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Michele Corsi - L’apertura alla speranza e l’educazione come promessa

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. L’APERTURA ALLA SPERANZA ................................................................................................................ 3


2. L’EDUCAZIONE ALLA PROMESSA ......................................................................................................... 6

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
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per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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1. L’apertura alla speranza

Ho già fatto riferimento alla “speranza”.

Una speranza che è “certezza”.

Confermata dalla storia e dalla cultura1.

Le speranze degli adolescenti, come quelle degli adulti e degli anziani.

La speranza in un mondo migliore.

Non l’incubo di rimanere eternamente giovani e di non morire mai, come in troppi

personaggi della cosiddetta generazione di mezzo.

La speranza che, dopo l’eclisse, ritorna la luce.

E che, dopo la crisi, sopraggiunge un periodo di stabilità.

Certo, dobbiamo abituarci (e la globalizzazione ne è un fatto evidente) a convivere con i

molti e rapidi cambiamenti del secolo appena iniziato.

Intere popolazioni, ad esempio, si stanno spostando.

Quello, però, che, in Europa, è vissuto attualmente con comprensibili paura ed allarme, per

cui in pedagogia ci confrontiamo con l’intercultura e la transcultura2, in altre parti del mondo è

uno “stato” o una condizione già acquisiti e consolidati da tempo.

E pacifici.

Oppure, basta dirigersi verso altre parti del pianeta per accorgersi che tante “diversità”

sono ormai accolte e metabolizzate da anni, che “coesistono” con la cosiddetta “normalità”, e

1 Cfr., a questo riguardo, anche G. CHIOSSO (a cura di), Sperare nell’uomo. Giussani, Morin, MacIntyre e la questione
educativa, SEI, Torino 2009.
2 Cfr. M. CORSI-M. STRAMAGLIA, Dentro la famiglia, op. cit., e, in particolare, le pp. 20-27 scritte da M. Stramaglia.

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che non hanno più bisogno di essere urlate e “reclamate”, di atteggiamenti provocatori e di sfida,

per ottenere il diritto pieno di cittadinanza. Perché sono traguardi raggiunti e definiti.

Anche in merito alle persone con disabilità. E ai loro stessi vissuti.

Per cui, non vivendo più, costoro, la loro “diversa abilità”, fisica e mentale, come una sorta

di persistente “lebbra” della contemporaneità, si muovono liberamente, per le città, con le loro

carrozzine, viaggiano, amano, sposano o convivono, e procreano.

Certamente, con una pedagogia e un’educazione più radicali e diffuse in quelle parti del

pianeta, e più attrezzate in ordine a questi come ad altri versanti.

La speranza è, comunque, la condizione di fondo della pedagogia. Il suo presupposto

irrinunciabile. Il suo faro.

Senza la speranza nell’uomo e nella sua educazione, nel miglioramento dell’infanzia e

nell’avvento di generazioni più mature, la pedagogia perderebbe il suo stesso diritto all’esistenza.

Da “profezia” illuminata e ragionevole, scientifica – qual è, sulle “migliori sorti e progressive

dell’umanità”3, nel senso di “dire prima e meglio” cosa sta per accadere, o potrebbe pure

avvenire, intervenendovi, la scienza dell’educazione si trasformerebbe, invece, come sta

capitando per lo più al presente, in una sorta di melanconico rogito notarile, in cui annotare,

unicamente, eventi, passaggi (di proprietà e di potere), scambi e contraccambi. Dall’esterno, e

senza possibilità di intervento reale e concreto, limitandosi alle sole formalizzazioni e ai meri

aggiustamenti al riguardo. Ad esempio, normativi. O di modellizzazione pedagogica. E null’altro.

La pedagogia, al contrario, si configura come una sorta di cannocchiale prospettico e

avanguardista della storia. Proprio perché attiene all’educazione. E, quindi, all’edificazione in

progress di un futuro che ancora non c’è. E che viene “inventato”, passo dopo passo, momento

per momento4.

3Cfr. M. CORSI, Come pensare l’educazione, op. cit.


