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1.

1
L’oggetto di studio della psicologia sociale è costituito dall’attività mentale e dai comportamenti dei
soggetti immersi nella vita sociale, che agiscono cioè in uno stesso spazio sociale e che, con le loro
azioni, si influenzano reciprocamente. Il lavoro degli psicologi consiste nel capire il modo in cui il
pensiero, il sentimento e il comportamento degli esseri umani vengono condizionati dalla presenza
degli altri.
Quando si studia il comportamento in un contesto sociale, le risposte agli stimoli mostrano alcune
regolarità dipendenti dall’eredità biologica, e altre sortite da un accordo tacito tra I membri della
collettività. Il sistema di modelli e aspettative di una società costituisce la struttura sociale.

1.2
La famiglia, la scuola e il lavoro sono i tre contesti primari di cui un individuo entra a far parte nel
corso della vita. La famiglia è un contesto costitutivo, una base sicura dal punto di vista affettivo-
relazionale. La scuola viene organizzata in modo ciclico, per struttura e contenuti didattici. Il terzo
contesto, il lavoro, entra a far parte dei bambini in maniera indiretta, attraverso I genitori.
L’interazione fra i tre sistemi è uno dei cardini dei presupposti socio-educativi. La famiglia sceglie
la scuola, la scuola si adatta alla famiglia e ai suoi orari, eccetera.

Prima infanzia: Da 0 a 3 anni – contesto familiare


Età prescolare: Da 3 a 6 anni – contesto scolastico e familiare
Età scolare: Da 6 a 10-11 anni – maggiore autonomia
Preadolescenza e adolescenza – età delle crisi, scuole superiori
Età adulta – secondo ciclo della famiglia e della vita

Lo psicologo Urie Bronfenbrenner teorizza il modello ecologico, ovvero l’ambiente di sviluppo


del bambino costituito da sistemi più specifici che sono in relazione tra loro secondo un modello di
cerchi concentrici.
Al centro vi sono i microsistemi, cioè i contesti di attività, ruoli e relazioni che favoriscono, nella
vita del bambino, il coinvolgimento di relazioni via via più complesse: ne sono esempi la classe, la
famiglia, il gruppo dei pari.
L’insieme delle relazioni che legano più microsistemi costituisce il mesosistema, in cui il bambino
vive e fa esperienze, come la scuola, intesa come ambiente in cui entrano in relazione la famiglia,
gli amici, i docenti.
Il mesosistema è a sua volta inscritto nell’esosistema, il quale si riferisce a situazioni in cui il
soggetto non è direttamente coinvolto, ma da cui viene influenzato, come la situazione lavorativa
dei genitori.
Ad abbracciare tutto, infine, c’è il macrosistema, che costituisce la situazione culturale
complessiva: ne sono un esempio le politiche sociali ed economiche del Paese nel quale il bambino
vive, così come le tradizioni culturali che lo caratterizzano.

1.2.1.
La prima relazione avviene con la madre: dai due mesi di vita, la coppia (relazione diadica) è
capace di sviluppare tratti riconoscibili di schemi interattivi. Dopo i due mesi, il bambino comincia
a regolare le proprie interazioni non sulla sola base delle necessità biologiche. Dai cinque mesi
matura le capacità di manipolare oggetti per stabilire relazioni. Dopo il nono mese sarà in grado di
spostare l’attenzione sulla madre e sull’oggetto, compiendo atti intenzionali di ricerca di attenzione.
Da uno a due anni sviluppa la capacità di riconoscersi allo specchio. Dai diciotto mesi amplia le
proprie relazioni all’esterno della sfera familiare, ovvero con altri familiari e compagni di gioco. In
questo periodo aumenta anche la pressione dei genitori per acquisire norme di comportamento di
condotta: in questo senso è importante la routine, che permette al bambino di comprendere le regole
e l’autocontrollo.
Intorno al secondo anno inizia ad acquisire il linguaggio, e fino ai cinque affina tutte le proprie
capacità. In questa età comprende di essere un essere a sé stante rispetto ai genitori e alle altre
persone, e comincia ad esplorare e a desiderare più autonomia, mentre i genitori si preoccuperanno
per la sua incolumità: in questa fase lo scontro è inevitabile, per via di una fase di egocentrismo
(ovvero soddisfacimento dei propri desideri) fino ai 4–5 anni.
Tra i due e i tre anni aumentano le relazioni coi coetanei, che si basano su una simmetria del potere,
mentre quelle con gli adulti sono asimmetriche.
Superata la fase diadica dei primi anni di vita, il bambino viene inserito in gruppi prima variabili e
non duraturi, poi, in età scolare, farà parte di gruppi sociali nei quali si entra sulla base di norme più
rigorose, a cui bisognerà aderire se si vorrà farne parte.

1.3.
La socializzazione è quel processo mediante il quale un individuo acquista le conoscenze e i
sentimenti e le abilità per partecipare più o meno attivamente alla vita sociale.
Socializzazione primaria – si realizza nei primi anni di vita, principalmente in contesto familiare.
Socializzazione anticipataria – prepara alle esperienze di vita sociale future.
Socializzazione secondaria – favorisce l’adeguamento alla realtà sociale esterna alla famiglia.

1.3.1.
Gli individui svolgono attività stando principalmente in gruppo. Un gruppo è formato da persone
interagenti, che spesso sentono un senso di appartenenza comune. Un fattore negativo può essere
l’esclusività del gruppo. Differente è l’aggregato, che raggruppa persone in maniera casuale (come
per esempio degli sconosciuti su un autobus). I gruppi primari sono dei gruppi che interagiscono
per un lasso di tempo lungo: esempi sono la famiglia, il gruppo dei pari, le piccole comunità.
I gruppi secondari non sono vincolati da legami affettivi, come gli studenti universitari, ma
possono comprendere al loro interno dei gruppi primari. Nel modello circolare ogni membro
interagisce trasmettendo e ricevendo informazioni allo stesso modo; nel modello radiale emerge un
leader che funge da coordinatore.

1.3.2.
Etienne Wenger e Marshall Mc Luhan teorizzano e sviluppano le comunità di pratica, gruppi di
persone accomunate da un obiettivo o una passione, che interagiscono e collaborano per il
miglioramento collettivo. Una risorsa fondamentale è il mutuo aiuto e non esiste una gerarchia
esplicita.

1.3.3.
Per educazione interculturale si intende l’individuazione, all’interno di un progetto educativo, di
un percorso di interazioni tra soggetti appartenenti a diverse culture e mirante a superare il
monoculturalismo. Storicamente, vigeva in USA il paradigma assimilazionista, che prevedeva che
lo straniero si immettesse nella società e la accettasse rinunciando ai suoi valori. L’assimilazione
segmentata è invece l’integrazione degli stranieri sulla base del segmento di popolazione cui essi
aspirano. L’UNESCO, nel 2006 pubblica le Guidelines on Intercultural Education, affermando tra le
altre cose che l’educazione multiculturale prevede di usare apprendimenti di altre culture per
produrre accettazione o tolleranza, mentre l’educazione interculturale si propone di andare oltre la
passiva coesistenza, promuovendo il dialogo tra culture diverse.

2.1.
La comunicazione è valida quando il messaggio è comprensibile e ha un valore univoco per tutti.
Può essere verticale tra persone di autorità diverse, o orizzontale, tra pari. Può essere inoltre
simmetrica, quando i due interlocutori si pongono sullo stesso piano, o complementare, nel
momento in cui uno dei due interlocutori si trova in una situazione di superiorità.
2.2.
Il linguaggio nasce, secondo l’ipotesi evoluzionista, all’origine dell’essere umano, e si è sviluppato
nel corso del tempo; nasce invece più recentemente come risultato dello sviluppo del cervello,
secondo l’ipotesi emergentista. Il linguaggio è uno strumento indispensabile affinché la
comunicazione possa avvenire, ma esiste anche il linguaggio non verbale, la paralinguistica (un
insieme di gesti che sostengono il linguaggio), la prossemica (l’uso dello spazio).

2.4.
L’acquisizione del linguaggio nel bambino è uno degli aspetti più significativi: prima fa uso del
linguaggio non verbale con il pianto, poi, tra i 2 e i 6 mesi, compaiono le prime vocalizzazioni non
di pianto, ovvero le proto-conversazioni. Tra i 5-6 mesi, i suoni consonantici, tra i 6-7 la lallazione
canonica, a 7-12 la lallazione variata, fatta da combinazioni di vocali e consonanti complessi (pàpà).
A 16 mesi si espande esponenzialmente il vocabolario, e ancora più tra i 17-24 e tra i 24-36, età in
cui matura sempre più l’abilità di comunicare con più parole.

2.6.
Le teorie sul linguaggio infantile si occupano del modo in cui il linguaggio interagisce con la vita
del bambino. Piaget si concentra sullo schema cognitivo: lo sviluppo del linguaggio e lo sviluppo
del pensiero non sono correlati: lo sviluppo cognitivo precede quello del linguaggio, e lo sviluppo
del linguaggio non è necessario allo sviluppo cognitivo. I primi schemi che il bambino impara sono
quelli senso-motori, e verso i diciotto mesi questo stadio viene superato e con la comparsa del
linguaggio il bambino impara a rappresentare.
Per Vigotskij invece l’acquisizione del linguaggio (soprattutto tramite la comunicazione sociale)
condiziona fortemente lo sviluppo cognitivo: la sua acquisizione funziona da tramite tra il pensiero
e la vita sociale. Sino ai due anni il bambino usa il linguaggio per comunicare il proprio pensiero,
poi il linguaggio assume una funzione regolativa, attraverso un processo di interiorizzazione. La
completa interiorizzazione avviene intorno al settimo anno, mentre prima è ancora possibile vedere
i bambini ricapitolare a sé stessi le attività svolte. Egli teorizza inoltre una zona prossimale di
sviluppo, che si trova tra il livello potenziale di sviluppo, ovvero quei comportamenti messi in atto
con l’aiuto di un adulto, e il livello effettivo di sviluppo. Dall’interazione tra i livelli potenziali ed
effettivi, il bambino apprende un’autonomia di azione e di pensiero.
Bruner riporta l’attenzione sulla funzione sociale del linguaggio (teoria dell’apprendimento sociale),
riproponendo i contenuti di Vigotskij.
Skinner si approccia allo studio del comportamentismo, secondo cui l’apprendimento del
linguaggio avviene, come per altri apprendimenti, tramite il rinforzo, e quindi con l’associazione
stimolo-risposta. Per Chomsky invece il linguaggio è qualcosa di presente intrinsecamente
nell’essere umano, con la competenza innata di capire le regole sottese all’apprendimento della
grammatica propria delle diverse lingue, chiamata LAD (language acquisition device).

3.2.
Il modello Gordon è un modello educativo incentrato sulla comunicazione e l’importanza delle
relazioni tra individui, utile per comunicare efficacemente con gli adolescenti. Propone agli
insegnanti di assumere il ruolo di facilitatore, ascoltando attivamente e sostenendo la crescita
dell’individuo tramite l’empatia.
4.1.
Lo sviluppo è un processo evolutivo di un organismo con modificazioni di struttura, di funzione e
di organizzazione. Tale processo può avvenire per motivi intrinseci (maturazione di capacità innate),
influenza dell’ambiente e apprendimento. L’apprendimento è soggetto ad acceleramenti,
regressioni o arresti a seconda delle sollecitazioni dell’ambiente.
4.2.
La psicologia dell’età evolutiva studia ciò che avviene dall’infanzia sino all’adolescenza.
L’obiettivo del percorso di crescita è il raggiungimento della maturità e l’acquisizione delle capacità
cognitivo-sociali.
La psicologia del ciclo di vita, invece, cui ha dato un forte contributo Erikson, studia come le
persone si adattano alle diverse tappe dell’esistenza e come acquisiscano consapevolezza del
calendario biosociale, ovvero di quell’insieme di scadenze che scandiscono i passaggi evolutivi,
come l’arrivo dei figli o il matrimonio. Per Erikson l’uomo ha l’obiettivo di costruire un senso di
identità.
La psicologia dell’arco di vita (Vigotskij) tiene invece in considerazione i fattori sociali e culturali
in cui una persona è inserita. Non conta più l’età per spiegare i cambiamenti comportamentali, in
quanto vi è un processo di crescita continua.
Per quanto riguarda l’apprendimento, vi sono diverse teorie:
la visione ambientalista (Locke) prevede che la mente di un bambino sia una tabula rasa e che ogni
caratteristica sia plasmata dall’esperienza e dall’apprendimento dall’esterno.
Secondo la visione naturalista (Rousseau) le predisposizioni naturali minimizzano l’effetto
dell’educazione e dell’esperienza.
La teoria evoluzionistica di Darwin prevede che le mutazioni, ovvero i processi di adattamento
all’ambiente, si mantengono nelle generazioni in virtù della loro utilità. Vi è una prima fase di
selezione naturale basata sulla sopravvivenza del più adatto, e una seconda fase di specializzazione,
nella quale i caratteri vincenti vengono trasmessi alle generazioni future, che risulteranno diverse da
quelle iniziali.
L’approccio sociologico (Durkheim) sostiene il primato della società nello sviluppo individuale.
Secondo questa teoria, è la società che condiziona obiettivi e bisogni, per cui un individuo si forma
a partire dalla sua appartenenza a un gruppo sociale. Secondo questa teoria, l’istruzione mira
all’integrazione sociale dell’individuo.

4.2.1.
Le principali teorie dello sviluppo sono il filone comportamentista, quello organismico e quello
psicoanalitico.
Secondo i comportamentisti, il cambiamento dipende dagli stimoli proposti dall’ambiente, per cui il
bambino tenderà a ripetere le sequenze comportamentali rinforzate dall’esterno e a evitare quelle
che ottengono rinforzi negativi. La corrente più radicale si esprime con i concetti di
condizionamento classico [i cani di Pavlov: il cane sbava (risposta incondizionata) quando riceve
del cibo (stimolo incondizionato), all’arrivo del cibo viene associato un suono (stimolo
condizionato), in seguito il cane sbava anche con la comparsa del solo suono (risposta
condizionata)] e di condizionamento operante, introdotto da Thorndike e approfondito da Skinner,
secondo cui l’apprendimento avviene tramite un rinforzo di una delle risposte presenti nel contesto.
In uno dei suoi esperimenti, Skinner notò che un topo in gabbia, premendo casualmente una leva
che faceva arrivare del cibo (rinforzo), apprendeva ad abbassare quella leva per ottenerlo
nuovamente. Si era verificato un condizionamento operante, avvenuto cioè spontaneamente. I
comportamenti rinforzati positivamente tendono a ripetersi, quelli rinforzati negativamente tendono
a scomparire.
Anche la teoria dell’apprendimento sociale di Bandura è di stampo comportamentista, ma si
discosta da quello radicale per l’importanza dell’osservazione come mezzo di apprendimento anche
in assenza di rinforzo. In questo caso l’apprendimento avviene tramite l’imitazione di modelli,
chiamato processo di rinforzo vicariante, per cui le conseguenze relative al comportamento del
modello hanno lo stesso effetto sull’osservatore. Il bambino assume un ruolo attivo
nell’elaborazione degli stimoli provenienti dall’esterno. I rinforzi non arrivano più dall’esterno ma
sono l’elaborazione individuale degli stessi (rinforzi intrinseci).
L’approccio organismico considera l’individuo come un organismo attivo teso a realizzare le
proprie potenzialità. Il bambino costruisce la propria comprensione di sé e dell’ambiente tramite un
continuo interscambio con l’esterno. Piaget sviluppa la teoria stadiale, dividendo in fasi precise lo
sviluppo che nasce dall’interazione individuo-ambiente. Secondo Vigotskij invece lo sviluppo
origina dall’interiorizzazione delle norme culturali, per cui fin da subito il bambino manifesta di
possedere un’attività intellettiva fortemente condizionata dal contesto e allo stesso tempo legata allo
stesso.
Werner propone invece un apprendimento che parte da una matrice di ordine biologico. Egli
sostiene che lo sviluppo parte da un insieme indifferenziato, dal quale si procede per tappe a una
differenziazione e organizzazione gerarchica. Anche lo sviluppo psicologico, quindi, procede da una
comprensione globale delle sensazioni e della realtà, ad una comprensione analitica.
Per Bruner lo sviluppo è cognitivo: esso non avviene per stadi, ma in risposta alle necessità di
sviluppare delle strategie per padroneggiare una determinata situazione. Il modo in cui le
informazioni vengono elaborate (rappresentazione esecutiva per l’azione, rappresentazione iconica
per l’immagine, e rappresentazione simbolica per il linguaggio) differenza i percorsi di sviluppo
dell’individuo.
Freud considera l’individuo come un organismo che cambia in risposta a dei conflitti interni.

4.3.
Per i comportamentisti, il cambiamento ha natura quantitativa, ovvero si presenta come somma
progressiva di piccoli cambiamenti nel tempo (teoria stimolo-risposta): sarà quindi graduale e
continuo nel tempo. La tesi qualitativa, invece, sarebbe la trasformazione conseguente a specifici
cambiamenti evolutivi, sostenuta dagli organismici come Piaget e Vigotskij: in questo caso la linea
temporale sarà discontinua, l’individuo passerà da una fase all’altra tramite cambiamenti improvvisi
che annunciano nuove acquisizioni.
I processi che causano il cambiamento sono ugualmente fonte di discordanza, tra i sostenitori delle
influenze ambientali (comportamentisti), che determinerebbero il comportamento del bambino;
quelli che attribuiscono maggiore importanza ai fattori genetici (innatisti), e quelli che trovano una
via di mezzo tra le due teorie (organismici), per i quali vi è una interazione tra fattori ambientali e
genetici che concorrono nel direzionare i processi di sviluppo.
Esistono anche posizioni intermedie che prevedono la compresenza di processi discontinui e
continui, ad esempio discontinui tra una fase e l’altra, e continui all’interno di una stessa fase.

4.3.4.
Perspective taking e role taking: capacità di assumere la prospettiva dell’altro. Selman li
considera un’abilità cognitiva volta a bilanciare e considerare contemporaneamente a livello
cognitivo e percettivo gli stimoli provenienti da un oggetto, e permette di vedere il mondo (e sé
stessi) dal punto di vista di un’altra persona.

Stadi di sviluppo:
Egocentrico (3-6 anni) non riconosce punti di vista differenti, confonde il mondo soggettivo con
oggettivo.
Soggettivo (6-8 anni) riconosce la differenza tra prospettive proprie e altrui ma non le mette in
relazione.
Autoriflessivo (9 anni) riflette sul proprio comportamento ponendosi nella prospettiva dell’altro.
Reciproco (11 anni) capisce che sia lui che gli altri possono prendere in considerazione diversi
punti di vista.
Sociale e convenzionale (oltre 12 anni) capisce che diversi punti di vista possono essere messi in
relazione tra loro quando fanno riferimento a un punto di vista generale.

4.4.
Lo sviluppo dell’identità è stato accomunato allo sviluppo dell’identità sessuale dalla psicoanalisi e
dalla teoria dello sviluppo psicosociale.
Secondo Freud, gli individui hanno gli istinti libidici (nei quali sono compresi gli istinti vitali) e
quelli aggressivi che evolveranno nell’istinto di morte.
Il bambino inizialmente è narcisista e agisce per ottenere la gratificazione dei propri istinti vitali. In
seguito, l’istinto andrà a investire diverse zone erogene: a seconda della zona, ci si riferisce a una
fase dello sviluppo: stadio orale (i primi diciotto mesi di vita), stadio anale (fino ai trentasei mesi),
stadio fallico (fino ai cinque anni), stadio di latenza (fino agli undici anni), stadio genitale (fino ai
diciotto anni). Nel corso dello stadio fallico il bambino evolverà le tre strutture fondamentali della
sua personalità: l’Es (le pulsioni), l’Io (il rapporto di mediazione tra le forse aggressive dell’Es e il
mondo esterno) e il Super Io (la base del dovere e della moralità).

4.5.1.
Jung, sviluppatore della Psicologia Analitica, vede la vita dell’individuo come un percorso di
individuazione del sé personale a confronto con l’inconscio collettivo. In questo percorso egli si
scontra con i tre archetipi della propria personalità: la Persona (la maschera che indossiamo quando
siamo in società), l’Ombra (gli istinti che tendiamo a reprimere), Animus e Anima
(rispettivamente la parte maschile nella donna e la parte femminile nell’uomo, generalmente vista
nell’altro sesso e cercata nel partner) e il Sé (la parte culminante del percorso).

4.6.
Erikson sviluppa la teoria dello sviluppo psicosociale (o dell’apprendimento sociale), che
attribuisce notevole importanza alla dimensione socio-culturale nei suoi stadi e ridimensiona la
componente sessuale. Importante è l’interazione tra individuo e ambiente. Lo scopo dell’uomo è il
raggiungimento di una propria identità, passando attraverso degli stadi che prevedono una conquista
o un fallimento: essi sono momenti psicosociali, e non momenti biologici come in Freud. Anche per
Marcia la definizione dell’identità dell’individuo si raggiunge attraverso delle crisi evolutive che
consentono di ridefinire il concetto di sé.

4.6.2.
Secondo Allport i tratti sono innati, ma sono comunque il risultato dell’interazione tra sistema
psicofisico e rete sociale. Sono quindi strutture che si modificano in continuazione, stimolate
dall’esterno. Distingue i tratti comuni, quelli che abbiamo in comune con altre persone, e quelli
individuali, ovvero specifici, che rendono le persone originali. I tratti individuali si dividono in
cardinali (totalizzanti, che determinano il comportamento di una persona), centrali (secondari nella
personalità), e secondari (i gusti e le preferenze).

4.7.
Fromm, allievo di Freud, distingue tra istinti e pulsioni: i primi sono necessità legate al mondo
animale (fame, sete, sessualità), mentre le seconde sono frutto dell’evoluzione e riguardano la sfera
del desiderio e dei bisogni psichici e spirituali. Il carattere dell’uomo è inteso come il modo in cui
l’individuo usa la propria energia psichica in funzione delle proprie esigenze individuali in un dato
contesto sociale e ambientale.

4.8.
Lo sviluppo del senso morale negli individui: una norma morale contiene un valore affettivo-
emotivo, ovvero contiene un’indicazione emotiva di colpa se viene trasgredita, di orgoglio se viene
rispettata: le norme sono linee di condotta perché delineano i comportamenti. Alcuni studiosi hanno
posto un accento sui fattori esteriori (leggi, norme, etica), altri su aspetti intrinseci dello sviluppo
individuale.

Principali linee di pensiero:


Cognitivo-evolutiva: sviluppo del giudizio morale promosso dallo sviluppo intellettivo.
Comportamentista: sviluppo del comportamento morale tramite l’imitazione di modelli esterni.
Psico-analitica: sviluppo emotivo-affettivo alla base del controllo morale: il Super Io è generato
dall’interiorizzazione di norme e divieti parentali, e determina il passaggio dal principio di piacere
(l’uomo è dominato dal piacere) al principio di realtà.

Piaget sosteneva che la moralità può considerarsi un processo evolutivo. I bambini iniziano a
sviluppare un senso morale aderente solo al rispetto di regole dettate da un’autorità: le regole
vengono rispettate per la convinzione che a una condotta errata segua una punizione.
I bambini vivono inizialmente in una fase premorale, di assenza di regole (anomia, fino ai 4 anni),
poi di realismo morale (o morale eteronoma, fino ai 9 anni), nella quale il giudizio si basa sul danno
oggettivo arrecato e non prende in considerazione l’intenzionalità dell’atto. In seguito c’è il
relativismo morale (o morale autonoma, dai 9 anni), per cui la regola viene intesa come frutto di un
accordo e quindi discutibile; la validità dei principi morali è slegata dall’autorità che li impone; il
bambino capisce quindi il concetto di responsabilità soggettiva di un’azione.

Kohlberg sviluppa queste teorie delineando diversi stadi dello sviluppo morale:
Livello preconvenzionale (4-10 anni): le norme vengono rispettate per evitare una punizione, in
seguito per ottenere dei vantaggi;
Livello convenzionale (adolescenti/adulti): si seguono le regole per mantenere dei buoni rapporti, in
seguito per evitare la censura da parte delle autorità;
Livello postconvenzionale (solo alcuni adulti): si seguono le regole per mantenere un buon
funzionamento nella società, in seguito per evitare l’autocondanna e per seguire i propri principi
individuali.

La prospettiva comportamentista fa riferimento a Bandura e al Social Learning, secondo cui le


norme vengono apprese in base all’esperienza, ovvero per rinforzi positivi o negativi. Egli assume
una prospettiva di interazionismo cognitivo-sociale per cui nello sviluppo intervengono sia fattori
individuali che fattori ambientali. La teoria dell’apprendimento sociale si fonda sui processi di
rinforzo e modellamento vicario per poi spostarsi verso i meccanismi di autoregolazione che
permettono all’individuo di comportarsi in funzione delle conseguenze previste, evitando auto-
sanzioni dovute alla trasgressione dei valori morali.
Nella prospettiva psicoanalitica, Freud sostiene che la coscienza morale, (il Super Io) sia il risultato
del complesso edipico e del legame di dipendenza con i genitori. Il senso di colpa si configura come
conseguenza dell’azione censoria del Super Io. Per Klein, il bambino manifesta una comprensione
della coscienza morale già dalla prima infanzia; egli manifesta infatti aggressività nei confronti
della madre, e sperimenta un senso di colpa che lo spinge a seguire le norme, impaurito dalla
perdita dell’affetto. Per Jacobson, invece, riveste una funzione primaria l’Io Ideale, che si
formerebbe prima del Super Io e che guiderebbe il bambino nella comprensione di ciò che è giusto
e ciò che è sbagliato.
In generale, gli studiosi concordano sul fatto che la moralità si sviluppi per stadi successivi: ne
consegue che la personalità adulta riflette le caratteristiche sviluppate durante l’infanzia. In
particolare, gli anni dai sei ai tredici rivestono un ruolo fondamentale nella formazione della
personalità e del comportamento sociale.

4.8.4.
Hessen promuove lo sviluppo spontaneo di valori culturali tramite la salvaguardia della spontaneità
dello studente. Per lo studioso, il bambino vive una fase di anomia (momento biologico), in cui è
portato a seguire i suoi istinti e il suo egocentrismo; in seguito vive una fase di eteronomia
(momento sociale), nella quale entra a scuola ed è già capace di comprendere il significato di una
norma esterna; infine, nel periodo dell’autonomia (momento spirituale) egli vive l’ultima fase dello
sviluppo morale, momento che coincide con l’uscita dalla scuola.

5.
La pedagogia è la scienza che si occupa della formazione dell’uomo e della donna per l’intero arco
della vita. Esistono diversi campi: la pedagogia sociale, speciale, sperimentale, comparativa, della
comunicazione, ecc.
L’oggetto di indagine è il processo formativo dell’essere umano.
Agostino (354 d.C.- 430 d.C) analizza la dinamica tra maestro e discepolo: per lui, la vera
comprensione arriva quando facciamo spazio dentro di noi alla verità, al maestro interiore (che lui
identifica con Cristo), il quale, tramite l’illuminazione divina, permette la comprensione delle cose.
Il maestro deve favorire l’apprendimento, che però è sostanzialmente nelle mani del discepolo, che
deve sforzarsi per ottenere i risultati.
Comenio (Komensky, 1592-1670) propone la Pansofia, alla base della sua concezione pedagogica,
che può essere intesa come la sintesi delle forme del sapere, le quali devono avere una radice
comune, ovvero Dio quale creatore dell’universo. L’unitarietà del sapere trova la sua ragione
d’essere nel fatto che Dio è creatore della natura (investigata nelle scienze), della mente umana
(studiata con la filosofia) e delle Scritture (che raccolgono il sapere teologico). In base a questa
unitarietà del sapere, l’apprendimento può avere luogo tramite un unico metodo comune di
insegnamento. Egli teorizza quindi la Pampaedia, ovvero l’Educazione Universale, che riguardi
qualunque ambito del sapere, e che sia aperta a tutti, senza distinzione di sesso o ceto sociale.
La sua visione di pedagogia prevedeva una schola materna, diretta ai bambini fino ai 6 anni e volta
a stimolare i sensi e il contatto col mondo circostante, senza causare il distacco completo dalla
madre; una schola vernacula (dai 6 ai 12 anni) dove si impara la lingua nazionale e si curano le
memoria, l’immaginazione e l’astrazione; la schola latina (dai 12 ai 18 anni) per un sapere più
dettagliato con lo studio delle lingue classiche, delle arti e della fisica; infine l’accademia (dai 18 ai
24 anni) in cui si approfondiscono campi specifici del sapere.

5.2.
L’Illuminismo vede profondi cambiamenti sociali, segnati dalla rivoluzione industriale e
dall’ascesa della borghesia, una nuova classe sociale che ha costruito la propria ricchezza e ottenuto
il controllo degli stati europei, e che reclama l’uguaglianza degli individui a fronte dei privilegi di
cui ancora godono le classi nobiliari e clericali. Nell’Illuminismo, l’istruzione deve partire dallo
studio della realtà e deve essere universale, ovvero deve essere fornita al maggior numero di
persone ed essere gratuita e obbligatoria.
John Locke (1632-1704) è considerato un precursore dell’Illuminismo. Egli afferma che la mente
del bambino è una tabula rasa, e che viene progressivamente riempita dalle esperienze svolte. Le
esperienze producono sensazioni, che a loro volta producono idee semplici. L’intelletto associa poi
queste idee per analogia o le separa per differenze, creando idee più complesse e generali: in questo
modo si crea l’impianto conoscitivo dell’individuo. Per le classi meno facoltose egli propone le
working schools, che possano avviare le nuove generazioni alla vita lavorativa.
De Condorcet (1743-1794) proponeva una scuola che fosse accessibile a tutti, comprese le donne e
le classi meno abbienti, gratuita, oggettiva (che fosse libera da orientamenti religiosi) e legata alle
reali necessità produttive del Paese. Questi erano tutti obiettivi legati a un pensiero illuminista, che
eliminasse quindi l’emarginazione sociale (e allontanasse le tendenze alla delinquenza), che
garantisse l’uguaglianza dei cittadini e la libertà dell’uomo, allontanandolo dall’ignoranza.
De Condorcet proponeva una scuola comune suddivisa in primaria (della durata di due anni, nella
quale si imparassero le nozioni per partecipare alla vita sociale e produttiva) e secondaria (della
durata di due anni, nella quale si studiano le discipline scientifiche e la storia, pensata per chi non
doveva contribuire al bilancio familiare lavorando); gli Istituti (riconducibili alla scuola superiore), i
Licei (le nostre università) e la Società nazionale delle scienze e delle arti, che supervisiona su tutti
gli altri livelli.
Anche il contributo di Giambattista Vico (1668-1744) può essere ricondotto in parte al pensiero
illuminista: l’educazione deve essere diretta a tutti, mirando alla realizzazione di ogni individuo.
Egli si concentra sullo studio della storia come mezzo per ricercare la verità, e delle scienze umane
in generale. Per lui le discipline umanistiche devono essere affiancate a quelle scientifiche con pari
dignità.
Lo svizzero Jean Jacques Rousseau (1712-1778) si è distaccato in parte dagli illuministi del suo
tempo, affermando che l’educazione ci viene impartita dalla natura (lo sviluppo interno delle nostre
facoltà e organi), dagli uomini (per imparare a fare uso di queste facoltà) o dalle cose
(l’acquisizione delle conoscenze date dagli oggetti da cui riceviamo impressioni).
Rousseau espone il suo concetto di stato naturale, e di come il progressivo avanzare della cultura
abbia allontanato l’uomo da questa condizione idilliaca, senza dare giovamenti alla condizione
umana. In quanto creatura di Dio, la natura (e quindi l’uomo) è perfetta e incontaminata.
Distaccatosi dal suo stato naturale, l’uomo si è quindi corrotto con le strutture artificiali
identificabili con le culture dei singoli popoli. Tornando allo stato naturale, l’uomo si allontana dalla
guerra, l’opulenza, il lusso, ristabilendo l’uguaglianza di tutti gli uomini.
Egli parla quindi di educazione naturale, contrapponendo lo stato naturale dell’uomo con la
civiltà. L’individuo deve essere protagonista dell’apprendimento, senza tenere conto dei dettami
della società, in modo che si risveglino in esso quelle facoltà che gli appartenevano nello stato
naturale e che la cultura gli ha col tempo corrotto. Si parla di educazione negativa come di
rimozione di quegli elementi potenzialmente dannosi alla formazione. Bisogna rispettare le tappe
dello sviluppo del discente, e metterlo nelle condizioni di vivere delle esperienze. Altri concetti
importanti sono la progressività dell’educazione, per cui l’apprendimento deve calibrarsi sulle
capacità dell’individuo, e il rispetto dei reali interessi del fanciullo, che deve avvertire il bisogno di
compiere quell’esperienza. Il concetto rivoluzionario è che il bambino non è un adulto in miniatura,
ma un essere con una sua natura e una sua struttura: un concetto su cui si baserà l’attivismo.

