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L’Affidamento Familiare

Capitolo 1: I Principi Ispiratori dell’Affidamento Familiare

1.1. Introduzione
L’affido familiare è un intervento complesso che viene attivato per tutelare il minore in difficoltà.
Esso costituisce una vera e propria rivoluzione copernicana, poiché comporta lo spostamento
dell’attenzione dall’adulto, inteso come titolare della sfera giuridica dei diritti appartenenti al
proprio figlio, al minore come portatore di bisogni.
La portata innovativa della legge del 4 maggio 1983, n. 184, che disciplina l’istituto dell’affido
consiste, infatti, nella possibilità, per il minore, di essere accolto da una nuova famiglia in grado di
fornirgli le cure e le attenzioni necessarie e di mantenere, al contempo, i legami affettivi con la
famiglia di origine, in attesa che si creino le condizioni per il suo ritorno nel nucleo familiare di
appartenenza.
Le difficoltà e i punti oscuri emersi applicando la legge sull’affido hanno portato alla revisione di
alcuni articoli della legge 184/1983, presenti nel testo della legge del 28 marzo 2001, n. 149.
Ciononostante, permangono ancora delle perplessità su alcuni aspetti dell’affido che possono
costituire uno stimolo a renderlo sempre più rispondente ai bisogni del minore e della sua famiglia.

1.2. L’Attenzione al Minore e ai suoi Bisogni: Excursus Storico


Il nostro ordinamento giuridico ha ereditato dal diritto romano i termini “infante” e “minore”, che
indicano rispettivamente colui che non sa ancora parlare e colui che è da meno, riproponendo così
un’immagine del bambino come potenziale uomo non ancora in grado di esercitare i suoi diritti.
Sebbene nel corso del tempo la concezione dell’infanzia sia mutata, è pur vero che fino agli inizi del
Novecento il ruolo dello Stato nella tutela del minore e dell’infanzia in generale era del tutto
marginale.
I primi seri tentativi di intervento in materia si ravvisano nel Regio Decreto 8 maggio 1927, n. 798,
con il quale venne istituito il servizio di assistenza ai fanciulli illegittimi o abbandonati. Si è così
attuato il passaggio da un’ottica in cui erano principalmente le associazioni caritatevoli o le libere
iniziative di cittadini a prendersi cura del minore a una visione in cui diviene compito delle
amministrazioni comunali e provinciali fornire l’assistenza ai minori abbandonati alla nascita od
orfani. In linea con questa nuova concezione del ruolo dello Stato, in quegli stessi anni fu varata la
legge 10 dicembre 1925, n. 2277, istitutiva dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e
dell’infanzia (ONMI), ente nazionale totalmente pubblico, per l’accoglienza di madri in stato di
difficoltà e minori bisognosi o a rischio psicosociale.
Un altro passo fondamentale è stata la costituzione dei primi Tribunali per i minorenni in seguito al
Regio Decreto 20 luglio 1934, n. 1404. Nacque, così, il primo organo giudiziario specializzato che
prevedeva, oltre a due giudici togati, anche la figura di un “benemerito dell’assistenza sociale” che
fosse cultore di discipline medico-umanistiche. Le competenze penali, civili e amministrative del
Tribunale per i minorenni riguardavano sia i minori rei o “corrigendi”, per i quali erano predisposti i
riformatori, sia i rapporti genitori-figli.
Con l’entrata in vigore, nel 1942, del nuovo Codice civile e del Codice di procedura civile, vengono
introdotti dei cambiamenti nel diritto di famiglia e viene istituita la funzione del giudice tutelare.
Nel dopoguerra, in tutta Europa si è assistito a un progressivo interessamento non solo alle
condizioni di vita dei minori in riferimento alle necessità biologiche, ma anche quelle affettive e
sociali. Lo studio condotto da Bowlby (1969, 1973, 1980), commissionato dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) su orfani o minori privati della propria famiglia per altre ragioni, che
devono venire affidati a famiglie educative, istituti o altre organizzazioni di assistenza collettiva,
evidenziò come le cure materne rivolte al neonato, al lattante e poi nella prima infanzia rivestissero
un’importanza fondamentale per lo sviluppo della salute mentale, laddove per cure materne non si

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deve intendere solo il soddisfacimento dei bisogni fisiologici immediati di nutrimento, assistenza e
protezione, ma anche la capacità di fornire risposte adeguate ai bisogni affettivi del bambino.
Coerentemente con quanto evidenziato da Spitz (1945), Bowlby (1969) denunciò come la
privazione prolungata di cure materne nell’infanzia potesse avere ripercussioni gravi sulla salute
psicofisica del minore e sostenne l’idea secondo la quale alla perdita della figura di attaccamento
fosse necessario assicurare al bambino, nel più breve tempo possibile, una nuova figura capace di
offrire sicurezza e protezione. Gli istituiti per minori, quindi, non provvedendo ai bisogni del
bambino, potevano essere solo delle soluzioni temporanee in attesa di garantire al minore un nuovo
ambiente familiare.
Un primo segnale di cambiamento, sulla scia dei contributi di Spitz (1945) e Bowlby (1969), fu dato
dall’Associazione Nazionale famiglie adottive e affidatarie (ANFAA) che, oltre a innumerevoli
iniziative, diede il via, nel 1963, a una serie di studi finalizzati a preparare una proposta di legge,
con l’obiettivo di codificare un istituto dell’adozione che avesse come finalità quella di provvedere
ai bisogni educativi del bambino, basandosi sull’assunto che ogni minore ha diritto di crescere in
famiglia. Le proposte presentate dall’ANFAA trovarono espressione nella legge 5 giugno 1967, n.
431, la quale disciplinava una forma di adozione (detta “speciale”) per i minori di età anche
inferiore agli 8 anni, che versassero in condizioni di abbandono e di deprivazione. La previsione
normativa si è spinta sino a consentire al minore di assumere il cognome del padre adottivo e di
godere degli stessi diritti riconosciuti ai figli legittimi. La portata innovativa della legge è ben
evidente e si concretizza nell’aver ritenuto gli interessi del minore preminenti rispetto a quelli del
genitore.
Tale normativa, che si colloca a cavallo tra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta,
nasce in un momento caratterizzato da una serie di importanti riforme sociali, tra cui la legge
sull’istituzione degli asili nido (6 dicembre 1971, n. 1044); la legge 1’ dicembre 1970, n. 848, che
disciplina i casi di scioglimento del matrimonio nell’interesse delle parti coinvolte e in particolare
delle fasce deboli e dei figli; la legge 29 luglio 1975, n. 405, sull’istituzione dei consultori familiari,
che ha posto l’attenzione sulla necessità di promuovere modalità adeguate per la risoluzione delle
problematiche inerenti il singolo, la coppia e la famiglia.
Parallelamente al susseguirsi di una così feconda produzione legislativa, si è assistito a uno
spostamento della competenza, in materia assistenziale, dal servizio sociale del ministero di
Giustizia ai servizi sociali territoriali.
1.3. L’Affidamento Familiare nelle Leggi 184/1983 e 149/2001
Le aspirazioni e le proposte elaborate dall’ANFAA e dal CIAI (Centro italiano per l’adozione
internazionale) hanno trovato un’adeguata cornice legislativa nella legge 184/1983,
successivamente modificata dalla legge 149/2001.

1.3.1. Principi generali


L’intero impianto normativo si sviluppa intorno ai diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione: ci
si riferisce agli artt. 2, 3 e 30, nei quali si riconosce il diritto del singolo al pieno sviluppo della
propria personalità, il diritto alla pari dignità sociale e, infine, il diritto e dovere dei genitori a
mantenere, istruire ed educare i propri figli. Uno dei meriti maggiori della legge 184/1983 è quello
di aver sancito, quale prerogativa imprenscindibile, il diritto del minore a crescere in famiglia.
Questo principio guida trova una chiara illustrazione nell’art. 1, comma 1, in cui si sostiene che “il
minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia” e, nel comma 5,
che il “diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia è
assicurato senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione e nel rispetto della
identità culturale del minore”.
La famiglia di origine assume, pertanto, un ruolo importante per un adeguato sviluppo psicofisico
del minore e difficilmente sostituibile, tanto da non rappresentare motivazione sufficiente, ai fini
dell’allontanamento del minore dal suo nucleo familiare, la condizione di povertà materiale: “Le
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condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono esser
di ostacolo all’esercizio del minore alla propria famiglia”. E’ lo Stato che, in tale prospettiva, si fa
carico del dovere di promuovere interventi di aiuto e di sostegno a favore delle famiglie: “Lo Stato,
le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi,
nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a
rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito
della propria famiglia” (art. 1, comma 3).
La volontà del legislatore di salvaguardare, fin dove possibile, la crescita del minore nella propria
famiglia è evidente anche quando sussistono condizioni di temporanea difficoltà; l’art. 2, comma 1,
afferma che “il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli
interventi di sostegno e di aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad una famiglia,
preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento,
l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno”.
Di fronte alla traumatica scelta di recidere i rapporti familiari con un’adozione legittimante, il
legislatore ha preferito l’utilizzo dell’istituto dell’affidamento, nella convinzione che le possibilità
da questo offerte rappresentino una soluzione più accettabile rispetto a una rottura definitiva dei
legami con la famiglia d’origine. L’affidamento, infatti, offre al minore non solo una risposta alle
esigenze primarie di cura e protezione, ma consente alla famiglia di origine la possibilità di
recuperare la propria funzione genitoriale.
Se da un lato, quindi, il ruolo della famiglia naturale è centrale, dall’altro, come alcuni autori hanno
sottolineato, è chiara la volontà di salvaguardare i diritti del minore, garantendogli, in particolare, la
possibilità di un contesto affettivo adeguato e di un rapporto stabile con i genitori naturali, al fine di
assicurargli uno sviluppo psico-affettivo armonico.

1.3.2. L’Allontanamento del Minore dal Nucleo Familiare


Se la legge promuove l’affido familiare nei casi in cui il minore sia temporaneamente privo di un
ambiente familiare idoneo, diviene rilevante precisare il concetto di non idoneità del contesto
familiare. La legge non chiarisce esplicitamente quali siano le problematiche e le difficoltà che la
famiglia dovrebbe presentare; è possibile, tuttavia, fare riferimento all’art. 403 c.c., che contiene
alcune indicazioni più specifiche: un contesto familiare viene definito non idoneo quando “il minore
è moralmente o materialmente abbandonato o allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da
persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi, incapaci di provvedere
all’educazione di lui”.
Il nostro sistema giuridico già prevedeva che, qualora si fossero verificate le suddette condizioni,
potessero essere “altri” a provvedere ai bisogni del minore; tuttavia, solo con la legge 184/1983
riformata viene esplicitato chiaramente chi possa sostituirsi alla famiglia d’origine: “Il minore
temporaneamente privo di un ambiente idoneo è affidato ad una famiglia preferibilmente con figli
minori o ad una singola persona” (art. 2, comma 1). L’art. 2, comma 2, inoltre, sostiene che, “ove
non sia possibile l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore
in una comunità di tipo familiare, o in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato, che
abbia sede preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo
familiare di provenienza. Per i minori di età inferiore ai sei anni l’inserimento può avvenire solo
presso una comunità di tipo familiare”.
Si prospetta, quindi, per il minore, la possibilità di essere inserito in un nuovo nucleo familiare
come prima soluzione. Vengono chiariti anche i requisiti che deve possedere chi si propone per
l’affidamento: non è necessario che la coppia sia unita in matrimonio ed è contemplata anche
l’ipotesi che i partner siano conviventi more uxorio. Anche per le persone singole non è specificato
il loro status giuridico, per cui può trattarsi di persone non coniugate, vedove, divorziate, o anche
separate.
I requisiti che l’aspirante affidatario deve possedere, quindi, sono molto meno rigidi rispetto a quelli

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richiesti per chi si dichiara disponibile all’adozione, in virtù della differenza dei principi che
animano i due interventi. Coloro che si propongono per l’adozione, infatti, si candidano a diventare
figure genitoriali sostitutive rispetto a quelle di origine del minore; i genitori affidatari, invece, non
sostituiscono i genitori naturali, ma svolgono un ruolo protettivo nei confronti del bambino:
diventano figure di riferimento in attesa che il nucleo familiare di origine possa recuperare la
propria funzione genitoriale.
Per quanto riguarda l’inserimento in strutture assistenziali, superata ormai l’idea di ricorrere agli
istituti, viene identificata la comunità di tipo familiare come luogo più idoneo per il minore in
quanto, riproponendo un’organizzazione e una strutturazione dei rapporti simili a quella familiare,
gli garantirebbe, comunque, la possibilità di sperimentare legami affettivi stabili. Gli istituti,
pubblici o privati, rimangono l’ultima soluzione prevista; nella nuova formulazione della legge
184/1983 (legge 149/2001), è anzi chiaro l’intento del legislatore di superare la visione
socioassistenzialistica propria di queste istituzioni adottando, invece, un’ottica promozionale,
preventiva e partecipativa: “Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006
mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in
comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a
quelli di una famiglia”.
Tuttavia, come hanno notato alcuni autori, nella legge 184/1983 manca una chiara indicazione degli
standard che questi istituti dovrebbero possedere e viene demandato alle regioni il compito di
stabilire tali requisiti.

1.3.3. La Temporaneità dell’Allontanamento dal Nucleo Familiare


La caratteristica peculiare dell’affido familiare che lo distingue da altre misure di intervento, quali
ad esempio l’adozione, è la sua temporaneità. Questa sua caratteristica, unita al carattere transitorio
delle condizioni di disagio che il minore ha sperimentato nella sua famiglia di origine, rende la
situazione molto diversa dallo stato di abbandono per il quale decade la patria potestà e viene
dichiarato lo stato di adottabilità del minore. L’adozione si pone, quindi, come un intervento
risolutivo volto ad assicurare una famiglia al minore, in quanto questi versa in uno stato di
abbandono irreversibile; l’affido familiare, invece, si presenta come un intervento a termine poiché
prevede il rientro del minore nel suo nucleo familiare.
La temporaneità dell’affido, che si pone come elemento distintivo di questo provvedimento, viene
più volte evidenziata dalla legge che disciplina la materia: “Il minore che sia temporaneamente
privo di un ambiente familiare idoneo” (art. 2, comma 1); “Tale periodo (l’affido) non può superare
la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile, dal Tribunale per i minorenni, qualora la
sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore” (art. 4, comma 4); “L’affidamento
familiare cessa quando sia venuta meno la situazione di difficoltà temporanea della famiglia
d’origine” (art. 4, comma 5).
Rispetto alla formulazione originaria della legge (legge 184/198), la novella del 2001 circoscrive
ulteriormente il significato del termine “temporaneo” a un periodo di durata dell’affido di 24 mesi.
La possibilità di prorogare l’esperienza dell’affido, tuttavia, ha sollevato un dibattito circa la natura
stessa dell’istituto.
Alcuni autori sostengono l’idea che l’affido non possa configurarsi come un intervento sine die,
poiché potrebbe incrementare lo stato di incertezza del minore, compromettendo ulteriormente i
legami con la sua famiglia naturale e creando un legame affettivo con quella affidataria che,
difficilmente, si potrà interrompere. Un rischio ancora più grave in cui si può incorrere è che,
travisando lo spirito della legge, si utilizzi l’istituto dell’affido per coprire adozioni di fatto,
incentivando così comportamenti contrari alla legge.
Altri autori, invece, tra cui Vercellone, fanno rientrare nell’accezione di “temporaneo” anche quelle
situazioni in cui la collocazione nel tempo del recupero delle funzioni genitoriali non sia facilmente
prevedibile. Essi partono dal presupposto che, comunque, qualora le condizioni di difficoltà e di

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inadeguatezza della famiglia naturale divengano croniche e insuperabili, la legge tenderà a tutelare
l’interesse del minore predisponendo lo stato di adottabilità. Tale posizione nasce dalla
consapevolezza, maturata con l’esperienza sul campo, che l’affido sine die rappresenti
un’alternativa utile, se non necessaria, all’istituzionalizzazione del minore e in tutti quei casi in cui,
sebbene la famiglia naturale presenti situazioni problematiche difficilmente risolvibili, vi sia
un’obiettiva difficoltà se non l’impossibilità di procedere all’adozione.

1.3.4. Chi Predispone l’Affidamento


E’ possibile distinguere due forme di affido: una prima consensuale e l’altra giudiziaria, a
prescindere dalla tipologia dell’affido stesso (affido etero familiare, intrafamiliare, inserimento in
comunità).
Partendo dal presupposto che l’intento del legislatore sia quello di promuovere l’affido come risorsa
per la famiglia in difficoltà e non come sanzione punitiva, l‘affido familiare assume i connotati di
un servizio amministrativo che viene offerto alla famiglia. Qualora quest’ultima intenda servirsene,
l’affido viene definito consensuale.
“L’affidamento familiare è disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai
genitori o dal genitore esercente la potestà, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli
anni dodici e anche il minore di età inferiore, in considerazione alla sua capacità di discernimento. Il
giudice tutelare del luogo ove si trova il minore rende esecutivo il provvedimento con decreto” (art.
4, comma1).
L’attenzione per l’infanzia e i suoi bisogni appare chiaramente nelle modifiche apportate dalla legge
149/2001. Nella formulazione originaria, infatti, il minore poteva essere ascoltato solo se il suo
parere era ritenuto opportuno; con la nuova legge, invece, vi è il riconoscimento del valore del
vissuto emotivo del minore, che va tenuto presente nel progettare un intervento realmente
rispondente ai suoi bisogni e alle sue necessità.
Tuttavia, diversamente dall’adozione, non è previsto che il minore ultraquattordicenne dia il suo
consenso. Ciò appare problematico perché, se è vero che da una prospettiva meramente legislativa il
minore durante il periodo di affido non modifica il suo status giuridico, è anche possibile che
l’affido, inteso come forma di aiuto e di sostegno, vada incontro all’insuccesso, qualora il minore,
specie se alle porte dell’adolescenza, si mostri contrario verso tale esperienza.
L’affido giudiziario, invece, si applica nei casi in cui la famiglia, pur essendo temporaneamente non
idonea a prendersi cura del minore, si oppone all’utilizzo di tale intervento. In tal caso
l’allontanamento del minore e l’inserimento in un nuovo nucleo familiare o in comunità viene
predisposto dal Tribunale per i minorenni.
Questa modalità di intervento trova applicazione anche nei casi in cui, di entrambi i genitori
esercenti la patria potestas, solo uno si opponga, o nei casi in cui, pur essendoci il consenso per
l’affido, manchi l’accordo sulle modalità con cui attuarlo.

1.4. Le Diverse Forme di Affidamento


L’affido familiare si configura come un intervento complesso, che richiede un intenso lavoro di rete
in cui la famiglia affidataria svolge un ruolo principale, per assicurare al minore quelle cure che non
possono essere offerte dalla famiglia d’origine. La volontà di salvaguardare il benessere del
bambino ha portato a una differenziazione delle diverse forme con cui si può attuare il progetto di
affido. Tali forme tengono conto sia dell’età del minore sia della natura delle problematiche che
hanno determinato la necessità dell’allontanamento dal nucleo familiare, allo scopo di fornire una
risposta adeguata alla condizione di disagio di cui il minore è portatore.
E’ possibile distinguere, innanzitutto, tra affido eterofamiliare e intrafamiliare: nel primo caso, il
minore è affidato a una famiglia esterna al suo nucleo di provenienza; nel secondo caso, invece, è
affidato a parenti diretti.
La diffusione di queste due forme di affido è abbastanza variegata nel nostro paese; in particolare,

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l’affido intrafamiliare è maggiormente presente nel Sud Italia e nelle isole.
Al di là di questa distinzione tra le diverse forme di affido, a ogni regione, sulla base delle
disposizioni nazionali è affidato il compito di determinare le condizioni e le modalità di sostegno
verso le famiglie, le persone e le comunità di tipo familiare che possono avere minori in
affidamento, nonché di proporre progetti specifici volti a tutelare l’interesse del minore.
A fronte di un numero cospicuo di progetti e di proposte da parte di comuni e province, il
Coordinamento nazionale dei servizi di affidi (CNSA) ha sostenuto l’importanza di concordare un
linguaggio comune tra le parti coinvolte nel progetto di affido, con una duplice motivazione: da un
lato, quella di consentire una valorizzazione della poliedricità dell’utilizzo di tale strumento;
dall’altro, quella di favorire una conoscenza più approfondita del reale utilizzo dell’affido sul
territorio nazionale, allo scopo di distinguere più chiaramente i confini con altre tipologie di
intervento.
Alla luce di questa proposta, è possibile individuare alcune modalità generali di utilizzo dell’istituto
dell’affidamento; facendo riferimento, infatti, all’età del minore, sono sempre più numerose le
regioni che stanno attuando forme di affido per neonati o piccolissimi (0-36 mesi). Si tratta di affidi
urgenti e di breve durata, qualora si stia procedendo a una valutazione e a una prognosi delle
capacità genitoriali della famiglia di origine. Un requisito perché un neonato possa essere inserito in
una famiglia affidataria è, innanzitutto, la non esistenza di condizioni che rendano possibile un
intervento a sostegno della genitorialità e l’impossibilità di proporre un inserimento della madre con
il bambino in una comunità. Una volta esclusa la possibilità di far permanere il bambino all’interno
della sua famiglia di origine, si può attuare questa forma di affido che, rispetto ad altre, pone
maggiormente l’accento sulla valenza affettiva delle relazioni che si instaurano tra gli affidatari e il
minore. L’obiettivo, infatti, è quello di permettere al bambino di vivere in un contesto familiare in
cui possa stabilire relazioni positive e diverse da quelle che potrebbe sperimentare nel proprio
nucleo di appartenenza; in questo modo si dà la possibilità agli operatori di valutare con una certa
accuratezza e tempestivamente la recuperabilità delle funzioni genitoriali, così da prevedere il
rientro a breve termine del minore nel nucleo familiare di appartenenza o, in caso contrario,
l’apertura di un procedimento di adottabilità. I motivi che spingono a optare per l’affidamento
familiare possono essere molteplici: spesso, si tratta di figli di genitori tossicodipendenti o portatori
di disagi psichici, oppure di bambini che presentano problemi di salute per cui non è possibile, per
la famiglia di origine, accudirli e provvedere in maniera adeguata ai loro bisogni; si può anche
trattare di minori in stato di abbandono o di vittime di abusi e maltrattamenti.
Si può ricorrere a questa modalità di affido anche quando il bambino non è riconosciuto alla nascita
e non si è in grado, in pochi giorni, di trovare una famiglia idonea per l’adozione. In tali situazioni,
ancora molo frequenti nella realtà italiana, si evita al minore l’inserimento in comunità e si
garantisce un nucleo familiare di “prima accoglienza”. Perché l’affido funzioni, tuttavia, è
necessario che la famiglia affidataria sia consapevole, ancora di più che con un bambino più
maturo, che si tratta di un intervento temporaneo finalizzato a favorire il recupero della funzione
genitoriale della famiglia di origine; è necessario, cioè, accertare che ci sia una forte consapevolezza
dei confini tra l’affido e l’adozione e una buona capacità di saper accettare la separazione quando
sia giunto il momento.
Nel caso in cui i bambini siano più grandi, è possibile disporre di ulteriori forme di affido quali
l’affido educativo, quello professionale, l’affido diurno o notturno, quello per le vacanze e quello
part-time.
L’affido educativo è centrato prevalentemente sull’inserimento sociale del minore attraverso attività
educativo-scolastiche e ricreative; esso si differenzia da quello di tipo familiare che, invece, pone
maggiore enfasi sul compito, da parte della famiglia affidataria, di costituire una risorsa affettiva per
il minore.
L’affido professionale si propone di rispondere alle esigenze di minori che, per le loro
caratteristiche, non riescono a trovare una collocazione in un contesto familiare, rischiando di

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rimanere troppo a lungo nelle comunità. Le problematiche che accompagnano questi minori, infatti,
richiedono una maggiore competenza e un maggiore impegno da parte della famiglia affidataria: si
tratta, molto spesso, di minori traumatizzati, cha hanno sperimentato abusi o gravi maltrattamenti,
di bambini con handicap psicofisico, di minori che hanno alle spalle esperienze con affidi falliti, di
fratelli non separabili, di adolescenti con provvedimenti penale o di situazioni urgenti che
richiedono una disponibilità immediata da parte di una famiglia. Gli affidatari professionali sono, di
norma, individui di età compresa tra i 25 e i 60 anni, che svolgono il ruolo di referente per tutta la
durata del percorso di affido; per tale ragione, essi seguono un iter formativo specifico e non
possono avere in corso un’attività lavorativa a tempo pieno.
L’affido diurno, invece, consiste nell’affidamento di un bambino a una famiglia che lo accoglie
presso di sé solo durante la giornata, non provvedendo al suo pernottamento. Tale tipologia di affido
può essere uno strumento utile nelle situazioni in cui la famiglia di origine necessiti di un supporto
per l’educazione del minore. Nell’affido notturno, al contrario, il minore rimane presso la famiglia
affidataria solo la sera. Tale tipo di intervento si attua qualora i genitori della famiglia d’origine, per
motivi di lavoro o di salute, non abbiano la possibilità di occuparsi del bambino durante le ore
notturne.
Un’altra formula di utilizzo dell’affido familiare è l’affido per le vacanze, strumento utile quando la
famiglia, sprovvista di una rete sociale adeguata, abbia difficoltà nei periodi in cui non c’è scuola.
Viene offerta al bambino, in questo modo,la possibilità di sperimentare esperienze positive che i
genitori non sono in grado di fornirgli.
Infine, l’ultima tipologia di affido, utilizzata solitamente con ragazzi in età adolescenziale o
prossimi alla maturità, è l’affido bed and breakfast, il quale si pone l’obiettivo di ospitare
l’adolescente in disagio, favorendone lo sviluppo dell’autonomia e della responsabilità e
garantendogli un punto d’appoggio. Viene definito bed and breakfast perché una famiglia ospitante
mette a disposizione una stanza della propria abitazione per il pernottamento del minore,
assicurandogli la prima colazione e la cena e condividendo il clima familiare della sera, senza
impegnarsi in un rapporto di tipo genitoriale. In realtà, i bisogni dei minori in questa fascia d’età, tra
cui la possibilità di instaurare relazioni positive con gli adulti sviluppando, al contempo, una propria
autonomia e una propria identità, possono essere adeguatamente soddisfatti dall’istituto dell’affido
purché sia rispettata la storia pregressa del minore (il riconoscimento dei legami esistenti, la
considerazione del tempo di permanenza in istituto o in comunità), venga condiviso con lui il
progetto e venga promossa gradualmente la sua autonomia; questo, del resto, è ciò che è
prospettato dall’affido bed and breakfast.
Un discorso a parte merita, infine, l’affido di minori stranieri. Il numero cospicuo e sempre
crescente di minori stranieri in Italia ha stimolato, in molte città italiane, l’attuazione di progetti
volti al sostegno dei minori che provengono da un altro paese e che, purtroppo, rischiano
l’inserimento in strutture a tempo indeterminato. E’ necessario distinguere tra i minori che risiedono
in Italia con la famiglia di origine dai minori stranieri non accompagnati, poiché le modalità di
attuazione degli interventi, in queste due situazioni, presentano delle differenze. In generale, le
famiglie straniere vivono alcune problematiche connesse alla difficoltà di trovare un impiego e alla
mancanza di una rete sociale di supporto, situazioni che si riverberano sulla relazione genitori-figli.
In questi casi, può essere più idonea una soluzione di affido consensuale finalizzata a far fronte ad
alcune condizioni di difficoltà genitoriale. Attuare un progetto di affido con minori stranieri è,
tuttavia, un compito difficile a causa delle specificità dei bisogni di cui questi bambini sono
portatori. La difficoltà del minore di vivere tra due identità culturali ha spinto le amministrazioni a
promuovere forme di affido omoculturali, al fine di garantire il rispetto per le tradizioni e i
riferimenti culturali peculiari dei minori stranieri. L’affido eteroculturale, sebbene presente, richiede
un notevole impegno da parte della famiglia affidataria, la quale deve essere a conoscenza delle
differenze culturali e religiose ed essere adeguatamente preparata a rispettare l’identità culturale del
minore in affido. Nel caso di minori stranieri non accompagnati, il CSNA (2004) insiste

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sull’opportunità di promuovere forme di affido educativo in cui l’accento sia posto sulla funzione di
tutorato da parte della famiglia affidataria, finalizzata a favorire l’integrazione del minore nella
società.

