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Michele Corsi - Cambiamenti culturali e trasformazioni sociali: dalle persone alle

famiglie

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. PREMESSA .............................................................................................................................................. 3
2. FAMIGLIA E “FAMIGLIE” ....................................................................................................................... 5
3. IL BISOGNO DELLA PROGETTUALITÀ EDUCATIVA E IL DOVERE DELLA RESPONSABILITÀ ................... 9

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1. Premessa

L’attuale scenario etico – valoriale, relazionale e istituzionale, è quanto mai complesso,

variegato e mutevole. A livello sia nazionale che europeo e mondiale. Con sfide ed emergenze,

cui dobbiamo rispondere, e forti bisogni di progettualità anche educativa, cui non possiamo

sottrarci.

E molti sono, conseguentemente e circolarmente, i problemi che attraversano la persona

(e le persone), la famiglia (e le “famiglie”) e che si ripercuotono sull’intero sistema.

Aumentando tra l’altro, non di meno, per più parti e per diversi motivi e aspetti, il disagio di

troppi minori già in evidente situazione di crisi personale, relazionale, sociale e morale.

Dal calo della natalità (per cui il nostro Paese è il fanalino di coda dell’intero pianeta) alle

risposte (e alle domande a monte) assai spesso inadeguate nei confronti della fertilità o della sovra

– popolazione di alcune zone del pianeta, dallo squilibrio tuttora e a lungo esistente tra aree ricche

e aree povere (con ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri) alle crescenti esigenze di

occupazione per troppi giovani che vedono la loro “adolescenza” allungarsi a dismisura sino a

diventare patologica o patogenetica per mancanza di lavoro (con ricadute ed esiti inopportuni,

ancorché non necessariamente correlati, quali ad esempio la droga o il fenomeno in progressivo

aumento dell’alcoolismo giovanile – fenomeno peraltro in eguale crescita nelle donne tra i 35 e i

50 anni), dallo sfruttamento dei minori, in varie forme e misure, al giovanilismo a tutti i costi e al

rifiuto della vecchiaia, da una concezione della vita come possesso individuale e non quale bene

sociale alla paura della morte e alla sua rimozione, dal trionfo esagerato e inquietante, e dunque

in qualche modo perverso, del privato sul pubblico e del materiale sullo spirituale a una nuova

concezione della “fedeltà” più massiccia e pesante “finché dura”, da una cultura emergente e

diffusa del “tutto invecchia in fretta” e va quindi “sostituito” (in una dinamica che si descrive

pertanto come permanentemente provvisoria e conflittuale) al rifiuto montante di ogni dogma o

contratto pubblico in una società, di contro, viepiù decapitata di “padri” e di “madri”.

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E’ anche la società, in alcuni suoi imponenti e importanti segmenti, in special modo quella

capitalistica o post – capitalistica o vogliosamente e sfrenatamente capitalistica di troppe nazioni

europee, americane o asiatiche, che si muove all’insegna del “tutto e subito”, dell’utile immediato

e dell’interesse individuale, dell’egoismo e della sfiducia, dell’“ognuno è legge a se stesso”.

Caratterizzata, com’è, dalla nuova condizione femminile e dalla crisi, per converso e

autonomamente, del ruolo maschile, dalla crescita esponenziale della popolazione anziana pure

a livello mondiale, con una carta di Europa (per quel che ci riguarda più da presso) che vive ormai

una trasformazione apparentemente pacifica, ma non pedagogicamente governata, di razze,

etnie e “religioni” pari probabilmente solo al tempo delle cosiddette invasioni barbariche del IV^ -

V^ secolo d. C.

E, sullo sfondo, guerre disumane e dimenticate, lotte etniche feroci (ancorché pilotate e

sfruttate, entrambe, dai regimi forti), nazionalismi esasperati anche “a pochi passi” dal nostro

Paese.

Tutto questo si ripercuote, globalmente, sulla famiglia e sulle “famiglie”, sulle scelte personali

degli stessi individui e sulle loro condizioni esistenziali, in quadro di luci e di ombre, di motivazioni

alte e di pericolose discese agli inferi, di significativi ancoraggi al cielo, alla speranza e alla fiducia,

ma pure di spaventosi pressappochismi e di notevoli superficialità e banalizzazioni. E che significa

anche, come ricaduta contemporanea e diffusa, il diverso uso e la differente funzione (pure

valoriale) della sessualità di molto anticipata per età (e nondimeno i capitoli attuali della

contraccezione e dell’I.V.G.), la “quasi scomparsa” dell’esperienza della fraternità

(particolarmente in Italia) a causa del crescente fenomeno del figlio unico (con una politica degli

alloggi che sicuramente non favorisce la paternità e la maternità responsabili), la diminuzione

(talora impressionante) del tempo educativo, per quantità e qualità, nel rapporto tra genitori e figli

e, a monte e correlativamente, tra coniugi o conviventi alla ricerca spesso incomprensibile e

immotivata di soddisfazioni carrieristiche a tutti i costi e di “nuovi e pressanti bisogni economici” da

soddisfare urgentemente come risposta a domande personali di senso e di significato, deluse e

deludenti, povere e solitarie.