5.3.
Nell’800, la pedagogia risente dell’influenza del Romanticismo, ossia di quel movimento che pone
l’irrazionale, il sentimento, l’intuizione, l’interiorità dell’essere umano, e una predisposizione al
sentimento religioso, in contrapposizione con la razionalità e la prospettiva meccanicistica
dell’Illuminismo.
Pestalozzi riprende l’idea dello stato naturale di Rousseau, proiettata in ambito romantico.
L’educazione deve risvegliare gli aspetti morali della natura umana, guidare l’uomo per mezzo
dell’amore e della fiducia, e risvegliare in lui il sentimento religioso. Egli delinea tre fasi nello
sviluppo umano: lo stato di natura, in cui l’uomo segue l’istinto; lo stato sociale, nel quale l’uomo
vive in contatto con gli altri; lo stato morale, che rappresenta l’approdo finale verso il quale tendere.
Il processo educativo mira a far convergere le tre forze che il bambino possiede: sentimento,
pensiero e volontà, rappresentati dai tre organi: cuore (i sentimenti), testa (la capacità di operare un
giudizio razionale) e mano (la forza che spinge l’uomo alle attività di carattere tecnico, pratico,
professionale, artistico). In parole più moderne, si parla di area affettiva, cognitiva e psicomotoria.
Pestalozzi propone il metodo elementare, che consiste in una didattica mirata alla comprensione
degli elementi costitutivi del sapere, e che si basa sul principio di necessità meccanica (per cui la
didattica deve sviluppare la moralità e le facoltà intellettuali), di organicità e continuità (guidando il
discente in maniera graduale) e di vicinanza e lontananza (dagli elementi più semplici e accessibili
al bambino, fino ai più generali e astratti).
Egli elabora anche il metodo intuitivo, così chiamato perché parte dall’intuizione elaborata sulla
base dell’esperienza concreta, tramite osservazioni fatte sul campo, così che il discente sviluppi i tre
concetti fondamentali per ordinare il suo pensiero: la forma (alla base della geometria e del
disegno), il numero (alla base della matematica), il nome (alla base del linguaggio).
In contatto con Pestalozzi era Frobel, un pedagogista tedesco che conia il termine Kindergarten per
un istituto da lui fondato nel 1837. Egli concentra i propri studi sull’infanzia, individuando le tre
fasi del lattante (che conosce il mondo attraverso i sensi), del fanciullo (che organizza e conosce il
mondo attraverso il linguaggio) e lo scolaro (per cui l’istruzione e l’intelletto diventano centrali).
Per lui, il maestro deve incentrare la sua attività sulla religione, le scienze e il linguaggio.
Herbart considera la pedagogia come una scienza autonoma (pedagogia scientifica, un sistema di
concetti sui quali si basa il modello dell’educazione), che trova i suoi fondamenti nell’etica (che è il
fine stesso della pedagogia) e nella psicologia, che deve indicare i mezzi necessari a raggiungere
questo obiettivo. Egli trova 5 valori etici che il discente deve riconoscere: la libertà interiore (la
coerenza tra la volontà interiore e la condotta), la perfezione (il compimento dell’individuo), la
benevolenza (l’armonia tra la volontà del soggetto e quella degli altri), il diritto (un accordo che
previene gli scontri e le lotte) e l’equità (la ricompensa per le azioni svolte). Come per altri
pedagogisti del Romanticismo, Herbart rifiuta l’innatismo, ossia le idee non sono innate nel
soggetto ma si costruiscono con l’esperienza, tramite le sensazioni. Il fine ultimo è la moralità
dell’uomo, che può essere raggiunta tramite tre tappe: il piano di governo (nel quale il maestro ha
molto controllo sul discente, tramite la sua moralità già formata. Il maestro può usare diverse
modalità di attuazione dei suoi compiti, come la minaccia, la sorveglianza, l’autorità e l’amore: le
ultime due sono le uniche che promuovano nel discente la capacità di auto-regolarsi), il piano di
istruzione (nel quale gli interessi dell’allievo devono essere stimolati) e l’autogoverno, una fase di
sintesi tra volontà e giudizio.
Herbart divide gli interessi in conoscitivi, di carattere oggettivo e che riguardano la conoscenza del
mondo (interessi empirico, speculativo, estetico) e partecipativi, di carattere soggettivo e che
sviluppano i rapporti sociali e umani (interessi simpatetico, sociale, religioso). Le due categorie
sono stimolate, per Herbart, rispettivamente dalle discipline di carattere scientifico e da quelle di
carattere umanistico.
I gradi formali, per Herbart, sono i momenti che definiscono le fasi dell’insegnamento. Essi sono
chiarezza (il maestro rappresenta l’oggetto all’allievo così che egli possa “vederlo”), associazione
(l’insegnante stimola l’associazione del nuovo oggetto con altri già presenti nella mente del
discente), sistemazione (dopo le associazioni fatte in modo intuitivo, si stabiliscono dei veri e propri
legami tra le idee già note e quelle nuove) e metodo (nel quale si applica praticamente quanto si è
appreso in modo ordinato).

5.4.
Il Positivismo è un movimento filosofico e culturale nato in Francia nella prima metà
dell’Ottocento, nel quale si esalta il progresso scientifico; per certi versi si avvicina all’Illuminismo
di cui condivide la fiducia nella scienza.
Auguste Comte (1798-1857) è ritenuto il fondatore del Positivismo, di cui elenca le accezioni
principali: il positivismo designa il reale in opposto al chimerico; rappresenta il contrasto tra utile e
inutile, tra certezza e indecisione, tra preciso e vago. Per lui lo sviluppo individuale si fonda
sull’esperienza e sull’osservazione dei fatti della realtà e della vita, e attraverso tre stadi della vita (e
dell’umanità): teologico, metafisico e positivo. Egli suggerisce di sostituire l’educazione teologica,
metafisica, letteraria, con quella positiva (essenzialmente scientifica), conforme allo spirito del
mondo moderno.

5.4.2.
Roberto Ardigò, tra i padri della psicologia scientifica italiana, si soffermò sul ruolo delle abitudini:
l’educazione infatti deriva da comportamenti sedimentati e certi. Egli conia il termine di confluenza
mentale, prediligendo il metodo oggettivo, insegnando poche cose per volta e tornando spesso su
concetti già spiegati; punta a far rinascere un’etica laica, dando all’uomo gli strumenti conoscitivi
per una scelta razionale.

5.5.
Lo psicologo William James è considerato il padre del funzionalismo. Per lui la mente è
caratterizzata da un susseguirsi di pensieri chiamato flusso di coscienza, che causano dei mutamenti
continui nella mente, per cui non ha senso definire dei momenti statici nella mente e scomporla in
elementi isolati. Il funzionalismo è quindi lo studio della finalità dei processi psichici (o funzioni)
nella loro globalità, senza scomposizioni della stessa in parti più piccole. Si contrappone allo
strutturalismo, nel quale è importante scomporre i processi nei suoi elementi costitutivi, come le
sensazioni, le immagini e gli stati affettivi.
Il funzionalismo attinge all’evoluzionismo di Darwin, e considera i processi mentali come metodi di
adattamento all’ambiente per favorire la sopravvivenza; l’adattamento si intende anche come
capacità di modificare l’ambiente circostante in modo da renderlo più rispondente ai propri bisogni.
Un altro aspetto fondamentale del funzionalismo è il pragmatismo, in base al quale lo studio della
mente va rivolto verso quelle funzioni che mostrano un’attività pratica.
Dei risvolti del funzionalismo in ambito pedagogico si sono occupati principalmente Dewey e
Claparède.

5.5.1.
Tra Ottocento e Novecento nascono le prime new schools in Europa e Stati Uniti: una serie di
istituzioni scolastiche diverse da quelle coeve, che servivano principalmente a formare le classi
dirigenti; nelle new schools si pone un forte accento sullo studio scientifico, della lingua e
sull’esperienza diretta: l’allievo non deve avere un atteggiamento passivo, bensì sperimentare e
comprendere l’attività pratica. Il pedagogista Ferrière fonda per primo una scuola nuova; in
seguito, Pierre Bovet usa il termine scuole attive per riferirsi alle scuole nuove, e delinea durante il
Congresso sull’educazione nuova (1921) le linee guida per l’azione educativa:
l’alunno deve essere posto al centro del processo educativo (puerocentrismo contrapposto alla
visione magistrocentrica); egli ha delle attitudini che vanno rispettate e stimolate, attraverso la
cooperazione tra alunni di entrambi i sessi; l’ambiente deve favorire l’apprendimento e le attività
devono svolgersi in piena libertà, senza un atteggiamento autoritario da parte del docente; si deve
evitare il ricorso alla memoria di tipo meccanico, favorendo la scoperta progressiva; tra alunni si
deve creare un senso di cooperazione e collaborazione che educhi alla cittadinanza.
Dalle scuole attive nasce il termine attivismo, i cui esponenti principali sono Dewey, Claparède,
Decroly, Montessori.

5.5.2.
Claparède svolge la sua attività di pedagogista prendendo spunto dal funzionalismo psicologico
(che studia le finalità delle attività mentali), dall’evoluzionismo darwiniano (le funzioni che hanno
portato l’uomo a sopravvivere ed evolversi), e utilizzando il metodo scientifico.
Egli studia le tappe del bambino individuando sei leggi di sviluppo funzionale: la legge della
successione genetica (le fasi dell’essere umano si succedono in ordine determinato, costante, e si
differenziano da quelle delle altre specie perché si svolgono in maniera più lenta), la legge di
esercizio funzionale (ogni funzione si sviluppa se viene esercitata), la legge dell’esercizio genetico
(l’esercizio di ogni attività permette l’esistenza di successive altre funzioni), la legge
dell’adattamento funzionale (un’azione si manifesta perché è finalizzata da un bisogno), la legge
dell’autonomia funzionale (il bambino non è un essere incompleto, viceversa la sua attività mentale
è funzionale ai suoi bisogni e al suo stadio evolutivo), la legge di individualità (ogni individuo ha
delle caratteristiche personali che necessitano di un’educazione personalizzata).
La scuola attiva propone in questo senso un’attività che ponga al centro l’alunno e i suoi bisogni,
che sia basato sull’esperienza e che sia personalizzato. Claparède individua diverse tappe per
l’apprendimento: bisogna risvegliare l’interesse dell’allievo, proponendo diverse attività che
soddisfino quell’interesse, facendo convergere gli interessi dell’allievo con le finalità del docente.
Egli teorizza una scuola su misura, con diverse soluzioni: le classi parallele (diverse classi formate
da allievi più bravi e altre formate da allievi meno dotati), le classi mobili (nelle quali alunni più
piccoli possono seguire lezioni con alunni più grandi e viceversa, a seconda dell’attitudine e del
livello), le sezioni parallele (nelle quali si dà risalto a discipline particolari, come nelle scuole
superiori), e il sistema delle opzioni (in cui si può scegliere, per una parte di ore, di dedicarsi a una
specializzazione particolare).
Decroly si interessò in particolare alle scuole attive e ai bambini diversamente abili. Il suo
approccio funzionalista si fonda sul soddisfacimento delle esigenze dell’allievo, che possono essere
soggettivo-psicologiche (legate alle sue necessità) e oggettivo-sociali (legate alla realtà che lo
circonda). Un elemento fondamentale è il centro di interesse, che nasce proprio dalle diverse
esigenze (l’esigenza di nutrirsi fa sviluppare l’interesse per il cibo, e così via): in questo senso,
bisogna impostare la didattica sui centri di interesse e non sulle discipline. Il programma di idee
associate si riferisce all’aggregazione di idee e concetti intorno ai centri di interesse.
L’ambiente è un altro elemento essenziale: Decroly promuove la socializzazione tra alunni e il loro
adattamento all’ambiente (anche tramite attività in campagna e in mezzo alla natura).
Le fasi di insegnamento si snodano attraverso l’osservazione di informazioni nuove in modo
personale e diretto, l’associazione di informazioni già acquisite con quelle nuove, e l’espressione di
quanto appreso con un qualche tipo di attività.
Decroly pensa che la conoscenza si debba presentare in senso globale, rispecchiando gli elementi e
la complessità con cui l’oggetto si presenta al bambino nella realtà. Egli applica la funzione
globalizzatrice per l’insegnamento della lettura (comprensione della frase nella sua interezza, poi
studio delle parole, lettere e sillabe, ovvero gli elementi costitutivi).
Don Bosco era un cattolico liberale, ossia ammetteva la conciliabilità della dottrina cattolica con i
principi liberali della separazione tra Stato e Chiesa. Fu fautore di una pedagogia povera, indirizzata
ad aiutare i giovani più disagiati. Il metodo cosiddetto preventivo serviva ad allontanare i giovani
dal disagio, e si basava su ragione, religione e amorevolezza.
Anche Don Milani, attraverso la Scuola di Barbiana, favorì una scuola destinata alle persone che
sarebbero state destinate a una situazione di subordinazione culturale e sociale.
Suo è il motto “I care” in contrapposizione con il fascista “me ne frego”. Egli usò il metodo del
mutuo insegnamento, che prevedeva l’insegnamento di qualcosa a un gruppo di allievi più dotati,
che a loro volta comunicavano con gli altri allievi.

5.5.6.
Maria Montessori sosteneva il Positivismo, secondo cui occorre utilizzare un approccio scientifico
allo studio del bambino, il funzionalismo, che prevede di assecondare i bisogni del bambino, e le
convinzioni di Rousseau e Frobel a proposito dell’atteggiamento del docente nei confronti del
discente. Montessori si colloca nell’attivismo pedagogico. Per lei il bambino deve esprimersi in
attività che reputa stimolanti e di cui sente il bisogno, cercando di avere un approccio attivo
(puerocentrismo opposto all’adultismo) e in collaborazione con altri alunni. Le classi non devono
essere composte necessariamente da bambini della stessa età; il maestro (con un ruolo più di
direttore che di insegnante) ha il compito di studiare il comportamento dei bambini per definire i
comportamenti da adottare. Gli insegnamenti della scuola dell’infanzia sono per lei il disegno,
l’aritmetica, la scrittura e la lettura. Gli ambienti sono a misura di bambino, e il bambino può aprire
la porta, andare in bagno, accendere la luce, eccetera. I materiali utilizzati sono ugualmente
importanti, e servono per la comprensione delle cose (per stimolare il senso tattile, per esempio,
vengono usate delle tavolette di materiali più ruvidi o più lisci).
Montessori crede nelle cosiddette tendenze umane, caratteristiche innate che dovrebbero guidare le
fasi dell’apprendimento (istinto di conservazione, orientamento all’ambiente, ordine, esplorazione,
comunicazione, eccetera). I bambini, avendo vissuto poche esperienze, hanno una mente assorbente
molto più sviluppata dell’adulto, e possono quindi imparare le cose in maniera più naturale. Ella
distingue il periodo della mente assorbente dagli 0 ai 3 anni, e della mente cosciente dai 3 ai 6: in
questa fase sente il bisogno di organizzare mentalmente i materiali già imparati precedentemente.

5.5.7.
John Dewey è il maggior esponente dell’attivismo. Delinea in cinque articoli fondamentali la sua
idea pedagogica: l’educazione è un processo che permette all’individuo di entrare in contatto con il
sapere dell’umanità; la scuola è un contesto nel quale si attuano i processi che costituiscono la vita
stessa; l’educazione deve essere attuata tramite l’esperienza, che è anche il fine al quale essa tende;
il metodo deve tenere conto della natura del bambino; il progresso sociale è garantito dalla scuola e
dall’azione educativa.
La scuola ha il compito di canalizzare i bisogni e gli impulsi del bambino verso attività educative,
invece di ignorarli o reprimerli. L’esperienza è alla base dell’attività, in quanto l’approccio teorico è
svilito se non affiancato dall’esperienza pratica; Dewey considera fondamentale il lavoro, sia come
mezzo per trasmettere al giovane abilità tecniche, sia per conferire alla scuola una utilità sociale.
Egli crede nel sistema democratico, e nella funzione che la democrazia ha di far esprimere ogni
individuo secondo quelle che sono le sue attitudini, nonché nella comunicazione come tramite per
l’educazione. Si delinea con lui l’intuizione che lo sviluppo dell’allievo avvenga in un contesto
sociale e collaborativo.
Il learning by doing (apprendere facendo), quindi attraverso l’esperienza, aiuta il bambino a
organizzare la sua coscienza, e non può essere sostituito da lezioni frontali o dall’apprendimento da
un testo. I libri sono utili ma devono essere affiancati dall’esperienza. La sperimentazione attiva
degli elementi appresi è detta project work.
Dewey traccia poi le caratteristiche del pensiero riflessivo: è un flusso controllato di idee, poste in
modo logico-consequenziale, che mirano a un obiettivo; questo flusso può essere un’ipotesi che
trova o meno conferma nella verifica sperimentale. Questo pensiero si differenzia da altri tipi di
pensiero (il flusso di coscienza, un fluire incontrollato di idee, l’immaginazione, un flusso ordinato
e logico ma frutto della creatività, e la credenza, che ha una sua coerenza ma che non è stata
provata). Il pensiero riflessivo si genera da una prima fase di suggestione, che determina il bisogno
di chiarezza, seguita dall’intellettualizzazione, nella quale il problema inizia ad essere inquadrato
nelle sue variabili fondamentali, seguita dall’ipotesi (o idea guida), nella quale vengono ipotizzati
dei metodi risolutivi; la quarta fase è il ragionamento in cui viene scelta la soluzione in maniera
analitica, seguita dal controllo delle ipotesi, volta a verificare la validità della fase precedente.
Per Dewey è importante non tanto accumulare esperienze ma proporne di significative, tramite i
principi di continuità (le esperienze devono essere fatte in continuità l’una rispetto all’altra), di
crescita (l’esperienza ha valore se permette di accrescere le abilità e le conoscenze del discente), e
di interazione (le esperienze sono frutto dell’interazione tra i fattori esterni o oggettivi, legati
all’ambiente, e interni o soggettivi, specifici di ogni individuo).
Roger Cousinet, esponente dell’attivismo pedagogico, credeva nell’autonomia del discente e nel
suo libero sviluppo, soprattutto tramite l’uso dei gruppi, da formarsi secondo le simpatie e le
predisposizioni dei bambini. Anche in questo metodo si ripensa la figura dell’insegnante, che non
deve presentarsi come onnisciente, ma lavorare accanto ai propri allievi sostenendoli nelle attività.

5.6.
Il Comportamentismo si è sviluppato principalmente in America e si occupa dello studio di
comportamenti osservabili; viene chiamato anche behaviourismo, e parte dall’idea che un individuo
è un organismo il cui apprendimento avviene mediante degli stimoli che pervengono dall’ambiente
esterno. Raggiunto dagli stimoli, egli fornisce delle risposte (comportamenti). Ciò che avviene nella
mente non è oggetto di studio: si parla di una scatola nera, che non desta l’attenzione degli studiosi.
Il soggetto in questo caso è un individuo relativamente passivo, che subisce l’influenza degli stimoli
esterni. L’obiettivo dei comportamentisti è osservare una risposta a degli stimoli: se questa è stabile,
il soggetto ha imparato a rispondere in un certo modo allo stimolo, ovvero si è verificato un
apprendimento.
Pavlov è famoso per i suoi esperimenti sui cani: egli si accorse che, alla vista del cibo (stimolo
incondizionato), i cani oggetto di studio producevano una vistosa bava (risposta incondizionata).
Questo comportamento è naturale e non corrisponde a un apprendimento. Quando però il cibo
veniva sistematicamente dato da un uomo con un camice bianco, o in concomitanza col suono di
una sirena (stimolo neutro), i cani iniziarono a sbavare anche in presenza del solo camice bianco o
del suono della sirena. A questo punto lo stimolo neutro diventa stimolo condizionato, e la sua
presenza produce una risposta condizionata. In questi studi emergono altri fenomeni specifici:
l’estinzione della risposta condizionata (se progressivamente lo stimolo condizionato non
accompagna più quello incondizionato;), il recupero spontaneo (il riapparire in modo rapido e
stabile della risposta condizionata, se lo stimolo condizionato riprende ad accompagnare lo stimolo
incondizionato), la generalizzazione (la tendenza a riprodurre la risposta condizionata in presenza di
stimoli simili, come un campanello dal suono differente) e la discriminazione (il fenomeno per cui il
soggetto impara a distinguere lo stimolo condizionato da uno simile).
Watson è considerato il padre del comportamentismo: egli afferma che un ambiente attivo è capace
di influenzare un soggetto passivo, il quale apprende solo se stimolato. Alcune connessioni stimolo-
risposta sono ereditarie, altre si apprendono, come nel condizionamento classico. Dai suoi studi
emerge che gli stessi stimoli a volte generano risposte diverse. Chiedendosi quale risposta fosse più
probabile nel tempo, egli delinea due leggi: la legge della frequenza, secondo cui la probabilità di
una risposta è direttamente proporzionale al numero di volte in cui tale risposta si verifica, e la
legge della recenza, secondo cui la risposta più recente è quella più probabile.
Con il passare del tempo, Watson arriva a minimizzare sempre più la componente ereditaria e le
conoscenze innate negli individui, arrivando a considerarle insignificanti, e concludendo che,
mediante il condizionamento e un ambiente appropriato, è possibile cambiare radicalmente i
comportamenti dei soggetti.
Thorndike ha dato un contributo importante al comportamentismo con i suoi esperimenti: un gatto
affamato veniva rinchiuso in una gabbia, ed esternamente veniva posizionato del cibo. Il gatto dopo
una serie di tentativi, capiva che l’azionamento di una leva apriva la gabbia. Questo comportamento
porta Thorndike a formulare la teoria dell’apprendimento per prove ed errori: al fine di raggiungere
un obiettivo, si adottano una serie di comportamenti casuali, fino a individuare quello che si ritiene
soddisfacente per arrivare allo scopo. Col passare del tempo, i gatti tendevano a eliminare i
comportamenti superflui, adottando subito quelli utili per uscire dalla gabbia. Da qui Thorndike
delinea le leggi dell’effetto (un comportamento che porta a uno stato di soddisfazione tenderà a
ripetersi) dell’esercizio (se un’associazione viene ripetuta spesso tende a rinsaldarsi, diversamente
tende a scomparire), e della prontezza (un soggetto trova stimolante compiere una azione quando è
sufficientemente maturo per farlo. Se non lo è, compierla lo porta in una situazione di disagio; se lo
è, ma non è nelle condizioni di metterla in atto, proverà ugualmente disagio). Egli sperimenta che la
soddisfazione condiziona il soggetto molto più che il disagio, e che il mero ripetersi di un’azione
non determina necessariamente un apprendimento. Infine, si convince che l’apprendimento può
verificarsi in presenza di un rinforzo positivo, ossia una ricompensa che segua il comportamento
desiderato. La dinamica diventa dunque stimolo-risposta-rinforzo.
Skinner, considerato il maggior esponente del comportamentismo radicale, introduce il concetto di
condizionamento operante. Egli delinea due tipi di comportamento: il comportamento
rispondente (un comportamento indotto da uno stimolo esterno che genera nel soggetto una
risposta, dinamica che si verifica nel condizionamento classico) e il comportamento operante (nel
quale il soggetto, pur senza grandi stimoli dall’esterno, produce una risposta al fine di ricevere un
effetto, ossia il rinforzo positivo). Il rinforzo è lo stimolo a posteriori, ovvero segue l’azione. A
differenza di quello rispondente, il comportamento operante è un comportamento attivo, in quanto il
soggetto opera nella realtà spontaneamente, e la natura della risposta dipende dalle sue
conseguenze.
Tramite esperimenti sugli animali, Skinner definisce con il termine shaping il modellamento, la
modificazione dei comportamenti. È un processo graduale, il risultato di un rinforzamento
differenziale dei comportamenti che, progressivamente, si avvicinano al comportamento target.
L’apprendimento viene condizionato da diversi fattori: l’ambiente che fornisce stimoli
(comportamento rispondente) oppure ai rinforzi che inducono a ripetere un comportamento
(comportamento operante); l’evoluzione della specie (variabili filogenetiche del soggetto); la storia
e le esigenze del soggetto (variabili ontogenetiche del soggetto). Skinner non considera variabili
interne al soggetto: anche la motivazione viene vista nella prospettiva di fornire sufficienti rinforzi
al soggetto.
Il rinforzo può essere positivo quando procura uno stato di soddisfazione, o negativo quando
elimina una situazione di disagio. La punizione è invece mirata a cancellare un comportamento
inadatto. Può essere positiva, quando induce uno stato di disagio (l’essere sgridati) o negativa,
quando allontana da una situazione piacevole (il divieto di uscire).
Il rinforzo è più efficace nel determinare un comportamento ma dipende da fattori quali la quantità e
la qualità (il premio o l’azione di sollievo), e dal ritardo del rinforzo (il tempo che intercorre tra la
manifestazione del comportamento e la presenza dello stimolo-rinforzo). Inoltre esso può essere
primario quando soddisfa necessità primarie (fame, sete, cura) o secondario (uno stimolo
inizialmente neutro che viene poi percepito dal soggetto come primario: lode, applauso, soldi).
Una volta che la risposta si è stabilizzata, occorre rinforzarla per mantenere il comportamento. Le
strategie più efficaci per Skinner sono lo schema a intervallo fisso (il rinforzo viene dato a
intervalli di tempo regolari e prefissati) e a rapporto fisso (il rinforzo viene dato dopo un certo
numero di volte in cui si attua il comportamento).
L’estinzione di un comportamento avviene quando, in presenza di quel comportamento, il rinforzo
non ha più luogo. In realtà si tratta di un altro tipo di apprendimento, in quanto il comportamento
ricompare al riapparire del rinforzo (recupero spontaneo). Esistono infine la generalizzazione e la
discriminazione come nel condizionamento classico.
Skinner critica la scuola attuale, in quanto gli obiettivi vengono appresi in maniera meccanica.
Oltretutto lo studente non è portato ad apprendere, perché il fine principale è quello di evitare
sanzioni (brutti voti, il dispiacere dell’insegnante, la derisione). Per avere comportamenti
desiderabili è preferibile il rinforzo che la sanzione. Inoltre, è sbagliata la modalità con la quale il
rinforzo viene fornito, ossia molto in ritardo rispetto alla prova scritta. Sarebbe invece opportuno un
feedback immediato. Infine, la strutturazione del programma non è graduale e stabilita in maniera
scientifica.
Skinner propone l’istruzione programmata, alternativa a quella tradizionale. In essa, il rinforzo
sostituisce la sanzione ed è fornito nei tempi giusti in modo da indurre motivazione; il percorso di
apprendimento è progressivo ed è stabilito in maniera scientifica; gli obiettivi sono misurabili, e il
percorso è personalizzato su ogni singolo alunno (sebbene gli obiettivi finali siano gli stessi per
tutti). Egli sviluppa delle macchine per insegnare, che presentino dei quesiti in maniera progressiva,
che diano un feedback immediato, che ripetano dei quesiti in base al numero di errori, o che passino
a uno stadio successivo se le risposte sono esatte.

5.7.
Tolman e Hull introducono il neocomportamentismo che segna un punto di rottura con il
comportamentismo classico, e un ponte con le teorie cognitiviste che focalizzeranno l’attenzione
anche su concetti come la mente e la coscienza, categorie che si rifanno a stati interni dell’individuo
e che differiscono dai comportamenti esterni. Il neocomportamentismo riconduce lo studio
scientifico su concetti che vanno oltre il semplice comportamento, come lo scopo e la memoria. Il
nuovo paradigma, vista la mediazione della memoria, dello scopo e di altre componenti
dell’organismo tra stimolo e risposta, diventa stimolo-organismo-risposta.

5.7.1.
Tolman sostiene che un individuo deve essere osservato nella sua totalità, senza doverlo limitare a
una serie di stimoli e risposte. Se Watson e Thorndike si erano dedicati allo studio di un
comportamento molecolare, inteso come insieme di eventi singoli (stimoli e risposte), Tolman si
dedica allo studio di un comportamento globale e non frammentato, che definisce comportamento
molare, in riferimento alla mole che contiene un alto numero di molecole.
Importanti sono i suoi studi sui ratti, divisi in tre gruppi e chiusi in tre labirinti identici. Il gruppo A
trova del cibo alla fine del percorso (rinforzo), mentre il gruppo B non ne trova. Il primo gruppo
apprende più velocemente la strada da percorrere. Il gruppo C non trova cibo fino al decimo giorno:
in seguito viene inserito il rinforzo come per il gruppo A, e il gruppo trova la strada molto più
velocemente. Ciò che si desume è che l’apprendimento può avvenire anche senza rinforzo; che
l’apprendimento avviene anche se non si manifesta alcuna variazione nel comportamento (i topi C
continuano a comportarsi come il gruppo B fino al decimo giorno, ossia hanno imparato ma si
verifica il cosiddetto apprendimento latente, ovvero l’apprendimento avviene ma non è
manifestato); bisogna distinguere tra apprendimento e performance: i topi C avevano già imparato
come uscire dal labirinto, ma hanno modificato la velocità nel farlo solo quando hanno trovato un
rinforzo. I ratti hanno quindi una memoria di quanto appreso, e queste competenze escono fuori
quando sono finalizzate a uno scopo. Il comportamento non è solo indotto da un rinforzo, ma è un
fatto intenzionale dettato da una volontà (comportamento intenzionale). I concetti di scopo,
memoria e intenzione aprono la strada alle teorie cognitiviste che analizzano gli stati interni
dell’individuo.
Tolman introduce inoltre le variabili indipendenti (ambientali, relative al tipo di compito da
svolgere nell’esperimento, e individuali, come l’età dei soggetti, i fattori ereditari, eccetera), le
variabili dipendenti (legate al risultato che i topi esibiscono nell’esperimento) e le variabili
intervenienti (che si frappongono fra le altre due, come l’appetito del ratto, la sua abilità motoria,
la propensione al compito, la forza di volontà).

