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SCENE DAL FUTURO

Visione adolescenza
L’adolescenza, più di qualunque altra età della vita, è rivelatrice dei tratti caratteristici di una
società e dei tipi di legame umano prevalenti in un dato momento storico»
«La nostra epoca da un lato la ipervalorizza: se l’esordio fisiologico della pubertà … si è
progressivamente spostato indietro, … tracce di adolescenza sono visibili oramai anche nei bambini
e negli anziani, “gli uni accomunati agli altri dai medesimi modi di dire, vestire, comunicare,
bramare e, qualche volta, di pensare”. L’adolescenza sembra essere diventata l’unica fase della vita
davvero degna di essere vissuta o forse consumata».

Trasformazioni della famiglia e delle funzioni genitoriali


hanno spinto verso una orizzontalizzazione delle relazioni e reso più difficile riconoscere, assumere
e gestire il conflitto, accettare e introiettare il limite, spingendo le nuove generazioni verso una
sorta di angosciante imperativo ad avere successo che sembra offuscare il desiderio autentico;
dall’altro lato il concetto stesso di trasmissione intergenerazionale e di eredità sembra essere entrato
in crisi, costringendo a interrogarsi sui fantasmi transgenerazionali derivanti da traumi storici non
elaborati dalle generazioni adulte, come nel caso della Shoah e dei disastri bellici e atomici».
Le funzioni genitoriali, materna e paterna, non coincidono col genere femminile e maschile
incarnati in madri e padri reali, ma sono astrazioni che vivono in ciascun individuo. Nella famiglia
occorre tuttavia che siano entrambe presenti in modo chiaro ed equilibrato, per consentire al
bambino di strutturare un Sé che a sua volta contenga e integri il modo femminile e maschile di
stare al mondo. La genitorialità confusa è una figura psicopatologica nota.
Il corpo materno è la prima casa, fondamento inconscio di ogni emozione, sentimento, pensiero e
concezione della vita, Ma dal corpo materno, oggetto di gratificazione erotica che fa amare la vita,
il bambino dovrà ben presto allontanarsi. L’oscillazione della madre fra prossimità e lontananza fa
sperimentare al figlio che la presenza dell’oggetto desiderato non è scontata e il suo ritrovamento
richiede un lavoro trasformativo del Sé: l’elaborazione del lutto per la perdita, la scoperta dell’odio
e dell’amore spietato, il senso di responsabilità che consente la cura dell’oggetto amato.
Nella famiglia, dunque, la madre nutre, cura, protegge, sorregge e contiene, vivendo all’inizio uno
stato di identificazione totale col bambino, che deve evolvere in simbiosi, dipendenza relativa e
infine indipendenza, passando per la capacità di sintonizzarsi e disintonizzarsi distinguendo fra sé e
altro. La madre è anche il primo apparato mentale del figlio e gli consente di affrontare e superare le
proprie angosce pensandole. Fra la nascita biologica e la nascita psicologica del bambino vengono
dunque tirate su le mura della casa, che è anche il mondo interno del soggetto.
Il padre – nella sua funzione di terzo – garantisce il processo di disindentificazione della madre dal
bambino e il processo di separazione-individuazione del bambino dalla madre: da un lato consente
la casa si costituisca, accudendo la diade e permettendo l’iniziale simbiosi, dall’altro si occupa di
aprire porte e finestre, accompagnando il bambino nell’avventura verso un’esistenza libera,
autonoma, orientata al futuro. Il padre conduce il figlio fuori dal paradiso affettivo dell’unione
diffusa, introducendo in quell’eccesso di richieste affettive la misura e offrendosi come modello:
“l’incontro di queste due istanze, la legge e il modello, apre la dimensione dell’avvenire: infatti nel
legame generale e diffuso con la madre il fanciullo non è; deve diventare ciò che è ancora soltanto
come promessa; ora l’avvenire gli è promesso, permesso, garantito. Dalla fine degli anni Sessanta,
infatti, la letteratura segnala, negli Stati Uniti prima, in Europa poi, una serie di cambiamenti che
riguardano da un lato le carenze della funzione paterna, dall’altra la capacità dei padri di sconfinare
nell’area della funzione materna. Si è parlato così di padri destituiti e finanche evaporati, ma anche
di padri migliori.

