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La costruzione di una line – up è un’operazione complessa in cui molti aspetti devono essere
tenuti sotto controllo, come la presenza o meno di un possibile sospettato, l’ampiezza degli
stimoli inclusi e le istruzioni assegnate. Un effetto di distorsione molto potente nella gestione
della line – up è dovuto alla procedura con cui viene raccolta l’identificazione da parte di un
testimone: far precedere l’identificazione vera e propria da una descrizione verbale può
generare il noto effetto di verbal – over shadowing. La ricerca ha dimostrato che le descrizioni
verbali possono ostacolare il successivo processo di riconoscimento
La suggestionabilità venne originariamente definita come variabile di tratto individuale,
predisposizione del soggetto o vulnerabilità nei riguardi delle influenze suggestive.
Nel tempo assistiamo allo sviluppo di due approcci principali nello studio della
suggestionabilità interrogativa:
- l'approccio delle differenze individuali: suggestionabilità come dipendente da
strategie di coping che il soggetto può generare e implementare qualora si confronti con
l'incertezza e le aspettative relative ad una situazione di interrogatorio. Esso affonda le
sue radici nel modello psico-sociale della suggestionabilità interrogativa
(Gudjonsson e Clark, 1986) che ha come oggetto d'analisi la suggestionabilità
immediata e si pone come fine ultimo la ricerca di fattori che determinano il motivo per
il quale gli individui rispondono in maniera differente alle suggestioni all'interno di un
contesto interrogativo.
- l'approccio sperimentale: l'enfasi è posta sulla comprensione delle condizioni nelle
quali le domande suggestive ed inducenti turbano i resoconti verbali del soggetto
testimone. Questi due approcci possono essere considerati complementari. Esso si
muove dai lavori di Loftus e colleghi e si focalizza sul comprenderei meccanismi che
sottostanno alla suggestionabilità differita mediante lo studio dell'effetto delle
informazioni post-evento sulla memoria di chi si appresta a testimoniare. (Schooler,
J.W., Loftus, E.F., 1986)
L’immaturità cerebrale può essere causa di un particolare fenomeno mnestico, che si verifica
quando un individuo riempie involontariamente, senza l’intenzione di mentire, i buchi di
memoria con vicende che non sono realmente accadute al fine di garantire una certa coerenza
ai propri racconti (confabulazione). Il Modified Confabulation Battery è uno strumento che
consente di valutare la tendenza ad inserire elementi non corretti in una narrazione, fornendo
quindi un’indicazione della qualità delle dichiarazioni che il minore è in grado di proporre.
Sulla base di questi assunti teorici, Gudjonsson propone uno strumento di misura della
suggestionabilità interrogativa, il Gudjonsson Suggestibility Scales (GSS).
La GSS prevede due forme parallele (GSS1 e GSS2) a seconda che la somministrazione sia
effettuata su un adulto o un minore, in un contesto peritale o semplicemente clinico.
Oltre a degli indici di memoria e confabulazione, dalle GSS è possibile ricavare un punteggio
individuale di suggestionabilità interrogativa che deriva a sua volta dalla combinazione dei
punteggi relativi allo Yield e al Change.
Gudjonsson per la somministrazione dello strumento ha proposto una procedura standard che
consta di 4 passaggi fondamentali:
LO STRESS
Lo stress è la risposta psicologica e fisiologica che l'organismo mette in atto nei confronti di
compiti, difficoltà o eventi della vita valutati come eccessivi o pericolosi. La sensazione che si
prova in una situazione di stress è di essere di fronte ad una forte pressione mentale ed emotiva.
Lo stress è la reazione adattativa e fisiologica aspecifica a qualunque richiesta di modificazione
esercitata sull'organismo da una gamma assai ampia di stimoli eterogenei.
Selye (1976) scoprì che una gamma assai ampia di stimoli eterogenei richiedeva una
modificazione all'organismo e quindi una reazione adattativa e fisiologica. La reazione di stress
è una reazione fisiologicamente adattativa: essa può tuttavia divenire una condizione patogena
se lo stressor agisce con particolare intensità e per periodi di tempo sufficientemente lunghi.
Lo stress è una funzione del grado di adattamento della persona agli stimoli ambientali. Quando
noi crediamo di avere risposte sufficienti per gestire situazioni complesse il livello di stress
esperito è minimo; se, al contrario, percepiamo di non avere potenzialità adeguate per adattarci
all'ambiente, potremo avvertire un certo grado di stress.
Stress come processo complesso, scomponibile in tre fasi:
• valutazione degli eventi;
• accertamento delle proprie possibili risposte;
• attuazione delle risposte con modalità che possono includere modificazioni
fisiologiche, cognitive, emozionali e comportamentali.
Con il termine “stress”, generalmente si intende la risposta dell'organismo a stimoli nocivi
che perturbano il suo equilibrio interno. La risposta si caratterizzata da una serie di
modificazioni psicofisiche e comportamentali atte a consentire all'organismo di mettere in atto
una reazione difensiva. Dunque, lo stress rappresenta l'insieme di tutte quelle modifiche che
avvengono in un sistema vivente che, da uno stato di normale equilibrio basale passa ad uno
stato di attivazione di difesa. Tale attivazione genera una tensione profonda nell’intero del
sistema stesso.
Stress, in inglese significa "tensione, sforzo, sollecitazione".
L'agente stressante (stressor) può esser di natura fisica (traumi fisici, fatica, microorganismi,
agenti tossici o termici...) o psichica: emotiva (perdita affettiva ma anche gioia improvvisa) o
mentale (impegno lavorativo, obblighi o richieste dell'ambiente sociale).
La risposta è aspecifica: qualunque sia la natura dell’agente stressante, i meccanismi di
adattamento che vengono innescati son sempre gli stessi.
Si tratta di una risposta biologica primaria legata alla sopravvivenza, un meccanismo
difensivo con cui l’organismo si sforza di superare una difficoltà per poi tornare, il più presto
possibile, al suo normale equilibrio operativo basale.
Per comprendere le modifiche che avvengono nell'organismo in condizioni di stress, è utile
tener presente che la classica e più frequente risposta degli animali davanti al pericolo è quella
di “attacco o fuga”. È una risposta caratterizzata dall'azione, ossia dal movimento.
Questo implica il coinvolgimento del sistema muscolare e dei sistemi atti a fornire le risorse
energetiche (ossigeno e glucosio) alle cellule ovvero il sistema respiratorio e cardiocircolatorio
oltre ad un incremento della vigilanza. Cannon evidenziò che l'area cerebrale attivata nella
risposta psicosomatica di attacco-fuga è l’ipotalamo.
Fu Hans Selye, medico di origine ungherese e ricercatore presso l'Università di Montreal, il
primo a studiare la reazione di stress. Nel 1936 venne pubblicato su Nature, un breve suo
articolo in cui descrisse “una sindrome prodotta da diversi agenti nocivi”, ovvero la
sindrome da adattamento. La sindrome osservata era caratterizzata da: ipertrofia della
corteccia surrenale (troppo stimolata e quindi produce troppa adrenalina e nodrenalina e
grucordicoidi), ipoplasia timo-linfatica (fisiologico, il timo non rilascia più nella e diminuisce
di dimensioni), ulcere gastro-duodenali (acido che può bucare le pareti dell’intestino e dello
stomaco se in eccesso) e aumento di ACTH e cortisolo ematico.
La stessa reazione avveniva in risposta a stimoli di varia natura: chimica (varie sostanze
tossiche), fisica (caldo o freddo eccessivi), psichica (visione di un predatore o
immobilizzazione in una gabbia stretta).
Selye concluse di essere di fronte all’attivazione di una risposta biologica fondamentale, che
proprio per questo era aspecifica (indipendente dallo stressor) e che riassunse nella definizione
di sindrome generale di adattamento: insieme delle modificazioni aspecifiche che
compaiono in un organismo esposto all’azione di un agente stressante, indipendentemente dalla
natura di esso (chimica, fisica o psichica).
H. Selye, soprattutto nella seconda parte del suo lavoro scientifico, ha cercato a lungo di
correggere un’immagine “giornalistica” dello stress, inteso come evento eccezionale e
negativo. “In realtà -scriveva Selye- lo stress è l’essenza della vita. Non è infatti possibile
vivere senza adattarsi continuamente alle situazioni esterne, fisiche ambientali, sociali, in
perenne mutamento”.
L’ unica costante nella vita è il cambiamento! Lo stress di per sé non è negativo, anzi è un
allenamento alle continue sfide della vita; sono il suo eccesso e il suo perdurare nel tempo ad
essere nefasti. Quello che bisogna distinguere è l'eustress dal distress:
• eustress: risposta adattativa ottimale dell’organismo all’ambiente e alle sue richieste
Vi è un livello di tensione e sollecitazione adeguato che si risolve col raggiungimento
dell’obiettivo. è quello che, nella nostra quotidianità, ci aiuta ad affrontare e superare
le varie sfide che la vita ci propone.
• distress: risposta adattativa compromessa da un’attivazione psico-fisica eccessiva. Il
precetto non è quindi di evitare lo stress ma di vivere lo “Stress whithout Distress”,
come recita il titolo di un suo libro. sta a indicare lo stress così come comunemente lo
intendiamo, è quello che ci provoca maggiori difficoltà, come conflitti emotivi, ansie e
disturbi fisici.
Lo stress si manifesta attraverso:
• Manifestazioni emotive: reazioni di ansia e depressione, senso di disperazione ed
impotenza;
• Manifestazioni cognitive: difficoltà a concentrarsi, a ricordare e memorizzare, ad
apprendere cose nuove e ad essere creativi e a prendere decisioni;
• Manifestazioni comportamentali: alcol, cibo, fumo droghe e pericoli superflui sul
lavoro o nel traffico;
• Manifestazioni fisiologiche: aumento della pressione arteriosa, accelerazione della
coagulazione sanguigna, tachicardia o aritmia, tensione muscolare e produzione
eccessiva di succhi gastrici.
MODELLO TEORICO: PERCEZIONE SOGGETTIVA DELLO STRESS
Un buon modello dello stress deve tenere conto dell'importante intermediazione dei processi
di valutazione e percezione soggettiva. Il giudizio soggettivo dell'individuo rispetto allo
stimolo esterno è la molla che fa scattare la risposta di stress.
Se lo schema cognitivo non è “in equilibrio” l’elaborazione delle informazioni sarà distorta.
Nello stress può essere presente una percezione sbagliata di quello che c’è nella realtà:
sottovalutazione di potercela fare e sovrastima del pericolo.
Le distorsioni cognitive sono processi di pensiero rigidi, inflessibili, estremi, che non tengono
conto di un numero sufficiente di informazioni prima di essere formulati e che, di norma,
portano ad una elaborazione della realtà parziale. Le distorsioni cognitive, che in certa misura
sono una normale manifestazione della mente umana, si riscontrano in modo massiccio e
pervasivo nei problemi d'ansia e nei disturbi dell'umore.
Le cause di stress si possono raggruppare in tre categorie:
• Ambiente esterno;
• Ambiente di lavoro;
• Carattere della persona.
Gli stressor sono eventi o condizioni che provocano stress e si dividono in:
• Fattori fisici: eccessivo rumore, umidità, vibrazioni, movimenti carichi eccessivi,
posizioni scomode e/o dolorose, esposizione a sostanze tossiche o pericolose;
• Fattori psicosociali: contatto con la sofferenza umana (infermieri) malattie o infortuni
(lavori a rischio per la salute), personale esposto a pericoli (sommozzatori, vigili del
fuoco...), minacce di aggressioni;
• Fattori gestionali: aspetti temporali della giornata e dell’attività lavorativa, contenuto
dell’attività lavorativa, condizioni dell’organizzazione, rapporti interpersonali con i
supervisori.
Non si tratta solo di un fenomeno negativo, è una reazione psicofisiologica, la risposta
dell'organismo ad ogni richiesta di cambiamento, rientra nelle normali condotte di adattamento.
Può assumere un significato patologico allorché risulti eccessivo per intensità e/o per durata.
Sindrome di Adattamento Generale:
• fase di allarme: l'organismo si mobilia per affrontare il pericolo,
• fase di resistenza: l'organismo si confronta con la minaccia organizzandosi anatomo-
funzionalmente in senso stabilmente difensivo,
• fase di esaurimento: se l'organismo non è in grado di adattarsi allo stressor per
l'esaurirsi delle riserve fisiologiche (fase alla base del rapporto stressmalattia).
Lo stress lavoro-correlato è stato individuato a livello internazionale, europeo e nazionale
come oggetto di preoccupazione sia per i datori di lavoro che per i lavoratori. Potenzialmente
lo stress può riguardare ogni luogo di lavoro ed ogni lavoratore, indipendentemente dalle
dimensioni dell’azienda, dal settore di attività o dalla tipologia del contratto o del rapporto di
lavoro. Ciò non significa che tutti i luoghi di lavoro e tutti i lavoratori ne sono necessariamente
interessati.
Lo stress lavoro-correlato può̀ essere causato da fattori diversi come il contenuto del lavoro,
l’eventuale inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di
lavoro, carenze nella comunicazione, etc.
Lo stress non è una malattia, ma una situazione di prolungata tensione, che può̀ ridurre
l’efficienza sul lavoro e può̀ determinare un cattivo stato di salute. Lo stress che ha origine
fuori dall’ambito di lavoro può̀ condurre a cambiamenti nel comportamento e ad una ridotta
efficienza sul lavoro. Non tutte le manifestazioni di stress sul lavoro possono essere considerate
come stress lavoro-correlato.
L’evento traumatico può essere:
• Diretto: se l'evento causativo agisce direttamente sul soggetto (licenziamento,
pensionamento, divorzio, disoccupazione, violenza, rapimento, rapina, eccetera);
• Indiretto: se l'evento causativo è costituito da un fatto accaduto ad una persona cara
(morte o grave malattia).
Per causa si intende un fatto ritenuto come assolutamente determinante rispetto al verificarsi
di un altro fatto o situazione successiva. Per concausa si intende invece una causa che concorre,
unitamente ad altre, alla spiegazione e alla produzione di un determinato effetto.
Per stabilire un rapporto di casualità tra comportamento ed evento, basta accertare che l’uomo
abbia attuato uno di tali antecedenti. Il nesso, di conseguenza, non può essere escluso dal
concorso di circostanze estranee all’agente, siano esse preesistenti, concomitanti o
sopravvenute.
L’esposizione ad eventi stressanti e traumatici, nel tempo, può portare all’insorgenza di disagi
o traumi psicologici. Il trauma psicologico è caratterizzato da una reazione psichica soggettiva
originata da uno stressor, o fattore traumatico, da cui scaturisce una disorganizzazione e
disregolazione del sistema psicologico dell’individuo che lo vive.
Le manifestazioni psicopatologiche conseguenti l’evento traumatico possono essere
direttamente condizionate da uno o entrambi i seguenti fattori di stress:
• evento traumatico caratterizzato dalla violenza, come morte, lesioni, minacce
all’integrità fisica o psicologica;
• microtraumi relazionali aventi luogo nelle prime fasi di sviluppo emotivo della persona,
come maltrattamento, separazione precoce, mancanza di sintonizzazione affettiva e
trascuratezza psicologica.
L’evento traumatico può essere singolo o ripetuto nel tempo. Questo genera nel soggetto una
nuova modalità di vivere e osservare il mondo circostante; impattando in maniera negativa su
coloro che lo sperimentano. In talune circostanze, l’evento stressante sperimentato può
provocare una rottura dell’equilibrio psichico dell’individuo che lo vive, dando origine ad un
disagio psichico che influenzerà la qualità di vita della persona che ne è vittima.
Talvolta tale disagio psichico diviene alquanto invalidante, tanto da dare origine alla patologia;
la quale potrebbe altresì sfociare in un trauma psichico permanente.
Il danno psicologico è una compromissione durevole ed obiettiva che riguardi la personalità
individuale nella sua efficienza, nel suo adattamento, nel suo equilibrio; come un danno, quindi,
consistente, non effimero né puramente soggettivo, che si crea per effetto di cause molteplici e
che, anche in assenza di alterazioni documentabili dell’organismo fisico, riduce in qualche
misura le capacità, le potenzialità, la qualità della vita della persona (Quadrio, 1990: 1). Esso
interessa l’equilibrio psichico globale della persona lesa e fa riferimento ad un’alterazione
psicologica permanente, in quanto vi è la possibilità che possa associarsi a sintomatologie
chiaramente riconoscibili, nonché ad un peggioramento e ad una riduzione delle funzioni
psichiche del soggetto.
Insorge dopo un evento traumatico o un logoramento sistematico di una certa entità e di
natura dolosa o colposa [...] e permane anche dopo un certo periodo di stabilizzazione (circa
un anno), pur senza arrivare a configurarsi necessariamente in un vero e proprio quadro clinico
patologico (Pajardi, 1995: 520).
Tale alterazione dell’equilibrio di personalità della vittima può trovare modo di manifestarsi
temporalmente vicino all’evento scatenante o anche rimanere latente per un indefinibile arco
di tempo (Pajardi, 1990). Esso si stabilizza nell’arco di uno o due anni e può configurarsi come
vera e propria menomazione e/o patologia psichica. In questo caso, ciò che deve essere risarcito
è il danno stesso e non l’emozione ad esso collegata.
Per poter parlare di danno psicologico o compromissione di personalità, occorre innanzitutto
accertare la consistenza e la persistenza del disturbo distinguendolo da quelle manifestazioni,
magari anche imponenti, che sono destinate a risolversi senza lasciare traccia. «Il che non
esclude, però, che possano identificarsi anche dei danni temporanei e reversibili ma consistenti
e riportabili ad una etiologia precisa e ad una credibile responsabilità» (Quadrio, 1990: 5)
È importante discriminare tra:
• Eventi che riguardano specificamente il trauma (le modalità con cui si sono svolti i
fatti, la gravità degli stessi, ecc.);
• Eventi concorrenti al trauma (mediating factors);
• Eventi antecedenti al trauma (i fattori innati tipici della vittima: particolari
caratteristiche di temperamento, deficit cognitivi, disturbi di personalità preesistenti; i
fattori ambientali: incomprensioni in famiglia, problemi a scuola o nel lavoro, difficoltà
nei rapporti con il gruppo dei pari);
• Eventi che seguono il trauma (fattori precipitanti, conseguenze a breve, medio e lungo
termine).