1.5. La situazione italiana dell’affidamento in cifre


Per conoscere più in profondità le caratteristiche, le potenzialità e alcuni punti problematici
dell’affidamento, può essere utile soffermarsi su alcuni dati che riflettono lo stato dell’affidamento
familiare in Italia e rappresentano una mappa dei servizi totali della gestione degli affidi. I dati che
presentiamo sono tratti da uno studio condotto dal CNDAIA (2002) e consentono di avere
informazioni non solo sulla situazione italiana in generale, ma anche sulle specifiche modalità
organizzative dell’affido adottate dalle diverse regioni.
I dati sui casi di affido familiare (intrafamiliare ed eterofamiliare) ai quali facciamo riferimento
sono relativi al periodo compreso tra il 1’ gennaio e il 30 giugno del 1999.
La loro rilevazione ha previsto l’utilizzo di un questionario somministrato ai responsabili dei casi di
minori in affidamento segnalati in tutte le regioni italiane.
Al 30 giugno 1999, i minori in affidamento familiare sono risultati, in totale, 10.200; ciò significa
che circa un bambino su mille era in affido. La diffusione di tale istituto non si distribuisce,
comunque, in maniera omogenea sul territorio: infatti, è stata rilevata una maggiore incidenza di
minori in affido nel Nord Italia (53,4%) rispetto al Centro (17,7%) e al Sud Italia, comprese le isole
(28,9%).
Differenziando, tra affido intra- ed eterofamiliare, è stata riscontrata una maggiore diffusione
dell’affido a un parente del minore (52%) rispetto all’affido a una famiglia con la quale non esiste
nessun nesso di parentela (45,8%).
Per quanto riguarda le caratteristiche del minore, non sono state riscontrate differenze rilevanti
legate al genere (51,4% maschi e 48,6% femmine), mentre, rispetto all’età del minore, la fascia più
rappresentata è quella compresa tra i 6 e i 10 anni, sia per l’affido intrafamiliare (29,7%) che
eterofamiliare (35,5%).
La famiglia di origine di questi minori, secondo quanto riportato dallo studio citato, si presenta
come multiproblematica: spesso, infatti, si tratta di famiglie caratterizzate da una forte
disgregazione.
Per quanto riguarda le motivazioni che hanno determinato l’allontanamento del minore dal nucleo
familiare, si riscontra che, a prescindere dal fatto che si tratti di affido intrafamiliare o
eterofamiliare, spesso è la concomitanza di due o più motivazioni a rendere il quadro più complesso
e di difficile analisi.
Per quanto riguarda la durata dell’affido, i dati riportano una media di quasi quattro anni per l’affido
eterofamiliare e di quasi cinque anni per l’affido intrafamiliare. In entrambi i casi si evince come la
temporaneità dell’affido sia ancora una caratteristica dell’istituto che non trova facile applicazione
nella prassi.
Infine, relativamente a chi dispone l’affidamento, solo nel 26,1% dei casi si tratta di affido
consensuale, in contrasto con quanto auspicato dalla legge; nel restante 73,9%, invece, è stato il
giudice per il Tribunale per i minorenni a predisporre l’allontanamento del minore e l’inserimento in
un nuovo contesto familiare. Tale divario si mantiene pressoché invariato a prescindere dalla natura
dell’affido.

1.6. L’Iter dell’Affidamento


L’affidamento familiare, sia nel caso in cui venga disposto con il consenso dei genitori della
famiglia di origine, sia quando viene deciso, su segnalazione dei servizi sociali, dal Tribunale per i
minorenni, si basa su un duplice provvedimento: uno emesso dall’ente locale che progetta l’affido e
l’altro dall’ufficio giudiziario che rende esecutivo o decreta l’affido stesso.
La normativa sull’affido prevede, infatti, che il servizio sociale territoriale effettui la segnalazione

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del caso al giudice competente, il quale rende esecutivo il provvedimento.
Nella segnalazione dovrebbero essere specificate sia le problematiche presentate dalla famiglia, sia
la prognosi per il rientro del minore nel suo nucleo familiare, così come previsto dalla legge
184/1983 modificata dalla legge 149/2001, art. 4, comma 3:
Nel provvedimento di affidamento familiare devono essere indicate specificatamente le motivazioni
di esso, nonché i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario, e le modalità
attraverso le quali i genitori e gli altri componenti il nucleo familiare possono mantenere i rapporti
con il minore. Deve altresì essere indicato il servizio sociale locale cui è attribuita la responsabilità
del programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l’affidamento con l’obbligo di tenere
costantemente informati il giudice tutelare o il tribunale per i minorenni, a seconda che si tratti di
provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2. Il servizio sociale locale cui è attribuita la
responsabilità del programma di assistenza, nonché la vigilanza durante l’affidamento, deve riferire
senza indugio al giudice tutelare o al tribunale per i minorenni del luogo in cui il minore si trova, a
seconda che si tratti di provvedimento emesso ai sensi dei commi 1 o 2 (giudiziario o consensuale),
ogni evento di particolare rilevanza ed è tenuto a presentare una relazione semestrale
sull’andamento del programma di assistenza, sulla sua presumibile ulteriore durata e
sull’evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza.
E dal comma 4:
Nel provvedimento di cui al comma 3, deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile durata
dell’affidamento che deve essere rapportabile al complesso di interventi volti al recupero della
famiglia d’origine. Tale periodo non può superare la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile,
dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore.
A seguito del decreto del giudice, sarà cura del Comune o dell’ente responsabile sul territorio
disporre l’affido e, mediante una delibera della giunta comunale o dell’assessore o dell’autorità
competente, prendere ufficialmente in carico il caso. In realtà accade molto raramente che sia un
unico ente a seguire il percorso di affido. È prassi comune, in molte realtà italiane, che la famiglia
di origine sia seguita dal Comune o dall’ASL del luogo in cui risiede, mentre la famiglia affidataria
sia supportata dal servizio che l’ha reperita. Sebbene questa divisione dei ruoli non sia contraria ai
principi di legge, è importante che vi sia un costante dialogo tra le parti coinvolte nell’interesse del
minore.
La prassi normativa, infine, prevede che “l’affidamento familiare cessi con provvedimento della
stessa autorità che lo ha disposto, valutato l’interesse del minore, quando sia venuta meno la
situazione di difficoltà temporanea della famiglia d’origine che lo ha determinato, ovvero nel caso
in cui la prosecuzione di esso rechi pregiudizio al minore” (art. 4, comma 5).

Capitolo 2: Minore, Famiglie E Operatori: Attori Sociali Dell’affidamento Familiare

2.1. Introduzione
L’affidamento familiare si configura come un intervento complesso, poiché coinvolge persone
diverse che, in maniera differente, sono legate l’una all’altra durante tutto il percorso.
Il minore occupa certamente un ruolo preminente; l’istituto dell’affido, infatti, nasce proprio con
l’intento di salvaguardare e tutelare i suoi bisogni e le sue necessità psicofisiche. Questi dovrà
affrontare la separazione dalle figure genitoriali e l’allontanamento dal contesto familiare di origine,
eventi sicuramente critici, per essere accolto in una nuova famiglia capace di garantirgli le cure e le
attenzioni necessarie.
Anche la famiglia di origine si troverà ad affrontare la separazione dal minore dovendo da un lato
gestire la perdita del figlio e dall’altro prendere coscienza delle problematiche presenti.
Troviamo, poi, la famiglia affidataria, la quale ha il compito di offrire al minore un modello
relazionale alternativo a quello della famiglia di origine, assicurando, al contempo, il mantenimento
dei legami del bambino con i suoi genitori.

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Infine, non va tralasciato il ruolo degli operatori sociali, ai quali spetta il compito di prendere
decisioni importanti riguardo alla formulazione e attuazione del progetto di affidamento. Ciò
determina un loro coinvolgimento non solo su un piano strettamente tecnico, ma anche su quello
personale.

2.2. Il minore
Sebbene il protagonista dell’affido familiare sia il minore, si parla poco di lui come individuo
caratterizzato da sogni, paure, delusioni e aspettative proprie.
Solo di recente si sta cominciando a focalizzare l’attenzione sui vissuti emotivi del minore durante
tutto il percorso dell’affido e su come, ai cambiamenti che si trova man mano ad affrontare, si
accompagnino mutamenti anche nel suo mondo interno, in relazione alla sua identità di figlio e, in
generale, di individuo. Kaneklin, a tal proposito, sottolinea come l’affido familiare, provocando un
continuo raffronto tra famiglie e contesti differenti e l’alternarsi di figure genitoriali diverse, spinga
costantemente il minore all’identificazione di se stesso come figlio. Di conseguenza, anche
l’attenzione di chi si occupa di affidamento familiare è posta prevalentemente su questo aspetto
dell’identità sociale del bambino, sebbene non si possono trascurare le altre acquisizioni tipiche che
il bambino sta affrontando.
Parlare di un minore in affido significa, innanzitutto, dover comprendere la qualità delle relazioni
che il bambino ha stabilito con le figure genitoriali e le strategie che egli ha utilizzato per far fronte
alle difficoltà presenti nel suo nucleo familiare di appartenenza. E’ altresì importante tener conto
della fase evolutiva in cui il minore è stato allontanato dai suoi genitori e inserito in una nuova
famiglia; ciò permette di capire le sue reazioni all’ingresso in un nuovo nucleo familiare e alla
convivenza con diverse figure genitoriali.
Un bambino allontanato dal suo contesto familiare e inserito in un nuovo nucleo può presentare
numerose difficoltà: è probabile che questi vada incontro a problemi di insuccesso scolastico,
presenti nel 25,15% dei minori in affido, manifestando capacità di apprendimento e performance
cognitive più basse rispetto ai suoi compagni di classe. E’ anche possibile che le problematiche
relazionali sperimentate nel contesto della famiglia di origine si ripercuotano sulle interazioni con i
pari (15,45%) o con gli adulti (18,20%); tali difficoltà nella costruzione delle relazioni possono
essere aggravate dalla messa in atto di comportamenti aggressivi sia auto diretti (2,8%) che etero
diretti (7,25%), che giungono a essere definiti devianti nell’1,80% dei casi.
Possiamo immaginare che la presenza di queste difficoltà nei minori possa compromettere anche la
percezione che essi sviluppano di sé; infatti, non sorprende constatare che circa il 15% dei bambini
in affidamento presenti una bassa autostima.
Questi dati, riferiti alla realtà italiana, sono confermati anche dagli studi che hanno esaminato le
caratteristiche del bambino in affido in nazioni diverse. I bambini per i quali viene attivato il
provvedimento di affido presentano maggiori problematiche sia affettive che comportamentali; si
tratta molto spesso di minori con alle spalle storie di abuso e di violenza, con gravi deprivazioni di
natura socioeconomica o con genitori che presentano problematiche psichiatriche e/o di dipendenza
da sostanze. Crescere in questi nuclei familiari disfunzionali non permette al bambino di disporre
degli adulti e del contesto familiare come luogo privilegiato in cui apprendere quelle abilità e
competenze necessarie per affrontare il mondo esterno. Infatti, per quanto riguarda gli esiti evolutivi
di questi minori, gli studi tracciano un quadro piuttosto preoccupante: in età adulta, essi sono
maggiormente esposti a disoccupazione, vanno più frequentemente incontro all’insuccesso
scolastico, tendono a mantenere uno status sociale basso e a contare poco sul supporto sociale.
Tali esiti riflettono la natura delle vicende che il bambino ha affrontato nel corso della sua vita.
Anche l’esperienza con la famiglia affidataria non necessariamente riuscirà a colmare le lacune che
il bambino presenta. Al termine di tale percorso, potrà trovarsi, infatti, in due condizioni: aver
acquisito due famiglie, quella affidataria capace di fornirgli le cure necessarie e quella naturale che,
avendo ritrovato le energie e le capacità di assolvere alle sue funzioni genitoriali, potrà così

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reintegrare nel proprio nucleo familiare; o, al contrario, aver perso due famiglie, quella affidataria
incapace di reggere alle sfide che l’affido presenta e quella naturale in difficoltà nel risolvere le sue
problematiche e nel creare lo spazio fisico-affettivo necessario perché il minore possa rientrare.
Sono gli adulti che ruotano attorno al bambino a far sì che questi possa aver acquisito o perso
qualcosa grazie all’affidamento; il minore, spesso, svolge una parte passiva in un processo che,
paradossalmente, viene attivato proprio per il suo benessere psicofisico. L’elemento che il minore
subisce maggiormente è la scarsa definizione dei confini temporali dell’intera esperienza; spesso,
infatti, gli operatori ritengono necessario tenere lontano il bambino dal suo nucleo di appartenenza
ma, allo stesso tempo, non reputano i motivi dell’allontanamento talmente gravi e irreparabili da
voler procedere all’adottabilità. Tale stato di precarietà e di incertezza comporta, però, per il minore
il dover gestire tale ambiguità sulla propria appartenenza e identità; l’impossibilità di collocare
temporalmente l’esperienza di affido o di immaginare l’esito può rendergli difficile comprendere il
suo ruolo rispetto alle due famiglie, sapere se la separazione con la famiglia di origine sarà
definitiva o meno, o se ritenere la famiglia affidataria come l’unica su cui investire emotivamente.
Ci sembra interessante porre l’attenzione sul fatto che, nel caso dell’affidamento familiare,
pensando ai vissuti del minore, ci si soffermi principalmente sul significato attribuito e sulle sue
modalità di reazione ai processi di separazione dalla sua famiglia. Diversamente dall’adozione,
infatti, la separazione dal nucleo familiare di origine non è mai definitiva, ma acquista un
andamento ciclico in cui all’allontanamento dalla famiglia naturale si accompagna l’avvicinarsi
della famiglia affidataria e viceversa.
Soffermandosi su questo aspetto peculiare del provvedimento di affido, molti autori hanno lasciato
in secondo piano i processi di attaccamento che, invece, meriterebbero una maggiore attenzione,
perché costituiscono la chiave di volta del successo dell’intero provvedimento. Separazione e
attaccamento, infatti, esercitano un ruolo importante sullo sviluppo del minore, essendo fortemente
interconnessi tra loro: il modo in cui vengono gestite le separazioni può, infatti, influenzare il
successo nella costruzione o nella ristrutturazione dei legami affettivi dei bambini.
L’età del bambino e la qualità delle esperienze maturate nel contesto familiare di appartenenza
costituiscono fattori importanti per predire sia le reazioni e le aspettative che il minore maturerà nei
confronti della famiglia affidataria, sia la possibilità di un suo ritorno presso la famiglia naturale.
Sebbene, spesso, la qualità delle relazioni emotive instaurate con i genitori naturali non sia ottimale
ma costituisca, anzi, il motivo principale per cui viene predisposto l’affido, tali rapporti si
configurano, comunque, per il minore come modelli relazionali attraverso cui definire il Sé e
anticipare l’andamento dei legami affettivi che verranno stabiliti con altre persone significative. Tali
modelli, che si costruiscono nel contesto degli scambi interattivi con i genitori, regolano le
aspettative, le emozioni e i comportamenti del bambino, consentendogli di interpretare gli eventi, di
prevedere le situazioni future e di costruire piani di azione. Proprio per la loro natura di schemi
cognitivi, essi presentano una natura stabile e duratura, per cui tendono a cercare conferme anche
nei casi in cui la qualità delle esperienze successive si prospetti come diversa da quelle conosciute.
Quanto detto può farci prevedere come il bambino reagirà alla separazione dai genitori e
all’inserimento nella nuova famiglia. Di fronte a una genitorialità carente, è possibile che il minore
si sia costruita un’immagine di sé come persona dotata di scarso valore e non degna di essere amata,
anzi, “colpevole” della mancata attenzione da parte dei genitori e “responsabile” della sua uscita dal
contesto familiare. La reazione alla separazione sarà caratterizzata, probabilmente, dal timore di
essere abbandonato e potrà essere vissuta come conferma di non essere amato a sufficienza dai
propri genitori, generando rabbia e forte conflittualità sia verso gli operatori che verso i nuovi
caregiver.
Un’altra modalità di reazione potrebbe essere, invece, quella di idealizzare le figure genitoriali,
ignorando gli aspetti disfunzionali della relazione, dal momento che il minore è incapace di
elaborare gli aspetti contraddittori del legame emotivo stabilito con la madre e con il padre. Il
bambino, a causa delle difficoltà a integrare le esperienze positive e negative vissute nel contesto

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familiare di appartenenza, potrebbe non accettare la separazione dalle figure genitoriali,
identificandosi come vittima di un provvedimento vissuto come intrusivo e perturbante.
Vi è la possibilità, inoltre, che il minore che ha vissuto esperienze particolarmente traumatiche,
come abusi, violenze o grave trascuratezza, abbia costruito dei modelli di relazione molteplici,
reciprocamente incompatibili, separati o reciprocamente dissociati del Sé e della figura di
attaccamento, i quali possono interferire con le funzioni integrative di metacognizione, memoria,
coscienza e identità. In altre parole, questi bambini, non disponendo di un modello unitario di sé
con l’altro, attraverso cui interpretare le esperienze vissute, fanno riferimento a strutture di
significato che risultano in contraddizione l’una con l’altra: in particolare, si percepiranno
contemporaneamente “vittime” di figure di riferimento persecutorie, “persecutori” di figure
d’attaccamento impotenti e spaventate e, infine, si sentiranno “salvatori” perché fonte di conforto
nei confronti di figure d’attaccamento vulnerabili.
Queste interpretazioni contraddittorie del bambino circa il Sé e l’altro, che si attivano
simultaneamente o quasi in situazioni stressanti o di pericolo, ostacolano lo sviluppo di un senso di
sé coerente e integrato, capace di attribuire un significato unitario alle esperienze vissute; per questa
ragione, è molto probabile che l’esito evolutivo di tale bambino, in assenza di fattori protettivi
alternativi, sia di natura patologica.
E’ prendendo in considerazione le esperienze di cure ricevute dal bambino e le modalità di
elaborazione che questi ha sviluppato che diventa possibile, quindi, comprendere come il minore
reagirà di fronte alle sfide che l’affido familiare presenta e come lo si potrà aiutare a gestire questo
evento critico vissuto come imprevedibile.
Di fondamentale importanza sarà il modo in cui gli adulti condivideranno con il bambino questa
scelta e come lo aiuteranno ad assimilare e a elaborare il distacco dalla famiglia di origine.
Dai dati dello studio condotto dal CNDAIA (2002) emerge come la fascia d’età più rappresentata
per l’affido sia quella compresa tra 6 e 10 anni. Il minore, a questa età, è in grado non solo di
comprendere cognitivamente l’evento, ma anche di cercare delle motivazioni riferendole a sé o
all’ambiente e di fare previsioni sul suo futuro, a prescindere dal fatto che esse siano coerenti con le
intenzioni e i propositi espressi dagli adulti.
Il vissuto emotivo del minore e la sua capacità di fronteggiare la separazione diventano, ancor di
più, elementi che, a loro volta, potranno ostacolare o facilitare la costruzione di nuovi legami
affettivi con la famiglia affidataria. Se il minore permane nell’idealizzare le figure genitoriali
perdute, avrà molta più difficoltà a investire emotivamente sulle figure affidatarie, mettendo a
rischio la riuscita dell’affido stesso. Se, al contrario, prova sentimenti di rabbia per essere stato
“abbandonato”, cercherà di recidere i legami con la famiglia di origine e potrà elaborare fantasie
adottive nei confronti della famiglia che lo accoglie.

2.3. La Famiglia di Origine


La legge 149/2001 promuove l’affido familiare qualora la famiglia di origine sia considerata non
idonea a curare e ad allevare il proprio figlio. Tuttavia, come si è già affermato, non sono specificate
le problematiche e le difficoltà che la famiglia dovrebbe presentare perché sia attivato un percorso
di affidamento.
Tale indefinitezza legislativa implica la possibilità di rinvenire un quadro abbastanza variegato
rispetto alle peculiarità della famiglia di origine, sia per quel che concerne la sua struttura, sia per le
problematiche presentate.
Analizzando le caratteristiche di tali famiglie emerge, per la situazione italiana (CNDAIA, 2002),
un’alta percentuale di coppie (31,55%) con più figli, elemento che può far ipotizzare come alla base
dell’allontanamento del minore vi sia una difficoltà nella capacità genitoriale che, se associata a una
di carattere economico, a condizioni precarie lavorative e a inadeguatezza degli ambienti abitativi ,
può aver reso necessario predisporre un percorso di affido; un’altra tipologia di famiglia è
caratterizzata da una situazione di crisi in atto, come una separazione e/o un divorzio (26,46%), o di

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una genitorialità difficile come nel caso di madri nubili (12,92%). In entrambi i casi ci troviamo di
fronte a famiglie che devono confrontarsi contemporaneamente con più situazioni problematiche,
che comportano una difficoltà a gestire le esigenze di tutti i membri del nucleo familiare, spesso in
contrasto tra loro. Conoscere la struttura e il momento evolutivo che sta attraversando la famiglia di
origine è di fondamentale importanza per comprendere quali dinamiche si siano attivate in quel
contesto familiare e quali motivazioni possano aver portato all’attivazione di un progetto di affido.
Prima di procedere ad analizzare le condizioni di problematicità che presentano le famiglie di
origine, può essere opportuno soffermare l’attenzione sul significato stesso di problematicità
familiare e su come essa possa costituire un fattore di rischio per lo sviluppo del minore.
Ci sembra interessante, a questo proposito, la distinzione proposta da Bronfenbrenner (1979) tra
fattori di rischio prossimali e distali. I primi esercitano un’influenza diretta sul minore; si pensi ad
esempio a un genitore abusante o con problematiche psichiatriche; nel secondo caso, invece, gli
effetti sono indiretti, come ad esempio nel caso di un licenziamento di un genitore.
Sameroff e Fiese (2000), nell’analizzare i fattori di rischio ambientali sul minore, hanno individuato
cinque macrocategorie che includono sia i fattori distali che quelli prossimali:
-processi familiari, tra cui clima emotivo negativo, scarsa qualità del rapporto coniugale, mancanza
di controllo comportamentale e mancanza di incoraggiamento;
-caratteristiche genitoriali, tra cui malattia di uno o entrambi i genitori, basso senso di efficacia,
mancanza di risorse personali e basso grado di istruzione scolastica;
-mancanza di supporto della comunità, ovvero basso coinvolgimento nella vita di comunità,
mancanza di supporto sociale e di risorse sociali;
-pari , ossia presenza di gruppi di pari con condotte antisociali piuttosto che prosociali;
-vicinato, tra cui basso status socioeconomico e basso livello di istruzione degli abitanti del
quartiere, bassa qualità della scuola in cui è inserito il minore e problematiche inerenti il quartiere.
Rispetto a questi fattori di rischio, i dati italiani più recenti sull’affido (CNDAIA, 2002)
evidenziano, innanzitutto, l’impossibilità di ricondurre la problematicità della famiglie di origine a
un unico fattore; emerge, piuttosto, la presenza di almeno due motivi concomitanti che rendono più
difficile, per la famiglia, l’attivazione di risorse interne al nucleo familiare e l’utilizzo di strategie di
coping efficaci.
A questo proposito, la letteratura nazionale e internazionale ha enfatizzato l’effetto che i fattori di
rischio cumulativi esercitano sullo sviluppo infantile. Famiglie che versano in condizioni di
deprivazione socioeconomica presentano, molto spesso, altre problematiche associate: non riescono
ad accedere alle risorse di supporto della rete sociale, manifestano frequenti conflitti coniugali,
spesso caratterizzati da violenze intrafamiliari; i genitori presentano dipendenza da alcol o sostanze;
vi è una probabilità maggiore di depressione materna e psicopatologie, le quali possono influenzare
notevolmente la qualità del parenting e, di conseguenza, lo sviluppo infantile. Come riportato da
Pianta e Egeland (1990), in queste situazioni di rischio le madri si presentano meno sensibili, meno
cooperative e più ostili e intrusive nei confronti dei loro bambini. Pertanto, in condizioni di rischio
psicosociale, molto spesso lo stile genitoriale si rivela inadeguato e la relazione emotiva genitore-
bambino risulta compromessa, producendo effetti a lungo termine sia sullo sviluppo socioemotivo
che su quello cognitivo. Rispetto allo sviluppo socioemotivo, si è osservato, in età prescolare e
scolare, una maggiore presenza di problemi di internalizzazione, come, ad esempio, ansia, ritiro
sociale, depressione, o di problemi di esternalizzazione, quali condotte aggressive, devianti o
antisociali. Per quel che concerne l’effetto sullo sviluppo cognitivo, gli studi riportano un livello più
basso di performance cognitive e di successo scolastico del minore.
Nella situazione italiana si evidenzia, come motivazione preponderante dell’allontanamento del
minore, la presenza di condotte abbandoniche e/o di trascuratezza grave da parte della famiglia di
origine motivo che caratterizza circa che il 72% dei casi per cui viene predisposto l’affido.
Possiamo riconoscere dunque, in questi nuclei familiari, una generale difficoltà a prendersi cura e a
rispondere in maniera adeguata ai bisogni fisici ed emotivi del minore. Tali difficoltà nell’esercitare

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la funzione parentale, se associate a difficoltà di natura economica (mancanza di lavoro o di
un’abitazione adeguata) o a problematiche di entrambi o di uno solo dei genitori (problemi di abuso
di sostanze, psicopatologie, detenzione in carcere, problemi sanitari invalidanti), possono indurre la
famiglia stessa o, molto più spesso, gli operatori sociali ad allontanare il minore, al fine di
garantirgli una maggiore stabilità sia affettiva che economica.
E’ interessante notare come le problematiche della famiglia di origine si differenzino anche rispetto
alla tipologia di affidamento che verrà attivato. In particolare, si preferisce l’affido intrafamiliare a
quello eterofamiliare nei casi di tossicodipendenza di uno o entrambi i genitori (37,3% vs 15,8%) o
di detenzione di uno o entrambi i genitori (12,6% vs 6,7%), mentre l’affido a terzi sembra essere più
utilizzato in presenza di difficoltà economiche (28,2% vs 19%) o di gravi problemi abitativi (23%
vs 12,5%). Negli altri casi, invece, non vi sono differenze evidenti rispetto alle due forme di affido.
E’ probabile che, di fronte a problematiche di natura individuale, la famiglia allargata possa
costituire un fattore protettivo per il minore, riuscendo a sopperire alle mancanze della o delle figure
genitoriali. Quando, invece, le difficoltà sono più di natura ambientale, il contesto familiare di
appartenenza non sembra poter offrire un contributo valido, in quanto le problematiche sono
probabilmente condivise con tutta la famiglia allargata.
Vorremmo soffermare l’attenzione, inoltre, su un altro importante aspetto legato alla problematicità
delle famiglie di origine. Se è vero che non è possibile identificare una tipologia specifica di
famiglia multiproblematica, è anche vero che possiamo distinguere tra situazioni per le quali è più
facile prevedere un recupero della famiglia naturale rispetto alle sue funzioni, come nel caso delle
separazioni tra i coniugi o della presenza di difficoltà lavorative ed economiche, e situazioni in cui
risulta più difficile ipotizzare un cambiamento nelle dinamiche familiari, caratterizzate, ad esempio,
da violenze e abusi.
Spesso la struttura familiare, durante il percorso di affido, subisce importanti cambiamenti: altri
figli possono essere allontanati perché è stato disposto un ulteriore affidamento familiare o perché è
stata dichiarata la loro adottabilità; può anche succedere che i figli più grandi escano dal nucleo
familiare, o che il nucleo si allarghi, invece, con un nuovo nato. Possono intervenire cambiamenti
anche all’interno della coppia, che può andare incontro a una separazione, un divorzio e conseguenti
nuove unioni. Questi cambiamenti fanno sì che non sia solo l’allontanamento del minore ad alterare
gli equilibri della famiglia di origine, ma anche altri eventi che, verificatisi nel corso dell’affido,
rendono più difficile, per quest’ultima, l’individuazione di strategie adeguate per fronteggiare le
problematiche presenti.
Ciononostante, la separazione del bambino dal suo nucleo familiare di origine costituisce per i
genitori biologici un fattore fortemente traumatico in quanto minaccia l’equilibrio, seppur
patologico, che il sistema familiare aveva costruito. L’attivazione di un progetto di affidamento
familiare si configura, quindi, come un evento critico sia per il minore che per la sua famiglia, in
quanto costituisce un momento di crisi che, per essere superato, necessita di una riorganizzazione
delle dinamiche relazionali in atto.
Proprio in quest’ottica diviene necessario operare un distinguo tra le situazioni in cui è la famiglia
di origine che decide di allontanare il minore e quelle, purtroppo molto frequenti, in cui sono gli
operatori sociali a sottrarre il bambino da un contesto familiare inadeguato. Nel primo caso, infatti,
vi è un riconoscimento delle difficoltà e delle problematiche presenti nel contesto familiare e,
quindi, è possibile leggere, nel consenso all’affido, una richiesta di aiuto che consenta alla famiglia
di mettere in atto i cambiamenti necessari perché si possa riaccogliere il minore al proprio interno.
Nell’affido eterofamiliare, invece, la difficoltà di comprendere i vissuti della famiglia di origine alla
separazione dal minore sono esacerbate dal fatto che la maggior parte di queste famiglie non riesce
a instaurare relazioni positive con gli operatori sociali, percepiti spesso come ostili, motivo che
porta la famiglia a un isolamento e a una chiusura spesso impenetrabili.
Le difficoltà che la famiglia di origine maggiormente vive, in generale, riguardano il mantenere i
contatti con il proprio figlio e il sentirsi esclusi rispetto alle decisioni concernenti il minore. La

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famiglia di origine percepisce, infatti, la separazione dal minore e il suo ingresso in un’altra
famiglia come una minaccia alla propria funzione genitoriale. L’identità sociale della famiglia si
basa proprio sulla generatività, per cui la perdita, seppure temporanea, del proprio figlio metterà in
discussione le fondamenta di quel determinato sistema familiare. I sentimenti che spesso
accompagnano questo evento saranno caratterizzati dall’incredulità, dalla rabbia, dal senso di
impotenza o dalla competitività con l’altra famiglia, ritenuta dagli operatori più adeguata rispetto a
quella di appartenenza del minore.
Indipendentemente dal fatto che l’affido sia consensuale o giudiziario, va riconosciuta la sua
componente traumatica; tuttavia, come opportunatamente sottolineato da Greco e Iafrate (2001),
nell’affido consensuale l’evento critico, seppur doloroso, viene anticipato dalla famiglia di origine,
che ha la possibilità di elaborare l’evento e di trovare strategie che la aiutino a saperlo fronteggiare;
nel caso dell’affido giudiziario, invece, questo costituisce un evento critico non prevedibile, motivo
per cui diviene più difficile la sua accettazione.

