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Michele Corsi - L’educazione come sistema, le proprietà dei sistemi aperti e viventi

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. PREMESSE .............................................................................................................................................. 3
2. ANCORA SUGLI ASSIOMI ..................................................................................................................... 4
3. I LIVELLI DI PERCEZIONE INTERPERSONALE E GLI STILI EDUCATIVO-COMUNICATIVI......................... 9
4. L’EDUCAZIONE COME SISTEMA E LE PROPRIETÀ DEI SISTEMI APERTI E VIVENTI ............................... 12

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1. Premesse

Uno dei libri che amo di più e che ha maggiormente contribuito alla mia formazione, letto

nell’ormai lontano 1971 (avevo allora 22 anni e mi stavo accingendo a discutere la tesi di laurea),

è quello scritto da Paul Watzlawick e Altri, intitolato Pragmatica della comunicazione umana. Un

testo che ho poi ampiamente rivisitato e riscritto dentro di me innumerevoli volte, proposto e

riproposto a schiere considerevoli di allievi, amici e studiosi. Sino a diventare quasi una seconda

pelle o un pezzetto non minore della mia mente e della mia anima.

Lo voglio tradurre ancora una volta qui, ad auspicabile vantaggio degli studenti di questo

Corso.

La sua proposta fondamentale e più incisiva, almeno a mio parere, ruota intorno a tre poli

di discorso e di analisi, di interpretazione e di conduzione degli eventi educativi: gli assiomi della

comunicazione, i livelli di percezione interpersonale con gli stili educativo – comunicativi che ne

discendono e la “lettura” della relazione educativa come sistema aperto, con le specifiche

proprietà che lo caratterizzano.

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2. Ancora sugli assiomi

In ordine al primo “tema”, il meta – assioma per eccellenza, l’assioma degli assiomi, afferma

che tutto il comportamento è comunicazione. Non esiste il non comportamento, non è possibile

non disporre di un quadro consapevole (o inconsapevole), consaputo (o meno), di abitudini,

atteggiamenti, credenze, stili e modalità relazionali. E ogni item del nostro dire e del nostro agire è

un messaggio di noi all’altro e non da ultimo a noi stessi.

La parola e il gesto creano un rapporto e l’evento è strutturato dalle parole espresse e dagli

atti compiuti dai soggetti coinvolti, comunque manifestati, indirizzati o interpretati.

Da qui il primo dei cinque assiomi proposti dall’Autore: è impossibile non comunicare, stante

l’interdipendenza, anzi l’identità precedentemente postulata, tra comportamento e

comunicazione.

Gli assiomi, in particolare, possono essere colti secondo due diverse prospettive di “servizio”

funzionali tra loro.

Essi, per un verso, si pongono come delle lenti, ciascuna per proprio conto e tutte insieme

sinergicamente, capaci di decodificare e analizzare la dinamica comportamentale –

comunicativa degli eventi interpersonali realizzatisi e, per altro, come regole di conduzione,

efficaci ed efficienti, della migliore relazione umana possibile.

Il primo assioma, comunque, sostiene che tutto nell’individuo ha significato di messaggio.

Anche il silenzio, l’immobilità posturale, un viso fermo e impassibile, raccontano qualcosa di noi

all’altro.

Il secondo assioma afferma che l’essere umano comunica usando due linguaggi: quello

numerico o verbale e quello analogico o non verbale.

Ogni persona cioè utilizza, nel rapportarsi col mondo (ma anche con se stesso, nel dialogo

interiore), entrambi i canali, sia pure con accentuazioni e composizioni diverse. Talora inibendo

quello verbale, ma non potendo disattivare quello non verbale, sia pure nel suo controllo estremo.

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L’altro, particolarmente il minore sin dalla nascita, è il prodotto originale, in seguito da lui

stesso rivisitato e ripensato, dei messaggi verbali e non verbali ricevuti dai suoi genitori e da quanti

sono stati accolti e vissuti come significativi nella sua vita. Comunicazioni che gli sono state

trasmesse in forma consapevole o meno e che, tipicamente nei primissimi anni di vita, sono andate

a comporre il primigenio zoccolo duro della sua personalità (naturalmente modificabile in toto o in

parte negli anni a venire), secondo l’intera psico – pedagogia contemporanea. Che è ciò che

Berne chiama “copione” (e su cui tornerò infinite altre volte nel corso delle prossime lezioni).