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2. Famiglia e “famiglie”

Nel mondo si contano attualmente 15 diversi modelli di “organizzazione familiare”, differenti

per dimensione sociologica e quadro normativo di riferimento. Naturalmente, con percentuali

difformi di distribuzione da continente a continente, da sub – continente a sub – continente, da

nazione a nazione. Destinate a cambiare anche sotto la spinta di assetti legislativi che si

modificano come l’approvazione, ad esempio, nel 2005 da parte della Spagna (preceduta dal

Belgio pur caratterizzato da una significativa presenza cattolica e dalla protestante Olanda, ma

“prima”, la Spagna, in ordine alle adozioni gay) del matrimonio tra omosessuali, con la possibilità di

adottare figli da parte di costoro (in una legge, questa spagnola, che sostituisce, a tal proposito, le

parole “marito e moglie” del più antico “matrimonio” – che ha già raggiunto comunque nel Paese

iberico il 60% di separazioni e divorzi1 – con “coniugi”, mentre “padre e madre” diventano

“genitori”) e del divorzio dopo tre mesi di matrimonio, senza separazione preventiva e senza cause

di colpevolezza addotte da uno dei due ex contraenti (così come l’accesso gratuito alla pillola del

giorno dopo da parte di bambine di dieci anni).

Ma attenti: è passato quasi inosservato o ha fatto soltanto sorridere un altro emendamento

al codice civile varato dal Congresso spagnolo: quello che inserisce tra i doveri della coppia

sposata anche la condivisione delle responsabilità domestiche e cioè l’obbligo dei lavori

casalinghi per gli uomini oltre alla più scontata cura e attenzione nei confronti dei figli, dei genitori

e delle altre persone a carico.

Dunque, “la legge educa” e può “educare”, creando un sistema di opportunità e di

obblighi con connesse sanzioni, determina il costume e i comportamenti sociali, affettivi e

relazionali, e quindi istituzionali a venire.

Alla stessa stregua dell’educazione, che è fatta di parole, ma non di meno (e con quale

spessore talora, incidenza e possibili ferite!) di messaggi non verbali, di interdipendenze rilevanti tra

1 Va segnalato di contro, in questa nazione, il recente aumento della natalità come “segno di contraddizione” tra la
maggiore autodeterminazione femminile e una più consistente consapevolezza del problema da parte della popolazione
spagnola specie di matrice cattolica.

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contenuti, rapporti e contesti, di comunicazioni e meta – comunicazioni, di silenzi “che parlano” e

sovente urlano, segnano e scavano, di punteggiature condivise o fraintese, di simmetrie e

complementarietà2, e che perciò è soprattutto un clima che si vive, si respira, si tocca con mano,

che plasma, sospinge alle scelte, decide e fa decidere pure per conformità, per paura della

solitudine e dell’abbandono, per vincoli di esperienze, di tempi e di affetti, per prossimità e

vicinanze, per un “amore” magari sbagliato.

Ma quanti sono gli amori sbagliati eppure abbracciati, percorsi e poi smarriti3, che fanno

comunque tutti parte del patrimonio di memorie e di latenze (e dunque di possibile felicità o

infelicità, salute o disagio, stabilità o crisi presenti e future) degli individui?