2.4. La Famiglia Affidataria


Nel definire le caratteristiche della famiglia affidataria si riscontrano le stesse difficoltà evidenziate
a proposito della famiglia di origine. Il tentativo, infatti, di ricondurre la complessità dei sistemi
familiari in categorie descrittive rischia di farci perdere informazioni utili a comprendere le
motivazioni e i vissuti che accompagnano queste famiglie, definite da Bramanti “accoglienti”,
durante tutta l’esperienza dell’affido.
Se le famiglie di origine presentano una struttura familiare complessa e variegata, il profilo che
emerge delle famiglie affidatarie, strumento e risorsa per la comunità, si configura, al contrario,
come abbastanza simile al prototipo di famiglia ideale, costituita nelle quasi totalità dei casi da una
coppia (molto spesso coniugata) con eventualmente dei figli.
E’ interessante notare, tuttavia, come vi sia una percentuale, seppure modesta, di persone singole
(circa il 16%) che si è proposta per tale esperienza. Con l’affido intrafamiliare, comunque, il
numero di persone singole che accolgono il minore aumenta rispetto a quello eterofamiliare. E’
possibile ipotizzare che, nel primo caso, si tratti di nonni, zii non sposati o, più comunemente, di
vedovi. Parlando di affido eterofamiliare, invece, il numero di single diminuisce sensibilmente.
Tracciare un identikit della famiglia affidataria può aiutare a comprendere le risorse presenti e le
motivazioni alla base del loro impegno sociale, così come i vissuti che accompagneranno l’intera
esperienza.
Dal profilo degli affidatari emerge che, in genere, sono le persone più grandi e mature a dichiararsi
disponibili per l’esperienza di affido; infatti, nella maggioranza dei casi, si tratta di uomini di età
compresa tra i 36 e i 45 anni, mentre per le donne l’età si abbassa leggermente.
E’ possibile ipotizzare che gli affidatari, specialmente quelli di sesso maschile, si sentano maturi e
pronti ad affrontare il percorso di accoglienza di un minore all’interno del proprio nucleo familiare
in una fase più avanzata del ciclo di vita, quando si è raggiunta una maggiore stabilità lavorativa e
abitativa, per cui le energie non sono più focalizzate sull’affermazione sociale del Sé ma vi è anche
lo spazio per l’apertura verso il sociale.
Circa un terzo delle coppie affidatarie convive da più di vent’anni; negli altri casi, generalmente, gli
anni di vita condivisa sono compresi tra gli undici e i venti.
Non sorprende, pertanto, che molte coppie abbiano già dei figli, spesso abbastanza grandi da
permettere ai genitori affidatari di convogliare tutte le energie emotive sul nuovo arrivato. La
presenza di “fratelli” più grandi, inoltre, può permettere al bambino affidato di non sentirsi in
competizione con i figli biologici della coppia affidataria e, al contempo, di costruire non solo
relazioni con adulti, ma anche con pari che possono, a loro volta, costituire dei modelli adulti
diversi da quelli sperimentati nel contesto familiare di appartenenza.
Anche rispetto alle caratteristiche socioculturali, le famiglie affidatarie si configurano come un
contesto protettivo per il minore; un grado di istruzione medio-alto, infatti, e un buon livello

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economico (circa due terzi dei nuclei familiari risultano essere bi-reddito) fanno sì che il bambino
possa beneficiare di opportunità non pensabili nel contesto di appartenenza. Tuttavia, lungi dal
valorizzare solo i benefici economici di cui il bambino può usufruire, appartenere a un contesto
socioculturale medio-alto implica anche la possibilità di avere genitori con maggiori risorse per
fronteggiare le difficoltà, capaci di accedere alle opportunità presenti nell’ambiente e di costruire
relazioni con l’esterno che garantiscano il supporto nei momenti di difficoltà.
Dalla lettura di questi dati è possibile affermare che i membri delle famiglie impegnate
nell’esperienza di affido hanno già affrontato il percorso di affermazione dell’identità sociale e
personale, dedicandosi alla ricerca di una posizione lavorativa stabile o formando una famiglia.
Mutuando il concetto di compiti di sviluppo di Havighurst (1953), ci troviamo di fronte a persone
che sono riuscite ad affrontare il processo di evoluzione della personalità, superando gli ostacoli
dell’adolescenza e della prima età adulta in cui l’individuo deve cercare di raggiungere
l’indipendenza e la sicurezza economica e prepararsi ad affrontare una vita in coppia allo scopo di
generare figli, riuscendo ad aprirsi alle problematiche sociali.
Gli affidatari si trovano in una condizione che potremmo definire antitetica rispetto a quella della
famiglia di origine; soprattutto nel caso dell’affido eterofamiliare, la “nuova famiglia” che
accoglierà il minore solitamente vive in situazioni socioeconomiche agiate, con una rete sociale e di
supporto abbastanza estesa. Potremmo dire che, mentre le caratteristiche della famiglia di origine
costituiscono un fattore di rischio per il minore, quelle della famiglia affidataria la rendono un
fattore protettivo per lo sviluppo del bambino; tali nuclei familiari, infatti, si presentano come
maggiormente in grado di sostenerlo e supportarlo durante la sua crescita. Questa riflessione,
tuttavia, contiene in sé due rischi: il primo è che siano solo questi fattori relativi alla sicurezza
economica e lavorativa a essere presi in considerazione nella valutazione dell’idoneità di una
famiglia affidataria, sottovalutando le motivazioni sottostanti a una richiesta di affido. Infatti, ogni
famiglia esprime un bisogno nel momento in cui si dichiara disponibile ad accogliere un minore;
non sempre, però, tali bisogni collimano con quelli del bambino da accogliere. Il secondo rischio è
costituito dal fatto che la famiglia affidataria, proprio per le sue risorse e potenzialità, possa essere
considerata capace di risolvere in maniera autonoma e senza un intervento specifico o un supporto
da parte degli operatori tutte le problematiche connesse all’inserimento e alla convivenza con il
minore. E’ necessario, pertanto, lavorare non solo con ma anche per la famiglia affidataria, al fine di
non delegare a quest’ultima il compito di “salvare” il bambino da una famiglia immaginata come
“cattiva e pericolosa”.
Aver ben presente qual è il ruolo della famiglia affidataria è importante anche al fine di
comprendere quale sarà il suo vissuto durante tutto il percorso dell’affido e, in special modo,
durante i momenti critici dello stesso, quali l’inserimento, l’adattamento e, infine, la separazione
legata al reinserimento del minore nel suo nucleo familiare di appartenenza.
Anche per la famiglia affidataria, infatti, l’affidamento costituisce un evento che richiede una
ridefinizione costante delle aspettative e dei ruoli dei suoi componenti. Come sostenuto da Cirillo
(1986), l’arrivo di un nuovo membro implica un cambiamento nelle modalità di funzionamento del
sistema familiare e delle regole che lo governano. I cambiamenti si esplicano su un doppio livello,
uno legato a fattori di organizzazione dei tempi e degli spazi, l’altro connesso a un mutamento sul
piano delle relazioni. L’arrivo di un nuovo bambino, infatti, implica la riorganizzazione dei tempi di
lavoro, soprattutto se entrambi i partner lavorano, e un cambiamento delle abitudini di vita. A tal
proposito è interessante notare che, con il D. Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, si è prestata particolare
attenzione anche alla tutela lavorativa dei genitori affidatari; infatti, questi ultimi possono usufruire
dell’astensione obbligatoria del lavoro qualora il bambino abbia meno di 6 anni, per i primi tre mesi
successivi all’ingresso del minore nel nucleo familiare affidatario. Inoltre, i genitori possono
usufruire del congedo parentale (astensione facoltativa) per un massimo di sei mesi se il minore ha
un’età compresa tra 0 e 6 anni; se, invece, il bambino all’atto dell’affidamento ha un’età compresa
tra 6 e 12 anni, tale diritto all’astensione lavorativa può essere esercitato nei primi tre anni

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dall’inserimento. Infine, vi è la possibilità per entrambi i genitori di assentarsi dal lavoro per motivi
di malattia del bambino fino al compimento del sesto anno d’età di quest’ultimo.
Va anche aggiunto che la legge che disciplina l’affidamento familiare (legge 149/2001, art. 38,
comma 3) prevede che le Regioni determinino le condizioni e le modalità di sostegno alla famiglia
affidataria, erogando un contributo economico e un sostegno spese agli affidatari, per far fronte alle
esigenze del minore.
Queste agevolazioni, diverse nelle varie realtà nazionali, hanno lo scopo di aiutare la famiglia
affidataria a gestire meglio le difficoltà organizzative ed economiche che possono nascere durante il
percorso di affido.
Accanto a questi aspetti, tuttavia, ricordiamo che le problematiche più difficili da affrontare, per la
famiglia affidataria, riguardano i cambiamenti nelle relazioni che si verificano tra i membri del
proprio nucleo familiare. L’arrivo di un nuovo bambino implica la capacità di abbandonare le
modalità relazionali precedentemente acquisite e di sperimentarne altre, utili a favorire
l’integrazione del nuovo membro. Ciò comporta una flessibilità del sistema familiare e la possibilità
di modificare vecchie strategie che potevano essere efficaci fino a quel momento, ma che, se non
riadattate alla nuova situazione, possono causare sofferenza e disagio al minore. Ci pare interessante
la riflessione di Cirillo (1986), il quale sottolinea che cambiamento e omeostasi non vanno
considerati antitetici: una famiglia non si trova a decidere se modificare le modalità relazionali o
mantenere l’equilibrio raggiunto, quanto piuttosto a considerare l’importanza di alternare i due
processi, allo scopo di garantire il benessere a tutti i membri coinvolti. Per comprendere meglio una
tale modalità di funzionamento, è possibile far riferimento ai concetti di assimilazione e
accomodamento dalla teoria di Piaget (1929). La famiglia affidataria, infatti, da un lato assimila,
incorpora il bambino rispetto alle modalità relazionali già acquisite e sperimentate; dall’altro, è
chiamata a modificare tali modalità sulla base delle specifiche necessità e dei vissuti emotivi che il
minore porta con sé al momento dell’ingresso nella famiglia. Questi due processi, pertanto,
garantiscono l’equilibrio tra continuità e cambiamento, favorendo l’adattamento del sistema
familiare durante l’intero percorso di accoglienza.
La capacità di adattamento e la flessibilità della famiglia affidataria saranno necessarie per aiutare il
bambino a fronteggiare il vissuto di perdita conseguente all’allontanamento dal suo nucleo familiare
di appartenenza, ma anche per costruire con lui una nuova relazione emotiva. Come sostenuto da
Tafà (1997), si tratta in realtà di due aspetti di un unico processo, poiché è proprio a partire dalla
capacità del genitore affidatario di aiutare il minore a gestire i sentimenti di perdita che è possibile
porre le basi per la costruzione di un legame affettivo in cui il bambino possa sentirsi
sufficientemente amato e protetto. Del resto, il compito principale della famiglia affidataria è
proprio quello di fornirgli un modello relazionale diverso da quello sperimentato in quella di
origine.
Sebbene l’intento dei genitori affidatari sia quello di offrire amore, supporto e comprensione al
minore, l’aspetto considerato più problematico dell’affido è proprio l’accettazione della doppia
appartenenza del bambino. In particolare, gli adulti affidatari spesso vivono l’ambivalenza tra
l’accettazione del fatto che il bambino abbia una storia relazione passata e legami che dovrà
mantenere con il nucleo familiare di appartenenza e il desiderio, a volte inconscio, di volerlo salvare
sostituendosi a dei genitori ritenuti incapaci e inadeguati rispetto al loro ruolo. La difficoltà a
“proteggere i legami intergenerazionali” del minore con la sua famiglia dipenderà molto dalle
aspettative e dalle motivazioni sottostanti alla scelta di avere un bambino in affido. Tuttavia, è
innegabile che questo compito sia difficile ad attuarsi, poiché a volte il minore non vuole avere
contatti con i genitori naturali essendosi sentito escluso e allontanato ingiustamente, oppure perché,
al contrario, volendo rimanere con loro, dopo ogni incontro con la famiglia di origine, ha la
necessità di rielaborare l’evento e di cercare di contenere la rabbia e il rifiuto nei confronti degli
affidatari stessi.
Rispetto a quest’ultimo aspetto, è frequente che i genitori affidatari riportino un incremento delle

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condotte aggressive o la presenza di comportamenti regressivi del bambino nei giorni seguenti
all’incontro con i genitori naturali. Le difficoltà principali degli affidatari consistono nell’attribuire
un significato a tali comportamenti, riuscendo a mantenere un punto di vista esterno rispetto ai
vissuti del minore, evitando di colpevolizzare se stessi perché ritenuti inadeguati o non amati dal
bambino, o, al contrario, di colpevolizzare la famiglia di origine, ritenuta la causa delle
problematiche del minore, o, infine, di colpevolizzare il minore stesso poiché incapace di cogliere e
apprezzare quanto gli viene offerto; si tratta, invece, di riconoscere in queste reazioni una modalità
per esprimere la sofferenza e il disagio rispetto alla situazione che il minore sta affrontando.
Comprendere queste dinamiche relazionali aiuta i genitori affidatari a evitare di entrare in un circolo
vizioso in cui al comportamento oppositivo del bambino segua, come risposta, la nascita di un
conflitto. Rispondere in maniera adeguata ai bisogni del bambino è, quindi, un compito arduo anche
per gli affidatari più sensibili e coinvolti; le difficoltà del minore, infatti, possono costituire un
ostacolo per la formazione di una relazione affettiva positiva, motivo per cui diventa necessario
disconfermare continuamente le aspettative che il bambino si è costruito sulla base delle relazioni
passate stabilite con gli adulti significativi. Se, infatti, il bambino si è costruito un’immagine
negativa di sé e dei caregiver, metterà in atto una serie di comportamenti volti a confermare tali
aspettative; questi atteggiamenti, tuttavia, potrebbero essere di difficile comprensione per gli
affidatari, i quali potrebbero non coglierne il significato, né identificare i rapporti di causa-effetto
dei comportamenti che i minori mettono in atto.
In molti casi, inoltre, i genitori affidatari sono impreparati rispetto alle modalità da utilizzare per
affrontare tali difficoltà, provando un senso di inefficacia e di impotenza. Ciò avviene soprattutto
quando l’interpretazione che essi danno al comportamento del bambino è inadeguata, per cui la
strategia che attuano risulta fallimentare. I sentimenti che in questi casi provano questi genitori sono
di sfiducia rispetto al ruolo che vorrebbero svolgere, e di incapacità a cogliere il vissuto emotivo del
bambino in affido.
La bassa autostima, spesso presente nei bambini al momento dell’affido, è fonte di preoccupazione
per molti genitori affidatari, i quali si trovano, sovente per la prima volta anche se hanno già avuto
dei figli, a supportare il minore di fronte all’insuccesso scolastico o alla difficoltà di stabilire
relazioni con gli adulti e con i pari.
Può capitare che siano i genitori affidatari stessi ad alimentare la mancanza di fiducia in sé che il
bambino presenta. Non bisogna dimenticare, infatti, che ogni famiglia affidataria, nel momento in
cui si dichiara disponibile ad accogliere un bambino, elabora una sua idea o rappresentazione del
bambino che arriverà e che vivrà con loro. Tuttavia, soprattutto nei casi in cui ci si accosta
all’esperienza di affido per la prima volta, non sempre l’immagine del bambino che ci si è costruita
coincide con quella del bambino reale che varcherà la soglia di casa. La delusione, anche se non
palesata, per la discrepanza fra la realtà e il bambino immaginato può incidere sull’autostima del
minore e sulla fiducia che questi nutre nei confronti dei genitori affidatari.
Un’altra difficoltà che spesso questi ultimi lamentano è legata alla scarsa conoscenza del passato del
minore, che impedisce loro di collegare e collocare temporalmente gli eventi di vita del bambino,
specialmente quelli più dolorosi e difficili, come nel caso di violenza o di grave trascuratezza. Gli
affidatari hanno la necessità di conoscere la storia di vita del minore, in quanto essa non appartiene
solo al passato del bambino, come nel caso dell’adozione, ma anche al suo presente.
Infine, un’ultima riflessione va riservata ai vissuti della famiglia affidataria relativamente alla scelta
delle strategie educative da adottare per crescere e allevare il bambino in affido. Di norma, i minori
allontanati dal nucleo familiare di appartenenza hanno sperimentato uno stile educativo
controllante e coercitivo, dove chi detiene maggior potere sugli altri membri è in grado di decidere
quale comportamento deve essere assunto dai componenti del nucleo familiare. Sovente, questi
minori, in particolare gli adolescenti, appena giunti nella nuova famiglia tendono a voler subito
stabilire le posizioni gerarchiche, cercando di imporre il loro modus agendi. Per il genitore
affidatario la difficoltà maggiore consiste nel dimostrare che esistono modalità diverse per

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rapportarsi, per cui se è vero che sono gli adulti a fornire le regole di comportamento, è anche
possibile, attraverso il dialogo, prendere in considerazione le motivazioni e i desideri dei figli. Il
tentativo, quindi, è quello di spostare l’attenzione dal potere di chi determina le regole di vita
quotidiana al contenuto delle stesse e all’importanza che esse rivestono al fine di garantire una
buona convivenza tra i membri della famiglia.
In conclusione, possiamo affermare che la famiglia affidataria, durante tutto il percorso di affido, è
chiamata ad affrontare una serie di difficoltà, alcune di semplice riorganizzazione dei tempi e degli
spazi, altre più complesse che riguardano le dinamiche che si instaurano all’interno del nucleo
familiare, difficoltà che spesso necessitano del supporto da parte degli operatori sociali, in assenza
del quale è possibile che l’esito sia deludente.

2.5. I coprotagonisti: gli Operatori Sociali


Abbiamo ritenuto importante esaminare anche il ruolo fondamentale che gli operatori sociali, come
coprotagonisti, svolgono durante l’intero percorso di affidamento. Rispetto agli enti che si occupano
di affidamento familiare, dai dati del CNDAIA (2002), risulta che essi sono dislocati in maniera
eterogenea in Italia. Per quel che concerne la natura di queste unità, nel 61,5% dei casi si tratta del
Comune e nel 35,8% dell’ASL; il restante 2,7% delle unità è costituito dal consorzio di comuni
(1,3%) o da un altro tipo di ente (1,4%). Inoltre, la gestione degli interventi di affidamento familiare
risulta prerogativa esclusiva del Comune nella maggioranza dei casi (58,3%), mentre per la gestione
associata vi è una collaborazione con altri enti comunali (86,1%) e/o con l’ASL (66,6%); solo
raramente si verifica una collaborazione con associazioni e cooperative presenti sul territorio.
Questi dati, sebbene facciano riferimento a una situazione italiana non molto recente, in quanto
sono stati raccolti prima dell’entrata in vigore della legge 149/2001, ci permettono di avanzare
alcune considerazioni: innanzitutto, è molto difficile farsi un’idea delle modalità con cui viene
attuato l’affidamento familiare alla luce della grande diversità di situazioni presenti sul territorio
nazionale. Ciò implica, anche, che le diverse modalità di gestione dell’istituto dell’affido rendono
complesso il confronto tra le varie realtà nazionali, perciò, come più volte richiesto dagli operatori
sociali stessi, si avverte la necessità di trovare uno spazio in cui portare l’esperienza maturata in un
particolare contesto geografico e condividerla con operatori di altre realtà territoriali.
In secondo luogo, dai dati disponibili emerge una buona collaborazione tra il Comune e gli altri enti
locali, mentre l’intesa con associazioni e cooperative sembra riguardare un’esigua percentuale di
casi. Occorre precisare, tuttavia, che da questi dati non è possibile individuare la qualità del
funzionamento della rete di collaborazione tra gli enti locali: sarebbe interessante, infatti, disporre
di validi indicatori rispetto alle modalità con cui vengono attuati i protocolli di intesa e rispetto al
funzionamento delle équipe che seguono i casi di affidamento familiare.
In riferimento ai compiti svolti dall’ente che si occupa di affidamento familiare, questi consistono
principalmente nella valutazione dell’idoneità della famiglia di origine, nell’analisi delle
problematiche del minore e nella valutazione delle famiglie che si candidano per l’esperienza di
affido. Tuttavia, l’ente locale risulta impegnato anche sul versante della preparazione degli attori
sociali coinvolti nel progetto di affido, sebbene investa più energie nei confronti della famiglia di
origine e del minore rispetto alla famiglia affidataria.
La necessità di formare e preparare le famiglie affidatarie ad affrontare le problematiche del minore,
a gestire i delicati rapporti il con la sua famiglia di origine e a collaborare con gli operatori sociali
riveste, invece, un ruolo importante nel predire l’esito dell’affido stesso.
Proprio rispetto a quest’ultimo punto, Garelli (2000) riporta come la maggior parte degli affidatari
intervistati sia insoddisfatta rispetto al lavoro svolto dall’équipe, percependosi scarsamente
informata e supportata dagli operatori durante l’intero percorso. Queste famiglie lamentano che i
servizi abbiano delegato loro la scelta delle modalità più idonee a fronteggiare le difficoltà che
possono emergere sia nel rapporto con il minore che in quello con la famiglia di origine.
Poiché il grado di soddisfazione delle famiglie affidatarie nei confronti dei servizi è predittore della

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disponibilità a ripetere un’esperienza di affido, diviene cruciale lavorare affinché possa realizzarsi
una maggiore collaborazione tra gli enti locali e gli affidatari, sia per offrire loro il sostegno di cui
sentono il bisogno, sia per assicurarsi la loro disponibilità ad accogliere nuovi minori.
Se nei confronti della famiglia affidataria vi è un minor grado di attivazione da parte dei servizi, per
il sostegno dato dall’ente locale le posizioni si invertono; in questo caso, infatti, l’impegno è
maggiore nei confronti della famiglia affidataria e del minore a scapito della famiglia di origine.
Importante è anche analizzare la natura del supporto fornito, il quale dovrebbe comprendere sia
l’erogazione dei sussidi economici, sia il sostegno psicologico alle famiglie affidatarie e a quella di
origine.
Sarebbe interessante operare una distinzione tra queste due forme di sostegno, in quanto la difficoltà
maggiore consiste proprio nell’attivazione di percorsi di intervento e di supporto affinché la
famiglia di origine possa recuperare le funzioni genitoriali e quella affidataria possa utilizzare al
meglio le risorse di cui è in possesso per sostenere il minore nel suo processo di crescita psicofisica.
Anche rispetto alle figure professionali coinvolte nei progetti di affido, emergono importanti
differenze tra le diverse regioni italiane. L’équipe, di norma, è costituita da assistenti sociali e
psicologi; in alcune realtà italiane, comunque, accanto a queste figure professionali sono previste
anche quelle di neuropsichiatri infantili ed educatori professionali, il cui apporto professionale,
tuttavia, assume spesso il carattere di collaborazione occasionale.
La mancata possibilità, in molti casi, di avvalersi di competenze professionali diverse, costituisce un
limite rispetto alla possibilità di predisporre un’accurata valutazione delle famiglie e un adeguato
intervento di sostegno. Riteniamo, tuttavia, che uno dei problemi maggiori sia legato all’esiguo
numero di corsi di formazione promossi dai servizi. Crediamo, invece, che la natura
dell’affidamento familiare e la complessità che esso presenta, soprattutto tenendo conto di tutti gli
attori sociali coinvolti e delle dinamiche relazionali che si attivano, richiedano non solo un’adeguata
formazione, ma anche un continuo aggiornamento delle figure professionali in esso coinvolte.
Pistacchi e Galli (2006), a tal proposito, sottolineano che l’affidamento familiare si configura
principalmente come un intervento di sostegno psicosociale e non solo assistenzialistico, per cui è
necessario prevedere un’adeguata preparazione degli operatori sociali, i quali devono essere
equipaggiati a trovare soluzioni per tutte le sfide che esso presenta; la competenza acquisita tramite
l’esperienza diretta dovrà essere sostenuta con l’approfondimento di nuove prospettive teoriche, che
consentano di conoscere e utilizzare strategie di intervento sempre più mirate ed efficaci.
Proprio in relazione alle difficoltà sperimentate dagli operatori, vorremmo soffermare l’attenzione
sui vissuti e sulle dinamiche che si attivano nelle figure professionali coinvolte durante il percorso
di affido. Come sottolinea Kaneklin (1995), nell’affido, il tema della separazione è pregnante; la
difficoltà maggiore, per l’operatore sociale, consiste allora nell’assumersi la responsabilità
dell’allontanamento del minore dal suo nucleo familiare di origine. Ciò comporta un certo disagio
all’operatore poiché, anche se l’obiettivo è quello di salvaguardare il benessere del bambino, si
viene comunque a creare una situazione di crisi in tutto il sistema familiare. Tale vissuto è reso
ancora più difficile da gestire, dal momento che permane l’idea della famiglia come spazio sacro e
inviolabile, la cui rottura degli equilibri, seppure patologici, diventa problematica.
Un’altra questione al centro di un vivace dibattito tra gli esperti del settore riguarda la scelta di
un’unica équipe o di due équipe distinte che seguano, in maniera distinta, le due famiglie. Il rischio
di utilizzare una sola équipe consiste nella possibilità che l’operatore crei un’alleanza con una delle
due famiglie e, conseguentemente, si schieri, seppure inconsapevolmente, con la famiglia affidataria
o quella di origine del minore. Può accadere che l’operatore si costruisca un’immagine della
famiglia di origine come debole e bisognosa di aiuto e della famiglia affidataria come elemento
prevaricante o, al contrario, che percepisca la prima come responsabile e colpevole delle difficoltà
del minore, attribuendo un potere salvifico alla famiglia affidataria. Una simile interpretazione
della realtà può compromettere le fondamenta su cui si basa l’affido stesso, fomentando la
competizione tra le due famiglie coinvolte. La possibilità di mantenere un punto di vista obiettivo

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rispetto alle dinamiche si attivano in ogni operatore potrebbe essere garantita dall’utilizzo di due
équipe in grado di seguire separatamente la famiglia affidataria e quella di origine, purché si lavori
in sinergia con l’intento comune di salvaguardare gli interessi del minore, lasciando ai giudici
(giudice tutelare o giudice del Tribunale per i minorenni) il controllo e il potere decisionale.

