottare regole al fine di ricercare un equilibrio tra gli opposti
interessi pubblici e privati. Questa vicenda decisa dalla Corte Edu ha avuto effetti anche
nell'ordinamento italiano, il quale vietava la fecondazione eterologa anche se poi ne disciplinava gli
effetti--> a seguito di una serie di ordinanze di rimessione, la corte cost ha dichiarato l'illegittimità
dell'art. 4 comma 3 nella parte in cui vieta il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente
assistita di tipo eterologo qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o
infertilità assoluta ed irreversibile e ha conseguentemente dichiarato illegittimo l'art. 9 commi 1 e 3 e
l'art. 12 comma 1 che sanziona penalmente la condotta dei medici e delle strutture che praticano questa
tecnica.
In base alla legislazione vigente, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita:

 coppie di maggiorenni di sesso diverso coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile


 membri della coppia che siano entrambi viventi
è proibita la fecondazione assistita del single o di chi viveva in una coppia omosessuale, in
considerazione del diritto del figlio alla doppia figura genitoriale che trova sia fondamento
costituzionale sia solide basi psicopedagogiche: può accadere che la donna single o partner di coppia
omosessuale ricorrano alla propria azione di tipo eterologo all'estero in paesi in cui l'accesso alle
tecniche sia consentito anche a persone non unite in matrimonio o persone unite dello stesso sesso: in
questo caso qualora la donna abbia successivamente partorito in Italia il nato verrà denunciato
all'anagrafe come figlio riconosciuto di donna non coniugata. Il ricorso alla procreazione medicalmente
assistite da parte di soggetti che non hanno le caratteristiche previste dalla legge e punito con sanzione
amministrativa pecuniaria nei soli riguardi del medico che l'abbia praticata.

L’art. 8 l. cit. determina lo stato giuridico del nato a seguito dell'applicazione delle tecniche di
procreazione medicalmente assistita, che è quello di figlio nato nel matrimonio, se la coppia genitoriale
è coniugata lo stato di figlio matrimoniale è conseguenza del carattere omologo della fecondazione,
ma consegue anche a quella eterologa posto che in virtù di quanto prescritto nell'art. anche i nati dalla
tecnica di fecondazione eterologa hanno lo stato di figli nati nel matrimonio: ciò si ricava altresì
dalla previsione di cui all'art. 9 comma 1 che impedisce al marito il cui consenso alla fecondazione
eterologa della moglie sia riconoscibile da atti concludenti di esperire l'azione di disconoscimento della
paternità sul presupposto che il figlio, sebbene non biologicamente del marito, consegua comunque lo
stato di figlio nato nel matrimonio in forza di quanto previsto dagli artt. 231 e 232 cc  con riguardo al
tenore letterale dell'art. 9 si pone un’ulteriore precisazione: a seguito della riforma del 2012 sulla
filiazione e del relativo decreto attuativo è stato abrogato l'art. 235 cc relativo all’azione di
disconoscimento, la quale è ora regolata dall'art. 243 bis; il d.lgs. attuativo è intervenuto sulla l. 40/2004
per adeguare la terminologia dell'art. alla scomparsa dell'espressione figli legittimi, che ora è stata
sostituita con quella di figli nati nel matrimonio ma non ha modificato il testo dell'art. 9, che continua a
rinviare ai casi previsti dall'articolo 235 comma 1 numeri 1 e 2 del codice civile -->alla luce
dell'abrogazione dell'art. 235 cc il rinvio operato dall'art. 9 si intende riferito all’art. 243 bis cc, il quale
non comprende più l'elencazione casistica della previgente disposizione, consentendo a chi eserciti
l'azione di disconoscimento di provare con ogni mezzo che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio
e il presunto padre. L'art. 9 comma 1 nel prevedere che il coniuge non possa esercitare l'azione di
disconoscimento della paternità, non precisa se l'azione sia inibita esclusivamente al marito o se gli altri
soggetti legittimati quali il figlio e la madre possano agire se è pacifico che la madre non possa
impugnare la maternità come si ricava da quanto previsto nel comma 2 è invece problematico stabilire
se il divieto si estenda al figlio: secondo un orientamento dottrinale si deve ritenere che il figlio non
possa comunque esperire l'azione di disconoscimento della paternità sia perché la soluzione contraria
introdurrebbe un’eccezione al divieto di disconoscimento della paternità sia tenuto conto che il figlio
non potrebbe successivamente conseguire un accertamento della paternità in quanto l'art. 9 comma 3
prevede che il donatore dei gameti non acquisisca alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non
può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi.
La legge stabilisce che qualora la coppia non sia coniugata il figlio consegua lo stato di figlio
riconosciuto non è chiaro se questo stato sia conferito per legge o se invece occorre il riconoscimento
dei genitori secondo i principi generali: appare preferibile ritenere che la disposizione nulla abbia
innovato in ordine all'acquisizione dello status e che quindi occorre sempre il riconoscimento di
ciascuno dei genitori, in difetto del quale dovrà esperirsi l'azione di dichiarazione giudiziale e della
genitorialità. L'art. 9 comma 2 l. cit. prevede che la madre del nato non possa dichiarare la volontà di
non essere nominata ai sensi dell'art. 30 comma 1 d.p.r. 396/2000  questa disposizione appare di
difficile applicazione in quanto l'ufficiale di stato civile non ha la possibilità di sapere se la nascita che
gli viene denunciata come da donna che non consente di essere nominata sia conseguenza di
fecondazione medicalmente assistita; la donna che, nonostante la disposizione non consenta di non
essere nominata, non è esposta al reato di alterazione di stato di cui all'art. 567 comma 2 cp in quanto si
tratta di reato commissivo. L'art. 9 comma 3 enuncia il principio secondo cui in caso di applicazione di
tecniche di tipo eterologo il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il
naso e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto e non è titolare di obblighi.
Le tecniche di procreazione hanno riguardato anche il profilo della maternità, dando luogo a questioni
rilevanti soprattutto sul piano etico in quanto un fenomeno di particolare rilevanza è quello della
maternità surrogata dove una donna si assume l'obbligo di portare a termine una gravidanza per conto
di una coppia sterile, alla quale si impegna poi a consegnare il bambino la donna che si presta a
condurre a termine la gravidanza può essere fecondata artificialmente con il seme del marito della donna
committente (caso della maternità surrogata) oppure può ricevere il trasferimento di un embrione già
concepito in vitro (caso dell'affitto di ventre); prima dell’entrata in vigore della legge si era sviluppato
un dibattito dottrinale e giurisprudenziale in ordine alla legittimità della maternità surrogata, che oggi
viene considerata espressamente vietata ed è sanzionata penalmente anche nei riguardi della
coppia committente e della madre portante, oltre che del medico. Inoltre il disposto dell'art. 9
comma 3 conferma che la donna che ha partorito è l'unica alla quale va attribuita la maternità, essendo
giuridicamente irrilevante il fatto che l'embrione che le è stato impiantato in utero fosse formato da
materiale genetico di un'altra donna: l'eventuale formazione di un atto di nascita che indichi quale madre
una donna diversa da quella che ha partorito integra la fattispecie di alterazione di stato e può dar luogo
alla stazione di contestazione della maternità. Si può quindi affermare che gli accordi di surrogazione e
la loro attuazione sono improduttivi di effetti in quanto vige il principio secondo il quale la maternità è
attribuita a colei che ha partorito il figlio e ciò consente di risolvere le delicate questioni di status del
nato da surrogazione di maternità che si erano poste prima dell'entrata in vigore della legge e anche
quelle che possono sorgere a seguito della violazione del divieto oppure quando sia stata realizzata
un'ipotesi di maternità surrogata a tal riguardo emblematico è il caso dello scambio accidentale di
embrioni presso un ospedale romano in cui 2 coppie si erano separatamente rivolte per ricorrere a
tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo omologo, ma per un errore umano gli embrioni
formati con il patrimonio genetico di una coppia sono stati impiantati nell'utero della donna dell'altra
coppia che ha partorito 2 gemelli con il patrimonio genetico diverso da quello proprio del suo marito:
questa fattispecie presenta affinità con le ipotesi dell'affitto diventa, ma con la particolarità che ciò che è
accaduto è stato involontario in quanto non c'era la volontà della gestante di affittare il proprio utero. Si
tratta di una fattispecie che il diritto non contenta ma che comunque può trovare composizione in via
interpretativa potendosi ravvisare nell'art. 9 comma 3 e dell'art. 8 le regole che consentono di
individuare chi sia la madre chi sia il padre del nato a seguito di surrogazione di maternità pertanto
sarà madre colei che ha partorito e padre il di lei marito e in questo senso si è pronunciato il
Tribunale di Roma, che ha riconosciuto la maternità della partoriente e la paternità del di lei marito,
adottando una soluzione che risulta condivisibile in quanto conferma l'operatività delle regole di diritto
che disciplinano l'attribuzione della genitorialità secondo le quali la maternità risulta indissolubilmente
legata al parto.
Sorgono dubbi in ordine allo status dei figli quando una coppia italiana ricorda alla maternità
surrogata in paese in cui questa pratica è consentita c'è il problema del riconoscimento
nell'ordinamento italiano dello status che il nato da maternità surrogata consegua nello stato in cui ha
avuto luogo la nascita: a riguardo nulla è previsto dalla legge sulla procreazione medicalmente assistita
in quanto il legislatore non ha regolato i profili giuridici concernenti lo status del nato da maternità
surrogata sotto la vigenza di un ordinamento straniero in cui la maternità surrogata è ammessa e
nell'ambito del quale il figlio ha conseguito lo status di figlio della coppia committente  riguardo
trovano applicazione le disposizioni del diritto internazionale privato e in particolare l'art. 33 l.
218/1995 che sottopone l'accertamento e la contestazione della filiazione alla legge nazionale del
figlio al momento della nascita o, se più favorevole, alla legge dello stato di cui uno dei genitori e
cittadino: ciò comporta che il figlio commissionato da genitori italiani acquisti alla nascita la
cittadinanza dello stato in cui è nato l'accertamento dello stato di figlio è regolato dal relativo
ordinamento, perciò qualora questo ordinamento attribuisca al nato lo stato di figlio dei genitori
committenti si formerà un corrispondente atto di nascita che potrei essere successivamente trascritto in
Italia a riguardo la Corte d'Appello di Bari ha affermato la riconoscibilità del ns ordinamento di 2
parental order resi nel Uk che attribuivano a una cittadina italiana la maternità di 2 bambini nati da una
cittadina inglese a seguito di surrogazione eterologa di maternità e nel caso di specie la Corte ha ritenuto
che gli accordi surrogatori non fossero contrari all'ordine pubblico internazionale in virtù
dell’ammissione da parte di alcuni stati dell'Ue delle tecniche di surrogazione e in ogni caso del
prevalere del principio generale dell'interesse superiore del minore. La Corte Edu ha condannato la
Francia per non aver riconosciuto il rapporto di filiazione derivante da un contratto di maternità
surrogata stipulato all'estero secondo la legislazione permissiva del paese in cui ha avuto luogo alla
nascita e di cui il nato ha acquisito la cittadinanza in quanto viola il diritto al rispetto della vita privata
del figlio ai sensi dell'art. 8 Cedu. Tuttavia la Cassazione si è pronunciata in senso contrario, affermando
che le pratiche di surrogazione di maternità siano da considerare contrarie all'ordine pubblico in quanto
poste a presidio della dignità umana della gestante e del l'istituto dell'adozione e la Corte afferma che il
divieto di maternità surrogata non si pone in contrasto con il superiore interesse del minore in quanto il
legislatore ha considerato come tale interesse venga meglio realizzato attraverso l'attribuzione della
maternità a colei che partorisce e ritenendo altresì come la giurisprudenza della Corte Edu lasci ampia
discrezionalità agli stati membri sul tema della maternità surrogata.