Trasformazione della relazione giovani-adulti nella società ipermoderna


Secondo Thanopulos, più che il padre, ad “evaporare” sotto gli occhi di tutti è oggi la “relazione di
desiderio” fra genitori e fra genitore e figlio. La relazione di desiderio presuppone che entrambi i
partner siano liberi di scegliere e disponibili a vivere la propria parte femminile lasciandosi
coinvolgere profondamente: quando vi è relazione di desiderio, la passione maschile
dell’impossessamento e la passione femminile del lasciarsi andare al possesso si bilanciano; se
invece il potere prevale sul desiderio, la relazione si stabilizza sulla base di rapporti di forza, che
rifiutano la sorpresa e l’imprevedibilità. In una società che induce in ogni modo l’allontanamento
dal mondo interno e il bisogno di controllo esterno, accade frequentemente che i soggetti “si
accontentino del potere” al posto del desiderio. Molti temono infatti il coinvolgimento erotico e
tentano di controllarlo imprigionandolo in una “dimensione puramente erettile”, sua perversione,
che sostituisce la soddisfazione con l’eccitazione permanente, scaricata in superficie. accade spesso
che la famiglia contemporanea sostituisca lo spazio del desiderio con quello dell’ipernutrimento dei
figli tramite oggetti materiali, calmanti o iperstimolanti, che inducono un sentimento estremo di
gratitudine ma al contempo un acuto senso di colpa e soprattutto allontanano dalla possibilità
dell’autoregolazione del desiderio. La casa si fa in questi casi insidiosamente autoerotica ed il
viaggio verso il mondo esterno, verso il divenire se stessi e adulti, viene spostato sempre in avanti,
connotato negativamente da un eccesso di rinunce, sacrifici, conflitti, pericoli che non si è abituati a
fronteggiare. Il mondo esterno diventa il luogo delle “mille piccole paure che infiltrano la vita
quotidiana e la rendono invivibile.

Crisi istituzione scolastica


Per creare un clima che favorisca la crescita sia degli allievi che degli insegnanti che dell’istituzione
scolastica, è necessaria la presenza di un codice materno e di uno paterno: quello materno è centrato
sul bisogno, senso di appartenenza, solidarietà, soccorso e privilegia la fusionalità; quello paterno è
centrato su capacità, prestazione, efficienza, rendimento e competenza e privilegia il principio di
realtà, merito e infine la separazione che porta all’autonomia. Come accade anche nelle famiglie
ipermoderne, la funzione paterna nelle scuole e in particolare degli educatori si è ristretta
complicando la gestione dei conflitti e liberando grandi quantità di aggressività non controllata.
L’assenza di docenti autorevoli, porta di conseguenza, ad un assenza di struttura. Perciò, prima
ancora che per gli allievi, per gli insegnanti la scuola è una madre oggetto di ofrti investimenti
ambivalenti in cui regna il caos e la sofferenza: dilaga l’odio, l’attacco ai legami e la resistenza
all’innovazione.

Dispersioni scolastiche
L’istituzione scolastica attraversa, in questo periodo storico, grandi difficoltà messe in evidenza
dalle definizioni che diversi autori utilizzano e che testimoniano che il “grande corpo scolastico è
malato. Si tratta di una “malattia” che non riguarda più solo le aree caratterizzate da povertà o da
esclusione sociale. Tra le cause primarie c’è sicuramente la messa in crisi del valore della scuola, la
sua perdita di credibilità sociale e di significanza. La scuola non riesce più a proporsi come «mezzo
per costruire la propria vita”. Questa scuola “sofferente” può essere compresa solo se collocata
nello scenario contemporaneo di risk society, società dell’incertezza, società ipermoderna del
malessere e dell’emergenza. Questa condizione di profonda crisi ha generato una
«democratizzazione del rischio». Piuttosto che dare risorse, certezze e garanzie a chi non ne ha, ai
soggetti marginali, questa società e questa scuola possono toglierle a tutti: producono incertezza,
precarietà, malessere. Il rischio si democratizza e sconfina dalla periferia al centro, dagli allievi agli
insegnanti. È allora necessario parlare di disagi piuttosto che di disagio scolastico e di dispersione
non più al singolare ma al plurale.
Con il termine dispersione scolastica l’Unesco, nel 1972, identificò la somma degli abbandoni e
delle ripetenze che si producono a scuola:
 il tasso di abbandono indica la percentuale di coloro che cessano di frequentare, senza
portare a termine l’annualità scolastica sul totale degli iscritti