Capitolo 3: Valutazione Delle Famiglie E Processo Di Abbinamento

3.1. Introduzione
Predisporre un progetto di affido per un minore implica, per gli operatori sociali, dover effettuare
alcune scelte dalle quali può dipendere l’esito dell’affido stesso.
Innanzitutto, è necessario valutare la recuperabilità della famiglia di origine: la diagnosi delle
problematiche che questa presenta, infatti, non è sufficiente per predire se essa riuscirà, attraverso
interventi mirati, a recuperare le proprie funzioni genitoriali per riaccogliere il minore.
Un errore nella valutazione delle risorse o delle potenzialità della famiglia di origine rischia di
trasformare la natura dell’affido, rendendone incerti i limiti temporali, con la conseguenza di far
soffrire maggiormente sia la famiglia che il minore.
In secondo luogo, gli operatori sociali sono chiamati a valutare attentamente le famiglie che si
candidano all’esperienza di affido, allo scopo di riconoscere le motivazioni sottostanti alla loro
richiesta di accogliere un minore e le fantasie che la animano, nonché di individuare le risorse che
quel sistema familiare possiede per far fronte alle difficoltà che l’affido presenta.
Infine, gli operatori sociali dovranno procedere alla fase dell’abbinamento, scegliendo tra le
famiglie affidatarie quella che maggiormente sembra adattarsi alle caratteristiche del minore.

3.2. La Valutazione della Recuperabilità della Famiglia di Origine


Dovendo valutare una famiglia per decidere se questa possa costituire o meno un ostacolo allo
sviluppo psico-affettivo del bambino, il primo passo che deve compiere l’operatore è quello di
costruire, nel minor arco di tempo possibile, una fotografia di quella famiglia, delle relazioni
esistenti tra i suoi membri e dei “giochi” sottostanti. Nei casi più gravi, in presenza di un abuso o di
una grave trascuratezza, la tempestività della valutazione svolge un ruolo importante poiché è
necessario allontanare rapidamente il bambino dal contesto relazionale disfunzionale e trovare un
ambiente in cui possa sentirsi sicuro e protetto.
Il rischio di effettuare una valutazione solo delle problematiche della famiglia, tuttavia, è quello di
non prendere in considerazione altri aspetti che possono essere importanti al fine di comprendere le
possibilità che ha quel nucleo familiare di trovare un nuovo equilibrio e di rompere i meccanismi
disfunzionali che hanno causato l’allontanamento del minore. Scegliere di attuare un percorso di
affido senza verificare prima la capacità di cambiamento della famiglia di origine significa, con
molta probabilità, andare incontro a un insuccesso che può ripercuotersi negativamente sulle due
famiglie implicate (quella affidataria e quella di origine) e, soprattutto, sul minore.
L’affido familiare, infatti, si configura come un intervento molto delicato che deve essere il risultato
di una scelta ponderata da parte degli operatori sociali e non una modalità per rimandare, spesso a
tempo indeterminato, la decisione su cosa fare per il minore.
La sensazione che traspare in alcuni casi, invece, è che l’affido familiare sia uno strumento che
l’operatore usa per gestire un conflitto che nasce tra il riconoscere che le problematiche di una
determinata famiglia non consentono al bambino di crescere in maniera adeguata e la volontà di
voler salvaguardare a tutti i costi i legami familiari, evitando di procedere con l’adozione.
L’affido, in questo caso, diventa la soluzione e non un punto di partenza: con il suo avvio
l’operatore può ritenere concluso il proprio compito verso il minore e la sua famiglia di origine.
Diagnosi e prognosi si configurano, quindi, come due processi fondamentali che, se attuati in
maniera adeguata nelle fasi iniziali, permettono di porre le basi per il rientro del minore nel nucleo
familiare di appartenenza e di scegliere le strategie di intervento più efficaci.

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Il primo passo del percorso di valutazione consiste nel cogliere le problematiche presenti nel
contesto familiare, ponendo attenzione non solo agli indicatori esterni (condizioni economiche
svantaggiate, abitazioni poco salubri), ma soprattutto ai giochi relazionali in atto.
Perché sia possibile effettuare una simile valutazione, gli psicologi dell’équipe che gestisce l’affido
devono creare uno spazio terapeutico che metta la famiglia nelle condizioni di nutrire un certo
grado di fiducia verso l’operatore. Nel caso dell’affidamento familiare, tuttavia, alcune condizioni
alla base della relazione psicoterapeuta-paziente vengono meno: in particolare il vincolo della
segretezza. Mentre un rapporto di fiducia si fonda proprio sul sapere che ciò che verrà detto durante
la seduta non sarà rivelato a nessuno, nei casi di valutazione delle famiglie problematiche sia lo
psicologo che i familiari stessi sono perfettamente consapevoli che tutto ciò che emergerà durante i
colloqui sarà comunicato al magistrato incaricato di seguire il caso. E’, quindi, comprensibile che la
strategia attuata dalle famiglie sarà da un lato quella di rivelare il meno possibile, dall’altro quella di
mostrare gli aspetti positivi presenti, rendendo così arduo il compito dello psicologo di individuare
le aree problematiche e, di conseguenza, i reali punti di forza di quel sistema familiare.
L’obiettivo, quindi, della prima fase dei colloqui dovrà essere quello di motivare la famiglia di
origine a collaborare con gli operatori; questi ultimi, però, dovranno evitare di utilizzare come
incentivo alla cooperazione la promessa che il bambino farà rientro sicuramente nel nucleo
familiare. Essere chiari rispetto agli obiettivi e alle finalità dei colloqui di valutazione, infatti, è un
prerequisito importante che aiuterà i genitori a comprendere che cosa sta accadendo loro.
Di norma, durante i primi incontri, gli assistenti sociali recuperano una serie di indicazioni
concernenti la struttura e la storia della famiglia oggetto di valutazione. Verranno, quindi, raccolte
informazioni rispetto ai singoli membri del nucleo familiare come, ad esempio, età, professione
svolta, ma anche eventuali condanne penali, problemi di alcolismo o di dipendenza da sostanze,
prostituzione, rapporti con i parenti e notizie riguardanti il passato della famiglia, quali
trasferimenti, divorzi, figli nati da altre unioni.
E’ consigliabile condurre questi incontri a domicilio, in modo tale che l’operatore possa integrare le
informazioni che la famiglia fornirà con l’osservazione diretta dell’abitazione, delle condizioni di
vita e del quartiere in cui essa vive.
In una seconda fase, invece, il lavoro degli operatori sarà volto a individuare le problematiche
presenti nella famiglia.
Le modalità con cui effettuare una valutazione sono variabili e dipendono, fondamentalmente, dalla
formazione clinica dello psicologo. Sicuramente il colloquio può essere una modalità comune a tutti
gli operatori; tuttavia, alcuni preferiscono avvalersi anche di strumenti psicodiagnostici come il test
di Rorschach o il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI) per citarne alcuni.
Vorremmo sottolineare che utilizzare questi test può aiutare lo psicologo a individuare le aree
problematiche, a ottenere informazioni preziose sulla base delle quali formulare un’ipotesi delle
caratteristiche di personalità dei genitori, ma non deve costituire l’esito della valutazione stessa,
altrimenti si corre il rischio di “etichettare” gli individui in categorie diagnostiche. In quest’ultimo
caso, si commetterebbe l’errore di sottovalutare la dinamicità degli individui, le loro possibilità di
cambiamento e le influenze che alcuni eventi esterni potrebbero esercitare sulla situazione
osservata.
Un’altra questione sulla quale si riscontrano punti di vista anche molto diversi tra loro riguarda la
decisione di valutare ogni membro della famiglia osservandolo individualmente o nell’interazione
con gli altri familiari. Anche in questo caso, la scelta dipende dagli obiettivi che ci si è posti e
dall’orientamento dello psicologo. In particolare, coloro che propendono per un orientamento
sistemico-relazionale sostengono maggiormente l’utilità di incontrare tutti i familiari
contemporaneamente, mentre gli psicologi di orientamenti diversi potrebbero ritenere più utile
effettuare gli incontri separatamente. Al di là di queste divergenze, riteniamo che entrambe le
modalità possano essere proficue. In particolare, attraverso incontri individuali è possibile
conoscere la percezione di ogni soggetto della situazione, se questa è condivisa da tutti, e se vi siano

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o meno segreti familiari. Attraverso una valutazione congiunta di tutti i componenti della famiglia,
invece, è possibile cogliere le dinamiche relazionali, i giochi di potere che si sono innescati e i ruoli
che ogni membro ricopre all’interno della famiglia.
Una volta ottenuto un quadro della situazione in cui versa la famiglia, un ulteriore passo da
compiere è quello di formulare una prognosi di recuperabilità delle funzioni genitoriali. In realtà,
valutazione e prognosi sono processi complementari, che solo per chiarezza espositiva vengono qui
trattati separatamente. Infatti, un operatore, nel momento stesso in cui valuta una famiglia e ne
riconosce le aree problematiche, dovrebbe già avanzare delle ipotesi sulle possibilità e sulle
modalità di intervento da attivare per produrre i cambiamenti sperati.
È difficile individuare degli indicatori prognostici che ci permettano di dire se una data famiglia è in
grado di recuperare le funzioni genitoriali, e concordiamo con la posizione di Cirillo (2005)
secondo cui non è possibile determinare degli indicatori obiettivi per effettuare una prognosi;
tuttavia, alcune utili indicazioni in merito alla prognosi possono essere rintracciate nelle linee guida
fornite dal Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia
(CISMAI) per la valutazione clinica e l’attivazione del recupero della genitorialità nel percorso
psicosociale di tutela dei minori. Gli indicatori che riportiamo sono suddivisi per aree tematiche: in
particolare, si fa riferimento alla coppia genitoriale, al profilo di personalità dei genitori, al rapporto
che questi hanno instaurato con il minore e, infine, alla trattabilità terapeutica del nucleo familiare.
Rispetto alla coppia genitoriale sono riconosciuti predittori prognostici:
-le caratteristiche disfunzionali della relazione di coppia;
-la presenza/assenza di legami irrisolti con le rispettive famiglie di origine;
-la congruenza/incongruenza nella ricostruzione della propria infanzia e nel rapporto con i propri
genitori;
-il riconoscimento e la consapevolezza delle carenze subite e della propria sofferenza.
Un’altra area che dovrebbe essere indagata dagli operatori, sempre secondo le linee guida del
CISMAI, concerne il profilo di personalità dei genitori. In questo caso sono considerati indicatori
prognostici:
-la capacità/incapacità di aderire alla realtà;
-la capacità/incapacità di controllo degli impulsi;
-la capacità/incapacità di tollerare le frustrazioni;
-la capacità/incapacità di modulare la relazione affettiva.
La valutazione, quindi, dovrà vertere sulle caratteristiche di personalità dei genitori al fine di
indagare se queste ultime possano interferire con la funzione genitoriale.
Rispetto al rapporto con il minore instaurato dai genitori, sono considerati indicatori per il recupero
delle competenze genitoriali: -il tipo di investimento attivato da ciascun genitore nei confronti del
figlio;
-le caratteristiche dell’alleanza genitoriale stabilita dalla coppia;
-la presenza/assenza di riconoscimento dei bisogni psicologici e di accudimento del bambino;
-la presenza/assenza dei confini generazionali;
-la capacità/incapacità della coppia di mantenere i confini generazionali con i figli;
-la flessibilità/rigidità delle relazioni affettivo-educative nei confronti dei figli;
-la qualità dei legami nella fratria;
-la capacità di attenzione e ascolto del bambino;
-la capacità di contenimento emotivo;
-la capacità di mettere in parola sentimenti, emozioni, esperienze.
Come si può notare, gli indicatori proposti dal CISMAI fanno riferimento alla capacità dei genitori
di costruire una relazione emotiva adeguata con il bambino. In particolare, suggeriscono di indagare
la qualità e il grado dell’investimento emotivo nei confronti del minore. E’ frequente, infatti, che i
partner della coppia riconoscano un deficit nella propria funzione genitoriale, ma non siano in grado
di attribuire una motivazione al loro comportamento inadeguato, scaricando la responsabilità delle

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proprie azioni sul figlio stesso. In questo caso, è probabile che l’allontanamento del minore sia visto
dalla coppia come una chance per poter ricominciare di nuovo, magari mettendo alla luce un altro
figlio a conferma della propria capacità genitoriale.
Un’altra situazione che potrebbe far propendere verso una prognosi negativa è l’incapacità, da parte
dei genitori, di riconoscere la loro difficoltà a occuparsi dei bisogni psicologici del bambino. Di
fronte a tale realtà, è probabile che la madre minimizzi o sia incostante nel leggere i segnali di
disagio emotivo del figlio perché convinta dell’opportunità di rendere precocemente autonomo il
bambino o perché troppo occupata ad affrontare le proprie difficoltà. In quest’ultimo caso, la madre
stessa potrebbe essere portata a cercare supporto e comprensione nei figli, i quali possono diventare
i confidenti di tutti i suoi problemi. L’attenzione del genitore si sposta, quindi, sulla necessità di
ricevere un sostegno dal figlio creando, così, un’inversione di ruoli. Il rapporto genitoriale risulta
inverso: è il figlio che si occupa dei bisogni emotivi della madre e non il contrario.
Altrettanto importante, per gli operatori, è comprendere se lo stile genitoriale sia condiviso dalla
coppia o se uno dei due partner si adegua all’altro. In quest’ultimo caso, infatti, è possibile
ipotizzare un intervento finalizzato a rompere la coalizione genitoriale, cosicché uno dei due partner
possa orientarsi verso uno stile educativo più adeguato che tenga conto dell’età del bambino e delle
sue necessità emotive.
Un ultimo aspetto su cui concentrare l’attenzione riguarda i rapporti tra i fratelli. Di fronte a un
fratello più grande con problemi di comportamenti devianti o antisociali, come reagiscono i
genitori? Il fratello maggiore può costituire per il minore un modello negativo di comportamento? O
ancora, pensando alle alleanze che si possono stabilire tra fratelli e genitori, è possibile ipotizzare
che, in alcuni casi, la funzione genitoriale venga esercitata non solo dagli adulti, ma anche da alcuni
fratelli che, collaborando con i genitori, possono costituire una minaccia per il minore stesso?
Occorre, infine, che l’operatore indaghi l’esistenza di eventuali preferenze da parte dei genitori nei
confronti di alcuni figli rispetto agli altri.
L’ultima area che l’operatore dovrebbe indagare, sempre secondo le linee guida del CISMAI, è la
trattabilità terapeutica del nucleo familiare, i cui predittori per una prognosi positiva possono
essere:
-la riduzione dei meccanismi difensivi di negazione;
-la comprensione e la compartecipazione alla sofferenza del figlio;
-la capacità di comprensione del danno arrecato al figlio attraverso la condivisione con gli operatori
della rilettura dei significati individuali e relazionali dei comportamenti pregiudizievoli;
-la capacità di assumersi le proprie responsabilità e attivare comportamenti riparativi in funzione del
cambiamento;
-la capacità iniziale di condividere un progetto di intervento riparativo.
Ciò che deve essere valutato, in questo caso, è la capacità dei genitori di riflettere sul significato
delle dinamiche relazionali in atto e sugli effetti che possono aver avuto alcuni loro comportamenti
nello sviluppo psico-affettivo del minore.
La valutazione degli operatori verte, in questo caso, sulla capacità metacognitiva dei genitori,
ovvero sulla capacità di prendere distanza dal Sé e di riflettere su se stessi. Grazie ai processi
metacognitivi, l’individuo riesce ad attribuire un significato e un valore alle esperienze, operando
una distinzione tra reale e irreale, tra giusto e sbagliato.
Un deficit nel monitoraggio metacognitivo implica un’incapacità di mantenere un punto di vista
esterno sulle dinamiche relazionali e sui processi mentali mentre questi si svolgono.
Al contrario, una figura di accudimento capace di riflettere sulle proprie esperienze e sul proprio
vissuto emotivo sarà in grado di relazionarsi al bambino evitando che i suoi problemi emotivi
interferiscano con la relazione. Tale capacità metacognitiva permetterà al genitore, inoltre, di
leggere meglio i segnali emotivi del figlio e di offrire risposte adeguate.
Solo a partire da questa capacità metacognitiva, sarà possibile progettare e condividere con i
genitori un intervento che miri a recuperare le loro funzioni genitoriali e che li aiuti non solo a

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individuare strategie più adeguate di accudimento dei figli, ma anche a riflettere sui propri
comportamenti, attribuendo a essi un significato, così da dare un senso unitario e coerente alle
esperienze vissute.
Gli indicatori riportati potrebbero costituire delle linee guida utili agli operatori nell’effettuare una
diagnosi di recuperabilità; tuttavia, tale valutazione non può prescindere dalla considerazione dei
tempi necessari affinché possa verificarsi un cambiamento reale. Non è cioè solo la possibilità di
recupero delle funzioni genitoriali che deve essere valutata, ma anche il tempo necessario alla
famiglia perché possa produrre i cambiamenti attesi.
Al termine di tale percorso valutativo, è possibile che siano stati individuati nella famiglia alcuni
elementi che permettono di esprimere una prognosi positiva o negativa sulla recuperabilità della
stessa.
Come suggerisce Cirillo (2005), è opportuno, nel caso di prognosi negativa, non cercare a tutti i
costi di preservare i legami tra il minore e la famiglia di origine; si dovrà, infatti, tener presente che
l’obiettivo principale non è tanto quello di proteggere la famiglia quanto, piuttosto, quello di
tutelare il minore.

3.3. Il Reclutamento e la Valutazione della Famiglia Affidataria


Negli ultimi anni, gli enti locali, le cooperative sociali, le associazioni di famiglie affidatarie o le
altre associazioni impegnate nel sociale hanno utilizzato i mass media per informare i cittadini
dell’istituto dell’affido e delle finalità che esso promuove. Queste campagne pubblicitarie sono state
utilizzate solitamente in periodi sensibili quali, ad esempio, le festività natalizie in cui vi è
un’attenzione e un interesse maggiori per le problematiche sociali.
Un’altra modalità per reclutare le famiglie affidatarie consiste nell’organizzazione di incontri presso
le parrocchie. Si è da sempre ritenuto, infatti, che l’aderenza ai principi di vita religiosi potesse
essere un fattore motivante per queste famiglie. In questo caso, l’individuo dovrebbe agire spinto
dalla virtù teologale della carità, secondo la quale bisogna fornire aiuto al prossimo più sfortunato.
Individuare la strategia più valida per reclutare queste famiglie non è facile in quanto, come
testimoniamo i dati presentati da Garelli (2000), la scelta di candidarsi per l’esperienza di affido può
assumere connotati laici anche nei casi delle famiglie che si professano credenti.
Dunque, non sembra che le motivazioni per questa scelta debbano essere ricercate esclusivamente
nella fede religiosa; esistono “spinte” di ordine diverso quali, ad esempio, gli ideali di solidarietà e
di condivisione con altri delle proprie risorse.
La scelta di pubblicizzare l’affido nelle parrocchie può essere utile per raggiungere una certa fetta di
persone. Rimane, comunque, necessario l’utilizzo anche di altre strategie per sensibilizzare il
maggior numero possibile di famiglie all’affido.
In ogni caso, a prescindere dalla natura di queste sollecitazioni, rimane prioritario l’obiettivo di
informare le famiglie così da motivarle a rendersi disponibili ad accogliere un minore.
Quando giunge all’ente locale la disponibilità da parte di una famiglia a intraprendere un percorso
di affido, l’idea è che tutto il nucleo familiare sia in egual misura convinto e motivato a fare questa
esperienza. Anche se in una fase successiva ciò accade, è importante, tuttavia, per l’operatore
comprendere chi per primo abbia elaborato l’idea di assumersi questo impegno sociale; tale
informazione può essere un indicatore dei bisogni e delle motivazioni sottostanti a tale scelta. Dai
dati di Garelli (2000) emerge che, sebbene spesso siano entrambi i partner ad aver pensato di
proporsi per l’affido (42,8%), in una buona percentuale di casi (47,2%) è stata la donna a prendere
l’iniziativa e a condividerla con i familiari.
Una volta che saranno giunte le disponibilità all’affido da parte delle famiglie, gli operatori sono
chiamati a effettuare una valutazione delle caratteristiche del nucleo familiare e delle motivazioni
sottostanti a tale scelta.
Presentiamo, qui di seguito, un possibile iter valutativo basato sul modello proposto da Guida e
Kaneklin (1993).

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Il primo passo da compiere dovrebbe essere quello di raccogliere informazioni sul nucleo familiare
e, in particolare, sulla composizione anagrafica e sulle caratteristiche della famiglia. Durante questo
primo contatto dovrebbe emergere, anche, la richiesta di avere un bambino in affido; ciò formalizza
l’impegno della famiglia e pone le basi per gli incontri seguenti, utili agli operatori per comprendere
se la famiglia è idonea per l’affido, e alla famiglia stessa per capire se sia davvero pronta a
intraprendere tale percorso.
Nella fase successiva, si dovrebbe illustrare alle famiglie, in maniera più dettagliata, le finalità
dell’istituto dell’affido. Infatti, sebbene molte coppie giungano ai colloqui già in possesso di
informazioni sull’affidamento, è importante chiarire eventuali dubbi o spiegare nel dettaglio che
cosa accadrà loro e che cosa comporta accogliere un bambino che proviene da situazioni familiari
problematiche. In alcune realtà italiane, a questi incontri sono presenti anche genitori che hanno già
alle spalle esperienze di affido; ciò permette alla famiglia che si propone per l’esperienza di
accoglienza di integrare le informazioni ricevute dagli operatori con i racconti delle esperienze
maturate da altre persone. Conoscere genitori affidatari può facilitare, nelle coppie che stanno per
intraprendere questo percorso, la possibilità di immaginarsi nel futuro a loro volta genitori
affidatari; può, altresì, accadere che alcune famiglie si rendano conto, già durante questi incontri, di
non essere pronte ad assumere questo ruolo, decidendo di ritirare la domanda.
Un ulteriore compito degli operatori dovrebbe essere quello di analizzare quali bisogni la famiglia
stia cercando di soddisfare con l’affido. E’ la fase più delicata, perché una valutazione erronea o
superficiale di questi aspetti rischia di compromettere l’esito dell’affido stesso. La disponibilità
all’affido non può costituire un criterio unico per a scelta, che non può prescindere da una
valutazione complessiva dello stato mentale, emotivo e cognitivo degli individui che si propongono
per l’accoglienza di un minore.
Non tutte le famiglie sono idonee a intraprendere un percorso di affido; l’operatore, pertanto,
dovrebbe lavorare con i possibili affidatari allo scopo di giungere a una definizione condivisa delle
reali motivazioni sottostanti la disponibilità dichiarata. Ogni famiglia esprime, in un dato momento,
un bisogno più o meno consapevole che va oltre la motivazione solidaristica addotta. Pertanto,
accanto a un riconoscimento della capacità della famiglia di aprirsi alle problematiche sociali,
diviene importante comprendere anche quali giochi relazionali siano in atto e quali siano le reali
esigenze dei membri di quel nucleo familiare.
Per comprendere ciò, occorre far riferimento al compito evolutivo che la famiglia si trova ad
affrontare nel momento in cui offre la sua disponibilità e alle strategie di coping che ha attivato per
fronteggiare le difficoltà che possono eventualmente emergere.
Per una coppia sposata da poco tempo, ad esempio, un compito di sviluppo da affrontare è quello
connesso alle generatività. Quando un bambino tarda ad arrivare o vi è un danno biologico accertato
in uno dei due partner, cercare di avere un figlio, anche se non generato dalla coppia, può diventare
lo scopo da perseguire a tutti i costi e con tutti i mezzi disponibili. Per queste famiglie la richiesta di
avere un bambino in adozione è di norma il primo passo compiuto. Tuttavia, non sempre si riesce ad
avere l’idoneità all’adozione, oppure sono i tempi di attesa, spesso molto lunghi, che possono
portare i partner a orientarsi verso l’affidamento familiare. In questo caso, è plausibile prevedere
che, diventando affidatari, questi genitori non sappiano gestire la doppia appartenenza del minore,
che cercheranno di allontanarlo dalla sua famiglia di origine nella speranza, spesso non confessata,
che il bambino possa restare con loro e non rientrare più nel nucleo familiare di appartenenza.
Un altro compito di sviluppo che le famiglie si trovano ad affrontare riguarda l’acquisizione
dell’autonomia dei figli divenuti grandi. Può accadere che una coppia che ha riversato tutte le
energie sul mantenimento del ruolo genitoriale possa soffrire della “sindrome del nido vuoto”, non
riuscendo a ritornare coppia condividendo interessi e amicizie comuni, ma sentendosi unita solo se
impegnata a crescere un figlio. Le famiglie che stanno affrontando tale problema, accogliendo un
minore in affido, potrebbero essere portate a immaginare di continuare a svolgere la funzione
genitoriale così come l’avevano esercitata nei confronti dei figli diventati grandi. Ogni bambino è,

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tuttavia, diverso e un minore che proviene da un contesto multiproblematico presenterà, con molta
probabilità, difficoltà diverse da quelle che può avere un figlio cresciuto in un ambiente familiare
sereno e accogliente. Il rischio diventa, allora, quello di non saper adattare e modificare il proprio
comportamento sulla base delle specifiche necessità del bambino e di sperimentare la disillusione
rispetto all’esperienza dell’affido stesso.
Altri nuclei familiari si trovano, invece, a gestire una situazione di grave crisi interna, per cui
intravedono nell’affido la possibilità di mantenere coeso il nucleo familiare e di raggiungere un
nuovo equilibrio. In questi casi è possibile che uno dei due partner cerchi di mantenere l’altro legato
a sé attraverso la condivisione di un ruolo comune, come appunto quello genitoriale: si cerca di
evitare la rottura e la separazione e di trovare una motivazione per continuare a stare assieme.
Trattandosi, però, di una motivazione esterna e non interna alla coppia, spesso la crisi non viene
superata per cui può accadere che essa venga rimandata al momento della conclusione dell’affido,
con la conseguente paura di quando giungerà tale momento, oppure può succedere che i due partner
giungano ugualmente a separarsi, mettendo il minore nella condizione di dover affrontare un’altra
situazione problematica, con effetti importanti sul suo sviluppo psico-affettivo.
E’ anche possibile che alcune famiglie si candidino all’esperienza di affido in conseguenza di un
lutto di un membro del nucleo familiare. Pensiamo, ad esempio, a genitori che hanno perso un figlio
in giovane età. In questo caso, è probabile che essi utilizzino il figlio in affido per fronteggiare i
sentimenti di perdita e per elaborare l’esperienza di lutto. E’ anche possibile che essi ricerchino nei
gusti e negli atteggiamenti del bambino somiglianze con il figlio perso, con ricadute negative sul
minore in affido.
Come abbiamo cercato di chiarire con questi esempi, ogni famiglia, nel momento in cui si dichiara
disponibile per l’esperienza di affido, esprime un bisogno; obiettivo dell’iter valutativo dovrebbe
essere, pertanto, quello di farlo emergere passando dalla fase della presentazione di disponibilità
(“ci piacerebbe”) alla consapevolezza della disponibilità (“siamo pronti a”).
Accanto alle motivazioni soggiacenti alla richiesta di diventare una famiglia affidataria, un altro
obiettivo importante, nella fase della valutazione, consiste nell’indagare le relazioni tra i membri
della famiglia e la capacità di questo ultimi di costituire un fattore protettivo per lo sviluppo del
minore. L’attenzione, quindi, sarà volta a individuare la capacità, da parte dei genitori, di fornire le
cure fisiche ed emotive adeguate alle esigenze del bambino accolto e di individuare strategie utili a
fronteggiare le problematiche che si potrebbero presentare. L’operatore dovrebbe chiedersi fino a
che punto gli affidatari sono capaci di offrire al bambino modelli relazionali diversi da quelli
sperimentati nel contesto familiare di appartenenza. Un buon grado di coesione all’interno della
coppia, la capacità di essere flessibili e di utilizzare il supporto della rete sociale sono elementi
considerati predittori affidabili di una buona genitorialità. Accanto a questi aspetti, tuttavia, è
necessario che l’operatore si soffermi anche sulle caratteristiche di personalità e sulle
rappresentazioni mentali che l’individuo si è costruito di sé e delle sue figure significative, sulla
base delle esperienze infantili avute con i suoi genitori.
La valutazione delle aspiranti famiglie affidatarie è, quindi, un compito molto complesso che
richiede un’attenta analisi delle molteplicità di fattori implicati, allo scopo di individuare i punti di
forza e di debolezza di ogni sistema familiare. Partendo dal presupposto che non esistono famiglie
perfette e dalla constatazione del basso numero di famiglie disponibili ad accogliere un minore, è
importante che l’operatore conosca le motivazioni latenti e manifeste in modo da creare i giusti
abbinamenti fra le caratteristiche della famiglia e le esigenze del minore. Ciò può riuscire solo se la
valutazione dell’idoneità non avviene sulla base del criterio dell’urgenza, per cui occorre trovare
molte famiglie e in fretta, ma avviene adottando la prospettiva secondo cui non bisogna solo
individuare una famiglia per il minore, ma cercarne una capace di soddisfare in maniera adeguata i
suoi bisogni fisici e, soprattutto, emotivi.