Si possono inoltre distinguere i momenti operativi del processo di accertamento del danno
psicologico che sono:
1. la raccolta dei dati anamnestici;
2. la diagnosi psicopatologica;
3. la quantificazione e la misurazione dei sintomi psicopatologici;
4. la formulazione di un giudizio prognostico a breve e medio termine.
Affinché si possa effettuare una valutazione del danno psichico ed esistenziale è necessario in
primis accertare la possibile esistenza di una relazione causale tra il tempo trascorso
dall’evento dannoso e la comparsa delle manifestazioni disfunzionali della persona.
In un secondo momento si valuterà se l’evento lesivo possieda caratteristiche qualitative e
quantitative che portino all’insorgenza di un disturbo psicologico.
In riferimento all’esistenza del nesso di causalità, tra l’evento dannoso e la condizione clinica
successiva, la medicina legale ha stilato dei criteri specifici, quali:
1) Criterio cronologico, per il quale la causa deve essere precedente il danno;
2) Criterio qualitativo, per il quale il fatto lesivo deve essere idoneo e proporzionato
all’insorgenza di quel danno;
3) Criterio quantitativo, per il quale il fatto lesivo deve essere di intensità, durata e
ripetitività idonea e proporzionale all’insorgenza di quello specifico danno;
4) Criterio modale, per il quale la modalità in cui ha agito l’antecedente deve essere
idonea a causare quel danno.
Al fine di valutare i vissuti della persona è possibile indagare, successivamente al verificarsi
dell’evento, ciò che è avvenuto durante l’evento, le emozioni esperite dal soggetto come
risposta all’evento stesso e in che modo questo affronta il processo di guarigione dal trauma.
I fattori prognostici, nel caso della valutazione del danno psichico, si riferiscono alla
probabilità di cronicizzazione di un disturbo psicopatologico nel tempo e alla possibilità che
vi sia un miglioramento o peggioramento di questo.
Il risarcimento del danno psicologico non può essere una restitutio ad integrum, come nel caso
dei beni materiali, ma è sempre una compensazione per “via equivalente”, cioè attraverso un
indennizzo economico; si tratta infatti di esprimere in termini economici qualcosa che per
definizione “non ha prezzo” (Pajardi, 1995).
L'esperto, per valutare il danno subito dalla vittima, è necessario che abbia ben chiari:
- La definizione di danno psicologico (sia dal punto di vista giuridico che psicologico);
- La metodologia da utilizzare per la sua valutazione e quantificazione.
Per affrontare il problema del danno psicologico in un’ottica giuridica, tre sono le condizioni
da accertare:
- La cosiddetta “apprezzabilità giuridica”, cioè che il danno sia almeno di minima
entità;
- Il rapporto cronologico e causale tra l’evento lesivo e il danno;
- Una relazione di adeguatezza qualitativa e quantitativa tra fatto illecito che ha
causato il danno e danno stesso.
Tali condizioni permettono di accertare:
1) La presenza di eventuali alterazioni delle funzioni cognitive primarie;
2) Gli stati emotivi-affettivi,
3) Il livello di integrazione sociale, relazionale e individuale della persona in esame prima
dell’evento traumatico
4) Descrivere lo stato attuale del soggetto, il livello di compensazione e i meccanismi di
difesa manifestati dopo l’evento lesivo.
In associazione a ciò, si effettuerà di seguito un’accurata diagnosi differenziale, inquadrando
la sintomatologia emersa nel periodo conseguente il trauma e quella preesistente antecedente
ad esso.
In sintesi, vengono richieste la certezza e la precisione, l’individuazione del nesso causale o
l’esistenza anche solo parziale di tale nesso, in quanto l’evento ha agito come concausa
(specificando l’entità della responsabilità) o altrimenti la non esistenza di tale nesso e della
predisposizione soggettiva, l’evidenziazione della eventuale simulazione e la quantificazione
del danno subito dalla persona.
Secondo la teoria della conditio sine qua non, detta anche dell'equivalenza delle cause (artt. 40
e 41 c.p.) «causa è ogni singolo antecedente senza il quale il risultato non potrebbe prodursi»
(Castiglioni, 1996).
Tra i criteri utili nell’individuazione del nesso causale devono essere considerate:
• la successione temporale;
• la valutazione della situazione antecedente all’evento.
Questa valutazione può essere condotta sulla base dell’analisi dei comportamenti e dei vissuti
della persona, deducendola quindi dal racconto del soggetto stesso o dalla testimonianza dei
familiari o dalla verifica del tipo di vita condotto prima e dopo l’evento.
Inoltre, è necessario effettuare una diagnosi di struttura che si avvale di test di tipo proiettivo,
di colloqui e di scale che valutano alcuni dei sintomi che sono maggiormente connessi al danno
psicologico.
Nella valutazione del danno psicologico, il livello di indagine che bisogna privilegiare è la
persona. È necessario raccogliere quante più informazioni utili fin dal primo incontro: dati della
vittima e dell’aggressore; dati sulla famiglia di origine della vittima; aggiustamento
psicosociale della vittima (problemi emotivi, problemi interpersonali, problemi sessuali,
problemi di salute, problemi sociali); ulteriori dati e problematiche (tipi di trattamenti o terapie
intrapresi) (Jehu, 1988).
Il nesso causale poggia su un imprescindibile esame della condizione preesistente in cui viveva
la persona prima dell’evento.
La psicologia possiede le conoscenze e gli strumenti per effettuare una valutazione attendibile
dello stato preesistente attraverso un’accurata indagine clinica e l’utilizzo di adeguati test
psicodiagnostici.
Allo stato attuale esistono 3 scale di valutazione con caratteristiche e premesse concettuali
diverse, anche se i punteggi non sono poi così distanti tra loro.
• Brondolo e Marigliano (1996);
• Buzzi, Vanini (2001-2006);
• Pajardi, Macrì, Merzagora (2006).
Secondo i primi, nel range 10 – 15% si presenta un’intensificazione e permanenza a distanza
di almeno uno – due anni, di sintomi nell’ambito delle funzioni cognitive e della vita affettiva:
si manifesta con appiattimento dell’affettività, difficoltà espressive occasionali, attacchi di
panico, abbandono delle amicizie, alterazione dei rapporti interpersonali, con possibilità di
interruzioni di relazioni affettive stabili e peggioramento globale del modo di essere.
Nel range 20 – 30% si presentano sintomi patologici più gravi quali: idee di suicidio, frequenti
attacchi di panico, anomalie della condotta, alterazioni significative del tono dell’umore,
tendenza ad assumere decisioni avventate che coinvolgono altri componenti della famiglia,
ripetute assenze dal lavoro ecc …
Nel range 30 – 40% avvengono una diminuzione della capacità critiche nell’esame di realtà,
episodiche alterazioni dell’orientamento temporo – spaziale ed affettivo, diminuzione delle
funzioni cognitive con significativo deficit delle prestazioni abituali, sia nella vita di relazione
che sul lavoro, significativa alterazione della capacità di entrare in rapporto con gli altri per la
difficoltà di comunicazione, alterazioni anche grazi di comportamento (episodi di violenza,
tendenze tossicofiliche, disordini affettivi e sessuali anche nell’ambito familiare), subentrati
episodi depressivi ecc ...
Nel range 40 – 50% avviene una significativa ma episodica alterazione della capacità di
comunicare, di entrare e di essere in relazione con gli altri, diminuzione delle capacità critiche
e di giudizio, e saltuari deliri con deficit del funzionamento sociale ed occupazionale.
Nel range 55 – 65% c’è la presenza di deliri e di e di allucinazioni che compromettono
gravemente la vita quotidiana del soggetto.
Nel 65 – 75% ci sono una diminuizione della capacità di avere cura della propria persona,
rischi di atti violenti contro se stessi e contro gli altri, frequenti stati di eccitamento
psicomotorio, perdita delle relazioni sociali ed affettive.
Infine, nel range 75 – 90 % si presenta un’incapacità quasi completa di badare a se stessi ed
un’inemendabile sintomatologia aggressiva con alto rischio suicidario e di violenze
eterodirette.
DIAGNOSI PSICO – PATOLOGICA IN AMBITO GIURIDICO
La diagnosi psicologica è il processo per mezzo del quale cerchiamo di conoscere il
funzionamento psichico di un determinato soggetto, sia la denominazione, basata su una
terminologia condivisa dalla comunità scientifica, che attribuiamo a tale funzionamento.
In ambito clinico, la diagnosi ha lo scopo di comprendere il funzionamento di un paziente,
così da poter individuare la tipologia di trattamento più adeguato a garantire la risoluzione delle
problematiche del soggetto.
In ambito forense, invece, il processo diagnostico ha caratteristiche specifiche, in quanto ciò
che cambia è il mandato e la finalità della diagnosi, che non è più terapeutica, bensì valutativa.
Lo psicologo è chiamato a determinare la condizione psichica di un soggetto al fine di
rispondere a specifiche richieste poste dal giudice all’interno di un procedimento giuridico.
La diagnosi è fondamentale anche per la valutazione del danno biologico di natura psichica
derivante da eventi dolosi o colposi che possono essere diretta conseguenza di maltrattamenti
e violenze, mobbing, stalking, un lutto per la morte di un familiare, traumi fisici.
Per valutare la presenza e la consistenza di un danno psichico conseguente ad un vissuto
traumatico, lo psicologo giuridico deve poter verificare una differenza tra il «prima» e il
«dopo» un determinato evento traumatico; questo iter ha lo scopo di accertare che il fatto lesivo
abbia concretamente compromesso il precedente equilibrio psicologico della persona lesa. Per
fare ciò, deve poter procedere attraverso un’analisi approfondita del soggetto, proseguendo con
una metodologia che includa non soltanto i colloqui clinici, ma anche la somministrazione di
test al fine di valutare la presenza di eventuali alterazioni delle funzioni mentali primarie di
pensiero e gli stati emotivo-affettivi, la struttura e la sovrastruttura dell’Io, nonché i meccanismi
difensivi attivati dall’evento traumatico.
La diagnosi psicologica del danno si articola in un insieme di fasi strettamente interconnesse:
• ESAME DEGLI ATTI DELLA CAUSA: al fine di dare un ordine cronologico agli
eventi in modo da avere una visione precisa della sequenza temporale in cui si sono
svolti e al fine di predisporre per ciascun documento una breve sintesi di quanto
contenuto.
• COLLOQUIO CLINICO: ha l’obiettivo di raccogliere un gran numero di
informazioni in un tempo piuttosto ridotto; ne deriva che lo stile del perito sarà
necessariamente più direttivo e indirizzato, rispetto a quello del contesto clinico.
Nella fase del colloquio clinico bisogna saper accogliere il soggetto, creando un clima che
sappia metterlo a proprio agio, tenendo sotto controllo l’elemento relativo:
1. ai contenuti (utilizzo di un vocabolario privo di tecnicismi o termini di uso non
comune, in modo che il linguaggio risulti comprensibile e vicino alla terminologia usata
dal soggetto; di conseguenza è importante improntare la comunicazione sulla chiarezza,
la trasparenza e la semplicità);
2. alla relazione (ascolto attivo, interesse per la storia, ed eventuali strategie di
chiarificazione rappresentano il terreno più favorevole perché quel colloquio diventi un
momento conoscitivo proficuo).
Una volta stabilita la relazione, è opportuno che il consulente adotti alcuni importanti
accorgimenti:
• il soggetto sottoposto a valutazione deve essere messo a conoscenza di ciò che lo
attende, della motivazione e delle finalità del percorso diagnostico che lo riguardano;
• va chiarito quale sia il ruolo e gli obiettivi del consulente;
• va chiarita, sin da subito, la particolarità del segreto professionale in ambito peritale,
ovvero che lo psicologo abbia l’obbligo di riportare nella relazione finale quanto
emerge nel percorso diagnostico;
• costruire uno spazio iniziale caratterizzato dal racconto libero del periziando per
favorire un clima più rilassato;
• predisporre un elenco di domande in modo da colmare eventuali vuoti derivanti dal
libero racconto del soggetto;
• formulare prima domande che hanno minori probabilità di ottenere dei rifiuti per poi
passare a domande dirette solo nel momento in cui si ritiene che la persona sia
disponibile a fornire l’informazione richiesta;
• appurare se il soggetto sia stato già sottoposto a valutazioni psicodiagnostiche.
Una parte importante del colloquio clinico ai fini della valutazione psicodiagnostica è quella
relativa alla raccolta anamnestica, ovvero la ricostruzione della storia del soggetto
ripercorrendo i diversi momenti di vita. Si indagheranno le aree relative alla biografia, alla
famiglia, alle condizioni socioeconomiche, alle relazioni social, quella medica e quella relativa
alla psicopatologia.
Uno spazio importantissimo deve essere riservato alla conoscenza dell’evento traumatico cui
viene valutato il nesso di causalità con il danno arrecato al soggetto. Nello specifico, bisogna
comprendere il vissuto del soggetto prima e dopo l’occorrenza dell’evento traumatico. È bene
prestare attenzione al modo in cui l’evento viene raccontato, cogliendo la presenza o meno di
una congruenza tra la dimensione emotiva ed il contenuto del racconto.
Un clinico attento valuterà quindi:
• la presenza di partecipazione emotiva o di distacco;
• l’esistenza di amnesie o di confusione;
• il comportamento non verbale (gesti, postura, orientamento dello sguardo, mimica
facciale);
• le modalità dell’eloquio, le capacità attentive, mnestiche e di giudizio, l’affettività, il
tono dell’umore, le alterazioni nella forma e nel contenuto del pensiero;
• l’aspetto fisico del soggetto (trascuratezza nell’abbigliamento e nell’igiene personale);
• eventuali elementi che possano far pensare a tentativi di simulazione;
• le variabili del setting (gli incontri dovranno avvenire in un ambiente tranquillo).
La valutazione psicodiagnostica, oltre che dai colloqui clinici, può essere supportata dalla
somministrazione di una batteria di test psicodiagnostici i cui risultati possono fornire al
clinico importanti indicazioni sullo stile di personalità del soggetto, nonché la presenza di
eventuali disturbi.
Sebbene i test possano rappresentare l’aspetto oggettivo della valutazione del danno, essi non
hanno valore se non inseriti e confrontati con quanto emerge all’interno del colloquio clinico.
Le patologie più frequentemente valutate correlate a trauma e stress sono:
- Il disturbo post – traumatico da stress (PTSD): ovvero la sofferenza psicologica che
il soggetto sperimenta determina in quest’ultimo uno stato d’animo negativo, con lo
sviluppo di emozioni come rabbia, orrore, preoccupazione, paura, colpa, vergogna e
una stabile incapacità di provare emozioni positive come felicità, soddisfazione o
sentimenti d’amore. L’esordio dei sintomi avviene in genere entro i tre mesi
dall’esposizione all’evento traumatico. I sintomi comuni sono raggruppabili in 3
categorie:
1. sovraeccitazione: per cui il soggetto resta in uno stato di allerta permanente come se il
pericolo potesse ritornare in ogni momento;
2. intrusione: il soggetto rivive l’evento traumatico perché quest’ultimo si ripresenta nella
quotidianità sotto forma di flashback e incubi notturni
3. restrizione: alterazioni dello stato di coscienza tra cui l’ottundimento.
- Il disturbo acuto da stress: ha in comune con il PTSD lo sviluppo dei sintomi a seguito
dell’esposizione ad uno o più eventi traumatici, ma ciò che lo differenzia dal PTSD è
la minore durata dei sintomi che va da tre giorni a un mese dall’esposizione al trauma.
Dopo questo periodo, vi è un completo ritorno ai livelli normali di funzionamento.
- Disturbo dell’adattamento: Si presenta quando la persona è esposta a uno o più fonti
di stress caratterizzati da qualsiasi livello di gravità. Il quadro sintomatologico è
caratterizzato da umore depresso, ansia, tristezza, insonnia, marcata compromissione
del funzionamento in ambito sociale, lavorativo, scolastico etc. Tali sintomi devono
risultare sproporzionati rispetto alla gravità dell’evento.
Si parla invece di disturbi depressivi quando si parla di depressione, ovvero quando il disturbo
dell’umore è pervasivo e influenza in modo significativo il funzionamento sociale, lavorativo
e relazionale del soggetto, compromettendone la qualità della vita.
Le patologie depressive più frequentemente valutate sono:
1. Disturbo depressivo maggiore: caratterizzato dalla presenza di almeno 5 dei seguenti
sintomi che si manifestano quasi tutti i giorni: perdita di interesse e di piacere,
alterazione del sonno e dell’appetito, alterazione psicomotoria, diminuzione di energia
e senso di autosvalutazione, scarse capacità di concentrazione, di memoria, pensieri di
morte e ideazione suicidaria.
2. Disturbo depressivo persistente: caratterizzato dalla presenza di un umore depresso
cronico, che si manifesta quasi tutti i giorni per almeno 2 anni. In concomitanza
dell’umore depresso, sono presenti almeno 2 dei seguenti sintomi: scarso appetito o
iperfagia, insonnia o ipersonnia, astenia, bassa autostima, difficoltà di concentrazione,
sentimenti di disperazione.
3. Disturbo depressivo indotto da sostanze/farmaci: l’insorgenza è chiaramente legata
a specifiche condizioni medico farmacologiche o all’abuso di sostanze.
I disturbi d’ansia, poi, sono tra i disturbi psicologici più diffusi nella popolazione e sono quelli
che in genere risultano essere maggiormente associati con una significativa riduzione nella
qualità della vita. Le patologie più frequenti sono:
1. Disturbo d’ansia generalizzato: caratterizzato dalla presenza di uno stato di
preoccupazione costante ed eccessiva per eventi o attività anche poco importanti o per
pericoli molto lontani dalla quotidianità, ma che sono percepiti come minacciosi e
imminenti. Il soggetto non è in grado di controllare tali preoccupazioni e si mostra
irrequieto, teso e irritabile. Riferisce di non essere in grado di concentrarsi e di avere
alterazioni nel sonno.
