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“IL SESTO VAGONE DEL TRENINO

DIDATTICO: L’INTERDISCIPLINARITÀ”

PROF. FRANCESCO PAOLO ROMEO


Università Telematica Pegaso Il sesto vagone del trenino didattico:
l’interdisciplinarità

Indice

1 LE DUE FACCE DELLA “MEDAGLIA DIDATTICA” -------------------------------------------------------------- 3


2 L’INTERDISCIPLINARITÀ AL SERVIZIO DELL’INTEGRAZIONE ------------------------------------------- 4
3 STORIA DI UN CONCETTO ----------------------------------------------------------------------------------------------- 7
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 10

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)

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l’interdisciplinarità

1 Le due facce della “medaglia didattica”

Per il didatta l’interdisciplinarità, il sesto vagone del nostro metaforico trenino/didattico,

uno dei luoghi più importanti per l’apprendimento e la socializzazione, è una metodologia formativa

irrinunciabile che, attraverso il curricolo, rende l’insegnamento come anche l’apprendimento un

percorso al tempo stesso, cognitivo, l’imparare, meta-cognitivo, l’imparare a imparare, e fanta-

cognitivo, l’imparare a inventare1.

Disciplinarità e interdisciplinarità, approccio mono-cognitivo e meta-cognitivo diventano,

perciò, le due facce di una stessa “medaglia didattica”.

L’interdisciplinarità si propone come una strategia in grado di ospitare e potenziare percorsi

cognitivi di natura trasversale, derivanti quindi dall’ambiente di vita degli studenti, i cui

insegnamenti possono essere assimilati soltanto attraverso strutture cognitive, di primo e secondo

livello, provenienti da più statuti disciplinari.

Si propone, inoltre, come strategia didattica in grado di generare nella scuola una cultura

organizzativa inclusiva entro la quale far convivere emozioni, saperi e diversità, a partire dalla

analisi e poi dalla soddisfazione dei bisogni di integrazione dei bambini disabili, fino ad arrivare a

mappare quelli di cui le diverse etnie2 sono portatori.

1
Cfr. F. FRABBONI, F. PINTO MINERVA, Manuale di pedagogia e didattica, Laterza, Roma-Bari, 2013.
2
L’incremento migratorio che sta investendo l’Italia in questi ultimi anni e l’aumentato numero di minorenni non
accompagnati che, anche in inverno, raggiungono le nostre coste hanno indotto il nostro Paese a superare l’approccio
emergenziale e a pianificare un sistema di governance con l’obiettivo di individuare interventi più idonei per la tutela
dei minorenni non accompagnati, garantendo loro il diritto alla protezione, alla rappresentanza e all’accoglienza. Tra
questi, fondamentale è il diritto all’ascolto delle opinioni delle persone di minore età in tutti i processi decisionali che li
riguardano e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenere in adeguata considerazione le loro opinioni (art. 12 della
Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, CRC, ratificata dall’Italia con legge 176 del 27 maggio 1991.
Pur con l’idea di provvedere alla loro integrazione attraverso l’istruzione, nelle tante occasioni che ho avuto di ascoltarli
scopro con grande piacere che generalmente questi minori sanno parlare almeno due lingue, il francese o l’inglese in
base alla storia coloniale del paese d’origine e, a volte, anche l’arabo per la sposata cultura musulmana. In realtà, con
politiche sociali e della scuola più illuminate, questi minori non accompagnati potrebbero essere loro stessi risorse
importantissime per l’integrazione linguistica dei nostri studenti nel 2014 ancora al 27esimo posto su 63 Paesi coinvolti
nella quarta indagine sulla conoscenza dell’inglese realizzata da Ef Learning Labs, che da dieci anni misura la

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2 L’interdisciplinarità al servizio dell’integrazione

L’esperienza scolastica, infatti, rappresenta una tappa fondamentale della crescita personale

e sociale, tanto che sia gli insegnanti, sia i genitori dei bambini portatori di una qualche specifica

disabilità, reputano l’intervento della scuola, che apre spazi di autonomia cognitiva e affettiva

indispensabili per incamminarsi sulla strada mentale della prospettiva futura, come una delle

esperienze di sviluppo più ad alto potenziale generativo.