3.4. Il processo dell’abbinamento

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La fase dell’abbinamento ha inizio nel momento in cui si cerca di individuare, tra le famiglie pronte
ad accogliere un bambino, quella più idonea per il progetto ipotizzato per il minore e per la sua
famiglia di origine, e terminerà con l’inserimento del bambino nella famiglia affidataria.
Il processo di abbinamento è di cruciale importanza per l’affido stesso; sebbene molte famiglie che
si sono candidate all’esperienza di affido possano aver concluso l’iter valutativo positivamente, esse
sono solo risultate genericamente idonee ad accogliere un minore. La questione cruciale per gli
operatori che predispongono l’affido diventa quella di decidere, nello specifico, se una particolare
famiglia è in grado di rispondere alle esigenze di un particolare minore.
I criteri che gli operatori dell’ente locale utilizzano per procedere alla fase di abbinamento tengono
conto sia del minore e della sua famiglia di origine, sia della famiglia affidataria.
Per quanto riguarda il minore, l’attenzione va posta soprattutto sulle problematiche che il bambino
presenta. Alcune condotte particolarmente aggressive o devianti, ad esempio, possono risultare
difficili da gestire per una famiglia affidataria che non ha mai avuto figli o che ha figli che non
manifestano particolari problemi di condotta.
Un altro aspetto da valutare è la storia del bambino e, di conseguenza, le esperienze maturate nel
contesto familiare di appartenenza. E’ possibile, infatti, che non tutte le famiglie affidatarie siano in
grado di gestire il vissuto emotivo di bambini con alle spalle gravi episodi di trascuratezza o di
abuso. In questi casi, è più opportuno che si scelgano affidatari che hanno già avuto esperienze di
affido o che siano, comunque, adeguatamente preparati ad affrontare le difficoltà e i rischi di
insuccesso che comporta l’inserimento, nel proprio nucleo familiare, di un minore con un simile
vissuto.
Un’altra caratteristica che gli operatori dovrebbero considerare è l’età del minore. Solitamente, gli
affidatari sono più disposti a occuparsi di un bambino piccolo, dichiarando maggiori difficoltà ad
accogliere un preadolescente o un adolescente. In questi casi, non bisogna sottovalutare la
possibilità che un adolescente inserito in una famiglia del genere possa avere difficoltà ad
ambientarsi o a instaurare una relazione affettiva con i genitori affidatari. E’ da considerare, inoltre,
che i ragazzi prossimi alla maggiore età hanno solitamente alle spalle esperienze di affidi falliti o
anni di vita in comunità, motivo per cui sarebbe auspicabile cercare famiglie capaci di provvedere ai
loro bisogni in maniera adeguata, evitando il rischio di assicurare semplicemente una funzione di
accompagnamento alla maggiore età.
Di particolare rilevanza sono, infine, anche gli aspetti legati alle caratteristiche temperamentali del
bambino. Ogni individuo, infatti, ha uno stile diverso nel comportarsi; alcuni degli aspetti che lo
caratterizzano, quali l’adattabilità al cambiamento, il tono prevalente dell’umore, la regolarità o
meno nelle funzioni biologiche, possono rendere più o meno facile l’interazione con l’adulto e
l’adattamento. Nella fase dell’abbinamento, gli operatori dovrebbero porre attenzione alle
caratteristiche temperamentali del bambino e individuare, tra le famiglie disponibili, quella che sarà
maggiormente capace di adattarsi al minore, tenendo conto del concetto di goodness of fit, ossia del
reciproco adattamento tra le caratteristiche innate del bambino e l’ambiente che lo accoglierà; un
bambino molto irritabile e difficile da calmare starebbe meglio con genitori capaci di tentare diverse
strategie al fine di individuare quella più efficace e che non si scoraggino di fronte alle difficoltà che
questi presenta.
Per quanto riguarda le famiglie affidatarie, è importante, innanzitutto, che gli operatori si
interroghino sulla motivazione sottostante la richiesta di affido. Se è vero, come si è già detto, che
ogni famiglia esprime un bisogno preciso nel momento in cui si dichiara disponibile all’affido,
bisogna cercare di offrire al minore una famiglia capace di soddisfare non tanto un proprio bisogno,
ma quello di affetto e di sostegno del bambino durante tutto il percorso che intraprenderà. Ci
sembra interessante la proposta di Ghezzi e Vadilonga (1996) secondo cui, se una famiglia
affidataria ha fantasie adottive, bisognerà evitare di colludere con tali aspirazioni, abbinandola, ad
esempio, a un minore per il quale sia previsto quasi certamente un rientro a breve nel nucleo di
origine e il mantenimento dei rapporti regolari con i genitori durante l’intero percorso.

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E’ anche vero, tuttavia, che non sempre è necessario evitare di soddisfare le aspettative e le richieste
dei genitori affidatari: qualora non siano incompatibili con il progetto di vita del bambino, potrebbe
essere utile assecondare le preferenze espresse dalla coppia affidataria poiché potrebbero
rispecchiare le risorse realmente presenti in quel nucleo. Ad esempio, se una famiglia dichiara di
preferire un bambino più piccolo, non necessariamente l’operatore deve ignorare simili richieste,
perché potrebbe essere che i genitori affidatari riconoscano una loro difficoltà a occuparsi di un
adolescente, il quale presenta esigenze e necessità molto peculiari.
Un altro aspetto utile da prendere in considerazione è lo stile genitoriale prevalente della famiglia
affidataria: un nucleo familiare orientato sul polo autoritario, con uno scarso coinvolgimento
affettivo nei confronti del proprio figlio, può risultare addirittura dannoso con bambini che
presentano un comportamento oppositivo; alcuni studi recenti hanno dimostrato che tale stile
genitoriale, durante il periodo di affido, può rafforzare la presenza di condotte aggressive nel
bambino.
Anche la presenza nella famiglia affidataria di eventuali figli è un elemento importante da
considerare per l’abbinamento. Occorre chiedersi che significato avrà per questi l’inserimento di un
nuovo bambino, con il quale dovranno condividere gli spazi, i giochi e, soprattutto, l’attenzione dei
genitori. Sarebbe opportuno evitare che si creino le condizioni per cui si possa attivare un
atteggiamento di competizione, da parte dei figli, nei confronti del minore affidato; a tal fine
sarebbe auspicabile abbinare minori con una differenza di età apprezzabile rispetto ai figli della
coppia affidataria, scegliendoli, possibilmente, di sesso diverso, in modo che il bambino in affido
non sia vissuto come una minaccia.
E’ necessario porre attenzione anche alla posizione che il minore ricoprirà all’interno della fratria:
in particolare, come suggerito da Roncari (1998), sarebbe opportuno che un bambino che era
primogenito nella famiglia di origine e che, probabilmente, aveva molte responsabilità nei confronti
dei fratelli più piccoli, diventi ultimogenito o venga collocato in una posizione intermedia nella
famiglia affidataria, così da evitare di fargli assumere la “responsabilità” di essere primogenito
anche nella nuova famiglia.
Anche un elevato divario nelle condizioni socioeconomiche e culturali tra la famiglia affidataria e
quella di origine può ostacolare il buon esito dell’affido.
Per un bambino in affido è già difficile inserirsi in un nuovo contesto familiare: ciò richiede, infatti,
di adattarsi ai cambiamenti delle routine, alla nuova casa, al quartiere, ai nuovi amici e alla nuova
scuola. Se, oltre a queste novità, il bambino deve anche affrontare orientamenti e valori promossi
dalla famiglia affidataria troppo diversi da quelli del contesto di provenienza, è probabile che si
senta smarrito e in conflitto rispetto ai valori da perseguire. Può anche accadere, in questi casi, che
la famiglia di origine veda nella famiglia affidataria un’antagonista e una minaccia, non solo per il
fatto che il bambino viva con una famiglia diversa dalla sua, ma anche per il timore che il figlio
possa “tradire” le sue origini.
Proprio in virtù dei delicati rapporti che si instaurano tra famiglia affidataria e famiglia di origine,
un altro fattore da prendere in considerazione, nel processo di abbinamento, è la capacità della
famiglia affidataria di gestire i rapporti con il nucleo familiare di appartenenza del minore. Le
problematiche che quest’ultima presenta e l’atteggiamento nei confronti del provvedimento di
affido possono costituire un ostacolo per l’integrazione del minore se la famiglia affidataria non
possiede le giuste strategie per affrontarli. Per questa ragione, i genitori affidatari dovrebbero essere
informati non solo sulle caratteristiche del minore da accogliere, ma anche di quelle della sua
famiglia. Ciò può evitare agli affidatari di giungere impreparati, davanti a tali difficoltà, a percorso
già intrapreso.
Infine, un’ultima caratteristica da considerare riguarda la capacità o meno della famiglia affidataria
di adattarsi alle incognite che l’affido presenta. Ci riferiamo, in particolare, alla capacità degli
affidatari di convivere con l’eventuale incertezza della durata dell’affido. Nella realtà, infatti, ci
sono progetti di affido che nascono già con l’incognita del tempo che sarà necessario alla famiglia

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di origine per recuperare le funzioni genitoriali. Ci si deve chiedere, pertanto, se gli affidatari
saranno in grado di convivere con questa incertezza e se riusciranno a preservare la doppia
appartenenza del minore, anche se il progetto di affido supera i tempi previsti dalla legge. Può
accadere, infatti, che al termine del percorso di affido, la famiglia naturale non abbia recuperato le
funzioni genitoriali, per cui il rientro del minore nel suo nucleo di origine non sia praticabile. In
questo caso, è importante conoscere la disponibilità della famiglie affidatarie a continuare a tenere
presso di sé il minore; se per alcune famiglie, infatti, è importante sapere quando terminerà
l’esperienza di affido, per altre, invece, il fattore tempo non è così importante. Conoscere le
aspettative della famiglia affidataria potrebbe essere, pertanto, importante per l’abbinamento di un
minore di cui si hanno dubbi sulla recuperabilità della famiglia, al fine di evitare che gli affidatari
possano decidere, a un certo punto, di interrompere l’affido e di rinviare il minore ai servizi.
In questa direzione ci si sta muovendo per i casi in cui si prospetta l’eventualità di una “adozione
mite” qualora il minore non possa tornare in famiglia a conclusione dell’affido.
L’adozione mite, sperimentata a partire dal giugno 2003 presso il Tribunale per i minorenni di Bari,
si fonda sulla constatazione che in molti casi l’affido temporaneo, in seguito a provvedimenti di
proroga, assume i connotati dell’affido sine die. Ciò accadde perché non vi sono le condizioni per
un rientro del minore nel nucleo familiare di origine. Infatti, numerose sono le famiglie che
risultano, in maniera continuativa, parzialmente inidonee a esercitare le funzioni genitoriali. Si
tratta, cioè, di genitori che, pur mantenendo un rapporto affettivo con il figlio, non sono capaci di
provvedere in maniera adeguata ai suoi bisogni psicofisici. In questo caso si parla di
semiabbandono permanente, per il quale non è previsto un inquadramento legislativo specifico,
dato che lo stato di adottabilità prevede una inidoneità permanente della famiglia di origine. Il
rischio, per il minore, è che raggiunta la maggiore età abbia un futuro incerto, in quanto la famiglia
affidataria non potrà riconoscerlo come membro effettivo della famiglia e la famiglia di origine non
potrà farsi carico di lui, pur mantenendo un rapporto affettivo.
L’adozione mite dà la possibilità al minore collocato per molti anni presso una famiglia affidataria
di essere adottato da quest’ultima attraverso un procedimento di adozione non legittimante. In
questo caso, il minore viene riconosciuto a tutti gli effetti figlio della coppia affidataria (o del
singolo); tuttavia, esso continua a mantenere i rapporti con la famiglia di origine.
Nel predisporre un progetto di adozione mite, il Tribunale per i minorenni procede ad abbinare il
minore con i singoli o le coppie affidatarie che hanno dichiarato la propria disponibilità ad accettare
l’affidamento familiare del minore e, se necessario, a chiedere l’adozione non legittimante.
Per concludere, solo dopo aver preso in considerazione tutti gli aspetti discussi è possibile iniziare il
percorso di affido. Vorremmo sottolineare, tuttavia, che anche il minore, durante questa fase,
assume un ruolo importante. Come sostengono alcuni autori, se è necessario che all’inizio siano gli
adulti a valutare quale famiglia possa essere più adatta per il minore, nella fase finale questi potrà
essere interpellato e si potrà condividere con lui il progetto di affido, lasciandogli il tempo per
elaborare le informazioni che gli saranno fornite e per esprimere eventuali dubbi e perplessità.
Il processo di abbinamento, quindi, pone le basi per l’avvio di un progetto di affido che possa
portare a un esito positivo. Infatti, è attraverso un buon abbinamento che i modelli relazionali
disattivi che il minore ha sperimentato nella famiglia di origine possono modificarsi, in maniera
costruttiva, sulla scia dei modelli relazionali più adattivi sperimentati nella “nuova” famiglia.
Cap. 4 L' intervento di accompagnamento all'affidamento
4.1. Introduzione

Obiettivi dell'affidamento sono: offrire al bambino modelli ben funzionanti di relazione in modo
tale da garantire al bambino una “base sicura” costituita da adulti responsivi, sensibili e affettuosi
che gli permette di esplorare l'ambiente esterno, acquisire fiducia nelle proprie risorse interne e
poter fare affidamento in caso di situazioni pericolose o di “rifornimento affettivo”. Se ciò non si
verifica spontaneamente l'affidamento familiare si propone di offrire all'individuo per un tempo

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prestabilito la possibilità di disporre di cure adeguate da parte di una famiglia “integrativa”.Se
quest'ultima è adeguata, superato il trauma della separazione dai genitori, il bambino potrà costituire
legami significativi anche con la famiglia affidataria che funzionando da “base sicura”, contribuirà a
promuovere il suo sviluppo. Un altro obiettivo è far recuperare agli individui ritardi, distorsioni o
blocchi verificatisi sul piano cognitivo, affettivo-relazionale e sociale. Per arrivare a ciò la famiglia
affidataria con l'aiuto di operatori e servizi esterni, deve mettere in atto strategie che favoriscano
non solo nuovi apprendimenti ma anche che smantellino credenze, aspettative, e modelli di
relazione e di azioni disfunzionali che il bambino ha acquisito e che tenderà a ripetere nel nuovo
contesto. Un terzo risultato è quello di aiutare la famiglia del bambino ad acquisire o incrementare
le proprie capacità genitoriali per favorire il rientro in famiglia del minore. Il provvedimento di
affido è quindi un mezzo per raggiungere gli obiettivi suddetti. E' necessario predisporre un
progetto di intervento che accompagni il bambino, famiglia e affidatari per tutto il percorso
dell'affido.

4.2 L'intervento nella fase iniziale: il distacco del bambino dalla famiglia e il suo collocamento
presso gli affidatari

Nel momento che va dalla decisione consensuale o meno di ricorrere all'affidamento a quello in cui
il bambino viene trasferito presso gli affidatari, genitori e figli si trovano ad affrontare una serie di
problematiche emotive che necessitano di un sostegno sensibile ed immediato da parte degli
operatori. Si tratta di sostenere la famiglia nel processo di elaborazione dei vissuti di perdita e di
abbandono legati all'allontanamento del bambino, di dare un senso all'esperienza dell'affido de è
necessario sostenere il minore, la famiglia d'origine e quella affidataria per promuovere
l'adattamento del bambino nel nuovo ambiente e facilitare la ridefinizione dei ruoli e la
riorganizzazione della routine nei due contesti.

4.2.1. Affrontare il trauma del distacco

E' un evento traumatico in quanto si vengono a spezzare i legami affettivi che si sono già stabiliti tra
il bambino e i suoi familiari in quanto costituiscono una base sicura, prima concreta e poi
interiorizzata che consentono al bambino di crescere, sviluppare il proprio mondo interiore e
adattarsi al mondo esterno. Ogni bambino nasce predisposto geneticamente a sviluppare legami
emotivi con chi si prende cura di lui attraverso comportamenti ( pianto, sorriso, linguaggio,
gattonare ecc.) che gli permettono di stare in prossimità di una figura adulta che gli fornisca un
supporto fisico e psicologico. Più questo supporto sarà costante e adeguato più il bambino maturerà
la fiducia nella propria capacità di richiamare l'attenzione dell'adulto in caso di necessità, di
comunicare i suoi bisogni e di sentirsi meritevole del suo amore. Tale fiducia, una volta
interiorizzata, porterà alla costruzione di un buon senso di autostima e di autoefficacia offrendogli
il coraggio di dedicarsi all' esplorazione del mondo fisico e sociale staccandosi fisicamente dai
genitori. Laddove l'adulto non costituirà per il bambino una base sicura si potranno strutturare
legami affettivi emotivamente forti ma disadattivi, per il bisogno del bambino di trovare un modo
per rimanere in contatto con un genitore che non funziona come dovrebbe. Per esempio un figlio la
cui madre si dimentica di fargli da mangiare e prendersi cura di lui, potrà sviluppare un'inversione
di ruolo facendo da genitore alla propria madre. Un bambino continuamente esposto ai conflitti dei
genitori cercherà sempre di mediare tra loro per paura di perdere l'uno o l'altro genitore o di essere
coinvolto. Il bambino quindi svilupperà strategie di relazione poco funzionali per il suo sviluppo
che costituiscono l'unica possibilità per poter vivere in quella famiglia. L'allontanamento del
bambino diventa un' ulteriore minaccia per la tenuta di questi legami esponendo il bambino a una
forte angoscia per la perdita dei suoi adulti di riferimento. Un altro aspetto che rende traumatica
l'uscita del bambino dalla sua famiglia riguarda il cambiamento che essa comporta nella gestione

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della vita quotidiana e nel modo di vivere il proprio ruolo all'interno e all'esterno della famiglia. Il
bambino si troverà ad affrontare la perdita delle routine familiari e degli amici (scuola, comunità).
In questa situazione per il bambino stressante, non potendo contare su una base sicura che possa
intervenire in suo aiuto di fronte a novità, imprevisti, eventi insoliti o pericolosi. Il minore
affronterà il nuovo contesto familiare con un doppio handicap: non potrà contare sulla presenza dei
suoi genitori per conoscere la nuova situazione e spesso nemmeno contare su una base sicura
interiorizzata che possa guidarlo in assenza dei genitori. Anche per i genitori de i fratelli
l'allontanamento del bambino costituisce un trauma, che necessita di trovare un nuova forma di
organizzazione e adattamento per essere fronteggiato. I fratelli per esempio, oltre a elaborare
anch'essi la perdita, reagiranno in vari modi all'evento vivendo nell'angoscia di lasciare a loro volta
il nucleo familiare, incolpando i genitori di quanto accaduto, non mostrando più fiducia nella
capacità di parenting dei propri genitori. La rete di di parenti e vicinato può reagire alla separazione
in diversi modi, offrendo sostegno o negando ogni supporto alla famiglia non risultando “nella
norma”. Alcuni autori hanno evidenziato come genitori e figli reagiscono all'allontanamento del
minore percorrendo le fasi del lutto. Nella prima fase “shock e negazione” si è sopraffatti dalla
perdita e come strategia adattiva la si rifiuta e minimizza insieme ai sentimenti dolorosi ad essa
associati. Nella seconda fase “protesta”, la perdita è riconosciuta e ci si sente incapaci di
fronteggiare la sua irreversibilità. Nella fase della “disperazione”, comincia il confronto con la
realtà della perdita e con il suo significato (stato di profonda tristezza, collera e disperazione). Nell'
ultima fase del “distacco”, genitori e bambini riescono a riorganizzarsi e ad avere speranza per il
futuro. Dunque nel pianificare l'intervento, nella fase iniziale dell'affido, bisogna considerare che i
vissuti di bambino e genitore al distacco saranno tipici della prima fase di reazione alla perdita. Per
affrontare i sentimenti dolorosi (rabbia, paura, tristezza ecc) il bambino potrà rifiutarsi di ammetterli
manifestando un' apparente adattamento alla nuova collocazione e inibendo qualsiasi
manifestazione fisica o verbale che indichi malessere. Potrà anche intraprendere varie attività per
pensare ad altro sebbene il malessere emerga per altre vie (incubi, insonnia, problemi respiratori,
ecc).Anche i genitori potranno sminuire l'allontanamento, apparendo poco responsivi, insensibili o
freddi; in altri casi ricorrendo all'abuso di sostanze e alcol per alleviare il dolore. Una reazione
comune dei genitori in questa prima fase è anche quella di dimenticarsi del figlio e delle visite
prestabilite. Se non si considerano queste reazioni si tenderà a confermare l'incapacità genitoriale
poichè i genitori hanno manifestato freddezza e non hanno avuto reazioni eclatanti per il distacco, e
si sopravvaluterà la riuscita dell'allontanamento in quanto il bambino sembra essersi adattato al
nuovo ambiente. Questi atteggiamenti del genitore e del bambino rappresentano delle reazioni
adattive al dolore e per far sì che non perdurino a lungo l'intervento dovrà pianificare l'opportunità
di confrontarsi con l'esperienza della perdita. Si dovrà aiutare la famiglia a dare voce a questi
sentimenti riconoscendone l'effetto sul proprio comportamento, comprendendo e anticipando le
reazioni tipiche della perdita. E' importante, quindi, favorire gli incontri fra genitori e bambini per
far loro realizzare che l'allontanamento non corrisponde all'abbandono e a far mantenere saldi gli
attaccamenti fra i membri della famiglia.

4.2.2. Aiutare il bambino e la sua famiglia a dare un senso all'affidamento

Predisposto l'affidamento, bisognerà far comprendere e accettare le motivazioni che hanno portato
all'affido a genitori e bambini, insieme alle finalità dell'affido. Il bambino si costruirà delle
spiegazioni in base al suo livello di sviluppo, ai sentimenti provati e che leggerà nei suoi familiari,
alle spiegazioni ricevute dai genitori, operatori e affidatari. I genitori a loro volta possono essere
portati ad attribuire all'esterno o a se stessi le cause delle avversità che si trovano ad affrontare.
Sono state individuate tre strategie a cui genitori e bambini ricorrono per spiegare l'allontanamento
del minore dalla famiglia : attribuire a un fallimento personale la necessità dell'affidamento (“Sono
un genitore incapace per cui mi portano via il figlio”, “Sono un bambino cattivo e i miei genitori si

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vogliono liberare di me”); spiegarlo ricorrendo alla propria incapacità di vivere secondo le
aspettative degli altri (“ Tutti sanno che non sono bravo abbastanza per tenere con me mio figlio “
“Perchè i miei genitori non sono come quelli degli altri e non possono prendersi cura di me?”);
attribuire la responsabilità agli altri (“Mio figlio non mi ha mai ascoltato e l'ho dovuto mandare
via”, “ Mia madre andava sempre in giro ad ubriacarsi e drogarsi, così sono stato allontanato”) I
bambini, nel costruirsi il senso dell' esperienza, attingono sia dalle spiegazioni che sentono dare
degli eventi sia dai comportamenti osservati negli adulti di riferimento. Da uno studio sono state
individuate tre diverse reazioni delle madri all'allontanamento del bambino: la maggior parte
reagiva con tristezza e dispiacere ma anche con sentimenti di rabbia e rancore verso i servizi sociali
o verso il bambino , ritenuto poco collaborativo o affabile, o verso se stessa. Nella maggior parte di
questi casi l'affidamento era stato deciso dal tribunale a causa di abusi o trascuratezza da parte dei
genitori. Se la decisione dell'affidamento era stata raggiunta consensualmente, le madri sentivano un
senso di sollievo e nutrivano un sentimento di gratitudine nei confronti dei servizi sociali; in questi
casi l'affidamento era stato motivato da problemi legati alla scarsa controllabilità del
comportamento del bambino o a problemi di salute della madre. Una terza tipologia di madri,
provava forti sensi di colpa per la propria incapacità di prendersi cura del figlio, a causa dei propri
problemi di natura mentale. Laddove il motivo che ha portato all'allontanamento del bambino risulti
socialmente accettabile, la reazione della madre sembra essere di maggiore accettazione (essere
malati è meglio che maltrattare) ed acconsente più facilmente di affidare il bambino ad un'altra
famiglia. Ciò non accade nel caso in cui a una madre viene imposto l'allontanamento del figlio in
seguito ad episodi accertati di maltrattamento o di incuria. Laddove il provvedimento di affido sia
stato deciso con il consenso dei genitori diventa più facile anche per il bambino trovare una
spiegazione accettabile all'esperienza che si appresta a vivere, grazie alle reazioni più rassicuranti
osservate nei genitori e alle spiegazioni ricevute. Ciò mostra quanto sia importante ottenere il
consenso dei genitori all'affidamento soprattutto se temono che il trasferimento del minore presso
un'altra famiglia ne precluda il successivo rientro, o che il bambino possa perdere l'affetto nei loro
confronti. Tale preoccupazione può essere mitigata costruendo un progetto di affido chiaro e
condiviso con la famiglia, e optando per questa scelta solo se necessario. Se i genitori pensano che,
scegliendo l'affidamento, stanno cercando con altri adulti di creare al bambino una condizione di
vita per il futuro sana e stabile, trasmetteranno questa loro convinzione anche ai figli. L'intervento,
in questa fase, dovrebbe aiutare i genitori nel chiarire ai figli le motivazioni dell'affido in modo che
i bambini non si costruiscano spiegazioni confuse dei motivi che hanno determinato
l'allontanamento dalla famiglia dovute ai resoconti spesso contraddittori e parziali ricevuti da
genitori, assistenti sociali e affidatari. Se i bambini sono piccoli i genitori dovrebbero dare delle
spiegazioni che sono in grado di comprendere, l'operatore può quindi aiutare i genitori a sviluppare
un piano appropriato all'età del bambino per aiutarlo ad affrontare con meno ansia possibile il
momento del passaggio presso gli affidatari ( per esempio facendogli portare con sè alcuni oggetti
transizionali e alcune fotografie e illustrandogli la programmazione degli incontri con i genitori). Se
i genitori non sono in grado di farlo , sarà l'operatore a spiegare al bambino l'allontanamento de a
invitarlo a portare con sè alcuni oggetti ricordo. Nel caso i cui è stato il comportamento
problematico dei bambini a portare all'affido, i genitori dovrebbero rassicurare i figli per evitare che
si sentano responsabili anche del dolore che pensano di aver arrecato alla famiglia. Gli operatori, in
questa fase,dovrebbero riuscire a sviluppare una relazione “terapeutica” con la coppia genitoriale ed
empatizzare con loro essendo molto arrabbiati per essergli stato tolto il figlio e vedendo negli
operatori lo strumento che ha reso possibile questa “ingiustizia”. Potranno essere di aiuto
ascoltandoli e accogliendo la loro rabbia, entrando in sintonia con il dolore che i genitori provano. Il
primo passo per creare un' alleanza terapeutica può essere quello di riconoscere la preoccupazione
dei genitori per il benessere del minore e il loro desiderio di riaverlo con sè.