2. Disturbo di panico: è la forma più intensa e acuta dell’ansia. Consiste in un brusco
aumento dell’intensità della paura/ansia, la quale raggiunge un picco molto alto in un
breve lasso di tempo. Il soggetto riferisce di provare tachicardia, tremori, dolori al petto,
sudorazioni, brividi o vampate di calore, sensazioni di intorpidimento o di formicolio
nonché di sbandamento, di instabilità. Questi sintomi sono accompagnati da senso di
irrealtà o da sensazione di essere staccati da se stessi.
Disturbo ossessivo – compulsivo (DOC): Per poter diagnosticare la presenza di un DOC è
necessario che le ossessioni e le compulsioni occupino in modo significativo la quotidianità
del soggetto compromettendo in modo rilevante il su funzionamento. Vi è una significativa
associazione del DOC con i vissuti traumatici e stressanti. È caratterizzato dalla presenza di
due categorie principali di sintomi:
1. Ossessioni: sono pensieri, immagini o impulsi ricorrenti vissuti come intrusivi e
indesiderati che generano ansia e sono vissuti dall’individuo in modo «egodistonico»,
cioè il soggetto pur riconoscendo che quei pensieri o impulsi sono prodotti dalla propria
mente, sente che quest’ultimi non sono in armonia con il proprio Io, con la propria
personalità.
2. Compulsioni: sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali che la persona si sente
obbligata a mettere in atto. Sono messe in atto per ridurre l’ansia e la sofferenza causata
dall’ossessione. In genere, i rituali ripetitivi si strutturano intorno a regole rigide che
non possono essere infrante.
Disturbo da sintomi somatici e altri disturbi correlati: l’attenzione del clinico viene posta
su sintomi oggettivi, ossia sui sintomi somatici che procurano disagio al soggetto e che sono
pertanto accompagnati da pensieri, sentimenti e comportamenti anomali. Le patologie più
frequenti sono:
- Disturbo da sintomi somatici: gli individui presentano contemporaneamente
molteplici sintomi somatici che procurano disagio e alterazione della qualità di vita. I
sintomi possono essere specifici (es. dolore) o aspecifici (es. spossatezza).
- Disturbo d’ansia da malattia: gli individui sono preoccupati di avere o contrarre una
grave malattia non diagnosticata. I sintomi somatici non sono presenti o di lieve entità.
- Disturbo da conversione: è caratterizzato dalla presenza di uno o più sintomi che
possono riguardare la sfera motoria (paralisi, movimenti distonici, deambulazione) e la
sfera sensoriale (alterazione della sensibilità tattile, visiva o uditiva che ne risulta ridotta
o assente).
- Disturbo fittizio: la persona presenta se stesso agli altri come malato, menomato o
ferito ed il comportamento ingannevole è manifesto anche in assenza di evidenti
vantaggi esterni.
Disturbi del neuro – sviluppo: essi appaiono nella prime fasi del periodo evolutivo, in genere
prima che il bambino inizi la scuola. I deficit che ne derivano causano difficoltà nel
funzionamento personale, sociale e scolastico. Per la loro natura evolutiva, questa classe di
disturbi necessita di una diagnosi e di una presa in carico precoce e tempestiva, al fine di
limitare l’interferenza sulla maturazione psicologica e comportamentale del bambino.
Ai fini peritali è opportuna l’acquisizione della prova mnestica che il disturbo non sussisteva
prima dell’evento psico-traumatico. I disturbi che rientrano in questa categoria nosografica
sono:
1. disabilità intellettive;
2. disturbi della comunicazione;
3. disturbi dello spettro autistico;
4. disturbo da deficit di attenzione/iperattività;
5. disturbo specifico dell’apprendimento;
6. disturbi del movimento.
Disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici: questa classe di disturbi è
definita dalla presenza di uno o più dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, pensiero o
eloquio disorganizzato, comportamento motorio disorganizzato o anormale, sintomi negativi.
Molte ricerche hanno messo in evidenza l’esistenza di un’associazione tra la presenza di un
trauma precoce (avvenuto nei primi 17 anni di vita) e la psicosi. Inoltre, altri studi hanno messo
in evidenza che il rischio di esordio psicotico aumenta in modo significativo nei soggetti che
hanno avuto esperienze precoci di abuso sessuale.
L'attuale giurisprudenza provvede all'immediato cambio del nome del richiedente in modo
da evitare ritardi ed omissioni o comunque un vuoto temporale tra la sentenza di rettifica e la
sua concreta operatività subordinata all'ottemperanza all'ordine da parte dell'ufficiale di stato
civile. Non mancano tuttavia pronunce nelle quali il giudice omette qualsiasi provvedimento
rispetto al mutamento del nome considerato adempimento dell'ufficiale dello stato civile.
La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso non ha effetto retroattivo e provoca lo
scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione
del matrimonio celebrato con rito religioso. Per ciò che concerne i requisiti necessari alla
rettificazione del sesso, è compito del Tribunale analizzare i singoli casi in relazione alle
loro peculiarità, riguardanti le condizioni psicosessuali, lo stato di salute, l'età.
Il giudice può nominare un consulente tecnico d'ufficio (C.T.U.), al quale è demandato il
compito di valutare se le condizioni psicosessuali del ricorrente giustifichino la richiesta di
rettificazione di attribuzione di sesso e, in caso di risposta positiva, di indicare quale o quali
interventi chirurgici sia appropriato eseguire nel
caso di specie. II C.T.U. effettua alcuni incontri con la persona che ha richiesto la
rettificazione e svolge una serie di indagini per rispondere ad uno o più quesiti posti dal
giudice, nei tempi stabiliti dal Tribunale.
Al termine del lavoro il C.T.U. prepara una relazione (generalmente scritta) in cui riporta i
risultati delle attività svolte e risponde ai quesiti posti dal giudice. La persona che ha richiesto
la rettificazione, al momento della nomina del consulente tecnico d'ufficio, può a sua volta
scegliere un proprio consulente tecnico di parte (C.T.P.), che dopo aver ottenuto il
permesso dal giudice può assistere alle operazioni peritali.
La Svezia è stato il primo paese che ha introdotto in Europa una disciplina in materia di
transessualismo con la legge del 21 aprile 1972 n. 119 che permette a chi soffre fin
dall'adolescenza di un contrasto insanabile soma-psiche e di una persistente sensazione di non
appartenere al proprio sesso biologico, la possibilità di essere riconosciuto come appartenente
all'altro sesso in seguito ad una serie di accertamenti psicodiagnostici e di requisiti soggettivi
quali la cittadinanza svedese, la maggiore di età, l'incapacità di generare e la mancanza di un
vincolo coniugale.
Benché il Parlamento europeo, con la risoluzione del 12 settembre 1989 sulla discriminazione
delle persone transessuali, avesse invitato gli Stati membri al riconoscimento pieno dei diritti
di queste ultime e, poco dopo, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa avesse
invitato, con la raccomandazione n.1117 del 1989, i membri a riconoscere il nuovo stato
civile ed il nuovo nome delle persone transessuali ed a proteggerne i diritti fondamentali, la
giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell'uomo ha al contrario, e per lungo tempo,
respinto ogni istanza di condanna di quei paesi che negavano i diritti fondamentali delle
persone transessuali.
L'attività richiesta al CTU cambia notevolmente a seconda che la sua nomina sia stata
effettuata in assenza o in presenza di una documentazione più o meno ampia della quale
il giudice non sia in grado di comprendere a pieno il significato. Nel caso, infatti, di ampia
e adeguata documentazione presentata dal ricorrente, il giudice potrà efficacemente sostituire
la nomina del CTU con la "convocazione a chiarimenti" degli specialisti che hanno firmato la
documentazione, con la necessità che il firmatario si presenti in Tribunale per confermare
l'autenticità di quanto sottoscritto e per rispondere ad altri eventuali quesiti posti dal giudice
(procedura particolarmente adeguata in caso di iter psicodiagnostici e terapeutici effettuati
presso strutture pubbliche specializzate nel trattamento della Disforia di Genere).
Se il giudice, in caso di inadeguata documentazione, ritiene indispensabile, per il valido
fondamento della sentenza, la nomina del CTU, la consulenza dovrà essere focalizzata,
comunque, sulla valutazione della documentazione presentata, individuando eventuali lacune
da colmare, incongruenze o veri e propri errori
L'ermafroditismo poi, è la condizione in cui sono presenti in una stessa persona le ghiandole
genitali, e perciò i gameti, dei due sessi. Nell'individuo compaiono pertanto
contemporaneamente i testicoli e le ovaie oppure un organo costituito da tessuto ovarico e
testicolare nello stesso tempo. L'ermafroditismo è dato da un eccesso, un deficit o un'alterata
produzione di ormoni durante lo sviluppo embrionale.
Per transessualismo secondario si intende una situazione clinica che ha l'apparenza di una
condizione transessuale primitiva (ovvero di un vissuto identitario di genere opposto alla
identità di genere somatica, genetica e di attribuzione) ma che in effetti è il sintomo e l'effetto
secondario di un disturbo mentale la cui richiesta di riconversione sessuale nasconde un
problema psichiatrico sottostante di maggiore portata e minacciosità per l'integrità dell'Io
1 casi di transessualismo secondario si possono raggruppare in tre gruppi generali per ordine
decrescente di frequenza:
• secondarietà rispetto a psicosi schizofreniche (delirio identitario nello schizofrenico);
• transessualismo come equivalente depressivo (regressione della sessualità e crisi della
identificazione sessuale, con valorizzazione di sé e travestitismo);
• "crisi transessuali" in situazioni di disadattamento post-stress. In questi casi (peraltro
non particolarmente frequenti) l'autorizzazione al cambiamento di sesso va senz'altro
negata, poiché essa altro non sarebbe che una castrazione ed una alterazione
permanente come risposta ad una condizione di alterazione psichica transitoria.
Per transessualismo a strutturazione tardiva (si intende come tale la situazione in cui il
soggetto che richiede il cambiamento di sesso abbia superato il terzo decennio di vita)
osserviamo un'identità di genere più mobile, con situazioni che sfumano dal semplice
travestitismo alla identificazione piena col sesso opposto. In questi casi la decisione di
autorizzare l'intervento va soppesata con attenzione, poiché la situazione identitaria non è del
tutto stabile e l'intervento potrebbe diventare la causa di una reazione depressiva. In effetti
una reazione depressiva si osserva di frequente anche nel transessualismo a strutturazione non
tardiva, come sequela di una fase euforica o di innalzamento del tono dell'umore. In parte
questa reazione depressiva, peraltro di norma piuttosto modesta e transitoria, sembra legata
alla discrepanza fra le attese ed i risultati concreti ottenuti (non sempre la ricostruzione
chirurgica è perfettamente adeguata ad ottenere l'orgasmo e la funzionalità degli organi
genitali, specie nel caso si tratti di organi maschili) ma fondamentalmente il meccanismo
depressivo si ricollega al senso di colpa inconscio per l'avere prodotto una alterazione
irreversibile del corpo.
"L'esperienza di vita" nel ruolo del genere vissuto come più vicino rispetto al proprio interno
sentire è considerata parte integrante del programma di riattribuzione chirurgica di sesso e
deve avere una durata adeguata che permetta l'acquisizione delle caratteristiche psicofisiche
desiderate. Si consiglia un periodo minimo di 8-12 mesi.
Ottenuta l'Autorizzazione del Tribunale, la riattribuzione chirurgica del sesso avverrà su
parere concorde dei diversi operatori intervenuti nelle diverse fasi dell'iter, solo dopo aver
verificato la piena consapevolezza della persona rispetto alla propria scelta e la piena
assunzione di responsabilità rispetto ad essa, purché comunque ottemperate le indicazioni
sulle terapie ormonali e sull'"esperienza di vita". Gli operatori interromperanno il trattamento
di chi non si attiene al programma terapeutico concordato
Attraverso il colloquio clinico il soggetto deve apparire vigile, cosciente, orientato nei
parametri spazio-temporali. L'eloquio deve essere normale, corso e contenuto del pensiero
corretti sotto l'aspetto formale, non si devono riscontrare fenomeni dispercettivi, né contenuti
del pensiero a carattere delirante. Non si devono evidenziare disturbi della strutturazione,
della forma e del contenuto del pensiero caratteristici di condizioni psicotiche. Le capacità
intellettive devono essere conservate, la memoria sia di fissazione che di rievocazione deve
essere nella norma così come il tono dell'umore. Non si devono evidenziare sintomi di
derealizzazione e/o depersonalizzazione. L'identità di genere psico-sessuale
maschile/femminile durante il colloquio deve risultare già da tempo sufficientemente
delineata. Verrà data particolare rilevanza al fatto che il soggetto abbia effettuato il Real life
Test (test di vita reale) e cioè abbia vissuto nei panni del sesso desiderato per almeno un
anno prima di giungere alla richiesta di RCS. Il test di vita reale serve a valutare la decisione
del paziente, la sua capacità di funzionare nel genere preferito, e l'adeguatezza del supporto
sociale, economico e psicologico. È importante che il soggetto sia consapevole del fatto che
anche dopo l'intervento di RCS la sua nuova condizione fisica l'avvicinerà sempre di più
all'ideale di uomo/donna ricercato ma non sarà mai tale nella totalità del significato.
OMOFOBIA E OMOGENITORIALITA’
Come sappiamo esistono diversi tipi di famiglie: le famiglie monoparentali, quelle che dopo
un evento critico si ricostruiscono, le famiglie di migranti e quelle composte da genitori
omosessuali. Tuttavia, quest’ultime vengono spesso ancora filtrate da lenti pregiudizievoli, che
portano ad assumere un approccio che esclude ciò che non è esattamente conforme alla società
tradizionale, comportando una difficile definizione del legame che tiene insieme tutti coloro
che permettono al bambino di esistere.
Dunque, per assumere una posizione più critica risulterebbe funzionale avere uno spettro
paradigmatico che non si chieda cos’è la famiglia ma come le persone legate da forti vincoli
affettivi “fanno” famiglia, attraverso un approccio pluralista che abbracci tutte le varie
tipologie di famiglia.
Per omofobia si intende l’insieme di pensieri, idee, opinioni che provocano emozioni quali
ansia, paura, disgusto, rabbia e ostilità nei confronti delle persone omosessuali.
Omofobia (Weiberg; deriva dal greco όμός = stesso e φόβος = timore, paura): “paura nei
confronti di persone dello stesso sesso” si usa per indicare l’intolleranza e i sentimenti negativi
che le persone hanno nei confronti degli uomini e delle donne omosessuali.
Può manifestarsi in modi molto diversi tra loro, dalla battuta su un una persona gay che passa
per la strada, alle offese verbali, fino a vere e proprie minacce o aggressioni fisiche
In genere il termine clinico "fobia” indica una paura, un’incapacità, un limite personale, che il
singolo individuo si trova a vivere. Nel caso dell’omofobia, invece, ci troviamo di fronte a una
"fobia operante come un pregiudizio”. Tale caratteristica implica che gli effetti negativi siano
avvertiti non solo da colui che ne è affetto, quanto da coloro verso cui questo pregiudizio è
rivolto.
Per distanziare linguisticamente questo costrutto dalle “fobie”, dove persiste la paura
dell’oggetto e l’evitamento (caratteristiche per nulla presenti negli omofobi), era stato coniato
il termine di “omonegatività”. Termine etimologicamente più corretto ma poco utilizzato
Poche ricerche hanno cercato di indagare gli aspetti psicologici (come i sintomi
psicopatologici, i meccanismi di difesa, o gli stili di attaccamento) che possono associarsi a
tale comportamento. Un recente studio italiano (Ciocca et al., 2015), ha cercato di investigare
i fattori prima menzionati e la loro eventuale correlazione con l’omofobia.
+ 500 studenti universitari tra i 18 ed i 30 anni, ai quali è stato chiesto di completare diverse
scale, mirate ad indagare il livello di omofobia, la eventuale presenza di sintomi
psicopatologici, i meccanismi di difesa utilizzati e lo stile di attaccamento.
I risultati dello studio hanno mostrato che persone con valori alti di psicoticismo
(corrispondente a un basso livello di coinvolgimento nei rapporti interpersonali) e con
meccanismi di difesa immaturi fossero più omofobe. Al contrario sembrerebbe che sintomi
depressivi ed un maggior utilizzo di meccanismi di difesa di livello più evoluto siano associati
a livelli più bassi di omofobia. Considerando lo stile di attaccamento, sembra che coloro che
hanno un attaccamento sicuro abbiano meno probabilità di essere omofobi rispetto a quei
soggetti che instaurano un attaccamento di tipo insicuro
Nei comportamenti omofobici possiamo distinguere:
1. Discriminazione: trattamento meno favorevole di una persona o di un gruppo di
persone rispetto ad altre a causa di vari motivi, ivi compreso l'orientamento sessuale
(discriminazione diretta) o in una disposizione apparentemente neutrale che svantaggi
un gruppo di persone per gli stessi motivi di discriminazione, qualora non giustificata
da ragioni obiettive (discriminazione indiretta);
2. Molestie: comportamento inopportuno, adottato per qualsiasi motivo, che violi di fatto
la dignità di una persona e crei un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od
offensivo. Possono manifestarsi in un singolo episodio o in episodi vari nel corso di un
certo periodo e possono presentarsi in forme molteplici, tra cui: minacce, intimidazione
o aggressioni verbali; osservazioni o scherzi inopportuni sull'orientamento sessuale,
sull'identità o espressione di genere;
3. Crimini generati dall’odio: qualsiasi reato, ivi compresi reati contro le persone o il
patrimonio, in cui la vittima, le strutture o l'obiettivo del reato stesso è stato scelto per
il legame, l'associazione, l'affiliazione, il sostegno o l'appartenenza reale o percepita a
un gruppo LGB;
4. Episodio di odio: qualsiasi episodio, aggressione o atto – definito o meno come
criminale dalla legislazione nazionale – rivolto contro le persone o il patrimonio e che
interessa una vittima, una struttura o un obiettivo scelto per il legame, l'associazione,
l'affiliazione, il sostegno o l'appartenenza reale o percepita a un gruppo LGB. Il termine
copre una gamma di manifestazioni di intolleranza, da episodi di scarsa rilevanza
motivati dal pregiudizio a reati veri e propri;
5. Incitamento all'odio: espressioni pubbliche che diffondono, incitano, promuovono o
giustificano l'odio, la discriminazione o l'ostilità nei confronti di minoranze – per
esempio dichiarazioni di leader politici o capi religiosi diffuse sulla stampa o su
Internet;
6. Eteronormatività: ciò che rende coerente, naturale e privilegiata l'eterosessualità. Essa
implica il presupposto secondo cui tutti sono "naturalmente" eterosessuali e
l'eterosessualità rappresenta un ideale, superiore all'omosessualità o alla bisessualità;
7. Eterosessismo: discriminazione a favore delle persone eterosessuali e contro le persone
omosessuali, sulla base del presupposto che l'eterosessualità sia l'unico stile di vita
"normale". La discriminazione "eterosessista" contro le persone LGB include, per
esempio, i casi di discriminazione diretta e indiretta definiti nelle direttive
antidiscriminazione dell'UE.