CAPITOLO 11: L’ADOZIONE E L’AFFIDAMENTO


L’art. 315 bis comma 2 cc e art 1 l. adoz. riconosce al fanciullo il diritto di crescere ed essere educato
nella propria famiglia e al fine di assicurare l'effettiva soddisfazione di tale diritto e onde
prevenire l'abbandono sono previsti interventi di sostegno e di aiuto da parte dello stato, delle
regioni e degli enti locali. Nell’ipotesi in cui la famiglia biologica non sia in grado di provvedere alla
crescita e all'educazione del fanciullo, la legge disciplina gli istituti dell'affidamento e dell'adozione:

 l'affidamento ha lo scopo di fornire un ambiente familiare idoneo al fanciullo che ne sia


temporaneamente privo
 l'adozione crea un rapporto pieno di filiazione tra soggetti che non sono uniti da un vincolo di
sangue

In passato l'adozione aveva lo scopo di consentire a soggetti privi di figli di trasmettere il proprio
cognome e il proprio patrimonio questa funzione non è più quella che attualmente l'istituto è chiamato
a svolgere: infatti l'adozione ha lo scopo di consentire l'inserimento del fanciullo, privo di una famiglia
che sia in grado di provvedere alle sue esigenze di vita, all'interno di una nuova famiglia, nell'ambito
della quale posso trovare un ambiente adatto alla sua crescita l'adozione si pone come strumento
diretto a tutelare l'interesse dell'adottato ad avere una famiglia idonea e, solo in via indiretta, assolve la
funzione di soddisfare gli interessi degli adottanti ad avere un figlio.
La svolta tra la vecchia e la nuova adozione è avvenuta con l. 431/1967 che ha introdotto la cd adozione
speciale e la l. 184/1983 ha adeguato la l. del 1967 ai principi contenuti nella Convenzione di Strasburgo
del 1967 ratificata in Italia nel 1974: quest'ultima ha abolito l'originario limite massimo di età di 8 anni,
rendendo possibile l'adozione per tutti i minori abbandonati e ha regolato anche l'adozione
internazionale, la cui disciplina è stata poi successivamente modificata nel 1998 a seguito dell'adesione
dell'Italia alla Convenzione dell'Aja. La l. 149/2001 ha modificato la legge del 1983 prevedendo
l'introduzione di una nuova disciplina processuale; il mutamento di titolo della legge non ha escluso
l'intenzione del legislatore di mettere al centro della disciplina legale l'interesse del minore che è quello
di crescere ed essere educato nella propria famiglia e non può essere ostacolato dalle condizioni di
indigenza dei genitori: per questo motivo sono disposti interventi di sostegno di aiuto e, solo quando la
famiglia non sia in grado di provvedere alla crescita e all'educazione, possono trovare applicazione gli
istituti dell'affidamento e dell'adozione tuttavia nel 2001 il legislatore si è reso conto che l'adozione
rappresenta una soluzione per il fanciullo abbandonato ma è anche una sconfitta per la società in quanto
questa non è stata in grado di conservargli l'ambiente familiare in cui era nato. In questo senso appare
significativo l’art. 28 l. 2001 che contempla il diritto dell'adottato ad essere informato dai genitori
adottivi della propria adozione.

L'affidamento costituisce un rimedio destinato ad operare per un periodo limitato di tempo affinché
l'affidamento possa essere disposto occorre che, a causa di circostanze di carattere transitorio, i
genitori del minore non siano in grado di offrirgli le cure che gli necessitano : l'art. 2 comma 1 al
fine di valorizzare il diritto del fanciullo a crescere nella sua famiglia d'origine, stabilisce che può farsi
luogo all’affidamento solo laddove gli interventi di sostegno di aiuto disposti a favore della famiglia non
abbiano dato buoni risultati. L'affidamento viene disposta a favore di una coppia (preferibilmente con
figli minori) o di una persona singola qualora l'affidamento a coppie o a persone singole non sia
possibile, può farsi luogo all'inserimento del minore in una comunità di tipo familiare, che
preferibilmente abbia sede in un luogo vicino a quello in cui risiede la famiglia del minore; nel caso in
cui i genitori che esercitano la responsabilità genitoriale abbiano manifestato il consenso all'affidamento
questo viene disposto dal servizio sociale locale, sentito il minore che abbia compiuto i 12 anni e anche
il minore di età inferiore ove capace di discernimento e il provvedimento del servizio sociale viene poi
reso esecutivo con decreto del G.T. Qualora manca il consenso dei genitori l'affidamento può essere
disposta dal T.M.
L’art. 4 comma 3 l. adoz. individua il contenuto del provvedimento che deve indicare:

 le motivazioni per le quali l'affidamento è stato disposto


 i tempi e i modi dell'esercizio dei poteri riconosciuti all'affidatario
 le modalità tramite le quali i genitori e gli altri componenti del nucleo familiare possono
mantenere i rapporti con il fanciullo
 l'indicazione del servizio sociale al quale è attribuita la responsabilità del fiore dramma di
assistenza e il potere di vigilanza durante l'affidamento: il servizio sociale deve inoltre informare
il T.M. sull'evolversi della situazione con obbligo di presentare una relazione semestrale
 la durata del periodo di affidamento, da rapportarsi ai prevedibili tempi di recupero della
famiglia: la l. 149/2001 ha stabilito che la durata non può superare i 24 mesi, pur essendo
prorogabile dal T.M. qualora la sospensione dell’affidamento sia suscettibile di arrecare
pregiudizio al minore

L’art. 2 comma 1 e l'art. 5 comma 1 attribuiscono all'affidatario quel complesso di facoltà che si fanno
rientrare nella responsabilità genitoriale, pertanto costui ha il dovere di accogliere il minore presso di sé,
di provvedere al suo mantenimento, istruzione, educazione e assicurargli le relazioni affettive di cui ha
bisogno, tenendo comunque conto delle prescrizioni fissate dall'autorità e delle indicazioni dei genitori
che non siano stati dichiarati decaduti dalla responsabilità genitoriale; l'affidatario esercita i poteri
relativi ai rapporti ordinari con l'istituzione scolastica e con le autorità sanitarie e deve essere sentito nei
procedimenti in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore.
Il compito di agevolare i rapporti tra il minore la sua famiglia di origine e favorirne il rientro spetta al
servizio sociale, il quale si occupa altresì di svolgere opera di sostegno educativo e psicologico.
L’affidamento familiare viene meno:

 quando la situazione di temporanea difficoltà della famiglia sia stata superata


 quando la sua prosecuzione risulti pregiudizievole per il minore
 nel caso in cui sopravvenga una definitiva situazione di abbandono in quanto in questo caso si
deve procedere ad aprire la procedura di adottabilità: al fine di salvaguardare i rapporti affettivi
sorti, l'affidamento preadottivo potrà eventualmente essere disposto a loro favore qualora
sussistano i requisiti per l'adozione

L'adozione rappresenta un rimedio estremo al quale fare ricorso solo quando la famiglia d'origine
non possa offrire al figlio quel minimo di cure e di affetto che sono indispensabili per una crescita
equilibrata questo principio è stato enunciato espressamente all'art. 1 l. 184/1983 che ribadisce il
diritto del figlio a crescere e ad essere allevato nella famiglia d'origine e che l'affidamento sia possibile
solo quando la famiglia non sia in grado di provvedere ai propri compiti, precisando che le condizioni di
indigenza dei genitori non possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del figlio alla propria
famiglia. Ai sensi dell'art. 7 comma 1 l'adozione è consentita nei confronti di minori dichiarati in stato
di adottabilità; ai sensi dell'art 8 comma 1 vengono dichiarati in stato di adottabilità dal T.M. del
distretto nel quale si trovano i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di
assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi che sono i parenti
entro il quarto grado ad escludere lo stato di abbandono non è sufficiente che tali soggetti si limitano
a manifestare la loro disponibilità per il futuro, ma occorre che abbiano già maturato con il bambino un
rapporto continuativo da cui sia scaturito un vincolo di aspetto; l'art. 8 comma 2 precisa che la
situazione di abbandono sussiste anche quando i minori si trovino ricoverati presso istituti pubblici o
privati o presso comunità di tipo familiare ovvero siano in affidamento familiare.
La giurisprudenza precisa che lo stato di abbandono non richiede necessariamente un comportamento
omissivo dei genitori ma sussiste anche quando questi ultimi, con comportamenti commissivi,
espongono ad un grave ed irreversibile pregiudizio il sano sviluppo psicofisico del figlio  secondo un
orientamento consolidato lo stato di abbandono va inteso in senso oggettivo, prescindendo da
qualsiasi elemento di volontarietà o di colpevolezza dei genitori e dando rilievo solamente alla
violazione dei diritti del figlio: è stata affermata la sussistenza di uno stato di abbandono in ipotesi di
condotta gravemente immorale o disordinata dei genitori, in caso di maltrattamenti ai danni del
fanciullo, di induzione all'accattonaggio, di abusi sessuali, di malnutrizione, di cattiva igiene personale
del figlio, di tossicodipendenza dei genitori.
La riforma del 2012 ha delegato il governo a precisare la nozione di abbandono morale e materiale dei
figli con riguardo alla provata irrecuperabilità delle capacità genitoriali in un tempo ragionevole da parte
dei genitori, fermo restando che le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la
responsabilità genitoriale non possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla propria
famiglia in attuazione di questo, il d.lgs. del 2013 ha modificato l'art. 15 comma 1 lettera c) l. adoz.
che prevede che ove risulti la abbandono morale e materiale lo stato di adottabilità del minore è
dichiarato dal T.M. quando le prescrizioni impartite dal tribunale stesso ai sensi dell'art. 12 siano rimaste
inadempiute per responsabilità dei genitori ovvero quando è provata l’irrecuperabilità delle capacità
genitoriali dei genitori in un tempo ragionevole: la formula legislativa va interpretata come carenza non
solo di assistenza materiale ma soprattutto di assistenza morale, in quanto il legislatore ha inteso
attribuire rilevanza preponderante al presupposto del bisogno morale poiché la carenza di assistenza
materiale è facilmente rimediabile attraverso interventi di sostegno alle famiglie.
Con la riforma del 2012 è stato delegato il compito al governo di individuare e disciplinare la
segnalazione ai comuni, da parte dei T.M., delle situazioni di indigenza di nuclei familiari che ai sensi
della legge sull'adozione richiedano interventi di sostegno per consentire al minore di essere educato
nell'ambito della propria famiglia, nonché a predisporre i controlli che il T.M. effettua nelle situazioni
segnalate agli enti locali ne è derivato l'introduzione dell’art. 79 bis che ha stabilito che il giudice
segnala ai comuni le situazioni di indigenza dei nuclei familiari che richiedono interventi di sostegno
per consentire al minore di essere educato nell'ambito della propria famiglia: la norma prescrive un
dovere di cooperazione tra il giudice (pm) che, nell’ambito di un procedimento giudiziario, venga a
conoscenza di una situazione familiare a rischio perché in grave indigenza, e i comuni che, in quanto
realtà locali tra le più vicine alle famiglie, possano intervenire tempestivamente al fine di evitare
l'allontanamento del minore dalla propria famiglia. L'intento del legislatore è quello di porre rimedio
alle condizioni di indigenza delle famiglie in via preventiva, attraverso una maggiore solerzia negli
interventi di sostegno sia sotto il profilo economico sia dell'assistenza domiciliare. La legge impedisce
la dichiarabilità dello stato di abbandono quando la mancanza di assistenza morale e materiale sia
dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio, da intendersi come causa contingente e
comunque reversibile, estranea alla condotta dei genitori: la rilevanza di questa situazione è stata ad
esempio esclusa in caso di detenzione, essendo quest'ultima la conseguenza di un comportamento
criminale del genitore, possono essere nella consapevolezza della possibile scarcerazione ed è stata
altresì esclusa in caso di malattia inguaribile del genitore e di disoccupazione volontaria.