5.7.2.
Albert Bandura svolge una serie di esperimenti sull’apprendimento per imitazione e
sull’aggressività che lo portano a formulare la teoria dell’apprendimento sociale. È un autore
fondamentale nel passaggio tra comportamentismo e cognitivismo.
Nei suoi esperimenti con la bambola Bobo, egli divide in tre gruppi dei bambini di età compresa tra
3 e 6 anni: il primo gruppo entra in una stanza nella quale un adulto mostra comportamenti
aggressivi nei confronti di una bambola, il secondo può invece osservare un adulto che non mostra
comportamenti aggressivi, il terzo è un gruppo di controllo che gioca liberamente. I risultati
mostrano che, se posti in condizioni di stress, i bambini che hanno osservato un modello aggressivo,
tendono a mostrare più aggressività degli altri; anche il modello non aggressivo viene imitato
dall’altro gruppo, ma in tono minore rispetto al comportamento aggressivo.
Questi risultati aprono la strada per il concetto di apprendimento osservativo (o vicario), che
avviene osservando un modello.
In un successivo esperimento, i tre gruppi osservano un filmato in cui un adulto mostra aggressività.
Nel primo filmato, però, l’adulto viene poi lodato per il suo comportamento, nel secondo viene
rimproverato, nel terzo non viene espresso alcun giudizio. Si è riscontrato poi che, il gruppo che
vedeva il primo filmato tendeva ad agire con più aggressività degli altri. Bandura deduce da qui il
concetto di rinforzo vicario, ovvero il fatto che un opportuno rinforzo dato al modello che svolge
l’azione, influenza il comportamento di chi osserva. Inoltre, viene accertato che tutti e tre i gruppi
imparavano le azioni svolte nel filmato, ma tendevano a riprodurle solo in base a delle valutazioni
di opportunità, e in base al giudizio degli adulti.
La teoria dell’apprendimento sociale si colloca a metà strada tra comportamentismo e cognitivismo.
L’apprendimento avviene per mezzo dell’osservazione di un modello di comportamento, per cui si
parla di apprendimento osservativo o vicario. Oltre al rinforzo vicario (ovvero il rinforzo ottenuto
dal modello da copiare, e che consiste in un rinforzo anche per l’individuo che osserva), vengono
inoltre considerati il rinforzo anticipato, che migliora l’attenzione del soggetto, e l’auto-rinforzo,
proveniente dai processi interni dell’individuo (si parla in questo caso di esperienze di auto-
efficacia e di padronanza: le esperienze in cui l’allievo ha affrontato e superato un compito, e
successivamente alle quali il soggetto si compiace e si premia, stabilendo quindi un auto-rinforzo).
Infine, se nel comportamentismo l’ambiente influenza i soggetti e non viceversa, per Bandura esiste
il cosiddetto determinismo reciproco, per mezzo del quale anche il comportamento dei soggetti
può influenzare l’ambiente circostante.
Lo stimolo che viene fornito al soggetto che osserva un modello (modeling) può essere:
l’osservazione diretta del modello (behavioural modeling - un individuo svolge delle azioni che
devono essere replicate), la descrizione verbale di un comportamento (verbal modeling – le
istruzioni vengono lette da un manuale o vengono impartite verbalmente); la rappresentazione
simbolica (symbolic modeling – l’uso di immagini, disegni o filmati per illustrare un
comportamento).
Il processo di apprendimento osservativo avviene secondo le fasi consequenziali di: processi di
attenzione (il soggetto deve prestare attenzione al modello da osservare), processi di ritenzione (il
processo deve rimanere impresso nella memoria), processi di esecuzione (anche se il processo è
chiaro, non è detto che il soggetto sia in grado di eseguirlo con sicurezza), processi motivazionali e
di rinforzo (pur avendo capito un processo, ed essendo in grado di eseguirlo, un soggetto può
ugualmente decidere di non metterlo mai in atto; questo non è comunque un segnale che
l’apprendimento non sia avvenuto).

5.7.3.
Benjamin Bloom è noto per la sua tassonomia degli obiettivi cognitivi, e per la procedura di
apprendimento chiamata Mastery Learning. Inizialmente proposta da Carroll e poi ripresa da
Bloom, questa procedura ha lo scopo di portare la maggior parte degli studenti a un livello di
padronanza di una materia. Bloom critica innanzitutto il sistema di educazione, che tende a
selezionare gli studenti talentuosi invece di sviluppare talenti nella maggioranza degli alunni. Le
problematiche da lui individuate sono:
• i risultati dell’apprendimento, che tendono ad essere uniformati dai docenti in maniera
coerente rispetto alla classe; questo fa sì che uno studente medio in una classe eccellente
risulti mediocre, e in una classe mediocre risulti eccellente. In sostanza, il successo o il
fallimento non dipendono da un confronto con uno standard oggettivo ma dal confronto con
il resto del gruppo;
• la curva normale (gaussiana). Distribuendo, in un grafico, i voti ottenuti nell’asse
orizzontale, e il numero di alunni che raggiungono tale voto nell’asse verticale, la curva
ottenuta sarebbe definita normale, con il risultato che solo una minima parte di studenti può
raggiungere risultati eccellenti.
Gli studenti non hanno tutti uguale attitudine, ma se il sistema non fa altro che sviluppare gli
studenti che hanno già una attitudine di per sé, l’istruzione non incide realmente
sull’apprendimento. Bloom afferma invece che con le giuste strategie, sarebbe possibile portare la
maggior parte dei ragazzi verso il massimo della valutazione.

Le variabili del Mastery Learning sono varie: l’attitudine è il tempo necessario per apprendere
qualsiasi contenuto: obiettivo del Mastery Learning è trovare la strategia per diminuire questo
tempo. La qualità dell’istruzione è il livello con il quale l’organizzazione dei materiali di
apprendimento si avvicina alla condizione ottimale per uno studente. Uno stesso docente o
materiale possono risultare ottimali per uno studente, ma non ottimali per un altro. L’abilità nel
comprendere l’istruzione è invece l’abilità di un discente di comprendere la natura del compito
assegnato: se il docente riesce ad adeguare l’istruzione ai bisogni del singolo individuo, le sue
abilità possono essere messe in risalto. Gli strumenti per fare questo sono: i gruppi di studio (di due
o tre studenti, che si incontrano periodicamente e rendono più efficace l’apprendimento tramite la
cooperazione; il tutor, figura diversa dall’insegnante, considerato molto efficace in quanto
estremamente personalizzato; il libro di testo, che può essere affiancato da altri libri a seconda della
comprensione da parte dei discenti; i quaderni di lavoro, i software e tutti i materiali che possono
essere utili per gli studenti che hanno bisogno di un rinforzo frequente; il materiale audiovisivo e i
giochi educativi che possono essere utili ai discenti che vogliano delle rappresentazioni vivide dei
concetti. La perseveranza, ovvero il tempo che un discente è disposto a spendere su un determinato
argomento: questa non può essere inferiore all’attitudine, se si vuole padroneggiare una materia. Il
tempo a disposizione, l’ultima variabile, deve essere compatibile con l’attitudine del discente.
Il Mastery Learning mira innanzitutto a definire le metodologie e gli strumenti per ridurre il tempo
necessario ad apprendere, e definire le modalità per determinare il tempo necessario ad ogni alunno
per apprendere. I tre punti essenziali della strategia sono le precondizioni (alunno e docente devono
avere perfetta cognizione di quali siano i criteri per stabilire se l’apprendimento è stato conseguito,
come per esempio uno standard oggettivo e realistico), le procedure operative (il percorso
dovrebbe essere suddiviso in unità di apprendimento, al termine delle quali vi è una valutazione
formativa, da non confondere con la valutazione sommativa che invece consiste in un voto finale.
La valutazione formativa viene effettuata in itinere e consiste in un feedback che fornisce all’allievo
un segnale del suo livello e al docente un indizio sulla sua azione didattica) e i risultati (di carattere
cognitivo e di carattere affettivo nei confronti della disciplina, in quanto la padronanza di una
materia stimola un interesse spontaneo da parte dell’allievo).
Il Mastery Learning si avvicina al comportamentismo per varie ragioni: la riduzione dei contenuti a
piccole unità; il paradigma stimolo-risposta-rinforzo, che trova concretezza nella verifica formativa;
la ripetizione degli stessi concetti in caso di fallimento, che ricorda l’apprendimento per prove ed
errori; i software di istruzione programmata, simili alle macchine per insegnare sviluppate dai
comportamentisti.
La tassonomia degli obiettivi, studiata da Bloom e dai suoi collaboratori, consiste in una
classificazione degli obiettivi educativi, divisi nei domini cognitivo (le attività intellettuali e
logiche), affettivo (il lato emotivo, gli stati motivazionali e i valori che accompagnano il discente
nel suo percorso di apprendimento) e psicomotorio (le capacità psicomotorie dell’individuo).
La tassonomia degli obiettivi formativi nel dominio cognitivo rappresenta per Bloom uno strumento
di supporto per docenti e studiosi, con la funzione di descrivere in modo univoco gli obiettivi, in
maniera generale e man mano più specifica, e costruire uno strumento di carattere
onnicomprensivo, adatto a tutti i possibili comportamenti degli studenti. Le competenze di livello
basilare sono dette Lower Order Thinking Skills (LOTS), mentre quelle di carattere complesso
sono dette Higher Order Thinking Skills (HOTS). Il docente deve individuare nella scala
tassonomica il livello del singolo individuo, prefissando gli obiettivi da raggiungere.

5.8.
Il cognitivismo in parte si sviluppa parallelamente agli studi comportamentisti, in parte come
approdo degli stessi: il neocomportamentismo di Tolman e Hull, infatti, apre progressivamente le
porte a categorie cognitive quali lo scopo, la memoria, le variabili interne dell’individuo. Sotto il
termine di cognitivismo vengono raggruppate idee a volte eterogenee, ma che sono accomunate
dallo studio della mente e dei suoi processi (il cognitivismo usa la metafora della mente-computer).
Si parla di metacognizione per definire il processo attraverso il quale si è consapevoli di ciò che si
conosce.
-Sensazione: tutto ciò che viene avvertito dagli organi di senso;
-Percezione: processo cognitivo che permette di elaborare le sensazioni.
L’empirismo è una corrente filosofica del ‘600, e che ha John Locke tra i principali esponenti. Si
basa sul concetto che la conoscenza avviene tramite l’esperienza; all’empirismo si può associare la
corrente chiamata associazionismo, che ha tra i maggiori esponenti Ebbinghaus. Per gli
associazionisti la conoscenza di un oggetto avviene tramite l’esperienza, mediante una serie di
associazioni di sensazioni che sono convogliate nella rappresentazione mentale dell’oggetto (per
immaginare una mela vengono convogliate il colore rosso, la buccia liscia, ecc.). La sua
caratteristica è quindi la scomposizione in elementi essenziali e fondamentali, piuttosto che una
visione globale della rappresentazione. Anche il comportamentismo ha un approccio simile, in
quanto tende a studiare l’apprendimento tramite comportamenti molecolari, costituiti da
associazioni di stimolo e risposta. Mediante opportuni rinforzi, i comportamenti molecolari sono poi
convogliati in un comportamento globale (il cosiddetto shaping di Skinner).
La corrente novecentesca della Gestalt, o psicologia della forma, va in diretto contrasto con queste
idee: mutua dall’empirismo l’idea che la conoscenza avviene tramite l’esperienza, ma afferma che
la rappresentazione mentale generata dalle sensazioni vada considerata nella sua globalità, in modo
unitario, non come l’insieme di una serie di associazioni elementari. L’apprendimento non è quindi
visto come una successione di tentativi, ma come fenomeno cognitivo, intuitivo e globale.
Il processo di risoluzione dei problemi, per la Gestalt, presenta diversi ostacoli, come la fissità (di
impostazione, di contesto, di struttura (?), come la tendenza a impiegare gli elementi del problema
secondo il loro uso già noto), la meccanizzazione del pensiero (tendenza a ripetere la stessa strategia
usata in passato), la direzione (persistenza nell’uso di una strategia improduttiva) e il principio di
pregnanza (organizzazione del problema secondo principi percettivi quali ordine, simmetria, che
possono occludere il processo di risoluzione.
I fondatori della Gestalt sono Wertheimer, Koffka e Kohler. Kohler (assistente di Wertheimer
insieme a Koffka) orientò i suoi studi sugli esperimenti con gli scimpanzé. Un gruppo di scimpanzé
veniva rinchiuso in una gabbia con una banana appesa al soffitto, e una serie di scatole sparse per la
gabbia. Esse inizialmente agivano secondo una dinamica per prove ed errori, finché una delle
scimmie osserva gli oggetti e li combina secondo uno scopo (impilare le casse per raggiungere la
banana). Il fenomeno per cui la soluzione diventa improvvisamente comprensibile, viene definito
insight. Le scimmie compiono infatti due passaggi importanti: attribuiscono un nuovo significato
agli oggetti, e hanno una visione globale del problema, mettendo in rapporto gli elementi a loro
disposizione. Questa teoria va in contrapposizione con Thorndike, il quale afferma che gli animali
imparano per prove ed errori e progressivamente si avvicinano all’obiettivo.
Kohler dà poi una prima definizione di Gestalt, affermando che essa studia le situazioni e i processi
psichici che non possono essere definiti se scomposti nelle loro singole parti costituenti: bensì, la
loro definizione è possibile solo con una visione d’insieme.
Wertheimer studia inizialmente il fenomeno Phi e il movimento stroboscopico: proiettando, su una
parete nera, due luci una dopo l’altra ad una distanza minima, ciò che viene percepito è un’unica
luce in movimento: si tratta quindi di un movimento stroboscopico e apparente. Da questo
esperimento, Wertheimer deduce che l’uomo è naturalmente portato ad elaborare i fenomeni nella
loro totalità: la visione globale del fenomeno viene prima degli elementi che lo costituiscono. A tal
proposito, egli parla di leggi di segmentazione del campo visivo: vicinanza (l’emergere di una
figura unitaria dipende dalla distanza delle parti che la compongono), somiglianza (si unificano gli
elementi che si somigliano), continuità di direzione e orientamento (linee rettilinee o curve vengono
percepite come unità quando vengono intersecate da altre), chiusura (il cervello tende a chiudere
forme incomplete, come due semicerchi che diventano un cerchio) e pregnanza (il sistema
percettivo predilige le soluzioni stabili, equilibrate, armoniche). Per lo psicologo, il processo va
dall’altro verso il basso, ovvero dal globale verso il particolare: per la Gestalt, il tutto precede le
parti. Egli sviluppa poi il concetto di insight, teorizzando il cosiddetto pensiero produttivo, inteso
come attività mentale che produce nuova conoscenza nell’individuo; questo si contrappone al
pensiero ri-produttivo, che ci porta ad affrontare le situazioni già affrontate con soluzioni già note,
senza inquadrare il problema in maniera originale.

5.8.3.
Jean Piaget si colloca nell’ambito del cognitivismo, sebbene sia collocato anche tra i precursori del
costruttivismo. Il suo punto di partenza è il pensiero di Kant, per il quale conosciamo le cose
attraverso delle categorie, come la quantità, la causa, la classificazione: per questo motivo vi è una
continua interazione tra individuo e ambiente. Per Kant queste categorie sono fisse, mentre Piaget
afferma che questi schemi mentali possono evolversi.
Inoltre, l’ambiente influenza l’individuo, ma allo stesso tempo questi influenza l’ambiente, in una
dinamica di influenza reciproca. Questi concetti sono alla base dell’epistemologia genetica di
Piaget (Epistemologia: studio della conoscenza. Aggettivo “Genetica”: riferimento al fatto che la
conoscenza si evolve nel tempo).
Il concetto di interazione tra organismo e ambiente è il punto di partenza della teoria di Piaget.
Questa interazione viene anche detta trasformazione, e si intende il processo che porta il soggetto a
una conoscenza, purché questi agisca sull’ambiente in maniera attiva. Nasce il concetto di azione,
che può essere reale (manipolare un oggetto, lanciarlo, eccetera) e interiorizzata (un’azione
mentale, che agisce non sugli oggetti ma sulla loro rappresentazione); le azioni si devono leggere
sia sotto il profilo cognitivo, ossia di accesso alla conoscenza, sia sotto il profilo affettivo, ovvero di
volontà di relazionarsi agli altri. La conoscenza viene costruita dal soggetto: la conoscenza è quindi
un atto creativo, perché la persona che apprende destruttura la materia, la assimila e la ricostruisce
secondo le proprie strutture mentali. Questo approccio aprirà la strada al costruttivismo.
Piaget asserisce che esistono degli invarianti funzionali che governano tutte le azioni degli
individui e che non mutano le loro caratteristiche di funzionamento durante lo sviluppo. Alcuni
esempi sono il principio di organizzazione (nel pensiero si sviluppano delle strutture che si
organizzano in maniera coerente: le strutture sono sia modalità di azione che modalità di pensiero
che conducono alla conoscenza), il principio di adattamento (il soggetto è in continuo
adattamento con l’ambiente: l’insorgere di un bisogno induce a un’azione, che agisce sull’esterno e
che determina un cambiamento. Questa continua interazione comporta una modifica delle strutture
del pensiero). L’organizzazione tende a creare delle strutture, mentre l’adattamento comporta
delle modifiche alle strutture stesse, tramite due processi: l’assimilazione, che si ha quando le
nuove conoscenze vengono assimilate nelle strutture stesse, e l’accomodamento, quando le nuove
conoscenze non possono essere inglobate alle strutture: in questo caso gli schemi mentali devono
essere adeguati alle nuove esperienze. L’adattamento è per Piaget sinonimo di comportamento
intelligente.
Le strutture variabili, invece, sono modificate progressivamente dagli invarianti funzionali: lo
sviluppo del bambino è descritto proprio in termini di variazione di tali strutture. Le prime strutture
cognitive del neonato sono chiamate schemi d’azione, come i riflessi: questi schemi si possono
combinare tra loro creando gli schemi mentali, che a loro volta possono determinare la nascita di
strutture mentali.
Piaget ha proposto una gerarchia degli stadi di sviluppo della vita psichica. Ogni stadio è
caratterizzato da successive condizioni di equilibrio, dato dall’adattamento tramite nuove strutture
mentali. I quattro stadi sono lo stadio senso-motorio (da 0 a 2 anni, diviso in 6 sotto-stadi), lo
stadio preoperatorio (da 2 a 7 anni, suddiviso in fase preconcettuale da 2 a 4 anni, e fase del
pensiero intuitivo, da 4 a 7 anni), lo stadio delle operazioni concrete, dai 7 ai 12 anni, e lo stadio
delle operazioni formali, da 12 a 16 anni.
Nel primo sotto-stadio dello stadio senso-motorio, le strutture cognitive sono semplici schemi che si
possono definire riflessi, dei meccanismi innati trasmessi per via ereditaria. Tramite l’esercizio di
questi riflessi, i movimenti diventano più precisi. Da 1 a 4 mesi, il neonato inizia a connettere tra
loro i riflessi, effettuando le prime coordinazioni di schemi, denominati reazioni circolari
primarie. Prima effettuati per caso e poi ripetuti (da cui il termine circolare), sono primari perché
coinvolgono il corpo del bambino (coordinazione mano-bocca, coordinazione vista-udito). Il
bambino è ancora caratterizzato dall’egocentrismo radicale, ovvero non distingue tra se stesso e
l’ambiente circostante.
Il terzo sotto-stadio, dai 4 gli 8 mesi, è caratterizzato dalla comparsa delle reazioni circolari
secondarie, che hanno un effetto sull’ambiente: un oggetto viene visto, preso, manipolato, studiato.
Dai 4 agli 8 mesi le reazioni circolari sono caratterizzate da piena intenzionalità, inoltre si sviluppa
il concetto di permanenza dell’oggetto (gli oggetti esistono anche se il bambino non è in grado di
vederli). Dai 12 ai 18 mesi troviamo le reazioni circolari terziare: il bambino effettua delle
modifiche ai propri comportamenti per osservare l’effetto generato da esse: ad esempio porta a sé
un giocattolo tramite la cordicella a cui questo era legato. Compare il linguaggio olofrastico, nel
quale singole parole vogliono dire intere frasi. Dai 18 ai 24 mesi emerge la funzione simbolica, che
si svilupperà successivamente e che permette di evocare, tramite dei simboli, oggetti, azioni e
contesti che al momento non sono percepiti, e consente di realizzare rappresentazioni mentali. Le
azioni sono quindi interiorizzate, e il bambino non ha bisogno di eseguirle realmente per
prefigurarsi l’effetto che queste avranno. Inoltre, essi sono capaci di figurarsi l’esistenza di oggetti
che sono stati nascosti, ma di cui sanno dell’esistenza perché ne hanno fatto esperienza in passato, e
possono quindi accedere all’immagine simbolica. Con il linguaggio, infine, possono riferirsi a
situazioni passate, che si ricordano tramite la rappresentazione mentale. Tramite la rappresentazione
mentale, il bambino può attuare la ripetizione in differita, ovvero azioni che ha visto compiere da
adulti o da altri bambini; tra queste vi è il gioco di finzione, nel quale il bambino imita per gioco
situazioni viste attuare da altre persone.
Lo stadio preoperatorio si divide in due sotto-stadi: il primo è la fase preconcettuale, che va dai 2
ai 4 anni. Il bambino compie giochi di finzione più complessi, e riproduce azioni che ha visto fare.
Il secondo stadio, del pensiero intuitivo, è caratterizzato dal ragionamento di tipo intuitivo, basato
sulla percezione dei fatti osservati, senza un ragionamento fondato. Vi è ancora una difficoltà nella
classificazione degli oggetti, e nella seriazione, ovvero nell’abilità di ordinare gli oggetti secondo
una data qualità. La seriazione comporta l’acquisizione della proprietà transitiva: se un bambino
confronta il bastoncino A con il bastoncino B e vede che A è più lungo, e poi confronta B con C
deducendo che B è più lungo, non è in grado di stabilire per ragionamento logico che A è più lungo
di C.
Sebbene i bambini di questa età operino diversi giochi di finzione, presentano ancora dei limiti:
quando il bambino osserva degli eventi, li associa ad azioni simili a quelle che lui stesso ha
compiuto (egocentrismo intellettuale). Per esempio, il sole si stanca quando si sposta (come il
bambino). Il bambino attribuisce alle cose una natura simile alla propria (animismo), tende a
pensare che gli elementi naturali siano fabbricati dall’uomo o da una divinità (artificialismo), e
crede che qualunque fenomeno, oggetto o azione abbiano uno scopo preciso (finalismo: ad
esempio, la luna c’è per illuminare la notte). A causa del fatto che le sue azioni mentali sono molto
ancorate alle azioni reali, il pensiero del bambino è caratterizzato dall’irreversibilità, ovvero non è
in grado di riportare mentalmente un processo al punto di partenza (esperimenti con i liquidi nei
bicchieri di diversa grandezza, esperimenti con le monete). Nonostante questo, il bambino conquista
il concetto di identità per gli oggetti: se un liquido viene versato in un bicchiere, e da questo
bicchiere in un altro di forma diversa, il bambino afferma che l’acqua è la stessa, solo con diverse
proprietà.
Dai 7 ai 12 anni abbiamo lo stadio delle operazioni concrete: il ragionamento logico prevale su
quello intuitivo, e il bambino compie operazioni di classificazione e inclusione gerarchica,
comprendendo il significato di classe e di sottoclassi. Compie inoltre le operazioni di
moltiplicazione di classi (costruire una nuova classe intersecando le caratteristiche di due classi), di
seriazione additiva (il bambino è in grado di mettere in ordine degli oggetti secondo una
caratteristica specifica, ad esempio la lunghezza), di seriazione moltiplicativa (mette in ordine
degli oggetti secondo più caratteristiche, concentrandosi su più aspetti contemporaneamente. In
questo caso si parla di decentrazione). Possiede, per Piaget, la reversibilità dell’azione mentale. Si
aggiungono, a queste, le cosiddette operazioni infralogiche, che riguardano le relazioni spaziali e
temporali tra un oggetto e le parti che lo compongono. Ad esempio, l’addizione partitiva, permette
di scomporre e ricomporre un oggetto in varie parti o un evento in vari intervalli temporali.
Nonostante il bambino abbia conquistato l’apprendimento di varie azioni mentali, tende a saper
risolvere alcuni problemi prima di altri: Piaget chiama questo fenomeno dislivello. La spiegazione è
da ricercare nel fatto che i problemi presentino diversi gradi di concretezza: un problema che
presenta meno fattori di concretezza viene risolto più tardi. Con la comparsa del pensiero
reversibile, scompare anche l’egocentrismo, così come l’animismo, l’artificialismo e il finalismo.
Dai 12 ai 16 anni abbiamo lo stadio delle operazioni formali, nel quale il ragazzo sviluppa capacità
di giudizio, e continua a svolgere operazioni di classificazione e di seriazione, ma è in grado di farlo
anche su conoscenze astratte. Nasce il pensiero ipotetico deduttivo: il ragazzo sa condurre
ragionamenti logicamente corretti senza la necessità di partire da un dato di esperienza e di
controllare l’esito del ragionamento nella realtà. Implica la capacità di stabilire relazioni logiche tra
leggi generali e fatti specifici, attraverso l’induzione e la deduzione. Le strutture cognitive che
consentono lo sviluppo del pensiero operatorio formale sono: Identità, Negazione, Reciprocità,
Correlatività (INRC), le leggi del ragionamento e la logica delle proposizioni.
Nella sua teoria dello sviluppo, Piaget si concentra sulle azioni concrete che il bambino svolge e
con le quali impara: queste azioni vengono poi interiorizzate con delle rappresentazioni mentali. Da
queste nascono le operazioni mentali, che caratterizzano le fasi evolutive successive (operazioni
concrete e formali), identificandosi con il pensiero del bambino/adolescente. È forte il legame tra
pensiero, apprendimento e attività pratica. Vi è quindi un legame tra Piaget, le scuole nuove e
l’attivismo. La teoria da lui sviluppata dovrebbe servire all’educatore per proporre al bambino delle
attività che siano per lui significative in base al livello intellettivo raggiunto.

5.8.4.
Nell’ambito del cognitivismo, Vigotskij è considerato il massimo esponente della scuola storico-
culturale, secondo la quale lo sviluppo non è influenzato solo dai fattori biologici, ma anche da
quelli storici, sociali e culturali. Ha contribuito a sviluppare lo studio del rapporto tra pensiero e
linguaggio: per lo studioso il linguaggio ha infatti la funzione di regolare il comportamento e il
pensiero.
Egli parte dagli esperimenti sull’insight di Kohler: prima dello sviluppo del linguaggio, di fronte a
un problema da risolvere, i bambini fanno dei tentativi confusi e caotici; con l’insorgere del
linguaggio, ossia di uno strumento simbolico, questi atteggiamenti sembrano svanire gradualmente.
Emergono alcune caratteristiche: il linguaggio è una necessità che permette al bambino di svolgere
un compito (tant’è che, se forzato a non parlare, si congela anche la sua azione); maggiore è la
difficoltà del compito, maggiore è la necessità di parlare.
Anche Piaget aveva osservato questo atteggiamento, e lo chiamava linguaggio egocentrico, in
riferimento al fatto che il bambino ripete spesso il pronome “io” e sembra parlare a se stesso. Per
Piaget, questo linguaggio si riferiva solo all’egocentrismo del bambino. Vigotskij invece vede nel
linguaggio egocentrico una funzione cognitiva: è infatti essenzialmente un ragionare ad alta voce.
Così come gli adulti ragionano con il pensiero (linguaggio interiore), i bambini palesano il
ragionamento ad alta voce (ragionamento esteriore).
L’uso del linguaggio è un fattore chiave nella soluzione di un problema, tramite: la moltiplicazione
di stimoli (oltre agli stimoli visivi e tattili, con il linguaggio egli può manifestare la sua intenzione
di svolgere una determinata azione, moltiplicando la possibilità di riuscita di un compito) e la
funzione auto-regolativa (che rende il bambino più riflessivo e meno impulsivo, controllando anche
il proprio comportamento). Si cita un esperimento nel quale dei bambini venivano posti in una
stanza e veniva chiesto loro di risolvere un problema. Quando i bambini non erano in grado di
mettere in atto una soluzione, chiedevano aiuto allo sperimentatore, facendo emergere una forma di
linguaggio sociale, e di astrazione del proprio pensiero (descrivendo ad altri la propria idea). Il
linguaggio egocentrico diventa quindi linguaggio sociale. Quando lo sperimentatore usciva, non
visto, dalla stanza, i bambini parlavano nuovamente con loro stessi, quasi a chiedersi aiuto da soli. Il
linguaggio interpersonale diventava quindi intrapersonale; inoltre, mentre nelle prime fasi il
linguaggio egocentrico accompagna le azioni, gradualmente diventa uno strumento programmatorio
delle azioni, fungendo da centro funzionale e di ricerca del sistema cognitivo. Il linguaggio interiore
si afferma intorno ai 7-10 anni, facendo emergere la differenziazione tra linguaggio egocentrico e
sociale.
In un esperimento condotto da Vigotskij, dei bambini tra i 4 e i 6 anni venivano posti davanti a una
tastiera composta da 5 tasti, e addestrati a premere un tasto al comparire di un dato stimolo visivo.
Inizialmente i bambini mostravano molta incertezza, lavorando con percezione, memorie,
sensazione e abilità motorie come se fossero un tutt’uno. Apponendo su ogni tasto un tesserino con
un simbolo diverso, aggiungendo quindi uno stimolo visivo, la loro azione diveniva sicura e veloce;
il sistema percezione/memoria si separa dal sistema motorio: la barriera che separa i due sistemi è
chiamata barriera funzionale, ed è comparsa con l’utilizzo dei simboli sui tasti. La funzione qui
assolta dai simboli, è la stessa funzione di auto-regolazione svolta dal linguaggio negli esperimenti
precedenti: si tratta di un comportamento più conscio mediato dalla cultura.
Pertanto, l’essere umano, oltre ad avere le cosiddette funzioni psichiche inferiori (tipiche degli
animali e caratterizzate dall’unione del funzionamento percettivo/mnemonico con quello motorio,
utili a utilizzare degli attrezzi, frutto dell’evoluzione biologica della specie e stimolate
dall’ambiente) possiede anche le funzioni psichiche superiori, che entrano in gioco quando si
usano i sistemi simbolici e il linguaggio. Queste funzioni sono sollecitate da stimoli artificiali
prodotti dall’uomo stesso; pertanto, l’uomo non è stimolato solo dall’ambiente, ma anche da fattori
di tipo storico, culturale e sociale. Tramite i simboli e il linguaggio, l’uomo potenzia le proprie
capacità psichiche naturali, così come tramite l’utilizzo di strumenti potenzia le proprie capacità
manuali.
Secondo il paradigma comportamentista, l’uomo per reagire all’ambiente, può usare un certo
stimolo diretto; per potenziare le proprie funzioni psichiche, tuttavia, egli crea degli stimoli auto-
generati (simboli o linguaggio) che sostituiscono lo stimolo con un legame intermedio che Vigotskij
chiama stimolo-mezzo.
Tramite un altro esperimento, nel quale vengono consegnate varie tessere ai bambini, appartenenti a
diverse categorie (forma e nome inciso sopra), viene chiesto ai bambini di classificare
(gradualmente, scoprendo man mano le caratteristiche come il nome e la forma) gli oggetti tramite
la doppia stimolazione (visione della forma, nome inciso sopra). A seconda dell’età, i bambini
agiscono tramite il sincretismo (collezione degli oggetti casuale; collezione degli oggetti più
prossimi alla sua visuale; collezione secondo preferenze personali), oppure tramite i complessi
(classificazione secondo un effettivo ragionamento, ma ancora privo della comprensione reale del
compito). Nella seconda fase il bambino procede per associazione (prende un oggetto a cui associa
poi tutti gli altri, ciascuno dei quali ha una caratteristica specifica dell’oggetto guida), per collezione
(raggruppa oggetti differenti, come a voler formare una collezione di oggetti tutti diversi), per
catene (sceglie un oggetto A a cui associa un oggetto B per un determinato fattore, in seguito
all’oggetto B ne associa uno C, comune con il B per un fattore diverso) e per diffusione (colleziona
gli oggetti che hanno caratteristiche simili, ma compie comunque degli errori perché non ha
compreso a fondo il compito). Tutte queste modalità indicano una progressiva associazione della
parola a delle caratteristiche comuni: non è ancora un concetto, ma un complesso. Il punto di arrivo
di questa fase dell’età scolare è lo pseudo-concetto, nel quale il livello di astrazione è ancora
limitato perché ancora legato a una situazione percettiva reale. Il concetto richiede un tipo di
astrazione superiore.
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Le tre correnti affermatesi nella prima parte del XX secolo sono:

• L’approccio di Piaget, secondo cui apprendimento e sviluppo non sono connessi: lo sviluppo
avviene per tappe biologiche ben delineate, quindi l’apprendimento segue lo sviluppo, in
base al livello cognitivo;
• L’approccio di Thorndike, per cui istruire vuol dire causare uno sviluppo: i due fattori
coincidono. Istruzione e sviluppo vanno di pari passo;
• L’approccio di Koffka e della Gestalt è una via di mezzo: lo sviluppo può essere visto sia
come maturazione (Piaget) che come istruzione (Thorndike).
Vigotskij propone un approccio nel quale sviluppo e istruzione sono correlati anche se non
coincidono: si tratta della zona di sviluppo prossimale.
Oltre allo sviluppo attuale, occorre porre attenzione anche alla zona di sviluppo prossimale, ovvero
a quell’insieme di concetti che il bambino, opportunamente indirizzato, è in grado di comprendere
nell’immediato o con uno sforzo limitato. Questa zona rappresenta la distanza tra il livello reale e
quello potenziale. Secondo questa dinamica, l’istruzione precede lo sviluppo, come in Koffka.
Vigotskij pone un accento sul fatto che non tutti i bambini possono imparare qualunque cosa, se
opportunamente stimolati o se osservano un adulto o un altro bambino: se un bambino non sa
giocare a scacchi, pur guardando molte partite, non sarà in grado di farlo, segno che quell’abilità
non è nella sua zona di sviluppo prossimale. Per lui, le attività proposte all’alunno devono essere
attività presenti nella zona di sviluppo prossimale, ovvero devono essere attività che promuovono il
suo sviluppo, e devono essere poco sopra il livello di sviluppo del bambino, così che sia in grado di
affrontarle, seppur con l’aiuto del maestro.
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Vigotskij sostiene che esistano due tipi di concetti: quelli scientifici e quelli spontanei. I concetti
scientifici sono organizzati in un sistema coerente di conoscenza, astratti ma immediatamente
utilizzabili se padroneggiati: di solito sono appresi tramite il linguaggio scritto o parlato. I concetti
spontanei provengono dall’esperienza quotidiana e non sono organizzati in un sistema coerente di
conoscenza: sono immediatamente comprensibili perché si basano sull’esperienza. Un esempio è la
percezione di caldo e freddo, subito comprensibile, ma che non consente un approccio sistematico
della conoscenza (la percezione di quali siano, in scala, i contenitori più caldi o più freddi in una
lista di 20 contenitori è difficile da stabilire senza un approccio scientifico). Un concetto scientifico
è invece la temperatura, difficile da comprendere, ma che permetterebbe di stabilire con rigore
quale sia il contenitore più caldo tra tutti, il più freddo e quelli intermedi.
Per Vigotskij, il concetto spontaneo parte dal basso verso l’alto, ovvero da una concezione
elementare fino a una comprensione analitica. L’opposto avviene per il concetto scientifico. Il
passaggio da uno all’altro avviene quando il bambino è sufficientemente maturo nell’osservazione
da permettergli di aprire la strada a un concetto scientifico. Senza questa unione, i concetti
scientifici sono aridi e incomprensibili, mentre quelli spontanei sono approssimativi e scollegati.
Il legame tra i due si individua nella zona di sviluppo prossimale: quando un concetto spontaneo è
nella zona di sviluppo prossimale, si può guidare l’allievo verso una concezione più analitica e
scientifica dello stesso.
Infine, Vigotskij analizza l’importanza del gioco come fattore di sviluppo. Nelle situazioni
immaginarie create dai bambini, è sempre presente un sistema di regole. Egli afferma quindi che il
sistema di regole e la situazione immaginaria sono due fattori equivalenti: non esiste una situazione
immaginaria senza regole; creando un sistema di regole, il bambino mette in atto una situazione
immaginaria (perché quelle regole magari sarebbero limitanti nella realtà). Il bambino
autodetermina una serie di regole nel gioco, mentre segue quelle impartite dagli adulti nella realtà: il
suo sviluppo morale avviene quindi su due versanti. Inoltre, le regole impartite nella realtà a volte
possono essere considerate riferite alla singola situazione, mentre nel gioco sono più stabili.
Un bambino che cavalca una scopa immaginando che sia un cavallo, sta dissociando il significato di
cavallo dall’animale, lo sta liberando e quindi attuando un processo di astrazione, ma ha bisogno di
un altro oggetto perno (la scopa) che “diventi” il cavallo, che deve avere delle caratteristiche
specifiche. Nella realtà il bambino agisce secondo una dinamica oggetto-significato, ovvero
l’oggetto e la sua realtà determinano anche il suo significato; nel gioco accade il contrario, la
dinamica è significato-oggetto (una scopa può divenire un cavallo). Lo stesso avviene nelle azioni,
che nella realtà vengono svolte in quanto hanno una loro finalità; nel gioco avviene il contrario,
ovvero si sviluppa una dinamica significato-azione (come l’azione di portarsi le dita alla bocca
facendo finta di mangiare, non è un’azione svolta per la sua finalità di mangiare, quanto per il
significato che essa porta con sé).
Gioco e realtà sono diversi, in quanto il significato delle regole cambia, così come le dinamiche
oggetto-significato e azione-significato; tuttavia il gioco determina una zona prossimale molto
vasta, in quanto il bambino agisce svolgendo, ad esempio, ruoli da adulto (medico, soldato,
infermiere), e agisce con dinamiche complesse, come quelle del ribaltamento azione-significato, che
determinano un livello di astrazione elevato.
Egli traccia infine le tappe evolutive del gioco: in età prescolare è un gioco di immaginazione, nel
quale si inscenano azioni di vita reale, con regole auto-imposte dal bambino che vincolano il suo
stesso comportamento. Per sua natura, nella realtà il bambino sarebbe propenso a non seguire le
regole, eppure nel gioco agisce in opposto: tuttavia è un comportamento non conscio. In seguito il
gioco evolve verso una realizzazione conscia del suo scopo: ad esempio, due ragazzi fanno una gara
di corsa per vincere la sfida, sottoponendosi alla fatica per uno scopo.
In seguito, il gioco diventa sempre più complesso: la difficoltà delle regole diventa fonte stessa di
diletto per chi gioca.

5.8.5.
Jerome Bruner ha contribuito in maniera rilevante al campo della psicologia cognitiva, aderendo al
movimento chiamato new look. Per lui, la mente si sviluppa grazie alla propria capacità di operare
con i concetti che sono gli strumenti mediante i quali l’uomo può interagire con la realtà. Per questo
motivo si riferisce al suo approccio con il nome di concettualismo strumentale, e sottolinea
l’importanza del pensiero narrativo.
La narrazione per Bruner è uno dei meccanismi psicologici più importanti, soprattutto
nell’infanzia: essa ha risvolti nell’ambito cognitivo, oltre ad avere valenze conoscitive ed emotive.
In generale nell’uomo la narrazione risponde al bisogno di ricostruire la realtà dandole un
significato specifico a livello temporale o culturale. Bruner elabora una sintesi delle sue
caratteristiche principali:
• Sequenzialità (nella narrazione gli eventi sono disposti in una sequenza temporale, che può
comportare delle soste e dei salti avanti o indietro);
• Particolarità e concretezza (la narrazione tratta di questioni riguardanti i protagonisti, che
possono essere persone, animali, oggetti metaforici);
• Intenzionalità (i protagonisti vengono presi in esame nella loro caratteristica di possedere
degli stati mentali e di svolgere delle azioni);
• Opacità referenziale (la narrazione ha valore non in quanto si riferisce a eventi reali, ma in
quanto loro rappresentazione);
• Componibilità ermeneutica (gli eventi hanno senso solo considerato il contesto generale che
li contiene);
• Violazione della canonicità (nella narrazione esiste una fase di svolgimento dei fatti
canonica, e avviene poi una fase di rottura che crea una situazione di squilibrio);
• Composizione pentadica (la buona narrazione si basa su cinque elementi: attore, azione,
scopo, scena, strumento);
• Incertezza (la narrazione si svolge secondo un livello di realtà incerto);
• Appartenenza a un genere (la narrazione può appartenere a un genere).

La corrente New Look intende la percezione e gli altri processi mentali come processi attivi, nei
quali concorrono anche i bisogni, le motivazioni e gli stati emotivi del soggetto. Bruner non
riconduce i meccanismi percettivi ad una sequenza di stimoli e risposte, come nel
comportamentismo; è inoltre critico anche con la fermezza della Gestalt: per lui esistono delle
modalità attive con le quali la mente percepisce, ma sono variabili e influenzate dalla motivazione,
dalle esperienze pregresse e dalle aspettative. Nella percezione, Bruner individua due fattori
determinanti: i fattori autoctoni (le proprietà del sistema nervoso, di carattere fisico, chimico e
medico, e quindi prevedibili) e i fattori comportamentali (come l’apprendimento, la motivazione, i
fattori sociali, ovvero i meccanismi psicologici). Ciò che viene percepito dall’organismo è quindi un
insieme di fattori autoctoni e comportamentali. Si cita l’esperimento nel quale a due gruppi di
bambini, uno abbiente e l’altro indigente, vengono date delle monete la cui dimensione deve essere
rappresentata a dimensioni reali: l’esperimento mostra che i bambini percepiscono gli oggetti in
base alla loro appartenenza sociale; in particolare i bambini indigenti tendevano a rappresentare le
monete con dimensioni (importanza) molto maggiori rispetto a quelle effettive.
Un altro esperimento è quello del riconoscimento di particolari inusuali nelle carte da gioco (ad
esempio un seme del colore sbagliato), mostrate per pochi istanti a degli studenti: ne risulta che la
nostra percezione è influenzata da ciò che ci aspettiamo di vedere, da fattori emotivi, e soprattutto
che tendiamo a resistere a riconoscere una realtà nuova (come un seme di picche rosso invece che
nero), riconducendola a qualcosa che già conosciamo.
Bruner sviluppa una teoria dello sviluppo cognitivo partendo dai precedenti studi di Piaget e
Vigotskij: per il primo, lo sviluppo del bambino è di carattere naturale e biologico: vi sono degli
stadi evolutivi piuttosto rigidi, dai quali deriva la capacità di interagire con l’ambiente. L’istruzione
è un processo slegato dallo sviluppo, che può intervenire solo quando il bambino è sufficientemente
maturo. Per Vigotskij, invece, lo sviluppo è determinato anche da fattori storici e socioculturali, che
si sommano a quelli biologici. Lo sviluppo cognitivo non è soltanto quello che il bambino può fare,
ma anche quello che è in grado di fare potenzialmente, con l’aiuto assistito (zona di sviluppo
prossimale).
Da Piaget, Bruner deriva il carattere scientifico della ricerca, da Vigotskij la considerazione dei
fattori storici e culturali nella percezione, oltre che la possibilità di sviluppo delle capacità
potenziali.
Lo sviluppo cognitivo, per Bruner, può essere delineato tramite il concetto di rappresentazione,
con cui egli intende una modalità di elaborazione delle informazioni che provengono al soggetto
tramite l’ambiente circostante. Esistono le modalità di rappresentazione esecutiva (le prime ad
emergere, simili agli schemi di azione di Piaget: afferrare un oggetto, operare una sequenza di gesti
come legarsi le scarpe), iconica (si originano nel secondo anno di vita e avvengono sotto forma di
immagini: ad esempio l’immagine che ritrae una persona conosciuta. Il vantaggio è che questa
modalità si affranca dall’azione) e simbolica (si originano più tardi e sono codifiche basate sul
linguaggio e su basi astratte come simboli e segni. Introducono un livello di astrazione progressivo).
Le rappresentazioni aiutano a impostare il percorso di istruzione in base allo sviluppo cognitivo del
discente. Ad esempio, il concetto di equilibrio può essere introdotto ai bambini tramite l’uso
dell’altalena (rappresentazione esecutiva); più avanti possono comprendere il disegno di una
bilancia (rappresentazione iconica); infine, studenti più grandi possono imparare le leggi di Newton
che regolano la meccanica classica (rappresentazione simbolica). È importante che si segua una
sequenza ottimale di apprendimento, passando da una fase esecutiva, a una iconica, fino a una
rappresentazione simbolica quando possibile.
-----
L’essere umano viene in contatto con oggetti, eventi, fenomeni, azioni: in questo processo egli
associa degli elementi fra loro oppure li divide in base a determinate caratteristiche. Questo
processo è detto di categorizzazione, e serve per creare delle categorie. Le categorie sono quindi
delle collezioni di oggetti cui viene dato un nome; le caratteristiche sono dette attributi, e si
dividono in rilevanti (utili per entrare nella categoria) e irrilevanti (che non contribuiscono alla
classificazione). Il concetto costituisce una rappresentazione mentale astratta di tale categoria.
Esistono per Bruner diversi modi di definire le categorie mediante attributi: esistono le categorie
congiuntive (quando l’ingresso di un oggetto in una categoria è determinato dalla presenza di più
valori in esso: ad esempio, nella categoria A entrano tutti gli oggetti che sono sia neri che a forma di
triangolo), disgiuntive (quando l’ingresso è determinato dalla presenza di un attributo oppure di un
altro: nella categoria B entrano gli oggetti che sono neri oppure a forma di triangolo) e relazionale
(l’ingresso è determinato dalla relazione tra due valori: nella categoria C entrano gli oggetti con un
numero di colori maggiore rispetto al numero delle figure).
-----
Per Bruner, l’apprendimento parte dall’idea di qualcosa che possa essere utile in futuro: si parla di
transfer specifico quando un’abilità diventa applicabile ad altri compiti che sono simili a quelli per
i quali si è acquisito l’apprendimento (imparare i flam può aiutare a imparare i drag) e di transfer
non specifico quando si tratta di un principio fondante che fa maturare un’attitudine generale
(imparare il solfeggio aiuta a leggere qualunque brano musicale). Il secondo caso è molto
importante per Bruner, che delinea i modi per favorirne lo sviluppo. La struttura è un insieme di
idee fondanti di una disciplina, e delle relazioni che legano queste idee: farla comprendere a un
alunno favorisce il transfer non specifico. L’importanza per Bruner della struttura, ha fatto in modo
che il suo pensiero venga spesso definito strutturalismo. Un esempio di struttura è lo studio della
biologia: alcune piante si muovono in base alla gravità (geotropismo), altre si muovono in base alle
sorgenti luminose (fototropismo). Il concetto che lega queste informazioni è che gli organismi si
muovono e si sviluppano in un ambiente, essendo influenzati da diversi fattori (gravità, temperatura,
eccetera).
Saper padroneggiare gli elementi di un campo di studio permette anche lo sviluppo delle attitudini.
Queste si sviluppano sia tramite l’individuazione delle idee fondamentali di una disciplina
(struttura), sia tramite le modalità di presentazione di queste idee. Il metodo vincente sembra essere
quello della scoperta progressiva dell’idea stessa, nel quale lo studente definisce delle ipotesi,
indaga sulla natura di ciò che sta studiando, si pone delle domande: è un processo molto simile a
quello che affronta lo studioso o lo scienziato. Questa modalità permette di comprendere, ricordare,
trasferire (il transfer) e collegare (approfondire gradualmente una stessa disciplina nel corso del
percorso scolastico).
In risposta ai curricoli precedentemente presenti in America, Bruner elabora il concetto di readiness
for learning: un argomento, seppur complesso, può essere presentato in forma elementare nelle
scuole di grado inferiore. Questo predispone il bambino ad affrontare lo stesso argomento più avanti
in maniera più approfondita. Partendo da questo, egli sviluppa il curricolo a spirale, così detto
perché presenta le idee chiave prima in modo semplice e intuitivo, e periodicamente torna su tali
idee, rivisitandole in una forma diversa, facendo leva su forme di rappresentazione sempre più
formali e simboliche. Le idee chiave devono essere presentate facendo leva sui tipi di
rappresentazione più adatti per il discente: sulla scia delle operazioni concrete e delle operazioni
formali definite da Piaget, Bruner afferma che sia prima necessario riferirsi a fatti concreti, e solo in
seguito si possa introdurre un livello di astrazione formale.
Altro elemento importante di Bruner è il ragionamento sulla differenza tra il pensiero intuitivo e
quello analitico. Il pensiero analitico procede un passo per volta, in una serie di passaggi definiti
che servono a raggiungere una soluzione (la sua concretizzazione è l’algoritmo). Questo modo di
ragionare non genera nuova conoscenza, ma si limita ad applicare una conoscenza già nota. Il
pensiero intuitivo non avanza in modo definito e si basa su una visione complessiva del problema,
piuttosto che su una serie di passaggi definiti. La caratteristica del pensiero intuitivo è la procedura
euristica, nella quale si procede per tentativi ridefinendo continuamente le modalità di azione,
affidandosi all’intuito. In tal modo il pensiero intuitivo può generare nuova conoscenza. Inoltre, il
generare nuove ipotesi e interrogarsi sul modo di agire permette di sviluppare le attitudini che
Bruner ritiene necessarie per cogliere le strutture e per realizzare un apprendimento basato sulla
scoperta. La scoperta da parte dello studente è infine un fattore motivazionale; lo studente riconosce
l’utilità di ciò che apprende perché lo riutilizza spesso in contesti differenti: cogliere la struttura
della disciplina costituisce una vera motivazione all’apprendimento.
In ultima analisi, Bruner sviluppa gli elementi e le differenze tra la teoria dell’istruzione e la teoria
dell’apprendimento. Una teoria dell’istruzione è di tipo prescrittivo: funge da guida per
determinare l’apprendimento nel modo migliore possibile, e cura aspetti che intervengono prima
dell’apprendimento stesso. Inoltre, è di tipo normativo, ovvero stabilisce criteri e condizioni
generali. In sostanza, si occupa dei fattori che predispongono il bambino ad apprendere in maniera
efficace.
Di contro, una teoria dell’apprendimento è di tipo descrittivo, ovvero si occupa di descrivere cosa
stia avvenendo quando ha luogo l’apprendimento, o cosa sia avvenuto quando questo è terminato. È
fortemente condizionata da fattori sociali, come per esempio il rapporto con il docente e il rapporto
con i compagni. L’apprendimento in sé deve avvenire tramite la scoperta, seguendo le tre fasi di
attivazione (l’inizio deve avere un certo grado di incertezza per stimolare la curiosità),
mantenimento (le modalità nel proseguire l’apprendimento) e direzione (consente di evitare di
procedere in modo casuale).
Una teoria dell’istruzione deve chiedersi quale sia il numero minimo di proposizioni e asserti per
comprendere a pieno una disciplina. Per fare questo, serve che la struttura possa semplificare la
diversità di informazioni all’interno del campo (economia della struttura), deve essere in grado di
generare nuove proposizioni, per andare beyond the information given (produttività della
struttura), e deve rendere più accessibile la conoscenza di quel campo (potenza della struttura).
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L’apprendimento per scoperta si riferisce all’idea di Bruner che lo studente sia più portato ad
apprendere quando organizza la conoscenza di propria iniziativa. Per favorire questo tipo di
apprendimento, lo studente deve essere messo di fronte a situazioni nelle quali avverte che vi sono
regolarità o relazioni di causa-effetto, che sottendono la possibilità di scoprire qualcosa. A questo
punto lo studente deve sviluppare una strategia di ricerca e di scoperta. Il docente di contro deve
favorire la maturazione di strategie efficaci che si muovano da un campo vasto a uno specifico,
raccogliendo man mano informazioni connesse alle precedenti: questa strategia rappresenta per
Bruner la costruzione di una conoscenza cumulata.
L’apprendimento per scoperta, inoltre, promuove la ricompensa intrinseca rispetto a quella
estrinseca. Mentre quest’ultima è rappresentata dall’elogio da parte di un genitore o dell’insegnante,
la ricompensa intrinseca è l’informazione che l’allievo ha ottenuto mediante la sua scoperta: la sua
motivazione e la volontà non provengono quindi dall’ambiente, ma dal proprio interno. Il percorso
di scoperta non deve avvenire per procedimento algoritmico ma euristico, deve essere costituita cioè
anche dal percorso che porta al conseguimento dell’informazione. Da questo punto di vista assume
fondamentale importanza il concetto di problem solving.
L’apprendimento per scoperta favorisce inoltre il recupero delle informazioni dalla memoria.
Illuminante in questo senso è un esperimento, nel quale a tre gruppi di bambini vengono date delle
coppie di parole (come sedia-foresta); il primo gruppo deve ricordare le parole in maniera
mnemonica, il secondo scoprendo delle analogie tra le parole, il terzo venendo a conoscenza del
metodo sviluppato dal secondo gruppo. Il gruppo che impara in maniera più efficace è il secondo,
perché ha avuto modo di scoprire da sé il nesso tra le coppie di parole.
-----
Lo scaffolding (impalcatura) è un metodo di apprendimento sviluppato da Bruner nel quale è di
rilevante importanza la figura del tutor che affianca il discente nel suo processo di scoperta (tutee).
L’ipotesi di partenza è che, inizialmente, il discente non abbia alcuna abilità di base; nella sua
azione, il tutor deve prevedere che le poche o nulle abilità vengano sviluppate o combinate per
raggiungere un’abilità superiore. In questo senso, il tutor costituisce una impalcatura che permette
allo studente di raggiungere un obiettivo irraggiungibile se non fosse assistito. È lampante la
correlazione con la zona di sviluppo prossimale.
È importante che la comprensione del problema preceda la sua risoluzione. Tuttavia, anche quando
il bambino dovesse capire un problema, potrebbe non avere le capacità per risolverlo: nello spazio
tra la comprensione e la risoluzione, si pone l’azione del tutor.

5.9.
La Human Information Processing (HIP) è una corrente psicologica che studia la mente umana e
i processi che la riguardano, seguendo una stretta analogia con i computer. L’uomo può infatti
essere paragonato a un calcolatore che riceve informazioni dall’esterno (input), le elabora e produce
azioni che hanno un effetto sull’ambiente esterno (output). Queste informazioni possono essere
organizzate e diventare azioni (programmi) che l’uomo riesce a svolgere. Alcuni di questi compiti
sono automatici (respirare), per altre serve una maggiore consapevolezza (guidare, cucinare).
La memoria è un grande archivio che conserva tracce dell’esperienza dell’individuo. Non ha
caratteristiche statiche e passive, ma è considerata ricostruttiva, secondo il fenomeno del
riconsolidamento mnestico: i ricordi, una volta recuperati, diventano suscettibili di essere
rielaborati e immagazzinati nuovamente mediante una nuova traccia mnestica. Si tratta di un
processo di elaborazione attiva che segue tre fasi: la fase di codifica (il modo in cui l’informazione
viene inserita nel contesto delle informazioni precedenti), la fase di ritenzione e consolidamento (il
ricordo viene consolidato in modo che sia recuperabile a lungo termine) e la fase di recupero (il
recupero del ricordo, dalla memoria a lungo termine alla memoria di lavoro, affinché venga
utilizzato).
Esponiamo i principali modelli teorici sulla memoria:
• il modello multi-magazzino di Atkinson e Shiffrin. Ciascuna delle memorie presenti nel
multi-magazzino ha tre aspetti che la contraddistinguono: la funzione che essa svolge nel
modello, la capacità di informazioni che essa riesce a gestire, e il tempo in cui la memoria
riesce a trattenere dentro di sé l’informazione. Tale modello definisce l’esistenza di:

◦ memoria sensoriale. Ha la capacità di immagazzinare tutto ciò che proviene


dall’esterno. Una parte viene selezionata e inviata alla memoria a breve termine. I
diversi registri sensoriali registrano le immagini e i suoni, per cui si parla di memoria
sensoriale visiva e memoria sensoriale ecoica;
◦ memoria a breve termine. Detta anche memoria di lavoro, trattiene le informazioni
per un lasso di tempo breve (una decina di secondi); se vengono attuate delle strategie
per consolidare l’informazione, questa va nella memoria a lungo termine, diversamente
va perduta;
◦ memoria a lungo termine. È un archivio potenzialmente illimitato, che si divide in
memoria esplicita (dichiarativa) e implicita (procedurale). La memoria esplicita
comprende tutto ciò che può essere descritto dall’individuo e si divide in:
• memoria episodica (gli eventi specifici che l’individuo ha vissuto in prima
persona);
• memoria semantica (l’insieme delle conoscenze e nozioni che abbiamo acquisito
nel corso della vita);
• memoria autobiografica (l’insieme dei ricordi che hanno in qualche modo
influenzato la nostra vita).

La memoria implicita contiene invece abilità motorie, percettive e cognitive: si utilizza


quando dobbiamo effettuare attività quotidiane che sono diventate routinarie.
I sistemi di memoria impliciti si differenziano da quelli espliciti perché non richiedono
la coscienza per essere registrati o richiamati. La funzione evolutiva di tali sistemi di
memoria implicita è che consentono che il comportamento dell’individuo venga
modulato dalle esperienze ambientali in modo da ottenere un vantaggio, soprattutto in
termini di predisposizione automatica all’azione. Forme di memoria non dichiarativa
sono: la memoria per le abitudini, la memoria per le capacità motorie routinizzate, e
diverse forme di apprendimento associativo (condizionamento classico).

Il modello di Baddeley e Hitch tratta della memoria di lavoro o working memory, ovvero una
memoria a breve termine che mantiene, durante i compiti cognitivi, una quantità limitata di
informazioni per un tempo limitato, tenendole a disposizione degli altri processi cognitivi.
Il modello di Meacha e Singer: la memoria prospettica, che fa riferimento ai processi e alle abilità
implicate nel ricordo di intenzioni che devono essere realizzate nel futuro, e che per vari motivi non
possono essere svolte nel momento in cui vengono formulate.

5.10.
Negli anni ‘70 nasce un approccio cognitivista che intende affiancare allo studio dell’attività
cognitiva di uno studente, anche l’attività metacognitiva. Essa è un’attività di auto-riflessione che
accompagna quella cognitiva e ha il compito di renderla più consapevole, di monitorarla e valutarla
al fine di garantire un apprendimento efficace.
Le attività metacognitive costituiscono una fonte di apprendimento di carattere generale, in quanto
il discente imparerà a gestire lo svolgimento non di un compito specifico, ma di uno qualsiasi.
L’attività metacognitiva si divide in:
Comprendere la natura del compito (metacomprensione); scegliere la strategia adeguata (può
essere una strategia già attuata in passato, oppure una strategia nuova che combina parti di strategie
già utilizzate: in questo caso si parla di metamemoria), gestire e distribuire il tempo disponibile,
prevedere gli esiti (la previsione degli esiti incide sulla strategia da attuare), controllare
l’esecuzione (essere consapevoli dei passaggi precedenti, dello sviluppo del passaggio in corso e di
quelli successivi), valutare il risultato (chiedersi se si è ottenuto il risultato prefissato, e se si
possono attuare miglioramenti nello svolgimento di futuri compiti analoghi).

La metacomprensione consiste nel valutare coscientemente la comprensione di un compito (il


capire di aver capito), se ci sono incongruenze nel compito, e se è necessario chiedere ulteriori
informazioni. I bambini in età prescolare o nei primi due anni della scuola primaria sono già in
grado di comprendere i compiti da svolgere, ma hanno scarse abilità sul piano della
metacomprensione: non sono ancora in grado di notare le incongruenze e i punti critici. Si cita
l’esperimento della carta, nel quale a turno dei bambini e un insegnante devono estrarre delle carte
da un mazzo: vince il gioco chi ha estratto più carte speciali. L’incongruenza vistosa è la mancanza
di definizione di “carta speciale”.
Il passaggio successivo alla comprensione è la scelta di una strategia, filone studiato dalla
metamemoria, ovvero la capacità di conoscere la memoria. In qualunque compito occorre fare uso
della memoria, ovvero richiamare dei dati memorizzati prima del compito: se un individuo non è in
grado di valutare come userà la propria memoria, probabilmente imposterà una strategia
fallimentare. Flavell individua due componenti principali della metamemoria. La prima è presente
già nei bambini di tre anni, ed è la capacità di discernere tra quei compiti che richiedono l’uso della
memoria in modo consapevole, e quelli che non lo richiedono. La seconda componente è la
conoscenza dei fattori che ostacolano o favoriscono il compito di memorizzazione: il fattore delle
caratteristiche della persona (oltre alle caratteristiche comuni a ogni individuo, ovvero il fatto che la
memoria di lavoro ha una capacità limitata, ci sono le caratteristiche specifiche di ogni essere
umano: c’è chi ricorda meglio le parole, chi i suoni, chi le immagini) indica il livello di
consapevolezza della capacità della propria memoria e delle proprie attitudini: questa attitudine si
esibisce gradualmente nei bambini. Man mano che l’età avanza, matura anche la conoscenza della
capacità della propria memoria (intorno ai 9 anni). Per il fattore riguardante le caratteristiche del
materiale da ricordare e del compito da svolgere, bisogna considerare che il ricordo di un gruppo di
parole sconnesse, piuttosto che di un racconto, richiedono difficoltà diverse. Inoltre, è più semplice
ricordare coppie di parole che hanno un legame tra loro, che coppie di parole sconnesse: la
consapevolezza di queste dinamiche matura intorno ai 9 anni.
Durante l’esecuzione di un compito, le principali attività metacognitive sono: monitorare
(chiedersi a che punto si è rispetto alla conclusione del compito), controllare (chiedersi perché si è
a quel punto, analizzando eventuali ritardi o anticipi), regolare (modificare i passaggi nei quali si
articola il compito, intervenendo in modo che lo stesso prenda un percorso diverso in termini di
attività svolte, tempo e risorse utilizzate).

5.11.
Il costruttivismo è considerato il punto di arrivo delle precedenti teorie dell’apprendimento, come
il comportamentismo e il cognitivismo. Esso ipotizza una serie di strutture psichiche che
permettono di costruire un modo personale di interpretare la realtà. La realtà è dunque soggettiva, e
ciascun individuo la ordina nella maniera che gli sembra più funzionale. Non ha senso chiedersi
quale interpretazione si avvicini più alla realtà oggettiva; ciò che conta è quanto possa essere utile
all’individuo la sua descrizione della realtà.
Piaget, Vigotskij e Bruner sono considerati i padri e precursori del costruttivismo, in quanto hanno
messo in evidenza l’adattamento dell’individuo all’ambiente come forma di conoscenza. Il concetto
costruttivista di accomodamento prevede che un bambino sia in grado di imitare il comportamento
altrui per modificare il proprio.
Esistono declinazioni diverse di questo movimento, tanto che si usa il plurale costruttivismi; Chiari
e Nuzzo ritengono che questo movimento sia il ponte di collegamento tra le correnti filosofiche del
realismo e del nominalismo.
Il realismo afferma che gli oggetti materiali esistono come realtà esterna a noi, e che si può
conoscere in qualche misura questa realtà; il nominalismo afferma che non esiste una realtà esterna
e oggettiva, ma che la sua rappresentazione è sempre frutto della nostra mente. Il costruttivismo, per
certi versi, asserisce l’esistenza di una realtà oggettiva, ma sostiene che tale realtà è solo
parzialmente comprensibile, in quanto la conoscenza è mediata dai nostri processi mentali.
Partendo da queste sintesi, Raskin classifica diverse tipologie di costruttivismo:
Realismo limitato (o critico), secondo il quale esiste una realtà oggettiva che è possibile conoscere
ma solo in maniera parziale e imperfetta, a causa della percezione umana che è limitata;
Costruttivismo epistemologico, il cui paradigma è l’esistenza di una realtà oggettiva inconoscibile
dall’osservatore, se non attraverso un processo di costruzione della stessa. Non è opportuno
chiedersi quanto quella costruzione sia fedele, ma quanto sia valida e utile;
Costruttivismo ermeneutico, nel quale non si crede nell’esistenza di una realtà oggettiva
indipendente dall’individuo. La conoscenza è frutto della mediazione del linguaggio e
dell’interazione tra diversi osservatori. Il linguaggio assume un significato relativo al soggetto che
lo usa; l’interazione tra individui favorisce una mediazione e una negoziazione di significati e
interpretazioni;
Lo psicologo George Kelly ha formulato la teoria dei costrutti personali: la costruzione della realtà
è guidata dalle funzioni psicologiche dell’individuo (costruttivismo personale);
Lo psicologo Ernst von Glasersfeld adotta il cosiddetto costruttivismo radicale, che si riconduce
al costruttivismo epistemologico. Il termine nasce per differenziarlo da altri approcci come il
costruttivismo banale (o moderato) che si avvicinano più al realismo limitato;
Il biologo e filosofo Humberto Maturana ha formulato una teoria che si inquadra nel
costruttivismo ermeneutico, per il quale non si può ragionare intorno a una realtà indipendente
dall’osservatore.