 il tasso di ripetenza indica la percentuale di coloro che vengono ‘bocciati’ e quindi debbono
ripetere la stessa annualità scolastica.
In Italia il fenomeno degli degli ELET (Early leavers from education and training) raggiunge livelli
preoccupanti se si considera che il Dossier “Dispersione” del MIUR (2014) testimonia che sono
quasi tre milioni i giovani che, negli ultimi quindici anni, non hanno portato a termine la scuola
secondaria di secondo grado. Il concetto di “mortalità scolastica” veniva utilizzato a partire
dagli anni ’50 negli Stati Uniti per dare conto della fuoriuscita dal circuito scolastico di molti
giovani in età dell’obbligo, soprattutto di estrazione sociale bassa.
- Negli anni ’70 invece, nell’ambito della sociologia dell’educazione, venne elaborato il concetto
di “selezione” che intendeva sottolineare il ruolo attivo della scuola nell’espellere gli studenti in
virtù della loro origine sociale, attraverso i meccanismi della bocciatura e dell’emarginazione
all’interno del contesto-classe.

A questi due concetti, che rimandano ad una scuola che non riesce ad accogliere giovani in
situazioni di maggiore difficoltà o che espelle attivamente, venne preferito negli anni ‘80 il
termine “dispersione”, più “morbido” e “impreciso” e che allo stesso tempo opera uno
slittamento semantico ridistribuendo le responsabilità degli insuccessi scolastici anche tra gli
alunni e le loro famiglie. Si fa riferimento in questo modo all’intreccio tra i due principali campi
del problema ovvero quello relativo al soggetto che “si disperde” e quello relativo al sistema che
“produce dispersione”. Una differenziazione interna al fenomeno della dispersione ne riconosce
oggi:

 una dimensione formale: in cui si cercano di inserire variabili più o meno misurabili
quali abbandoni, ripetenze, bocciature, sprechi di risorse economiche;
 una dimensione sostanziale: che invita alla comprensione anche di quei comportamenti
non immediatamente osservabili, come lo “stare a scuola senza imparare niente”
frequentandola cioè senza desiderio di apprendere come nel caso degli in-school drop-
out.

Nella dimensione sostantiva si segnala in particolare il fenomeno degli «IN SCHOOL DROPOUT»
o dell’abbandono scolastico implicito, che riguarda quei giovani che, pur ottenendo il diploma,
hanno acquisito un livello di conoscenza talmente basso da non risultare per nulla competitivi nel
mondo del lavoro. Il fenomeno è stato di recente documentato attraverso le prove INVALSI. Si
tratta di solito di allievi che sostano a scuola senza che questa diventi occasione di crescita;
appaiono spesso demotivati, «sfastiriati», talvolta depressi. Nel dizionario napoletano-italiano il
sostantivo ‘sfastirio’ è tradotto sia con ‘molestia’ che con ‘sconforto’; il verbo ‘sfastirià’ con
‘annoiarsi’, ‘infastidirsi’. Il rimando è dunque ad un sentimento di noia e sconforto che induce
comportamenti molesti per gli altri. Si può affermare che 1 studente su 5 o non conclude il ciclo di
formazione superiore oppure, anche quando lo fa, non possiede le nozioni di base per affrontare il
mondo del lavoro. Questi giovani, non possedendo le competenze fondamentali previste, restano
invisibili alle statistiche e ingrossano un’area grigia della dispersione scolastica, quella implicita o
nascosta. Sono giovani che rappresentano un’emergenza per il Paese per due ragioni:
 Affrontano la vita adulta con competenze di base totalmente insufficienti per agire
autonomamente e consapevolmente nella società in cui vivranno. Avranno grosse difficoltà
a elaborare le informazioni a loro disposizione per prendere decisioni basate su dati di realtà
e coerenti con i loro progetti di vita.
 Non sono individuati dal sistema, dunque molto difficilmente godranno delle azioni di
supporto di cui avrebbero, invece, bisogno.
I NEET(not engaged in education, employment and training) sono i giovani che non studiano e non
lavorano. La fascia di età vagliata è molto elastica: solitamente parte dai 15 anni e arriva
almeno fino ai 24 anni per l’European Commission. C’è una leggera prevalenza del genere
femminile (nel 2018 in Italia: M 21%, F 25%). La rappresentazione mediatica dei Neet veicola
all’esterno l’idea che dietro tale fenomeno non vi sia altro che indolenza, disillusione e fragilità dei
singoli, ma il fenomeno è in realtà multifattoriale e complesso. La distribuzione sul territorio risente
molto delle caratteristiche socioeconomiche delle singole regioni. Sono fattore protettivi il titolo di
studio di livello elevato (dalla LAUREA) e il contesto che offre opportunità di occupazione. Ma va
presa in considerazione anche la delay syndrome: ci sono giovani che, pur avendo conseguito una
certa indipendenza economica continuano a vivere a lungo in famiglia.