La legge disciplina i requisiti formali e sostanziali che devono possedere coloro che aspirano ad
adottare un fanciullo l'art. 6 comma 1 richiede che gli aspiranti adottanti siano uniti in matrimonio
da almeno 3 anni e che tra loro non sussista o non abbia avuto luogo negli ultimi tre anni uno stato di
separazione personale, neppure di fatto; il comma 4 dispone che il requisito della stabilità del rapporto
possa ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto prima del matrimonio per un
periodo di 3 anni qualora il T.M. accerti la continuità e la stabilità della convivenza. In ogni caso
l'adozione è preclusa alla coppia di fatto: con la recente riforma sulla filiazione, rendendo unico lo stato
dei figli in matrimoniali e non matrimoniali, non sembra più possibile giustificare la previsione dell'art.
6 commi 1 e 4 che riserva solo ai coniugi la capacità di adottare (questa previsione potrebbe apparire
costituzionalmente illegittima per la violazione del principio di uguaglianza). La preclusione
all'adozione alla coppia omosessuale continua a trovare giustificazione sul presupposto che la famiglia
adottiva debba costituirsi sul modello di quella biologica e quindi contemplare sia la figura materna sia
la figura paterna tuttavia la Corte Edu ha ravvisato la violazione degli artt. 8 e 14 della Convenzione
nella previsione del codice civile austriaco che ammette l’adozione del figlio del partner eterosessuale
ma non del partner omosessuale: la corte ha condannato la legge austriaca per l’ingiustificata disparità
di trattamento tra coppie omosessuali ed eterosessuali e ha affermato il diritto del membro di una coppia
omosessuale ad adottare il figlio del partner; nel contempo però ha sottolineato che gli stati non sono
tenuti a riconoscere il diritto all'adozione dei figli dei partners di fatto.
Il secondo requisito di carattere formale richiesto dalla legge e quello dell'età l'art. 6 comma 3
dispone che l'età degli adottanti deve essere superiore a quella dell’adottato di almeno 18 anni,
mentre la differenza massima di età è stata portata a 45 anni: questa disposizione è stata oggetto di
numerosi interventi da parte della corte cost, che l'aveva dichiarata illegittima. In sede di riforma il
legislatore si è uniformato ai principi dettati dalla Corte aggiungendo 2 commi:

 il comma 5 stabilisce che i limiti di cui al comma 4 possono essere derogati qualora il T.M.
accerti che dalla mancata adozione deriverebbe al minore grave e non altrimenti evitabile
pregiudizio
 il comma 6 dispone che l’adozione non è preclusa quando il limite massimo di età sia superato
solo da 1 degli adottanti in misura non superiore a 10 anni, oppure quando questi siano già
genitori di figli, anche a tutti, di cui almeno uno sia in età minore ovvero quando l'adozione
riguardi un fratello o una sorella del minore già dagli stessi adottato

Sotto il profilo sostanziale si richiede che i coniugi siano affettivamente idonei e capaci di educare,
istruire e mantenere i fanciulli che intendono adottare la corte cost ha precisato che l'accertamento del
giudice deve riferirsi all'intero nucleo familiare. Con riferimento a questo requisito si può osservare che
l'idoneità educativa degli aspiranti adottanti dovrebbe essere apprezzata sia in via generale sia con
particolare riferimento al minore del quale vanno assecondate esigenze che sono peculiari. Per quanto
attiene alle condizioni economiche, non dovrebbe rappresentare un ostacolo il fatto che si tratti di una
famiglia di modeste condizioni purché sia in grado di assicurare al minore un mantenimento decoroso.

L'adozione viene pronunciata al termine di un procedimento che si snoda attraverso 3 passaggi:


1. dichiarazione dello stato di adottabilità
2. affidamento preadottivo
3. provvedimento di adozione
La riforma del 2001 ha modellato il procedimento di adozione sulla falsariga del giudizio di cognizione
piena, consentendo la partecipazione degli interessati fin dall'inizio della procedura, prima della
dichiarazione dello stato di adottabilità, dando così attuazione al principio del contraddittorio l’art. 8
comma 4 prescrive che il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall'inizio con l'assistenza
legale del fanciullo e dei genitori o degli altri parenti che abbiano rapporti significativi con il medesimo .
Maggior rilievo assume la volontà del fanciullo in quanto prima di emanare i singoli provvedimenti
sussiste l'obbligo di ascoltare il minore che abbia compiuto i 12 anni o anche di età inferiore ove capace
di discernimento, in conformità con quanto disposto dall'art. 12 Convenzione di New York del 1989 sui
diritti del fanciullo.
Ai sensi dell'art. 9 l. adoz. chiunque ha facoltà di segnalare all'autorità pubblica situazione di
abbandono, mentre per i pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio e gli esercenti un
servizio di pubblica necessità la legge impone l'obbligo di segnalazione al procuratore della Repubblica
presso il T.M.; specifico obbligo di informativa è posto a carico degli istituti pubblici e privati e delle
comunità di tipo familiare, che ogni 6 mesi devono trasmettere al procuratore l'elenco dei minori che
sono collocati presso di loro e il procuratore ogni 6 mesi effettua ispezioni negli istituti di assistenza,
potendo procedere in ogni tempo ad ispezioni straordinarie. Il procuratore della Repubblica, assunte le
informazioni necessarie, con ricorso al T.M. chiede di dichiarare l'adottabilità di quelli, tra i minori
segnalati o collocati presso istituti di assistenza, comunità di tipo familiare o presso una famiglia
affidataria, che risultino in situazione di abbandono, specificandone i motivi ricevuto il ricorso il
presidente del tribunale provvede ai sensi dell'art. 10 all'immediata apertura della procedura e
dell'apertura del procedimento sono avvisati i genitori o, in mancanza, i parenti entro il 4° grado che
abbiano rapporti significativi con il minore e costoro vengono altresì invitati a nominare un difensore in
quanto altrimenti verrà loro nominato un difensore d'ufficio. Allo scopo di evitare che il protrarsi della
situazione di abbandono posta provocare al minore ulteriore i pregiudizi, la legge consente al Tribunale
di disporre in ogni momento e fino all’affidamento preadottivo tutti i provvedimenti provvisori che
appaiano opportuni nel suo interesse, ivi compresi il collocamento temporaneo presso una famiglia o
una comunità di tipo familiare, la sospensione della responsabilità genitoriale, la sospensione
dell'esercizio delle funzioni del tutore e la nomina di un tutore provvisorio. Se il minore ha genitori o
parenti entro il 4° grado che abbiano rapporti significativi con lui, questi vengono convocati davanti al
tribunale per essere sentiti e per verificare la loro disponibilità a prendersene cura: qualora se ne ravvisi
l’opportunità potranno loro essere impartita prescrizioni a tutela del fanciullo stabilendo al tempo stesso
periodici accertamenti.
Il tribunale provvede a dichiarare lo stato di adottabilità se i genitori e/o i parenti, ritualmente convocati:

 non si siano presentati senza giustificato motivo


 se la loro audizione abbia dimostrato la persistenza della mancanza di assistenza morale e
materiale e la non disponibilità ad ovviarvi
 se le prescrizioni impartite siano rimaste inadempiute

Se invece dalle indagini effettuate i genitori risultino deceduti o non ci siano parenti entro il 4° grado
che abbiano mantenuto significativi rapporti con il minore, il tribunale dichiara lo stato di abbandono , a
meno che non ci siano istanze di adozione semplice ex art. 44; ugualmente si provvede all'immediata
dichiarazione dello stato di adottabilità se i genitori sono ignoti, a meno che non venga fatta istanza di
sospensione da parte di chi, affermando di essere uno dei genitori, chieda un termine per procedere al
riconoscimento; qualora il genitore invece abbia meno di 16 anni la procedura è rinviata e può restare
sospesa per ulteriori 2 mesi dopo il compimento del 16° anno ove il genitore < 16 sia stato autorizzato
ad effettuare il riconoscimento potrà chiedere ulteriore sospensione per altri 2 mesi dopo
l'autorizzazione. In questi casi occorre comunque che nel frattempo al minore sia garantita un'adeguata
assistenza e a tal motivo il tribunale potrà nominare un curatore provvisorio: decorsi i termini qualora il
riconoscimento avviene la procedura si conclude mentre in caso in cui non avvenga il riconoscimento
viene dichiarato con sentenza lo stato di adottabilità.
Lo stato di adottabilità viene dichiarato dal T.M. del distretto in cui il minore si trova, previo
accertamento della situazione di abbandono. Durante lo stato di adottabilità all'esercizio della
responsabilità genitoriale è sospeso: qualora non abbia già provveduto in precedenza il tribunale non
minerà al minore un tutore una volta dichiarato, lo stato di adottabilità viene meno per adozione o per
raggiungimento della maggiore età e può altresì venir meno per revoca, la quale viene pronunciata dal
T.M. nell'interesse del minore qualora, dopo l'emanazione della sentenza dichiarativa dello stato di
adottabilità, sia venuta meno la situazione di abbandono.
Alla dichiarazione dello stato di adottabilità segue l'affidamento preadottivo del minore a una coppia di
coniugi che abbia presentato la relativa domanda al T.M.--> la domanda decade dopo 3 anni dalla
presentazione ma può essere rinnovata; il T.M., accertata la sussistenza dei requisiti di cui all'art. 6,
dispone l'effettuazione di adeguati indagini, dando la precedenza nell'istruttoria alle domande dirette
all’adozione di minori di età superiore ai 5 anni o con handicap accertato. Sulla base delle indagini
svolte il tribunale procede a una valutazione comparativa delle coppie che aspirano all'adozione e
sceglie quella maggiormente in grado di corrispondere alle esigenze del minore.
Durante il periodo di affidamento, il tribunale avvalendosi anche del G.T. e dei servizi sociali e dei
consulenti, esercita un'attività di vigilanza allo scopo di verificare il buon andamento . In caso di
difficoltà provvede a convocare anche separatamente gli affidatari e il fanciullo allo scopo di valutare le
cause che ne sono all'origine, disponendo ove necessario interventi di sostegno psicologico e sociale e,
se del caso, revocando l'affidamento.
Decorso 1 anno dall'affidamento preadottivo il T.M., previa verifica della sussistenza di tutti i
presupposti richiesti e dopo aver sentito i coniugi affidatari e loro figli se maggiore di 12 anni, il
minore che abbia compiuto 12 anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento, il pm, il
tutore e coloro che hanno svolto l'attività di sorveglianza e di sostegno si pronuncia sull'adozione
con sentenza in ogni caso il minore che abbia compiuto 14 anni deve espressamente manifestare il
proprio consenso ad essere adottato dalla coppia prescelta. Se durante l'affidamento preadottivo uno dei
coniugi muore o diventa incapace l'altro coniuge può comunque domandare che l'adozione venga
pronunciata a favore di entrambi e in questo caso l'adozione per il coniuge deceduto produce effetto
dalla data di morte; se durante l'affidamento preadottivo i coniugi si separano, l'adozione può essere
pronunciata, nell'esclusivo interesse del minore, a favore di entrambi o di uno solo, qualora venga
avanzata in stanza in tal senso.
La sentenza definitiva viene trascritta nell'apposito registro tenuto presso la cancelleria del tribunale e
viene annotata a margine dell'atto di nascita dell’adottato: in forza della pronuncia vengono meno tutti i
rapporti con la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali e l'adottato diventa figlio matrimoniale
degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome. L'adozione non è suscettibile di revoca.