Due osservazioni, queste, che interrogano la responsabilità parentale e comunque quella di

ciascuno di noi allorché si relaziona con l’altro, che diventa così il terminale, capace di

difendersene o meno, delle comunicazioni trasmessegli (da qui l’ulteriore dovere della formazione

personale specie quando si tratta con soggetti più deboli e il pari dovere dell’attenzione costante

nell’uso di gesti e parole).

Non è un invito, il presente, a diventare tutti nevrotici ossessivi o in qualche modo pure

fobici.

Piuttosto, è l’imprescindibile sottolineatura che la relazione interpersonale si nutre della

comunicazione, che l’educazione è il processo – prodotto della comunicazione medesima, che

tutto è comunicazione e che essa si auto – determina, quindi, come potenzialità – attualità

educativa, che ogni moto della nostra bocca e del nostro corpo arriva all’altro (oltre che a noi

stessi) ed è dunque passibile di influenzarlo (e influenzarci). Di aiutarlo (e aiutarci) a crescere in una

realtà positiva o negativa, nel concreto o nel fantasmatico, nella normalità o nella sofferenza, nella

gioia o nel dolore. Non solo il bambino, ma naturalmente, o auspicabilmente con una maggiore

possibilità di auto – protezione, anche il coniuge o il convivente, il collega e l’amico, l’uomo della

strada ecc. E’ la sollecitazione a non essere quasi mai banali o distratti allorché si tratta da persona

con altre persone.

Una terza segnalazione: non c’è sempre congruenza tra il nostro dire e il nostro fare. A volte

ne siamo consapevoli e quasi l’agiamo appositamente per creare la reazione voluta o sperata nel

ricevente. Ma, talora, la complessità della nostra vita interiore e sociale ci porta a manifestare, con

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le parole, un qualcosa che la nostra mimica o buona parte di essa negano o fraintendono.

Originando così sconcerto e difficoltà nel partner (o nell’educando in genere) e

conseguentemente in noi allorché l’altro risponde ai messaggi che gli abbiamo comunque

trasmesso e che per noi avevano o dovevano avere, invece, ben altro significato.

Una quarta infine: le parole hanno in sé il rischio conscio o inconscio della menzogna, di

raccontare cose non vere, mentre i gesti, il linguaggio analogico, hanno in sé quello della voluta o

subita ambiguità anche interpretativa. Si ride o piange, ad esempio, per gli stessi motivi: per

stanchezza, per rabbia, per gioia. Anche se il contesto aiuta (e molto) a decodificare la

correttezza delle comunicazioni non verbali.

Da queste ultime due sottolineature discende la necessità per la persona, se davvero vuole

conoscersi e contemporaneamente conoscere l’altro, di prestare attenzione piena e reale a

entrambi i codici con cui si comunica e si interagisce, e a metterli in confronto tra loro. E’ l’unico

modo, tale indiscutibile “fatica”, per approssimarci al nucleo di verità che ciascuno di noi

rappresenta e che l’altro evidenzia per sé e per l’umanità in genere; il solo itinerario storicamente

percorribile per uscire dai tanti pregiudizi che ci riguardano e trascorrere, volendolo, da un inferno

di facili etichettature con cui riduciamo spesso noi e la collettività in un universo di timbri, con cui

bolliamo particolarmente gli altri come definitivamente conosciuti, impedendoci il più delle volte di

giungere a quella verità personale e relazionale che è pur sempre processuale e fissando noi e

l’altro nella possibilità di trasformarsi e di migliorarsi. E’ questo, in sintesi, un ottimismo critico della

ragione e della storia, di contro ai tanti pessimismi delle volontà individuali.

Vivere e inevitabilmente comunicare richiedono pertanto di tenerci sotto controllo e di

vigilare su tutto ciò che ci circonda, non dimenticandoci poi che molto, ad esempio,

dell’educazione rivolta ai minori, specie sul versante della patogenesi, discende maggiormente dal

non detto, dalle non parole, dal linguaggio delle emozioni e dei sentimenti, dalle atmosfere e dai

climi educativi interpersonali.

Sulla frontiera della normalità, che è quella che più fortemente occupa, preoccupa e

affascina i pedagogisti, il terzo assioma elaborato da Watzlawick interviene per rammentarci

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ulteriormente un’altra positiva regola di attivazione e conduzione di rapporti sani: l’interdipendenza

tra relazione, contenuto e contesto.