Sindrome di Hikikomori nasce in Giappone verso la fine degli anni 80’: numerosi adolescenti che,
in maniera drastica, sceglievano di non far sapere più nulla di sé, abbandonando la scuola e
rinchiudendosi nelle loro stanze. Saito Tamaki coniò poi l’espressione “Hikikomori”, sia per
indicare i ragazzi che adottavano questo radicale comportamento di autoreclusione, sia per indicare
il tipo di condizione in cui vivevano. Termine “Hikikomori” troviamo l’unione di due parole
giapponesi, ovvero “hiku” e “komoru”, rispettivamente “tirare” e “ritirarsi”, quindi letteralmente
“tirarsi indietro”, un’espressione che indica questa volontà apparentemente inspiegabile di non voler
lasciare più segni di sé e farsi da parte, lontano dalle scene del mondo e senza più la pressione di
dover performare alcun ruolo. il fenomeno del ritiro sociale in Italia si aggira intorno ai 100 -
120.000 casi; nella maggior parte dei casi sono soggetti di sesso maschile, figli unici e spesso il
comportamento di ritiro incomincia a manifestarsi prevalentemente nel periodo di transizione dalla
scuola secondaria di primo grado e nei primi anni di frequentazione della scuola secondaria di
secondo grado. In Giappone generalmente il comportamento di ritiro vede una maggiore diffusione
nel periodo successivo al diploma in cui la competizione per l’accesso alle università è
particolarmente severa. tendenzialmente si tratta di ragazzi introversi, intelligenti e con un passato
di successo scolastico, poco inseriti e identificati al proprio gruppo di pari; il confronto con le
trasformazioni corporee e situazionali dell’adolescenza rappresentano il crollo dei punti di
ancoraggio che li avevano orientati sino a quel momento ed è in connessione a ciò che cresce la
tentazione di nascondersi ed isolarsi, soprattutto dalla scuola e dai propri coetanei; forte
iperprotettività familiare, le dinamiche narcisistiche, una relazione madre-figlio molto stretta ed un
forte senso di incertezza a livello sociale. L’hikikomori primario è un hikikomori nel quale nessuno
dei criteri diagnostici tradizionali è sufficiente a farci rendere conto che esso deve essere inteso
come primario e non secondario rispetto ad altre pataologie. Fra i casi di coloro che si ritirano dalla
società ci sono quelli che sarebbe più opportuno diagnosticare come schizofrenia, diverse tipologie
di nevrosi, depressione, sindrome di Asperger, disturbo evitante della personalità ed altre patologie.
Innanzittuto l’inizio del ritiro è spesso preceduto da un episodio nel quale il soggetto si sottrae al
confronto con una prova. Inoltre il soggetto mostra una tendenza a preservare il suo narcisismo
utilizzando sempre il modo condizionale. Ad esempio, “ Se mi fossi presentato all’esame di
ammissione all’universitá, sarei...” In secondo luogo, debolezza dell’immagine idealizzata basata
sulla sua volontà. Per questo motivo il soggetto è facilmente influenzabile dai desideri degli altri,
soprattutto dei suoi genitori. Terzo, il soggetto conserva una immagine idealizzata di sè, malgrado
la stagnazione o il disordine. E così i genitori accettano spesso questa immagine soprattutto
all’inizio. C’è in gioco qualcosa che va al di là delle specificità di un legame simbiotico volto a
produrre una condizione di impossibilità di separazione, piuttosto è centrale la funzione dei processi
di idealizzazione dei figli: delusioni e sconfitte sono accuratamente tenuti da parte, come fossero del
tutto impensabili. Questa idealizzazione non si realizza solo nel rapporto con la madre, ma
coinvolge anche il padre, insegnanti e altre figure di riferimento che alimentano questa immagine
ideale e perfetta del soggetto, proprio perché spesso si tratta di ragazzi che da piccoli tendono anche
a collezionare particolari successi. Nell’ambito delle dinamiche di cambiamento dell’adolescente
ritirato si osserva che risulta pregnante in primo luogo la marcata problematicità nell’abbandonare
le rappresentazioni di Sé e degli oggetti genitoriali del passato per transitare verso oggetti del tutto
sconosciuti e nuovi, la possibilità di una prima separazione da queste figure viene quindi bloccata
sul nascere, ma il giovane Hikikomori non solo non sceglie nuovi oggetti ma nemmeno riorganizza
la propria identità, sospeso in una forma di pseudomoratoria in cui però non c’è necessariamente
una sperimentazione del Sé, se non in ambito virtuale laddove il giovane ne è un utilizzatore. Il
trauma adolescenziale (…) non va cercato nelle vicissitudini infantili che hanno preceduto l’avvento