L'adozione dei minori nei casi particolari di cui all'art. 44 si differenzia dall' adozione piena per
quanto riguarda il più ristretto ambito applicativo e per la previsione di requisiti in meno rigidi e per la
maggior semplicità del procedimento la peculiarità di questa figura riguarda specialmente gli effetti,
che sono più limitati, non importando un interruzione dei rapporti tra l'adottato e la sua famiglia
d'origine né la creazione di rapporti di parentela con i parenti dell'adottante, né l'acquisto di alcun diritto
successorio in capo all’adottante. Con riguardo al profilo della parentela la riforma del 2012 ha
riformato l'art. 74 cc che prevede che il vincolo di parentela che si crea con riguardo ai figli adottivi non
sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età di cui agli artt. 291 ss cc: si pone il dubbio se il
riferimento dell'art. 74 cc agli adottati maggiorenni debba essere esteso anche agli adottati nei casi
particolari di cui all'art 44 l. adoz., per i quali la legge esclude il sorgere del vincolo di parentela. La
questione si pone in quanto l'art. 55 l. adoz., nel delineare la condizione giuridica della adottato ex art.
44, richiama le disposizioni in materia di adozione di maggiorenne e in particolare l'art. 300 cc il quale
prevede che l'adozione non induce alcun rapporto civile tra l'adottante e la famiglia dell'adottato, né tra
l'adottato e i parenti dell'adottante fino ad oggi l'adozione in casi particolari si è conformata all'
adozione di maggiorenne disciplinata del codice e anche con riguardo agli effetti è stata a questa
assimilata. Ove l'art. 74 cc non dovesse estensivamente applicarsi anche alla adozione in casi particolari,
si avrebbe l'abrogazione implicita del combinato disposto dell'art. 55 e delle norme del cc da questo
richiamate: in mancanza di alcun indice in tal senso si ritiene che, sebbene l'art. 74 cc preveda
l'esclusione del vincolo di parentela solo con riguardo agli adottati maggiori di età, sia necessario
procedere a un'interpretazione estensiva della norma, stante la sostanziale identità in ordine agli effetti
tra la disciplina dell'adozione di persona maggiorenne e quella in casi particolari per la quale resta
escluso il sorgere del vincolo di parentela tra l'adottato e la famiglia dell'adottante.
L'adozione particolare può essere pronunciata a favore:

 di persone coniugate o di persone singole unite al minore da vincolo di parentela entro il sesto
grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, qualora il minore sia orfano
 del coniuge, qualora il minore sia figlio dell’altro coniuge
 di persone coniugate o anche di persone singole, quando si tratti di minore orfano affetto da
handicap
 di persone coniugate o anche di persone singole, nell'ipotesi in cui vi sia la constatata
impossibilità di procedere all'affidamento preadottivo

Nei casi di cui alle lett. a), c), d) l'adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è
coniugato; se l’adottante è persona coniugata non separata, l'adozione potrà essere pronunciata solo su
in stanza di entrambi i coniugi. Nei casi di cui alle lettere a) e d) tra adottante e adottato deve
intercorrere una differenza di età di almeno 18 anni. Anche con riguardo all'adozione nei casi particolari
la legge non consente l'adozione alle coppie di fatto qualche apertura a favore delle coppie di fatto si è
però registrata con riguardo alla possibilità di adottare il figlio del partner, la cd stepchild adoption:
nonostante la legge riconosca questa possibilità solo al coniuge, alcuni giudici di merito hanno ammesso
l'adozione del figlio del convivente more uxorio sulla base di un'interpretazione particolarmente
estensiva della disposizione di cui all'art. 44 comma 1 lett d) l. adoz . Una recente pronuncia del
Tribunale di Roma ha riconosciuto la capacità di adottare il figlio del padre anche al convivente dello
stesso sesso, ritenendo non potersi discriminare in ragione dell'orientamento sessuale sulla base della
presunzione che l'interesse del minore non possa realizzarsi nell'ambito del nucleo familiare costituito
da una coppia di soggetti del medesimo sesso nel caso di specie il giudice ha ammesso che la
bambina nata in un paese grazie alla fecondazione eterologa potesse essere adottata dalla compagna
della madre biologica e a tal fine argomentato anche la Corte Edu che ha fermato il diritto del membro
di una coppia omosessuale ad adottare il figlio del partner.
L'adozione può essere revocata nei casi contemplati dagli artt. 51, 52 e 53 l. adoz. e la competenza è del
T.M.

Con l'espressione adozioni internazionali si fa riferimento a ogni ipotesi in cui gli adottanti abbiano
nazionalità diversa dalla adottato e si deve distinguere tra:

 adozione di minori stranieri da parte di cittadini italiani


 adozione di minori italiani da parte di cittadini residenti all’estero

L’adozione di minori stranieri è un fenomeno in estinzione che è stata per la prima volta disciplinata
dalla l. 184/1983, sebbene tale disciplina sia apparsa inadeguata in quanto lasciava ampio spazio
all'iniziativa degli aspiranti adottanti liberi di recarsi all'estero e di prendere contatto tramite intermediari
non qualificati o addirittura con la famiglia di origine del minore. A questi problemi hai inteso dare
soluzione la Convenzione dell'Aja del 1993 per la tutela dei bambini e la cooperazione
nell'adozione internazionale, recepita in Italia con la l. 476/1998, che individua in modo preciso le
condizioni necessarie affinché l'adozione possa avere luogo:

 dichiarazione di adottabilità del minore da parte delle autorità straniere


 accertamento, da parte delle stesse autorità, dell'impossibilità di far luogo all'affidamento del
fanciullo nello stato di origine, di modo che l'adozione internazionale appaia l'unica via
praticabile (cd criterio della sussidiarietà)
 lo svolgimento della necessaria attività di consulenza a beneficio dei soggetti il cui consenso è
richiesto ai fini dell'adozione, consenso che deve essere da loro manifestato senza alcun
corrispettivo e per iscritto, previa adeguata informazione circa le sue conseguenze, in particolare
in ordine all'eventuale cessazione di ogni vincolo giuridico tra il minore e la sua famiglia di
origine
 svolgimento della necessaria attività di consulenza anche a beneficio del minore, il cui consenso,
ove richiesto, dovrà essere manifestato in piena libertà, gratuitamente e per iscritto

La convenzione afferma la necessità che ogni singolo paese aderente individui un’autorità centrale al
fine di garantire il rispetto delle previsioni della convenzione stessa la l. 476/1998 ha riservato al T.M.
compiti propriamente giudiziari, attribuendo quelli di carattere amministrativo e di politica generale alla
Commissione per le adozioni internazionale, i cui compiti e la cui organizzazione sono disciplinati
nel d.p.r. 108/2007 e tra i compiti che le sono attribuiti la Commissione:

 rilascia l'autorizzazione agli enti di cui all'art. 31 l. adoz.


 autorizza l'ingresso del minore in Italia
 certifica la conformità dell'adozione alla Convenzione dell'Aja
 conserva tutti gli atti relativi alla procedura
 promuove iniziative di formazione per coloro che operano nel campo dell'adozione, collabora
con le autorità centrali degli altri stati

La l. 476/1998 ha anche introdotto l’obbligo per coloro che aspirano all’adozione internazionale di
rivolgersi ad uno degli enti autorizzati al fine di porre fine al fenomeno delle adozioni fai da te  agli
enti sono attribuiti compiti delicati come quello di svolgere tutte le pratiche necessarie, di ricevere le
proposte di incontro formulate dall'autorità straniera, di assistere i coniugi in tutte le attività da svolgersi
all'estero, di ricevere dall'autorità straniera l'attestazione circa la sussistenza dei requisiti di cui all'art 4
Convenzione dell'Aja e di concordare con questa l'opportunità di procedere all'adozione, di chiedere alla
Commissione per le adozioni internazionali l'autorizzazione ad introdurre il fanciullo in Italia e di
vigilare sul suo trasferimento, di svolgere insieme ai servizi sociali un'attività di sostegno a beneficio del
nucleo adottivo una volta che il minore sia stato condotto in Italia.
La legge richiede agli enti che aspirino ad ottenere il riconoscimento il possesso di determinati
requisiti l’art. 39 ter richiede che l’ente sia diretto e composto da persone aventi adeguata
preparazione e competenza nel campo dell’adozione internazionale e con idonee qualità morali, che si
avvalga dell'ausilio di professionisti in campo giuridico, psicologico iscritti nei relativi albi e che
disponga di un'adeguata struttura organizzativa e che non abbia fini di lucro. Una volta che l'ente
autorizzato abbia curato le procedure di cui all'art. 31, ne rimette gli atti alla Commissione la quale, se
dichiara che l'adozione risponde all’interesse superiore del minore, ne autorizza l'ingresso è la residenza
permanente in Italia ai sensi dell'art. 32: l'adozione pronunciata all'estero produce nell'ordinamento
italiano gli effetti dell'adozione interna, tuttavia il Tribunale deve verificare che nel provvedimento
dell’autorità estera risulti la sussistenza delle condizioni delle adozioni internazionali previste dall’art. 4
Convenzione e deve accertare che l’adozione non sia contraria ai principi fondamentali che regolano
nello stato il diritto di famiglia e dei minori.