Una dinamica tra soggetti o gruppi è cioè positiva se i messaggi impiegati e trasmessi sono

coerenti con il tipo e la qualità dei ruoli e degli scambi sociali posti in essere e con l’ambiente in cui

l’evento accade.

Sicché: è imprescindibile parlare e agire da padre con un figlio e non da amico, da

insegnante con un allievo e non da genitore o seduttore, da marito o moglie con il compagno o la

compagna della vita e non da terapeuta o confessore, e così via. E c’è il luogo giusto per ogni

effusione verbale e non verbale.

Tutte le relazioni umane, ci ricorda poi il quarto assioma, si possono collocare e suddividere

in una sorta di continuum che procede dal massimo di parità dell’interazione simmetrica tra i

partner (come fra coniugi o conviventi, colleghi ecc.) al massimo di diseguaglianza nell’interazione

complementare tra i soggetti interessati dalla dinamica (fra genitori e figli, docenti e discenti,

medici e pazienti ecc.). Ogni rapporto è propriamente sano se si situa e addiviene nello schema di

riferimento che gli è proprio. Se si gioca a diversità conclamata o a lotta di potere, ad esempio,

nella relazione tra moglie e marito o a “siamo perfettamente eguali e tutt’uno” in quella tra

insegnante e allievo, queste due interazioni, per il fatto di essere male agite sul piano della loro

dimensione formale, originano tutta una serie di colpi bassi, fraintendimenti, ambivalenze,

distorsioni semantiche e interpersonali, cattiverie.

Infine il quinto assioma: ognuno di noi si coglie quasi sempre nell’atteggiamento di

rispondere al comportamento altrui e raramente di provocarlo. Quando è vero piuttosto il

contrario, magari in virtù del pregiudizio che abbiamo elaborato sull’altro, delle nostre intuizioni

pure distorte e delle competenze di cui disponiamo. Spesse volte, infatti, il messaggio di A è una

sorta di pre – risposta a quanto egli pensa che B senta o viva o ritenga di cogliere, e coglie

davvero, in A. In un’interdipendenza a spirale quasi senza fine, dove la comunicazione

conseguente (o supposta tale) di B è in grado di attivare un’ulteriore risposta di A, finché uno dei

due individui o entrambi non decidano di porre termine, almeno lì e allora, a quel loro rapporto.

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Questa punteggiatura della sequenza di eventi, così come la chiama Watzlawick, specie

quando distorta, porta a etichettare il comportamento dell’altro quale negativo e a coglierlo

erroneamente come la causa e non già come l’effetto delle nostre dinamiche personali. E’il caso,

ad esempio, del coniuge chiuso in se stesso che vive il partner come invadente nelle sue richieste e

nelle sue domande, mentre quest’ultimo si coglie costretto a “incalzare” proprio a motivo del

silenzio protratto e per lui inspiegabile del primo. E’la situazione dell’alunno che studia sempre

meno una determinata disciplina per il fatto di presumere che il docente della materia abbia nei

suoi confronti un giudizio negativo ormai irreversibile.

Globalmente, l’accadimento storico dell’evento comunicativo, con le sue inevitabili

cadute, sofferenze umane e patologie, richiede l’attivazione, al di là e al di sopra della

comunicazione avvenuta, di un processo di segno diverso che è la meta – comunicazione.

Quest’ultima modalità descrive un processo – prodotto tra i soggetti o i gruppi interagenti

che, per un verso, può avere il senso e la portata di porre fine a uno scambio di comportamenti –

messaggi rivelatosi conflittuale e, peraltro, significa, per chi l’opera, e auspicabilmente per

entrambi, l’assunzione della comunicazione intercorsa quale specifico contenuto di riflessione, al

fine di intenderla e migliorarla ulteriormente anche quando fosse del tutto soddisfacente o quasi.

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3. I livelli di percezione interpersonale e gli stili


educativo-comunicativi

A livello poi del secondo segmento, indicato all’inizio del paragrafo in ordine alla teoria –

proposta di Watzlawick, e relativo alla percezione interpersonale e agli stili educativo –

comunicativi che ne discendono, in forma assai breve si può dire che la percezione tra gli individui

si distribuisce secondo una scala che va, anche qui, dal massimo consentito della penetrabilità

relazionale al pari ed estremo opposto dell’impenetrabilità tra le persone in oggetto.