5.11.2.
La cibernetica, materia di cui si sono interessati molti costruttivisti, si occupa di studiare i sistemi
di autoregolazione e di controllo di un sistema: esso può essere naturale (un organismo), sociale (un
gruppo di individui) o artificiale (una macchina).
L’omeostato è un sistema naturale o artificiale inserito in un ambiente e distinguibile da esso. Il
sistema, in grado di autoregolarsi e di mantenere la sua organizzazione, attua diversi tipi di
comportamenti in base agli stimoli che riceve dall’ambiente. Di volta in volta, è in grado di
selezionare quel comportamento che gli permette di vivere in modo agevole.
Questo concetto si lega a quello di feedback, che consiste nell’informazione che il sistema riceve
dopo aver attuato il suo comportamento: esso viene adoperato dal sistema per apprendere i risultati
del suo comportamento e per attuare comportamenti più efficaci in futuro. Il feedback negativo o
convergente corregge o elimina criticità, mantenendo stabile un comportamento, mentre il
feedback positivo o divergente permette il cambiamento ed esplora nuovi comportamenti da
mettere in atto.
Infine, la cibernetica di primo ordine studia i sistemi in sé, mentre quella di secondo ordine studia
i sistemi considerando anche il ruolo che l’osservatore assume nel descriverli e studiarli.

5.11.3.
Lo psicologo George Kelly è considerato uno dei padri del costruttivismo; nelle sue opere egli
presenta la psicologia dei costrutti personali, nella quale afferma che la conoscenza non può
essere costruita come qualcosa di oggettivo, ma è una rappresentazione della realtà che ogni
individuo realizza in modo personale e soggettivo.
Ciascun individuo formula delle ipotesi sulla realtà circostante e tenta di convalidare o confutare
tale ipotesi; ognuno è disposto a rivedere le proprie convinzioni sulla realtà circostante, costruendo
delle visioni alternative; inoltre, può sentire il bisogno di confrontare la propria costruzione della
realtà con costruzioni alternative fatte da altri individui. Ciascun individuo deve essere cosciente
che possa esistere una descrizione alternativa della realtà: questa posizione è chiamata
alternativismo costruttivo. Nella consolidata dialettica presente tra le correnti del realismo e del
nominalismo, Kelly tende verso quest’ultimo: il lavoro quotidiano dell’uomo-scienziato mira a
realizzare costruzioni del mondo circostante, al fine di anticipare eventi e fenomeni che in esso si
verificano.
La psicologia dei costrutti personali di Kelly si basa sul seguente postulato:

“I processi di una persona sono canalizzati da un punto di vista psicologico dalle modalità con le
quali la persona anticipa gli eventi” (un individuo si comporta in base a ciò che si aspetta che
accada o che ha in progetto di far accadere).

Le modalità con le quali un individuo formula le sue anticipazioni sono i costrutti, espressione con
cui Kelly intende le interpretazioni che diamo agli eventi, oppure i termini con i quali decidiamo di
ricercare la replicabilità tra gli stessi. Il costrutto è l’unità fondamentale con il quale l’uomo realizza
le sue costruzioni, la sua visione del mondo, la sua anticipazione della realtà.
Dal principale postulato seguono undici corollari:
• Il corollario della costruzione afferma che una persona anticipa gli eventi costruendo delle
loro repliche (l’interpretazione che diamo agli eventi passati rende possibile anticipare
l’esito di quelli futuri);
• il corollario dell’individualità stabilisce che le interpretazioni che le persone danno agli
eventi differiscono tra loro;
• Il corollario dell’organizzazione stabilisce che i costrutti sono organizzati in sistemi di
relazioni gerarchiche (un costrutto può implicarne un altro, oppure può includere un altro
costrutto come suo elemento. Ad esempio, è possibile considerare il costrutto buono-cattivo
come sovraordinato al costrutto intelligente-stupido, se nel sistema di costrutti
dell’individuo l’essere intelligente implica l’essere buono);
• Il corollario della dicotomia asserisce che il sistema di costruzioni personali di un
individuo è costituito da un numero finito di costrutti dicotomici (per tale corollario il
pensiero è dicotomico. Per Kelly, per determinare un costrutto servono tre elementi: tra due
elementi si deve stabilire una similarità, per definire uno dei poli del costrutto; il terzo
elemento serve a creare il contrasto con i due precedenti e a individuare l’altro polo del
costrutto);
• Il corollario della scelta afferma che una persona sceglie per se stessa in un costrutto
dicotomico quella delle due alternative che anticipa la maggiore possibilità di elaborazione
del suo sistema (quando un individuo deve costruire un evento, egli sceglie la costruzione
che gli permette di allargare maggiormente la sua comprensione delle cose);
• Il corollario del campo di applicabilità afferma che un costrutto è applicabile e utile solo
in un campo finito di eventi (ad esempio, il costrutto maschio-femmina non si applica
all’evento tempo, che non viene definito in base alla sua possibilità di essere maschio o
femmina);
• Il corollario dell’esperienza asserisce che il sistema di costrutti di un individuo varia in
base alle successive costruzioni di repliche di eventi (se le anticipazioni di un individuo in
base agli eventi non trovano riscontro nell’esperienza, il sistema di costruzione subisce dei
cambiamenti progressivi);
• Il corollario della modulazione asserisce che esistono condizioni mediante le quali
possiamo aspettarci cambi nel sistema di costrutti (ciascun individuo ha una modalità
attraverso cui cambia il suo sistema di costrutti);
• Il corollario della frammentazione afferma che una persona può costruire una varietà di
sotto-sistemi che sono tra loro incompatibili (l’incompatibilità di due sistemi di costruzioni
deriva dal fatto che essi portano ad anticipazioni diverse rispetto ad alcuni eventi);
• Il corollario della comunanza afferma che se una persona ha un sistema di costrutti
derivanti dall’esperienza che sono simili a quelli di un’altra persona, allora i suoi processi
psicologici finiranno con l’essere simili a quelli dell’altra persona;
• Il corollario della socialità asserisce che se una persona contribuisce a costruire i processi
di costruzione di un’altra persona, allora la prima persona può giocare un ruolo nei processi
sociali che coinvolgono la seconda.

5.1.4.
Ernst von Glasersfeldt, filosofo tedesco, ha aderito alla corrente filosofica e psicologica del
costruttivismo radicale. Per elaborare la sua teoria, egli parte dall’epistemologia genetica di Piaget
che descrive l’evoluzione cognitiva attraverso il passaggio a stadi, nei quali il soggetto entra in
equilibrio con l’ambiente circostante. Questo equilibrio è caratterizzato da schemi che l’uomo
adotta per interagire con l’ambiente; questi schemi, che col tempo diventano strutture cognitive,
sono costruiti mediante l’assimilazione e l’accomodamento. Von Glasersfeldt propone una visione
costruttivista dei due concetti: l’assimilazione può essere considerata costruttivista perché
l’individuo raccoglie informazioni dall’esterno e poi le adatta al suo attuale sistema di
comprensione, generato dall’esperienza; l’accomodamento può essere visto come costruttivista
perché l’individuo, quando l’azione intrapresa non conduce al risultato atteso, riadatta in modo
differente le sue strutture cognitive.
Egli cerca di riassumere gli studi di Piaget in un’unica teoria coerente, che si basa sui seguenti
principi:

• la conoscenza non si riceve passivamente mediante i sensi ma viene costruita attivamente


dal soggetto;
• la funzione della cognizione è di tipo adattivo, nel senso biologico del termine;
• l’adattamento è inteso come una tendenza alla praticabilità di un’azione e alla sua
adeguatezza nel contesto esterno.

Questi principi, incompatibili con la concezione di realtà oggettiva, causano una ricostruzione del
concetto di realtà.
Il costruttivismo radicale parte dall’assunto che la conoscenza è sempre frutto dell’esperienza
personale, così come rielaborata dalla mente di una persona; non è detto che due soggetti diversi
costruiscano e metabolizzino la stessa esperienza nello stesso modo. Anche il linguaggio non fa
eccezione: l’esperienza individuale spesso fa assumere significati diversi alle espressioni e alle
parole, a seconda del soggetto che ne fa uso. Per tale motivo, anche la conoscenza veicolata tramite
il linguaggio, scritto o parlato, ha delle caratteristiche personali. Il costruttivismo radicale non si
propone di trovare una realtà ontologica, ma semplicemente un modello ipotetico di realtà che si
rivela utile.
Tra le implicazioni del costruttivismo nel campo dell’educazione, un primo aspetto importante è la
distinzione tra addestramento e apprendimento: il primo pone attenzione su cosa è utile saper fare
(acquisizione di abilità), mentre il secondo mette in rilievo che è importante conoscere e
comprendere a fondo i concetti con cui veniamo a contatto (costruzione di una conoscenza). Un
curricolo può essere costruito in maniera efficace se si separano i compiti di addestramento dai
compiti di apprendimento.
Un altro punto critico è l’uso delle parole. Non è detto che la conoscenza possa essere trasferita
semplicemente con l’uso delle parole: a volte la spiegazione verbale non porta alla comprensione,
perché le parole potrebbero non essere associate dall’apprendente con ciò che ha maturato in
precedenza.
L’apprendimento è un processo di auto-organizzazione dei concetti da parte dell’apprendente,
pertanto la conoscenza non è appresa in modo passivo. Quando il discente ha un impatto con
un’esperienza nuova, egli sperimenta una perturbazione rispetto a quanto si aspetterebbe dalle
strutture cognitive di cui dispone. Questa nuova esperienza deve essere assimilata o accomodata
nelle strutture preesistenti, in modo da creare nuova conoscenza: in tal modo, il discente torna in
equilibrio con l’ambiente circostante. Per favorire tale processo, e stimolare tali perturbamenti, il
docente costruttivista favorisce la creazione di gruppi di apprendimento. In essi, due o tre studenti
discutono approcci e soluzioni a un problema, senza interferenze dirette da parte del docente, ma
piuttosto con un monitoraggio costante. Essendo la visione costruttivista basata sull’interpretazione
della realtà secondo una propria visione, la soluzione del discente potrebbe non essere la stessa del
docente. Anche quando l’approccio del discente è errato, è compito del docente sviscerare la
soluzione al fine di coglierne i passaggi positivi, al fine di non demotivare l’alunno.
Per quanto riguarda la motivazione in generale, infine, von Glasersfeldt afferma che non è difficile
crearla per quanto riguarda l’ambito dell’addestramento, in quanto l’alunno riconosce subito l’utilità
di ciò che sta apprendendo; per l’ambito dell’apprendimento, invece, è necessario che l’alunno
percepisca il vantaggio di padroneggiare modelli concettuali che hanno un vasto ambito di
applicazione.

5.11.5.
Humberto Maturana, biologo cileno, si è occupato di cibernetica e ha sviluppato i concetti di
autopoiesi e multiverso. I suoi studi lo collocano nell’ambito del costruttivismo radicale.
Maturana, in una ricerca svolta con Varela e Uribe, propone un approccio innovativo nella
definizione delle caratteristiche di un essere vivente: tale definizione deve partire dal concetto di
sistema, come entità costituita da alcune componenti che sono in relazione tra loro e che
permettono di vedere tale sistema come entità organizzata. Tale sistema, per essere considerato
vivente, deve essere costituito da una rete di produzione di componenti che hanno le seguenti
caratteristiche:

• partecipano ricorsivamente alla stessa rete di produzione da cui derivano, producendo quei
componenti da cui erano stati generati;
• realizzano la rete di produzione come un’unità nello spazio e nell’ambiente in cui si
producono i componenti.

Ovvero, si può affermare che il sistema riproduce continuamente se stesso ed è ben delineato
nello spazio fisico. Un esempio di tale organizzazione è la cellula: è dotata di una serie di reazioni
chimiche che produce molecole, le quali a loro volta si uniscono al sistema di reazioni chimiche che
le ha prodotte per crearne di nuove. Inoltre, questa modalità di produzione riesce a definire e
delineare nello spazio la cellula come entità unitaria che può essere distinta nell’ambiente
circostante. L’organizzazione che caratterizza le componenti di un sistema vivente è anche detta
organizzazione autopoietica (autopoiesi significa auto-creazione).
Maturana giunge a una formulazione della modalità con cui un essere vivente apprende, partendo
dalla teoria dell’evoluzione della specie di Darwin, secondo la quale i passaggi evolutivi di una
specie hanno luogo quando questa si adatta all’ambiente in cui vive. La prospettiva di Maturana e
Varela è che gli organismi viventi e l’ambiente circostante si adattano continuamente e
reciprocamente: l’evoluzione, dunque, va letta in chiave coevolutiva. Essa coinvolge la specie ma
anche l’ambiente: questo concetto è chiamato accoppiamento strutturale e indica che sia
l’organismo che l’ambiente interagiscono tra loro e danno vita a una continua storia di cambiamenti
reciproci e di evoluzioni. Inoltre, l’ambiente non funge da strumento selettivo per le specie, ma
funziona per esse come strumento di attivazione. Parimenti, l’essere vivente è una fonte di
perturbazione per l’ambiente, nei confronti del quale funge da strumento di attivazione. Le modalità
con cui un essere vivente attiva l’ambiente sono legate alla sua struttura: questo concetto viene
chiamato determinismo strutturale.
Per Maturana e Varela, le risposte adattive all’ambiente sono una forma di cognizione, conducono
cioè ad un processo di apprendimento. Occorre distinguere due livelli di apprendimento. Un primo
livello è di carattere ontogenetico, ossia si riferisce allo sviluppo di ogni singolo essere vivente nella
sua esperienza personale. A questa modalità si aggiunge quella di carattere filogenetico: in questo
caso ci si riferisce a comportamenti istintivi, caratteristiche tipiche e capacità innate di ogni essere
vivente, che sono comuni a tutti gli organismi di quella specie. Maturana afferma che ognuno di noi
è frutto non solo dell’apprendimento che sviluppa nella sua storia personale, ma anche di quello che
hanno sviluppato i suoi antenati.
Un concetto fondamentale del costruttivismo di Maturana è il Multiverso. Quando si assume che
esista una realtà oggettiva, indipendente dall’esperienza dell’individuo, allora si assume che tale
realtà possa essere conosciuta mediante un processo di percezione e di successivo ragionamento.
Secondo questa prospettiva, è necessario assumere che esista un’unica realtà, un Universo. Una
differenza di vedute tra due osservatori può essere risolta stabilendo che la prospettiva corretta
appartiene all’osservatore dotato di una visione conforme al modello dell’Universo, che serve per
convalidare le esperienze. Maturana prova a definire tali dinamiche sotto una prospettiva nuova: nel
momento in cui percepiamo una realtà, non siamo in grado di distinguere se essa sia oggettiva,
un’illusione, o un errore di valutazione. Il momento del discernimento è sempre successivo alla
percezione, e coincide con il momento di interazione con gli altri: tuttavia, la conferma sociale di
una nostra esperienza non giustifica l’esistenza di una realtà oggettiva.
Se si abbandona la prospettiva di avere accesso a una realtà oggettiva, si accetta la costruzione di
una realtà soggettiva che fa capo al dominio di osservazione del singolo individuo. La realtà
dipende dal singolo osservatore, ed esistono tanti domini di osservazione quanti sono gli individui,
tutti ugualmente validi e utili. Il concetto di oggettività viene sostituito da (oggettività) tra parentesi.
L’esistenza di un Multiverso implica l’esistenza di molteplici realtà definite dalle esperienze di
innumerevoli individui, ciascuno dei quali legge la realtà in un modo a lui utile. Durante la sua
esperienza, ogni osservatore pone in rilievo alcuni aspetti dell’ambiente mediante le distinzioni,
ovvero le caratteristiche dell’ambiente che interessano l’osservatore per interagire con esso.
Pertanto, il costruttivismo di Maturana non prevede l’esistenza di alcuna realtà oggettiva: quello che
conta è ciò che l’osservatore mette in evidenza, tramite le distinzioni operate nell’ambiente.

5.11.6.
Il fisico Heinz von Foerster ha fornito importanti contributi nell’ambito della cibernetica e del
costruttivismo radicale.
Per il fisico, cognizione vuol dire computare una realtà: computare significa riflettere, osservare,
contemplare; l’articolo indeterminativo una si riferisce al fatto che esistono diverse realtà che si
distinguono in base all’osservatore; l’osservazione non corrisponde alla scoperta della realtà, ma è
una delle possibili descrizioni dell’ambiente. Pertanto, la definizione di cognizione può essere:
computare descrizioni di una realtà.
A partire dagli studi neurofisiologici, sappiamo che le sensazioni esterne vengono elaborate su un
primo livello neurale, e che poi tale elaborazione viene trasmessa a livelli neurali sempre più alti,
venendo di volta in volta rielaborata. Considerando che le sensazioni iniziali vengono computate
ricorsivamente, piuttosto che percepire una realtà, percepiamo una computazione di una descrizione
fatta su un certo livello neurale, che, a sua volta, è il risultato di una computazione di una
descrizione fatta sul livello neurale precedente, e così via. Possiamo quindi affermare che il
processo cognitivo è un ciclo ricorsivo di computazioni che sono opera dell’osservatore.
Von Foerster analizza poi le criticità del sistema di istruzione, generate da una crisi del pensiero
moderno, caratterizzato dall’assopimento della creatività degli individui.
Molti tendono a confondere un processo, ossia una serie di azioni coordinate in un algoritmo, con
un prodotto, ovvero un bene. Le parole informazione e conoscenza definiscono ormai dei prodotti
e non dei processi attivi: le scuole e le università sono sempre più considerate come “depositarie”
del sapere, come se questo fosse un bene di cui venire in possesso. Questo presuppone che il sapere
sia qualcosa da acquisire dagli altri e che non deve essere costruito in prima persona.
Il linguaggio smette di essere il mezzo per esprimere le nostre esperienze, e diventa il mezzo con il
quale acquisire le idee confezionate da altri. Von Foerster cita l’esperimento nel quale vengono
distribuite delle carte a dei gruppi di adulti e di bambini; questi devono creare delle coppie o gruppi
di carte in base ad associazioni che stabiliscono tra le parole riportate nelle carte. Il risultato è che
gli adulti associano le carte in base a categorie sintattiche (mela-latte-zucchero), mentre i bambini in
base a categorie semantiche (mela-mangiare). Questa prospettiva mostra una ricchezza percettiva
che gli adulti hanno perso, come se il sistema di istruzione inibisse le potenzialità comunicative del
linguaggio.
Infine, alla base dell’insegnamento vi sono due pilastri che costituiscono applicazioni errate del
metodo scientifico. Innanzitutto, l’asserto per il quale le regole osservate in passato si devono
applicare anche in futuro. Questa norma preclude ogni forma di evoluzione (cambiamento)
individuale e sociale. La seconda regola prevede che dato un set di cause e un set di effetti, il
metodo scientifico prevede di concentrarsi su uno degli effetti e restringere il campo finché si trova
la causa che lo determina. Procedere in questo modo è deleterio perché si finisce per ragionare sulla
base di un rapporto diretto tra causa ed effetto, senza includere le implicazioni che quella causa può
determinare, e soprattutto si finisce col perdere di vista la causa finale, ossia la finalità per la quale
si ha un determinato effetto.
Tutte queste circostanze possono ricondursi alla banalizzazione del processo di insegnamento-
apprendimento. Per descrivere le pratiche didattiche usuali, von Foerster attinge dai suoi studi sulla
cibernetica e declina i concetti di macchina banale e non banale nel campo dell’istruzione.
La macchina banale è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra l’input (lo stimolo ricevuto) e
l’output (la risposta fornita). L’invarianza delle risposte fa sì che tale macchina possa essere
descritta come un sistema deterministico (o un sistema prevedibile).
La macchina non banale è caratterizzata da una relazione diversa tra l’input e l’output. Per lo
stesso stimolo, la macchina non risponde sempre allo stesso modo: la risposta che essa fornisce è
frutto delle risposte che ha dato in precedenza. Pertanto, le macchine non banali sono dei sistemi
non prevedibili, e quindi difficilmente utilizzabili nella pratica (un asciugacapelli deve comportarsi
sempre allo stesso modo per poter essere utile). Questo processo di banalizzazione diventa nocivo
se applicato all’uomo, soprattutto nel sistema di istruzione. Esso accoglie in ingresso dei bambini
che sono, per certi versi, imprevedibili, come le macchine non banali. Progressivamente, il sistema
tende a banalizzare gli studenti, inducendoli a fornire risposte attese e prevedibili alle domande.
Il problema del sistema di istruzione si fonda su quelle che von Foerster chiama domande
illegittime: si tratta di domande di cui si conosce già la risposta. Spesso il docente si aspetta dallo
studente una riproduzione di un sapere già conosciuto, che non aggiungono nulla al sapere
complessivo dell’umanità. Il focus dovrebbe spostarsi sulle domande legittime, ovvero quelle che
ancora non hanno risposta, per stimolare il potenziale creativo dello studente.
La scuola del futuro dovrebbe concepire ogni studente come entità autonoma, ed essere consapevole
dei seguenti asserti:

• l’educazione non è un diritto né un privilegio, ma una necessità (l’intera comunità ha


bisogno del contributo di tutti i suoi componenti, i quali possono darlo solo se istruiti);
• l’educazione è imparare a formulare domande legittime (l’istruzione deve essere un
percorso dinamico, fatto di scoperte e una continua costruzione della conoscenza);
• A sta meglio quando B sta meglio (ciascun individuo sta meglio se anche tutti gli altri stanno
meglio).

5.12.1
Paulo Freire è stato un pedagogista brasiliano, tra i fondatori della pedagogia critica. È ricordato in
modo particolare per aver introdotto i concetti di problem posing all’interno del processo/progetto
educativo. Il problem posing consiste nell’individuazione e nella concettualizzazione di un
problema attraverso la riflessione su una situazione sfidante in cui l’alunno si trova. Tale
metodologia intende sottolineare ed evidenziare le capacità di pensiero critico dell’alunno, che deve
individuare le informazioni disponibili per analizzare il problema, ed eventualmente riconoscere le
informazioni mancanti per delinearlo efficacemente. Egli è conosciuto anche per il suo attacco a
quello che chiama il concetto “bancario” dell’educazione, in cui lo studente viene visto come un
conto vuoto che dev’essere riempito dal docente (educazione depositaria).

5.12.2.
Alexander Sutherland Neill è stato un pedagogista scozzese. Egli fonda la sua concezione
educativa sulla fede nella bontà originaria della natura umana. I vari aspetti della sua teoria
possono essere riassunti in due concetti fondamentali:

• I bambini non hanno bisogno di insegnamenti, ma di amore e comprensione. Per essere


naturalmente buoni hanno bisogno di sentirsi approvati e liberi; in ogni momento
dell’esperienza educativa il principio fondamentale dev’essere quello dell’assoluto rispetto
degli interessi e dei bisogni del soggetto.
• Dare libertà vuol dire permettere al bambino di vivere la sua vita. Libertà per Neill significa
fare ciò che piace, purché questo non limiti la libertà degli altri. Neill ha avuto il merito di
acquisire concetti già esistenti sullo sviluppo spontaneo e di elaborarli secondo le moderne
concezioni educative legate alla psicologia del profondo, secondo la quale non è consentito
ostacolare la spontaneità e la natura del bambino senza che questo provochi conflitti
dolorosi.
5.12.3.
Zygmunt Bauman, sociologo, filosofo e accademico polacco, ha spiegato la postmodernità
secondo le metafore di modernità liquida e solida. Nei suoi libri sostiene che l’incertezza che
attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a
consumatori. Il consumismo, la globalizzazione, l’industria della paura portano l’individuo a una
vita liquida sempre più frenetica.

5.12.4
Pierre Bordieu è stato un sociologo, antropologo, filosofo e accademico francese. La sua opera
sociologica è dominata da un’analisi dei meccanismi di riproduzione delle gerarchie sociali. Egli
sostiene che la capacità degli agenti sociali, in posizione dominante, di imporre le loro “produzioni”
culturali e simboliche giocano un ruolo determinante nei rapporti sociali di dominazione. È quella
che Bordieu chiama violenza simbolica, che definisce come la capacità di nascondere l’arbitrarietà
di queste produzioni simboliche, e quindi di farle ammettere come legittime agli attori sociali
dominanti.
Il moderno mondo sociale è diviso in campi. La differenziazione delle diverse attività sociali ha
costituito diversi spazi sociali, come il campo artistico o il campo politico, ognuno dei quali
specializzato nella realizzazione di una determinata attività sociale. All’interno di ogni campo si
creano gerarchie e dinamiche di dominio che derivano dalla lotta per la conquista della posizione
dominante.
Egli ha inoltre sviluppato, all’interno di una sua teoria dell’azione sociale, un altro importante
concetto, quello di habitus, il principio di azione degli agenti sociali esercitato all’interno del
campo sociale. Quest’ultimo è lo spazio sociale all’interno del quale si realizza la competizione fra
i diversi agenti per il dominio.
Studiando le relazioni tra la disuguaglianza sociale e la cultura, l’autore ha proposto di affiancare
all’analisi del capitale economico, gli aspetti del capitale sociale (l’insieme delle relazioni
interpersonali che portano alla crescita delle altre forme di capitale individuale) e il capitale
culturale (le competenze sviluppate nel corso della propria socializzazione di classe); infine, la
combinazione di questi produce il capitale simbolico, che fa interiorizzare inconsciamente nei
dominanti e nei dominati le ragioni di questa discrepanza. Il capitale culturale può essere di tre tipi:
il capitale culturale incorporato (quello interiorizzato col tempo, che si manifesta con
atteggiamenti permanenti automatici che danno l’impressione di essere innati), il capitale culturale
istituzionalizzato (l’insieme dei titoli di studio) e il capitale culturale oggettivato (formato dai beni
materiali posseduti e trasmissibili).
Bordieu, infine, sviluppa un’analisi critica nei confronti del sistema scolastico, il quale ha come
risultato quello di riprodurre la struttura sociale esistente, e non la mobilità sociale che si
prefiggerebbe come scopo dichiarato. Ciò avverrebbe perché l’educazione, in particolare quella
umanistica, inculcherebbe non tanto il sapere, quando gli habitus che riguardano il rapporto con il
sapere. Questi habitus sarebbero convergenti con gli habitus familiari di certi gruppi sociali, che
dunque si ritroverebbero avvantaggiati rispetto ad altri. In questo modo, il sistema scolastico non
selezionerebbe chi possiede il sapere, ma chi appartiene a una determinata classe sociale.

5.12.5.
Edgar Morin è un filosofo e sociologo francese, noto per l’approccio multidisciplinare e
transdisciplinare come sguardo per descrivere la realtà. Come pedagogista ha dedicato gran parte
della sua opera ai problemi di una “riforma del pensiero”, affrontando le questioni sull’umanità e
sulla complessità della società globalizzata, teorizzando la necessità di una nuova conoscenza che
superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di educare gli educatori
a un pensiero della complessità.
Morin sostiene che la cultura è spezzata in due blocchi: da una parte la cultura umanistica che
affronta la riflessione sui fondamentali problemi umani, dall’altra la cultura scientifica, che suscita
straordinarie scoperte ma non una riflessione sul destino umano. L’indebolimento di una percezione
globale conduce all’indebolimento del senso della responsabilità (ciascuno tende a essere
responsabile solo del proprio compito specializzato) e della solidarietà (ciascuno percepisce solo il
legame con il proprio ambiente). Secondo Morin è necessario attuare una riforma
dell’insegnamento e una riforma del pensiero, così da trasformare il paradigma che restituisce una
“testa ben piena” (concetto che indica una mente nella quale il sapere è accumulato senza un
principio di selezione che gli dia un senso) per ottenere invece una “testa ben fatta” (che comporta
dei principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro un senso). Secondo
Morin, una testa ben fatta porrebbe fine alla separazione tra le culture.
Altro contributo di rilievo è il saggio “I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, scritto nel
1999 su commissione dell’UNESCO. I sette principi sono i seguenti:

• Limiti della conoscenza: l’errore e l’illusione (la conoscenza della conoscenza deve essere
assunta come necessità prioritaria, per educare i giovani ad affrontare i rischi di errore e di
illusione che insidiano la mente umana);
• Educare a un sapere pertinente (bisogna promuovere una conoscenza capace di
inquadrare le cose nei loro contesti, nella loro complessità);
• Insegnare la condizione umana (l’essere umano è un insieme fisico, biologico, culturale,
sociale...bisogna ricomporre questa unità, in modo che ciascuno abbia conoscenza e
consapevolezza della propria identità che lo accomuna agli altri esseri umani);
• Educare all’identità terrestre (bisogna indicare le caratteristiche della crisi planetaria che
ha segnato il XX secolo, dimostrando come tutti gli uomini condividono lo stesso destino);
• Educare ad affrontare l’imprevisto (si dovranno insegnare alcune strategie che permettano
di affrontare i rischi e l’imprevisto);
• Educare alla comprensione (la mutua comprensione tra gli uomini, vicini a noi o a noi
estranei, è vitale per far uscire le relazioni umane dalla barbarie);
• L’etica del genere umano (l’insegnamento dovrà portare alla costruzione di
un’”antropoetica”, che faccia riferimento alla triplice condizione umana, ovvero all’uomo
come individuo, come società e come specie.

6.1.
Sebbene non esista una definizione univoca di intelligenza, è possibile dividere le varie definizioni
in gruppi. Esistono delle definizioni di tipo generale, secondo cui l’intelligenza è la capacità degli
esseri umani e degli animali di adattarsi all’ambiente; definizioni di tipo specifico, secondo le quali
l’intelligenza è un insieme di processi mentali tipici dell’essere umano, come la capacità di
comprendere e valutare una situazione, o di risolvere un problema; e definizioni di tipo operativo,
che si concentrano solo su alcuni aspetti dell’intelligenza e li osservano attraverso dei test specifici,
che definiscono il comportamento intelligente in merito a quel particolare aspetto osservato.
L’individuo, pur essendo il prodotto della serie di influenze esercitate dalla famiglia, dalla scuola e
dalla collettività, conserva la propria unicità. Lo psicologo utilizza i test di abilità per lo studio delle
differenze soggettive: i test attitudinali mirano a predire il successo in qualche attività, i test di
profitto misurano il livello di capacità raggiunto dopo un periodo di addestramento. I test più
conosciuti tra i test di attitudine sono i test d’intelligenza, derivati dalle scale elaborate da Alfred
Binet nel 1905, e a cui si deve il concetto di età mentale. In base a tali scale, i ragazzi poco dotati
furono considerati in ritardo nello sviluppo, mentre i bambini dotati furono considerati in anticipo.
La revisione più conosciuta è stata quella conosciuta come Stanford-Binet, sviluppata da Lewis
Madison Terman, che introdusse il quoziente di intelligenza, valore che indica il rapporto tra età
mentale ed età cronologica: il numero 100 indicava il quoziente intellettivo medio.
Joy Paul Guilford ha ampliato il concetto di intelligenza differenziando una produzione
divergente (il pensiero creativo) da una produzione convergente (il pensiero capace di identificare
una soluzione logica univoca).
Negli studi sull’intelligenza emergono le tradizioni dell’approccio psicometrico (si basa sulla
pratica dei test di misura dell’intelligenza e sull’osservazione delle capacità dimostrate), l’approccio
cognitivo (ricostruisce i processi mentali che sottendono le prestazioni), e l’approccio funzionale
(considera l’intelligenza come uno strumento adattivo e attribuisce importanza non solo alle abilità
cognitive, ma anche emotive e sociali).