La l. 149/2001 ha in parte modificato l'art. 28 introducendo dei nuovi principi tra cui quello per il quale
il fanciullo deve essere informato della sua condizione dai genitori adottivi, che devono
provvedervi nei modi e termini che ritengono più opportuni è rimasto invariato l’obbligo di
rilasciare attestazioni dello stato civile con la sola indicazione del nuovo cognome, senza alcun
riferimento ai genitori di sangue né all'avvenuta annotazione della pronuncia di adozione, così come è
rimasto il divieto per l'ufficiale dello stato civile e per l'ufficiale di anagrafe di fornire notizie o rilasciare
i certificati dai quali risulti il rapporto di adozione, salvo autorizzazione espressa dell'autorità giudiziaria
che non occorre nei casi in cui la richiesta venga fatta dall'ufficiale di stato civile per verificare l'assenza
di impedimenti matrimoniali.
Sono state introdotte disposizioni innovative in ordine alla possibilità per l'adottato di avere notizie sulla
propria famiglia di origine, possibilità che in precedenza veniva negata anche dopo il raggiungimento
della maggiore età, fatto salvo il caso in cui la richiesta di conoscere l'identità dei genitori biologici
fosse giustificata dalla necessità di salvaguardare la salute dello stesso adottato la nuova normativa
stabilisce a carico dei genitori adottivi l'obbligo di informare il minore sulla propria situazione di figlio
adottivo, nei modi e nei termini da loro ritenuti più opportuni; è riconosciuta, durante la minore età, la
possibilità per i genitori adottivi di avere informazioni sull'identità dei genitori biologici, previa
autorizzazione del T.M., qualora vi siano gravi e comprovati motivi.
L'art. 28 comma 5 stabilisce che l'adottato, raggiunta l'età di 25 anni, può accedere a informazioni che
riguardano la sua origine è l'identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la
maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psicofisica. L'istanza
deve essere presentata al T.M. del luogo di residenza la disposizione appare ambigua nella sua
formulazione in quanto non chiarisce del tutto se l'autorizzazione del tribunale sia necessaria solo per il
< 25 anni ritenendo quindi che dopo i 25 anni ci sia la possibilità di rivolgersi direttamente all’ufficiale
di stato civile ovvero se l'autorizzazione del T.M. occorre anche per chi ha già compiuto i 25 anni, pur
senza l'ulteriore requisito dei gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psicofisica: le pronunce
hanno accolto la seconda interpretazione, rilevando che il riferimento all'istanza da presentarsi al
tribunale si colloca all'interno della norma in maniera tale da essere riferibile ad entrambe le ipotesi. Il
T.M. sente le persone di cui ritiene opportuno l'ascolto e assume le informazioni di carattere sociale e
psicologico allo scopo di valutare che l'accesso alle notizie richieste non nuoce gravemente all'equilibrio
psico-fisico del richiedente. L'art. 28 individuava originariamente alcune ipotesi in cui l'accesso alle
informazioni non era comunque consentito: si indicava il caso in cui il adottato una fosse stato
riconosciuto dalla madre alla nascita è il caso in cui anche uno solo dei genitori avesse dichiarato di non
voler essere nominato o avesse comunque acconsentito all'adozione a condizione di rimanere
anonimo l'art. 177 cod.priv. è tuttavia intervenuto a modificare l'art. 28 comma 7, che nella sua
nuova formulazione si limita ad impedire l'accesso alle informazioni nei soli confronti della madre che
abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell'art 30 d.p.r. 396/2000: la corte cost ha
dichiarato l'illegittimità del comma 7 nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di
interpellare, su richiesta del figlio, la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata. Viene
quindi consentito al figlio adottivo che, compiuti 25 anni, ne faccia richiesta, di poter conoscere
l'identità della madre che abbia scelto l'anonimato, qualora, disposta l'interrogazione di quest'ultima da
parte delle autorità, la stessa ne abbia autorizzato la comunicazione.
L’art. 28 comma 8 stabilisce che salvo quanto previsto dai commi precedenti l’autorizzazione non è
richiesta per l'adottato maggiorenne quando i genitori adottivi siano deceduti o siano divenuti
irreperibili la giurisprudenza ha rilevato l'erroneità dell'inciso iniziale, frutto di una svista del
legislatore, come emerge dall'esame dei lavori parlamentari i quali evidenziano come il riferimento
originario fosse al comma 7 e non ai commi precedenti, pertanto si è ritenuto che in questo caso
l'ufficiale di stato civile al quale l'adottato si è rivolto debba acquisire di documenti necessari ad
accertare che non sussistono gli impedimenti e possa consentire o negare l'accesso alle informazioni
solo in esito all'istruttoria in materia.

L'adozione delle persone maggiori di età è disciplinata dagli artt. 291 ss cc e ha una funzione peculiare
in quanto soddisfa l'interesse dell'adottante, privo di discendenti, ad acquisire un figlio al quale
trasmettere il proprio cognome e il proprio patrimonio (a seguito dell'intervento della corte cost è stato
dichiarato parzialmente illegittimo l'art. 291 cc ritenendo che la condizione della assenza di discendenti
non sia più necessaria affinché possa farsi luogo all'adozione).
Tra adottante e adottato deve intercorrere una differenza di età di almeno 18 anni  ne discende che
l'adottante deve avere 36 anni, anche se è prevista la possibilità per il Tribunale di autorizzare comunque
la nozione al compimento dei 30 anni, qualora circostanze eccezionali lo consiglino ; nessuno può essere
adottato da più di 1 persona, a meno che gli adottanti non siano marito e moglie ai sensi dell'art. 294
comma 2 cc. Affinché l’adozione possa essere pronunciata occorre il consenso dell’adottante e
dell’adottato, i quali possono revocarlo finché non sia intervenuta la pronuncia del Tribunale e occorre
altresì la assenso dei genitori dell'adottando e la senso del coniuge dell'adottante e dell'adottando che
non sia legalmente separato. Il tribunale, previa verifica della convenienza dell'adozione per l’adottando,
la pronuncia con sentenza l'adottante, il pm e l'adottato possono entro 30 gg proporre impugnazione in
Corte d'Appello. La sentenza definitiva che dispone l'adozione viene trascritto in apposito registro
tenuto presso la cancelleria del tribunale e viene annotata a margine dell'atto di nascita dell'adottato.
Per quanto riguarda gli effetti dell'adozione dei maggiorenni sono i seguenti:
 mantenimento dei vincoli con la famiglia di origine
 insussistenza di vincoli di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante
 l'assunzione del cognome dell'adottante da parte dell’adottato, che lo antepone al proprio
 l'acquisto di diritti successori solo in capo all’adottato

Se l'adozione è compiuta da coniugi, l'adottato assume il cognome del marito ai sensi dell'art 299
comma 3 cc mentre se l'adozione è compiuta da una donna coniugata, l'ha adottato che non sia figlio del
lei marito assume il cognome della famiglia di lei ai sensi del comma 4. L'adozione può essere revocata:

 per indegnità dell'adottato ai sensi dell'art. 306 cc


 per indegnità dell'adottante ai sensi dell'art. 307 cc

CAPITOLO 12: LA PARENTELA, L’OBBLIGO ALIMENTARE E LA SOLIDARIETÀ


FAMILIARE
La parentela è il legame di sangue che unisce persone discendenti da un medesimo tipica, sia nel caso
in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di
esso art. 74 cc, la cui attuale formulazione a seguito della riforma del 2012 ha permesso di superare
la tradizionale distinzione della parentela in legittima e naturale. Si tratta di un'innovazione che ha
contribuito a rimodulare la nozione legale di famiglia che, in virtù della nuova formulazione, non appare
più necessariamente fondata sul matrimonio.
L'intensità del vincolo va determinata tenendo conto di 2 elementi:

 linea ex art. 75 cc: sono parenti in linea retta le persone che discendono l'una dall'altra
 grado ex art. 76 cc: il grado è l’intervallo generazionale che separa tra loro 2 o più soggetti: nella
linea retta per ogni generazione si computa 1 grado ma si deve escludere lo stipite; nella linea
collaterale il computo deve essere eseguito effettuando la somma dei gradi che intercorrono tra
ognuno dei 2 parenti e il comune ascendente, il quale deve essere escluso dal computo

Il vincolo di parentela non viene riconosciuto dalla legge oltre il 6° grado, salvo che per alcuni
effetti specialmente determinati. L'art. 74 cc stabilisce espressamente che il vincolo di parentela si crea
anche con riguardo ai figli, precisando che questo non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di
età considerato che l'adottato consegue lo stato di figlio nato nel matrimonio degli adottanti la
previsione dell'art. 74 appare inutile; si pone invece il problema secco l'art. 74 il legislatore abbia inteso
riferirsi anche ai figli adottati nei casi particolari di cui all'art 44 l. adoz., per i quali la legge ha
espressamente escluso il sorgere del vincolo di parentela si ritiene che la nuova disposizione debba
essere interpretata in via estensiva, stante la sostanziale identità per quanto riguarda gli effetti, tra
adozione di maggiorenni e adozione in casi particolari.
La parentela è produttiva di effetti patrimoniali e non patrimoniali:

 per quanto riguarda gli effetti patrimoniali vi è quello relativo agli alimenti e quello relativo
alla successione legittima e necessaria con la riforma del 2012 in materia di filiazione e
parentela, la creazione di un vincolo di parentela tra il figlio non matrimoniale e il gruppo
familiare del genitore che abbia effettuato il riconoscimento va messo in correlazione con le
norme contenute in materia successoria, le quali attribuiscono diritti successori ai parenti: dal
combinato disposto dall’art. 74 cc con le norme successorie ne deriva l'attribuzione di diritti
successori a soggetti in precedenza esclusi, ampliando perciò la categoria dei soggetti legittimari
nel cui ambito vanno ricompresi indistintamente tutti gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, nonché
i parenti collaterali
 Per quanto riguarda gli effetti non patrimoniali i più significativi sono:
 quelli di cui all'art. 87 cc, ossia gli impedimenti a contrarre matrimonio
 quello di cui all’art. 348 cc, ossia l'idoneità a ricoprire il ruolo di tutore
 quelli di cui all’art. 406 e 417 cc, ossia la legittimazione a proporre istanza di
amministrazione di sostegno, interdizione o inabilitazione
 quello di cui all’art. 251 cc, ossia la riconoscibilità del figlio previa autorizzazione del
giudice

Il legame di parentela assume rilevanza anche in ambito penale, ove può configurarsi sia come elemento
costitutivo del reato sia come circostanza attenuante o aggravante sia come causa di non punibilità (si
pensi all’art. 649 cp, che prevede che per i delitti contro il patrimonio la parentela sia da considerarsi
come causa di non punibilità, ad esempio il furto commesso dal figlio nei confronti della madre).
L’affinità è il vincolo che unisce un coniuge ai parenti dell’altro coniuge: anche l’affinità è computata
in virtù della linea e del grado, in quanto nella linea e nel grado in cui taluno è parente di uno dei
coniugi egli è affine dell'altro coniuge. L’art. 78 u.c. regola la durata dell’affinità, la quale non viene
meno per morte del coniuge dalla quale deriva mentre cessa qualora il matrimonio sia dichiarato nullo,
sebbene permanga l'impedimento alle nozze per gli affini in linea retta (si discute in ordine all'idoneità
della pronuncia di scioglimento del matrimonio a far cadere il vincolo di affinità: sembra prevalere
l'orientamento sfavorevole alla permanenza del vincolo anche dopo la pronuncia di divorzio).