di questa nuova fase evolutiva, e quindi nel passato, quanto piuttosto nel futuro. È il futuro che fa
trauma per l’adolescente quando esso si prefigura foriero della sconfitta e dell’umiliazione,
portando con sé l’idea di essere stati costruiti male, di essere intimamente inadatti alla vita, di essere
incapaci di operare una sintesi tra il desiderio di successo e l’evidenza del fallimento. Il futuro
diventa più qualcosa da evitare che verso cui andare incontro e alla fine il ritiro sembra essere
l’unica strategia possibile, dato che questi soggetti nella gran parte dei casi, vengono educati
all’interno di un contesto che difficilmente offre loro le risorse per affrontare adeguatamente i
dispiaceri e i dolori della crescita. A questo punto la certezza della propria inadeguatezza rispetto al
futuro investe l’intera sfera del Sé, proprio perché la vergogna rispetto ad una futura umiliazione
provoca un senso di intrinseca indegnità, non lasciando alcuna area dello stesso Sé esclusa.
L’adolescente ritirato difficilmente riuscirà a fronteggiare i più determinanti compiti evolutivi, tra
questi soprattutto il processo di separazione-individuazione, ponendo le basi per una situazione di
vero e proprio blocco evolutivo. La situazione di questi adolescenti è ben diversa da una dipendenza
rispetto all’uso della rete, per quanto alcuni aspetti possano apparentemente sembrare comuni. nei
primi anni in cui incominciò ad affermarsi il fenomeno degli Hikikomori in Giappone i dispositivi
tecnologici oggi diffusi ed Internet stesso non erano ancora entrati nella quotidianità della vita delle
persone; L’origine e la diffusione del ritiro non dipendono necessariamente dalle nuove tecnologie
digitali, anzi si potrebbe affermare che la dimensione virtuale del Web sia un fattore positivo per
l’Hikikomori, dato che permette di affacciarsi a delle plurali sperimentazioni di sé nelle interazioni
sociali, ma con la possibilità di sentirsi in una situazione di sicurezza e prevedibilità, che nella realtà
off-line non avrebbero occasione di esperire. i casi di ritiro sociale particolarmente più gravi
prevedano un uso della rete non relazionale, in cui il soggetto ritirato al massimo può sfruttare solo
alcune risorse, come la visione di serie TV, Anime o la ricerca di specifiche informazioni di suo
interesse, in ogni caso si tratta di attività che prevedono di escludere accuratamente qualsiasi forma
di incontro o scambio con l’altro e talvolta è possibile che non utilizzino in alcun modo Internet, pur
avendone la possibilità. In questi ultimi casi, spesso il timore del fallimento e la vergogna sono così
pervasivi da impedire anche le possibilità di sperimentazione di aspetti inediti del Sé, tramite
l’utilizzo di risorse come giochi di ruolo on-line ad esempio, in cui nemmeno le avventure e le
battaglie virtuali da compiere protetti dall’interfaccia dello schermo sembrano tutelare dalla paura
dell’umiliazione e della sconfitta.
La plusdotazione è una caratteristica che si manifesta nel 5% della popolazione (un individuo ogni
20). Il termine definisce le persone che manifestano o posseggono un alto potenziale grazie al quale
potrebbero mostrare un livello eccezionale di performance in confronto ai loro pari, in una o più
aree (abilità generale intellettiva, specifica attitudine scolastica, pensiero creativo, leadership, arti
visive e dello spettacolo, abilità motoria). Ma lo sviluppo tipico dei soggetti plusdotati procede in
maniera asincrona tra i vari piani di sviluppo (emotivo, cognitivo, fisico): da questa asincronia
nascono le difficoltà emotive dei soggetti plusdotati, costantemente investiti da emozioni di
un’intensità difficilmente gestibile a causa delle quali emergono diverse personali strategie
difensive. I soggetti plusdotati non mostrano solo una velocità ed una precocità di apprendimento,
ma si differenziano soprattutto per l’aspetto qualitativo e per le modalità con cui imparano e si
rapportano al mondo. Nonostante siano dotati di capacità al di sopra della media, è dimostrato che
spesso si adattano ad un livello di rendimento diverso dal proprio, ottenendo risultati scolastici
molto al di sotto delle loro potenzialità. È proprio a scuola che questi allievi, molto spesso, vengono
svalutati e non vengono riconosciuti per le loro potenzialità cognitive, fino ad essere segnalati
negativamente per il loro comportamento particolare. Manifestando, infatti, irrequietezza,
opposizione all'adulto o non adesione alle regole del contesto scolastico, vengono spesso incasellati
in maniera errata in categorie deficitarie.