4Basti pensare al “cattivo servizio” che è stato reso, sempre più di recente, alla connotazione della situazione adulta. Gli
adulti vengono, infatti, descritti, da troppa letteratura di settore, quali unicamente “seri”, pervicacemente riflessivi e
compunti, persistentemente rigidi e irrigimentati. Senza ulteriori “qualità” (alla Musil) più divertenti e gioiose a caratterizzarli.
O quali professionisti, oppure operai, attenti al loro lavoro e mai “distratti”. Oppure come padri e madri, chiamati al difficile
“compito” di non sbagliare mai, o assai raramente. Dunque: una sciagura il “generare”, l’educare e l’impegnarsi. In una
parola: essere adulti. Creando, nel contempo, una pseudo-cultura a vantaggio della ricerca del piacere a tutti i costi,
dell’instaurarsi di maggiori quantità di egoismo ed egocentrismo, e a favore di un individualismo sfrenato e totalizzante. Con

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L’educazione, infine – e mi avvio a concludere, è una “promessa” 5, e risponde al

paradigma del “se, allora”.

una decisione, implicita o esplicita, di non voler “crescere”, di rimanere eternamente “giovani”, pur di non approdare alle
lande sconsolate e sconfortate dell’adultità. Con tutti gli esiti, e le contraddizioni a seguire, che ben conosciamo. E di cui la
crisi contemporanea della stabilità familiare è, peraltro, una manifestazione evidente. Ugualmente, è nota l’insistenza con
cui si sono volute raccontare, sino a non molto tempo fa, le donne: massaie felici e genitrici invariabilmente soddisfatte di
un bel nugolo di pargoli. E, nel contempo, prevalentemente insegnanti oppure professioniste, ciò nonostante affermate o
“in carriera”, operaie, commesse ecc. Insomma, quali “angeli perfetti del focolare domestico” e della “società”. Mai
stanche o deluse. Con un “faticosissimo” aumento, al contrario, per costoro, di “compiti” personali e relazionali: mogli,
madri, amanti, complici, “amiche” e tutrici “laiche”, “psicologhe” o “psicoterapeute”, gratuite e a tempo pieno, dei mariti,
dei compagni di vita e dei figli. Un quadretto “idilliaco” e scioccamente romantico che, del resto, non è mai esistito in
alcuna epoca e, forse, neppure in alcuna classe o condizioni sociali. Gli adulti invece, sia uomini che donne, sono ben altro
da queste pseudo-connotazioni. Essi, nella loro caratterizzazione realistica e più “sana”, sono come sospesi,
permanentemente, tra la memoria e il rimpianto dell’adolescenza e della giovinezza, ormai superate e lasciate alle spalle
(e, talora, anche dei rimorsi di queste “età” non vissute appieno per tutta una serie di condizionamenti), e che vorrebbero
piuttosto rivivere con la maturità e la “forza” della nuova condizione adulta, a fronte pure del corretto timore di una
vecchiaia progressivamente alle porte, e per giunta ignota, man mano che avanzano gli anni. Adulti, comunque, che, in
“buon numero”, hanno operato delle “scelte”, augurandosi, almeno all’atto delle decisioni assunte, che esse fossero stabili
e durature. E che continuano a compierne di altre e di diverse. Talvolta permanenti e talvolta opportunamente transitorie.
Che sanno, o meglio non si nascondono, che la vita e la professione, la famiglia da cui sono usciti o che hanno formato,
sono attraversate anche da litigi e incomprensioni, da fatiche di varia natura e difficoltà, da stress e competizione. Che
hanno desiderio di impegnarsi e di “costruire”, di guadagnare (quale mezzo e non come fine per la loro stessa “migliore”
esistenza e per quanti gli sono “cari”) e di produrre. Ma che hanno, nondimeno, “voglia” di divertirsi, di svaghi e di
piacevolezze, di tempi distesi e di vacanze. E che sanno che tutto questo è “possibile”. Basta sapersi (e volersi) organizzare,
compatibilmente con le risorse e i mezzi a disposizione. Cfr. M. CORSI-M. STRAMAGLIA, Dentro la famiglia, op. cit. e, per altro
verso, pure P. BLOS, L’adolescenza. Una interpretazione psicoanalitica, trad. it., FrancoAngeli, Milano 1971.
5 Cfr. M. CORSI, Educazione e promessa, in E. GIAMBALVO (a cura di), Cinquant’anni di personalismo critico. Tra metafisica

e ricerca pedagogica, Edizioni della Fondazione Nazionale “Vito Fazio-Allmayer”, Palermo 2001, pp. 47-64.