E, se a questo si aggiunge l’antica e mai superata lezione delle psicologie e delle

psicoanalisi tuttora vigenti (Freud, Jung, Adler, Berne, Fromm ecc.) che sostengono che la

personalità di ciascuno di noi è un processo – prodotto di identificazioni continue a partire dalla

nascita e particolarmente nei primi tre o sei anni di vita nella relazione con i soggetti stabili di

riferimento e con il “potere” che, entrambi o uno dei due in specie, incarnano, esprimono e

rappresentano (e cioè i “genitori” del recente provvedimento da parte delle camere spagnole

che, a detta dei sondaggi, incontra il 66% dei favori della popolazione di quel Paese) e da qui a

cascata, pure nel gioco delle interpretazioni e dei vissuti soggettivi, le scelte e gli stili di vita

conseguenti di ogni persona, mi chiedo davvero se si possa eludere la domanda (in nome dei

“diritti” dell’adulto) se il bambino in genere, il bambino del secolo scorso (salutato come il secolo

della scoperta dell’infanzia) e di questi primi anni del terzo millennio, per il quale tutti sembriamo

esigere “l’offerta del meglio” (perché non chiede di nascere, ma viene sospinto all’esistenza dalle

decisioni altrui e dalla donna in particolare!), il bambino degli ultimi 50 anni e del tempo trionfante

della formazione (quale valore immateriale da coniugare a tutti i possibili campi e ambiti

applicativi: in politica e in economia, per i genitori e gli insegnanti, per ogni mestiere o professione),

ottenga realmente, al presente, la migliore delle possibilità esistenziali.

2 Cfr. P. WATZLAWICK – J.H. BEAVIN – D.D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi,
delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971.
3 Cfr. D. FRANCESCATO, Figli sereni di amori smarriti. Ragazzi e adulti dopo la separazione, Mondadori, Milano 1997.

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Se il “meglio” siamo poi tutti d’accordo nel ritenere che sia la messa a disposizione di costui

del più ampio ventaglio (per non dire totale) delle opportunità di scelta, delle più vantaggiose

condizioni socio – economiche e culturali di contesto, affettive, relazionali, umane, politiche ecc.,

entro cui crescere, maturare e dunque decidere in libertà, autonomia e responsabilità di sé e

dell’intera propria vita anche a vantaggio degli altri (e della società) con cui si rapporterà.

Al di là dei “diritti” degli adulti esiste, cioè, un diritto ancora più radicato e significativo che

è quello del bambino: innanzitutto il “diritto” a una famiglia “normale” e valida (e, quando ne è

privo, alla sua migliore sostituzione) e, con esso, alla crescita e al ben – essere morale e psico –

fisico diffuso, e infine, divenuto grande, alle opportune condizioni di vita e al lavoro. Tutto il resto

appartiene alla soggettività e non alla necessità.

Ma torniamo ai 15 modelli di organizzazione familiare presenti nel mondo (e in Italia): la

famiglia patriarcale stabile religiosamente normata, la famiglia patriarcale stabile civilmente

normata, la famiglia nucleare allargata stabile religiosamente normata, la famiglia nucleare

allargata stabile civilmente normata, la famiglia nucleare ristretta stabile religiosamente normata,

la famiglia nucleare ristretta stabile civilmente normata, le famiglie separate, le famiglie divorziate,

le famiglie religiosamente ricostituite, le famiglie civilmente ricostituite, le famiglie mono-personali (i

single e gli anziani vedovi), le convivenze protratte nel tempo, le convivenze meno protratte nel

tempo, le famiglie monosessuali con figlio/i nato/i da precedenti unioni, le coppie omosessuali

(talvolta anche con figli naturali presenti), cui si aggiunge ora, quale richiesta avanzata da più

parti nell’Occidente industrializzato e post – industriale (bene al di là, dunque, del solo Paese

iberico), come ulteriore e sedicesimo “modello”, la coppia – famiglia omosessuale con figli adottivi.

Due ultime considerazioni prima di passare ad altro argomento.

La prima: le famiglie separate e divorziate sono ad esempio, nel nostro Paese, ben oltre al

30%, con un picco crescente di “crisi” e“rotture” che si situa nei primi tre anni di matrimonio sia

civile che religioso. Può essere un dato fisiologico, questo? In altro contesto: un dato di incidenza

“tumorale” che si presentasse con la stessa percentuale e in una fase estremamente giovanile

verrebbe letto come un segno di malattia o di benessere? E sarebbe mai possibile una “medicina”

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che lo volesse curare “allargando le maglie” o piuttosto darebbe vita a una seria azione di

prevenzione che altro non è, nel linguaggio delle scienze umane e sociali e di una politica

“corretta”, che il ricorso alla formazione mirata e precoce?

La seconda: esiste, al di là di tutto, un modello di famiglia che risponde maggiormente alle

esigenze di benessere dei minori e alle domande di “salute” degli adulti?

A chiederlo sinceramente, la risposta senza pregiudizi non può che essere unanime: quello

caratterizzato da stabilità e democrazia relazionale, che coltiva e pratica gli stili della solidarietà

reciproca, della generosità vicendevole, del perdono e dell’autentico rispetto.