L’eterosessismo è un sistema sociale e culturale che assume l’eterosessualità come norma,
ideale e più naturale; esso struttura in maniera rigida e dicotomica i concetti di genere e sesso.
L’eteronormatività favorisce, quindi, la persistenza di stereotipi e pregiudizi negativi circa le
persone lgbt.
Per omonegatività si intendono gli atteggiamenti negativi che traggono origine dalla
componente sociale, legale, culturale e morale, che portano quindi ad un’omofobia sociale.
Nell’antica Grecia era già accettata l’omosessualità ma allo stesso tempo era vista come un
taboo, soprattutto verso un uomo passivo. Lo stesso vale per il primo Impero Romano dove
vigevano il culto della vittoria, della sottomissione e della beffa verso lo sconfitto. Nel tempo
con la cristianizzazione di Roma, partirono le prime pene pecuniarie fino ad arrivare alla pena
di morte, prima per passivi, poi anche per attivi.
Freud (1905), concordando con Platone, sosteneva la fondamentale bisessualità degli esseri
umani; tuttavia, considerava l’omosessualità una variante della funzione sessuale causata da un
certo arresto dello sviluppo psicosessuale. Poi; nella società omofobica americana degli anni
’50 e ’60, la maggior parte degli psicoanalisti postfreudiani sosteneva che l’uomo è
costituzionalmente eterosessuale e che l’omosessualità è una sorta di ritiro patologico,
difensivo e fobico della paura di castrazione.
Nel 1973, l’associazione psichiatrica americana decide ufficialmente di cessare di considerare
l’omosessualità come una patologia eliminando dal DSM la diagnosi di «omosessualità
egosintonica» e successivamente anche quella di «omosessualità egodistonica». Nel 1993,
anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità elimina dal suo sistema ICD l’omosessualità
distonica. Solo a partire dalla metà degli anni ottanta, la comunità psicoanalitica, sulla spinta
anche delle nuove ipotesi sull’origine biologica dell’omosessualità, si orienta verso la
depatologizzazione e il progressivo abbandono dell’approccio terapeutico direttivo suggestivo,
volto a mutare l’orientamento sessuale dei pazienti.
Ad oggi esistono diverse teorie psicologiche sull’omofobia:
• Lingiardi (1997) osserva come con Freud si sia spostato il fuoco della ricerca
sull’omosessualità dal piano fisiologico a quello psicologico, mentre attualmente si
tende di nuovo a maggiore enfasi agli aspetti biologici costituzionali e ambientali,
eccedendo spesso nel riduzionismo biologico;
• Isay (1989) nota un atteggiamento che riguarda uomini, aggressività evocata da ansia
relativa alla femminilità percepita in loro o in altri uomini (mascolinità intesa come
superiore alla femminilità);
• Eleuteri, Lingiardi (2008): credono che l’omosessualità maschile sia stata sempre
collegata alla femminilità. Nel loro articolo analizzano come storicamente il ruolo di
genere degli uomini gay sia stato influenzato da stereotipi di genere derivati da un
approccio binario (M/F) di tipo eteronormativo. Vengono presi in esame il concetto di
mascolinità e le interpretazioni culturali che in occidente hanno influenzato alcune tra
le più popolari rappresentazioni dell’omosessualità maschile. Inoltre, hanno descritto
vari modelli di performità “maschile”, con particolare attenzione alla figura del bear,
letta come “costruzione sociale” e al tempo stesso “ideale” di mascolinità.
• Eleuteri, Fabrizi, Simonelli (2009): analizzano come storicamente il ruolo di genere
delle donne omosessuali sia stato influenzato da stereotipi di genere dovuti
all’eteronormatività. L’ “invisibilità sociale” delle lesbiche e la stigmatizzazione delle
componenti sessuali femminili sono state studiate come importanti variabili nel
mantenere le categorie eteronormative nell’esperienza lesbica. Recenti studi sembrano
tuttavia aver trovato nella comunità lesbica modalità più flessibili e personalizzate di
attualizzare gli stereotipi di genere. L’ipotesi di una maggiore “plasticità erotica” nelle
donne rispetto agli uomini potrebbe essere un’importante chiave di lettura per
sottolineare l’influenza che i fenomeni culturali assumono nella costruzione dei ruoli di
genere nella popolazione omosessuale.
Gli stereotipi sociali correnti individuano due tipi di caratteristiche:
• Caratteristiche maschili come l’intraprendenza, la determinazione, la freddezza, la
razionalità, l’assertività, ecc. Percepite come un riferimento maggiore per poter
dominare e raggiungere il successo;
• Caratteristiche femminili come l’affettività, la tenerezza, la sottomissione, la
comprensione, l’empatia, l’intuizione, il senso estetico, il piacere sensuale, l’amore per
le arti, la spiritualità, percepite spesso come limitanti e considerate più adatte alla
donna, destinata ad un ruolo sociale subalterno e complementare all’uomo.
Lingiardi (1997) distingue due tipi di omofobia:
• Omofobia esterna: che riguarda l’omofobia degli eterosessuali nei confronti degli
omosessuali;
• Omofobia internalizzata/internalizzata: relativa all’esperienza di odio di sé
sperimentata dagli omosessuali. Essa si manifesta tramite una serie di comportamenti:
• Accettazione, da parte di una persona omosessuale, degli atteggiamenti negativi della
società nei confronti delle persone omosessuali, o accettazione della società
eterosessista (Hudson & Ricketts, 1980);
• Atteggiamenti contro la propria omosessualità, contro l’omosessualità in generale e
contro quella degli altri, e reazioni avverse al fatto che gli altri sanno della propria
omosessualità (Nungessere, 1983; Shidlo, 1994);
• Pregiudizi su di sé di omosessuali o bisessuali che hanno interiorizzato gli
atteggiamenti e le convinzioni negative sulla propria non-eterosessualità (Greene, 2000;
Herek, 2009);
• L’insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi (dal disagio al disprezzo) che una
persona omosessuale può provare (più o meno consapevolmente) nei confronti della
propria (e altrui) omosessualità.
L’espressione dei tratti femminili in un uomo è consentita e anche apprezzata solo per
particolari categorie (artisti, addetti al mondo dello spettacolo ecc.) e in particolari ambiti e
circostanze, come ad esempio nell’accudimento dei figli. È condiviso un differente
apprezzamento sociale per il «maschile» e il «femminile». Quando poi è la sessualità di un
uomo ad essere orientata in senso «femminile», alla svalutazione può aggiungersi anche un
odio difensivo, che si esprime con disprezzo e dileggio
L’omofobia è quindi da ritenersi una costruzione sociale e culturale.
La famiglia e i pari svolgono un ruolo determinante nello sviluppo e nell’interiorizzazione di
sentimenti omofobici, soprattutto nei confronti dei bambini di sesso maschile
Anche a scuola, il bambino viene isolato se utilizza comportamenti e modi di essere considerati
non accettabili socialmente per un maschietto
Plummer (2001) ha descritto gli epiteti dispregiativi più utilizzati tra i pari riferibili alla
mancanza di mascolinità, per esempio «faggot» o «poofter» (traducibili come equivalenti
volgari di omosessuale, come «finocchio», ecc.).
Un ragazzo che si sente attratto da persone dello stesso sesso vivrà la fase adolescenziale con
particolare difficoltà e angoscia. Sarà portato infatti a reprimere le pulsioni affettive e sessuali
e le proprie tendenze, mostrando una «normalità» inesistente, per non subire la
stigmatizzazione sociale, caratterizzata spesso da dileggio dei pari, emarginazione,
discriminazioni, violenze e abusi.
L'attuale situazione sociale per lesbiche, gay e bisessuali (LGB) rappresenta un problema per
l'Unione europea. Essi sono vittime di discriminazione, bullismo e molestie in tutta l'UE. Ciò
spesso si traduce in affermazioni umilianti, ingiurie e insulti o nell'utilizzo di linguaggio
offensivo nonché, cosa che suscita maggiori preoccupazioni, in aggressioni verbali e fisiche.
In media oltre la metà dei cittadini dell'UE ritiene che la discriminazione basata
sull'orientamento sessuale sia diffusa nel proprio paese.
Per contrastare la discriminazione e la violenza, il Miur (Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca) si muove nella direzione dell’educazione all’affettività e alla
tutela dei diritti. È stata anche di fatti istituita la giornata mondiale contro l’omofobia e la
transfobia il 17 maggio; durante questa giornata si diffonde su tutto il territorio nazionale il
tema del contrasto alle discriminazioni e alla violenza relativa all’orientamento sessuale e
all’identità di genere. Il fine degli interventi di promozione e tutela dei diritti è quello di:
- educare all’affettività e alla sessualità;
- contrastare il bullismo omofobico;
- coinvolgere degli adulti di riferimento.
È utile proporre questi interventi principalmente:
• nella scuola, in quanto luogo di scoperta del proprio orientamento ma anche di
relazione tra pari;
• con gli adulti, per favorire un’interazione generazionale e un coinvolgimento con varie
modalità di narrazione da parte di soggetti di età diverse portatori della «diversità».
Tra le tecniche di educazione nell’ambito della promozione della salute e nella prevenzione
dei comportamenti a rischio specifiche per l’età evolutiva troviamo:
• Peer e dispeer education: alcune persone opportunamente formate (i peer educator)
intraprendono attività educative con altre persone loro pari, cioè simili a loro quanto a
età, condizione lavorativa, genere sessuale, status, entroterra culturale o esperienze
vissute.
• Life skills education: il termine di life skills (“Ls”) viene generalmente riferito ad una
gamma di abilità cognitive, emotive e relazionali di base, che consentono alle persone
di operare con competenza sia sul piano individuale che su quello sociale.
• Empowerment e self empowerment: con il termine empowerment viene indicato un
processo di crescita, basato sull’incremento della stima di sé, dell’autoefficacia e
dell’autodeterminazione per far emergere risorse latenti e portare l’individuo ad
appropriarsi consapevolmente del suo potenziale. Per self empowerment si sostiene che
rafforzando l’autostima e la fiducia in se stessi, gli individui possano poi prendere
decisioni positive sulla propria salute e sviluppare le abilità per agire di conseguenza.
OMOGENITORIALITA’
La transizione da coppia a genitori rappresenta di per sé un processo difficile e talvolta
stressante, contraddistinto da un incremento della tensione tra responsabilità lavorative e
familiari. La progettualità a diventare genitore, soprattutto per le persone gay e lesbiche, non è
di certo il momento più facile. Anzitutto perché bisogna scegliere il percorso che non è sempre
è tutelato dalla legge italiana, poi, perché lo stigma sessuale interiorizzato, così come
l’omofobia sociale, può portare alla creazione di sentimenti negativi verso non solo la propria
sessualità, ma anche verso le proprie competenze genitoriali.
Le vicende politiche stanno portando alla ribalta il dibattito sul matrimonio omosessuale e sulla
legittimità che coppie dello stesso sesso abbiano figli o li adottino, anche a seguito del disegno
di legge approvato recentemente in Francia. Parliamo di “omogenitorialità”, ovvero della
possibilità per le coppie gay di crescere, con modalità diverse, un figlio che possa essere
biologico per uno dei genitori o adottato. La posta in gioco è di grande rilevanza perché c’è chi
sostiene che queste forme di relazione e filiazione tendano a sovvertire le basi sulle quali si è
costituita la cultura occidentale (Cigoli & Scabini, 2013).
Le principali argomentazioni e pregiudizi contro il percorso della coppia omosessuale per
accogliere un figlio sono:
→ Ritenere il genere un costrutto sociale è un approccio riduzionista in quanto denega la
differenza anatomo-biologica (scissione io corporeo/io psichico);
→ Società costituita da ibridi, svalutazione del corpo e delle sue funzioni;
→ Il diniego delle differenze di genere è all’origine dei problemi relazionali;
→ Le riviste che pubblicano review di ricerche sulla genitorialità omosessuale vanno
incontro a bias metodologici che includono il non prendere in considerazione terzi come
insegnanti e chi è vicino al bambino emotivamente e fisicamente.
In realtà però, il riconoscimento giuridico, non solo potrebbe ridurre i livelli di omonegatività
sociale e interiorizzata, quanto potrebbe avere effetti benefici sulla stabilità della coppia.
Inoltre, a suddivisione dei compiti e degli oneri in base al sesso che i modelli culturali
forniscono condiziona fortemente le modalità organizzative delle coppie e delle famiglie
eterosessuali, mentre eserciterebbe una pressione notevolmente inferiore in quelle
omosessuali.
Studi condotti focalizzati su abilità genitoriali e benessere psicologico con campioni maggiori
di madri lesbiche e minori sulla paternità gay (maggiori padri di figli nati da precedenti unioni
eterosessuali). Non vi sono differenze significative nelle abilità di parenting, disturbi
psichici tra coppie omossessuali e eterosessuali. Unica differenza rilevante nel minority
stress (ossia lo stress legato all’appartenenza ad una minoranza).
Per famiglie omogenitoriali si intendono tutte quelle famiglie caratterizzate dalla presenza di
due individui che condividono lo stesso orientamento sessuale o dalla presenza di almeno una
persona gay o lesbica impegnata nella crescita di un figlio
Tali nuclei possono assumere diverse forme:
- Famiglie pianificate dalla coppia;
- Famiglie ricomposte in seguito ad una separazione;
- Famiglie composte da una doppia coppia genitoriale, gay e lesbica.
Kurdek (2001) svolse uno studio in cui confrontò coppie gay/lesbiche conviventi senza figli e
coppie eterosessuali sposate con figli. Secondo i risultati di tale studio, per il 50% non vi sono
risultati differenti, per il 78% si nota un maggior funzionamento dei partner omossessuali
rispetto agli eterosessuali. L’unica area carente per coppie omosessuali è la percezione del
supporto sociale da parte della famiglia d’origine.
Uno degli stereotipi più diffusi è che la divisione dei ruoli nelle coppie omossessuali imiterebbe
quelle delle coppie eterosessuali. Avviene, invece, tutto il contrario: le coppie omosessuali
negoziano e discutono in maniera maggiore sulla distribuzione di compiti domestici,
condividono maggiormente la cogenitorialità e decisioni importanti per la famiglia.
L’11 Maggio 2016 è stato proposto per la prima volta in Italia un disegno di legge, il ddl
Cirinnà, il quale riconosce diritti e doveri delle coppie omosessuali che vogliono unirsi
civilmente e delle coppie eterosessuali e omosessuali che non vogliono sposarsi, ma solo
registrare la loro convivenza. La prima firmataria è la senatrice del Partito democratico Monica
Cirinnà, da cui il ddl prende il nome. Per stipulare un’unione civile, le due persone devono
essere maggiorenni e recarsi con due testimoni da un ufficiale di stato civile. L’ufficiale
provvede alla registrazione. Non possono contrarre l’unione civile persone già sposate o che
hanno già contratto un’unione civile; persone a cui è stata riconosciuta un’infermità mentale o
persone che tra loro sono parenti.
Le due persone che hanno contratto l’unione civile devono indicare che regime patrimoniale
vogliono (comunione legale o separazione dei beni), un indirizzo di residenza comune e
possono assumere un cognome comune che può anche sostituire o affiancare quello da celibe
o nubile. Come nel matrimonio, “le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi
doveri. Dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla
coabitazione. Entrambe le parti sono tenute a contribuire ai bisogni comuni”. Per sciogliere
l’unione civile si deve ricorrere al divorzio.
Nel ddl vengono però escluse le adozioni: il ddl non prevede che una coppia omosessuale
possa adottare un bambino "terzo”, ovvero che non abbia alcun legame con uno dei due partner,
e dal decreto è stata esclusa anche la possibilità della "stepchild adoption", l'adozione del
bambino che è già riconosciuto come figlio di uno dei due coniugi, presente nella prima
versione del testo e poi eliminata prima della votazione di febbraio. Il 22 Giugno la Cassazione
ha comunque approvato questa possibilità…
A differenza delle teorie psicanalitiche che sostengono una vecchia concezione
dell’omosessualità come malattia mentale o come complesso non risolto, le teorie
costruttiviste si basano su gender studies e queer theory in cui il genere è un mero costrutto
sociale.
Il pregiudizio omofobico può spesso avere effetti deleteri sulle persone appartenenti a
minoranze sessuali ed anche sui loro figli. In letteratura, si parla appunto di bullismo omofobico
per definire quelle situazioni in cui una persona gay o lesbica, o che appartiene ad un nucleo in
cui almeno uno dei genitori è omosessuale, o una persona che non risponde perfettamente ai
canoni socialmente condivisi di mascolinità e femminilità, subisce vessazioni di natura fisica
e/o verbale e/o psicologica da parte di una o più persone. Le vessazioni sono sistematiche,
continue nel tempo e creano un reale squilibrio di potere fra autore e vittima.