Di recente è stato utilizzato il costrutto dello “school burnout” per gli studenti, significativamente in
un contesto – il nord Europa – caratterizzato da buone risorse scolastiche: si è ritenuto che il
burnout potesse essere un costrutto utile a comprendere anche le condizioni degli allievi che si
trovano inseriti nell’organizzazione scolastica in quanto la scuola è un contesto in cui gli studenti
lavorano, frequentano le lezioni e svolgono i compiti al fine di superare gli esami e ottenere una
qualifica. Le tre dimensioni che caratterizzano lo school burnout sono, come per il burnout del
lavoratore, l’esaurimento emotivo dovuto alle richieste di studio per le quali non ci si sente
all’altezza, un atteggiamento cinico e distaccato verso il proprio “lavoro” scolastico e una
sensazione di incompetenza come studente.

Per comprendere le cause della dispersione scolastica si sono susseguite, nel corso degli anni,
interpretazioni che hanno portato alla realizzazione di diversi interventi da mettere in campo. anni
’60-’70: ci si concentrava soprattutto sulla componente sociale: coloro che si disperdono sono
principalmente giovani appartenenti a famiglie socio-economicamente svantaggiate
(mortalità/selezione). anni ’80: si inizia a prendere in considerazione maggiormente una dimensione
soggettiva, secondo la quale, l’allontanamento dal percorso deriverebbe da atteggiamenti di rifiuto,
disimpegno e resistenza all’apprendimento dei singoli studenti. anni ’80-’90: diventa sempre più
forte l’idea che alla base del problema ci sia una dimensione relazionale che coinvolge gli studenti
ma anche i docenti. Si comincia così a porre l’attenzione sullo stile di conduzione del gruppo classe,
sul ruolo attivo o passivo in cui sono relegati gli studenti, sul linguaggio utilizzato in contesto
didattico. anni ’60-’70, cause sociali: interventi collocati inizialmente nell’ambito del
potenziamento scolastico, per modificare il condizionamento esercitato dall’origine sociale
attraverso la ripetizione e la semplificazione dei contenuti; anni ’80, cause soggettive: interventi
soprattutto di motivazione e ri-motivazione; anni ’80-’90: cause relazionali: gli interventi si
muovono nella direzione di migliorare la qualità delle interazioni studente-docente.

