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CAPITOLO VI : I RAPPORTI PERSONALI TRA I CONIUGI

La solenne dichiarazione contenuta nel comma 1 dell’art.143 cod.civ. secondo cui “ Con il matrimonio il
marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” sancisce la scelta del
legislatore di affermare l'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi nei rapporti personali e patrimoniali
reciproci e dei genitori nei rapporti personali e patrimoniali con i figli. E’ significativo anche l’ordine che
ricevono i doveri i quali discendono dal matrimonio:

 fedeltà
 Assistenza morale e materiale
 Collaborazione nell’interesse della famiglia e dovere di coabitazione

Da quest’ultimo dovere discende la disposizione di cui al comma III che impone ad entrambi la
contribuzione ai bisogni della famiglia, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di
lavoro professionale o casalingo. Leggiamo, dunque, anche un’equiparazione a fini giuridici tra l’attività
lavorativa svolta all’esterno della famiglia e quella invece prestata all’interno delle mura di casa.

I coniugi, non sono, come alcuni hanno sostenuto, liberi di operare qualsiasi scelta, purchè ciò avvenga di
comune accordo. Gli obblighi elencati non possono essere, infatti, considerati come liberamente disponibili
e rinunziabili da parte dei coniugi, pur in presenza di comune accordo tra gli stessi, in quanto si tratta di
situazione giuridiche soggettive che secondo l’ordinamento giuridico qualificano il rapporto coniugale,
costituzionalmente riconosciuto.

La famiglia è intesa come strumento per la realizzazione dello sviluppo della persona umana, e con l’entrata
in vigore della riforma del 75, non si può più guardare il rapporto familiare e coniugale come qualcosa di
autonomo, separato dall’ordinamento giuridico bensì in stretto collegamento con le regole costituzionali.
La funzione essenziale della famiglia, dunque, è proprio quella di favorire lo svolgimento della personalità
dei suoi componenti.

1) FEDELTA’

L’ obbligo di fedeltà deve essere inteso come dedizione fisica e spirituale di un coniuge nei confronti
dell’altro, che coinvolge ogni sfera più intima del soggetto, sentimentale e sessuale. Questo non è più
diretto a garantire onore o prestigio all’altro coniuge, bensì a salvaguardare e consolidare la comunione di
vita materiale e spirituale. E’ possibile affermare che insito nell’obbligo di fedeltà vi è un dovere di rispetto
e un dovere di non tradire la fiducia dell’altro coniuge.

2) ASSISTENZA MORALE E MATERIALE

Questo obbligo, insieme a quello precedente assume il contenuto di reciproco aiuto e cura. Possiamo
delineare due profili, uno esistenziale e uno patrimoniale. Quest’ultimo si traduce nell’obbligo di conferire i
mezzi economici necessari affinchè entrambi i coniugi godano del medesimo tenore di vita,
indipendentemente dalla consistenza patrimoniale di ciascuno. Il primo si traduce nell’impegno di
comprendersi, sostenersi, rispettarsi, sia sul piano dei sentimenti sia su quello della concezione di vita.

3) LA COLLABORAZIONE NELL’INTERESSE DELLA FAMIGLIA E DOVERE DI COABITAZIONE

L’obbligo di collaborazione innanzitutto richiama l’impegno di ciascun coniuge di svolgere un’attività


lavorativa, all’esterno e/o all’interno della famiglia e l’impegno di adempiere ai loro obblighi.

La coabitazione, può essere intesa sia in modo più ampio, e quindi come convivenza materiale, morale,
sessuale, sia in modo più ristretta quale comunanza fisica del luogo in cui si svolge la vita coniugale.
Occorre infatti distinguere coabitazione e convivenza. La coabitazione è collegata indici fisici. La
convivenza invece è collegata a indici spirituali. La prima è un elemento consueto ma non
indispensabile perché vi sia anche la seconda.

Il valore fondamentale tutelato dalla legge è si la stabilità del gruppo, ma perseguita mediante la
comunione materiale e spirituale di vita, di cui la coabitazione non rappresenta una dimensione
essenziale, potendo anche mancare senza mettere in forse la prima.

DOVERE DI CONTRINUZIONE AI BISOGNI DELLA FAMIGLIA

Il discorso si fa più complesso quando si passa all’esame dell’obbligo di contribuire ai bisogno della famiglia
<ciascuno in relazione alle proprie capacità di lavoro professionale o casalingo> .