Naturalmente, va detto, non si deve confondere il campo formativo, nel quale opera la

scuola e i suoi operatori, con il campo terapeutico-riabilitativo, poiché questa confusione di ruoli e

funzioni potrebbe ripercuotersi negativamente sulle aspettative, non sempre realistiche, degli

studenti disabili che ne uscirebbero ancora più delusi, bensì comprendere che, andando oltre la

patologia/menomazione che determina uno specifico funzionamento, la scuola può senza ombra di

dubbio operare all’interno della dimensione dello svantaggio personale comunicativo ad essa

correlato.

Dunque, in primo luogo occorre che le scuole di ogni ordine e grado tengano sempre a

mente, senza per questo smarrirlo, il legame con il futuro, e gli insegnanti riescano a liberare il

bambino disabile da quel suo guscio di bambino per sempre, che lo inchioda nella sua patologia

identificandolo ad essa, per vederlo in prospettiva come l’adulto che potrà essere all’interno di un

sistema sociale nel quale gli verranno garantiti tutti i diritti di cittadinanza3.

Questa prospettiva che potremmo definire di relativismo scolastico favorisce il

ragionamento secondo il quale le limitazioni conseguenti ad una specifica disabilità sono sempre

competenza dell’inglese degli adulti nel mondo.


3
Cfr. M. ZANOBINI, M.C. USAI, Psicologia della disabilità e della riabilitazione. I soggetti, le relazioni, i contesti in
prospettiva evolutiva, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 213.

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relative ai contesti e per queste ragioni la scuola deve essere il primo contesto entro cui insegnare

agli studenti a superarle.

Il fine di questo lavoro scolastico svolto nello spazio esistente tra ciò che si vede, la

disabilità, e cioè che non si vede, la rappresentazione personale della disabilità, è quello di rendere

lo studente, prima con il supporto di insegnanti inclusivi, dopo autonomamente, capace di abbattere

simbolicamente e non tutte quelle barriere psicologiche, fisiche e sociali che non gli permettono di

vivere a pieno le fasi di strutturazione della sua personalità4.

Dunque socializzazione e apprendimento insieme, ancora comunicazione verbale e non

verbale e, per concludere, conoscenze enciclopediche, banchi e laboratori.

Solo queste condizioni di apprendimento possono favorire nello studente quel senso omerico

della scoperta che, andando oltre la propria antropologia, può muoversi, da un punto di vista

esistenziale, verso quel compagno di banco costretto da un handicap fisico a sedere e venire a

scuola in carrozzina, o verso quell’affascinante, ma ancora sconosciuta, cultura dei nuovi compagni;

quelli per esempio arrivati sulle nostre coste con gli ultimi sbarchi estivi a bordo di un gommone

straripante di gente ganese, keniota o nigeriana.

Così, il nostro studente Ulisse sarà in grado di mantenere alta la concentrazione senza farsi

distrarre dalle sirene del tempo accelerato e del consumismo, o dal suono delle campanelle che

scandiscono le sue giornate di scuola, di dilatare i suoi orizzonti culturali osservando ed ascoltando

4
In ambito sanitario, oltre a una medicina basata sulle evidenze e sulle prove scientifiche, l’Evidence Based Medicine,
esiste una medicina basata sulle narrazioni, la cosiddetta Narrative Based Medicine. Quest’ultima medicina fonda il suo
approccio e parte delle sue cure non solo sul concetto di desease, cioè sulla malattia in quanto patologia, ma anche su
quelli di illness e sickness, ovvero sulla percezione che l’individuo ha della malattia e sulle etichette attribuite
socialmente a questa e al malato. Nei contesti scolastici, la maturazione delle capacità narrative rispetto alla propria
malattia o disabilità, che equivale all’acquisizione di competenze meta-rappresentazionali in grado di manipolare,
modellare, i pedagogisti preferiscono utilizzare il verbo educare, in un’ottica di sviluppo le proprie immagini e metafore
mentali, può favorire, paradossalmente, la scomparsa, l’invisibilità, della stessa. [Cfr. L. GARRINO, La medicina
narrativa nei luoghi di formazione e di cura, Centro scientifico Editore, Milano, 2010 e C. MALVI, (a cura di), La realtà
al congiuntivo. Storie di malattia narrate dai protagonisti, Franco angeli, Milano, 2011].