Gli individui perpetratori delle vessazioni, sfruttando e restando incastonati negli stereotipi
sociali, agiscono poiché si sentono in qualche modo legittimati dalla società e spesso anche
dagli insegnanti che altresì ignorano questo fenomeno.
Riconoscere questo fenomeno ed accogliere la vittima può essere pertanto un buon inizio per
fronteggiare il problema, mostrandosi in altre parole una base sicura aiuterà la vittima a non
sprofondare nei suoi sentimenti di vergogna ed inadeguatezza. La persona vittimizzata,
sentendosi esclusa, inferiore, invisibile agli occhi degli insegnanti, per via di modalità errate
di affrontare il problema, può interiorizzare questa valutazione di sé e quindi creare
un’immagine negativa di sé. Se dunque si rinforza, già a partire dalle scuole di grado più basso,
un’educazione che non trasmetta stereotipi legati al genere e alle configurazioni famigliari
probabilmente servirebbe a fornire più possibilità di interiorizzazioni positive per i bambini e
le bambine, aprendo in questo modo un’ampia finestra su nuove prospettive possibili.
In conclusione, le società eterosessiste influenzano le persone, indipendentemente dal loro
orientamento sessuale. L’uguaglianza del diritto al matrimonio può costituire un primo passo
per ridurre lo stigma sociale che le persone lesbiche e gay e i loro figli affrontano nel corso
delle loro vite, rafforzando in tal modo l’accettazione e il supporto.
DIVERSITY MANAGEMENT
Il termine diversity management si riferisce all'impegno sistematico e pianificato da parte
delle organizzazioni di reclutare e trattenere dipendenti con background e capacità
diversificate. Si tratta di un'attività che si trova principalmente all'interno dei domini di
formazione e sviluppo delle gestioni delle risorse umane delle organizzazioni» (Betters-Reed-
Moore, 1992; Thomas, 1992).
Il Diversity Management emerge come esito di un itinerario che ha avuto inizio negli Stati
Uniti a partire dagli anni Sessanta, quando l’irrompere sulla scena sociale e politica del Civil
Rights Movement eleva il tema delle diversità a questione centrale del dibattito pubblico
americano e dà avvio alle politiche di affirmative action.
Negli anni Novanta il Diversity Management approda nel contesto europeo. Le spinte che
permettono tale approdo sono riconducibili a tre traiettorie:
• La pressione di alcuni gruppi di influenza verso misure di contrasto alle discriminazioni
razziali;
• L’influenza della Commissione Europea nel sostenere misure di contrasto alle
discriminazioni in generale e in particolare in accesso al mercato del lavoro;
• La risonanza del Diversity Management all’interno delle aziende multinazionali che, a
partire dal modello americano, cominciano ad adottare tale paradigma.
Da un punto di vista generale o di scenario le organizzazioni che si accostano alla gestione
delle diversità devono tenere presente un dilemma fondamentale che non si può risolvere una
volta per tutte: la contraddizione possibile tra equità (e quindi il desiderio delle persone di
essere trattate in modo uniforme) e diversità (ovvero la capacità di comprendere quegli
elementi di differenza che possono aprire la strada a una eccezione in termini gestionali). Un
esempio per tutti, molto concreto: in molte realtà aziendali alla richiesta di part time o di
telelavoro per un periodo particolare, viene risposto che la cosa non è fattibile perché altrimenti
tutti la richiederebbero. Si badi bene che questo è un atteggiamento molto diffuso anche da
parte sindacale per il presidio, appunto, dell’equità.
Questo approccio organizzativo considera le persone come risorsa fondamentale per il successo
aziendale e riconosce in esse l’esistenza di molteplici diversità tra le quali:
• Le diversità primarie: genere, età, razza/etnia, disabilità dalla nascita, orientamento
sessuale;
• Diversità secondarie: situazione familiare, cultura/nazionalità, lingua, disabilità
dovuta a incidenti o malattie, religione);
• Diversità organizzative: esperienze lavorative, anzianità lavorativa, competenze,
ruolo).
Inoltre, ritiene che l’adozione di un sistema di gestione delle risorse umane che prevede
l’imposizione di soluzioni uniformi per tutti i lavoratori/trici non rappresenti la scelta strategica
più efficiente per ottenere il massimo impegno dalle persone.
Sono 3 i motivi che spingono le aziende a percorrere la strada del diversity management:
• Economia, perché la valorizzazione dell’eterogeneità si è rivelata fonte di innovazione,
così come la differenziazione della forza lavoro rappresenta uno strumento che rafforza
la competitività e la capacità di individuare servizi e prodotti che rispondano ai bisogni
di consumatori/utenti diversi.
• Produzione, perché le azioni di diversity management possono agire sia sul senso di
appartenenza e identificazione della forza lavoro – riducendo il tasso di turn-over e di
assenteismo – sia concorrere alla creazione di un miglior ambiente di lavoro –
riducendo i tassi di conflittualità interna. Miglior ambiente di lavoro, perché si abbassa
il contenzioso legato all’impugnazione di licenziamenti o di altri atti ritenuti
discriminatori, temi entrambi valutati con grande attenzione dai Tribunali.
• Immagine, perché le società possono valorizzare la propria capacità di composizione
e gestione della forza lavoro, con effetti sul piano reputazionale e sulla capacità di
attirare talenti. Nella pratica, le iniziative riconducibili al diversity management sono
svariate: dalle strategie di reclutamento, volte a modificare la composizione della forza
lavoro in un’ottica di maggior eterogeneità (per esempio, prevedendo obiettivi di
reclutamento che favoriscano il gender-mix), ai programmi di formazione per
aumentare le competenze necessarie a creare un ambiente di lavoro inclusivo, passando
attraverso l’elaborazione di processi di valutazione e di incentivazione che tengano in
considerazione le diversità presenti in azienda (per esempio, costruendo sistemi di
remunerazione variabile che non penalizzino le lavoratrici assenti per maternità) e,
infine, le iniziative per favorire la conciliazione vita-lavoro o i sistemi di welfare.
L’azienda, una volta scelto il Diversity Management come approccio organizzativo, definisce
le dimensioni di diversità che vuole affrontare in modo “mirato” e stabilisce la logica strategica
che ritiene più opportuno utilizzare per gestirle:
• “Conformarsi”: la gestione di una diversità o della risoluzione di una criticità connessa
alla gestione di una diversità viene realizzata per rispondere a obblighi di legge o per
evitare pubblicità negativa o per evitare, o ridurre al minimo, i costi che possono
derivare da una cattiva gestione di quella diversità (es. costi connessi a conflitti,
problemi di comunicazione, mancanza di integrazione e collaborazione);
• “Creare valore”: la gestione di una diversità o della risoluzione di una criticità
connessa alla gestione di una diversità viene realizzata per aumentare la competitività
delle persone, dei gruppi di lavoro e dell’azienda nel suo complesso o per evitare di
veder ridotta la motivazione, la soddisfazione, il commitment e la produttività dei
lavoratori/trici, creando le necessarie condizioni di lavoro per permettere a ciascuno di
dare il meglio di sé.
A seconda della logica strategica adottata e degli obiettivi strategici di gestione che l’azienda
si prefigge di raggiungere verranno realizzati interventi diversi che potranno tradursi
operativamente in attività di sviluppo della motivazione dei lavoratori, di sviluppo della
capacità di apprendimento dell’organizzazione (disponibilità al cambiamento), di gestione
della sostenibilità dell’azienda e della responsabilità sociale, di gestione dell’equilibrio fra
lavoro e vita privata (work-life balance –WLB-), di gestione dell’attrattività
dell’organizzazione sul mercato, di gestione dei talenti e trattenimento delle persone chiave, di
gestione della flessibilità organizzativa, di gestione della
globalizzazione/internazionalizzazione nonché in attività per il miglioramento della
comunicazione interna e della leadership.
EMPLOYER BRAND RESEARCH 2021
È uno studio che vede coinvolto un campione di oltre 190mila intervistati di 34 paesi del mondo
ed evidenzia come la valorizzazione dell’inclusione e della diversità siano tra i fattori più
importanti nella scelta del datore di lavoro, soprattutto per i giovani e per chi ha
un’istruzione elevata.
Per riuscire ad ottenere questi risultati, il Diversity Management mette in atto azioni volte a
una più efficace pratica inclusiva in azienda: alcune iniziative diventano così fondamentali.
Fra queste:
• interventi sul recruiting per rendere la forza lavoro quanto più eterogenea in relazione
a genere, età, disabilità, nazionalità, religione, orientamento sessuale;
• programmi di formazione sui temi legati alla diversity per aumentare il livello di
inclusività dell’ambiente di lavoro e dei dipendenti;
• attività di team building, mentoring e networking per fluidificare i processi interni.
I PASSI DEL DIVERSITY MANAGEMENT
• Analisi della situazione aziendale (indagini quali-quantitative su personale, mappatura
contratti e modalità di lavoro, analisi modalità gestione personale, analisi cultura
aziendale).
• Interesse e impegno del vertice aziendale (sostegno e sponsorship del vertice aziendale
sono condizioni necessarie per garantire il successo del cambiamento).
• Responsabilità dell’intervento (identificare un responsabile, il gruppo di lavoro e i
servizi di supporto).
• Identificazione delle aree critiche (diversity audit) (al fine di identificare le aree
critiche sulle quali intervenire).
• Definizione degli obiettivi (gli obiettivi devono essere misurabili tramite indicatori).
• Progettazione delle azioni.
• Monitoraggio finale e in itinere dei risultati
Il principio di parità tra uomo e donna (Direttiva 2006/54/CE) prevede che la donna possa
accedere a qualsiasi lavoro ricevendo lo stesso trattamento e la stessa paga di un uomo al
medesimo livello. Questo diritto è in molti casi, purtroppo, ancora solo teoria: il gender gap è
ancora molto radicato in ogni sfera pubblica e privata.
Per colmare il Gender Gap nel mondo potrebbero volerci 135,6 anni: secondo il GLOBAL
GENDER GAP REPORT 2021 del WORLD ECONOMIC FORUM la capacità di colmare
le differenze fra uomini e donne a livello mondiale è del 68%.
In Italia la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea
del 19,6%. Francesca Bettio, professoressa di Economia e Politica del lavoro dell’Università
di Siena, fra le fondatrici di In Genere: «Nel loro complesso le donne italiane godono di una
minore autonomia finanziaria».
L’elenco delle motivazioni che portano alle differenze di reddito è lungo – spiega Bettio - Le
donne sono più istruite, ma la maggior istruzione non riesce a compensare una serie di fattori
a loro sfavore. In particolare, tendono a fare meno carriera e soffrono ancora di una
distribuzione meno favorevole rispetto ai mestieri e ai settori con le retribuzioni più alte. Sono
meno presenti nel mondo della finanza, fra manager, scienziati ed esperti informatici. Sono
molto numerose nel settore della cura alla persona o nelle pulizie.
Spesso, senza essere consapevoli delle conseguenze che ciò comporterà, cadono nel tranello
della cosiddetta segregazione occupazionale: scelgono lavori più adatti allo stereotipo
femminile (dall’insegnante alla parrucchiera, dalla cassiera alla segretaria) caratterizzati da
retribuzione bassa e scarsa prospettiva di carriera, ma più compatibili con la gestione delle
responsabilità familiari. Magari perché garantiscono vicinanza a casa, orari di routine,
possibilità di part time o di interruzione del lavoro e assenza di trasferte. Tutto ciò che permette
insomma di tenere assieme professione e famiglia. Ma tale compatibilità ha un costo elevato.
Il virus SARS-CoV-2 - Covid o Coronavirus che dir si voglia - ha colpito tutto il mondo, ma
ci sono state categorie più colpite delle altre. Le donne, se ad un primo stadio risultano meno
colpite dal virus stesso, si sono ritrovate esposte su molteplici fronti, come quello economico,
lavorativo e familiare.
La pandemia ha infatti amplificato le disparità esistenti, portando indietro i progressi fatti negli
ultimi anni. L’impatto economico del virus è stato grave, e secondo le Nazioni Unite le donne
potrebbero soffrirne molto di più; prima di tutto, perché ci sono molte meno donne che
lavorano: il 94% degli uomini tra i 25 e i 54 anni ha un’occupazione, contro il 63% delle donne
nella medesima fascia di età. Inoltre, quando lavorano, queste ultime hanno uno stipendio
minore e l’aspetto economico-lavorativo non è l’unico ambito di sofferenza per le donne
poiché anche la sfera sociale ne risente in modo preoccupante. Durante il periodo di lockdown
c’è stata una maggiore esposizione alla violenza di genere dovuta alla coesistenza domestica
obbligatoria. In Cina il numero di casi di violenza domestica nella prefettura di Jingzhou
(provincia di Hubei) è raddoppiato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Alcune delle possibili cause del gender pay gap sono strettamente legate alla cultura dei
singoli paesi, con un filo rosso però che è quello di un ruolo stereotipato di curatrice della
casa e della famiglia spesso attribuito alle donne e che le tiene lontane dall’intraprendere
carriere impegnative o che le conducano a posizioni apicali. In altri casi si tratta di
considerazioni più tecniche legate, per esempio, al tipo di occupazioni svolte dalle lavoratrici
donne, per lo più classificabili come high touch, cioè, semplificando molto, come lavoro
manuale e per questo mediamente meno retribuite rispetto al lavoro qualificato a prevalenza
maschile. Rari sono invece, ma comunque presenti, i casi in cui la differenza di salario tra
uomini e donne è legata a forme di abuso, violenza, mobbing a danno delle lavoratrici.
Esistono diverse strategie per ridurre il gender gap:
1. Stabilire un obiettivo che fissi un numero più elevato di donne ai livelli più alti
della gerarchia – se è vero che molte aziende stanno già attuando questa strategia,
questo goal dovrebbe essere più sponsorizzato e, parimenti, più audace, stabilendo cioè
degli obiettivi fissi e certi quando si pianificano le assunzioni;
2. Compilare liste di assunzioni o promozioni – è stato dimostrato che, se all’interno
dei reparti delle risorse umane venissero indicate delle liste con la richiesta di un
numero specifico di donne, ci sarebbe una probabilità molto più elevata che vengano
assunte effettivamente più donne;
3. Compiere operazioni di educazione di genere – se tutti i dipendenti di un’azienda
ricevessero, attraverso giornate apposite, eventi, comunicazione interna e altre
strategie, un’educazione continua sul tema delle questioni di genere, i pregiudizi si
diffonderebbero in misura nettamente minore;
4. Stabilire criteri di valutazione chiari – nel momento in cui si attuano delle operazioni
di controllo e revisione della composizione dei dipendenti, i criteri di valutazione da
fissare devono essere sempre chiari e di facile consultazione. Ciò sottolinea la necessità
che le imprese mettano in atto ulteriori garanzie per incoraggiare valutazioni eque e
imparziali: impiegati che occupano lo stesso ruolo devono essere giudicati allo stesso
modo, specialmente quando si effettuano nuove assunzioni;
5. Formare al management quante più donne possibile – è fondamentale che le donne
acquisiscano l'esperienza di cui hanno bisogno per essere pronte per i ruoli di gestione,
nonché che possiedano la possibilità di migliorare il loro profilo professionale in vista
di una promozione o di un passaggio di livello. Le basi per realizzare questo punto non
sono nuove, ma c’è bisogno che vengano implementate in maniera urgente e immediata.
Nel Decreto Legislativo n. 216/2003 in termini generali, una condotta del datore di lavoro può
essere considerata discriminatoria quando – a causa dell’orientamento sessuale – si fa
applicazione di regole differenti a situazioni comparabili, oppure applicazione di regole
identiche in situazioni diverse.
La discriminazione può essere:
• diretta: sulla base del suo orientamento sessuale una persona è trattata meno
favorevolmente rispetto a un’altra in una situazione simile;
• indiretta: una disposizione, un criterio o una prassi – apparentemente neutri – mettono
in posizione di particolare svantaggio le persone LGBTI per la sola ragione del loro
orientamento sessuale;
• “molestie”: comportamenti indesiderati sul luogo di lavoro, con lo scopo o l’effetto di
violare la dignità di una persona sulla base del suo orientamento sessuale e di creare un
clima ostile o addirittura intimidatorio, offensivo o umiliante.
Gli esempi – anche italiani – non mancano. Uno dei più interessanti è contenuto in un paper
del 2012 di Eleonora Patacchini, Giuseppe Ragusa e Yves Zenou. In un esperimento condotto
a Milano e Roma, gli studiosi hanno trovato che se un candidato a un posto di lavoro suggeriva
preferenze omosessuali nel proprio curriculum – per esempio attraverso periodi di tirocinio
in associazioni come “Arcilesbica Roma” oppure “Centro di Iniziativa Gay-Arcigay” – aveva
circa il 30% di probabilità in meno di essere richiamato per un colloquio. Questo valeva in
effetti soltanto per i candidati maschi omosessuali, mentre non sono risultati svantaggi
particolari di questo genere per le donne omosessuali. Come ricordano gli economisti, si tratta
di risultati coerenti con diverse altre ricerche condotte in passato, dove “esiste forte evidenza
di discriminazione contro i gay durante il processo di assunzione”. In uno studio precedente
realizzato in Svezia, per citare un altro caso, i maschi eterosessuali avevano ricevuto il 14% di
risposte in più rispetto ai loro colleghi omosessuali.
L'UNAR, col sostegno del PON Inclusione, sta sviluppando azioni a sostegno dell'obiettivo
specifico 9.2 "Incremento dell'occupabilità e della partecipazione al mercato del lavoro delle
persone maggiormente vulnerabili", anche in attuazione di quanto previsto nella Strategia
nazionale LGBT.