6.2.1.
nel 1997 lo psicologo Reuven Bar-On mise a punto un test per valutare l’intelligenza emotiva, in
riferimento al concetto da lui definito come “quoziente emotivo”. Esso va valutato tenendo in
considerazione cinque aree:

• Area intrapersonale: l’autoconsapevolezza emotiva e la capacità di esprimere ciò che siamo;


• Area interpersonale: la nostra consapevolezza sociale e la nostra capacità di relazione;
• Area di gestione dello stress: la capacità di tollerare lo stress e controllare gli impulsi;
• Area dell’adattabilità: la capacità di gestire il cambiamento e di confrontare i pensieri e i
sentimenti con la realtà;
• Area dell’umore generale: la capacità di automotivarci e di guardare alla vita con ottimismo.

Altri test per la misurazione dell’intelligenza emotiva sono:

• il Reading the Mind in the Eyes Test, impiegato per valutare la capacità di riconoscere e e
comprendere lo stato mentale delle altre persone. Ai soggetti viene mostrata una serie di
fotografie, ciascuna delle quali raffigura solamente gli occhi di una persona; il compito è
indicare quale, tra le quattro parole proposte, descriva meglio il suo stato d’animo;
• la scala di abilità MSCEIT (che prende il nome dagli psicologi che l’hanno elaborata)
consente di valutare come le persone svolgono compiti e risolvono problemi emotivi. Il test
parte dal presupposto che l’intelligenza emotiva sia un’attività cognitiva a tutti gli effetti e si
configura come una scala di abilità basata sulla performance nello svolgimento di compiti
emotivi;
• il test della Creatività e del pensiero Divergente, ideato da Frank Williams, si sviluppa
attraverso l’analisi di 4 fattori cognitivo-divergenti del pensiero creativo e di 4 fattori
emotivo-divergenti della personalità creativa. Con questo test viene stilato un profilo
accurato della creatività di bambini e ragazzi, ma può essere utilizzato anche per genitori e
insegnanti;
• il Torrance Test, ideato da Ellis Paul Torrance, è mirato alla misurazione delle abilità di
pensiero creativo e di problem solving mediante l’esame delle dimensioni attitudinali
relative alla creatività, ovvero fluency (le idee più significative), flexibility (le differenti
categorie delle risposte rilevanti), originality (l’originalità statistica delle risposte) ed
elaboration (la presenza di “dettagli” nelle risposte). Si tratta di un test che non indaga sulla
capacità di dare la risposta giusta, quanto l’abilità di dare risposte flessibili e significative,
oltre a misurare la capacità di fornire risposte diverse, originali, accurate e che combinano
elementi eterogenei;
• Il test dei “nove punti neri” ideato da Paul Watzlavick, consistente nel congiungere nove
punti neri presenti su un foglio con quattro linee rette senza mai staccare la penna dal foglio;
• la scala di valori elaborata da Allport, Vernon e Lindzey, elaborata per stabilire se gli
individui creativi siano o meno diversi da quelli che non lo sono. Sulla base di tale scala,
Getzels e Csikszentmihalyi hanno descritto il profilo di valori che contraddistingue i
creativi. Il test misura come i valori dei soggetti si distribuiscono nelle categorie:
◦ valore teoretico (pensiero astratto);
◦ valore economico (ricchezza materiale);
◦ valore estetico (arte e bellezza);
◦ valore sociale (relazioni interpersonali);
◦ valore politico (potere);
◦ valore religioso (vita dello spirito);
• il metodo Consensual Assessment Technique, sviluppato da Teresa Amabile, per la
valutazione psicometrica della creatività, che consiste nel chiedere al partecipante di creare
un oggetto affinché questo venga poi valutato individualmente da un gruppo di giudici. Per
essere considerata creativa, un’idea dev’essere innanzitutto differente.

6.2.3.
Lo psicologo Raymond Bernard Cattell ha sviluppato i concetti di intelligenza fluida e
intelligenza cristallizzata. L’intelligenza fluida è la capacità di pensare logicamente e risolvere i
problemi in situazioni nuove, indipendentemente dalle conoscenze acquisite, e dunque di adattarsi e
affrontare nuove situazioni in modo flessibile, senza che l’apprendimento precedente rappresenti un
aiuto determinante. È un tipo di intelligenza che segue l’andamento della crescita biologica e si
stabilizza in un arco di tempo che va dagli 11 ai 22 anni, dopo il quale comincia a decrescere. È
legata a fattori biologici ed è indipendente da contesti culturali e scolastici. L’intelligenza
cristallizzata è influenzata da fattori esperienziali e ambientali, è legata ad abilità specifiche
acquisite in particolari contesti e può essere intesa come l’insieme di abilità, strategie e conoscenze
che rappresentano il livello di sviluppo cognitivo raggiunto da una persona lungo la sua storia di
apprendimento. Vive il momento di maggiore accrescimento a partire dai 20 anni.

6.2.4.
Charles Spearman apre il campo, con i suoi studi, all’analisi fattoriale dell’intelligenza, ovvero a
quel tipo di analisi che mira a ridurre un vasto numero di variabili osservate a un insieme inferiore
di variabili non osservate, ovvero delle categorie generali (“fattori”) in grado di spiegare perché più
variabili diverse tra loro varino insieme. Nella pratica, Spearman evidenzia che esiste una casistica
rilevante per cui, se una persona ottiene una buona prestazione in un tipo di test, per esempio
verbale, allora tende ad averne una simile anche in un test differente, per esempio matematico. Egli
ipotizza l’interazione tra due tipi di abilità: un’abilità generale comune a tutte le abilità cognitive,
riconducibile a un fattore generale (fattore g); l’abilità specifica necessaria a svolgere un particolare
compito cognitivo, riconducibile a un fattore specifico (fattore s). Il fattore g riflette quella capacità
mentale generale per cui gli individui intelligenti lo sono in maniera globale, tesi che lo porta a
formulare la sua teoria bifattoriale dell’intelligenza, nella quale il fattore g ha un peso maggiore.
Esso infatti, interviene in ogni prestazione intellettiva, senza mai specializzarsi in nessuna:
rappresenta una sorta di energia mentale, diversa per ciascun individuo, e tale da determinare le
differenze interindividuali in ogni tipologia di prestazione cognitiva. Diversamente il fattore s è
specifico in quanto si specializza in diverse abilità, come quella motoria, verbale eccetera,
intervenendo in specifici compiti cognitivi.
Il fattore g è innato e non modificabile, mentre il fattore s è il risultato dell’apprendimento. Oggi la
disputa tra gli innatisti (per cui il fattore g è una condizione ereditaria) e gli ambientalisti (che
sottolineavano l’importanza dell’ambiente) è superata, in quanto l’intelligenza è vista con un
sistema dinamico, all’interno del quale le componenti innate e quelle ambientali interagiscono
continuamente nell’esperienza.

6.2.5.
Louis Leon Thurstone ha superato la teoria bifattoriale, sostenendo che i risultati dei test sono
influenzati dalle abilità primarie:
• abilità numerica (fattore N);
• comprensione verbale (fattore V);
• fluidità verbale (fattore W);
• memoria meccanica o associativa (fattore M);
• ragionamento o capacità logica (fattore R);
• velocità percettiva (fattore P);
• visualizzazione spaziale (fattore S).
Queste abilità, combinandosi tra loro, specificano il processo intellettivo di un individuo. Thurstone
ha introdotto la teoria multifattoriale o centroide. Le diverse entità psicologiche sono considerate
come diversi fattori, valutati in base all’intensità dei relativi contributi per raggiungere il risultato
intellettivo.

6.2.6.
Robert Sternberg ha sviluppato diverse teorie. Tra le più note troviamo:
• la teoria componenziale dell’intelligenza, che nasce dal tentativo di studiare l’intelligenza
dal punto di vista dell’elaborazione dell’informazione in compiti complessi. Essa prende in
esame i test d’intelligenza e cerca di isolare i processi e le strategie mentali usati
nell’esecuzione dei compiti;
• la teoria triarchica dell’intelligenza, secondo la quale l’intelligenza si esprime attraverso
tre modalità fondamentali: analitica, creativa e pratica. L’intelligenza analitica (o
componenziale) comprende la capacità di analizzare, valutare, esprimere giudizi, operare
confronti. L’intelligenza creativa (o contestuale), legata all’intuizione, si realizza nella
capacità di inventare, di scoprire, di immaginare, di affrontare situazioni insolite per le quali
le conoscenze esistenti si dimostrano inadeguate. L’intelligenza pratica (o esperienziale)
comprende la capacità di usare strumenti, applicare procedure e porre in atto progetti, saper
pianificare e organizzare. Questa teoria comporta l’adozione di una prospettiva
costruttivista, perché considera l’apprendimento come un processo di costruzione della
conoscenza da parte del soggetto;
• la teoria triangolare dell’amore, prevede che l’amore sia costituito da intimità, passione e
impegno. L’intimità si riferisce ai sentimenti di vicinanza, connessione e legame nelle
relazioni; la passione si riferisce alle pulsioni che conducono al romanticismo, l’attrazione e
il compimento sessuale; l’impegno si riferisce, nel breve termine, alla scelta della persona
per cui si prova un sentimento d’amore, e nel lungo termine, al proprio impegno a
mantenere vivo quell’amore attraverso scelte di tipo istituzionale (matrimonio, figli,
convivenza).

7.1.
Empatia ed intelligenza emotiva sono attitudini dell’individuo che possono essere coltivate e
alimentate grazie alla conoscenza delle emozioni.
Un’emozione corrisponde a un processo psicologico, articolato in una sequenza di cambiamenti,
che è promossa da un evento scatenante causato da modificazioni dell’ambiente esterno o interno.
Si distingue tra emozioni primarie ed emozioni secondarie (o complesse). In ambito scientifico
c’è un certo accordo nel far coincidere le emozioni di base o fondamentali con la gioia, la tristezza,
la rabbia, la paura, la sorpresa e il disgusto, ritenendole innate e universali, e nel considerare le
emozioni secondarie come combinazioni di quelle di base che si sviluppano con la crescita
dell’individuo e la sua interazione sociale e, pertanto, fortemente influenzate dall’ambiente nel loro
definirsi in emozioni come il senso di colpa, l’imbarazzo, la timidezza.
Le reazioni emotive vengono generate nel paleoncefalo, la parte più antica del sistema nervoso; le
attività mentali più complesse, invece, hanno origine nella corteccia cerebrale, la parte più recente.
L’esperienza emotiva coinvolge l’individuo nella sua globalità, è la conseguenza di squilibri che si
verificano nell’appraisal (la costante operazione di monitoraggio dell’ambiente da parte
dell’individuo) ed è accompagnata da comportamenti diretti ad affrontare le situazioni. La risposta
emotiva degli individui varia, per via del fatto che si reagisce non tanto all’accadimento in sé,
quanto a come esso viene percepito. Le ricerche transculturali hanno dimostrato che molti schemi
evento-emozione, cioè modelli che rappresentano la struttura dell’evento e l’emozione da provare,
sono universali: tuttavia, esistono anche schemi specifici propri di determinati popoli.
-----
I concetti di cold e hot cognition si basano sul fatto che la cognizione non coinvolge solo funzioni
fredde (come la percezione, la memoria, l’attenzione) ma anche altre che sono definite calde (la
dimensione emotiva, relazionale, della motivazione). Cognizione ed emozione sono interrelate e
lavorano in sinergia nella nostra vita, soprattutto in virtù della struttura anatomica del nostro
cervello. L’amigdala è la prima ad analizzare le esperienze sensoriali e a inviare segnali al cervello
perché questo possa prepararsi a reagire: esso ci dice cosa fare quando proviamo una determinata
emozione, perché ricorda il comportamento che abbiamo adottato quando l’abbiamo provata.
L’ippocampo è essenziale nei processi di memoria, ed è sede della memoria emotiva, nella quale
vengono immagazzinate e processate le esperienze che abbiamo vissuto correlandole alle emozioni
che abbiamo provato in quelle situazioni. Amigdala e ippocampo lavorano in sinergia rendendo
possibile l’incontro tra emozione e memoria. Quando apprendiamo qualcosa proviamo
un’emozione, e ogni volta che richiameremo alla memoria quel qualcosa, rivivremo anche
l’emozione che abbiamo provato nel momento in cui lo abbiamo appreso. Tendiamo a vivere con
più piacere le emozioni positive, mentre allontaniamo quelle negative: di conseguenza tenderemo a
richiamare più volentieri quelle esperienze che abbiamo associato a emozioni positive.
È essenziale quindi portare nell’apprendimento degli stati d’animo positivi, come il divertimento,
l’interesse, la fiducia, la meraviglia, ed escludere gli stati d’animo negativi, come la paura, l’ansia,
la frustrazione.

Nel processo emotivo si verificano dei fenomeni fisiologici che riguardano l’attività cerebrale, la
circolazione sanguigna, la digestione (…); esistono configurazioni tipiche delle emozioni,
riscontrabili quando affiorano determinati stati d’animo, anche se non c’è una corrispondenza
sistematica tra tipi di emozione e cambiamenti che avvengono nel funzionamento dell’organismo.
In questi schemi, infatti, intervengono molte reazioni di carattere individuale. Durante il processo
emotivo si verificano tre tipi di risposta:
• reazioni espressive, manifestazioni involontarie, emissioni spontanee di segnali non-verbali,
che esprimono lo stato interiore di un soggetto;
• tendenze, spinte interiori (con precedenza di controllo) capaci di promuovere l’azione;
• comportamenti specifici che corrispondono alla realizzazione delle tendenze emotive o delle
strategie pensate al fine di ripristinare il normale equilibrio.
Un’emozione comporta un’attività razionale. L’appraisal è la valutazione complessiva
dell’accadimento, dall’evento scatenante alle reazioni individuali. Si compie un’operazione di
pianificazione (decisione delle strategie da seguire per riprendere il controllo sull’ambiente), di
coping (rifinitura nella scelta dei piani) e di monitoraggio degli effetti dell’azione.
Su tutti i livelli del processo emotivo si esercita il controllo, sia per ragioni sociali, che impediscono
di esprimere (o di provare) determinate emozioni, sia per motivi edonistici, che spingono a ricercare
emozioni piacevoli ed evitare quelle spiacevoli.
Il fenomeno del contagio emotivo si verifica quando un’emozione manifestata nell’emittente ne
suscita una simile nel ricevente; il conforto sociale svolge la funzione di sostegno tra gli individui.

7.1.2.
Le emozioni vengono espresse tramite risposte:
• fisiologiche interne (variazioni del battito cardiaco o della pressione);
• motorie (cambiamenti posturali determinati dalla reazione emotiva);
• facciali (la reazione è espressa tramite le espressioni facciali);
• verbali (le risposte emotive vengono esplicate verbalmente);
• topologiche (si verifica un avvicinamento/allontanamento fisico da chi ci attrae/disgusta);
• cognitive (le emozioni sono trasformate in oggetti di pensiero).

Charles Darwin, nel suo studio sulle emozioni correlato alla sua teoria evoluzionistica, teorizza che
alla base dell’espressione delle emozioni vi sono tre principi generali: il principio delle abitudini
associate utili (alcuni atti, che hanno un’utilità in certi stati d’animo, tendono a replicarsi con le
stesse emozioni anche in assenza di vantaggio), il principio dell’antitesi (quando sopravviene uno
stato d’animo che è l’opposto del precedente si tende a eseguire movimenti di natura opposta a
quelli compiuti prima), e il principio degli atti determinati dalla costituzione del sistema
nervoso (una forte eccitazione del sistema nervoso si trasmette ai vari sistemi del corpo,
producendo degli effetti che interpretiamo come espressivi: ad esempio un’eccessiva sudorazione
viene considerata un sintomo della rabbia).

La teoria James-Lange (1885), detta teoria periferica, ribalta la concezione della mente come
luogo di origine delle emozioni, e le identifica come risposte fisiologiche dell’organismo a stimoli
ambientali; secondo tale teoria, ad esempio, si prova paura perché si sta tremando e non il contrario.
La teoria di Cannon-Bard, detta teoria centrale delle emozioni (1927), si contrappone alla
precedente, sostenendo che la sede delle emozioni è il talamo: uno stimolo del mondo esterno
mobilita questa parte del cervello che contemporaneamente invia impulsi sia al sistema nervoso
centrale, il quale attiva le reazioni fisiologiche, sia alla corteccia cerebrale che produce la
consapevolezza delle emozioni.

La teoria di Schachter-Singer, detta dei due fattori (1962), sostiene che l’emozione è
caratterizzata da una componente fisiologica e una cognitiva: in presenza di un evento emotigeno
l’emozione è generata sia dall’attivazione fisiologica dell’organismo che dal riconoscimento dello
stato emotivo e dall’interpretazione cognitiva che ne viene fornita.

Joseph LeDoux si è occupato di indagare la natura neurobiologica delle emozioni: egli ha scoperto
per primo che esistono delle vie neurali emozionali che aggirano la neocorteccia. Prima dei suoi
studi, si credeva che i dati sensoriali fossero inviati dagli occhi e dalle orecchie al talamo, il quale li
inviava poi alla neocorteccia dove venivano elaborati, e solo dopo si irradiava la risposta
appropriata attraverso il cervello e il corpo. LeDoux ha dimostrato che esiste un’altra via, una
scorciatoia che permette all’amigdala di ricevere i dati sensoriali prima che siano stati elaborati
dalla neocorteccia: in tal modo si può cominciare a rispondere mentre il cervello elabora una
risposta più raffinata. In sintesi, una prima risposta emozionale si innesca senza coinvolgere la
neocorteccia, spingendoci ad agire.

Phillip Shaver ha proposto un’interpretazione delle emozioni intese come categorie (amore, gioia,
sorpresa, collera, tristezza, paura) che si differenziano sulla base delle tre dimensioni di qualità
(positiva o negativa), potenza (forte o debole) e attività (alta o bassa).

Paul Ekman, basandosi su un vasto repertorio di espressioni facciali raccolto tra popolazioni molto
distanti tra loro, teorizza l’esistenza di espressioni universali, innate e comuni a tutto il genere
umano (gioia, tristezza, rabbia, paura, rabbia, disgusto, disprezzo). Tuttavia, per lo studioso esistono
delle display rules, ovvero delle regole sociali di esibizione delle emozioni, che determinano il
controllo e la modificazione delle espressioni a seconda della circostanza. Esse sono: il
mascheramento (mostrare un’emozione al posto di un’altra), intensificazione (amplificare
l’espressione emotiva), deidentificazione (mostrare emozioni di intensità inferiore a quella
provata), neutralizzazione (nascondere quello che si prova) e falsificazione (simulare uno stato
d’animo che non si prova).

Magda Arnold sviluppa la teoria della valutazione emotiva (o cognitive appraisal). Ella usa per
prima il termine appraisal (valutazione), che si riferisce a quel processo cognitivo attraverso il quale
valutiamo se un certo stimolo può essere per noi (umani) benefico o nocivo, e se è quindi opportuna
un’operazione di avvicinamento o allontanamento. I teorici come Arnold hanno avuto il merito di
sottolineare lo stretto legame tra gli aspetti emotivi e quelli cognitivi, e hanno dimostrato che le
emozioni dipendono dal modo in cui ciascuno di noi valuta e interpreta gli stimoli provenienti
dall’ambiente. Tale processo di valutazione è estremamente complesso, e coinvolge sia i fattori
interni (i ricordi personali, le esperienze precedenti) che quelli esterni (intensità e familiarità dello
stimolo). Ella ha anche evidenziato quattro aspetti fondamentali nella valutazione di una situazione:
• differenza tra percezione e valutazione: percepire un oggetto significa sapere com’è fatto,
valutarlo significa metterlo in relazione con se stessi. Attraverso la valutazione, lo si giudica
come piacevole o spiacevole;
• immediatezza della valutazione emotiva: la valutazione consiste anche nell’espressione di
giudizi immediati e automatici sull’oggetto;
• tendenza all’azione: quando valutiamo un oggetto o una situazione come piacevole o
spiacevole, introduciamo una tendenza all’azione che avvertiamo come un’emozione
associata a cambiamenti corporei e che può condurre a un’azione concreta. Se siamo
arrabbiati, non abbiamo solo caldo, ma potremmo anche sbattere un oggetto per terra;
• invariabilità: tendiamo a pensare che tutto rimarrà sempre uguale. Quando conosciamo
qualcuno, pensiamo che si comporterà con noi sempre nello stesso modo, o che i nostri cari
saranno sempre lì per noi: non è così, e per Arnold è importante comprendere il concetto di
invariabilità affinché i cambiamento non ci causino disagio.

Silvan Tomkins ha rivolto particolare attenzione allo studio degli “ambienti emotivi genitoriali”,
individuandone quattro tipi che possono determinare effetti sullo sviluppo emotivo del bambino:
• nel modello monopolistico, i genitori esprimono sentimenti collerici, e raramente emozioni
positive tra loro o nei confronti dei figli. Un bambino cresciuto in una famiglia del genere
potrebbe diventare nervoso in situazioni che ad altri bambini non provocherebbero alcun
fastidio;
• nel modello intrusivo, compare un elemento di minore rilevanza che interferisce con
l’emozione dominante. Per esempio la madre, allegra, potrebbe diventare ansiosa in
particolari situazioni, e il bambino, pur normalmente allegro, potrebbe adottare lo stesso
modello di risposta;
• nel modello dell’emozione competitiva, l’aspetto emotivo della personalità di un genitore
potrebbe entrare in competizione con quello della personalità differente dell’altro genitore: il
conflitto familiare derivante potrebbe essere interpretato dal bambino con rabbia o
sofferenza;
• nel quarto modello, le personalità dei genitori sono emotivamente equilibrate, per cui
manifestano una vasta espressività emotiva e sanno affrontare le diverse emozioni.

Carol Saarni si occupa dello sviluppo della competenza emotiva, definendola come l’insieme di
abilità necessarie per essere efficaci, in modo particolare, nelle transazioni sociali che producono
emozioni. Tali abilità sono: la consapevolezza dei propri stati emotivi, il riconoscimento delle
emozioni altrui, l’uso del linguaggio emotivo, l’empatia, il riconoscimento della distinzione tra
l’emozione provata e quella espressa esternamente, le strategie di coping o fronteggiamento
dell’emozione, la consapevolezza del ruolo della comunicazione emotiva nelle relazioni, e
l’autosufficienza emotiva.

Empatia.
Norma Fesbach attribuisce all’empatia un carattere multidimensionale in cui processi cognitivi e
affettivi si integrano, ed elabora il primo strumento per rilevare la responsività empatica, il FASTE.
Secondo Fesbach, l’empatia è costituita da:
• la capacità di decodificare gli stati emotivi vissuti da altre persone;
• la capacità di assumere il ruolo e la prospettiva dell’altro;
• la capacità di rispondere affettivamente alle emozioni provate da un’altra persona.
Le prime due componenti sono abilità cognitive, mentre la terza inserisce l’empatia in una
dimensione affettiva ed emotiva. Nell’elaborazione del suo modello, Fesbach adotta il quadro di
riferimento di Piaget, secondo il quale la capacità di un individuo di rispondere affettivamente alle
emozioni di un’altra persona (quella che la studiosa definisce come responsività empatica) si
acquisisce intorno ai 6 anni, per poi affinarsi progressivamente con le capacità cognitive.

Martin Hoffman estende la definizione di empatia e colloca le sue prime manifestazioni nei primi
giorni di vita, definendola “la scintilla dell’attenzione umana verso gli altri, il collante che rende
possibile la vita sociale”. Secondo Hoffman, procedendo nello sviluppo, la componente cognitiva
acquisisce un’importanza crescente, compenetrandosi con la dimensione affettiva e permettendo lo
sviluppo di forme più evolute di empatia.
Secondo Hoffman, oltre alla componente cognitiva e a quella affettiva, nell’esperienza empatica
interviene anche la motivazione: il fatto di soccorrere qualcuno fa provare a chi aiuta uno stato di
benessere, mentre la scelta di non confortare l’altro produce un senso di colpa.
Egli definisce cinque forme del sentimento empatico:
• distress empatico globale: i neonati non sono in grado di percepire sé stessi e gli altri come
entità distinte, per cui percepiscono la sofferenza altrui come propria (contagio emotivo);
• distress empatico egocentrico: intorno al primo anno, i bambini distinguono tra sé e gli altri,
ma ancora non discernono tra gli stati emotivi propri e quelli altrui; in questa fase essi
mimano le emozioni provate dall’altro, mettendo in atto comportamenti che potrebbero
comparire come tentativi di aiuto, ma che mirano a placare la propria angoscia;
• distress empatico quasi-egocentrico: tra il primo e il secondo anno, i bambini capiscono la
distinzione tra i propri stati emotivi e quelli degli altri, ma permane l’egocentrismo nella
scelta di utilizzare, per dare conforto, degli oggetti significativi per se stessi (come offrire un
proprio giocattolo);
• vera empatia: verso i 6 anni si sviluppa una maggiore competenza linguistica, che permette
al bambino di interagire più appropriatamente con significati simbolici;
• distress empatico oltre la situazione: a partire dai 9 anni i bambini, avendo sviluppato un
senso di sé stabile e coerente, realizzano più compiutamente che gli altri individui hanno una
propria identità; d’ora in poi la conoscenza della vita degli altri inizia a influenzare le loro
risposte empatiche. L’acquisizione di queste funzioni trova pieno compimento intorno ai 13
anni.

L’effetto spettatore si ha quando gli individui non offrono alcun aiuto, in una situazione in cui una
persona si trova in difficoltà, quando sono presenti altre persone. Latane e Darley (1968)
sostengono che il grado di responsabilità avvertito dipenda da:
• la percezione che la persona sia meritevole di aiuto;
• la competenza dello spettatore;
• la relazione tra lo spettatore e la vittima.
Anche i bambini possono essere spettatori di un evento simile, con sentimenti quali banalizzazione,
dissociazione e imbarazzo nel momento in cui non aiutano un compagno in difficoltà.

Secondo Janet Strayer, nell’empatia durante lo sviluppo, le componenti cognitive si integrano


progressivamente con quelle affettive, organizzandole e permettendo l’instaurarsi di forme più
mature. La condivisione emotiva è basilare ed è sperimentata anche dai bambini, nella forma del
contagio emotivo, che tuttavia è involontario e automatico. Per un’esperienza volontaria è
necessario che intervengano forme di mediazione cognitiva. Strayer individua due forme di
empatia: l’una per condivisione parallela e l’altra per condivisione partecipatoria. Il processo di
sviluppo che fa evolvere il bambino dalla prima alla seconda prende avvio in età prescolare e si
completa nella prima adolescenza. L’empatia per condivisione parallela è mediata da processi
cognitivi poco sofisticati (associazione diretta, condizionamento classico): l’osservatore focalizza
l’attenzione sull’evento che sta interessando l’altro, e rivive un’esperienza emotiva simile
richiamando alla propria mente un ricordo. L’empatia per condivisione partecipatoria è più
evoluta, mediata da meccanismi complessi (role taking e perspective taking) e basata sulla
rappresentazione del vissuto altrui.
Mark Davis ritiene che i processi empatici siano frutto dell’interazione tra elementi cognitivi e
affettivi (natura multidimensionale). Questi costituiscono le quattro componenti della risposta
empatica: perspective taking (l’abilità di adottare il punto di vista dell’altro) e fantasia (la capacità
di immaginare situazioni fittizie) come componenti cognitive, e considerazione empatica (la
tendenza a sperimentare sentimenti di compassione e preoccupazione verso l’altro) e disagio
personale (la consapevolezza dei propri stati d’animo che si sperimentano in situazioni relazionali)
come componenti affettive.
Davis distingue anche i diversi processi di mediazione cognitiva dell’empatia. Essi si distinguono in
tre gruppi:
• processi non cognitivi: compaiono nelle prime fasi di sviluppo, sono automatici e
involontari: la reazione circolare primaria, che spinge un bambino a piangere se sente un
altro bambino piangere, e l’imitazione motoria, che spinge ad assumere la postura e
l’espressione facciale di un’altra persona;
• processi cognitivi semplici: entrano in gioco in una fase più avanzata, come il
condizionamento classico, per cui uno stimolo neutro produce una risposta (ad esempio un
bambino che diventa triste perché la mamma ha un’espressione triste), l’associazione diretta
(per cui associamo gli stimoli espressivi che stiamo osservando ad altri stimoli che abbiamo
già vissuto, rivivendo quell’emozione) e l’etichettamento (quel processo per cui veniamo
esposti a uno stimolo, il quale diventa così rilevante da evocare, in futuro, la specifica
emozione che ci ha suscitato la prima volta);
• processi cognitivi avanzati: compaiono tra il periodo prescolare e l’adolescenza. I più
importanti sono l’associazione mediata dal linguaggio (per provare empatia non è necessario
che siamo esposti direttamente alla situazione dell’altro, ma è sufficiente una descrizione
verbale) e il role taking (ciò che ci consente di assumere il ruolo dell’altro).

Secondo Karla McLaren, esercitare l’empatia contribuisce a modificare il nostro cervello, perché
attraverso l’imitazione e la ricerca nei pensieri degli altri, la mente si apre al diverso. Ella individua
sei livelli di empatia: contagio emotivo (quando sperimentiamo le emozioni altrui in modo
autentico, istintivo e inconscio), accuratezza empatica (ci permette di comprendere le emozioni, i
pensieri e le intenzioni sia in noi stessi che negli altri), regolazione emotiva (la capacità che ci
permette di regolare le nostre emozioni e di esserne consapevoli), cambio di prospettiva (ci aiuta a
metterci nei panni degli altri e a vedere le cose dalla loro prospettiva), preoccuparsi per gli altri (la
capacità che ci permette di prenderci cura degli altri), coinvolgimento intuitivo (la capacità che ci
permette di prendere decisioni intuitive fondate sull’empatia e di agire in modo funzionale per gli
altri).

Heinz Kohut si concentra sul rapporto del bambino con i genitori. Egli sostiene che, se il bambino
cresce con dei genitori capaci di comprenderlo, il suo Sé troverà nella risposta emotiva della madre
e del padre quella conferma empatica che gli consentirà di svilupparsi in maniera naturale.

7.1.3.
Alan Sroufe pone il suo ragionamento sulle emozioni in una prospettiva evolutiva. Il
comportamento emotivo è il risultato dell’evoluzione di ciò che c’era prima, approccio che consente
una visione dinamica: sapere cosa ha portato a un certo comportamento fornisce una prospettiva
critica di comprensione. Sroufe definisce i quattro assunti guida nello studio dei processi
emozionali:
1. “C’è un ordine nello sviluppo” (ciò che sarà emerge secondo un ordine a partire da ciò che
c’era prima);
2. “L’emozione è legata all’evoluzione in altre dimensioni dello sviluppo” (lo sviluppo
emozionale deve essere studiato insieme allo sviluppo cognitivo e sociale);
3. “Le dimensioni principali dello sviluppo emozionale (l’emergere delle emozioni di base e la
regolazione emozionale) sono parte della stessa unità”;
4. “L’adeguatezza di una descrizione evolutiva dipende dall’unificazione” (la descrizione di
una dimensione deve sia considerare l’ordine del suo sviluppo, sia essere coerente con lo
sviluppo delle altre dimensioni).