Impossibile? Allora sono impossibili la stessa società e qualunque forma di società presenti e

future. Il dato inconfutabile, purtroppo, è che la nostra società non è ancora umana, è tuttora un

“progetto” e costituisce di contro, al momento, un’implicita denuncia della povertà etica del

mondo sviluppato, in cui si stenta a intravedere proprio la società4.

4 Cfr. M. CORSI, Come pensare l’educazione. Verso una pedagogia come scienza, La Scuola, Brescia 1997.

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3. Il bisogno della progettualità educativa e il dovere


della responsabilità

Molte sono oggi le sfide alla famiglia, alla vita e alla persona anche in Italia nel tentativo di

giustificare con motivazioni talora pure valide ciò che comunque non è sempre “giustificabile”.

Mi riferisco, ad esempio, ai problemi legati alla decisione della generatività e al “bisogno”

del figlio.

Lungi dall’aprire una querelle pressoché infinita sulle tante contraddizioni dei nostri tempi: il

diritto all’autodeterminazione della donna e alle scelte individuali di procreazione e per converso il

calo della natalità e l’esistenza tendenzialmente maggioritaria del figlio unico, il dibattito e il dato

sull’I.V.G. e nel contempo il rifiuto della menopausa da parte di troppe donne che è speculare con

la crisi di mezza età dell’uomo (tanto studiata dalle scuole psicologiche francesi) e la sua paura di

invecchiare (con tutti i sintomi del caso), voglio piuttosto soffermarmi su un unico imprescindibile

aspetto: il figlio non può essere mai un bisogno dell’adulto, la risposta a un’esigenza di

affermazione o estensione personale o duale perché, se così fosse, si configurerebbe da subito

come una scelta sbagliata, sbagliata per l’adulto e sbagliata per il minore, carica e a breve di

sofferenza per entrambi.

Il figlio come “bisogno” rinvia a una situazione psicologica di “mancanza”, a una povertà

riconosciuta e non a una ricchezza da mettere in circolazione, a un’immaturità originaria, a un

dolore da risolvere, a una privazione che si considera intollerabile e che va dunque soddisfatta, a

un’ingiustizia che chiede giustizia, a un vuoto che attende un pieno.

E così l’adulto o gli adulti “parlano” di sé e non di “lui”, e si aspettano “soddisfazioni”

soprattutto per loro stessi. In tal modo, sembrano trattare di “cose” o di esperienze di cui si

avvertono in difetto. E il tutto si iscrive in una “logica di possesso”.

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In economia, ad esempio, il bisogno si riconnette alla necessità e, con senso più

determinato, appunto alla povertà, alla strettezza o alla mancanza di denaro. Per estensione, ai

flussi di mercato, di occupazione ecc. e, con accezione maggiormente specifica, anche in

sociologia s’intende per bisogno ogni sensazione dolorosa derivante da un’insoddisfazione

presente o prevista (il figlio per la vecchiaia!), accompagnata dalla conoscenza di mezzi atti a

diminuire, rimuovere o evitare tale sofferenza (il figlio a tutti i costi?) e dal desiderio di procurarseli.

Per questa via il “bisogno” del figlio è un bisogno “sociale” e si appaia con quello di voler

raggiungere una “posizione di prestigio”; ed entrambi vengono interpretati dalla letteratura di

settore come sollecitati dall’ambiente in termini di rapporti emotivi tra individui. Più comunemente,

l’aver bisogno indica l’esigenza di procurarsi ciò che manca per raggiungere un fine determinato

oppure ciò che è ritenuto utile per il conseguimento di uno stato di benessere soggettivo o

relazionale.

Ma il figlio e la sua nascita non si iscrivono in questa logica. Il figlio è una persona, un

progetto e non una cosa, è un essere e non un avere5, è un dovere (pure sociale oltre che etico) e

non un diritto, è un dono ricevuto gratuitamente al di là della pochezza delle risorse impiegate, è

un mistero così come tutta la vita di ciascuno di noi che affonda nel mistero.

Un mistero che va accettato (come la mancanza del figlio e la sua non nascita biologica)

e che nessuna teoria scientista ha mai potuto risolvere del tutto così da dover ricorrere poi, nello

stesso positivismo ad esempio, a termini ultimi quali l’inconoscibile, l’indistinto psico – fisico ecc.