Dalla penetrabilità, intesa come comprensione e accettazione dell’altro in forma autentica

e profonda, conseguono gli stili della conferma e del rifiuto, singolari o reciproci;

dall’impenetrabilità, riguardata come impossibilità dell’accesso scambievole e della condivisione,

deriva quello della disconferma.

Una relazione sana tra soggetti altrettanto normali si caratterizza, pertanto, come una

giusta alternanza, statisticamente parlando, di conferme e di rifiuti, sia pure con percentuali talora

diverse. Conferme e rifiuti, ben inteso, sui contenuti manifestati ed espressi e non sulla persona

attrice di un determinato comportamento verbale e non verbale, che non è mai da mettere in

posizione di giudizio, che è fuori discussione, salva in se stessa.

Pedagogicamente, una corretta e ben motivata processione di conferme e di rifiuti, a

livello educativo, libera la persona dai due rischi opposti del possibile eccesso di narcisismo

(dovuto al surplus di conferme, poi interiorizzate sino a configurarsi come un tratto paranoico della

personalità destinato presto a impattarsi negativamente con la realtà della storia e della presenza

altrui) e del ritenersi un “incidente negativo” dell’umanità (per la stragrande quantità di rifiuti

esterni subiti).

Un esempio in proposito può essere desunto dall’esperienza scolastica e riguardare il primo

e l’ultimo della classe etichettati come il negativo per eccellenza o l’irrecuperabile per

antonomasia.

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Molte volte gli insegnanti, compiaciuti magari dalla competenza dimostrata dall’allievo

capace e dalla sua partecipazione pronta e costante (talora smodata) al dibattito in aula,

operano inavvertitamente a favore dell’accrescimento ipertrofico del suo io, con la conseguenza

di renderlo “quasi” inviso al gruppo dei compagni e con il rischio di farne un “diverso”, che un

qualche imprevisto insuccesso potrebbe addirittura far franare psicologicamente, con la

possibilità, certamente non esclusa, del suo recupero comunque dalla ferita occorsagli. E così pure

il cosiddetto “ultimo”, il pluri – rimandato o il pluri – ripetente, nei cui confronti il corpo docente ha

deciso di non scommettere più educativamente, tanto da minimizzare o screditare ogni suo

possibile avanzamento ancorché modesto, può trovarsi nella condizione opposta di convincersi di

non valere, di contro alla sopravvalutazione del caso precedente.

Di segno totalmente differente è la disconferma.

Mentre i primi due stili (conferma e rifiuto) implicano il riconoscimento dell’altro come

persona, la disconferma ne nega ogni visibilità ed equivale al messaggio: “Tu per me non esisti”. E

nota giustamente Buber che non esiste pena più diabolica del vivere in un mondo (o con

qualcuno) che non si accorga sistematicamente di noi. Disconferma che può manifestarsi anche

come una catena ininterrotta di apparenti conferme e che, in ogni caso, per la persistente

univocità di una siffatta comunicazione senza soluzione di continuità, sta a indicare l’assenza di un

qualsiasi effettivo e reale interesse o giudizio per i comportamenti agiti.

Molte sono le forme di disconferma: la riduzione dell’altro (coniuge, figlio ecc.) a solo corpo

da curare, coccolare, amare, senza la benché minima presa in carico dei suoi sentimenti, pensieri,

problemi, ansie ecc.; l’assunzione dell’alunno su un unico versante di manifestazioni scolastiche: o

soltanto la competenza contenutistica acquisita o esclusivamente la sua condotta ecc.; il malato

riguardato totalmente dal punto di vista del suo organo in sofferenza o ristretto al numero della sua

posizione ospedaliera; l’anziano negato nella sua storia e considerato un oggetto da collocare o

guarire. Sono le tante espressioni della cattiva pigrizia di troppi soggetti che negano valore e

dignità alla vita altrui (e in questo modo anche alla propria), che hanno deciso di non accorgersi

degli sforzi compiuti dagli altri nel voler cambiare, migliorarsi, progredire, che prendono tutto sotto

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gamba e banalizzano ogni accadimento umano, magari limitandosi a pronunciare rigidamente e

ossessivamente la frase: “Va tutto bene, che problema c’è?”.