4.2.3. Sostenere l'adattamento del bambino e degli affidatari alla nuova situazione

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Il primo compito che il bambino deve affrontare, uscito dalla propria famiglia d'origine, è quello di
adattarsi alla famiglia affidataria. Oltre a elaborare il lutto per la perdita, il bambino deve imparare a
conoscere e abituarsi a regole e abitudini diverse (sonno, cibo, igiene, attività di vita quotidiana),
deve adattarsi alle modalità comunicative della nuova famiglia, apprendendo nuove regole anche
per la risoluzione di situazioni problematiche. Le novità aumentano s ella famiglia affidataria è di
livello socio-economico superiore e l'affido è stato motivato da povertà o incuria. Tutto ciò che è
nuovo e sconosciuto, genera sempre un senso di timore e di disorientamento nel bambino de un
bisogno di rassicurazione e protezione da parte degli adulti di riferimento a scapito del desiderio di
esplorazione. Laddove sia disponibile una base sicura reale o interiorizzata, l'individuo può ,
superare il disagio iniziale e interessarsi all'esplorazione delle novità; viceversa l'esplorazione sarà
inibita de il bambino sarà travolto da timore, ansia e disorientamento. Dunque anche nel caso del
bambino in affidamento la nuova situazione potrà attivare il suo bisogno di protezione da parte delle
proprie figure di riferimento, piuttosto che il desiderio di esplorazione. Il bambino si trova quindi a
dover affrontare le novità senza le figure genitoriali e se non è stato adeguatamente preparato
sull'esperienza in corso, non avrà nemmeno una qualche forma di sicurezza interiorizzata. Il nuovo
ambiente può diventare un contesto ancora più angosciante di quello familiare. L'intervento, in
questa fase, dovrebbe preparare il bambino a ciò che succederà, ciò che è conosciuto infatti fa
meno paura e aiuta a munirsi delle strategie necessarie per affrontarlo. Il bambino andrebbe
preparato anche sui sentimenti doloroso che proverà in modo tale da normalizzare il
disorientamento provato e fargli capire che ciò che prova è già conosciuto dagli adulti che sono
capaci di aiutarlo. Preparare l'ingresso del bambino nel nuovo ambiente vuol dire rendere note le
abitudini della famiglia affidataria, la collocazione degli spazi, i ritmi, la stanza riservata al
bambino; significa anche far conoscere il bambino agli affidatari (preferenze, abitudini) facendosi
aiutare in questo dai genitori. Si potrebbe pensare a una fase di inserimento graduale nella famiglia
affidataria e accompagnata almeno nei primi giorni da una figura di riferimento. In questa fase le
visite dei genitori dovrebbero essere garantite al massimo per assicurare un senso di continuità tra i
due contesti, elemento che rende più prevedibile il nuovo ambiente contribuendo a rassicurare il
bambino e ad allontanare i fantasmi di abbandono e di perdita dell'affetto in genitori e figli. Questa
modalità di ingresso nella famiglia affidataria non è di fatto quasi mai praticata. Invece gli affidatari
dovrebbero essere aiutati a conoscere le dinamiche tipiche di questa fase dell'affidamento per
favorire l'adattamento del bambino attraverso un atteggiamento tollerante verso le sue espressioni
iniziali di disagio. Se gli affidatari non conoscono le difficoltà che caratterizzano il periodo di
transizione affrontato dal bambino, possono rendergli ancora più difficoltoso l'adattamento. Bisogna
per esempio rassicurarli sul fatto che all'inizio il bambino non esprimerà loro gratitudine per
l'accoglienza e l'affetto ricevuti, vivendoli come persone estranee non scelte da lui che gli ricordano
la mancanza dei suoi genitori. Gli affidatari non devono negare i vissuti dolorosi del bambino
offrendo piuttosto la possibilità di esprimere i suoi sentimenti sentendo che l'ambiente che lo
accoglie è forte da contenerlo. Questo atteggiamento pone le fondamenta per la realizzazione di una
base sicura nella nuova famiglia. Bisognerebbe dare un sostegno anche agli affidatari visto che
l'esperienza di accoglienza richiede una riorganizzazione di ruoli, spazi, ritmi e routine. Non sono
inoltre da trascurare i problemi nel rapporto tra il minore e i propri figli, in quanto di solito i
genitori affidatari sono più indulgenti verso i capricci del bambino affidato e sul suo non voler
rispettare le regole.

4.2.4. La definizione del progetto di intervento e il coinvolgimento dei genitori

Predisposto l'affido, bisognerà strutturare il progetto di intervento per far attivare i cambiamenti che
la famiglia dovrà realizzare perchè il bambino possa farvi rientro. Il progetto è più efficace se si
riesce a coinvolgere anche la famiglia di origine. Secondo alcuni autori il progetto andrebbe inteso

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come un contratto sottoscritto dai servizi e dalla famiglia, in cui vengono esplicitati, dopo averli
concordati, i cambiamenti attesi nel comportamento dei genitori e nelle circostanze familiari perchè
il bambino possa ricongiungersi al nucleo familiare d'origine. Oltre a specificare ciò che i genitori
dovranno fare e i tempi entro cui raggiungere i risultati, andranno specificati anche i supporti di
natura economica e psicologica che la famiglia dovrà ricevere, le modalità con cui saranno gestiti i
contatti con il bambino, e le soluzioni alternative al rientro del bambino in famiglia nel caso in cui
non vengano raggiunti i risultati attesi. La stesura e accettazione da parte di genitori e servizi di un
progetto d'intervento implica che, una volta deciso l'affidamento e assegnata una famiglia al
bambino, incomincia il lavoro più complicato. La partecipazione dei genitori alla definizione dei
cambiamenti ha lo scopo di renderli coscienti degli obiettivi che l'affidamento intende perseguire;
inoltre consente loro di essere parte attiva nel processo di valutazione dei risultati. Definire e
concordare assieme agli operatori i risultati da raggiungere può costituire una componente
dell'intervento stesso, in quanto si aiutano i genitori a capire quali sono le componenti in termini di
comportamenti e azioni di quella genitorialità “sufficientemente buona”che si intende promuovere.
Perchè ciò sia possibile il progetto deve essere chiaro,concreto e comprensibile e deve avere
obiettivi realistici sia rispetto ai cambiamenti realizzabili dai genitori, che rispetto ai tempi e alle
risorse disponibili. Un elemento importante è l'esplicazione di soluzioni alternative al rientro del
bambino in famiglia, nel caso in cui il contesto familiare non raggiunga i cambiamenti previsti.
Questo accorgimento dovrebbe ridurre il ricorso all'affidamento, prevedendo a a priori il rientro in
famiglia, per poi rendersi conto che questo non è possibile e cercare solo dopo soluzioni alternative.
Dovrebbe inoltre consentire alla famiglia di costruire un quadro realistico delle possibilità di rientro
del figlio e motivarla maggiormente a raggiungere i risultati che sono visti come l'unico modo per
ricongiungersi al bambino. Un progetto così definito, chiaro rispetto alle finalità, strategie e risorse
che metterà a disposizione della famiglia per consentirle il cambiamento, può avere come effetto la
riduzione della paura dell'affido e aiuterà a costruire quel consenso necessario alla riuscita del
progetto e alla serenità degli attori coinvolti.

4.3. L'intervento nel corso dell'affidamento: promuovere cambiamenti permanenti nel


bambino e nella famiglia

Avvenuto l'inserimento nel nuovo nucleo familiare, tutti gli attori coinvolti devono lavorare in
parallelo e congiuntamente per il raggiungimento dei diversi obiettivi che l'intervento intende
raggiungere. Si tratta di proseguire nel lavoro di elaborazione del lutto del bambino e della sua
famiglia; promuovere quei cambiamenti per il rientro del minore in famiglia; garantire che la sua
permanenza presso gli affidatari gli faccia recuperare eventuali carenze o distorsioni che si sono
verificate nel suo sviluppo a causa delle cure inadeguate ricevute. Si deve inoltre assicurare al
bambino la possibilità di mantenere un forte senso di relazione con i propri genitori. Anche gli
affidatari devono essere supportati nel compito di contenere le ansie del bambino e di fargli
raggiungere le tappe evolute proprie dell' età.

4.3.1. Continuare a sostenere il bambino e i suoi genitori nell'elaborazione dei vissuti di


perdita

Il processo di elaborazione del lutto per il distacco continua anche dopo che il bambino è stato
trasferito presso la famiglia affidataria. E' un processo che richiede tempi abbastanza lunghi de il
disagio del minore sarà espresso in varie forme: dalla rabbia verso di sè e verso gli altri, al rifiuto
del nuovo ambiente, dalla regressione allo scarso interesse per la nuova situazione relazionale, da
un peggioramento nel rendimento scolastico alla depressione (comportamenti che caratterizzano le
fasi di “protesta” e “disperazione”). Se il bambino non risolve queste problematiche può non
progredire sul piano cognitivo, nel rendimento scolastico e nella capacità di relazionarsi con gli

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adulti. Un lutto non adeguatamente elaborato può portare i bambini a mantenere una visione dei
genitori idealizzata e distorta, può per esempio indurli a vedere solo gli aspetti positivi della propria
famiglia rifiutando in toto quella affidataria (“cattiva”). L'intervento deve aiutare il minore a
comprendere la realtà della separazione e i sentimenti a essa connessi, così come quelli legati al
desiderio di ritornare a casa. Deve aiutarlo a comprendere in che modo l'esperienza ha cambiato la
sua relazione con i genitori biologici, incoraggiandolo e sostenendolo nei suoi tentativi di
ricomporre in modo unitario e integrato, tutti i sentimenti e i fatti legati all'esperienza dell'affido, in
modo da raggiungere una comprensione più realistica e coerente della sua situazione. Importante è
il ruolo degli affidatari di fornirgli una cornice di sicurezza entro la quale possa esplorare e
confrontarsi con i sentimenti di perdita e con il proprio modo di vivere le relazioni affettive. Gli
affidatari, aiutati dagli operatori, dovrebbero creare le condizioni ottimali perchè il bambino possa
esplorare le relazioni con i propri genitori, in particolare i sentimenti di ambivalenza, rabbia,
tristezza che emergono in questa fase dell'affido. Infatti i bambini da un lato vorrebbero
ricongiungersi ai loro genitori, dall'altro si vergognano della loro inadeguatezza e sono arrabbiati
con loro perchè non sono stati in grado di farli vivere a casa propria. Questa ambivalenza diventa
ancora più forte quando i bambini cominciano a sentirsi accolti e al sicuro nella famiglia affidataria
(ambivalenza = conflitto della doppia appartenenza). Affinchè il bambino possa elaborare la
perdita , deve sentire di poter contare sulla guida, comprensione, e sull' incoraggiamento di una
persona di cui si fida. Questa funzione di nuova base sicura potrà essere svolta dalla famiglia
affidataria se saprà tollerare le espressioni di rabbia e tristezza del bambino che esprimono il
bisogno di essere rassicurato circa la solidità del legame con la propria famiglia e capirà come
all'inizio li veda in competizione con i propri genitori .Anche i genitori attraverseranno la fase di
“protesta” al distacco , che manifesteranno riversando la propria rabbia verso gli operatori o gli
affidatari che hanno sottratto loro il figlio. Se questo struggimento non viene elaborato i genitori
rimarranno intrappolati in tali dinamiche perdendo di vista il loro obiettivo. Per aiutare le famiglie
ad affrontare il lutto in modo efficace l'intervento dovrebbe prevedere un aiuto esterno offerto dai
servizi.

4.3.2. Favorire l'integrazione del bambino nella famiglia affidataria

Un obiettivo fondamentale che l'intervento deve perseguire in questa fase è quello di aiutare il
bambino a integrarsi nella famiglia affidataria, superando alcuni inevitabili conflitti che si verranno
a creare. Al bambino è chiesto di diventare parte della famiglia affidataria pur restando membro
della sua famiglia; gli viene inoltre chiesto di sentire l'appartenenza alla famiglia affidataria pur
sapendo che il suo posto, in futuro, sarà con i propri genitori. Il bambino in affidamento nella
famiglia affidataria compie un percorso simile a quello dei bambini che vivono nelle famiglie
ricostituite. Gli affidatari fanno da genitori ad un ragazzo che non è loro figlio e da cui non si
aspettano di essere considerati come genitori. Le reazioni dei bambini all'inserimento nella famiglia
affidataria possono essere varie: alcuni dopo un periodo iniziale più tranquillo(fase di shock e di
negazione del distacco dalla famiglia), cominciano a entrare in forte conflitto con gli affidatari per
verificare la ”tenuta” della nuova famiglia (tentativo di prevenire un nuovo abbandono oltre a quello
già vissuto); altri possono aver percepito che la famiglia affidataria sia quella ”buona” e la sua di
origine “cattiva”, quindi essere “cattivi” equivale a mantenersi in stretto contatto con i propri
genitori (nella sua mente , adattarsi alle nuove condizioni di vita può significare abbandonare i
propri genitori). E' come se il bambino non possa permettersi di stare bene perchè facendolo
qualcuno ne soffrirebbe. Quindi, per star bene, deve far soffrire qualcuno. Man mano che si cresce,
può subentrare la vergogna di non essere come gli altri o di aver subito maltrattamenti da pare dei
genitori, spingendoli spesso a nascondere ai loro coetanei la loro storia. L'intervento deve aiutare i
ragazzi a confrontarsi con i suoi sentimenti e se necessario garantire loro la privacy per proteggerli
da domande troppo intrusive. Anche gli affidatari vanno sostenuti in questa fase in quanto sebbene a

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conoscenza delle problematiche del bambino, sia spettano irrealisticamente che i problemi possano
risolversi in poco tempo, stupendosi del fatto che il bambino non mostri gratitudine, obbedienza e
affetto nei loro confronti. Pensano, inoltre, di instaurare una relazione simile a quella che hanno con
i propri figli, sebbene meno intensa affettivamente. L'intervento deve anche aiutare gli affidatari a
conoscere le modalità attraverso cui si costruiscono i legami affettivi con le persone significative e i
tempi richiesti da tale processo (ci vogliono almeno due anni di interazione perchè il legame diventi
solido, questo vale anche per altri legami significativi come le relazioni sentimentali e d'amicizia).
Quindi possiamo aspettarci che anche nel caso del bambino e della famiglia affidataria affinchè il
legame diventi solido e possa funzionare come base sicura ci vorrà un arco di tempo di circa due
anni. Perchè ciò avvenga, la famiglia affidataria deve rispondere adeguatamente ai bisogni del
bambino, che potrà così cominciare a fidarsi gradualmente e a riconoscere alla relazione con gli
affidatari le funzioni tipiche dei legami affettivi. Bowlby identifica nel legame di attaccamento il
prototipo delle relazioni affettive emotivamente significative per l'individuo, indicando quattro
elementi che lo caratterizzano: a) l'individuo ama la vicinanza fisica con la figura di attaccamento;
b) la utilizza come base sicura per le esplorazioni; c) la cerca per essere protetto e confortato nelle
situazioni di disagio o pericolo; d) prova ansia quando è costretto a staccarsi da essa. Il bambino,
col tempo, si sentirà sempre più a suo agio in compagnia degli affidatari, cominciando a interessarsi
al loro mondo, alle loro regole e al loro modo di vivere. Riconoscendogli la funzione di base sicura,
potrà dedicarsi all'esplorazione e si sentirà protetto quando affronterà situazioni di disagio come
accettare la realtà della relazione con i propri genitori, così da integrare i sentimenti di affetto nei
loro confronti con la consapevolezza delle loro carenze genitoriali. Il bambino comincerà anche ad
aderire alle regole proposte dagli affidatari, fidandosi di chi le propone e gli affidatari cominceranno
a percepire segni di riconoscenza e di serenità. Da uno studio di Cautley, emerge che ci voglia un
periodo di circa 18 mesi, per far sì che si raggiunga un certo equilibrio familiare in seguito all'arrivo
del bambino. Prima di questo lasso di tempo, si avverte un senso di scoraggiamento e le famiglie
temono, anche, per la “tenuta” dello stesso nucleo familiare. Succede specie se il bambino è
coetaneo con i figli degli affidatari, che nascano conflitti tra adulti e bambini e fra bambini stessi (i
figli lamentano una maggiore tolleranza dei genitori verso il nuovo arrivato o imitano il
comportamento del bambino in affidamento, caratterizzato da mancanza di fiducia negli adulti o
scarso rispetto delle regole). Le paure decrescono con lo sviluppo cognitivo del bambino e quando
si raggiunge un buon livello di definizione dei ruoli. Viene spontaneo chiedersi, però, come mai
l'affido si concluda di solito per legge entro i due anni, proprio nel momento più favorevole per il
bambino e quando anche la famiglia affidataria ha raggiunto una forma di organizzazione e di
equilibrio che le permette di funzionare al meglio. Proprio per questa contraddizione interna buona
parte degli affidi non si conclude entro i due anni de i risultati ottenuti a conclusione
dell'affidamento sono molto spesso deludenti. Non è da trascurare il ruolo giocato dalla goodness of
fit, ossia dal reciproco adattamento tra le caratteristiche innate del bambino e quelle della famiglia
che lo accoglie. Infatti maggiore sarà la compatibilità tra le caratteristiche temperamentali e
comportamentali del bambino e quelle della famiglia affidataria, maggiore sarà la possibilità che il
minore riesca a integrarsi bene in quella famiglia. Tener conto di queste caratteristiche nella
decisione sull'abbinamento potrebbe contribuire ad accelerare il processo dell'integrazione.

4.3.3. Gli incontri del bambino con i genitori: l'occasione per mantenere saldi i legami affettivi
e migliorarne la qualità

Le visite dei genitori, il contatto faccia a faccia con il bambino sono tra gli obiettivi primari che
l'intervento deve perseguire perchè si possa mantenere lo sviluppo della relazione tra genitori e figli.
L'intervento dovrà: assicurare a genitori e bambini gli incontri necessari ad alimentare i legami già
esistenti, ma anche individuare le strategie più efficaci per stimolare il cambiamento della qualità
della relazione, considerando quanto sia compromessa e del livello di collaborazione tra la famiglia

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del bambino, i servizi e gli affidatari. Si è visto come la regolarità e frequenza delle visite
producano un migliore adattamento dei ragazzi sia durante che dopo la conclusione
dell'affidamento, oltre che una minore durata dell'affido stesso. I contatti frequenti c
on la propria famiglia rendono i bambini più sicuri dell' affetto che i genitori nutrono nei loro
confronti, soprattutto quando i minori si sentono rifiutati dai genitori perchè “cattivi” o “poco
meritevoli”di ricevere affetto. Inoltre possono aiutare i bambini a crearsi un'immagine meno
idealizzata, più realistica e bilanciata della loro famiglia e ad avere la consapevolezza di poter
mantenere il legame con i propri genitori accellerando l'elaborazione della perdita e l'adattamento
nella famiglia affidataria. La frequenza e regolarità delle visite sono considerate un buon predittore
dell'affido anche perchè possono essere l'indicatore di una relazione meno compromessa tra genitore
e figlio. Laddove il motivo dell'allontanamento non dipenda dalle capacità di parenting dei genitori,
è probabile che i genitori siano più predisposti a voler fare visite e stare insieme al bambino
comprendendone l'utilità e possedendo le competenze necessarie per gestirle. Ci sono però anche
dei rischi, se gli incontri non vengono accuratamente pianificati e monitorati diventando irregolari e
imprevedibili, anzichè rassicurar e il bambino, confermeranno i suoi vissuti di rifiuto e abbandono.
Gli operatori valuteranno quanto l'irregolarità delle visite esprima l'ambivalenza dei genitori a
parteciparvi, che viene agita arrivando tardi, dimenticando gli appuntamenti o riportando il bambino
in ritardo a casa degli affidatari o quanto rifletta la disorganizzazione tipica della famiglia. Se le
visite risultano pericolose per il bambino o il ragazzo più grande non vuole vedere i genitori va
valutata la possibilità di interromperle. Nella pianificazione delle visite si terrà conto degli obiettivi
da perseguire, dell'età del bambino, delle caratteristiche familiari e delle risorse disponibili. Per
quanto riguarda la frequenza degli incontri, per i bambini più piccoli che non hanno ancora
interiorizzato la figura di attaccamento, saranno necessarie anche visite a cadenza giornaliera.
Questo è importante per far mantenere il legame con la propria famiglia in vista del rientro futuro.
Spesso però i bambini dopo le visite presentano comportamenti problematici, per questo gli
operatori dovrebbero aiutare gli affidatari a comprendere i bisogni del bambino e a sviluppare
strategie per affrontarli. Per i bambini più grandi, che hanno già una rappresentazione interna dei
loro genitori, saranno sufficienti due o tre incontri a settimana. Sarebbe opportuno incrementare la
frequenza degli incontri quando l'affidamento sta per concludersi in modo che il bambino possa
affrontare la transizione con gradualità e la famiglia si renda conto dei problemi che potrebbero
insorgere al rientro. Un altro elemento importante nella programmazione delle visite è la durata, a
genitore e bambino deve essere garantito un tempo sufficiente per sentirsi a proprio agio nella
relazione. Se il contesto è sicuro, il bambino potrebbe trascorrere qualche fine settimana o qualche
breve periodo in famiglia, per avere l'opportunità di sperimentare un senso di continuità con ciò che
gli appartiene; le visite a casa propria sono l'occasione per ritrovare i propri giochi, rivedere gli
amici, frequentare i luoghi della propria comunità e incontrare adulti importanti per il bambino. A
seconda delle situazioni le visite possono essere programmate in luoghi diversi dalla casa dei
genitori. Se la presenza dei genitori può mettere a rischio la sicurezza del bambino, gli incontri
dovranno avvenire in un ambiente protetto, sotto la supervisione di un operatore. Sebbene più
sicura, questa tipologia di incontro rende poco spontanea l'interazione tra genitori e figlio; bisognerà
nei limiti del possibile accertarsi che l'ambiente sia confortevole e garantire la privacy. Laddove
esiste la disponibilità degli affidatari a ricevere in casa qualche visita da parte dei genitori biologici,
il bambino potrà vivere in maniera più unitaria e integrata le due esperienze relazionali; i genitori
del bambino potranno crearsi così una rappresentazione più realistica dell'esperienza del figlio al di
fuori del contesto familiare e a osservare modi diversi di interagire cl bambino che si possono far
propri. Questo potrebbe garantire al bambino una certa continuità negli stili educativi proposti dalle
due famiglie. Ancora più auspicabile sarebbe prevedere, per genitori e affidatari, alcuni momenti di
festa da trascorrere insieme (compleanni, natale, prima comunione ecc), che possano far accrescere
nel minore il senso di avere due famiglie interessate al suo benessere e sulle quali poter contare. Nel
momento in cui le relazioni con i genitori sono disfunzionali, le visite o i periodi trascorsi in loro

38
compagnia sebbene consentiranno di mantenere il legame non saranno sufficienti a risolvere le
difficoltà presenti nella relazione. L'intervento dovrà aiutare la famiglia, sia sfruttando i momenti
stessi delle visite sia predisponendo setting appositi,a costruire legami più saldi e più sensibili ai
bisogni dei figli. Al genitore però è richiesto di acquisire alcune competenze soprattutto in assenza
del bambino, per contrastare questo problema bisognerebbe sfruttare al massimo le occasioni di
incontro de ogni momento dovrebbe diventare occasione di apprendimento, verifica o
consolidamento delle capacità genitoriali. Ci sono vari modi per strutturare degli incontri che
possano produrre un cambiamento della relazione: In alcuni casi si tratta di situazioni di
apprendimento strutturato; in altri , si interviene in modo più indiretto, creando situazioni che
possano portare i genitori a confrontarsi con modalità interattive diverse da quelle solitamente
utilizzate. Durante le visite protette, invece, è più facile intervenire nelle interazioni osservate,
nonostante il clima sia poco spontaneo. La presenza dell'operatore oltre a garantire la sicurezza del
bambino, può facilitare la relazione tra genitore e figlio. Si da per scontato che i genitori possiedano
alcune capacità come il saper giocare con il bambino, il saper iniziare correttamente uno scambio
interattivo o il saper godere della compagnia del figlio. L'intervento dell'operatore potrà mettere il
bambino e il genitore nelle condizioni di interagire rompendo il ghiaccio e di inserirsi in una
struttura interattiva costruita dall'operatore stesso. Alla fine della visita, l'operatore potrà discutere
con il genitore i punti di forza e i punti deboli dell'incontro, offrendo suggerimenti pratici e spunti
per le visite successive. Sono anche utili gli interventi che prevedono l'uso del video- feedback
sull'interazione, associato alla riflessione sulle esperienze infantili del genitore. Si tratta di
videoregistrare, in ogni visita, una mezz'ora di interazione tra genitori e figli, in situazioni
predefinite (situazioni conflittuali. Momenti di gioco, reazioni alle difficoltà); nella visita successiva
l'operatore proporrà ai genitori la visione di tale videoregistrazione e, soffermandosi su spezzoni del
filmato preselezionati, commenterà con i genitori le sequenze interattive sia dal punto di vista del
bambino che dei genitori, per aiutare questi ultimi a cogliere i segnali comunicativi emersi
nell'interazione, per stimolarli a leggere i feedback positivi e negativi che il bambino invia loro.
Terminata la visione del filmato segue una fase di discussione sulle esperienze passate del genitore,
a partire da quelle attuali. Si chiede di ricordare le esperienze relazionali con i propri genitori e di
collegare tali esperienze con quelle fatte con il proprio figlio. Lo scopo di questo intervento è
duplice: da un lato si intende intervenire sul comportamento del genitore, aiutandolo a leggere i
feedback del bambino, aiutandolo a trovare alternative comportamentali più valide e rinforzando i
comportamenti che hanno ottenuto un feedback positivo; dall'altro si intende intervenire sui modelli
interni di relazione che il genitore si è costruito, nel corso della sua esistenza, a partire dalle
relazioni avute con altre figure significative. Tali modelli, conservati sotto forma di
rappresentazioni, guidano le decisioni, le interpretazioni e i comportamenti che l'individuo adotta
nelle relazioni affettive correnti. Interessante è anche l'esperienza proposta da Haight e coll. Che
descrivono un intervento volto a promuovere la qualità degli scambi genitore – figlio durante le
visite, focalizzandosi sul momento del distacco. Il distacco costituisce il momento più critico della
visita, l'intervento deve fornire alle madre un sostegno emotivo e insegnare strategie per sostenere
emotivamente il bambino al momento del distacco. Il sostegno emotivo viene offerto attraverso
l'ascolto empatico delle difficoltà che il genitore sta incontrando e sottolineando glia spetti positivi
nella relazione osservata con il figlio. Questo supporto è importante se si considera che questi
genitori vivono già il trauma del distacco forzato e possono avere per vari motivi( povertà, problemi
mentali, di alcool, droga ecc.)non avere energie per interagire con il bambino e con gli altri adulti.
Per quanto riguarda le strategie da proporre alle madri per sostenere il bambino nel momento del
distacco, gli autori suggeriscono di partire dai comportamenti che i genitori già utilizzano
spontaneamente nell' interazione con il figlio e che appaiono efficaci ( rassicurano i figli dicendo ti
voglio bene, anticipano la visita successiva, lasciano un oggetto personale al bambino, parlano bene
al bambino degli affidatari). In presenza di comportamenti del bambino difficili da gestire, l'
operatore suggerirà al genitore consigli pratici e strategie efficaci per fronteggiare tali situazioni.