Gli interventi che si stanno portando avanti riguardano in particolare:
• "Realizzazione di un quadro informativo statistico su accesso al lavoro e condizioni
di lavoro di soggetti a rischio di discriminazione (persone LGBT, lesbiche, gay,
bisessuali, transgender)". Verrà realizzata un'indagine statistica sull'accesso al lavoro e
sulle condizioni di lavoro delle persone LGBT, con una particolare attenzione alla
specificità della condizione dei transessuali e transgender;
• "Benessere e salute delle persone transgender per la piena inclusione sociale". Dalla
collaborazione tra l’UNAR e l’Istituto superiore di sanità è nato Infotrans.it, online dal
25 maggio 2020, il primo portale istituzionale in Europa dedicato al benessere e alla
salute delle persone transgender, che fornisce informazioni indipendenti, certificate e
aggiornate per le persone transessuali, le istituzioni, i datori di lavoro, i lavoratori e
lavoratrici, per il superamento degli ostacoli burocratici legati al cambiamento di sesso
e alla fase di primo inserimento e/o di eventuale reinserimento nel mercato del lavoro
laddove emerga una reale esigenza a seguito del completamento del percorso di
transizione;
• "Linee guida sull'inclusione lavorativa e la valorizzazione dei lavoratori e delle
lavoratrici LGBT (diversity management) - Linee guida ONU" verranno veicolate le
linee guida ONU sul diversity management in modo da renderle accessibili agli
stakeholder ed ai lavoratori per offrire un focus specifico sul diversity management dei
lavoratori LGBT, sulla lotta ad ogni forma di disuguaglianza e sulla promozione
dell'inclusione e delle pari opportunità.
• "Accompagnamento all'autoimprenditorialità o alla creazione di nuove imprese
risolto alle persone transgender in condizione di fragilità e vulnerabilità" verranno
realizzate delle azioni pilota finalizzate alla sperimentazione di iniziative a sostegno
dell'imprenditorialità e dello start-up di impresa per le categorie a rischio di
discriminazione;
• "Azioni mirate a promuovere il sostegno e lo sviluppo di idee imprenditoriali e di
progetti che favoriscano la crescita occupazionale di persone transgender" saranno
sperimentate iniziative a sostegno dell'imprenditorialità delle persone transgender,
attraverso l'erogazione di incentivi economici atti a rimuovere le cause materiali della
discriminazione nell'accesso al lavoro;
• "Azioni per l'inclusione socio lavorativa di persone detenute LGBT, con particolare
attenzione alle persone transgender" verranno attivati specifici percorsi diretti
all'inserimenti o al reinserimento socio-lavorativo della popolazione detenuta
appartenente a gruppi vulnerabili, in particolare transgender;
• "Azioni di informazione e sensibilizzazione in tema di contrasto alle discriminazioni
per favorire l'inclusione socio-lavorativa delle persone LGBT" verranno realizzate
azioni di informazione e sensibilizzazione sul tema del contrasto alle discriminazioni
per dare maggiore e specifico risalto alle tematiche di inclusione socio-lavorativa delle
persone maggiormente vulnerabili.
La modellizzazione degli interventi di Diversity Management è resa difficile dalla necessità di
calare gli interventi all’interno della specifica realtà aziendale, nel concreto della sua
organizzazione e dei suoi processi di funzionamento, a partire dalla composizione della forza
lavoro e della sua stratificazione, così come dalla cultura aziendale e dal modo in cui questa si
esprime.
Un attento esame dei risultati di chi adotta specifiche politiche inclusive in azienda, rivela che
la diversity non è un problema da gestire, ma un’opportunità da far fruttare. Un team di lavoro
variegato è in media più performante di uno in cui predomina l’omologazione. Senza contare
che una strategia di gestione delle risorse umane inclusiva e attenta contribuisce a promuovere
un’immagine positiva del luogo di lavoro, attirando top talent provenienti da molteplici realtà
e favorendo un contesto dinamico.
Viceversa, un’azienda più rigida in tal senso, rischia non solo di impoverire il proprio team,
ma anche di essere percepita negativamente dal mercato e dei media. Coca- Cola, per fare un
esempio emblematico, ha fatto delle proprie politiche di gestione della Diversity una leva
comunicativa, sostenendo da anni i Giochi paralimpici e i Pride Days. Il tema in oggetto è stato
non a caso il leitmotiv della campagna media per il Super Bowl del 2014.
Il Diversity Management può produrre effetti largamente positivi solo laddove sia in grado di
sostenere il cambiamento attraverso l’apporto che ciascuna risorsa può conferire nell’affrontare
sfide, criticità e opportunità, sia interne che esterne all’organizzazione. Ben oltre dall’essere un
mero approccio di gestione della diversità riconducibile al miglioramento della comunicazione
tra le parti, il Diversity Management si configura come una modalità di azione complessa e
trasversale per la costruzione e il consolidamento del benessere organizzativo, un benessere
direttamente correlato al raggiungimento di condizioni diffuse di maggiore confronto, scambio,
flessibilità, condivisione, ma anche maggiore capacità di essere, per il settore pubblico,
permeabile alle spinte di innovazione e cambiamento orientate all’empowerment delle singole
specificità delle persone.
VIOLENZA SULLE DONNE
A lungo la violenza sulle donne, soprattutto in ambito domestico, è stata ritenuta talmente
naturale ed accettabile da risultare quasi invisibili, al punto da non essere previsti termini
precisi per descriverle non solo a livello legislativo, ma anche nel linguaggio comune.
La violenza di genere nasce dalla percezione sociale di una sostanziale disuguaglianza tra i
sessi, storicamente radicata nelle convinzioni e nelle pratiche sociali. Il modo sessuato di
leggere la realtà, costruito nel corso della storia, ha infatti contribuito ad una forte
discriminazione delle donne nei secoli. Il concetto di violenza di genere vuole appunto porre
l’accento sulle radici culturali e sociali del fenomeno e su un’idea ancestrale ben definita dei
rapporti gerarchici tra i sessi.
I principali contributi di tipo concettuale sono stati dati da:
Diane Russell – che ha riconosciuto al termine femminicidio una connotazione sessuata ed un
movente misogino, permettendo così di sviluppare una metodologia adatta a denunciare il
fenomeno.
Marcela Lagard – la quale ha rafforzato la matrice politicizzata del termine riconducendo al
contesto pubblico e istituzionale. Riconoscendo quindi la matrice politica, la Lagarde riconosce
la principale responsabilità nelle istituzioni statali e politiche, per non saper rispondere
efficacemente ai casi di uccisioni di donne, alle violenze perpetrate nei loro confronti, ma anche
alla mancata garanzia di condizioni di vita dignitose di una tutela dalle discriminazioni
quotidiane a cui le donne sono esposte proprio a causa del loro genere.
Il femminicidio andrebbe inteso non solo nel contesto della relazione binaria uomo – donna o
in quella relativa al patriarcato e alla violenza sulle donne; l’estensione del concetto andrebbe
allargata anche a tutte le dinamiche sociali che, sulla base di retaggi culturali o tradizionali,
mantengono una serie di atteggiamenti sociali inumani nei confronti delle donne, determinando
una reiterazione ereditaria di meccanismi oppressivi impossibili da reprimere.
L'Organizzazione delle Nazioni Unite sostiene con forza i concetti di uguaglianza e pari
dignità tra uomo e donna, inserendoli sia nella Carta Internazionale dei Diritti (che nel 1945
dispone la nascita dell'Organizzazione stessa), sia nella Dichiarazione Universale dei Diritti
dell'Uomo
Nel 1946 l'ECOSOC costituisce una commissione per lo status delle donne (interna alla
Commissione per i diritti umani).
Nel 1979 Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei
confronti delle donne (CEDAW): è stato possibile pervenire al pieno riconoscimento dei
diritti delle donne come diritti umani 1981. Scompare inoltre il delitto d'onore dal codice
penale italiano (suddetta legge comportava delle attenuanti e sconti di pena ai mariti nel caso
di assassinio della propria consorte a causa di una reale o supposta infedeltà della moglie).
Durante la Conferenza Mondiale di Pechino del 1995, i diritti umani delle donne vengono
inseriti definitivamente nell'agenda politica mondiale: non solo in merito al contrasto della
violenza, ma anche in relazione alle problematiche economiche, quali la povertà, l'ineguale
accesso alle risorse, la mancata possibilità di ricevere un'adeguata educazione che possa
consentire quindi al mondo femminile di raggiungere determinate posizioni di potere
In tempi più recenti, un efficace strumento di sensibilizzazione diffuso a livello
internazionale è rappresentato da UNITE, una campagna di sensibilizzazione promossa dal
Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon a partire dal 2008, che ha il fine di
prevenire ed eliminare la violenza nei confronti delle donne e delle bambine in ogni parte del
mondo.
La violenza fisica comprende ogni forma di intimidazione o azione in cui venga esercitata
una violenza fisica su un'altra persona. Sono compresi comportamenti quali:
spintoni, schiaffi, tirate di capelli pugni, calci, testate, cadute provocate colpire con oggetti
uso di armi da fuoco, uso di armi da taglio, strangolamento o altre forme di tentato omicidio,
rinchiusa in casa/altre forme di sequestro. Per violenza fisica non si intende solo un
comportamento che provochi danni fisici, ma qualsiasi azione che possa ferire o spaventare:
come atti intimidatori o minacce, che hanno lo scopo di esercitare una pressione e un
controllo sulla persona.
Vaste sono le tipologie e le modalità con cui la violenza psicologica può manifestarsi:
- tradimenti, menzogne, inganni;
- chiusura comunicativa persistente;
- rifiuto sistematico di svolgere lavoro domestico e/o educativo;
- controllo e gestione della vita quotidiana limitazione della libertà personale e di
movimento aggressioni verbali, denigrazione, umiliazione;
- ricatti;
- sottrazione/danneggiamento volontario di oggetti o animali;
- pedinamenti, inseguimenti;
- persecuzioni telefoniche e/o scritte;
- rifiuto di lasciare la casa coniugale;
- minaccia di violenza a famigliari, parenti, amici, conoscenti/ minaccia di sottrarre i/le
figli/e;
- minaccia di violenza fisica di morte;
- violenze su famigliari, parenti, amici, conoscenti.
Si parla di violenza sessuale per indicare ogni imposizione di pratiche sessuali non
desiderate. È opinione diffusa che questo tipo di violenza avvenga al di fuori delle mura
domestiche, in realtà i risultati di un’indagine Istat mostrano come essa sia presente quasi
quanto le molestie fisiche (Sabbadini in Rapporto Istat, Indagine sulla sicurezza dei cittadini,
1998). Si connotano come violenze sessuali anche le molestie e gli atti sessuali imposti dal
partner alla donna all'interno di una relazione stabile o del matrimonio ogni volta che non
sono consensuali o non sono condivisi.
Lo Stalking è una particolare tipologia di violenza che si verifica con una richiesta assillante,
indesiderata o respinta di relazione, frequentazione e contatto con la donna, da parte di un
conoscente, di uno sconosciuto, di un partner o di un ex partner.
Esso si manifesta principalmente nelle seguenti modalità:
• tormenti telefonici e invio assiduo e insistente di sms;
• tormenti con lettere o e-mail;
• pedinamenti diretti o commissionati;
• approcci fisici inattesi;
• invio massiccio e assiduo di oggetti e omaggi di vario genere;
• minacce manifeste o alluse.
La legislazione italiana connota i comportamenti persecutori come reato di rilevanza penale
attraverso il dettato della Legge 23 aprile 2009 N. 38.
Per violenza assistita da minori in ambito familiare si intende il fare esperienza da parte
del/lla bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza
fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure
affettivamente significative adulte e minori.
Si includono le violenze messe in atto da minori su altri minori e/o su altri membri della
famiglia, e gli abbandoni e i maltrattamenti ai danni degli animali domestici.
Il bambino può fare esperienza di tali atti direttamente (quando avvengono nel suo campo
percettivo), indirettamente (quando il minore ne è a conoscenza), e/o percependone gli effetti.
I media hanno effettivamente assunto un peso sempre più rilevante nella società; sono punti
di riferimento in grado di fornire modelli di comportamento, diventando una vera e propria
agenzia di socializzazione accanto a quelle tradizionali rappresentate, ad esempio, da famiglia
e scuola.
I media contribuiscono a costruire la realtà sociale, creando di fatto gerarchie di valori.
Per tale motivo gli studi di genere sui media sono stati numerosi, a partire soprattutto dagli
anni '60.
L'indagine realizzata nel 2006 da Censis nell'ambito del progetto europeo Women and Media
in Europe può aiutare a delineare la tipologia di donna maggiormente rappresentata dalla
televisione italiana. La quasi totalità delle figure femminili che compaiono nei palinsesti
appartengono al mondo dello spettacolo: il 56% sono attrici, il 25% cantanti, il 20% modelle.
Nelle trasmissioni di intrattenimento le caratteristiche relative agli stereotipi di genere
assumono un forte peso. Il presentatore è uomo nella maggior parte dei casi (58.1%), e lo
stile della sua conduzione è definito ironico (39,2%), malizioso (21,6%), un po' aggressivo
(21,6%). La donna presente all'interno delle trasmissioni è rappresentata soprattutto dal suo
corpo, valorizzato da costumi audaci, con inquadrature che insistono su scollature e
trasparenze quasi il 30% delle volte; solo nel 15,7% dei casi esaminati la donna è valorizzata
invece per le sue qualità professionali. Mentre gli uomini appaiono in quanto professionisti
(commentatori, esperti o portavoce nell'80% dei casi), le donne spesso appaiono in quanto
portatrici di sapere non esperto, come espressione dell'opinione popolare nel 57% e come
narratrici di un'esperienza personale nel 40% dei casi.
Non stupisce quindi che, la maggior parte delle volte in cui le donne appaiono in una notizia,
non sia il loro status professionale ad essere sottolineato, bensì la posizione sociale ricoperta
in quanto madri, casalinghe o pensionate.
Gli studi dimostrano che le donne vittime di violenza costano alla società più del doppio in
termini di accessi in Pronto Soccorso (PS), utilizzo di servizi quali gli ambulatori
ginecologici o del medico di medicina generale (MMG) e uso di psicofarmaci.
Nella quasi totalità dei casi, i maltrattamenti vengono agiti da parte dell'uomo nei confronti
della partner, sebbene sia possibile riscontrare alcuni casi, più rari, in cui la violenza è attuata
dalla donna sull'uomo.
Nel 70% dei casi chi fa violenza su una donna non bussa, ha le chiavi di casa. Per IVP
(Intimate Partner Violence) si intende un danno fisico, psicologico o sessuale perpetrato da
un/una partner a un/una ex – partner ai danni dell’altro. A livello mondiale si stima che l’IVP
e la DV (Domestic Violence) siano causa di disabilità grave o di morte tanto quanto il cancro
e che le dirette conseguenze, sia di natura fisica che psicologica, siano più rilevanti degli effetti
provocati da incidenti stradali e dalla malattia uniti insieme. Questi fenomeni rimangono ancora
largamente sottostimati e socialmente poco percepiti a causa di difficoltà delle vittime a
denunciarlo, scarsità delle indagini di vittimizzazione e di un’inadeguata formazione degli
operatori dei servizi che quotidianamente si imbattono nei casi di violenza domestica, come le
Forze dell’ordine, i servizi sociosanitari ed il sistema giudiziario.
Walker (1979) ha teorizzato quello che ha definito il ciclo della violenza, il quale è composto
da quattro fasi cicliche:
1. Crescita della tensione: l'aggressore inizia ad avvertire una tensione diffusa, è
agitato, teso, percepisce che qualcosa non va ma non sa dire cosa. Lo stato di
malessere viene incrementato da pensieri ossessivi, spesso di gelosia, relativi ad una
"fantasticata" infedeltà del/della partner o rimproveri colpevolizzanti, che provocano
ostilità ed anticipano l'aggressione vera e propria. Inizia nella vittima lo stato di
allerta;
2. Maltrattamento: la tensione accumulata precedentemente esplode nella violenza, con
atti sempre più gravi e in rapida escalation, fino a che l'aggressore non ha liberato
tutta la sua ira;
3. Luna di miele: l'ira si alterna ad episodi di calma. L'aggressore violento si sente in
colpa, si pente, teme reazioni da parte della vittima e si giustifica, prova a dare
spiegazioni del suo comportamento, promette di cambiare e cerca il perdono del/della
partner;
4. Scarico di responsabilità: al pentimento fa spesso seguito la ricerca della causa
dell'accesso di violenza. L'autore cerca le cause non dentro di sé, bensì nelle
circostanze esterne (per es. consumo di alcol, difficoltà sul lavoro) oppure presso il/la
partner: "Perché mi hai provocato?". La responsabilità viene scaricata e la colpa
attribuita ad altri. Molte donne e uomini colpiti da violenze si assumono questa colpa
e perdonano il partner pentito.
Le ricerche che sono andate ad indagare i fattori di rischio di IPV si possono distinguere in due
grandi filoni: indagini rivolte unicamente ad indagare la storia personale e le caratteristiche di
personalità della vittima o dell’autore e studi che hanno portato il loro focus sulla relazione e,
quindi, sul rapporto tra vittima e autore.
La letteratura ha sottolineato che gli autori di IPV non sono un gruppo omogeneo. Per questo
motivo è stato suggerito di utilizzare un modello multifattoriale per comprendere al meglio il
fenomeno in tutte le sue sfaccettature, le quali sono:
• Femminismo e sociopolitica: violenza maschile concettualizzata come l’uso del potere
e del controllo allo scopo di affermare i valori di privilegio sociale;
• Teoria dei sistemi: violenza inquadrata in un sistema interattivo in cui i pattern
relazionali di coppia interagiscono con i fattori contestuali (sociali, culturali, familiari
e individuali);
• Teoria dell’apprendimento sociale: violenza come pattern comportamentale appreso
all’interno della famiglia, della comunità, dei pari o della società;
• Biologia e psicobiologia: violenza come risultato di una serie di fattori intra –
individuali, come anomalie della struttura cerebrale, anormalità genetiche o sfalzati
livelli ormonali.