Sulla base di tali assunti Sroufe affronta la descrizione del processo evolutivo intorno ad alcuni
aspetti:
• il modo in cui le emozioni di base specifiche emergono;
• i precursori dai quali le emozioni si sviluppano;
• i parallelismi tra le emozioni di base;
• i cambiamenti nelle condizioni che producono le reazioni emozionali (se prima c’è un ruolo
esclusivo degli stimoli fisici, in seguito assume centralità il significato che il bambino dà
all’evento);
• l’influenza reciproca tra emozione e cognizione (le emozioni nascono nel momento in cui il
bambino attribuisce un significato agli eventi);
• la regolazione emozionale e le differenze individuali (i meccanismi di regolazione delle
emozioni consentono di governare i cambiamenti dai precursori, come il piacere, alle
emozioni più mature, come la gioia; inoltre consentono di differenziare, in una certa
situazione, una certa emozione come positiva o negativa, fattore che dipende dalle
differenze individuali nell’analisi e nella regolazione delle emozioni);
• gli aspetti sociali dello sviluppo (il bambino viene visto come individuo inserito nelle
relazioni sociali, in particolare quella di accudimento risulta centrale, soprattutto per la
collaborazione che il caregiver offre al bambino nella regolazione emozionale);
• la crescita dell’autocontrollo emozionale nel periodo prescolare.
A partire da queste premesse, Sroufe indaga sullo sviluppo delle emozioni fondamentali e lo mette
in relazione con l’ordine dello sviluppo precoce nel suo complesso. Egli specifica innanzitutto che
si può parlare di emozione solo quando la reazione emotiva nasce nel bambino perché questo
attribuisce un significato all’evento che l’ha generata. Questo aspetto serve a distinguere le
emozioni dai precursori, cioè quegli elementi che vengono prima delle emozioni e senza i quali
queste non potrebbero svilupparsi.
Sroufe ritiene che nasciamo con un corredo emozionale indifferenziato, il quale si diversifica
progressivamente in emozioni discrete nel corso dello sviluppo e coerentemente con la dimensione
cognitiva e sociale, per portare allo sviluppo delle emozioni fondamentali.
Lo sviluppo delle emozioni avviene quindi secondo un processo con un ordine ben preciso, che dal
precursore (in cui prevale una natura psicofisiologica) porta progressivamente verso un’emozione
vera e propria, nella quale subentra una natura prevalentemente psicologica.
Questo processo ordinato avviene secondo Sroufe lungo tre canali: il sistema piacere-gioia, il
sistema circospezione-paura, e il sistema frustrazione-rabbia, dove il precursore è rappresentato dal
primo elemento, e l’emozione fondamentale nel secondo.
-----
Sroufe definisce otto stadi di sviluppo delle emozioni, proponendo una tabella che affianca i suoi
stadi dello sviluppo emotivo a quelli dello sviluppo cognitivo di Piaget e quelli dello sviluppo
sociale di Sander. Essi si dividono in:
• Periodo 1 (da 0 a 1 mese, protezione, invulnerabilità alla stimolazione esterna);
• Periodo 2 (da 1 a 3 mesi, interesse e curiosità verso le cose);
• Periodo 3 (da 3 a 6 mesi, emozione mediata dal contenuto, piacere come processo
eccitatorio, barriera attiva alla stimolazione);
• Periodo 4 (da 7 a 9 mesi, gioia nel sentirsi causa di un evento, fallimento nelle azioni
intenzionali, differenziazione delle reazioni emozionali);
• Periodo 5 (da 9 a 12 mesi, schemi emotivamente connotati, integrazione e coordinazione
delle reazioni emotive);
• Periodo 6 (da 12 a 18 mesi, madre come base sicura per l’esplorazione, esultanza per il
padroneggiamento, emozione come parte del contesto, controllo dell’espressione emotiva);
• Periodo 7 (da 18 a 24 mesi, fase di “deambulazione”, senso del sé come agente attivo, senso
di separatezza);
• Periodo 8 (età prescolare dopo i 24 mesi, crescita dell’autoregolazione, gestione della
frustrazione e modulazione dell’espressione emozionale).

7.1.4.
La teoria elaborata da Izard e colleghi, detta teoria differenziale, sostiene, al contrario della
precedente, che l’individuo fin dalla nascita possiede un corredo emotivo costituito da emozioni
fondamentali come rabbia, tristezza, gioia, sorpresa, disgusto e disprezzo, ciascuna delle quali ha un
valore adattivo. L’emozione, quindi, non è solo la risposta a uno stimolo, ma un’organizzazione
innata che concorre a motivare un comportamento. L’influenza dell’ambiente contribuisce a
rendere le emozioni di base più complesse e articolate. Le prime emozioni hanno la funzione di
soddisfare bisogni primari (il bambino non avrebbe consapevolezza di come, attraverso certe
emozioni, riesca a stabilire un contatto con le figure di riferimento), e a partire dal secondo anno di
vita si sviluppano le emozioni sociali.

7.2.
Le emozioni coinvolgono fattori fisiologici (attivati dal sistema nervoso centrale, dal sistema
nervoso autonomo e dal sistema ormonale ed endocrino), psicologici, cognitivi, ambientali; il
comportamento emotivo coinvolge in genere tutto il cervello, e in particolare l’emisfero destro,
ossia la parte destinata alla fantasia, all’immaginazione e alla creatività.
L’aspetto cognitivo dell’emozione si sviluppa in tre distinti processi: interpretazione (attraverso la
scomposizione e analisi dell’elemento o evento che ha prodotto lo stato emotivo), valutazione (si
valuta e giudica l’evento come giusto-sbagliato) e concettualizzazione (individua e registra nella
memoria l’evento vissuto emotivamente, per poterlo utilizzare al momento opportuno.
Gli aspetti ambientali e culturali dell’emozione permettono all’individuo di conoscere l’influenza
dell’appartenenza etnica e sociale sulle proprie esperienze emotive. Questo spiegherebbe il motivo
per cui alcuni popoli non manifestano stati emotivi (il popolo eschimese, ad esempio, accusa di
infantilità l’individuo che esprime rabbia).
L’emozione per Klaus Scherer è costituita da 5 componenti: cognitiva, periferica fisiologica,
motivazionale, dell’espressione motoria, sentimentale soggettiva.

7.2.1.
Quasi tutti gli approcci concordano nel riconoscere alle emozioni un ruolo adattivo, ma è
l’approccio funzionalista a concentrare il proprio interesse su questa sfera di analisi e a sottolineare
l’importante ruolo regolatore delle emozioni, che mediano il rapporto tra l’organismo e il suo
ambiente. Il primo a evidenziare questo stretto legame è stato Charles Darwin. Oggi, gli studiosi
concordano sul fatto che le emozioni hanno il compito di regolare sia i processi psicologici sia i
comportamenti sociali e interpersonali, e che esistono alcune emozioni definite di base o
fondamentali, corredate di una mimica facciale universale: la codifica di tali emozioni non è quindi
vincolata dalla cultura.
Quando si parla di emozioni come la gioia, la tristezza, la sorpresa (…), si trovano due diversi modi
di chiamarle, cioè emozioni primarie o emozioni di base o fondamentali. Tuttavia, i due termini
hanno presupposti concettuali diversi. Un chiarimento è offerto da Daniel Siegel, che definisce le
emozioni primarie come i cambiamenti negli stati cerebrali generati dalle risposte orientative e dai
processi arousal e valutazione orientativa; un concetto distinto da quello di emozioni di base o
fondamentali, che si riferiscono a rabbia, paura, eccetera.
Le emozioni primarie sono iniziali e poco definite, e possono combinarsi fra loro come i colori
primari in una tavolozza. Talvolta può capitare che su questi stati della mente riusciamo ad
effettuare una ulteriore valutazione, attraverso la quale differenziare tali stati in emozioni di base o
fondamentali: sorpresa, gioia, disgusto, paura, rabbia, tristezza Secondo Siegel, quindi, queste sei
emozioni di base sono diverse da quelle primarie per la loro maggiore definitezza.

7.2.2.
Nell’interazione adulto-bambino (in particolare con la madre) la madre, attribuendo
un’intenzionalità comunicativa alle espressioni del bambino, sostiene il processo di autoregolazione
delle emozioni. Questa funzione dell’adulto è detta scaffolding. Oltre a svolgere la funzione di
supporto emotivo, l’adulto sostiene il bambino nel modulare le emozioni concordemente con le
convenzioni dei contesti sociali. Il processo di socializzazione delle emozioni (la capacità di
attribuire un significato agli eventi o agli stimoli che sollecitano le emozioni appropriate), è il
presupposto attraverso il quale il bambino apprende quali emozioni si confanno a un certo contesto.
-----
La resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici. Esistono il tipo
istintivo (caratteristico dei primi anni di vita), affettivo (rispecchia la maturazione affettiva, il senso
di sé, la socializzazione) e cognitivo (quando il soggetto può usare le capacità intellettive simbolico-
razionali).

7.3
Il bambino, dopo aver superato la relazione diadica, si inserisce nelle dinamiche di gruppo. Il
gruppo dei pari diventa un fatto spontaneo durante la scuola primaria. I gruppi sono informali e non
duraturi: successivamente si comporranno secondo regole più rigorose e chi intende farne parte
dovrà possedere dei requisiti precisi. I gruppi primari sono duraturi nel tempo, sono costituiti da
membri legati emotivamente, mentre i gruppi secondari interagiscono per raggiungere degli
obiettivi comuni. I membri di un gruppo non devono essere considerati come la somma di unità
individuali, ma come un complesso rapporto di relazioni. Le relazioni si strutturano su modelli di
tipo circolare, nel quale ogni membro ha la stessa possibilità di interagire con gli altri, o di tipo
radiale, che permette l’emergere di un leader che funga da coordinatore.

7.4.
La principale differenza tra i sentimenti e le emozioni, sta nel fatto che i primi non sono determinati
da uno stimolo ambientale, e che sono stati affettivi più duraturi nel tempo. Goleman parla di
temperamenti per definire la propensione a evocare una certa emozione o umore. L’amicizia si
sviluppa di norma nella preadolescenza, quando i legami con i genitori iniziano ad affievolirsi.
Robert Sternberg sviluppa la teoria triangolare dell’amore, che per lui risulta costituito da tre
componenti fondamentali: intimità (fattore emotivo, che riguarda la confidenza e la condivisione),
passione (fattore motivazionale, che si riferisce all’attrazione fisica) e impegno (fattore cognitivo,
che corrisponde alla convinzione di amare qualcuno e all’investimento che si fa per far durare a
lungo questo amore). Le diverse combinazioni di queste componenti danno vita a sette tipi di
relazioni: la simpatia (se è presente soltanto l’intimità), l’infatuazione (se è presente soltanto la
passione), l’amore vuoto (se è presente soltanto l’impegno), l’amore romantico (se ci sono intimità
e passione ma non impegno), l’amore fatuo (se ci sono passione e impegno ma non intimità), il
sodalizio d’amore (se ci sono intimità e impegno ma non passione) e l’amore perfetto o completo.

7.4.3.
L’invidia è vissuta da un soggetto che, carente di qualcosa, nutre astio nei confronti di coloro che
possiedono ciò che gli manca. L’invidioso ha una forma di ambivalenza: vuole possedere ciò che ha
un altro, o vuole che questi perda ciò che gli appartiene. L’invidia è un sentimento da non
sottovalutare, e che ha radici profonde come carenza di affetto, senso di inferiorità, desideri frustrati
e conflitti insoluti.

7.4.4.
La gelosia si manifesta come una spinta di protezione nei confronti di un soggetto, ma rappresenta
per l’individuo geloso un impulso inconscio al senso di possesso e di dissimulazione
dell’insicurezza psicologica. Esso potrebbe trasformarsi in uno stato patologico, e si manifesta per
esempio nei bambini, in seguito alla nascita di un fratellino, come conseguenza delle attenzioni
continue che la madre rivolge al neonato.

7.5.
Howard Gardner è uno psicologo noto soprattutto per la sua teoria sulle intelligenze multiple, che
si propone di individuare selettivamente intelligenze che affondino le loro radici nella biologia e che
facciano riferimento ad operazioni neurali centrali identificabili. Inoltre, è famoso per le sue critiche
nei confronti di coloro che ritenevano l’intelligenza come una dimensione monolitica e misurabile
attraverso test standardizzati; l’esito di un test sul QI, costituito da un numero che quantifica
l’intelligenza, tende infatti a promuovere l’idea che essa sia unica, e che se un individuo è
intelligente, questi può avere successo in tutti i campi in cui si cimenta.
Gardner sostiene che la visione di un’intelligenza unica è condivisa non solo dai fautori dei test di
intelligenza, ma anche dallo stesso Piaget, che ha impostato i suoi studi facendo riferimento a
un’intelligenza unica che si sviluppa attraverso una successione di stadi cognitivi, durante i quali il
bambino matura abilità sempre più complesse in tutti gli ambiti.
Nel primo periodo, Gardner condivide la visione di Piaget di un intelletto unico, poi la sua idea si
definisce in seguito ad alcune ricerche con adulti colpiti da danni cerebrali: essi mostravano alcune
abilità compromesse, mentre altre restavano intatte. Inoltre, studiando il comportamento dei
bambini, egli nota che quando un ragazzo molto dotato eccelle in un campo, in altri campi o per
altre abilità risulta paragonabile ai normodotati. Queste situazioni possono essere spiegate, per lo
studioso, solo alla luce di un intelletto che non è unitario.

7.5.1.
Gardner definisce l’intelligenza come un’abilità con cui risolvere un problema o con cui realizzare
un prodotto che ha un valore in uno o più contesti culturali. Da questa definizione emergono i
concetti di abilità, problem solving, contesto culturale, realizzazione di un prodotto. I test sul QI
esplorano l’abilità di problem solving, ma lo fanno sempre in riferimento all’ambito verbale e
logico-matematico, mentre, per Gardner, l’intelligenza si può manifestare anche in altri ambiti.
Inoltre nei test sul QI non si pone attenzione alla realizzazione di un prodotto, come scrivere un
poema o comporre una sinfonia, produzioni che richiedono diversi tipi di intelligenza. Nella scuola,
da sempre, il fulcro dell’insegnamento sono la lingua madre e la matematica: Gardner afferma che
vanno considerati anche altri aspetti i quali hanno pari dignità ed esibiscono differenti forme di
intelligenza. Un altro aspetto importante è che l’abilità va considerata tale se nel suo contesto
culturale assume un valore. Si può essere abili a fare tante cose, ma non tutte hanno un valore nel
contesto in cui si vive; alcune abilità sono fini a se stesse e non rappresentano (per Gardner) una
particolare forma di intelligenza.
Lo studioso afferma che bisogna stabilire dei criteri con i quali sia possibile individuare le diverse
forme di intelligenza; quelli da lui individuati perché un’abilità possa diventare una forma di
intelligenza sono rilevati in queste situazioni:
• un’abilità che resta compromessa o inalterata, a seconda dei casi, a seguito di un trauma al
cervello (se alcune abilità restano inalterate rispetto ad altre, è segno che sono tra loro
relativamente indipendenti);
• un’abilità che viene osservata nell’esistenza di bambini prodigio, di scienziati ed eruditi in
un campo specifico (spesso persone prodigiose in un campo sono normali o deboli in altri);
• un’abilità che viene associata ad un insieme essenziale di operazioni (l’abilità nell’eseguire
operazioni collegate e circoscritte ad un certo ambito definisce un’intelligenza: ad esempio
l’intelligenza musicale sarà il riflesso di tutte quelle abilità che sono caratteristiche
dell’ambito musicale);
• è possibile definire i passaggi che portano un individuo a padroneggiare le abilità in un certo
campo; inoltre tale livello di padronanza è definibile in modo preciso (quando in un certo
ambito si possono identificare delle abilità per le quali è possibile raggiungere un livello di
competenza definibile in modo concreto, identificando i passaggi che portano a un tale
livello, allora si può parlare di una forma di intelligenza);
• la possibilità di definire una storia evolutiva di queste abilità e di osservarle anche in altre
specie viventi distinte dall’uomo;
• la possibilità di identificare le abilità mediante risultati psicometrici (la possibilità di mettere
in evidenza quali abilità hanno alla base fattori in comune e quali differiscono);
• la possibilità di codificare tali abilità in un sistema di simboli.

7.5.3.
Le affermazioni di Gardner ci portano a concludere che la nostra mente sia di tipo modulare.
Ciascun modulo gestisce particolari abilità: l’emisfero sinistro sembra essere attivo quando
l’individuo è impegnato in attività motorie, quando svolge calcoli o scrive; il destro ospita abilità di
tipo visuo-spaziale e musicale. Per Gardner, un altro elemento a favore delle intelligenze multiple
sta nel fatto che il transfer è un risultato difficile da ottenere: in altre parole, acquisire una
particolare competenza in un campo, tale da definirsi esperti, non garantisce un ritorno di abilità
spendibili in campi diversi. Alla luce di questi diversi argomenti, Gardner definisce nove tipi di
intelligenze: Intelligenza linguistica; logico-matematica; musicale; spaziale (tipica di architetti,
artisti, scultori); cinestetica (attori, atleti, mimi); interpersonale (chi è in grado di comprendere gli
altri, le loro motivazioni: caratteristica delle persone empatiche, dei politici, degli insegnanti, si
manifesta in quella competenza sociale che secondo Gardner e Hatch si articola in quattro
componenti: la capacità di organizzare gruppi, di negoziare soluzioni, di stabilire legami personali,
di analizzare la situazione sociale); intrapersonale (simile alla precedente, con la differenza di
essere rivolta verso l’interno: è la capacità di maturare la consapevolezza delle altre intelligenze che
l’individuo possiede; tipica di psicologi, antropologi, psichiatri); naturalistica (tipica di biologi e
naturalisti, capacità di ordinare e categorizzare le realtà naturali); esistenziale (o filosofico-
esistenziale, tipica dei leader spirituali, dei filosofi e dei pensatori).
Ciascun individuo è la sintesi di un dosaggio unico di queste intelligenze. Le intelligenze linguistica
e logico-matematica sono state studiate maggiormente, perché attraverso i test sul QI si è riusciti a
darne una quantificazione oggettiva. Le altre intelligenze sono più difficilmente valutabili perché si
esplicano con la creazione di un prodotto o di una performance, più che con la risoluzione di un
quesito.

7.6.
Daniel Goleman ha individuato l’interconnessione profonda tra la mente razionale e la mente
emotiva di ciascun individuo nella determinazione del proprio destino, ha definito le principali
capacità dell’intelligenza emotiva, e soprattutto ha sottolineato che l’intelligenza emozionale non è
qualcosa di preesistente e predefinito, ma è un’abilità che può essere sviluppata.
Egli individua le cinque caratteristiche fondamentali dell’intelligenza emotiva a partire dalla
definizione data da Peter Salovey. Questo studioso, partendo dalle riflessioni sulle intelligenze
personali di Gardner, estendeva le abilità definite da Gardner (intelligenza intrapersonale e
interpersonale) a cinque ambiti principali: conoscenza delle proprie emozioni; controllo delle
emozioni; motivazione di se stessi; riconoscimento delle emozioni altrui; gestione delle relazioni.
A partire da questi cinque ambiti individuati da Salovey, Goleman individua altrettante
caratteristiche fondamentali che a suo avviso deve avere un’intelligenza emotiva ben sviluppata,
quelle cioè su cui può intervenire anche l’educazione:
• consapevolezza di sé (o autoconsapevolezza, ovvero la conoscenza dei propri stati d’animo,
la capacità di comprendere quando stiamo provando delle emozioni, osservandole mentre
sono in atto, ed essere in grado di dare loro un nome: è la competenza emozionale su cui si
basano tutte le altre);
• dominio di sé (autocontrollo, la capacità di controllare le nostre emozioni senza lasciarcene
travolgere);
• motivazione (il risultato della capacità di gestire le proprie emozioni per raggiungere un
obiettivo, senza farsi sopraffare dalle emozioni negative);
• empatia (la capacità che ci consente di comprendere cosa sta provando chi è con noi);
• abilità sociale (l’arte delle relazioni, la quale consiste nella capacità di dominare le
emozioni altrui).
Autoconsapevolezza, autocontrollo ed empatia sono, per Goleman, le tre abilità che costituiscono
il presupposto irrinunciabile di una buona competenza emotiva; esse non rappresentano un
patrimonio immutabile, ma si possono allenare fin da bambini e per tutta la vita.
-----
L’alessitimia è la difficoltà nell’individuare quale emozione si sta provando, di darle un nome, e di
distinguerla dalla sensazione fisica che l’emozione stessa determina. Queste persone mancano di
autoconsapevolezza, senza la quale nessuna forma di autocontrollo ed empatia sono possibili; esse
sono quindi in balia delle loro emozioni e non hanno gli strumenti per comprendere quelle degli
altri.
7.6.2.
Per Goleman, come per Hoffmann, l’empatia è alla base di ogni rapporto umano, ed è riscontrabile
fin da quando siamo piccoli; per gli studiosi, il suo progressivo sviluppo durante l’infanzia ci porta
a comprendere la sofferenza degli altri, e ci conduce nell’adolescenza verso il radicamento di
convinzioni morali incentrate sul desiderio di alleviare l’infelicità altrui.
L’empatia è quindi una capacità che ha un enorme potenziale didattico, e che può consentire
all’insegnante di comprendere eventuali disagi dei propri alunni. Goleman ne individua tre diversi
tipi: empatia cognitiva (comprendere come gli altri vedono il mondo e cosa ne pensano,
comprendere le loro prospettive e modelli mentali); empatia emotiva (un collegamento cervello-
cervello che ci offre una sensazione interiore immediata di come si sentono gli altri, che ci permette
di provare le loro emozioni in tempo reale); la preoccupazione empatica (conduce naturalmente
all’azione empatica, come nel caso del Buon Samaritano, colui che si ferma ad aiutare; si basa sugli
antichi circuiti del mammiferi relativi alla cura degli altri). La capacità empatica favorisce la messa
in atto di comportamenti cooperativi e prosociali, ovvero comportamenti che si attuano per il
benessere di un’altra persona.
Daniel Batson ha ipotizzato che l’empatia, oltre ad essere all’origine dei comportamenti prosociali,
sia la base dell’altruismo, cioè la propensione ad agire per il benessere altrui indipendentemente da
un vantaggio personale. È interessante la distinzione che fa Nancy Eisenberg tra comportamenti
altruistici e comportamenti prosociali: i primi si fondano sul desiderio di determinare un benessere
anche se questo va contro i propri interessi personali (ad esempio, rinunciare al proprio cioccolatino
per darlo a un amico), i secondi invece non comportano un costo per chi li compie, poiché possono
procurare un beneficio all’altro e a se stessi (per esempio, quando un bambino aiuta un amico a
rialzarsi dopo una caduta per ricominciare a giocare insieme).
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L’empatia, per Goleman, è la capacità di comprendere un altro individuo attraverso la somiglianza:
ti capisco perché nella tua situazione proverei emozioni analoghe. L’entropatia, individuata da
Edmund Husserl, al contrario, è il riconoscimento dell’alterità dell’altro che ha inizio non con la
ricerca delle analogie, bensì con il riconoscimento della diversità: da questo punto si può arrivare
alla comprensione dell’altro. In sostanza, prima individuo le differenze tra me e l’altro, poi colgo il
nostro essere simili nel fatto che entrambi siamo portatori di pregiudizi, infine con queste
consapevolezze creo l’accoglienza e l’incontro, che avviene nella comprensione esistenziale
dell’altro come simile a noi.
7.6.3.
Goleman riflette inoltre sulla famiglia, individuandola come la prima scuola nella quale
apprendiamo gli insegnamenti della vita emotiva.
Negli anni ‘90, negli Stati Uniti, prende forma l’idea di mettere a punto dei percorsi di
apprendimento socio-emotivo, noti con l’acronimo di SEL (social emotional learning), nelle scuole
di ogni grado per promuovere l’apprendimento di strategie mirate a riconoscere e gestire le
emozioni, e a sviluppare relazioni sociali positive. Al fine di promuovere i percorsi SEL, su
iniziativa di Goleman e di Eileen Rockfeller Growald, nasce il CASEL (collaborative for academic,
social and emotional learning), finalizzato a promuovere azioni di educazione emotiva tramite
interventi svolti a scuola da specialisti o insegnanti formati. Secondo il CASEL esistono cinque
dimensioni che il SEL è in grado di promuovere: l’autoconsapevolezza; l’autoregolazione degli stati
emotivi propri e altrui; il prendere decisioni responsabilmente; la gestione delle relazioni sociali; la
consapevolezza sociale, ovvero l’empatia, il rispetto per gli altri, l’apprezzamento e la
valorizzazione delle diversità.
Goleman affronta infine una riflessione su quella che lui stesso definisce intelligenza ecologica,
ovvero la capacità che abbiamo noi esseri umani di identificare le relazioni che ci legano
all’ambiente, cogliendo anche le conseguenze del nostro comportamento e delle nostre scelte in
termini di sostenibilità sull’intero sistema. Anche questo tipo di intelligenza può essere allenata.

8.1.
Tra i 6 e i 10 anni, il bambino opera una maturazione cognitiva, affettiva ed emotiva significativa:
egli capisce che esistono punti di vista diversi rispetto al proprio; che il proprio comportamento è
rapportabile a diverse cause; che egli può esercitare un autocontrollo emotivo.
8.2.
L’aggressività è una pulsione sana e funzionale ai bisogni di crescita del bambino; essa, però, deve
essere incanalata nella giusta direzione (Donald Winnicott), perché può diventare energia
distruttiva se viene mal gestita. L’aggressività è pertanto un impulso da educare, perché in assenza
di preparazione il bambino tenderebbe a esplosioni di rabbia, fino a indirizzare tale energia verso se
stesso o verso gli altri.
Per poter incanalare le tendenze aggressive il bambino deve imparare a riconoscerle dentro di sé.
Questo avviene dando un nome e un significato alle azioni che mette in atto, trasformandole prima
in emozioni, poi in sentimenti e intenzioni. La trasformazione, dall’azione al pensiero, è
fondamentale perché consente al bambino di accettarla come parte di sé e di conseguenza di
controllarla come già fa per ciò che conosce.
La funzione genitoriale è fondamentale e complessa: tra i suoi compiti troviamo la canalizzazione e
l’espressione degli impulsi aggressivi. Eventuali conflitti all’interno della coppia, così come le
separazioni coniugali, sono correlati a un aumento delle condotte aggressive; lo stesso risultato è
riscontrabile in presenza di alcuni stili educativi: uno stile permissivo improntato all’assenza di
limiti precisi e regole; un clima educativo incoerente, in cui i genitori non riescono ad agire con
una giusta tempistica o lo fanno trasportati dalle loro stesse emozioni, alternando punizioni e
ricompense senza una precisa ragione; il rifiuto celato nei confronti del bambino, riscontrabile
nell’espressione di un disinteresse per il piccolo; la mancanza di empatia nei confronti del
bambino; uso eccessivo di punizioni o di ammonimenti.
Nelle interazioni tra pari è spesso riscontrabile l’espressione di comportamenti aggressivi, che
differiscono a seconda dell’età: al di sotto degli 8 anni le condotte aggressive sono di tipo diretto,
funzionali a colpire il bersaglio; dopo gli 8 anni si manifesta un’aggressività più indiretta, volta a
screditare l’immagine dell’altro o a mortificarlo.
Si deve distinguere tra aggressività strumentale, volta a ottenere qualcosa, e condotte ostili, volte
ad arrecare un dolore o un danno morale all’altro. Tra i 6 e i 7 anni le condotte legate
all’aggressività strumentale si riducono, mentre le seconde si modificano. Crescendo, i
comportamenti aggressivi tendono a ridursi.
Bisogna inoltre distinguere tra aggressività reattiva, alla quale sono da ricondurre tutte quelle
condotte che vengono poste in essere come risposta a una provocazione intesa come una minaccia, e
aggressività proattiva, non legata a fattori esterni di insorgenza. Un altro fattore che può concorrere
allo sviluppo o al mantenimento di un livello di aggressività è l’imitazione o osservazione di
condotte aggressive, reali o filmiche. Alcuni studi hanno dimostrato come l’insorgenza e il
mantenimento di un elevato livello di aggressività sia correlato con il mancato sviluppo di
competenze cognitive nell’area del problem solving e nella gestione dei conflitti. Crick e Dodge
hanno sviluppato il modello social information processing, ossia un modello di codifica e decodifica
dei segnali comunicativi diviso in fasi:
• fase di codifica dei segnali sociali (attenzione alle azioni dell’altro);
• fase di interpretazione dei segnali (i segnali dell’altro vengono interpretati come
intenzionali, motivati da fini aggressivi o meno);
• fase di classificazione degli scopi (valutazione di come si intende comportarsi in risposta);
• fase di esame delle possibili risposte da dare;
• fase di decisione della risposta da dare e fase della messa in atto della risposta.
Secondo tale prospettiva, alcuni bambini interpreterebbero come intenzionalità ostili i messaggi
sprovvisti di qualità relazionale, ai quali risponderebbero con una condotta aggressiva, frutto di una
non corretta decodifica del segnale comunicativo. Una delle più ricorrenti manifestazioni di
aggressività è il bullismo.
L’aggressività è energia, e se è presente in eccesso e mal gestita, può diventare patologica in età
evolutiva, favorendo la strutturazione di disturbi come l’iperattività o i comportamenti oppositivo-
provocatori. L’iperattività (con o senza deficit attentivi) è caratterizzata da un aumento dell’attività
motoria, irrequietezza e difficoltà di concentrazione; essa influisce negativamente sul rendimento
scolastico del bambino, sulla sua autostima e motivazione.
I comportamenti oppositivo-provocatori, invece, sono caratterizzati da un comportamento
aggressivo-distruttivo, nonché di disubbidienza e ostilità verso tutte le figure autoritarie. Questi
comportamenti, normali se manifestati moderatamente entro i sei anni di età, possono far pensare a
manifestazioni patologiche se reiterati oltre nel tempo, che potrebbero portare, a lungo andare, a
comportamenti antisociali come vandalismo, abuso di sostanze, bullismo.
Esso è un fenomeno complesso, e per verificarsi devono sussistere alcune condizioni: gli atti di
prevaricazione devono essere ripetuti nel tempo e sistematici; devono essere intenzionali e mirati ad
arrecare danno fisico e/o psicologico-sociale; vi deve essere una dinamica di potere a sfavore della
vittima. Le vittime si distinguono in passive (insicure e deboli) e provocatori (seppur
involontariamente assumono atteggiamenti provocatori). Questi ultimi sono solito alternare il ruolo
di vittima con quello di bullo, poiché alternano atteggiamenti di prepotenza. Il bullismo può inoltre
essere diretto, quando il rapporto coinvolge solo la vittima, o indiretto quando coinvolge altri
individui appartenenti allo stesso contesto sociale.
8.4.
8.5.
Può accadere che le motivazioni che animano un individuo perseguano fini incompatibili. Un
metodo di analisi descrive tre tipi di conflitto: di appetenza-appetenza, di avversione-avversione,
di appetenza-avversione, a seconda che la situazione richieda una scelta tra due incentivi positivi,
tra due incentivi negativi, e tra due aspetti di un incentivo che sia allo stesso tempo positivo e
negativo. I conflitti permanenti di attrazione-repulsione costituiscono le basi di gravi problemi
comportamentali e si creano generalmente nei campi: indipendenza-dipendenza (in condizioni di
stress si può manifestare un desiderio di regressione alle condizioni di dipendenza caratteristiche
dell’infanzia); cooperazione-competizione (tali motivazioni contraddittorie rappresentano potenziali
discrasie tra il perseguimento del successo e la spinta ad aiutare il prossimo); manifestazione degli
impulsi-norme morali (aggressività e sesso sono i due ambiti nei quali più di frequente gli impulsi
confliggono con le norme morali).
8.5.1.
Un conflitto emozionale irrisolto costituisce fonte di frustrazione; tra i primi segni di frustrazione si
può riconoscere un aumento della tensione e dell’aggressività, che trova espressione in qualche
forma di attacco diretto (o dislocato, vale a dire la ricerca di un capro espiatorio) contro l’oggetto
che l’ha determinata. Altre risposte alla frustrazione sono l’apatia, l’indifferenza, il ritrarsi in sé:
l’apprendimento costituisce un fattore importante nella determinazione di reagire alla frustrazione.
Quando essa diventa intollerabile, una “soluzione” può essere ricercata nella fantasticheria, che
comporta il rischio di far perdere all’individuo la capacità di discernere tra il mondo reale e quello
immaginario. Altro effetto sortito dalla frustrazione è la stereotipia, ovvero la tendenza ad assumere
un comportamento fisso e ripetitivo, perdendo la flessibilità richiesta nella risoluzione dei problemi.
Infine, il ritorno a modalità di comportamento caratteristiche di età precedenti si distingue in
retrogressione, che consiste nella ripresa di un comportamento ripreso in precedenza, e
primitivizzazione, che consiste nell’assunzione di condotte non realmente condotte in passato (un
individuo che inizia ad essere violento pur non essendolo mai stato da bambino).
8.5.2.
Alcuni di questi comportamenti sono definiti come meccanismi di difesa, perché tendono a far sì
che il soggetto mantenga o rafforzi l’autostima. Tali meccanismi hanno in comune l’autoinganno,
che si manifesta nella negazione e nel mascheramento. L’amnesia, la perdita temporanea di
memoria, produce una rimozione motivata da forme di angoscia e sensi di colpa; questi
meccanismi, se diventano schemi comportamentali, manifestano un disadattamento della
personalità. Attraverso il processo di razionalizzazione si attribuisce logica a delle azioni impulsive,
legittimando la propria condotta sulla base di motivazioni desiderabili. La pratica di attribuire le
proprie qualità indesiderabili alla condotta di altri prende il nome di proiezione, forma particolare di
razionalizzazione. Può accadere che si nasconda a se stessi una motivazione palesando in maniera
evidente il suo opposto, come nel caso di una madre eccessivamente protettiva nei confronti di un
figlio indesiderato. Questa tendenza è detta formazione reattiva.
L’unità delle azioni, i sentimenti e i pensieri, è facilmente minata dai conflitti, e prende il nome di
dissociazione, individuabile nei movimenti coatti, azioni che l’individuo sente il bisogno di ripetere
continuativamente. Un’altra forma di dissociazione è la teorizzazione eccessiva, in cui parlare di
qualcosa o pensarci diventa un sostituto dell’azione (come succede spesso in adolescenza). Quando
l’impulso che non si vuole riconoscere viene negato scatta la rimozione, in cui l’individuo non è
consapevole delle pulsioni represse. Nella sostituzione, scopi inaccettabili vengono sostituiti da
altri socialmente approvati. Si distinguono in questo senso la sublimazione, quando le spinte ostili
di un individuo trovano espressioni socialmente accettabili (come un violento che pratica il
pugilato), e la compensazione, tentativo di colmare gli insuccessi raggiungendo risultati brillanti in
altre attività. Quando il sentimento di inferiorità porta a sollecitazioni verso prestazioni elevate nei
campi in cui si è carenti, si parla di supercompensazione. I meccanismi di autoinganno, se non
impediscono una corretta valutazione della realtà, sono strumenti che possono contribuire ad
aumentare il senso di benessere.
-----
Secondo Wilfred Bion, nelle dinamiche del gruppo emergono due componenti la cui interazione
determina le dinamiche del gruppo stesso. La prima componente è il gruppo di lavoro, conscia e
razionale, la quale comprende la motivazione che spinge i vari membri a prendere parte al gruppo
stesso. Accanto a questa c’è anche una componente inconscia, chiamata assunti di base, consistente
nei meccanismi di difesa che il gruppo pone in atto per fronteggiare le ansie derivanti dal lavoro di
gruppo. Essi sono: assunto di dipendenza (il gruppo diventa passivamente dipendente da un leader,
che viene idealizzato; può scattare all’inizio della formazione di un gruppo, ma se persiste può
impedirne la maturazione); assunto di attacco e fuga (una parte del gruppo o il gruppo intero tende
a combattere o fuggire da una minaccia; il leader si fa portatore di tale meccanismo, generando uno
spostamento dell’attenzione verso altre dinamiche); assunto di accoppiamento (tutto il gruppo
riversa delle aspettative su una coppia che si è formata al suo interno alla quale viene attribuito il
compito di salvare il gruppo).
8.6.
All’interno delle disfunzioni dell’adattamento, si possono individuare i soggetti nevrotici, che
tentano di affrontare l’ansia in un modo che interferisce con la loro capacità di risoluzione dei
problemi, e dei soggetti psicotici, che hanno fatto ricorso a meccanismi di difesa così radicali da
non poter più affrontare la realtà. I soggetti disadattati tendono a farsi dominare dagli eventi. Non
esiste una linea di demarcazione tra adattamento e malattia mentale: essere mentalmente sani non
significa essere immuni da sintomi patologici.
8.6.1.
Le reazioni nevrotiche esprimono una condizione di disadattamento in cui l’individuo è incapace
di affrontare le proprie ansie, sviluppando dei sintomi che però non determinano un profondo
squilibrio della personalità come accade con le psicosi. Il sintomo prevalente è l’angoscia, palesata
o nascosta dietro altre manifestazioni. Si distinguono le nevrosi d’angoscia (stati cronici di ansia
con frequenti attacchi acuti di angoscia), le nevrosi ossessive (caratterizzate dalla presenza di
pensieri ossessivi e azioni coatte), le fobie (paure di determinati oggetti o eventi che non
rappresentano un pericolo reale), le forme di isteria di conversione (manifestazioni di sintomi senza
alcuna causa organica, di natura sensoriale, motoria, viscerale).
8.6.2.
La psicosi è una malattia mentale in cui il paziente presenta una grave alterazione della personalità,
spesso accompagnata da processi di pensiero disturbati fino al delirio o alle allucinazioni. Si
distinguono in organiche (riconducibili a una causa fisiologica conosciuta) e funzionali,
caratterizzate da disturbi di origine psicologica. Queste ultime di dividono in psicosi maniaco-
depressiva (segnata da oscillazioni del tono dell’umore, che fluttua dall’intensa euforia alla
profonda malinconia) e schizofrenia (segnata da una disarmonia o dissociazione fra diversi aspetti
del funzionamento della personalità, in particolare da una separazione dei processi del pensiero
dalle emozioni).
8.6.3.
Le tecniche terapeutiche utilizzate sono differenziabili in terapie somatiche (farmaci) e
psicoterapie. Tra le principali psicoterapie ricordiamo quella centrata sul cliente (o non direttiva)
sviluppata da Carl Rogers, il quale sostiene che la relazione assistenziale risulta efficace soprattutto
grazie agli atteggiamenti assunti dal terapeuta, che deve quindi mostrarsi comprensivo, sicuro di sé
e non esprimere giudizi. Il procedimento è detto trattamento di consulto (non fa uso di una terapia
interpretativa del profondo) viene designato come metodo non-direttivo, perché secondo lo
studioso ogni individuo è in grado di arrivare da sé a una chiarificazione delle proprie questioni
insolute.
La terapia psicoanalitica è fondata sulle teorie freudiane. Un elemento fondamentale è costituito
dalle associazioni libere, finalizzate all’espressione verbale di pensieri e sentimenti rimossi di cui il
paziente non ha consapevolezza. Durante il corso di una terapia psicoanalitica si delineano tre
esperienze fondamentali: l’abreazione o catarsi, che costituisce un intenso rivivere un’esperienza
affettiva; l’insight, la comprensione dell’origine della condizione conflittuale; il working through,
nel quale si riesaminano gli stessi conflitti e il paziente impara ad affrontare il mondo reale.