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4.3.4. Diventare buoni genitori: il compito della famiglia di origine nel percorso
dell'affidamento

Le competenze richieste a un genitore variano in base all'età dei bambini. Se è piccolo predominano
le funzioni di nutrizione e accudimento; devono prendersi cura dei bisogni fisici del bambino,
fornendo un sostegno emotivo costante. Quando cresce il genitore assumerà la funzione di guida e
di controllo, stabilendo le regole per la sua crescita e socializzazione. Durante l'adolescenza i
genitori devono gestire i conflitti fra le loro esigenze e quelle di autonomia dei figli rinunciando alla
loro centralità, lasciando ai ragazzi lo spazio giusto perchè possa realizzarsi la loro crescita
personale. La funzione genitoriale, va intesa, come un processo di adattamento reciproco tra
genitori e figli, in quanto si devono trovare,di volta in volta, le modalità adeguate per affrontare i
compiti evolutivi che la crescita dei figli richiede. Per apprendere questa funzione i genitori
attingono da più fonti che vanno dalle proprie risorse personali (livello individuale) al rapporto con
le proprie figure genitoriali (livello intergenerazionale) e con il proprio partner (livello coniugale).
Alla luce di ciò è chiaro che l'intervento rivolto alle famiglie deve tener conto delle caratteristiche
della famiglia (monoparentali, ricomposte, multietniche), dei diversi aspetti della genitorialità che
entrano in gioco e delle fragilità che queste possono presentare. L' intervento che vuole
promuovere una buona genitorialità deve offrire, ai genitori e agli altri membri della famiglia,
risposte concrete ai bisogni legati alla gestione del proprio ruolo, soprattutto in concomitanza di
alcune fasi tipiche di transizione familiare. Di solito l'intervento si focalizza su due aree del
parenting: una concernente la disciplina e il controllo, l'altra la strutturazione e la prevedibilità
delle cure e della vita familiare. Sebbene il compito principale della famiglia sia l'acquisizione di
alcune componenti del parenting, l'intervento si dovrebbe occupare anche della risoluzione di altri
problemi (conflitto familiare, abuso di sostanze, povertà, disoccupazione) che possono interferire
sulla qualità delle cure genitoriali. Non ci sono modelli standard di aiuto alle famiglie, in base alla
situazione, al tipo di carenza e alle risorse disponibili si potranno scegliere una serie di alternative
che vanno da un sostegno offerto attraverso la mediazione familiare, il counseling familiare e/o la
psicoterapia dei singoli e delle coppie, i gruppi di auto- e mutuoaiuto, fino agli interventi di
controllo sociale che diversamente da quelli di sostegno, hanno l'obiettivo di contenere gli agiti
distruttivi dei genitori e di proteggere il rapporto con i figli. Il luogo neutro è per esempio uno degli
interventi che cercano di salvaguardare la relazione del bambino con i genitori attraverso la
facilitazione e un ravvicinamento emotivo – affettivo graduale tra genitori e figli i cui rapporti erano
stati interrotti da dinamiche conflittuali.

Intervenire nelle situazioni reali di interazione genitori – figli

Per produrre un cambiamento nelle modalità di relazione genitore-figli è necessario intervenire


sulle situazioni reali di interazione genitori-figli. Alcuni autori suggeriscono l'opportunità di usare
le visite programmate dei genitori come occasione utile per potenziare la capacità di parenting,
offrendogli la possibilità di fare pratica con il proprio bambino. Se il bambino rientra a casa per
brevi periodi, sarebbe utile coinvolgere anche altre figure significative della famiglia(nonni, zii,
padre ecc) che si sono presi cura in passato del bambino inseme alla madre. Si potrebbe prevedere
una forma di intervento domiciliare simile all' home visiting inteso come una strategia, un setting
dove vengono erogati servizi diversi. L'intervento domiciliare ben si presta ad accompagnare il
percorso che intraprenderanno i genitori per acquisire le competenze di base del parenting, per
rendere possibile il rientro del minore in famiglia. I diversi programmi di home visiting si
differenziano rispetto al tipo di attività svolta (solo visite domiciliari o incontri di gruppo), al
momento di avvio del programma (nel caso dell'affido dovrebbe coincidere con l'allontanamento
del minore dal nucleo familiare), alla sua durata (pochi mesi o anni), alla periodicità (settimanale,

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bisettimanale o mensile) e alla professionalità degli operatori domiciliari (assistenti sociali,
psicologi, volontari ecc). Se si prevede una durata di più anni, l'home visiting prevede che gli
incontri siano più ravvicinati all'inizio dell'intervento, diradandosi nel tempo. Nel caso dell'affido,
tali incontri dovrebbero intensificarsi in prossimità del rientro del bambino, fino ai primi mesi
successivi al rientro, in quanto in questi momenti potrebbero insorgere difficoltà relazionali o id
adattamento, dovendo il nucleo familiare riorganizzare spazi, tempi e ruoli. I diversi programmi
domiciliari nel decidere quali azioni intraprendere fanno riferimento anche a teorie specifiche che
cercano di spiegare come mai i genitori non siano capaci di soddisfare bisogni fisici de emotivi dei
figli. Alcuni di questi programmi adottano un approccio educativo basandosi sulla teoria
dell'apprendimento. Partono dal presupposto che una maggiore conoscenza da parte dei genitori
della psicologia del bambino e delle tappe dello sviluppo infantile possa migliorare la qualità delle
cure offerte . Ci sono altri programmi che prevedono una componente educativa pur non basandosi
sulla teoria dell'apprendimento. Ciò si è rivelato utile con madri adolescenti o tossicodipendenti con
una minore comprensione delle fasi dello sviluppo del bambino che sovrastimano la capacità del
figlio (atteggiamento impaziente e intollerante) o le sottostimolano iperstimolandoli. Altri
programmi di home visiting hanno come cornice teorica e metodologica di riferimento la teoria
dell'attaccamento. Questi programmi partono dal presupposto che un modello di attaccamento
sicuro dato dall'interazione con un genitore capace di leggere i segnali del figlio e di rispondervi in
maniera adeguata e contingente, costituisca un fattore protettivo per lo sviluppo del bambino,
soprattutto quando si presentano eventi stressanti e cotesti relazionali a rischio. Le ricerche sui
fattori responsabili di un attaccamento sicuro hanno evidenziato l'importanza della “sensibilità” del
genitore e le caratteristiche delle sue rappresentazioni mentali rispetto ai propri legami di
attaccamento infantili. Sulla base di questi risultati, sono stati sviluppati interventi a sostegno della
genitorialità caratterizzati da strategie che puntano a migliorare la qualità dell'interazione genitore –
figlio o a modificare le rappresentazioni mentali che i genitori si sono costruiti sulla base delle loro
esperienze infantili con i propri genitori, o su entrambe le dimensioni. Importante per l'intervento è
anche la relazione che si instaura tra il genitore e l'operatore, strumento fondamentale per
intervenire. Questa relazione, può funzionare per il genitore come base sicura, capace di fornire il
sostegno e la rassicurazione necessari per esplorare le proprie difficoltà nel sintonizzarsi con i
bisogni del bambino. Tra i programmi di intervento domiciliare basati sulla teoria dell'attaccamento
ci sono quelli che prevedono l'offerta alla madre di una relazione basata sulla fiducia e
sull'accettazione, il potenziamento della sua capacità di utilizzare i servizi sociali, educativi, sanitari
e finanziari, il rinforzo degli scambi interattivi madre figlio basati sui bisogni evolutivi del bambino
ecc. Il progetto STEEP invece cerca di modificare la relazione madre-figlio agendo sulle
rappresentazioni mentali materne dell'attaccamento, aiutando la madre ad affrontare le proprie
esperienze relazionali e a riconoscerne gli effetti sulla relazione con il figlio. Questi programmi di
intervento sebbene siano nati per popolazioni a rischio di attaccamento insicuro (depressione
materna, problemi mentali materni, povertà, malattia del bambino ecc.), si possono utilizzare anche
con i genitori a cui è stato allontanato il bambino.

Il co- parenting tra genitori biologici e affidatari

Un bambino in affidamento è come se vivesse in una famiglia ricostituita formata dai suoi genitori
biologici, che hanno il diritto di visita e che si adoperano per il suo rientro in famiglia, e dagli
affidatari, che si stanno occupando dei suoi bisogni fisici e psicologici. Di solito i servizi anche se
inconsapevolmente offrono interventi distinti a genitori e affidatari , impedendo a loro e agli
operatori di comunicare e chiarire il loro ruolo nei confronti del minore. Negli ultimi tempi si sta
considerando la necessità di prevedere un intervento che integri gli sforzi dei servizi attraverso
l'adozione di un formato di intervento congiunto per i genitori biologici e gli affidatari. Linares e
collaboratori propongono un intervento congiunto tra genitori e affidatari , sensibile ai bisogni del

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bambino, volto a offrirgli un “fronte genitoriale unificato” in un contesto relazionale caratterizzato
da dislocazione e instabilità familiare. Attualmente questa modalità è poco implementata per la
diversa disponibilità di tempo, energie e collaborazione da parte delle due famiglie, o nell'intento di
preservare gli affidatari da situazioni conflittuali e di disagio che potrebbero avere ripercussioni sul
bambino. Lavorare sul co-parenting, ovvero sul grado in cui le due famiglie funzionano come
partner o come avversari nell'esercitare il loro ruolo genitoriale, dovrebbe facilitare l'adattamento
del bambino alla situazione di affido. I caregiver potrebbero imparare a conoscere i loro diversi
ruoli genitoriali, comunicare in modo diretto e diventare capaci di gestire i vari livelli di conflitto.
Tale intervento adotta come cornice teorico-metodologica i principi della terapia sistemico
familiare. L'intervento ideato da Linares e col. prevede due componenti:il parenting e il co-
parenting. La componente di parenting è pensata per gruppo di 4-7 coppie genitoriali che lavorano
insieme su 4 diverse aree del parenting: gioco, elogi e ricompense, porre limiti efficaci, affrontare i
comportamenti problematici. Le sessioni prevedono filmati videoregistrati, giochi di ruolo e
“compiti per casa” e partecipano sia gli affidatari che genitori e figli. Ogni sessione termina con un
pranzo insieme, a cui partecipano anche gli operatori. Le sessioni di co-parenting, sono rivolte
individualmente a ciascuna coppia di affidatari e genitori, assieme al bambino in affido. Durante
queste sessioni, le coppie si conoscono meglio fra loro e conoscono meglio anche il minore,
praticano una comunicazione aperta, possono negoziare il conflitto interparentale su temi come le
visite, il modo di vestire e curare il bambino, le abitudini familiari e la disciplina. Le strategie usate
durante le sessioni sono quelle della terapia sistemica (joining, reenactment, ristrutturazione).

4.3.5. Il sostegno alla famiglia affidataria

Di solito gli affidatari ricevono un training che li prepara, nella fase precedente all'affido, ad
affrontare il difficile compito di accogliere il minore in affidamento; tuttavia sono più efficaci quei
training proposti dopo che il bambino si è trasferito. Vi sono due grandi categorie di programmi per
queste famiglie: la prima comprende quelli finalizzati a fornire tutte le informazioni necessarie sui
bisogni tipici dello sviluppo del bambino e sulle tecniche per gestire le sue difficoltà. L'altra
categoria si preoccupa di offrire agli affidatari le informazioni e il supporto per comprendere il loro
ruolo e le loro responsabilità de affrontare i problemi che si presenteranno. L'attenzione è rivolta a
tre grandi aree: a) la comprensione dello sviluppo del bambino e delle difficoltà che gli affidatari si
troveranno ad affrontare con il bambino e con i suoi genitori; b) la conoscenza dei servizi
disponibili che possono sostenerli c) il sostegno al funzionamento della vita familiare degli
affidatari in modo da aumentare le possibilità di un collocamento stabile del bambino. Ciò conferma
l'utilità di offrire un programma di intervento comune ad affidatari e genitori: infatti gli obiettivi
perseguiti dai programmi rivolti specificamente agli affidatari non sembrano discostarsi da quelli
rivolti ai genitori per migliorare le capacità di parenting. Si dovrebbero sostenere queste famiglie
anche per le spese che affrontano nell'aiutare il bambino ad integrarsi nella loro famiglia e nella
comunità e a recuperare eventuali lacune nello sviluppo. Il dibattito sulla possibilità di pagare gli
affidatari è controverso, e diversi sono i contributi che gli affidatari ricevono dallo Stato o dagli enti
locali. Chi è a favore del pagamento degli affidatari ritiene che, dato l'impegno che le famiglie
affidatarie dovrebbero essere libere dagli impegni e dalle preoccupazioni lavorative per poter
svolgere al meglio il loro ruolo.

4.4. L'intervento nella fase finale dell'affidamento

Lasciare la famiglia affidataria è un momento di transizione importante, per il bambino, per la sua
famiglia e per gli affidatari. Questo distacco, si configura come un passaggio successivo
all'accertamento di un cambiamento osservato nella famiglia di origine; in diversi casi, coincide con
la necessità di individuare per il bambino, una forma di accudimento diversa. Diversi sono i motivi

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per cui un affidamento può concludersi: a) il bambino rientra nella famiglia di origine (soluzione
auspicata e prevista dalla legge). Questo avviene se la famiglia e il bambino hanno risolto i
problemi, in alcuni casi si opta per questa soluzione se i progressi riscontrati non sono quelli
auspicati ed i servizi non riescono a individuare alternative diverse. b) Il ragazzo raggiunge la
maggiore età e può trasferirsi in una casa famiglia o in una comunità, vivendo in modo quasi
autonomo. Questo avviene quando l'affido è disposto in età adolescenziale e si protrae per un tempo
indeterminato, poichè non sussistono le condizioni nè per il rientro in famiglia nè per l'adozione; c)
cessati i diritti della famiglia d'origine, il bambino è dichiarato adottabile e dovrà trasferirsi
permanentemente presso un'altra famiglia. d) L'affidamento si trasforma in adozione mite. Si adotta
in situazioni in cui non è possibile far rientrare il minore in famiglia per uno stato di
“semiabbandono permanente”. Il minore può comunque incontrare periodicamente la sua famiglia e
può aggiungere il cognome degli adottanti. I servizi sostengono questo delicato periodo di
transizione del ragazzo. e) Viene trasferito presso un'altra famiglia affidataria perchè la precedente
non è riuscita nell'esperienza dell'affido, o perchè i servizi sociali l'hanno ritenuta inadatta al
proseguimento dell'esperienza. f) il minore rientra in famiglia ma viene, in breve tempo, affidato di
nuovo ad una famiglia affidataria, perchè si sono ripresentati i soliti problemi o perchè la famiglia
non ha “resistito” al ricongiungimento. Infine g) passa dalla famiglia affidataria alla comunità, a
volte anche dopo diversi tentativi di affidamento. C'è un rifiuto della dimensione familiare da parte
del minore che preferisce le relazioni comunitarie a quelle familiari. Il distacco dalla famiglia
affidataria è un momento delicato che richiede sensibilità, sostegno e solidarietà da parte degli
operatori.

4.4.1. Sostenere il bambino e la sua famiglia nella fase di riunificazione

Anche il rientro del bambino in famiglia comporta problemi, in quanto per la famiglia e il bambino
si tratta di affrontare un momento caratterizzato da regressione e interruzione nello sviluppo: il
ritorno del bambino fa emergere vecchie paure, il ricordo di vecchi dolori e l'incertezza per il futuro.
Quando il bambino rientra ha in mente un'immagine della famiglia che risale a quella conosciuta
prima dell'affidamento. Durante l'affidamento il bambino ha fantasticato su come riappropriarsi il
suo territorio, il suo ruolo e posto che aveva in famiglia: trovare alcune cose cambiate può costituire
uno shock. Lasciare la famiglia affidataria significherà lasciare di nuovo gli amici, la scuola, i pari,
sperimentare di nuovo i sentimenti di perdita e di lutto e forse non trovare più nè i vecchi amici nè
la vecchia casa. Se durante l'affido i contatti tra il bambino e i suoi genitori si sono allentati o sono
stati assenti, si dovrà rafforzarli e facilitare l'interazione e la comunicazione. Gli operatori potranno
aiutare il bambino ad apprezzare gli sforzi compiuti dai genitori per rendere possibile il suo rientro a
casa. A loro volta, i genitori vanno aiutati ad ascoltare i racconti del bambino sul tempo trascorso
presso gli affidatari, ivi compresi i sentimenti di rabbia provati nei loro confronti. I genitori vanno
anche sostenuti ad affrontare il conflitto che scaturisce dal sentire il loro bambino legato agli
affidatari e/o agli operatori. I sentimenti di gelosia, se non compresi e superati, possono creare nel
bambino confusione, tristezza e conflitti di lealtà. I genitori, vanno aiutati a leggere l'affetto che il
bambino prova verso adulti esterni alla famiglia come un segno della salute emotiva del figlio e
come un regalo che loro gli hanno fatto consentendogli di costruirselo. Questo lavoro di
elaborazione dovrebbe essere avviato prima che il bambino rientri in famiglia. Se i cambiamenti
nella famiglia d'origine non siano del tutto soddisfacenti, il bambino dovrà essere aiutato ad avere
aspettative realistiche rispetto alla propria famiglia e contare sul sostegno delle relazioni ben
funzionanti con altri membri della famiglia allargata e dove è possibile con la famiglia affidataria.
Sarebbe auspicabile che gli affidatari venissero considerati dalla famiglia di origine come un valido
supporto nei momenti di crisi. Questo dipende dal rapporto instaurato dalle due famiglie, dalla
disponibilità data dagli affidatari ai genitori del bambino e al bambino anche quando l'affido sarà
terminato, per garantire lo sviluppo del bambino e il suo senso di continuità. Nel caso in cui

43
l'affidamento non dia i risultati sperati trasformandosi in affidamento sine die, in adozione o
adozione mite, la soluzione ideale sarebbe quella di poter rimanere nella famiglia che lo ha accolto
durante l'affidamento. Se ciò non fosse possibile, l'intervento dovrà puntare sul sostegno offerto al
bambino dagli affidatari che, funzionando come base sicura, lo dovranno accompagnare in questa
nuova fase di transizione, continuando a mantenere i contatti laddove questa risulti una scelta
appropriata. Se l'affido termina perchè il ragazzo si avvia verso l'emancipazione , insieme alla
famiglia affidataria si dovrà far in modo che il ragazzo acquisisca le abilità necessarie per vivere da
solo. Può esser utile che condivida l'appartamento con altri ragazzi o adulti, che sviluppi attività
necessarie a cercare un lavoro, a intraprendere relazioni mature e a costruire le abilità sociali
necessarie a prendere decisioni rispetto ai contatti da tenere con la famiglia di origine e con quella
affidataria, a costruire nuove amicizie e a rafforzare quelle già esistenti.

4.4.2. Il sostegno alla famiglia affidataria nella fase del distacco

Quando il bambino ritorna nel proprio nucleo familiare può capitare di non prestare la dovuta
attenzione alla reazione della famiglia affidataria, che si trova a perdere un proprio membro. Questo
succede perchè si pensa che il distacco del bambino è un evento previsto, perchè facilitare il suo
rientro fa parte dei compiti e perchè il ritorno nella propria famiglia tutela il suo interesse. Per le
famiglie affidatarie, il rientro del bambino nella sua famiglia, viene vissuto nella maggior parte dei
casi con timore, poichè il bambino tornerà in una situazione precaria, tristezza e sofferenza per il
vuoto che si apre. Se le famiglie affidatarie non vengono aiutate a elaborare in modo efficace la
perdita, possono pensare di aver sprecato il loro tempo e non voler più ripetere l'esperienza. Non
riconoscere il diritto al lutto per la perdita può impedire alla famiglia di compiacersi per l'aiuto
offerto, ma può anche significare perdere la disponibilità all'affido di una famiglia o di incoraggiare
altre famiglie.

4.5. La funzione di accompagnamento degli operatori nel percorso dell'affidamento

La riflessione sui bisogni del bambino, della sua famiglia e degli affidatari ha messo in luce la
complessità dell'intervento e la necessità del coinvolgimento di operatori con professionalità e
sensibilità diverse. E' importante che l'intervento non sia focalizzato solo sul bambino ma deve far
parte di un piano d'azione che si focalizza anche sulla famiglia e sui contesti che hanno contribuito a
creare la situazione di disagio, così come quelli che possono attenuarlo e/o che si stanno
adoperando affinchè il bambino e la sua famiglia possano intraprendere percorsi evolutivi più
adattivi. Per esempio, si può aiutare un bambino con la psicoterapia in modo tale che possa
costruirsi modelli di relazione più funzionali, o a crearsi aspettative più positive sulla disponibilità
degli adulti che si occupano di lui. Questo tentativo terapeutico deve però essere accompagnato da
un intervento sulla relazione che il bambino ha con i genitori, che ha originato il disagio. Per lo
stesso motivo, sarà importante lavorare anche con la famiglia affidataria, impegnata a far recuperare
al bambino carenze e promuovere il suo sviluppo in modo tale da farle acquisire strategie utili nella
gestione dei problemi del bambino e a farle comprendere i motivi dei suoi comportamenti.
L'intervento dovrà essere quindi di tipo ecologico e prevedere il coinvolgimento dei contesti
relazionali, che giocano un ruolo importante nella vita del minore. La necessità che operatori diversi
lavorino insieme, elemento caratterizzante dell'intervento di tipo ecologico, si scontra con la
difficoltà degli operatori a collaborare tra loro e con l'insorgere di forti tensioni. Il fatto che
l'affidamento sia un intervento connotato dalla dinamica della separazione (separazione del
bambino dai genitori, minaccia di separazione del bambino dagli affidatari, distacco dagli affidatari
per il ricongiungimento con i familiari) si ripercuote sugli operatori portandoli ad agire le dinamiche
che si trovano a vivere. Capita che i soggetti coinvolti nell'affido cerchino di coinvolgere gli
operatori nelle loro dinamiche, e se gli operatori cedono, le tensioni e i conflitti diventano

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inevitabili. Un altro elemento da considerare è la “famiglia interna” degli operatori: se l'operatore
non è cosciente del suo modo di essersi vissuto o di aver desiderato di essere vissuto come bambino
all'interno della propria famiglia, quando dovrà prendere decisioni sull'opportunità o meno di
separare momentaneamente un bambino dalla famiglia di origine, non sarà in grado di scindere sè e
la propria esperienza da quella del bambino, andando in confusione. La presenza di più operatori,
offrendo la possibilità di suddividere i movimenti identificatori, permette di entrare nella dinamica
delle relazioni in atto senza il rischio di immobilizzarsi prendendo, da soli, le parti degli uni e degli
altri contemporaneamente, del bambino e delle due famiglie. La presenza degli altri operatori e “
un richiamo a far sì che una parte di sè non si perda nel gioco identificatorio relazionale, ma
rimanga identificata a sè e al proprio ruolo professionale”. Il poter suddividere i compiti e le
identificazioni tra figure professionali consente di conoscere meglio le istanze più profonde di ogni
protagonista dell'affido. E' necessario che ci sia un operatore, di solito l'assistente sociale, con la
funzione di coordinamento e trasmissione delle informazioni. E' necessario che gli operatori
aggiornino i fatti significativi all'assistente sociale. I dati sull'andamento dell'affido, andrebbero
restituiti a ciascuno degli attori sociali coinvolti, in modo siano al corrente e partecipi del lavoro che
si sta svolgendo,dei risultati raggiunti e del cammino ancora da fare. Ci sono in letteratura posizioni
discordanti sul fatto che l'operatore svolga funzioni di sostegno e di controllo verso gli stessi attori
sociali. Secondo alcuni autori ciò è auspicabile, gli operatori infatti durante l'affidamento, svolgono
sia una funzione genitoriale essendo garanti del percorso evolutivo del bambino e della sua
famiglia e non limitandosi ad accogliere, rassicurare e sostener e il bambino ma anche a guidarlo
attraverso norme, regole e punizioni. Secondo altri questa doppio ruolo degli operatori genera
confusione e per risolvere tale ambiguità si suggerisce di esplicitare con chiarezza questa funzione
degli operatori agli attori sociali coinvolti.(aspetto di contenimento e controllo). Si tratta, quindi, di
prescrivere, contenendo e indirizzando: solo così sarà possibile innescare processi di modificazione
che mettano a confronto i genitori con una realtà e possibilità di vita diverse. Emerge la necessità di
predisporre interventi educativi, psicoterapeutici o di sostegno che tengano conto delle
problematiche degli attori sociali, che richiedono il coinvolgimento di professionalità diverse, con
un'attività di coordinamento delle informazioni affidata a un solo operatore.

CAP. 5 Come valutare l'efficacia dell'affidamento?

5.1. Introduzione

Per valutare l'efficacia dell'affido bisogna differenziare tra variabili sul funzionamento del sistema
dei servizi dell'affido e variabili riguardanti gli effetti permanenti dell'affidamento sul bambino e
sulla sua famiglia. Per valutare questi aspetti bisogna definire gli obiettivi da raggiungere nelle
diverse fasi dell'affido (obiettivi intermedi) e, più a lungo termine, sul benessere del bambino e della
sua famiglia. La letteratura sull'argomento presenta due limiti : gli studi si focalizzano più sui
risultati ottenuti dal bambino tralasciando quelli osservabili nella sua famiglia di origine. Inoltre vi è
un problema metodologico, raramente gli studi valutano i progressi del bambino e della sua
famiglia basandosi su misure di baseline. Infatti usare gruppi di controllo formati da bambini che
vivono in famiglia senza problemi per confrontare i risultati ottenuti dai bambini in affido è
irrilevante e scorretto perchè questi ultimi partono da una situazione di svantaggio. Confrontare le
competenze raggiunte con bambini di pari età può mascherare i cambiamenti effettivi prodotti
dall'affidamento e scoraggiare famiglie affidatarie e operatori per i risultati raggiunti.

5.2. La valutazione degli obiettivi intermedi dell'affidamento familiare


Martin propone una serie di indicatori utili per la valutazione degli obiettivi intermedi: la stabilità
del contesto di cure; il clima emotivo della famiglia affidataria (capacità di manifestare affetto e
calore al bambino); la capacità di permettere al potenziale di sviluppo del bambino di esprimersi al

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massimo; il recupero, da parte del bambino, di eventuali carenze che si sono determinate nel suo
sviluppo; il mantenimento dei legami di attaccamento tra il bambino e la sua famiglia di origine; il
sostegno offerto ai genitori biologici per promuovere il recupero delle loro capacità di parenting.