L'obbligo alimentare consiste nella prestazione a favore di colui che versa in stato di bisogno dei mezzi
necessari per vivere la dottrina è orientata a ravvisare il fondamento dell'istituto nella solidarietà
familiare, valorizzando il fatto che l'obbligo alimentare si pone come mezzo di tutela del diritto alla vita
e alla dignità della persona. Il diritto alimentare ha carattere personale, è indisponibile, imprescrittibile
ed è impignorabile nonché insuscettibile di entrare a far parte della massa fallimentare. Il sorgere
dell'obbligo alimentare è legato alla sostanza di determinati presupposti:

 presupposti di natura soggettiva rappresenta il particolare legame di parentela o riconoscenza


che deve unire l’alimentando e l'obbligato
 presupposti di natura oggettiva sono lo stato di bisogno in cui deve trovarsi chi avanza la
pretesa alimentare e la disponibilità economica di chi deve soddisfarla

Versa in stato di bisogno la persona che non dispone dei mezzi adeguati a far fronte alle esigenze
primarie di vita e che si trovi in tale condizione a causa della mancanza di cespiti patrimoniali, nonché
dell'impossibilità di svolgere attività lavorativa idonea a produrre un adeguato reddito.
Per quanto attiene alla disponibilità economica dell'obbligato, questa deve valutarsi tenendo da un lato
in considerazione le sue esigenze di vita e quelle dei suoi familiari e dall'altro lato la misura dei beni e
dei redditi di cui gode qualora l’alimentante sia il donatario si deve aver riguardo al valore della
donazione ancora esistente nel suo patrimonio.
In ordine alle caratteristiche del bisogno, questo comprende quanto necessario per la vita
dell’alimentando, avuto riguardo alla sua posizione sociale e si ritiene che nel necessario si debba
ricomprendere il vitto, l'abitazione, il vestiario, le cure mediche e quei beni comunque indispensabili ad
assicurare al bisognoso una vita dignitosa ecco quindi che ci sono delle differenze tra alimenti e
mantenimento: infatti il mantenimento ha un contenuto più ampio in quanto non è limitato al
soddisfacimento dei solidi bisogni primari della persona, ma mira ad assecondare le esigenze di un
soggetto in base alla valutazione del tenore di vita del nucleo familiare del quale fa parte e non ha come
presupposto lo stato di indigenza del beneficiario, ma deriva direttamente da uno status familiare.
L’art. 433 cc  individua i soggetti tenuti all'obbligo alimentare e stabilisce anche un ordine
progressivo in base al quale ciascuno dei soggetti è chiamato ad adempiere il coniuge è il primo
soggetto sul quale grava l'obbligo di prestare gli alimenti e a tal proposito si ricordano le disposizioni
di cui agli artt. 156 comma 3 cc (contempla il diritto del coniuge al quale sia addebitabile la separazione
e che si trovi in stato di bisogno di pretendere gli alimenti dall'altro), 129 bis cc (il coniuge al quale è
imputabile la nullità del matrimonio è tenuto all'obbligo alimentare nei confronti dello sposo in buona
fede qualora non ci siano altri obbligati), 51 cc prevede che il coniuge dell’assente in stato di bisogno
possa ottenere un assegno alimentare con misurato alle condizioni della famiglia e del patrimonio del
consorte dichiarato assente.
Subito dopo il coniuge sono obbligati in ordine progressivo i discendenti prossimi si discute se siano
tenuti agli alimenti anche ai figli non riconosciuti o non riconoscibili. Seguendo l'ordine dei soggetti
tenuti agli alimenti la categoria successiva al coniuge è quella che comprende i genitori costoro
devono provvedere al mantenimento, all’istruzione, all’educazione e all’assistenza morale dei figli di
minore età e quelli maggiorenni che siano ancora privi di autonomia economica: raggiunta l’autonomia,
qualora successivamente sopravvenga lo stato di bisogno, i genitori sono tenuti solo agli alimenti; in
mancanza dei genitori sono tenuti agli alimenti gli ascendenti prossimi o, nel caso di adozione
ordinaria, gli adottanti. I n. 4-5 art. 433 cc prevedono che all'obbligo alimentare siano tenuti anche
determinati affini quali i generi, le nuore e gli suoceri si discute se il divorzio estingua l'obbligo
alimentare tra affini; secondo quanto disposto dall'art. 434 l'obbligo degli alimenti viene meno se colui
che ha diritto agli alimenti contrae nuovo matrimonio e se il coniuge da cui discende il vincolo sia morto
e non ci siano figli o discendenti frutto delle nozze dal quale deriva l’affinità. Infine sono tenuti
all’obbligo alimentare i fratelli e le sorelle, categoria entro la quale si distingue tra unilaterali e
germani e questi ultimi sono tenuti in via primaria.
Ai sensi dell'art. 437 cc il donatario è tenuto, prima di ogni altro obbligato, a soddisfare la pretesa
alimentare del bisognoso, salvo che la donazione sia stata fatta in riguardo di matrimonio o si tratti di
donazione rimuneratoria.
Una volta individuati i soggetti sui quali incombe l'obbligo alimentare, il codice prende in
considerazione l'ipotesi in cui si verifichi un concorso di obbligati in questo caso l’art. 441 comma
1 cc dispone che se più persone nello stesso grado sono tenuti agli alimenti, queste concorrono tutte alla
prestazione alimentare, ciascuno in proporzione alle proprie condizioni economiche; il comma 2
disciplina l'ipotesi in cui soggetti di grado anteriore non possono soddisfare la pretesa alimentare del
bisognoso e in questo caso è previsto che l'obbligo alimentare gravi in tutto o in parte a carico degli
obbligati di grado posteriore qualora i coobbligati siano in disaccordo circa la misura, la distribuzione
e il modo di somministrare gli alimenti, l'autorità giudiziaria provvede tenuto conto delle circostanze. Se
c’è un concorso tra più donatari, ciascuno è obbligato in proporzione al valore della donazione ancora
esistente nel suo patrimonio. L’art. 801 cc permette al donante di revocare la donazione quando il
donatario gli rifiuti senza giustificato motivo gli alimenti.
Gli alimenti sono dovuti dal giorno della domanda giudiziale o da quello della costituzione in mora
dell'obbligato, purché eseguita entro 6 mesi dalla domanda giudiziale alcuni autori reputano
necessarie una condotta attiva del legittimato, argomentando che solo nel momento in cui si propone la
domanda giudiziale o si costituisce in mora l'obbligazione diritto agli alimenti da astratto diviene
concretamente esercitabile; altri autori ritengono invece sufficiente affinché sorga il diritto alimentare il
verificarsi dei presupposti legali quali lo stato di bisogno e la capacità economica del soggetto
alimentando.
Per quanto riguarda i modi attraverso i quali è possibile somministrare gli alimenti, al soggetto
obbligato e lasciata la possibilità di scegliere in via alternativa tra:
 la prestazione di un assegno periodico in via anticipata
 l'accoglimento e il mantenimento del bisognoso nella propria casa

Si tratta di un'obbligazione che, in virtù della facoltà di scelta concessa al debitore, viene inquadrata
nell'ambito delle obbligazioni alternative, precisando che in ogni caso si tratta di un’obbligazione
alternativa sui generis in quanto è previsto che, secondo le circostanze, possa essere il giudice a
determinare il modo di somministrazione degli alimenti ai sensi dell'art. 443 comma 2 cc. Si ritiene che
le alternative non escludano in ogni caso la possibilità di adottare altri modi di somministrazione
altrettanto idonei a soddisfare i bisogni dell'indigenza o che la scelta operata dall’obbligato sia
successivamente modificabile; l’art. 443 u.c. cc onde evitare che, nei casi di urgente necessità, la
posizione di indigenza dell'avente diritto agli alimenti possono essere ulteriormente pregiudicata dalle
lungaggini del giudizio, prevede che il giudice possa ritenere immediatamente obbligato per l'intero uno
solo dei soggetti tenuti agli alimenti, ferma restando la possibilità per costui di agire in regresso nei
confronti degli altri.
Altra misura idonea ad assicurare l’anticipato adempimento dell’obbligo alimentare è quella di cui
all’art. 446 cc che prevede che il presidente del tribunale, finché non si accerti in modo definitivo il
modo e la misura degli alimenti, può con ordinanza disporre un assegno provvisorio e parlo a carico di
uno solo degli obbligati, fatta salva la possibilità di agire in regresso nei confronti degli altri obbligati
tenuti alla prestazione alimentare: questo provvedimento non è modificabile e non è revocabile e non è
nemmeno impugnabile, costituisce titolo esecutivo e conserva efficacia fino alla sentenza definitiva.
Il diritto gli alimenti, oltre che per le cause previste dall'art. 440 cc e per quelle particolari, si estingue
per morte dell'obbligato o del soggetto alimentato; l'art. 448 bis cc introdotto con la riforma del 2012
contempla la cessazione per decadenza dell'avente diritto dalla responsabilità genitoriale sui figli,
stabilendo che il figlio e discendenti prossimi non sono tenuti all'adempimento dell'obbligo di prestare
gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla responsabilità
genitoriale, prevedendo che per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all'art. 463 cc possono
escluderlo dalla successione.

Il materializzarsi della dimensione nucleare della famiglia e il fenomeno dell' allungarsi della vita media
hanno posto il problema dei compiti della famiglia nei riguardi degli anziani, con riferimento sia alla
cura della persona sia all'assistenza nel compimento di attività giuridicamente rilevanti: in tale
prospettiva la l. 6/40 ha modificato il capo del cc relativo alla misure di protezione delle persone prive
in tutto o in parte di autonomia introducendo l'amministrazione di sostegno che rappresenta una nuova
prospettiva di cura, che si estende al di là degli aspetti di natura meramente patrimoniale, fino a
ricomprendere ogni esigenza del soggetto debole; per tale via l'ordinamento offre tutela e protezione a
favore di chi, per infermità o menomazione fisica o psichica, si trovi nell'impossibilità di curare
autonomamente i propri interessi- l’ampliamento della schiera dei destinatari della misura di
produzione rispetto agli istituti tradizionali dell'interdizione e dell'inabilitazione consente di offrire un
adeguato sostegno a chiunque si trovi in una situazione di debolezza, in un'ottica di promozione delle
potenzialità del beneficiario e di realizzazione della sua personalità: ciò corrisponde al principio
solidaristico che impone di promuovere azioni positive, piuttosto che misure segreganti del soggetto
debole e in tal senso l'istituto dell'amministrazione di sostegno si ispira ai principi di gradualità e
flessibilità al fine di offrire tutela alla persona non autonoma con la minor limitazione possibile della
capacità di agire, pertanto si è predisposta una protezione su misura che tuteli la persona in quanto tale
piuttosto che i suoi interessi patrimoniali e che possa diversamente atteggiarsi a seconda delle esigenze
del singolo beneficiario.
La legge in questione è intervenuta anche sull'interdizione e sull'inabilitazione: prima della riforma le
sentenze di interdizione ed inabilitazione comportavano rigide ed immodificabili conseguenze, quali la
perdita della capacità di agire dell’interdetto e la riduzione della capacità ai soli atti di ordinaria
amministrazione per il soggetto inabilitato l’art. 414 cc infatti ora reca la dizione persone che possono
essere interdette e l'art. 427 cc prevede che il giudice possa stabilire che taluni atti di ordinaria
amministrazione possono essere compiuti dall'interdetto senza l'intervento o con la mera assistenza del
tutore e che taluni atti eccedenti l'ordinaria amministrazione possono essere compiuti dal soggetto
inabilitato senza l'assistenza del curatore.
In particolare rileva la disciplina dettata per la scelta dell'amministratore di sostegno l'art. 408 cc
stabilisce che il G.T., avendo esclusivo riguardo all'interesse del beneficiario, deve, ove possibile,
preferire il coniuge che non sia legalmente separato, la persona stabilmente convivente, uno dei genitori,
i figli, i fratelli del beneficiario ovvero un parente entro il quarto grado oppure il soggetto designato dal
genitore in un testamento, in un atto pubblico o in una scrittura privata autenticata : questa norma
costituisce una sorta di cerniera tra le misure di protezione e doveri familiari strettamente intesi
mostrando preferenza affinché i compiti di cura siano assolti in prima istanza nel contesto delle relazioni
familiari.