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4. L’educazione come sistema e le proprietà dei sistemi


aperti e viventi

E poi il terzo “capitolo” della proposta teorico – pratica di Watzlawick: l’interpretazione

della relazione comunicativa come un sistema aperto, con le proprietà che lo caratterizzano.

Sistema aperto perché continuamente modificabile e attraversabile da tutto ciò che lo

circonda: i venti della storia, la città o la nazione in cui si risiede, la politica, l’economia, i

cambiamenti del costume sociale, l’imprevisto, il clima ecc., e dove ogni parte, qualità o attribuito,

si trasformano funzionalmente a seconda di ciò che si sceglie di vivere e rappresentare. Un

rapporto caratterizzato cioè da un dinamismo intrinseco che neppure l’impossibile fissità può

bloccare perché lo stesso “immobilismo” è passibile di “movimento” nei pensieri e nei giudizi, nelle

emozioni, delle persone interagenti.

Tre le sue proprietà formali e operative: la totalità, l’equifinalità, la retroazione (e la

calibrazione o funzione a gradino).

La prima proprietà sottolinea il carattere di ineludibile e cogente interdipendenza tra tutte

le persone o i tratti di un sistema: il cambiamento, pur se minimo, in una qualche parte di esso,

implica il mutamento dell’intero sistema. E’così per la nascita di un figlio in famiglia, per l’ingresso di

un altro alunno in classe, per la nomina di un nuovo docente, per la scomparsa di qualcuno pure

se non eccessivamente significativo ecc.

E’un invito forte, anche questo enunciato, alla responsabilità individuale e collettiva già

sottolineata nella trattazione sin qui svolta: il nostro comportamento, ancorché di grado minore,

influenza sempre l’atteggiamento dell’altro e del gruppo e deve essere, quindi, l’espressione di una

decisione non casuale o banale, bensì la manifestazione di una scelta comunque pensata.

Auspicabilmente pure da parte di un bambino. Il che non vuol dire difettare in spontaneità e

autenticità, quanto piuttosto essere davvero tali, nel rispetto di sé e dell’altro.

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Di segno contrario è l’irresponsabilità umana in situazione: un gioco talora perverso teso

piuttosto alla distruzione e allo sfascio, invece che alla costruzione di individualità sane, nella

migliore armonia tra loro.

La seconda e la terza proprietà insistono sul dato di trasformazione della relazione: le stesse

cause non sortiscono gli stessi effetti e viceversa i medesimi effetti non sono la conseguenza delle

medesime cause (in mezzo ci sono le decisioni e i vissuti delle persone coinvolte); nell’interazione

c’è insopprimibilmente un dato di feed-back comunicativo che depone a favore o della massima

stabilità consentita del sistema (la retroazione negativa) o del suo rapido e significativo

cambiamento (la retroazione positiva).

In questa prospettiva, la calibrazione (o funzione a gradino) si ritaglia come un’esortazione

a introdurre, quanto più possibile, in ogni sistema, un elemento di moderazione e di trasformazione

graduale e convenuta: ogni sommovimento veloce rischia sempre di provocare qualche ferito o

qualche morto. Così con i figli che crescono, particolarmente con quelli adolescenti; con gli alunni

che progrediscono negli anni e nelle competenze; nella coppia che invecchia; nelle relazioni

istituzionali ecc.

Ancora: un figlio che nasce, si ammala o muore (in virtù dell’equifinalità) può unire

maggiormente una coppia o separarla definitivamente; da una crisi coniugale può uscire una

coppia più matura o irrimediabilmente persa; da qualsiasi evento positivo o negativo può

discendere un determinato comportamento o il suo opposto.

Complessivamente, l’ampia disamina di queste pagine conferma una posizione già

espressa in un mio scritto di qualche anno fa. Che, cioè, il migliore dei rapporti possibili con l’altro

(che si nutre di comunicazioni e non può essere diversamente) richiede la messa in campo di due

qualità o stili, fondamentali e irrinunciabili: l’offerta del tempo e la strategia dell’attenzione. Due

considerazioni conclusive, queste, che non soltanto riassumono l’intero significato etico,

pedagogico ed educativo della proposta di Watzlawick, ma pure quanto è stato sinora sostenuto

nelle dispense precedenti e si discuterà in quelle a seguire.

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