Cos’è il gruppo multivisione?

Il gruppo multi visione è un gruppo ispirato a quello che Balint mi a punto per sostenere il lavoro
usurante dei medici. Balint riteneva che nella relazione di cura il medico è il farmaco più potente,
ma non riceve adeguata formazione psicologica; l’esperienza, il buon senso e la buona volontà da
sole non bastano a evitare che il suo lavoro diventi inefficace e logorante. Egli ha bisogno di
sospendere la sua pratica clinica e di mettersi in relazione con il gruppo in modo tale da
comprendere l’altro e se stesso. Il GM si basa proprio su questo, ma è per insegnanti, in quanto
insegnare comporta difficoltà simili a quelle della pratica medica. La relazione insegnante-allievo è
molto complicata ed è frequente lo scontro piuttosto che l’incontro: quando lo scontro è troppo
acceso l’insegnante diventa veleno piuttosto che rimedio. Il GM è costituito da diverse figure
professionali che si incontrano settimanalmente per due ore e mezza ad incontro sotto la guida di
uno psicoterapeuta esperto che è garante della coesione e della libertà di parola e critica, è colui che
interpreta i processi psichici e la crisi, infine è colui che promuove il pensiero collettivo. Sotto
questa guida, il gruppo impara a tollerare il dispiacere di non riuscire a capire e non sapere cosa
fare, almeno fino al momento in cui si ha una più chiara comprensione della situazione. Lentamente
nel gruppo prende forma un pensiero comune e collettivo.

Garanti metasociali e metapsichici

L’adulto, incerto della legittimità della sua posizione asimmetrica e spaventato egli stesso dal
futuro, non si sente tutelato da garanti metasociali e metapsichici adeguati che lo supportino nella
sua impresa. Il concetto di garanti metasociali, introdotto dal sociologo Touraine, rimanda ai sistemi
di rappresentazione costituiti dall’insieme di narrazioni, miti, ideologie, credenze, valori, autorità,
gerarchie che hanno la funzione di garantire la stabilità delle formazioni sociali e di dotarle di una
legittimità incontestabile. Quando i garanti metasociali si trasformano per effetto di profondi
cambiamenti storici, le società vivono fasi di grave instabilità e “le leggi e gli interdetti che
regolano i rapporti sociali e interpersonali si squalificano, diventando diventano fluidi,
contraddittori, paradossali e inoperanti. Nell’ipermodernità il crollo delle credenze e dei grandi
racconti collettivi è testimoniato da molti autori, assieme al “disastro della trasmissione” cominciato
già dopo la prima guerra mondiale. Secondo Kaës, la crisi dei garanti metasociali colpisce i garanti
metapsichici, su cui si appoggia e si struttura la psiche di ogni soggetto. I garanti metapsichici sono
costituiti da un insieme di contratti, patti, alleanze, interdetti di natura e di obiettivi diversi,
indispensabile supporto dei singoli Sé. I garanti metasociali non sono degli assoluti, sono transitori,
contingenti nelle loro forme e nelle loro funzioni, ma sono necessari: la loro fragilizzazione si
riflette sul funzionamento dei gruppi, delle famiglie, delle istituzioni e sulla sofferenza psichica dei
singoli. Fino a non molto tempo fa erano quattro i grandi Garanti su cui si sorreggeva la civiltà: la
Religione, garanzia contro l’angoscia della morte; la Legge, garanzia del diritto contro l’arbitrio; la
Civiltà, garanzia della capacità di simbolizzazione della realtà; la Scienza, garanzia della possibilità
di non restare sottomessi all’ignoranza. La loro crisi ha generato un disorientamento crescente nei
singoli e nelle istituzioni, che hanno perso autostima e fiducia nei propri valori di riferimento. Gli
esseri umani ipermoderni hanno dunque garanzie culturali fragili contro l’angoscia derivante dal
sentirsi esposti alla morte, alla violenza proveniente dall’arbitrio. In queste condizioni l’educazione
può davvero essere sentita come un’impresa immane: “la crisi nella trasmissione dei modelli
identificatori si esprime in uno iato tra ciò che si desidera trasmettere e ciò che si dubita o si teme di
trasmettere: non si sa più cosa si deve trasmettere.