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gli altri, sapendone cogliere le sfumature caratteriali, i temperamenti, gli agiti pulsionali, i bisogni e,

a partire da questi, riflettere sui propri.

L’altro studente, il cinese, l’albanese, l’egiziano, - ma in senso generale l’Altro inteso quale

soggetto diverso da me e portatore di un’autentica ed unica storia di vita - assieme agli insegnanti si

fanno, dunque, “specchio” in cui riflettersi, comprendersi e, guidati per mano, magari scoprirsi

cambiati.

Per queste ragioni, pensare e congetturare con la propria testa e sognare orizzonti possibili

respirando a pieni polmoni il senso dei miti e delle favole è un obiettivo importante della sosta in

questo nostro sesto metaforico vagone dell’interdisciplinarità.

Lo psicologo e pedagogista italiano R. Titone osservò come mentre negli altri stati il termine

«interdisciplinare» veniva utilizzato esclusivamente in ambito accademico o più precisamente

quando si parlava di ricerca scientifica, nel nostro paese parlarne era ormai diventata una

consuetudine, tanto che lo si utilizzava, e lo si utilizza ancora oggi, con una evidente trasposizione

didattica, già a partire dalla scuola primaria e secondaria5.

Questo è però il punto di arrivo, quindi diventa interessante, secondo lo studioso,

comprendere le origini del termine, ovvero la sua storia.

5
Cfr. R. TITONE, Dallo strutturalismo alla interdisciplinarità. Itinerari psicopedagogici, Armando, Roma, 1977, p.
106.

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3 Storia di un concetto

Nella tradizione classica umanistica, nello specifico quella che affonda le sue radici in

Platone e Quintiliano per poi in seguito allungarle fino ad abbracciare la cultura medioevale e poi il

Rinascimento, il concetto di interdisciplinarità era tradotto nella formula: «disciplina formale».

Questa formula non ha nulla a che vedere con la condotta o con il formalismo didattico, in

quanto si riferisce, data l’origine latina dei due termini, ad uno studio in grado di produrre una

strutturazione mentale, in altre parole una precisa «forma mentis».

Il termine «disciplina formale», cioè «efformatio mentis», è così antico da trovarne traccia

persino in alcuni trattati didattici scritti nel Medioevo, come il De disciplina scholarium dello

Pseudo-Boezio.

Più avanti nei secoli, troviamo il termine «educazione formale», la quale non vuol dire,

anche questa volta, educazione formalistica, ma formazione delle strutture fondamentali, e non

soltanto quelle della mente, della personalità.

Titone sostiene che l’elemento che regge il significato di questi binomi sia sempre il termine

«formale», che ha senso attivo e mai passivo, traducibile nel più moderno termine di

«fondamentale».

La tappa terminologica più interessante in questa storia del concetto è però quella raggiunta

dagli psicologi americani che all’inizio del Novecento, o giù di lì, attraverso alcune precorritrici

ricerche misero in luce un fenomeno nuovo che fu chiamato transfer of training, ovvero

«trasferimento dell’apprendimento».

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Il transfer of training è per questi studiosi un tipo di apprendimento estremamente concreto,

trasferibile da un campo ad un altro campo del sapere, che somiglia più ad una specie di

addestramento, in più mobile entro tutti i settori dello studio o delle attività umane.