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2. L’educazione alla promessa

La vita stessa è una promessa.

La letteratura (e la bibbia) abbondano di esempi al riguardo: la terra “promessa”, la

promessa di “amore” e di “salvezza”.

Nondimeno, nel diritto: quelle di “affidamento” e di “pagamento”.

La cifra della promessa è la sua “osservanza”; e “richiede” che essa venga mantenuta.

E questo presuppone, a monte, la solvibilità del contraente maggiore: cioè dell’educatore.

Accanto alla “costanza”, non sempre però “garantita” o fortunata, da parte

dell’educando.

La promessa quale scelta e anche come scommessa.

Reciproca, tra i due o più soggetti coinvolti.

Che esige preventivamente un piano e un progetto, mezzi, strumenti e risorse.

Maggiormente in capo al promittente.

Ma in qualche modo pure in rapporto al ricevente, chiamato in causa.

Verifiche e monitoraggi.

Tempi e spazi opportuni.

Che implica, nondimeno, la cultura e lo stile della gratuità, del saper stringere e intrattenere

le adeguate e vincenti, durature, relazioni interpersonali, al pari della dovuta “distanza” tra sé e

l’altro.

Come nel caso dell’educazione e dell’educazione come promessa, intese quali “rapporti

educativi”6.

La modernità ritiene, invece, che la gratuità non esista e non possa esistere7.

Ma è il “dono” che fonda lo scambio, e non viceversa.

Ogni relazione sociale, inclusa quella di scambio, non è umana se non nasce dal dono.

6 Cfr. S. DE GIACINTO, Educazione come sistema, op. cit.


7 Cfr. PP. DONATI, Il dono in famiglia e nelle altre sfere sociali, in E. SCABINI-G. ROSSI (a cura di), Dono e perdono nelle
relazioni familiari e sociali, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 60.

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Senza un minimo di gratuità, la relazione sociale non esiste.

La famiglia, ad esempio, è il luogo naturale e per eccellenza del dono.

Il dono come intenzionalità, ma anche quale mezzo e valore.

Il dono come relazione sociale.

Al pari dell’educazione e della promessa.

Il dono, nondimeno, quale contraccambio.

Alla stregua dell’educazione, da salvaguardare stabilmente, e della promessa, da

mantenere saldamente.

Il dono e la promessa sono, allora, le condizioni “prime” o le pre-condizioni sostanziali,

filosofiche e relazionali. a un tempo, dell’educazione.

Tali da compenetrarsi reciprocamente e da legarsi fra loro quale trittico inscindibile.

Una bella sfida, pertanto, è quella che attende la pedagogia del XXI^ secolo.

Quella, cioè, di mettere maggiormente a fuoco l’educazione, di riprendere a “proporre”

l’adultità come “modello vincente” e di educare correttamente gli adulti, a partire dalle fasi

evolutive precedenti, con tutte le loro motivazioni e la loro consapevolezza, con i loro piani e i loro

progetti, con la loro “lettura” dell’altro e l’“incontro” con costui.

E, da qui, la riscrittura della società, delle sue istituzioni e delle sue organizzazioni.

Non da ultimo, del complesso pianeta o sistema delle odierne relazioni educative familiari.

Un’impresa non facile, che ha a che fare con la storia: la “nostra” storia, come con la storia

di chiunque: degli uomini e delle donne, nessuno escluso.

Al pari di quella dei bambini, dei fanciulli, degli adolescenti e dei giovani.

E, dunque, con la possibilità dell’errore e dell’incomprensione, della caduta e della miseria,

della lontananza e della fragilità.

Quindi, con il “perdono”: quale collante, in ultima istanza, dell’educazione e della

promessa, tale da renderle, entrambe, possibili e praticabili.