Le donne con storia di IVP hanno maggiori tassi di rischio per tutti i problemi di salute
mentale e sviluppano più facilmente depressione, sintomi di attacchi di panico, moderati
problemi del comportamento alimentare e ideazioni suicidarie; oltre a ansia generalizzata,
fobie, disturbo ossessivo compulsivo e disturbi correlati alle sostanze. Inoltre, le donne che
hanno subito IPV sono 3 volte più esposte a problemi ginecologici, che sono considerati il più
evidente segno di IPV.
Le prime ricerche riportavano che le donne fossero masochiste, che provocavano il loro
abusatore, restando volontariamente nella relazione. Nel 1970 la letteratura ha smesso di
puntare il dito sulla vittima soprattutto perché i sociologi hanno dimostrato che le influenze
socioculturali e socioeconomiche erano spesso responsabili. Le donne che dipendevano
economicamente dai loro partner violenti erano ad esempio meno portate a lasciare la relazione
e più inclini a tornarvi dopo aver tentato il distacco.
Strube (1988) ha proposto un modello a due stadi suggerendo che la donna prima si trova
intrappolata nella relazione abusiva (intrappolamento), poi tenta di far funzionare la relazione,
però i tentati falliscono e le violenze continuano e si sente quindi in dovere di giustificare gli
ultimi tentativi e continua a cercare di sistemare le cose (impotenza acquisita).
Per Teen Dating Violence si intendono tutte quelle "aggressioni fisiche o atti che causano un
danno e che includono l'abuso psicologico o emotivo, verbale e non, e che si verificano in
situazioni private o sociali che differiscono dalla violenza domestica principalmente per il
fatto che la coppia non è legata da vincoli di sangue o dalla legge" (Ely, 2002)
Uno studio condotto nel 2008 dall'organizzazione statunitense «National Council on Crime
and Delinquency» (NCCD) indica che i giovani vittime di violenza sono maggiormente
esposti al rischio di subire altre forme di violenza o di vivere esperienze di violenza in altri
rapporti stretti.
Da studi condotti a livello internazionale, il fenomeno coinvolge dal 20% al 60% degli
adolescenti sia per le forme agite che subite. Per quello che riguarda la violenza sessuale si va
dalle molestie verbali o scritte (il bullismo sessuale o la cyber-vittimizzazione sessuale),
passando dalle aggressioni fisiche come toccare le parti intime o baciare la vittima contro la
sua volontà, fino allo stupro tentato o compiuto. Alcune ricerche evidenziano come non
esistono differenze tra maschi e femmine nel coinvolgimento in comportamenti aggressivi.
Queste differenze emergono quando viene esaminata la violenza o molestia sessuale subita
che le femmine riportano, infatti, in modo significativamente più elevato dei maschi.
I dati relativi al 2014 forniti da Telefono Azzurro e Doxa confermano che di violenze in
adolescenza ce ne sono non poche, rispetto ai 1.500 ragazzi/e italiani/e che hanno contribuito
alla raccolta dati, la cui età è compresa tra gli 11 anni e la maggiore età. Da queste interviste è
risultato che nel 27% dei casi denunciati ai due enti c'è stata un'aggressione di tipo verbale
sotto forma di urla, mentre nel 13,9% ci sono stati insulti diretti al/alla partner. II 5,7% dei
giovani intervistati ha subito violenza fisica, stessa percentuale anche per le violenze
sessuali.
Ma come reagiscono ragazzi e ragazze alla violenza subita? Le ragazze riportano di reagire con
rabbia, dolore, umiliazione e paure; al contrario, i ragazzi affermano che il subire violenza li
lascia indifferenti o li fa ridere. In generale i giovani definiscono la violenza come qualcosa di
orribile e disprezzabile e lo stupro viene considerato come la forma di violenza più grave ed
umiliante.
I dati della violenza possono trovare spiegazione:
• in parte in relazione a una diversa socializzazione delle emozioni tra maschi e
femmine, per cui le femmine vengono maggiormente educate a esprimere le emozioni
negative e a parlarne, mentre i maschi sono indotti a reprimerle, valorizzando
piuttosto l'espressione del disagio attraverso l'aggressività;
• in parte sulla base delle ideologie di genere, i cui contenuti rimandano alle
prescrizioni normative su ciò che un maschio o una femmina dovrebbero fare o
essere. Così, per esempio, per le ragazze il mito della perfezione e della dipendenza
può avere un peso nella genesi dei disturbi alimentari, mentre l'assunto che l'uomo
debba mostrarsi forte e non chiedere mai aiuto può facilitare la manifestazione di
forme di comportamento antisociale e violento.
Genitori, educatori devono essere consapevoli della portata della violenza tra gli adolescenti
e dovrebbero essere pronti a discutere le relazioni di genere, la violenza e la relativa
sofferenza.
L'Italia ha approvato una legge contro il femminicidio (2013 n.119), che all'art. 5 prevede
l'adozione di un "Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere", con
l'obiettivo di disegnare un sistema di politiche pubbliche che integri dal punto di vista degli
interventi le previsioni di carattere penale contenuti nella legge.
Trenta milioni di euro da suddividere nel triennio 2013-15 secondo gli assi indicati dal Piano
come la valorizzazione dei progetti territoriali, la formazione degli operatori che
intervengono ai diversi livelli delle azioni previste nel Piano, azioni che permettano
l'emancipazione dalla vulnerabilità acuta delle donne maltrattate tramite percorsi di
inserimento lavorativo in collaborazione con la rete delle aziende territoriali nonché per
l'autonomia abitativa e soprattutto il sostegno agli strumenti di prevenzione culturale del
fenomeno della violenza con particolare riguardo al tema dell'educazione.
Il modo in cui i genitori si relazionano l'un l'altro fornisce al bambino esempi di come
funzionano le relazioni, di come funzionano i ruoli di genere e l'espressione delle emozioni,
della sessualità e della tenerezza.
LO STALKING
Lo stalking si esplica in comportamenti che angosciano e spaventano. Uno stalking
persistente, che può durare per settimane, mesi o addirittura anni, produce quasi sempre
notevoli danni sociali e psicologici per la vittima.
Lo stalking diventa, qualora sia persistente e continuativo, un'attività a tempo pieno che
spesso danneggia il funzionamento sociale, lavorativo e psicologico del molestatore.
Le azioni che sono contemplate nella definizione di stalking rappresentano una fonte di
disagio e di disturbo reale e concreta.
Lo stalking costituisce un prodotto del conflitto esistente tra il bisogno di un individualismo
senza vincoli e il desiderio di un'intimità idealizzata, la privacy nell'attuale società è
diventata una sorta di diritto e la simbolizzazione della stessa deriva proprio dal crollo dei
suoi confini, dovuto dalla tecnologia e dalla burocrazia.
I comportamenti dello stalker si configurano come veri e propri reati e si inquadrano
all'interno di una modificazione dei ruoli e delle aspettative delle donne nelle società
occidentali contemporanee. Una porzione significativa dei casi di stalking si costituisce come
il tentativo da parte di uomini di reinserire in maniera forzata le donne nel tradizionale ruolo
di accondiscendenza e di accettazione della costruzione maschile delle relazioni e del
corteggiamento.
L'ambito dello stalking non si ferma tuttavia all'inclusione delle "molestie maschili alle ex
partner, ma si estende per abbracciare un ampio ventaglio di intrusioni persistenti,
indesiderabili e temibili.
Si produce così una legislazione anti-stalking: la prima legge entra in vigore in California
nel 1991. Tale legge innesca un meccanismo a catena definito "valanga legislativa" dal
momento che tutti gli altri stati americani imitano la California.
In seguito, altri Stati del mondo anglosassone promulgano leggi e alcuni stati dell'Europa
continentale. Le descrizioni psicologiche e psichiatriche delle motivazioni dello stalker sono
accantonate a favore di una visione dello stalking come un altro esempio di affermazione
maschile del potere sulle donne attraverso modalità violente e intimidatorie.
I successivi studi si estendono anche a considerare le motivazioni e scelte dell'obiettivo
riscontrate presso gli stalker e una quota rilevante di stalker sottoposti a processo risultano
affetti da disturbi psicopatologici, spesso anche psicotici.
Molte delle molestie che avvengono sono il prodotto di contrasti nelle relazioni e spesso
riflettono primariamente il tentativo degli uomini di imporre alle donne le proprie volontà e
intenzioni.
Walker e Meloy (1998) affermano che lo stalking rappresenta spesso una strategia
intimidatoria e di controllo messa in atto dagli uomini per costringere le loro compagne a
continuare la relazione. In questa ottica lo stalking costituisce una estensione della violenza
domestica, in cui le donne figurano come vittime e gli uomini sono i molestatori.
Un indirizzo alternativo è illustrato dal lavoro di Harmon et al. (1995), che distinguono gli
stalker in funzione della natura del legame con la vittima. Viene così individuato uno stile di
attaccamento "persecutorio-irato". Tali stalker sono in prevalenza pazienti con caratteri degli
erotomani e anche personalità dai tratti narcisistici e paranoici che assillano i propri ex
partner.
Nella attuale società le relazioni intime sono sempre più un legame temporaneo piuttosto che
duraturo. Questa fluidità nelle relazioni e questa frequenza nello stabilire e dissolvere unioni
sarebbero state impensabili trent'anni fa. Coloro che decidono in modo unilaterale di porre
fine ad una relazione si potrebbero, in alcuni casi, esporre al rischio di trasformarsi in un
oggetto di molestie da parte dell'ex partner. Ciò che è cambiato con la categoria dello
stalking è il significato attribuito a tali comportamenti; le rotture delle relazioni divengono
più comuni e spingono le persone verso sentimenti di rabbia e frustrazione.
Lo stalking è una situazione che prevede una vittima e un molestatore, la vittima è cruciale
per lo stalking perché questo è essenzialmente un fenomeno definito dalla vittima.
Grazie alla paura e all'apprensione provocate nella vittima, i comportamenti vengono
trasferiti dalle categorie del disdicevole e del socialmente inadeguato in quelle del danno e
del reato. Se il comportamento soddisfa i criteri legali allora è un atto di stalking.
Si definisce "reato definito dalla vittima" poiché in alcuni ordinamenti giudiziari non è
necessario che esista l'intensione da parte del molestatore di provocare paura o angoscia. Lo
stalker potrebbe essere convinto infatti che i propri atti siano graditi dalla vittima.
Va ricordato infine che la maggior parte degli episodi di stalking sono una tragedia anche per
lo stalker stesso: lo stalker spesso consuma tanto tempo ed energia nelle molestie da
distruggere la sua vita sociale e lavorativa. Lo stalker rifiutato è il più delle volte un uomo
incapace di accettare la fine di una relazione sulla quale ha investito le proprie speranze per il
futuro. La comprensione dei molestatori richiede una certa capacità di entrare in empatia
con gli abbandonati, i dipendenti, gli inadeguati socialmente, i disturbati psichicamente e i
frustrati per la loro incapacità. Tale empatia risulta necessaria ai fini della comprensione dei
comportamenti di stalking, in modo da porre fine a tale reato, attraverso una corretta ed
efficace gestione dello stesso.
Il comportamento di stalking non costituisce un fenomeno nuovo (Meloy, 1999), tuttavia solo
nell'ultimo decennio si è presa coscienza delle conseguenze potenzialmente devastanti, e a
volte letali, di tale comportamento. Il dibattito contemporaneo sullo stalking si è sviluppato a
parte da tre prospettive differenti:
• Popolare;
• Giuridica;
• Scientifica.
L'essenza del costrutto di stalking rimane comunque la medesima: "ripetute, indesiderate
comunicazioni e/o intrusioni che vengono inflitte da un individuo a un altro e che
producono paura".
La diversità delle condotte è molto ampia e queste possono essere suddivise in tre grandi
categorie:
• Comunicazioni indesiderate;
• Contatti indesiderati come approcci diretti, pedinamenti e sorveglianza;
• Comportamenti associati che di solito accompagnano i comportamenti di stalking
(ad esempio invio di doni, richieste o annullamento di beni o servizi a nome della
vittima).
Le vittime di Molestie Assillanti ricoprono un ruolo centrale per la comprensione del reato di
stalking. Lo stalking, infatti, è riconosciuto come tale proprio per il suo impatto sulle vittime.
Solo ora si comincia a prendere in considerazione gli effetti e l'entità del danno provocato alle
vittime da una campagna di stalking. La letteratura sulle vittime dello stalking e sul loro
trattamento è limitata. Infatti, si hanno a disposizione conoscenze basate in gran parte
sull'esperienza clinica e sui resoconti delle molestie che provengono dagli studi
epidemiologici sulla popolazione generale.
Ci sono diversi tentativi di classificazione delle vittime di stalking, basati soprattutto sulla
relazione tra vittima e persecutore. Una tipizzazione più recente classifica le vittime non
solamente in base alla relazione prima delle molestie, ma anche rispetto al tipo di
molestatore e al contesto in cui le molestie si verificano:
• Vittime primarie (dirette): ex intimi, amici e conoscenze occasionali, contatti
professionali, altri contatti lavorativi, sconosciuti, personalità pubbliche.
• Vittime secondarie (indirette): familiari, amici, colleghi di lavoro o coinquilini
subiscono disturbi e danni.
• Asserzioni pretestuose di essere molestati: una minoranza di soggetti che
sostengono di essere vittime di molestie non hanno una base reale per farlo. Queste
rivendicazioni hanno origine di solito in menzogne consapevoli oppure in un serio
disturbo psicopatologico. Tra questi rientrano inversioni di ruolo, deliri di
persecuzione, chi ha subito veramente nel passato una storia reale di molestie
assillanti, disturbi fittizi, simulatori.
Gli alti tassi di idee suicidarie tra le vittime delle Molestie Assillanti sono di per sé
preoccupanti e mettono in evidenza il bisogno di una maggiore attenzione clinica nel
riconoscere l'entità della disperazione che può accompagnare l'esperienza di subire questo
implacabile assedio. Gli operatori della salute mentale devono riconoscere l'impatto a breve e
a lungo termine di questa forma di persecuzione cronica, per alleviare la sofferenza della
vittima e prevenire una disabilità nel lungo periodo. La sicurezza costituisce la priorità nel
trattamento delle vittime dello stalking, le quali hanno bisogno di un ambiente terapeutico
dotato di appropriate misure di protezione e con operatori sensibili e accorti circa la
riservatezza delle informazioni. Le vittime necessitano anche di un'atmosfera non
giudicante ed empatica. È essenziale, inoltre, che chi si occupa di questi pazienti abbia una
conoscenza completa del fenomeno e una piena consapevolezza del suo impatto.
Esiste una gamma di strategie disponibili alle vittime per scoraggiare i comportamenti
intrusivi dello stalking e le molestie:
1. Documentare: le vittime delle Molestie Assillanti dovrebbero, quando possibile,
tenere una documentazione di tutti gli episodi di molestie conservando prove come
regali sgraditi, lettere e nastri di segreteria telefonica, come pure dovrebbero salvare
su disco tutte le prove di molestie telematiche. Sarebbe anche opportuno annotarsi i
nomi ei riferimenti utili a rintracciare i testimoni questi eventi. La documentazione e
le prove andrebbero conservare in un luogo sicuro.
2. Evitare i contatti: è di fondamentale importanza che le vittime comunichino ai loro
molestatori, in una forma chiara e non ambigua, che ogni ulteriore contatto è sgradito
e deve cessare. Dopodiché, dovrebbero costantemente evitare ogni contatto o
confronto con i molestatori, poiché tali comportamenti sarebbero percepiti come un
premio ai loro sforzi. Le vittime devono capire che ogni ulteriore forma di
contrattazione e di discussione con il molestatore non porterà a una soluzione, anzi
potrà incoraggiare la prosecuzione dei comportamenti assillanti.
3. Informare la polizia: lo stalking è un reto e la polizia dovrebbe essere informata il
più precocemente possibile. Questo può essere l'unico mezzo per far cessare lo
stalking.
4. Informare le persone significative: non è prudente che le vittime di Molestie
Assillanti soffrano in silenzio e nell'isolamento. Dovrebbero, invece, informare i
familiari più significativi, compagni di lavoro e i vicini per ottenere il loro aiuto e per
impedire che essi, inavvertitamente, rivelino allo stalker informazioni personali sulla
vittima. Avvisare gli altri rende anche possibile a coloro che potrebbero essere a
rischio come vittime indirette di adottare le misure necessarie per proteggere la loro
incolumità.
5. Organizzazioni di sostegno: esistono diverse specifiche organizzazioni di sostegno
per le vittime di Molestie Assillanti e di stalking telematico, e diversi utili siti web. Le
vittime traggono vantaggio da una maggiore informazione sullo stalking che può
rafforzare il loro senso di competenza e diminuire il loro isolamento.
Nel trattamento delle vittime di Molestie Assillanti è necessario affrontare i sintomi post-
traumatici, i disturbi ansiosi e la depressione. I sintomi possono causare gravi limitazioni
funzionali e possono permanere anche quando lo stalking è terminato.
È importante che il trattamento avvenga parallelamente alla messa in atto delle strategie
pratiche anti-molestie e che sia compiuto ogni sforzo possibile per mantenere o ristabilire il
sostegno sociale delle vittime e per ridurre il più possibile gli stress secondari (problemi
economici o abitativi) che possono ostacolare la guarigione.
Le Molestie Assillanti mettono in crisi molte delle precedenti convinzioni di base delle
vittime circa la ragionevolezza e la sicurezza dell'ambiente in cui vivono, oltre a mettere a
dura prova la loro resilienza e il loro equilibrio. A ciò, invece, si sostituisce un senso di
estrema vulnerabilità, accompagnata dall'attesa angosciosa di subire un'aggressione da un
momento all'altro. La terapia cognitivamente orientata mira a rimediare alle convinzioni
patologiche che minacciano il funzionamento della vittima, consentendole di formarsi una
visione più realistica e accettabile del proprio senso di sicurezza.