9.1.
L’adolescente deve fronteggiare una serie di compiti evolutivi: le trasformazioni corporee, il
confronto con il gruppo dei pari e con i genitori, le fasi di innamoramento e la relazione di coppia,
la costruzione dell’identità, la gestione dell’autostima. Questa fase dello sviluppo si conclude
all’incirca al 18° anno di età, ma la sua durata varia da cultura a cultura poiché connessa a fattori
socio-culturali. La sindrome del ritardo (disempowerment) è la lentezza con cui i giovani oggi
conquistano autonomia e responsabilità. L’inizio dell’adolescenza è collocabile tra i 10 e i 12 anni
per le femmine e tra gli 11 e i 13 anni per i maschi.
L’adolescenza tuttavia è un periodo non omogeneo e si può suddividere in preadolescenza,
adolescenza, pubertà, tarda adolescenza e post-adolescenza; le trasformazioni fisiche sono
specifiche del periodo definito pubertà.
Secondo James Havighurst esistono dei problemi, detti compiti di sviluppo, che l’adolescente
deve fronteggiare per acquisire la sicurezza indispensabile ad affrontare le difficoltà future:
instaurare relazioni nuove e più mature con i coetanei; acquisire un ruolo sociale; accettare il
proprio corpo; conseguire indipendenza emotiva dai propri genitori; orientasi verso un’occupazione;
sviluppare competenze intellettuali; sviluppare competenze civili; acquisire un comportamento
socialmente responsabile; acquisire una coscienza etica come guida del proprio comportamento.
La principale problematica della fase adolescenziale è legata alla costruzione dell’identità. Due
studiosi del periodo adolescenziale, Margaret Mead e Stanley Hall, ritengono che l’influenza
culturale sia determinante nel delineare le modalità di fronteggiamento della crisi adolescenziale;
oggi è opinione diffusa che nella fase adolescenziale siano determinanti le risorse personali,
l’autostima, il senso di autoefficacia e le abilità di coping. Il concetto di coping si riferisce a come
gli individui affrontano le situazioni problematiche o stressanti: le abilità di coping si riferiscono
quindi alla capacità di domare l’evento e controllare le proprie emozioni.
L’identità personale coincide con due dimensioni: l’idea che un individuo ha di sé, e ciò che è
realmente. Il senso di identità si esprime attraverso l’idea di sé cercata (esperienze in cui mettersi
alla prova) e l’idea di sé riflessa (coerenza, sforzo di riflessione e consapevolezza). In questa
ricerca si scontrano il sé reale e il sé ideale. Gli adulti che hanno un ruolo educativo nei confronti di
un adolescente svolgono una funzione determinante nella formazione della sua identità. Ad
esempio, quando gli allievi percepiscono le valutazioni espresse dagli insegnanti, si determinano in
loro delle autovalutazioni corrispondenti, dando origine a dei pregiudizi sviluppati sulla base delle
informazioni possedute, a partire dalle impressioni percettive, dall’effetto alone e
dall’etichettamento.
Secondo gli psicologi interazionisti, il sé è una costruzione sociale che implica l’interiorizzazione di
ciò che Charles Horton Cooley chiama altri significativi, ovvero gli atteggiamenti che gli altri
esprimono nei suoi confronti (looking-glass-self). I cambiamenti fisici ed emotivi portano infatti a
una maggior dipendenza dagli altri per la conferma dell’immagine e della stima di sé.
Le principali teorie sull’adolescenza sono quella psicoanalitica e psicosociale.
9.2.
La teoria psicoanalitica, basata sulle pulsioni, fa coincidere l’adolescenza con l’abbandono delle
pulsioni tipiche della fase pregenitale e l’investimento libidico sulle zone erogene. Tale teoria si
basa sulla concezione conflittuale dell’adolescenza, il cui superamento porta all’acquisizione di una
sessualità più matura. Anna Freud, seguendo la teoria del padre, ritiene che dal conflitto tra Es e Io,
ancora troppo rigido, emergano meccanismi di difesa quali ascetismo (l’abbandono dei desideri
puramente pulsionali e lo spostamento su grandi ideali) e intellettualizzazione (lo spostamento
degli affetti dagli oggetti d’amore e di odio alle discussioni intellettuali, in modo da poter
controllare il conflitto psichico legandolo a un contenuto ideativo).
9.3.
Una delle più interessanti teorie dell’approccio psicosociale viene dalla corrente neo-freudiana con
il contributo di Erik Erikson. Egli accetta le nozioni di base della teoria freudiana e la integra
sviluppando otto stadi psicologici che attraversano l’intera vita dell’individuo, e che sono
caratterizzati dall’unione della dimensione sessuale e di quella psicosociale.
L’organizzazione della personalità è condizionata dal superamento delle crisi, generata dalla
sinergia tra fattori legati alla maturazione e fattori psicosociali. Freud enfatizzava le pulsioni e come
l’individuo imparava a gestirle; Erikson, invece, punta sulla ricerca dell’identità.
Dai suoi studi emerge la suddivisione del ciclo di vita in otto età evolutive, ovvero otto periodi
critici. Per ogni stadio esiste un compito di sviluppo, che a seconda di come viene affrontato e
risolto, conduce a esiti positivi o negativi. Ogni stadio è caratterizzato dalla bipolarità di un
dilemma che nasce dalla relazione individuo/ambiente e che deve essere superato affinché avvenga
la maturazione. Erikson parla di identità dell’io, indicando la funzione organizzatrice dell’Io, che
oltre a mediare tra pulsioni e istanze superegoiche, serve a mantenere l’unitarietà della persona. In
adolescenza i ragazzi manifestano conflittualità tra identità e confusione (o dispersione) di identità.
In questa fase l’individuo cerca una sua collocazione nel contesto sociale.
Le caratteristiche dell’identità di un adolescente dovrebbero essere: continuità e coerenza
(l’adolescente dovrebbe percepire una coerenza interna), reciprocità (coerenza tra l’immagine che
abbiamo di noi e quella percepita dagli altri), accettazione (comprensione e accettazione dei propri
limiti), definizione del proprio percorso (costruzioni realistiche circa il proprio percorso di vita).
Il modello di Erikson è stato poi rielaborato da James Marcia, che ha sviluppato gli stati di identità
dell’adolescente. La sua ricerca aveva lo scopo di stabilire lo status dell’identità nelle diverse aree
di vita dell’individuo: valori religiosi, credenze politiche, atteggiamenti sessuali e lavoro. Egli
distingue quattro stati di identità (diffusione, esclusione, moratoria e raggiungimento
dell’identità) che si configurano dalla dinamica tra la dimensione dell’esperienza (le possibili
alternative che si possono operare nell’attività sociale) e quella dell’impegno (il seguire
l’alternativa individuata). Se le esperienze vengono affrontate con impegno l’individuo raggiunge
un’identità realizzata; viceversa, si realizza un blocco di identità.
Gli elementi costitutivi dell’identità per Marcia sono la certezza circa il proprio genere sessuale, la
maturità fisica, l’atteggiamento adulto verso la sessualità, la capacità di ragionare in modo
astratto, e la capacità di rispondere adeguatamente alle attese sociali. Affinché la maturazione
avvenga correttamente occorre che la configurazione identitaria sia acquisita dal soggetto e non
ascritta agli altri.
In questo periodo avvengono anche dei cambiamenti cognitivi: richiamando gli studi di Piaget, il
ragazzo matura il pensiero operatorio formale, che gli consente di elaborare delle informazioni
tenendo conto di diverse variabili; inoltre possiede: il pensiero ipotetico deduttivo, che gli permette
di ragionare su elementi non concretamente presenti; la comparazione delle variabili; la logica delle
proposizioni.
9.4.
In adolescenza vi è anche lo sviluppo del pensiero morale come non dipendente dall’autorità
dell’adulto (livello morale convenzionale). L’adolescente comprende che le regole vanno rispettate
perché tutti le accettano come base morale, ma proprio perché sono create dall’uomo possono
essere modificate (livello post-convenzionale).
9.5.
Nella prospettiva dell’interazionismo sociale, Albert Bandura sottolinea come persone pur dotate
di forme di ragionamento elevate, o che si ispirano a norme universali, utilizzino meccanismi di
controllo interno in grado di attivare o disattivare il comportamento morale. Famiglia, scuola e
media hanno un ruolo determinante nel favorire l’interiorizzazione delle norme: l’adolescente in
questa fase deve rendersi autonomo (fase dell’individuazione).
9.6.
Diana Baumrind ha individuato quattro stili educativi correlati a specifiche caratteristiche dei
bambini e degli adolescenti. Tali stili sono caratterizzati dall’interazione di alcune dimensioni:
permessività-severità (il grado di libertà che i genitori lasciano ai figli), sollecitudine-ostilità (il
calore affettivo che i genitori dimostrano ai figli), chiarezza comunicativa (la capacità di
comunicare in maniera efficace) e aspettative verso il figlio (ciò che il genitore si aspetta in termini
di comportamento). Dall’incrocio di queste dimensioni emergono gli stili educativi: autoritario,
permissivo, autorevole e trascurante.
Copes individua invece tre stili genitoriali, partendo dal presupposto che lo sviluppo dell’identità
sia fortemente influenzato dallo stile educativo usato dai genitori: il genitore relazionato agevola la
crescita dei figli e la loro autonomia; il genitore autocentrato non muta la propria posizione,
convinto di sapere quale sia il bene del figlio; il genitore evasivo è psicologicamente assente,
deluso e arrabbiato.
L’identità si costruisce anche attraverso la relazione con il gruppo dei pari; i gruppi si dividono in
formale (come un gruppo sportivo o religioso, i suoi membri sono accomunati dall’istituzione di
cui fanno parte) e informale (un gruppo amicale, slegato da istituzioni, che si aggrega sulla base di
legami personali.

10.1
La creatività è la capacità di esprimere intuizioni (insight) di fronte a situazioni nuove o impreviste,
e si manifesta come abilità nel trovare soluzioni efficaci rispetto a problemi da risolvere.
In generale, i diversi modelli concordano sul fatto che un atto creativo sia tale quando dà luogo a
qualcosa di originale. Per Donald Winnicott la creatività è costituita dalla maniera che ha
l’individuo di incontrarsi con la realtà esterna; essa è universale, appartiene al fatto di essere vivi.
Non è possibile localizzare la creatività in una regione specifica del cervello: il funzionamento
neurale cambia in funzione del contenuto dell’atto creativo e delle caratteristiche cognitive
dell’individuo (se il compito cognitivo è di tipo verbale, si attivano le aree associative del
linguaggio, e così via). In questo ambito di studio, un processo viene definito produttivo
(all’opposto di riproduttivo), laterale (all’opposto di verticale) o divergente (all’opposto di
convergente).
10.2
J.P. Guilford, per cui il termine divergente è quello più connesso all’atto creativo, ha elaborato un
modello multifattoriale e creativo dell’intelligenza, diverso da quello di Thurstone. Egli nega che un
individuo possa essere abile o meno in numerosi compiti differenti; non c’è correlazione tra le
diverse capacità: un individuo che possiede un’eccellente memoria potrebbe fallire in altre
prestazioni. Le tre categorie intellettive individuate da Guilford, comprendenti ognuna un certo
numero di abilità, sono le operazioni mentali (l’aspetto cognitivo e valutativo, come la cognizione,
l’ipotesi, la memoria), i prodotti (le operazioni mentali, suddivise in unità, classi, relazioni, sistemi,
trasformazioni e implicazioni) e i contenuti ideativi, che si configurano come schemi (colore,
suono), simboli (disegni, lettere), forme semantiche (parole, frasi) e schemi comportamentali
(intenzioni, azioni). All’interno di questa struttura egli distingue, nell’ambito delle operazioni
mentali, tra pensiero convergente e pensiero divergente, individuando gli elementi che a suo
avviso sono tipici del creativo: la flessibilità (la capacità di passare da una categoria a un’altra, e di
risolvere compiti diversi che richiedono differenti strategie), la fluidità (la capacità di produrre
tante idee, indipendentemente dalla loro qualità, perché più numerose sono le ipotesi, più sono le
probabilità di produrre la soluzione migliore), l’originalità (la capacità di trovare idee insolite),
l’elaborazione (la capacità di percorrere fino in fondo la linea di pensiero intrapresa) e la
valutazione (la capacità di selezionare l’idea più pertinente allo scopo). Se il pensiero convergente
è quindi più orientato verso la scelta dell’unica soluzione possibile, il pensiero divergente procede
producendo più idee per scegliere quella più adatta all’obiettivo.
10.2.1.
Guilford ha sviluppato un modello denominato Structure of Intellect (SI) che si basa su tre
assunti: è un sistema multidimensionale, che prevede l’affiorare di diversi tipi di intelligenza nella
mente adulta; queste capacità intellettuali possono essere sviluppate attraverso strategie specifiche e
alternative l’una all’altra; il modello non presenta una gerarchia specifica della struttura
dell’intelletto. Queste caratteristiche lo distanziano fortemente dal modello del Mastery Learning di
Benjamin Bloom.
Il SI può essere raffigurato come un cubo. Le tre dimensioni sono: le operazioni intellettuali, le
rappresentazioni dell’informazione e le organizzazioni dell’informazione. La figura che
rappresenta la struttura dell’intelletto è composta da 120 cubi; ciascuno di essi rappresenta
un’interazione tra le differenti dimensioni (un cubo può corrispondere, ad esempio, all’intersezione
di un’organizzazione in classi di rappresentazioni simboliche trattate come produzione
convergente). Ogni individuo può essere in grado di risolvere compiti in uno di questi 120 ambiti,
ma ognuno in maniera diversa.
La dimensione delle operazioni intellettuali comprende 5 categorie: la conoscenza (indica il
riconoscimento di un’informazione, ad esempio riconoscere un triangolo in mezzo a una serie di
figure), la memoria (la capacità di conservare un’informazione acquisita), la valutazione (la
capacità di esprimere un giudizio o prendere una decisione sulla base delle informazioni apprese).
La produzione convergente e divergente si basano sulla memoria e sulla conoscenza, ed entrambe
producono nuova informazione, ma in maniera diversa: il pensiero convergente è orientato verso la
scelta dell’unica soluzione possibile, il pensiero divergente produce più idee.
La rappresentazione dell’informazione indica il modo con cui un’informazione viene presentata
all’individuo: esse sono le rappresentazioni figurative (immagini), simboliche (lettere, numeri),
semantiche (parole, frasi) e comportamentali (segnali non verbali come posture, toni di voce).
Le organizzazioni dell’informazione hanno sei diverse modalità: le unità (presenti nei compiti nei
quali si gestiscono delle rappresentazioni una per volta), le classi (si gestiscono informazioni
diverse raggruppate sulla base di alcune similarità), le relazioni e i sistemi (gestione di
informazioni dove vi sono connessioni tra unità di informazione: le relazioni mettono in rapporto
una coppia di unità, i sistemi mettono in rapporto più unità), le trasformazioni (la modifica, la
revisione delle informazioni) e le implicazioni (l’uso dell’informazione assegnata per fare delle
deduzioni).
La creatività è una fondamentale facoltà cognitiva, e il sistema scolastico dovrebbe prendersi cura
di questo aspetto. Tuttavia, la letteratura è concorde nel riportare un disinteresse nei confronti di
essa. La creatività non rientra nei parametri di valutazione di nessun grado scolastico né test
nazionale.
10.2.4
Edward De Bono è il creatore del concetto di pensiero laterale. Secondo lo studioso, quando si
richiede una soluzione diversa e innovativa, si deve stravolgere il ragionamento e abbandonare il
pensiero verticale, basato sulle deduzioni logiche, per entrare nella lateralità del pensiero creativo. Il
principio è simile a quello del pensiero divergente: per ciascun problema è possibile individuare
diverse soluzioni, prescindendo da quello che inizialmente appare l’unico percorso possibile.
10.2.5.
Sarnoff Mednick ha pubblicato la sua Teoria associativa del processo creativo, in cui sostiene
che il pensiero creativo sia il processo attraverso il quale elementi disparati si uniscono in nuove
combinazioni per elaborare una nuova proposta; a tal proposito egli parla di associazioni remote.
Le soluzioni creative possono essere prodotte mediante: la serendipity (un’associazione tra concetti
avvenuta in modo casuale e fortuito, la cui sintesi produce un risultato nuovo), la similarity
(processo creativo per associazione tra elementi simili) e la meditation (riflessione sugli elementi).
L’autore ha anche sviluppato il Remote Association Test (RAT) per dimostrare la sua teoria
associativa della creatività.
10.2.6.
La descrizione più nota del processo creativo è quella detta per fasi successive di Graham Wallas.
Secondo lo studioso, il processo creativo può essere diviso in: preparazione (l’individuo raccoglie i
dati e pensa in modo libero); incubazione (l’individuo cova le sue idee); illuminazione (momento
dell’intuizione improvvisa); verifica (l’intuizione viene strutturata con un’argomentazione).
Wallas aggiunge una quinta sub-fase, il momento in cui subentra la sensazione di essere sulla
strada giusta che talvolta precede l’insight, e che presenta un’alternanza tra pensiero logico (che
procede per sequenze di causa/effetto) e pensiero analogico (che si sviluppa per
somiglianze/differenze).
Partendo da questa, diversi studiosi elaborano delle classificazioni: i sette stadi di Rossmann, le fasi
di Eindhoven e Vinacke, i sette stadi di Osborn, le tre fasi di Johnson.
10.2.7.
Hubert Jaoui ha ideato il metodo PAPSA, che sistematizza le tappe del processo creativo e si basa
su cinque fasi: percezione (cognizione degli aspetti del problema), analisi (esplorazione per
individuare i parametri di azione), produzione (elaborazione di idee originali anche irrealistiche),
selezione (scelta delle idee), applicazione (ricerca degli strumenti per realizzare l’idea).
10.2.8.
Negli anni ‘80, Teresa Amabile ha sviluppato il metodo Consensual Assessment Technique (CAT)
per la valutazione psicometrica della creatività, che consiste nel chiedere a un partecipante di creare
un oggetto affinché venga valutato individualmente da un gruppo di giudici. Amabile fa notare che,
pur essendo la creatività un punto di partenza, non è sufficiente perché esista innovazione. Ella
esamina quindi i falsi miti che ruotano intorno alla creatività: la creatività appartiene solo ai
creativi; il denaro è una forte motivazione; lo stress da scadenza alimenta la creatività; la paura
spinge all’innovazione; competere è meglio che collaborare (tutti assiomi legati alla produzione
aziendale).
La studiosa ha anche individuato i cosiddetti killer della creatività, che identifica nella sorveglianza,
la valutazione, le ricompense, la competizione, l’eccessivo controllo, la limitazione delle scelte, la
pressione. Al contrario, la cooperazione e l’immaginazione hanno la capacità di promuovere la
creatività e di potenziarla.
Il contributo di Amabile è importante anche per aver identificato la genesi della componente
creativa nell’interazione di tre fattori: l’abilità nel contesto di azione (il possesso di conoscenze in
settori specifici che permette di eseguire operazioni di combinazione delle informazioni), l’utilizzo
di competenze del pensiero creativo (necessarie per generare i risultati) e la motivazione
intrinseca (che scaturisce dal compito in sé, distinta dalla motivazione estrinseca, connessa a fattori
non direttamente legati al compito, come le ricompense).
La prospettiva di Andrea Gentile è che la creatività emerge come capacità di esprimere ciò che si è
mediante il pensare, l’agire; l’intuizione creativa è un aspetto fondamentale nei processi cognitivi,
poiché permette di trovare soluzioni alternative.
Anche per Silvano Arieti la creatività riguarda tutti e non solo gli individui geniali; la persona
creativa è in grado di selezionale, discriminare, elaborare prodotti caotici che vengono fuori di getto
per metterli in relazione poi con il pensiero logico integrato. Secondo lo studioso la creatività si
origina dalla dialettica tra divergenza e convergenza, per confluire nella sintesi magica. Arieti opera
poi una distinzione tra creatività ordinaria, che si esprime in quelle persone che hanno maggior
accesso alla metafora, alle immagini, alla verbalizzazione accentuata, così da poter dare vita a
creazioni di altissimo valore, e creatività ordinaria, che fa parte del quotidiano, e può migliorare la
vita di una persona rendendola più piena e soddisfacente. In entrambi i casi la creatività può essere
potenziata tramite le condizioni che, a suo avviso, favoriscono il processo creativo: la capacità di
stare da solo; l’inattività, l’ozio, la noia; il ricordo e la ripetizione interiore dei conflitti traumatici
passati; l’ingenuità (propensione ad accettare l’esistenza di un minimo comun denominatore
nascosto che unisce i vari fenomeni tra loro); la vivacità e la disciplina.
Per Gianni Rodari la creatività è la capacità di manipolare la realtà. Essa è una dialettica tra
dissociazione e ricombinazione, un sinonimo di pensiero divergente, che trova applicazione nel
binomio fantastico, ovvero l’atto di avvicinare due parole apparentemente estranee per sviluppare
abbinamenti creativi con cui raccontare storie originali.
Le tecniche da lui adoperate per sollecitare il pensiero creativo sono applicabili anche ad altri
linguaggi. Rodari incontra l’artista Bruno Munari, con cui collabora ripetutamente per la creazione
di libri, invenzioni e idee per stimolare l’immaginazione. Munari nel 1977 realizza il primo
laboratorio per bambini a Milano: egli lo concepisce come luogo dove attuare possibilità di ricerca
di tutte le soluzioni possibili; tuttavia la creatività funziona meglio quando è accompagnata da un
metodo e delle regole.
Loris Malaguzzi pensa, come i precedenti personaggi, che la creatività sia qualcosa che appartiene a
tutti. Lo studioso fa coincidere la creatività con l’apprendimento per scoperta. La sua originale
visione riguarda la genesi del pensiero creativo: ogni bambino è creativo perché costruisce la
propria conoscenza attraverso l’esplorazione e la rielaborazione del mondo.
Joseph Renzulli ha sviluppato insieme alla moglie Sally Reis un sistema pedagogico per lo sviluppo
del talento, The Schoolwide Enrichment Model (SEM). Questo modello si propone di promuovere
abilità logiche, pratiche e creatività, partendo dalla valutazione del potenziale di ciascuno, da attuare
secondo il metodo dei tre anelli (talento, motivazione e creatività). L’identificazione della
plusdotazione (giftedness), è infatti il primo passo per conoscere le potenzialità dell’alunno.
Mario Mencarelli definisce la creatività come uno stato di interfunzionalità. Per lo studioso, quindi,
la creatività è una caratteristica generale della personalità ed emerge in ogni suo tratto, permettendo
all’individuo di attuarsi psichicamente in un continuo rinnovamento. Intesa come diritto personale
ed esigenza sociale, la creatività rappresenta l’ansia di libertà di fronte ai tentacoli della
massificazione.
Questo concetto riecheggia anche nel pensiero di Duccio Demetrio: per il pedagogista, che ha
trovato nella scrittura autobiografica uno dei suoi principali interessi, definendola una cura del sé,
esiste un nesso tra scrittura e creatività, che sta nella trasformazione dell’esistente.
Per Freud la creatività è frutto della sublimazione di energie scaturite da una situazione frustrante e
del loro ri-orientamento in una direzione produttiva. Questo avviene quando il principio di realtà,
cioè la consapevolezza che bisogna venire a patti con le situazioni e inventarsi delle vie d’uscita, si
sostituisce al principio del piacere, cioè il bisogno di appagare qualsiasi desiderio in modo
immediato.
Arthur Koestler sostiene che non esista persona senza creatività: egli parla di bisociazione, ovvero
prendere due cose che non sono incrociate, e incrociarle. Se la risposta è funzionale e utile, si è
creato.
-----
Diversamente dall’intuizione creativa, il pensiero logico usa il pensiero orizzontale, logico-
razionale-lineare, che porta ad una catena di cause ed effetti consequenziale. Per essere fluidi
bisogna inoltrarsi nell’orizzonte analogico-intuitivo-reticolare, caratterizzato anche da collegamenti
verticali di similitudine tra sistemi solo apparentemente scollegati. L’analogia, per esempio, è un
pensiero verticale che mette in evidenza la simultaneità di fenomeni che si attuano a piani diversi.
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Mark Runco ha focalizzato la sua attenzione sul pensiero divergente e sull’innovazione. Egli dedica
ampio spazio alla flessibilità, l’elemento più importante della creatività, perché permette di trovare
nuove soluzioni e di guardare le cose da più punti di vista; la flessibilità permette inoltre di rendere
fluidi i passaggi tra ambiti diversi, come succede nella creatività scientifica o quella artistica.
Dean Simonton propone una teoria della combinazione di casualità: secondo tale modello il
processo creativo prenderebbe avvio da una modificazione casuale di rappresentazioni mentali, che
tramite una sequenza definita, producono nuovi pensieri e formulazioni. Lo schema è: le soluzioni
creative richiedono un processo di variazione; le variazioni sono selezionate sulla base di un
insieme di criteri; le variazioni che soddisfano i criteri vengono conservate. Il presupposto teorico di
un mutamento casuale, quale base dello sviluppo creativo, è condiviso da molte teorie relative alla
creatività scientifica.

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