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Del resto, pure la pedagogia pre-scientifica o post-filosofica, al pari dell’educazione, ha

cominciato ad articolarsi, essa stessa, come una “promessa”, della cui realizzazione non si

nascondevano due secoli fa, come non si nascondono attualmente, tutte le difficoltà e tutte le

disillusioni.

Proponendosi nei termini di una promessa tanto alta e di tanta malagevole realizzazione, lo

“sguardo” della pedagogia si è volto, da allora, non solo sui concreti bisogni educativi del genere

umano, ma nondimeno, e soprattutto, sui contenuti conoscitivi incessanti prodotti dalle scienze

della natura e da tutte quelle scienze che indagavano parti e comportamenti speciali dell’uomo

in società: come, ad esempio, dalla sociologia; le pulsioni dell’uomo: dalla psicologia – un

paradigma, questo, della psico-pedagogia largamente frequentato nella nostra disciplina, sino a

pochi decenni fa e poi decaduto, da riprendere, invece, per ritesserlo e rifondarlo anche

epistemologicamente, tanto se ne avverte fortemente il bisogno a motivo delle molte crisi

dell’educazione odierna; il potere e le istituzioni del potere dell’uomo: dalla politica; la ricerca

delle soddisfazioni dei bisogni naturali e degli “scambi” tra mezzi e fini di tali soddisfazioni:

dall’economia; le forme di convivenza e d’informazione extra-genetica: dalle discipline

antropologiche-culturali; le norme della convivenza: dal diritto e dall’etica. E così molti altri

“oggetti” e bisogni: da varie altre discipline.

In questo suo sguardo, la pedagogia ha cercato, pertanto, di compiere un complicato, e

talora straordinario, lavoro di traduzione. A muovere dalla sua epistemologia e dal suo reticolo

teorico-pratico.

Rifondandoli e riformandoli costantemente.

Assumendo, cioè, da questo o da quel contenuto disciplinare un certo termine, o un

qualsivoglia concetto, ha tentato di tradurli per piegarli alla finalità sua propria: quella, ripetiamo,

di rendere umano quel che umano non era, e ancora non è.

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Come sempre nel lavoro di traduzione, il pedagogista – che qui assumiamo quale

archetipo esemplare dell’indagine pedagogica – ha compiuto innumerevoli errori e ha finito con il

determinare malintesi ed equivoci.

Va detto, tuttavia, che l’equivoco non è soltanto la dannazione del traduttore, ma è pure,

e soprattutto, la destinazione finale di qualsiasi traduzione.

Una traduzione, infatti, non è semplicemente la riproduzione o la riproposizione in un altro

codice di un certo contenuto, ma è anche la dilatazione dei significati originari posseduti da quel

contenuto nel codice primitivo.

Come dire che l’equivocità della traduzione sta nel fatto che il significato di ciò che viene

tradotto risulta enormemente arricchito, proprio perché reso non univoco, ossia non ristretto né

limitato.

Quando, per esempio, tanto per ritornare al riaccreditamento ulteriore del paradigma

psico-pedagogico, si traduce, nel linguaggio della pedagogia, un’espressione bio-psicologica

quale “età evolutiva”, questa traduzione fa sì che l’attenzione si concentri non già unicamente

sullo sviluppo biologico e neuro-psichico del bambino, bensì, se ci è consentito dirlo, sulla sua

crescita spirituale, come dire che, in questa traduzione, il pedagogista non si preoccupa

semplicemente di cogliere le fasi del processo evolutivo, ma d’individuare la meta di questo

processo.

Il linguaggio della pedagogia è, perciò, un linguaggio equivoco perché è il lessico di una

traduzione intesa ad arricchire di significato le conoscenze acquisite sull’uomo, cercando di porre

in evidenza che l’univocità e la parcellizzazione della natura umana possono nascondere per

sempre l’uomo a se stesso.

Il contenuto della “nostra” scienza è, dunque, equivoco come il suo linguaggio. E lo è,

perché l’uomo non è semplicemente un’entità, ma è un groviglio di fini.

Da qui, l’ulteriore definizione della pedagogia essenzialmente quale scienza teleonomica8.

O, per dirla con Dewey, quale teoria generale sull’uomo e sulla sua educazione.

8 Cfr. M. CORSI, Come pensare l’educazione, op. cit.

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