Prospettiva futura in adolescenza

l’adolescenza contemporanea ha un rapporto particolare con il tempo: disinveste dal futuro, che è la
dimensione temporale del desiderio e del progetto. Nel mondo globalizzato si governa ormai in
nome di una precarizzazione spacciata per inevitabile, che ostacola fortemente la progettazione
soggettiva del futuro, e in nome di una cultura dell’emergenza fondata su continue profezie di
futuro catastrofico. I media – rappresentanti reali e simbolici degli adulti - veicolano in maniera
pervasiva e persuasiva immagini di futuri caratterizzati da disoccupazione, povertà, disastri
ambientali, rischi di guerre locali e globali… Dalla “fiducia in un futuro-promessa” si è passati alla
“paura di un futuro-minaccia”, alimentando un sentimento del “si salvi chi può” che induce a
rimuovere ulteriormente la dimensione dell’avvenire dal proprio orizzonte temporale. Il futuro è "lo
spazio in cui l'Io può avvenire". Proprio la fiducia nel futuro consentirebbe invece all’adolescente di
assumere su di sé la responsabilità della scelta: Gli adulti e soprattutto gli anziani dovrebbero essere
i garanti dell’esistenza del futuro come tempo della realizzazione piena e matura del sé, divenuto
finalmente capace di godimento e di espressione creativa e procreativa. Se invece si costituiscono
come istituzione deputate a portare ai giovani notizie certe sulla grave malattia che minaccia
l’esistenza del futuro e ne rende quasi sicura la morte, senza che i giovani attuali possano fare
granché, allora questi avvertimenti possono essere considerati uno dei molteplici fattori di rischio
che inducono i giovani a eterizzare il presente, a sperare il meno possibile, ad arrendersi ad un
pericoloso disfattismo. Una operazione così radicalmente antieducativa ha verosimilmente molte
ispirazioni e obiettivi diversi; tuttavia è assai probabile che la gerontocrazia utilizzi previsioni
possibili e preoccupazioni legittime e utili, per danneggiare – sia pure inconsapevolmente – la
relazione affettiva dei giovani col proprio imperscrutabile futuro, sulla base di un movimento
invidioso naturale: se anche i giovani non hanno più molto tempo felice dinnanzi a loro si
pareggiano i conti e non esistono più giovani e vecchi, ma solo una umanità in cammino verso la
morte ed il declino della civiltà.

Distopia/utopia e differenza tra distopia classica e per adolescenti

Il termine distopia è stato utilizzato per la prima volta da John Stuart Mill in un discorso
parlamentare per indicare un luogo immaginario e una società indesiderabile sotto tutti i punti di
vista. Mentre gli utopisti creano il racconto di un viaggio avventuroso che porta ad una terra
sconosciuta in cui le istituzioni e i costumi non hanno nulla in comune con la realtà da cui il
viaggiatore si è distaccato. Il lettori così è posto di fronte ad una società speculare alla struttura
umana esistente: una società perfetta in quanto razionalmente fondata. Gli scrittori di distopie
presentano la loro costruzione ideale come il risultato di strutture e condizioni già esistenti nella
società attuale, di conseguenza il lettore stabilisce un rapporto tra il mondo reale e il mondo
possibile se solo vengono a maturare quegli elementi del presente che, lasciati liberi di proliferare,
consegnerebbero l’umanità ad uno scenario infernale. Cafuri individua alcuni topoi delle distopie
classiche: la critica all’utopia socialista, le tecniche di controllo del potere amplificate dal progresso
tecnologico e scientifico, con particolare attenzione al tema della sorveglianza, guerra, scarsità di
cibo e sul modo delle persone di reagire al potere del capitalismo. I topoi della distopia classica
vengono tutti ripresi nella distopia per adolescenti, ma i qui i giovani sfidano la tirannia in nome di
un’umanità mortificata e insopprimibile, vincendo a costo di grandi sacrifici a costo personali odella
vita. Tali romanzi distopici di formazione mostrano che il futuro è ancora aperto se si superano
isolamento e potenza.

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