Il flusso migratorio che interessa il paese pone il problema del rispetto della vita familiare e
dell'attuazione dei doveri di solidarietà che si connettono: a riguardo rileva la disciplina del
ricongiungimento familiare, istituto attraverso cui si consente a chi risiede o soggiorno al regolarmente
in uno stato diverso da quello di appartenenza di essere raggiunto dai familiari provenienti da altri paesi:
questo diritto può ricondursi nell'alveo delle norme costituzionali a tutela dell'unità familiare ed è
riconosciuto da accordi internazionali come ad esempio l’art. 10 Convenzione Internazionale sui
Diritti del Fanciullo e l'art. 8 Cedu posto a tutela del rispetto della vita privata e familiare. Nonostante
queste fonti paiano ricondurre l'istituto del ricongiungimento familiare nell'area dei diritti inviolabili
dell'uomo, tuttavia nella giurisprudenza della corte cost e della Corte Edu non si rinviene un
riconoscimento pieno ed incondizionato in considerazione del fatto che l'ingresso dello straniero nel
territorio nazionale coinvolge svariati interessi pubblici, la cui ponderazione spetta in primo luogo al
legislatore interno, che bilancia l'interesse dello stato a controllare i flussi migratori in entrata con le
esigenze di tutela della vita familiare dello straniero.
Il diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini dell'Ue è consacrato nella direttiva 38/2004 mentre
quello dei cittadini extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio di uno stato membro Ue viene
disciplinato dalla direttiva 86/2003 che è stata recepita in Italia nel 2007 modificando il T.U.
immigrazione--> l'art 29 T.U. imm. contiene la disciplina del ricongiungimento familiare , che nel
tempo ha subito delle modifiche introducendo sensibili limitazioni alla concessione del visto di ingresso
per ricongiungimento familiare e che nel 2007 ha semplificato le procedure è mitigato le condizioni per
l'esercizio del ricongiungimento familiare, per poi prevedere nel 2009 delle rigidità nel rilascio dei visti.
L'art. 29 comma 1 riconosce allo straniero legalmente soggiornante in Italia il diritto di ricongiungersi
con i seguenti familiari:

1. il coniuge non legalmente separato e di età non inferiore ai 18 anni: una decisione di merito ha
stabilito che, se in uno stato membro dell'Ue 2 persone dello stesso sesso hanno contratto valido
matrimonio, la libera circolazione del cittadino e del suo familiare deve essere garantita anche
quando la legge dello stato membro ospitante o la legge nazionale dei coniugi non consente alle
coppie omosessuali di accedere al matrimonio
2. i figli minori, anche del coniuge nati fuori del matrimonio, non coniugati, a condizione che
l'altro genitore abbia dato il suo consenso: ai figli minori sono equiparati ex comma 2 i minori
adottati o affidati o sottoposti a tutela. La giurisprudenza è arrivata ad estendere il
ricongiungimento familiare ai minori legati allo straniero da un legame che abbia un contenuto
sostanzialmente para genitoriale, indipendentemente dal nomen iuris e dalla coincidenza
assoluta di effetti tra la misura straniera a protezione dei minori e gli istituti italiani richiamati
dalla norma--> in primo luogo il riferimento e all'istituto islamico della Kafala, ritenuta idonea a
legittimare il ricongiungimento familiare sulla base della sua equiparabilità funzionale
all'affidamento che si risolve nell'accoglienza a tempo determinato di un minore in stato di
abbandono nella famiglia dell'affidatario senza che sorga alcun legame di filiazione
3. figli maggiorenni a carico, che non possano provvedere alle proprie indispensabili esigenze di
vita in ragione di in stato di salute che comporti invalidità totale
4. genitori a carico che non abbiano altri figli nel paese di origine o genitori > 65 anni qualora gli
altri figli non siano in grado di mantenerli per documentati motivi di salute

Sono previste quali ulteriori restrizioni per essere ammessi al ricongiungimento L'innalzamento del
livello di reddito dello straniero e il ricorso all'esame del Dna per comprovare i suoi legami parentali
con il soggetto da ricongiungere qualora manchi idonea documentazione rilasciata dalle competenti
autorità straniere o sussistano fondati dubbi sulla sua autenticità: si tratta di una norma a rischio di
censura di costituzionalità, in particolare con riferimento agli artt. 29 e 30 cost nella parte in cui limita il
ricongiungimento ad alcuni soltanto dei familiari dello straniero. La corte cost ha costantemente
affermato che il diritto all'unità familiare può dirsi inviolabile e meritevole della più ampia tutela solo
con riferimento alla famiglia nucleare, mentre nel caso di ricongiungimento tra genitori e figli
maggiorenni già allontanatisi dal nucleo di origine il legislatore è libero di bilanciare l'interesse dei
famigliari con altri interessi meritevoli di tutela, con l'unico limite della non manifesta irragionevolezza
delle sue scelte.

CAPITOLO 13: LA RESPONSABILITÀ NELLE RELAZIONI FAMILIARI


Il tema della responsabilità civile nell'ambito delle relazioni domestiche si colloca nel contesto della
progressiva valorizzazione delle posizioni individuali dei membri della famiglia e negli ultimi anni sono
emersi nuovi danni alla persona e al contempo c'è stato un mutamento delle relazioni giuridiche tra
familiari tra questi 2 contesti giurisprudenziali sia verificata una forte interferenza:

 da un lato si è ampliata la categoria dei danni risarcibili e sono state create nuove figure in cui
emerge l'attenzione nei confronti della persona e delle sue prerogative, in particolare con
riferimento alla sfera fisica ed esistenziale: la giurisprudenza ha infatti abbandonato la
tradizionale ottica patrimonialista, che relegava la risarcibilità del danno non patrimoniale al
solo caso in cui il fatto integrasse un reato, interpretando secondo la lettura restrittiva dell' art.
2059 cc, secondo cui i danni non patrimoniali possono essere risarciti nei soli casi determinati
dalla legge; oggi l'interpretazione corrente vede nell'espressione danno non patrimoniale una
formula comprensiva non solo del danno morale in senso stretto ma anche di tutte le lesioni di
valori costituzionalmente protetti inerenti alla persona e non connotati da rilevanza economica.
Ogniqualvolta sussiste la violazione di interessi inerenti la persona l’art. 2059 cc deve essere
interpretato alla luce delle disposizioni costituzionali che tutelano la persona in quanto tale, alle
quali deve essere riconosciuto carattere precettivo e di immediata efficacia nei rapporti
interprivati.

Oggi è mutata l'intera prospettiva in cui si collocano le situazioni attinenti la responsabilità civile: è stato
evidenziato come il sistema della responsabilità civile debba applicarsi anche ai rapporti tra coniugi in
quanto non ci sono motivi per ritenere che lo status di coniuge possa comportare una riduzione e una
limitazione alla tutela della persona: ciò presuppone che la condotta del coniuge abbia cagionato un
danno ingiusto ai sensi dell'art. 2043 cc nell'ambito della sfera di interessi dell'altro coniuge.
La privatizzazione del matrimonio potrebbe far dubitare dell'effettiva natura delle regole che il codice
detto, in modo particolare di quelle che prevedono doveri in concreto non coercibili come ad esempio la
fedeltà, l'assistenza morale e la coabitazione: la constatazione che il rispetto dei doveri coniugali sia
affidato all'osservanza spontanea piuttosto che al diritto non ne sminuisce latitudine a caratterizzare la
stessa relazione matrimoniale, che si identifica con l'adempimento di quei doveri ciò testimonia un
mutato atteggiamento dell'ordinamento, che sembra aver rinunciato a sanzionare il rispetto di regole
indirizzate essenzialmente all'intima conoscenza della persona. Negli anni più recenti si è assistito a una
rivalutazione della rilevanza giuridica dei doveri coniugali, la cui violazione in determinate circostanze
è stata ritenuta fonte di responsabilità da fatto illecito in capo al coniuge che l'abbia posta in essere ; in
passato si è dibattuto sulla possibilità di ottenere in caso di violazione dei doveri coniugali il
risarcimento dei danni extracontrattuali cagionati da un coniuge all'altro oltre ai rimedi specifici
previsti nel campo del diritto di famiglia come ad esempio l'addebito della separazione i primi
segnali di apertura del sistema delle relazioni familiari alla responsabilità civile ci sono stati dalla
giurisprudenza di merito la quale ha ritenuto che la perdita del diritto all'assegno di mantenimento
presenta il doppio limite di colpire solo il coniuge che ne avrebbe avuto diritto e di non avere alcuna
conseguenza in presenza di modeste capacità finanziaria dell'obbligato e inoltre la perdita del diritto a
succedere è una sanzione che nella pratica viene ad essere svuotata di significato a seguito del divorzio e
comunque la pronuncia di addebito può non essere idonea al fine di riparare le conseguenze negative
provocate dalla condotta illecita di un coniuge nei confronti dell'altro.
Fino a pochi anni fa la giurisprudenza di legittimità non dava risposte univoche in ordine
all'applicabilità della tutela aquiliana alla violazione degli obblighi familiari: una posizione risalente
ammetteva la possibilità, mentre un successivo indirizzo più restrittivo negava la configurabilità di un
ristoro in via risarcitoria del pregiudizio cagionato dalla violazione dei doveri coniugali; di recente si
sono registrate nuove aperture attualmente dottrina e giurisprudenza riconoscono alla
risarcibilità del danno endofamiliare, sempre che la condotta del coniuge contrario ai doveri
nascenti dal matrimonio abbia cagionato un danno ingiusto suscettibile di essere risarcito ai sensi
dell'art. 2043 cc.
La permeabilità delle regole della responsabilità civile ai rapporti tra coniugi muove dall'analisi della
clausola generale dell'ingiustizia del danno ex 2043 cc: questa norma prevede che il risarcimento debba
essere accordato ogni qualvolta si verifichi un danno ingiusto, identificabile con il danno che
l'ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima e che quindi deve essere trasferito
sull'autore del fatto, pertanto anche nell'ambito dei rapporti di famiglia troverà applicazione l'art. 2043
cc qualora si accerti che la condotta di un coniuge abbia cagionato un danno ingiusto nell'ambito della
sfera di interessi dell'altro.
La semplice violazione dei doveri matrimoniali non può tuttavia legittimare una condanna al
risarcimento del danno: l'adempimento dei doveri coniugali è normalmente affidato allo spontaneo
atteggiarsi del rapporto matrimoniale. La tesi favorevole ad un’automatica corrispondenza tra la
violazione dei doveri coniugali e la declaratoria di addebito e la responsabilità extracontrattuale deve
essere respinta perché viene escluso ogni automatismo di giudizio tra la violazione dei doveri coniugali
e il giudizio di addebito della separazione il comportamento di un coniuge in violazione dei doveri
matrimoniali può infatti provocare l'addebito della separazione solo se ha determinato l'intollerabilità
della prosecuzione della convivenza oppure il grave pregiudizio all'educazione della prole; ai fini
dell'operatività della responsabilità ex 2043 ss cc è necessario che si verifichi un danno ingiusto,
pertanto il risarcimento del danno può essere accordato nel caso in cui la condotta del coniuge abbia
violato non solo uno dei doveri nascenti dal matrimonio ma anche che abbia provocato la lesione di un
interesse ulteriore tutelato dall'ordinamento perciò l'ingiustizia del danno non può essere ravvisata
nella crisi coniugale in sé e per sé, poiché ciascun coniuge ha diritto di separarsi, di divorziare, di
comprare un nuovo matrimonio e formare una nuova famiglia: il danno che eventualmente un coniuge
possa subire per il fatto stesso della rottura del vincolo coniugale non è un danno risarcibile perché
ciascun coniuge ha diritto di porre fine al rapporto coniugale. La violazione dei doveri matrimoniali
deve rappresentare il presupposto della concreta lesione di un interesse tutelato: questo
orientamento è stato confermato dalla Cassazione, che ha affermato come il rispetto della dignità e della
personalità di ogni componente del nucleo familiare assuma i connotati di un diritto inviolabile, la cui
lesione da parte di altro componente del nucleo costituisce il presupposto logico della responsabilità
civile in particolare la Cassazione ha messo in evidenza come il rapporto tra violazione dei doveri
coniugali e responsabilità aquiliana debba essere inquadrato nel più ampio contesto del risarcimento del
danno per lesione di un interesse costituzionalmente rilevante ex art. 2059 Cc, il quale consente di
offrire tutela risarcitoria alla persona che abbia subito alla lesione di situazioni giuridiche non
patrimoniali costituzionalmente garantite; il riferimento operato dall'art. 2059 Cc ai casi previsti dalla
legge deve essere inteso comprensivo delle norme costituzionali, ampliando così la risarcibilità del
danno non patrimoniale oltre le limitate ipotesi in cui la condotta non integri fattispecie penalmente
rilevanti. Con riferimento all'obbligo di assistenza morale e materiale, è stata pronunciata la risarcibilità
del danno in favore della moglie in un caso in cui una coppia di coniugi tentava da tempo di avere un
figlio e quando la moglie è rimasta incinta il marito aveva dichiarato di non voler diventare padre e di
non avere interesse al vincolo coniugale iniziando ad allontanarsi da casa senza dare spiegazioni ea
seguito di ciò la moglie aveva sviluppato una sindrome depressiva e il feto aveva subito un
rallentamento della crescita: in questo caso il tribunale aveva ravvisato nel comportamento del marito
alla violazione dell'obbligo di assistenza morale e materiale e anche un illecito civile in quanto la
condotta da questo tenuta era da considerarsi lesiva dei diritti inviolabili della persona. Anche con
riferimento alla violazione del dovere di fedeltà i giudici hanno ritenuto che possa trovare applicazione
la tutela aquiliana, in particolare quando la relazione extraconiugale sia stata svolta con modalità tali da
offendere la dignità e l'onore dell'altro coniuge.