C'è un altro punto di vista che appare interessante nell'esame di questo tipo di
comportamento, ed è il possibile gioco di identificazione tra stalker/vittima e
operatori/pazienti psichiatrici in genere. Infatti, alcuni degli elementi psicologici che si
presentano nella situazione dello stalking, quali l'intrusività, la violazione di uno spazio
privato, l'imposizione di una relazione immaginata che prescinde completamente dalla
dimensione della reciprocità, l'assegnazione unilaterale di valori ad azioni ed eventi, la
manipolazione dei sentimenti di inferiorità indotti da una profonda asimmetria di rapporto e,
infine, i sentimenti di impotenza della vittima, sono aspetti psicologici potenzialmente
condivisi dalle vittime di stalking e dai pazienti paranoici.
In questo senso, si potrebbe quasi affermare che la percezione del vissuto delle vittime di
stalking potrebbe esse utile nell'aiutare a empatizzare con i pazienti che registrano il più alto
livello di vissuto persecutorio da parte dei Servizi di Salute Mentale. Inoltre, alcune ricerche
mostrano che, almeno in alcuni sottogruppi di pazienti stalker, le vittime privilegiate sono i
professionisti che svolgono compiti di cura nei loro confronti.
Sul piano diagnostico e terapeutico il primo obiettivo è quello di identificare chi sia il
paziente nella situazione segnalata. Per quanto detto sopra, non è scontato che lo stalker sia
una persona che necessita di cure psichiatriche, ma è ovviamente opportuno verificare che il
comportamento non sia sintomatico di un disturbo psichiatrico significativo e suscettibile di
intervento terapeutico efficace. Al contrario, la vittima prescelta soffre di un intenso
malessere che facilmente trascende in sintomi significativi.
La giusta linea d'azione in queste situazioni non appare definita a priori, perché già
l'identificazione (o la scelta) del paziente di riferimento comporta una valutazione complessa
sul piano professionale ed etico, può privilegiare in modo indebito uno dei due attori del
dramma. È importante tenere sempre presente che lo strumento principale a disposizione dei
servizi è l'approccio di équipe ai casi multiproblematici, per evitare che la coppia costituita da
operatore designato e paziente designato finisca per isolarsi dal contesto del servizio, con le
conseguenze negative che si possono immaginare.
MOBBING
In termini generali, per mobbing si intende un fenomeno complesso che riguarda le relazioni
nel mondo del lavoro e che si esprime in un clima di violenza psicologica e morale esercitata
da una o più persone verso un singolo individuo. Per mobbing si intende comunemente una
condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo,
tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente del lavoro, che si risolve in sistematici e
reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione
del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua
personalità.
Il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Lo
specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti
illegittimi (quale ad esempio la mera dequalificazione).
Il termine è inglese e deriva dal verbo "to mob", che significa "aggredire, malmenare,
assalire, affollarsi intorno a qualcuno". Inizialmente è stato usato in etologia da K. Lorenz nel
1976 per descrivere il comportamento aggressivo delle prede che, assumendo in branco un
atteggiamento tumultuoso e rumoroso, costringono il predatore a rinunciare alla caccia e
fuggire. Successivamente, questo studioso ha utilizzato il termine mobbing per indicare anche
l'attacco di un gruppo di animali nei confronti di un singolo membro, percepito come
minaccioso per l'ordine gerarchico da mantenere nel gruppo.
Successivamente P. Heinemann (1972), medico svedese, utilizzo il termine in modo specifico
per riferirsi al comportamento deviante adottato da un gruppo di bambini verso un altro
bambino. È stato poi D. Olweus, nel 1978, a considerare il fenomeno in un'accezione più
ampia, estendendo tale definizione al soggetto singolo e introducendo il termine bullying.
Seguendo questa tradizione di ricerca, H. Leymann quando si trovò di fronte a
comportamenti aggressivi sul posto di lavoro, utilizzò il termine mobbing. Egli decise
deliberatamente di non utilizzare il termine inglese bullying, in quanto tale manifestazione
ostile non aveva le caratteristiche proprie del bullismo, anche se comportava effetti devastanti
in egual misura. Suggerì di mantenere il termine bullying per la descrizione del fenomeno
quando si manifestava tra bambini ed adolescenti a scuola, e di utilizzare la parola mobbing
per il medesimo comportamento tra adulti nei contesti organizzativi.
Leymann, nel 1990, propose una prima definizione articolata di mobbing: il terrore
psicologico, o mobbing lavorativo, consiste in una comunicazione sistematicamente
ostile e non etica - da parte di una o più persone - diretta generalmente ad un singolo
che si viene a trovare privo di appoggio e di difese a causa delle continue attività
mobbizzanti. Queste azioni si verificano con frequenza piuttosto alta (almeno una volta alla
settimana) e su un lungo periodo di tempo (almeno 6 mesi).
E in questi stessi anni che il fenomeno del mobbing inizia ad attrarre crescente interesse nei
ricercatori e in chi, all'interno delle organizzazioni, si occupa di sicurezza e salute sul posto di
lavoro.
Con il trascorrere degli anni, il mobbing iniziava in Europa ad attrarre crescente interesse sia
da parte dei media, sia nel panorama di ricerca della psicologia del lavoro e delle
organizzazioni. In Italia, H. Ege ha pubblicato, nel 1996, il primo testo sul fenomeno del
mobbing in lingua italiana, ma si è iniziato a parlare diffusamente di mobbing soltanto dal
1999, quando si sono tenuti i primi due convegni nazionali sul tema: il primo a Milano,
organizzato dalla Clinica del Lavoro Devoto, ed il secondo a Roma a cura dell'ISPESL,
Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza sul Lavoro, organo del Ministero della
Sanità.
La Commissione Europea concorda una definizione di violenza sul lavoro, che può essere
considerata una pietra miliare sulla strada del costrutto di mobbing: «Incidenti dove le
persone sono abusate, minacciate o aggredite in situazioni di lavoro che comprendono
un rischio implicito o esplicito per la sicurezza, il benessere e la salute» (2003).
Questa definizione permette di distinguere tra i diversi tipi di violenza sul posto di lavoro:
abuso, ossia comportamenti negativi che implicano l'uso di potere di natura fisica o
psicologica; minaccia, ovvero la minaccia di morte e/o la manifestazione dell'intenzione di
colpire o di ferire una persona, o di danneggiarne la proprietà; e aggressione, cioè il tentativo
di ferire e di attaccare una persona.
Il concetto di abuso porta alla luce tutte le forme di molestia morale e psicologica: molestia
sessuale, molestia razziale e chiaramente, anche il mobbing.
Una distinzione che occorre fare e fra il mobbing ed il concetto generale di stress.
Il mobbing è certamente causa di stress; non è vero il contrario, nel senso che lo stress può
presentarsi indipendentemente dal mobbing.
Lo stress da mobbing ha effetti molto gravi nel caso in cui le vittime siano ignare di essere
tali, perché si trovano spiazzate di fronte ad eventi imprevisti e si attribuiscono responsabilità
che non gli spettano.
Si può affermare, pertanto, che il mobbing è legato allo stress nel momento in cui singoli
individui (o un gruppo) accumulano una grande quantità di tensione che non riescono a
gestire e la dirigono verso atti persecutori su un bersaglio, non riuscendo a trovare altra via di
sfogo. Il mobbing, invece, è indipendente dallo stress quando l'individuo, più o meno
consapevolmente, compie vessazioni non finalizzate allo smaltimento della tensione
accumulata.
Esistono diverse tipologie di mobbing, difatti il lavoratore che vittima di mobbing potrebbe:
1. essere isolato all'interno dell'ambiente lavorativo;
2. essere relegato in una sede o in una postazione particolarmente scomoda;
3. essere escluso da riunioni, progetti, comunicazioni aziendali, corsi di aggiornamento e
altre attività;
4. divenire bersaglio di battute, pettegolezzi, insulti e comportamenti ostili;
5. ritrovarsi al centro di una campagna diffamatoria
6. vedersi sottrarre mansioni, oppure essere assegnato a mansioni inferiori e
dequalificanti, o ancora, all'opposto,
7. trovarsi a dover gestire da solo carichi di lavoro intollerabili;
trovarsi esposto a forme di controllo da parte del datore di lavoro;
8. vedersi privare di benefit aziendali;
9. essere licenziato senza alcuna motivazione;
10. divenire bersaglio di violenze sul piano fisico o di aggressioni alla sfera sessuale.
In base ai soggetti coinvolti e alla loro posizione nella gerarchia dell'azienda o dell'ufficio, è
possibile individuare le seguenti tipologie di mobbing:
1. MOBBING VERTICALE, quando la condotta persecutoria coinvolge soggetti
collocati a diversi livelli, della scala gerarchica e distinguere tra:
- mobbing discendente o bossing, quando i comportamenti aggressivi e vessatori sono
realizzati dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico della vittima;
- mobbing ascendente, quando viceversa è un lavoratore di livello più basso ad
attaccare un soggetto a lui sovraordinato;
2. MOBBING ORIZZONTALE, quando la condotta mobbizzante è attuata da uno o
più colleghi posti allo stesso livello della persona che ne è bersaglio.
Il mobber è l'aggressore, colui che svolge sistematicamente e con modalità subdole delle
violenze psicologiche e morali su un subordinato, su un collega o su un superiore mediante
critiche, aggressioni verbali, maldicenze, minacce ingiustificate. L'obiettivo è di indurlo a
licenziarsi o esautorarlo dalle sue mansioni, ma il mobber può agire anche solo per isolare
una persona o per divertimento.
Esistono diversi attori del mobbing:
- Lo screaming mimi è il tipico mobber che controlla gli altri e rovina l'ambiente
lavorativo con sbalzi di umore continui e improvvise manifestazioni di rabbia. I
bersagli vengono pubblicamente umiliati per convincere i testimoni che lui, il mobber,
è una persona che va temuta;
- Il constant critic ha una minuziosa e ossessiva attenzione sulla prestazione degli altri:
così facendo maschera le proprie insicurezze e mancanze e per di più si lamenta delle
incompetenze altrui, inventando errori per confondere e svalutare la vittima;
- I two-headed snake diffamano la reputazione dei bersagli. I "mobber serpenti"
diffondono chiacchiere e false accuse, attuano strategie per mettere il gruppo di lavoro
ed i colleghi contro la vittima;
- Il gatekeeper è ossessionato dal controllo. Questo tipo di mobber alloca risorse, orari,
soldi, informazioni affinché il bersaglio fallisca, e avere così una scusa per discutere
sulla prestazione lavorativa dello stesso. Il gatekeeper è colui che molesta la vittima,
creando un ambiente ostile per lo svolgimento delle sue mansioni;
- La vittima: il mobbizzato è la vittima del mobbing, cioè è l'oggetto delle persecuzioni
e molestie realizzate dal mobber in modo frequente e persistente, allo scopo di isolarlo
a livello interpersonale e privarlo delle funzioni esercitate nell'ambito dell'attività
lavorativa. A tal fine, il lavoratore viene continuamente umiliato, offeso e
ridicolizzato, anche per quanto riguarda la sua vita personale e privata; il lavoro viene
deprezzato, svuotato, ostacolato e sabotato, il suo ruolo declassato e le sue capacità
personali e professionali messe in discussione.
Le figure satellite del processo di mobbing sono tutte quelle persone non direttamente
coinvolte, ma che vivono il processo di mobbing di riflesso, rimanendo, il più delle volte,
passive di fronte al suo manifestarsi, divenendo degli spettatori neutrali (bystander),
oppure schierandosi a favore del mobber o del mobbizzato e assumendo un ruolo attivo.
Da questo punto di vista, la distinzione è tra:
- I SIDE MOBBER sono coloro che affiancano attivamente il mobber nell'azione
vessatoria, dando il loro apporto con condotte singole o reiterate di natura attiva o
passiva, che completano o accentuano la strategia mobbizzante.
- I WHISTLEBLOWER sono coloro che cercano di aiutare la vittima.
Sono quei membri dell'organizzazione, ma anche ex lavoratori, che danno voce a
pratiche aziendali illegittime ed immorali nei confronti di terze persone e che, alle
volte, intervengono a favore della vittima.
Se il lavoratore si dimette per giusta causa ha il diritto di percepire un'indennità sostitutiva del
preavviso, che equivale alla somma pari alla retribuzione che sarebbe spettata al
dimissionario se avesse lavorato per l'intero periodo di tempo individuato come preavviso dal
contratto collettivo in ipotesi di normali dimissioni volontarie.
Se sono presenti tutti i requisiti previsti dalla legge, il lavoratore dimissionario vittima di
mobbing potrà accedere all'indennità di disoccupazione.
Per dimostrarlo la vittima deve provare la sussistenza dei singoli elementi costitutivi del
fenomeno e la sistematicità di tali avvenimenti nel tempo.
BURNOUT
Burnout significa bruciare, esaurire, scoppiare. Il termine in origine apparteneva al mondo
dello sport, quando un atleta, dopo una serie di insuccessi, non riusciva a mantenere le stesse
prestazioni ed i risultati acquisiti. Negli anni '70 negli Stati Uniti si è incominciato a parlate di
B. O. in riferimento ad una sindrome tipica delle helping professions. burnout è una
sindrome legata allo stress lavoro correlato, che porta il soggetto all'esaurimento delle
proprie risorse psico fisiche, alla manifestazione di sintomi psicologici negativi (ad es.
apatia, nervosismo, irrequietezza, demoralizzazione) che possono associarsi a problematiche.
fisiche (ad es. cefalea, disturbi del sonno, disturbi gastrointestinali etc.). Il burnout può
colpire qualunque lavoratore anche se è coloro più esposti al rischio sono coloro che
svolgono professioni d'aiuto.
È una sindrome riconosciuta come "fenomeno occupazionale" dall'OMS nel maggio del 2019
ma non ancora come una condizione medica.
Christina Maslach, una delle più autorevoli ricercatrici sul tema, definisce il butnout come "una
sindrome psicologica che emerge come risposta prolungata a stressors interpersonali
cronici sul luogo di lavoro."
Quando invece lo stato di esaurimento avviene in soggetti che si prendono cura dei propri
cari ammalati si parla di burden del caregiver.
Secondo il pensiero della Maslach lavoratori a rischio di B.O. sono quelli che "hanno
difficoltà nel definire i limiti tra sé e gli altri ed i confini funzionali tra professione e
vita privata". Le condizioni fisiche dell'ambiente lavorativo e la fatica fisica, il ruolo e le
relazioni lavorative, la gestione del lavoro sono tutte variabili capaci di provocare negli
operatori i sintomi tipici del b.o. che sono:
1. Apatia
2. Perdita di entusiasmo
3. Senso di frustrazione
Negli anni nella sindrome del Burnout sono state incluse altre categorie di lavoratori, tutti quei
professionisti o lavoratori che hanno un contatto frequente con un pubblico, con un'utenza,
quindi non più solo gli "helper"; possono quindi far parte di tali categorie tanti liberi
professionisti o dipendenti: l'avvocato, il ristoratore, il politico, l'impiegato delle poste, il
manager, la centralinista, la segretaria.
Il burnout viene considerato, da molti studiosi, non solo un sintomo di sofferenza individuale
legata al lavoro (stress lavorativo), ma anche come un problema di natura sociale
provocato da dinamiche sia sociali, sia, politiche, sia economiche; la sindrome può infatti
interessare il singolo lavoratore, lo staff nel suo insieme e anche istituzioni (per esempio
l'organizzazione dei soccorsi in situazioni di crisi come i Vigile del Fuoco, i Militari, le Forze
dell'Ordine ecc).
Nel suo lavoro del 1982 la Maslach descrive tre gruppi di sintomi:
• Esaurimento emotivo: si arriva a questa condizione per un sovraccarico emozionale,
intesa come svuotamento delle risorse emotive e personali con conseguente
sensazione che non si abbia più nulla da offrire a livello psicologico agli altri. Questo
è il risultato di un coinvolgimento incontrollato e di una tensione emotiva non
sostenibile.
• Depersonalizzazione dell'utente: per affrontare il sovraccarico emotivo non resta
che sottrarsi al coinvolgimento con gli altri tagliando le relazioni e cercando di ridurre
il contatto con gli utenti al minimo indispensabile, spersonalizzando il rapporto.
Questo distacco mette un po' di distanza emotiva tra la gente e l'operatore. La
spersonalizzazione del rapporto è una forma di difesa, cui segue un atteggiamento di
fredda indifferenza verso i bisogni ed i sentimenti dell'altro.
• Derealizzazione professionale: sentimento di non realizzazione personale nel lavoro,
di inadeguatezza ai compiti che si dovrebbero svolgere. Questo mette in crisi la
propria identità, provoca una caduta dell'autostima e una perdita del desiderio di
successo. Ci si sente in colpa perché non si riesce ad aiutare gli altri, non si riesce a
soddisfare quello che era l'Ideale della propria vita e il motivo per cui si è scelto
questo lavoro. Ci si sente professionalmente falliti.
In seguito, viene aggiunta anche la:
• Perdita del controllo.
In genere si ritiene che il burnout sia in primo luogo un problema dell'individuo, le persone
manifesterebbero tale disturbo a causa di difetti/ caratteristiche del loro carattere, del loro
comportamento o nella loro capacità lavorativa. In base a questo punto di vista, sono gli
individui a rappresentare il problema, e la soluzione sta nel
lavorare su di loro o nel sostituirli.
Vari studi hanno dimostrato invece che il burnout non è un problema dell'individuo in sé, ma
del contesto sociale nel quale opera. Il lavoro (contesto, contenuto, struttura, ecc) modella il
modo in cui le persone interagiscono tra di loro e il modo in cui ricoprono la propria
mansione. Quando l'ambiente di lavoro non riconosce l'aspetto umano del lavoro, il rischio di
burnout aumenta.
Le cause del burnout, inoltre, possono essere:
• Soggettive: la componente soggettiva dello stress è quella che determina quali stimoli
verranno percepiti come stressanti, personalità, motivazioni inadeguate, convinzioni
inadeguate, mistica professionale, stress non professionale);
• Oggettive: (intrinseche al servizio, al ruolo nell'organizzazione, allo sviluppo della
carriera, alle relazioni tra i colleghi, all'equipe);
• Socioculturali: (sfiducia da parte degli utenti, svalutazione del lavoro in sé stesso).