Un figlio pretende a monte genitori sani (perché procreare è un atto d’amore, non un

bisogno psicologico di uno o di entrambi o di altra natura), soddisfatti di sé e maturi, perché siano

capaci conseguentemente della generosità che la crescita e l’educazione di un figlio

comportano, pieni e non vuoti, colmi e non in difetto, idonei nel dare e non esigenti nel richiedere,

preliminarmente equilibrati e formati. I figli vanno pensati, partoriti, educati e cresciuti nel fisiologico

intento della loro autonomia e nella consapevolezza che, una volta adulti e autosufficienti,

andranno via dalla famiglia in cui sono stati allevati e divenuti grandi: i figli sono fatti per andare

5 Cfr. E. FROMM, Avere o essere, Mondadori, Milano 1977.

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via, perché si appartengono. Non per rimanere o appassire sulle loro antiche radici, allorché il

“nido familiare” tornerà a essere di nuovo felicemente vuoto.

“I vostri figli non sono i vostri figli. Essi sono i figli della smania della vita per se stessa”,

scriveva Kahlil Gibran.

Non abbiamo bisogno di padri e madri comunque, malgrado il calo delle nascite. Così

come non abbiamo di sacerdoti o religiosi in ogni caso, nonostante la crisi delle vocazioni e

l’invecchiamento di quelli esistenti (o della popolazione). Ci bastano già i troppi figli (o credenti)

fragili di genitori (o sacerdoti e religiosi) altrettanto fragili.

Abbiamo piuttosto necessità di nuovi padri e madri. Di padri e madri liberi, autonomi e

responsabili. Testimoni di quella libertà che è sempre pensante (e non emotiva o arbitraria) e

pesante (come la intendevano Michele Federico Sciacca e Franco Lombardi) perché incarnata in

una storia accolta e non subita, meditata, riflessa, sposata, per poi magari cambiarla, migliorarla,

per incarnare lo sviluppo e “le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità6. Autonomi perché

consapevoli delle relazioni cui partecipano e alle quali danno vita. Responsabili, nell’esatta

accezione del termine, come soggetti impegnati a dare una risposta di senso e di significato ai

talenti di cui sono portatori e a quel talento “primo” che è la propria, unica vita. Si ha urgenza cioè

di padri e madri “educati”, perché sappiano educare a loro volta alla libertà, all’autonomia e alla

responsabilità i propri “cuccioli” e che, correlate sistemicamente e socialmente tra loro come

“valore”, sono in ultima istanza il fine, reale e pregnante, di ogni educazione correttamente intesa.

E, allora, di ben altro ci avvertiamo dolorosamente poveri. Poveri di padri e madri

“salmone” che sappiano anche loro, come questo pesce, nuotare controcorrente e dire pure

qualche no giustificato e motivato, senza paura di perdere l’affetto dei figli o di venire

abbandonati o di peggio. Di padri e madri coraggiosi, che sappiano educare al coraggio7, e che,

formati e davvero adulti, sappiano farsi padri e madri anche dei tanti bambini, fanciulli e

adolescenti “senza famiglia”.

6 Cfr. M. CORSI – R. SANI (a cura di), L’educazione alla democrazia tra passato e presente, Vita e Pensiero, Milano 2004.
7 Cfr. M. CORSI, Il coraggio di educare. Il valore della testimonianza, Vita e Pensiero, Milano 2003.

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La prospettiva, del resto, di una possibile e realistica fecondità allargata, senza volere con

questo negare il valore profondo della genitorialità biologica, ma senza farne neppure il mito

perdurante del nostro mondo occidentale, è un itinerario già percorso e realizzato istituzionalmente

nella letteratura psico – pedagogica di settore da oltre 60 anni, a muovere dalle osservazioni

compiute in Inghilterra da A. Freud e D. Burlingham sui bambini privati temporaneamente della

famiglia durante la seconda guerra mondiale8.

In sintesi, ciò che ci serve davvero oggi è un’autentica promozione del valore e della

funzione naturali e irrinunciabili della famiglia a vantaggio dell’intera umanità, senza distinzione di

età: per i minorenni e per gli adulti, di politiche davvero familiari e non individualistiche e nemmeno

più quali risposte meramente economiche o di settore a emergenze o a situazioni di crisi, di

maggiori e più adeguati servizi sociali di consulenza e di intervento in rete tra loro, perché persone,

coniugi e genitori “non si nasce, ma si diventa”.

E’ indispensabile, allora, fare crescere nelle donne e negli uomini di oggi, lentamente e

amabilmente, il gusto della responsabilità e della scelta, commisurate e interconnesse tra loro.

8 Cfr. A. FREUD – D. BURLINGHAM, Bambini senza famiglia, Astrolabio – Ubaldini, Roma 1972.

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