5.2.1. La stabilità del contesto di cure

Uno degli obiettivi dell'affido è assicurare al bambino un contesto di cure stabile. Per un minore che
ha dovuto affrontare il distacco e si è dovuto integrare nella famiglia affidataria, cambiare
nuovamente casa costituisce un altro fattore di rischio. La maggior parte dei bambini in affido ha
almeno un'esperienza di distacco dalla famiglia (comunità, istituti ecc.), Nel panorama
internazionale , circa i due terzi dei bambini sperimentano uno o due cambi di famiglia nel corso
nell'affido, mentre un terzo di essi va incontro ad almeno tre cambi. Gli affidi intrafamiliari
presentano una maggiore stabilità. I dati italiani sono incoraggianti circa la stabilità del bambino
all'interno della famiglia affidataria, ma in quasi metà dei casi l'intervento arriva quando la
situazione di incuria, abbandono e maltrattamento è conclamata. Ciò fa pensare che sia importante
selezionare le famiglie e fare i giusti abbinamenti perchè il bambino possa permanere nella stessa
famiglia lungo tutto l'affido, ma andrebbe curata la tempestività con cui si interviene nelle situazioni
che fanno prefigurare la necessità di allontanare il bambino dalla sua famiglia. Alcuni autori
suggeriscono di prender tempo nella scelta della famiglia affidataria in moda che l'abbinamento sia
fatto sulla base di una conoscenza approfondita delle caratteristiche del bambino e degli affidatari.

5.2.2. Il clima emotivo della famiglia affidataria

Vari studi hanno analizzato le caratteristiche della relazione che si viene a creare tra genitori
affidatari e bambino. La sicurezza dell'attaccamento (comportamento sensibile ai bisogni del
bambino, disponibile e caloroso) può essere un buon indicatore del clima familiare di cui il
bambino sta beneficiando. La costruzione di un attaccamento sicuro, dovrebbe garantire la
costruzione di modelli interni di relazione più adattivi , che servono per l'adattamento al mondo
esterno anche concluso l'affido. Si è visto che c'è alta concordanza tra gli stati mentali
dell'attaccamento delle madri affidatarie e di quelle dei minori in affido. Se si interviene subito,
prima che le distorsioni relazionali possano lasciare segni nello sviluppo della personalità del
bambino, un contesto di cure adeguate sembra, compensare le carenze dell'ambiente familiare,
permettendo al minore di costruirsi delle rappresentazioni dell'attaccamento di tipo sicuro. Ma è
necessario anche modificare il contesto familiare, perchè anche i modelli interni del bambino di tipo
sicuro, dovranno riadattarsi agli stili relazionali proposti dalla famiglia di origine. Questo perchè i
modelli operativi interni devono rispecchiare la realtà a cui si riferiscono, in modo da consentire
previsioni corrette del comportamento dei partner della relazione. Il clima emotivo può anche essere
valutato attraverso la percezione delle famiglie e dei bambini. Nelle interviste la famiglie affidatarie
ritengono di aver offerto al bambino amore e affetto, una guida sicura e un ambiente sereno. Tale
percezione è confermata dai bambini che riconoscono il legame con gli affidatari e la loro
disponibilità ad aiutarli. Inoltre, il clima familiare si può valutare attraverso l'osservazione diretta in
occasione delle visite a casa degli affidatari. Colton ha notato come le famiglia affidatarie
interagivano molto tempo col bambino e gli scambi comunicativi erano caratterizzati da affetto,
approvazione e sostegno.

5.2.3. Lo sviluppo del bambino e il recupero di eventuali ritardi

Per riattivare il buon funzionamento dei processi di apprendimento è necessaria non solo una
stimolazione adeguata da parte dell'ambiente familiare o scolastico ma anche che il bambino
recuperi le lacune accumulate sul piano della conoscenza, che sia motivato a farlo, e che consideri

46
positivamente la scuola e gli adulti che veicolano tale apprendimento. Per valutare lo sviluppo del
bambino durante l'affidamento è utile disporre di misure oggettive delle sue competenze, per
predisporre un piano di intervento mirato. Tale valutazione, consentirà di verificare i progressi
raggiunti e le aree da potenziare. Dai dati italiani, emerge che il bambino è migliorato nel 39% dei
casi, nel 28,3% si sono mantenuti stabili e nel 10% sono peggiorati. Si ipotizza che i problemi lievi
sia più facile modificarli nel breve corso dell'affido, quelli gravi tendono a mantenersi stabili se non
a peggiorare. Nella valutazione dei risultati raggiunti, si dovrebbe tener conto delle aree di sviluppo:
le competenze cognitive potrebbero essere valutate attraverso procedure standardizzate e attraverso
procedure osservative che tengano conto delle diverse strategie utilizzate dal soggetto per
relazionarsi con gli altri, chiedere e dare aiuto, risolvere i conflitti, gestire le situazioni di
cooperazione e competizione ecc. Sarebbe utile, anche utilizzare i giudizi di insegnanti e coetanei.
E' anche importante la valutazione della capacità del bambino di organizzarsi il tempo rispetto alle
attività della giornata e di gestire in modo autonomo la cura della propria persona e delle proprie
cose. Per le competenze affettive de emotive del bambino, si possono usare strumenti standardizzati
e brevi questionari, che consentono di raccogliere informazioni sulla percezione che ha il minore
delle proprie capacità, delle relazioni che vive e delle emozioni che sente.

5.2.4. Il recupero delle capacità di parenting da parte della famiglia di origine

Attualmente non ci sono ricerche che valutano l'impatto dell'affido sulla famiglia d'origine.
Avanziamo alcune riflessioni metodologiche su come effettuare tale analisi. Per accertare le
capacità di parenting della famiglia d'origine, non si può fare un confronto con le capacità medie
della popolazione, ma si deve tener conto di almeno tre elementi: il livello di competenze genitoriali
al momento in cui è stato disposto l'affido; il livello “realistico” di recuperabilità della funzione
genitoriale; i cambiamenti attesi in base all'intervento offerto alla famiglia. La valutazione, deve
basarsi sui cambiamenti che la famiglia è in grado di attuare, non dovrebbe vertere su aspetti della
genitorialità che non sono stati stimolati, incoraggiati e promossi dall'intervento. Per questo è
importante programmare nei dettagli l'intervento di recupero delle competenze genitoriali, perchè a
tale programmazione saranno legati il tipo e l'entità del cambiamento. La valutazione dei
cambiamenti raggiunti, chiama in causa non solo motivazioni e impegno dei genitori, ma anche il
funzionamento di tutto il processo dell'affido e le competenze degli operatori. Andrebbero anche
valutati aspetti del contesto fisico de economico e la rete sociale. A tal proposito può esser utile
servirsi di strumenti che indagano i rapporti esistenti tra la famiglia e il vicinato e la disponibilità
della rete sociale più vicina alla famiglia. Interessante può essere verificare come è stato preparato il
rientro del minore e quanto realistiche siano le aspettative.

5.3. La valutazione degli obiettivi a lungo termine dell'affidamento familiare

Per gli obiettivi a lungo termine dell'affido, gli studi di follow- up si focalizzano sui seguenti
indicatori: il poter disporre, da parte del bambino, di un contesto di cure stabili entro un periodo
ragionevole di tempo; l'impatto positivo dell'affido sul funzionamento dell'individuo a lungo
termine; l'impatto positivo dell'affido sulle modalità di funzionamento a lungo termine della
famiglia biologica.

5.3.1. Disporre di un contesto di cure stabili entro un periodo ragionevole di tempo

La valutazione di questo indicatore dipende dalla scelta dei criteri utilizzati per definire la stabilità
delle cure. Si può optare per misure oggettive come il numero di volte in cui il bambino ha
cambiato casa dopo il rientro in famiglia e il tempo trascorso dall'allontanamento al rientro
successivo; oppure si può ricorrere ad indici che tengano maggior conto di quanto il bambino viva

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come “stabile e prevedibile” il contesto che lo accoglie. Alcuni studi considerano il rientro a casa un
buon indicatore del raggiungimento della stabilità del contesto di cure, altri sottolineano
l'importanza di verificare, una volta che il bambino è ritornato, la capacità della famiglia di offrire
un ambiente di crescita stabile e sicuro. Tuttavia limitandoci a considerare come indicatore di
stabilità delle cure il rientro a casa del bambino, accertandoci anche del cambiamento del contesto
relazionale, finiremmo per escludere tutte quelle situazioni come l'affido sine die, l'adozione mite,
l'adozione legittimante che offrono comunque la stabilità di cure di cui il bambino ha bisogno.
Queste soluzioni, anche se spesso tardano ad arrivare, rappresentano contesti di cure più stabili e
sicuri delle situazioni di caos e imprevedibilità che alcuni minori troverebbero tornando a casa.

5.3.2. L'impatto dell'esperienza di affidamento sul funzionamento dell'individuo a lungo


termine

Nella maggior parte degli studi sugli effetti a lungo termine dell'affido sullo sviluppo del bambino e
funzionamento della famiglia, mancano le misure di baseline. La maggior parte degli studi di
follow-up, riporta le differenze nelle competenze osservate tra i minori che hanno fatto l'esperienza
dell'affido e quelli della stessa età vissuti in famiglie non problematiche. Questo bisogna precisarlo
nella lettura dei dati per evitare di affermare che l'affido non sia efficace perchè i bambini non r
aggiungono i livelli di sviluppo dei loro coetanei più fortunati. Le ricerche sui livelli di
funzionamento e adattamento degli adulti con esperienze passata di affido hanno indagato tre
ambiti: il raggiungimento dell'autosufficienza in età adulta; la capacità di sviluppare e mantenere
buone relazioni con i propri genitori; con i figli e gli amici, di trovare soddisfazione nella propria
vita; l'adattamento sociale.

Il raggiungimento dell'autosufficienza in età adulta

Una delle principali funzioni dell'affido è di preparare l'individuo a vivere autonomamente


raggiunta la maggiore età. La capacità di essere autosufficienti è legata alla possibilità di avere un
lavoro o di contare su quello del partner. Prima che il minore concluda l'affido, bisogna assicurargli
il conseguimento di un titolo di studio. I dati indicano che un' alta percentuale di minori non arriva a
conseguire la licenza di scuola media superiore, e manifesta scarsa considerazione e poco interesse
per la formazione. Tra i ragazzi che invece frequentano la scuola, molti sono in ritardo nel
conseguimento del titolo. Per quanto riguarda l'occupazione lavorativa questi ragazzi spesso sono
impiegati come manodopera non specializzata, non hanno garanzie sulla sicurezza del lavoro e
tendono a scegliere lavori simili ai loro padri. Un quarto di loro non è in grado di mantenersi
autonomamente, e conta su fondi pubblici per la sopravvivenza. Questo gruppo è caratterizzato
anche da un'alta mobilità (cambiano molte volte residenza). Inoltre da altri studi è emerso che questi
bambini, da adulti, avevano più probabilità di vivere un periodo da “senza fissa dimora”. Si può
ipotizzare che ciò accada perchè i problemi che hanno portato all'affidamento abbiano segnato in
modo serio anche le capacità dell'individuo di provvedere a sè stesso, oppure in seguito all'affido, la
famiglia del bambino, abbia allentato ulteriormente il senso di responsabilità e il legame verso il
figlio, fallendo nell'offrirgli un sostegno e un rifugio per evitargli la condizione di homeless. In uno
studio si sono confrontati tre gruppi, individui con esperienza di affidamento eterofamiliare,
individui con esperienza di affidamento intrafamiliare e campione di controllo, lungo cinque
dimensioni. Dal controllo tra i gruppi con affido e quello di controllo sono emerse differenze
statisticamente significative su 4 dimensioni (maggiore disoccupazione, livello di istruzione più
basso, tenore di vita più basso, percentuale più alta di homeless).Confrontando separatamente i de
gruppi di soggetti con affidamento familiare e con affidamento eterofamiliare con il gruppo di
controllo, è emerso che , mentre i primi si differenziavano dal gruppo di controllo per due sole
dimensioni (livello di consumi e instabilità della residenza), i soggetti con affidamento

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eterofamiliare si differenziavano lungo tutte e cinque le dimensioni.

Competenze socioemotive e soddisfazione per la propria vita

Per valutare l'impatto dell'affido sulle competenze socioemotive degli individui, gli studi analizzano
la capacità dei soggetti di stabilire relazioni significative con i propri genitori, con il partner, i figli,
gli amici e il vicinato. Un altro elemento da considerare per la valutazione è il livello di
soddisfazione espresso dai soggetti per la vita che conducono. La capacità di mantenere relazioni
con i familiari, de altri significati è importante perchè costituisce un fattore di protezione dinanzi
alle difficoltà della vita. L'interruzione dei rapporti con i familiari, può anche far prevedere
l'incapacità a costruire relazioni significative in contesti diversi da quello familiare. Tale indicatore
è operazionalizzato attraverso quattro variabili: frequenza di visite ai vicini nella settimana
precedente l'intervista, numero di amici, numero di club/associazioni di cui si è membri, stato civile
corrente. Da studi sulle percentuale di matrimoni e convivenze non formalizzate nelle persone con
esperienze di affido, si è vista che c'è una più bassa incidenza rispetto al resto della popolazione.
Non differisce invece la percentuale di divorzi, anche se le difficoltà di relazione sono maggiori e le
donne tendono più a sposare uomini che hanno avuto problemi con la giustizia o che hanno abusato
di sostanze o alcol. Il livello di soddisfazione coniugale percepito, è invece, comparabile tra i due
gruppi. Da ricerche su donne allontanate nell'infanzia dalla famiglia, è emerso che, sono diventate
madri precocemente e nel 19% dei casi non sono riuscite a tenere con sè il bambino. E' probabile
che tali esiti siano dovuti al fatto di non aver potuto usufruire di un ambiente di cure stabili a
conclusione dell'affido. Tale risultato è inverso nelle donne adottate, che invece hanno avuto un
contesto di cure stabile. Gli uomini che sono stati in affido tendono ad avere meno figli, e se li
hanno, è poco probabile che vivano con loro. L'allontanamento nell'infanzia non è associato a un
distacco dalla famiglia in età adulta. La maggior parte dei soggetti ha rapporti con i fratelli e almeno
un membro della famiglia. Anche i rapporti con gli affidatari permangono nei primi anni dell'età
adulta de una percentuale continua a vivere con loro. Per quanto riguarda la rete di supporto
sociale, questi individui sono comparabili al resto della popolazione per il numero di amici,
frequenza dei contatti con essi, rapporti con i vicini. C'è però una differenza tra chi ha vissuto in
affidamento intrafamiliare (hanno un marcato isolamento sociale e mancanza di amici) e chi ha
vissuto un affidamento eterofamiliare. Per quanto concerne il benessere personale chi è stato in
affido si dichiara soddisfatto del proprio tenore di vita come il gruppo dei controlli, mostrando un
senso di adattamento.

L'adattamento sociale

Per valutare la capacità degli individui di utilizzare comportamenti socialmente accettabili per
adattarsi alla vita quotidiana, alcuni autori, hanno individuato due aree: L'uso/abuso di sostanze
(frequenza, motivazioni) e l'attività deviante (picchiare qualcuno, minacciarlo, rubare un veicolo
ecc.). Questi individui non sono in grado di evitare problemi con la giustizia o l'abuso di droghe e
alcol. Soprattutto i maschi, che sono stati in affido, vanno incontro a più problemi con la giustizia e
fanno più uso di droghe e alcol. Questi comportamenti sono spesso associati alla povertà in cui si
trovano questi individui.

5.4. Fattori associati all'esito dell'affidamento

Importante è conoscere i processi attraverso cui gli esiti dell'affidamento si sono prodotti. Gli studi
che si sono occupati di tale questione, hanno lo scopo di individuare, le variabili relative al processo
dell'affido che rendono diversa l'esperienza fatta dai minori, funzionando come f attori di protezione
o di rischio relativamente ai risultati finali raggiunti. Si tratta, dunque, di scoprire le variabili alle

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quali si può attribuire la riuscita o meno dell'affidamento. Da studi che hanno valutato gli effetti a
lungo termine dell'affido, sono state individuate le variabili più significative associate al suo buon
esito. Sono emersi migliori esiti associati all'affidamento di tipo familiare rispetto ad altre forme di
accoglienza del minore. Questo vale per tutte le variabili considerate (conseguimento diploma,
autosufficienza adulta, adattamento sociale ecc.), eccetto la frequenza dei contatti con la famiglia di
origine, che risultano più frequenti e più stretti nei bambini inseriti in gruppi residenziali o in
istituto. Sono stati trovati, invece, risultati discordanti dell'associazione età in cui è stato deciso
l'affido de esito dell'affido stesso, sebbene in ricerche italiane si riscontri una frequenza più alta di
risultati negativi negli affidamenti decisi in età adolescenziale (forse per l'età problematica e per la
lunga storia di carenze alle spalle del minore). Forte rilevanza sembrano assumere, i cambiamenti di
famiglia o di situazioni di cure, che risultano associati a esiti come: basso rendimento scolastico,
scarso supporto sociale e modesta capacità di stabilire e mantenere relazioni con la propria famiglia
e con gli affidatari; la durata dell'affido risulta positivamente associata al buon funzionamento
dell'individuo. Gli affidi più lunghi pare accrescano nel bambino il livello di autostima e di
soddisfazione per la propria vita il funzionamento psicologico in età adulta e l'adattamento sociale.
Questo avviene solo se durante l'affido non ci sono cambiamenti nei contesti di cura, infatti vivere
in un contesto stabile e ben funzionante consente al bambino di equipaggiarsi meglio per affrontare
le sfide della vita. Anche l'età in cui ha termine l'affido è associata positivamente con gli esiti di
sviluppo: stanno meglio i minori che concludono l'affido vicino alla maggiore età. Un'altra variabile
importante è la frequenza dei contatti con la famiglia biologica e gli affidatari: più il bambino
rimane in contatto con la famiglia d'origine , migliore sarà il suo sviluppo alla fine dell' affido.
Questo succede perchè è probabile che ci siano meno problemi al rientro e poca conflittualità con
gli affidatari, in modo tale da favorire il mantenimento dei contatti tra bambino e famiglia
affidataria. Dallo studio di Sottoriva e Pedrabissi è emerso che gli affidi conclusosi positivamente
sono quelli in cui gli affidatari, con più figli, accolgono un minore non problematico (nessun
disturbo del comportamento e nessun sintomo), di età fra i 0 e i 5 anni, che da figlio unico nella
famiglia d'origine diventa nella nuova ultimogenito. Queste coppie, motivate da ideali religiosi e di
solidarietà, adottano uno stile genitoriale basato sull'affetto ma che tende a responsabilizzare i figli
all'autonomia. Una tipologia di affidi che si conclude male invece, è quella in cui gli affidatari
quarantenni, non hanno figli e tendono ad adottare con il bambino uno stile genitoriale ansioso; le
motivazioni che hanno spinto la famiglia all'affido sono di tipo funzionale (trattenere un partner
fuggitivo o riempire il vuoto di un figlio); la storia della madre affidataria è segnata da esperienze
dolorose.

5.5. Scelte metodologiche nella valutazione degli esiti dell'affidamento

Esiste una varietà di strumenti e indicatori impiegati per misurare gli esiti dell' affido.
L'individuazione di indicatori che offrano un quadro dell'andamento dell'affido a medio e lungo
termine è una delle fasi più importanti della ricerca. Si tratta di scegliere aspetti del fenomeno utili a
informare su come stia procedendo l'affido, sui risultati raggiunti e sui processi che hanno favorito il
successo/insuccesso di tale esperienza. Gli indicatori sono scelti attingendo dalla letteratura e
tenendo conto della specificità del fenomeno. E' consigliabile analizzare gli esiti dell'affidamento
sia con indicatori a medio termine (per verificare il livello di “funzionamento”dei diversi contesti in
cui il bambino è inserito) che a lungo termine (per monitorare i risultati raggiunti da bambino e
famiglia sull'adattamento e sviluppo). Più saranno validi gli indicatori rispecchiando le dimensioni
del fenomeno indagato, più i risultati delle ricerche potranno essere impiegati per organizzare
l'esperienza dell'affidamento familiare in modo da renderla più efficace. Determinati gli indicatori,
bisognerà operare delle scelte sugli strumenti e metodi per misurare le variabili. In alcuni casi ci si
potrà fidare di dati oggettivi (es. conoscere se il bambino ha già fatto precedenti esperienze di
affido, verificare ampiezza rete sociale), in altri decidere come valutare i fenomeni. Il clima emotivo

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della famiglia affidataria, può essere rilevato con strumenti osservativi come griglie, schemi di
codifica, scale o checklist compilate da osservatori esterni su materiale videoregistrato, o applicati
dagli operatori durante le visite alla famiglia, o auto compilate dagli affidatari. In alternativi si può
chiedere al bambino o alla sua famiglia di origine di effettuare tale valutazione. Le scelte
metodologiche dovranno tener conto della natura della variabile analizzata e delle risorse
disponibili, insieme al tipo di informazioni che intendiamo ricavare. Esempio: per valutare il
benessere del bambino, possiamo disporre di misure riferite dagli adulti, ma sarà utile anche
ottenere i resoconti del bambino e delle persone in contatto con lui anche al di fuori del contesto
familiare. Per verificare i livelli di sviluppo cognitivo e sociale, invece, ci si può servire di test
standardizzati, che permettono rilevazioni ripetute della stesse abilità, per confrontare i avvenuti nel
corso nell' affido. Anche per valutare gli esiti dell'affido c'è bisogno di un'ottica di tipo ecologico.
Sarebbe opportuno, cioè, valutare quanto i diversi contesti relazionali, materiali e sociali abbiano
contribuito alla riuscita dell'affido, ma anche far partecipare questi contesti, all' identificazione degli
indicatori e al processo di valutazione. Un tentativo di valutazione in questo senso è stato messo a
punto da Moro, Cassibba e Costantini per identificare alcuni indicatori del buone sito dell'affido
dando voce a tutti gli attori sociali.

5.6. L'individuazione degli indicatori dell'esito dell'affidamento: un'esperienza di


coinvolgimento degli attori sociali

La legge sull'affido non prevede criteri “oggettivi” di valutazione dell'esperienza dell'affidamento,


de i vari operatori coinvolti nell'affido valutano l'esito delle esperienze sulla base di criteri
soggettivi e spesso occasionali. Per trovare un linguaggio comune e strategie condivise gli autori
hanno trovato utile sentire il parere dei diversi attori sociali per identificare gli spunti utili per
trovare gli indicatori di risultato condivisi. Sono stati condotti sei focus group per individuare i
criteri condivisi dai diversi attori sociali che intervengono nell'affido, in base a cui un affidamento
familiare può considerarsi concluso in maniera positiva. I partecipanti sono: assistenti sociali dei
consultori e dei servizi sociali del comune, psicologi, giudici onorari, famiglie affidatarie
estranee/con legami con la famiglia di origine, esperti di progettazione e valutazione di interventi a
sostegno della genitorialità. Non è stato possibile coinvolgere le famiglie d'origine (si sono
presentati solo tre partecipanti), e per ragioni etiche e giuridiche, non è stato possibile fare un focus
group con i ragazzi in stato di affido. Le questioni intorno a cui si sono articolate i focus sono: i
criteri in base a cui un affido può considerarsi concluso; i risultati che devono essere aggiunti dal
bambino; i risultati che devono essere raggiunti dalla famiglia affidataria; i risultati che devono
essere raggiunti dalla famiglia d'origine. Per ciascun punto si è cercato di giungere a tre risposte
condivise de era richiesto che i partecipanti costruissero anche una scala di valutazione degli esiti
dell'affido a partire dalla scala ordinale di importanza dei criteri scelti.. La scala finale risulta
costituita da dodici criteri condivisi di valutazione dell' efficacia dell'affido, che prevedono che:
il bambino: 1) raggiunga un a stabilità affettiva che gli consenta di affrontare le difficoltà del
rientro in famiglia; 2) mostri serenità; 3) sia in grado di operare una distinzione tra il ruolo della
famiglia di origine e quello della famiglia affidataria, e che assuma comportamenti tipici della sua
età; 4) esistono buoni rapporti tra le due famiglie; 5) la famiglia affidataria rispetti il ruolo della
famiglia di origine; 6) la famiglia affidataria sia una guida educativa per il bambino; 7) la famiglia
affidataria dimostri accoglienza verso il bambino e la sua storia; 8) la famiglia affidataria non
manifesti atteggiamenti di possesso esclusivo nei confronti del bambino; 9) la famiglia di origine
abbia superato i problemi che hanno portato all'allontanamento dei figli; 10) la famiglia di origine
abbia recuperato la capacità di esercitare la funzione genitoriale; 11) la famiglia di origine abbia
riscoperto il valore del bambino; 12) la famiglia di origine mostri un rapporto corretto con le
istituzioni. Una volta individuati i criteri, è necessario scegliere comportamenti osservabili, scale di
valutazione, checklist e strumenti di varia natura (test proiettivi, disegni, colloqui, interviste più o

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meno strutturate...) che consentano di operazionalizzarli. Tale scelta dipenderà dal livello di
approfondimento che si intende raggiungere nella valutazione e dall'uso che si fa dei dati. Es. se la
valutazione serve per giudicare un'esperienza di affidamento specifica, e si intendono valutare i
risultati raggiunto da un singolo bambino e dalla sua famiglia d'origine, si potranno utilizzare
strumenti che forniscono dati qualitativi (interviste, colloqui,diari ecc.) perchè non si deve
confrontare la valutazione con altre. Se invece vogliamo disporre di una banca dati che possa
informarci sull'efficacia di tutti gli affidi realizzati, sarà necessario utilizzare indici confrontabili di
natura quantitativa. Il questionario messo a punto da Cassibba, Moro e Costantini, è stato costruito
individuando, per ognuno dei dodici criteri emersi dai focus group, quattro comportamenti
osservabili utili a operazionalizzare ciascun criterio. Il questionario è semplice e di veloce
compilazione e può essere utilizzato, nella fase iniziale dell'affido, per fissare gli obiettivi ritenuti
raggiungibili dal bambino e dalla sua famiglia e i livelli di baseline del loro funzionamento, de
anche per esempio a cadenza semestrale per verificare i cambiamenti intervenuti e le aree
interessate, in modo da calibrare l'intervento. L'esito finale dell'affidamento potrà essere valutato
considerando gli scarti tra i risultati attesi e quelli raggiunti.

5.7. Prospettive future per gli studi sulla valutazione degli esiti dell'affidamento

C'è bisogno di incrementare gli studi nell'ambito dell'affido essendo poco conosciuti i suoi effetti
sulla qualità della vita di chi ne ha fatto esperienza, de i fattori che lo rendono un successo o meno.
In italia sono poche le ricerche sul buon affido e non è mai stata condotta una ricerca sui suoi effetti
a lungo termine. Da vari studi è emerso che chi ha fatto esperienza dell'affido non necessariamente
è stato condannato a una vita infelice o problematica., anche se in molti casi i risultati non sono del
tutto incoraggianti. Urgono ricerche più mirate che permettono con i loro risultati di ottimizzare la
possibilità che l'affido si concluda positivamente. La ricerca dovrebbe essere potenziata anche
perchè l'affido è considerato un possibile fattore di protezione per il minore che vive in situazioni a
rischio. Inoltre non sono da sottovalutare i costi economici e di energie che la comunità investe
sull'affido. I problemi che i nuovi studi dovrebbero cercare di superare sono questi:
1) evitare di valutare gli esiti basandosi solo su dati retrospettivi, ma impostare studi longitudinali
che consentano dia vere informazioni puntuali, concrete e confrontabili; 2) non limitarsi a usare
gruppi di controllo tratti dalla popolazione generale per fare confronti degli esiti, ma servirsi anche
delle misure di baseline, in modo da catturare i cambiamenti che ogni caso ha raggiunto a partire
dalla propria situazione di partenza 3) Individuare indicatori validi e misure corrette degli esiti,
ricordando che l'esito positivo va valutato considerando sia i risultati del bambino che della sua
famiglia d'origine.

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