Scrive Titone:

«Ma, prima ancora che si parlasse dagli psicologi di questo fenomeno in termini scientifici,

già nell’antichità era emerso un concetto equivalente. Lo troviamo in Platone. Ma Quintiliano,

soprattutto, nelle sue «Institutiones Oratoris», considera la formazione dell’oratore come uomo

completo basata sullo studio della eloquenza. La definizione che Quintiliano dà dell’oratore è «vir

bonus dicendi peritus», cioè non soltanto un uomo «buon parlatore», («dicendi peritus», «homo

loquens» e non «loquax»), ma «vir bonus», giacché il «bonus», cioè onesto e quindi con una

personalità ben formata, non aveva un senso strettamente moralistico, bensì corrispondeva a un

concetto greco molto più ricco, quello di «paideia», della formazione totale»6.

Il giovane che frequentava la scuola di Quintiliano, dunque, veniva formato, attraverso

l’oratoria, lo studio della grammatica, della lingua e l’eloquenza, cioè l’arte e la tecnica di parlare e

scrivere con efficacia in modo da persuadere e commuovere gli uditori o i lettori, a pensare e ad

agire rettamente, trasferendo, ecco che compare quì il concetto di trasferibilità, l’apprendimento da

un settore di studio a tutta la vita ed alla sua intera sua personalità.

Nell’epoca moderna è J. Locke ad utilizzare per primo il termine inglese «transfer», inteso

nel senso di un trasferimento mentale, mentre verso la fine dell’Ottocento vengono condotti i primi

esperimenti intesi a verificare se effetivamente, studiando una determinata materia, uno studente

6
Ibidem, p. 107.

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poteva essere avvantaggiato nello studio delle altre, altresì perfezionando le sue capacità di

pensiero, riflessione, deduzione logica, ecc.7

Quale fu dunque il risultato di quegli studi?

Denunziando una parte di essi una quota zero di «transfer», emerse che non era affatto detto

che studiando una certa materia, come per esempio il latino, la matematica o le applicazioni

tecniche, si formasse di conseguenza il pensiero logico.

Alcuni esperimenti evidenziarono addirittura una minima quota negativa di «transfer», cioè

che apprendendo una materia si apprendeva peggio anche un’altra.

Tutto, invece, dipenderà da come un insegnamento sarà condotto, dal modo con cui lo

studente si accosterà alla materia, dal modo con cui lo studente verrà accostato alla materia dal suo

insegnante.

La formazione e lo sviluppo del pensiero logico, in definitiva, dipende strettamente dal

modello didattico cui l’insegnante aderisce.

Apparendo ora finalmente più chiaro il nesso tra il concetto di interdisciplinarità e il

concetto di trasferibilità dell’apprendimento, i risultati ottenuti in seguito alle ricerche, condotte tra

il 1890 e il 1924 in classe e in alcuni laboratori dallo psicologo americano P.T. Orata sul «transfer»

a quota zero e sul «transfer» negativo, evidenziarono ancora meglio che l’effetto di trasferenza, così

possiamo chiamarlo, non è mai un processo automatico, anzi è sempre condizionato da alcune

precise condizioni che l’insegnante deve sempre tenere presente affinché un apprendimento

settoriale possa influenzare, producendo così un effetto interdisciplinare e propagativo, l’istruzione

in generale, le abitudini, il comportamento dello studente e tutte le altre forme di attività umana.

7
Cfr. P.T. ORATA, Evaluating Evaluation, in “Journal of Educational Research”, n. 33, 1940.

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Bibliografia

 Frabboni F., Pinto Minerva F., Manuale di pedagogia e didattica, Laterza, Roma-Bari,

2013.

 Garrino L., La medicina narrativa nei luoghi di formazione e di cura, Centro scientifico

Editore, Milano, 2010

 Malvi C., (a cura di), La realtà al congiuntivo. Storie di malattia narrate dai protagonisti,

Franco angeli, Milano, 2011.

 Orata P.T., Evaluating Evaluation, in “Journal of Educational Research”, n. 33, 1940.

 Titone R., Dallo strutturalismo alla interdisciplinarità. Itinerari psicopedagogici, Armando,

Roma, 1977.

 Zanobini M., Usai M.C., Psicologia della disabilità e della riabilitazione. I soggetti, le

relazioni, i contesti in prospettiva evolutiva, Franco Angeli, Milano, 2005.

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