La nuova dimensione dei diritti del figlio e dei connessi doveri genitoriali è stata recepita dalla
giurisprudenza con specifico riguardo all'applicazione dei principi della responsabilità civile
nell'ambito dei rapporti di filiazione, in particolare per l'ipotesi in cui il genitore li abbia trascurati
arrecando al figlio un danno ingiusto: il mancato assolvimento dei doveri di cui all'art. 315 bis cc fa
sorgere in capo ai genitori che non vi abbiano fatto fronte l'obbligo di risarcire il danno patito dai figli e
questo principio è da tempo assodato, in quanto il concepimento non si riduce a un fatto meramente
materiale poiché la Costituzione obbliga i genitori ad assistere materialmente e moralmente la prole e
solo in caso di assistenza o incapacità dei genitori la stessa Costituzione prevede forme sostitutive di
assistenza.
La giurisprudenza ha affermato che il padre, giudizialmente dichiarato, che si disinteressi
completamente del proprio figlio viola i diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale del figlio
medesimo e di conseguenza, trattandosi di condotta del genitore contraria al diritto, trovano
applicazione le regole della responsabilità civile che consentono al figlio di pretendere un ristoro sia del
danno patrimoniale sia di quello non patrimoniale:

 per quanto riguarda il danno patrimoniale vengono risarciti i pregiudizi arrecati alla sfera
patrimoniale del figlio per non aver goduto del mantenimento, dell'istruzione, dell'educazione e
dell'assistenza morale che il genitore inadempiente avrebbe potuto offrirgli a tal riguardo la
giurisprudenza ha precisato che la quantificazione di questi danni debba essere effettuata sulla
base della differenza tra quanto effettivamente percepito dal figlio ad opera del genitore
adempiente e quanto avrebbe potuto ricevere dal genitore assente e nel valutare il quantum del
risarcimento del danno patrimoniale si evidenzia come questo non possa essere determinato in
via astratta ma bisogna avere riguardo alle condizioni patrimoniali e sociali di ciascun genitore,
pertanto il danno va quantificato sulla base di una valutazione probabilistica che tiene in
considerazione le possibilità delle quali è il figlio non ha in concreto goduto
 per quanto riguarda il danno non patrimoniale devono essere presi in considerazione i
pregiudizi relativi alla perdita della possibilità di un inserimento sociale e lavorativo adeguato
alla classe socio economica di appartenenza del genitore inadempiente e anche della mancanza
di quei consigli e di quel sostegno morale che favoriscono la formazione della personalità e della
capacità di intrattenere le relazioni sociali di livello pari a quello che la famiglia del genitore
inadempiente avrebbe potuto offrirgli questi profili di danno si ricollegano alla lesione del
diritto fondamentale del figlio alla rapporto parentale, all'educazione e all'assistenza morale che
sono risarcibili ex art. 2059 cc. In tal senso si è espresso il legislatore introducendo l’art. 709 ter
cpc con cui il giudice in caso di gravi inadempienze che arrechino pregiudizio al minore o
ostacolino il corretto svolgimento della modalità di affidamento può ammonire il genitore
inadempiente ma anche condannarlo al risarcimento del danno in favore dell'altro genitore o del
figlio. La natura sanzionatoria delle previsioni relative all'ammonimento e alla sanzione
amministrativa pecuniaria appare non dubbia, mentre non è chiaro se il risarcimento del danno
previsto nell'art. 709 ter cpc abbia natura riparatoria o anche punitiva: se si qualifica come danno
punitivo ai fini del risarcimento sarebbe necessario fornire la prova dell' inadempienza del
genitore, la cui gravità sarebbe lasciata all'apprezzamento del giudice; laddove prevalesse la
natura compensativa il genitore che agisce ai sensi dell'art. 709 ter cpc dovrebbe dimostrare la
sussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi dell'illecito. La giurisprudenza appare
oscillante anche se sembra propendere per la teoria del danno punitivo, affermando che la
funzione della norma è da individuarsi nella volontà del legislatore di offrire soluzione al
problema dell'effettività dei provvedimenti giudiziali pronunciate in materia di affidamento dei
minori e di esercizio della responsabilità genitoriale.

Per quanto riguarda l'azione per far valere il danno ingiusto, si discute in ordine al problema della
prescrizione del diritto: secondo l’orientamento prevalente, la prescrizione della domanda decorre dal
momento in cui il figlio raggiunge l’indipendenza economica e non da quello che accerta il passaggio in
giudicato della sentenza che accerta la filiazione.

La responsabilità dei genitori per l'illecito dei figli minori è disciplinata dall'art. 2048 cc, che
prevede che la responsabilità del minore concorre con quella del padre e della madre ; secondo
l'orientamento prevalente l'art. 2048 va coordinato e integrato con l’art. 2047 cc che disciplina la
responsabilità del sorvegliante dell'incapace in considerazione di quanto previsto dall'art. 2046 cc che
stabilisce che non risponde del fatto lesivo chi non aveva la capacità di intendere e di volere nel
momento in cui lo ha commesso:

 l’art. 2047 cc è ritenuto dalla giurisprudenza applicabile anche i genitori relativamente ai


fatti commessi dei figli minori incapaci: prevede la responsabilità del sorvegliante di incapace
per i fatti dannosi posti in essere da questi e trova applicazione ove si riscontra la presenza
dell'incapacità dell'evento e dell'obbligo in capo al soggetto responsabile. La ricorrenza della
condizione di incapacità del giudice prende in considerazione l'età, gli studi frequentati, lo
sviluppo fisico e intellettivo eventuali malattie mentre l'accertamento dell'imputabilità è escluso
laddove il danno sia stato determinato da un soggetto in tenera età, data alla quale la prova
dell'incapacità si ritiene in re ipsa; per quanto concerne il secondo presupposto è opinione
comune che l’atto lesivo dell'incapace deve rivestire carattere di antigiuridicità, ossia presentare
gli estremi del fatto illecito richiesti dall’art. 2043 cc. Il dovere di sorveglianza va riferito a chi,
in base alla legge, sia tenuto ad adoperarsi affinché il comportamento dell'incapace non
costituisca fonte di danno, ossia i genitori, i tutori, gli affidatari familiari e gli affidatari
preadottivi: il dovere di vigilanza può tuttavia temporaneamente gravare specifica facoltà di
accogliere l'incapace nella propria sfera personale e familiare; questi soggetti possono andare
esenti da responsabilità laddove dimostrino di non aver potuto impedire il fatto secondo
parte della dottrina sarebbe sufficiente la dimostrazione di aver attuato tutte le misure in posti
dall'uso dell'ordinaria diligenza e in concreto idonee a scongiurare l'evento lesivo
 l'art. 2048 cc trova applicazione qualora il minore che cagioni danno a terzi sia capace di
intendere e di volere e prevede la concorrente responsabilità del padre e della madre per
l'illecito del figlio non emancipato che coabita con questi, del tutore per il fatto dannoso
determinato dalla persona soggetta a tutela, nonché dei precettori e dei maestri d'arte per gli
eventi lesivi compiuti dagli allievi ed agli apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro
vigilanza il comma 3 stabilisce che tutti questi soggetti possono liberarsi da responsabilità
fornendo la prova di non aver potuto impedire il fatto: per quanto riguarda i genitori la
giurisprudenza consolidata ritiene che questa prova liberatoria implichi la dimostrazione di aver
impartito al figlio un'adeguata educazione e di aver esercitato sul medesimo la vigilanza
necessaria al fine di prevenire il compimento di fatti illeciti nei riguardi di terzi i doveri di
educazione e di vigilanza non vengono intesi in senso assoluto ma relativo, in quanto
l'educazione viene valutata sulla base della personalità del minore e delle condizioni ambientali
in cui è inserito mentre l'obbligo di sorveglianza è commisurato all'età e al carattere del figlio. I
precettori e i maestri d'arte sono invece chiamati a rispondere del fatto illecito degli allievi e
degli apprendisti sono in ragione di un'onesta sorveglianza e non anche in virtù di una carenza di
educazione pertanto la loro responsabilità concorre con quella dei genitori.

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