Innanzitutto dobbiamo mettere in evidenza che la riforma del 75 ha conferito pari dignità al lavoro sia
svolto fra le mura di casa, sia quello svolto fuori da queste.

Bisogna ora individuare il contenuto dei bisogni familiari. Sicuramente il contenuto minimo è alloggio-vitto-
vestiario. Ma l’individuazione dei bisogni familiari dipende non solo dalla scelta dei coniugi ma anche dalla
stessa capacità contributiva, fermo restando il rispetto del contenuto minimo dei bisogni familiari al di sotto
del quale è compromessa la stessa possibilità di esistenza della vita familiare.

La capacità di lavoro e le sostanze di ciascun coniuge ( comprendendo nella nozione di sostanza, non solo il
reddito dell’obbligato, ma l’intero suo patrimonio) costituiscono criteri di ripartizione e determinazione
dell’obbligo di contribuzione.

GOVERNO DELLA FAMIGLIA INDIRIZZO FAMILIARE CONCORDATO

La regola del governo diarchico della famiglia dettata dall’art 144 c.c. è fondamentale. Richiede da un lato
l’accordo dei coniugi sull’indirizzo della vita familiare e attribuisce, dall’altro lato, a ciascuno di essi il potere
di attuare l’ indirizzo concordato. Ciò realizza in pieno il principio costituzionale di eguaglianza tra i coniugi.
E’ opinione pacifica che i coniugi abbiano un vero e proprio obbligo di sottostare alla regola dell’accordo, sia
nel senso che essi non possono consensualmente derogarvi, sia nel senso che essi devono tenere un
comportamento volto a favorire il raggiungimento dell’intesa. Ovviamente, il rifiuto di uno dei coniugi di
aderire a una decisione dell’altro non costituisce di per sé violazione di un dovere coniugale, però un
ingiustificato diniego di concordare l’indiritto della vita coniugale può motivare non solo la richiesta di
separazione giudiziale per intollerabilità della convivenza ma anche l’addebito della separazione stessa.

L’effetto dell’accordo di cui all’art 144. C.c. è un effetto di natura negoziale costitutivo di potere, con
funzione di regolamentazione della vita familiare. Ai sensi art.145 in caso di disaccordo ciascuno dei coniugi
può chiedere, senza formalità, l'intervento del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, per
quanto opportuno, dai figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno, tenta di raggiungere una
soluzione concordata.

Ove questa non sia possibile e il disaccordo concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, il
giudice, qualora ne sia richiesto espressamente e congiuntamente dai coniugi, adotta, con provvedimento
non impugnabile, la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell'unità e della vita della famiglia.

Da questa norma si desume che il legislatore ha previsto l’intervento giudiziale solo riguardo agli affari
essenziali. Gli accordi sulle questioni minori resterebbero perciò affidati al senso di responsabilità dei
coniugi. Gli accordi su affari non essenziali, avrebbero comunque rilevanza, ma a differenza delle intese
concernenti affari essenziali, ognuna delle parti potrebbe in ogni momento recedere dall’accordo.
Al riguardo, bisogna sottolineare che la distinzione fra affari essenziali e non essenziali, sicuramente
rilevante alla luce del dettato normativo, non è proponibile in termini rigidi e astratti, ma verrà valutata di
volta in volta. ( caso x caso)

RESIDENZA FAMILIARE E INTERVENTO DEL GIUDICE

Abbiamo visto che I coniugi devono fissare di comune accordo la residenza familiare ( art 144 comma 1
c.c.). Nella disposizione viene richiamato poi l’intervento del giudice nel caso in cui i coniugi non riescano a
concordare una decisione comune. Il giudice è qui un super partes chiamato per la risoluzione del conflitto.
Non si tratterebbe dunque di una vera e propria attività giurisdizionale poiché il giudice è chiamato ad
intervenire senza formalità, dando al procedimento un carattere non intimidente. Infatti, il giudice svolge
un’attività conciliativa, se soltanto uno dei coniugi, chiede il suo intervento (dobbiamo sottolineare ciò )
tentando di aiutare gli stessi coniugi a trovare una soluzione concordata. Se ciò risulta impossibile, il giudice
può sostituire la sua volontà a quella dei coniugi, individuando egli stesso la soluzione al disaccordo, se
entrambi i coniugi concordemente ne fanno istanza. Ma anche in questo caso, il giudice sembra un
suggeritore, più che colui il quale ha il potere di imporre la sua decisione. Nel comma 2 dell’art 145 infatti si
individua un intervento a carattere negoziale, che rientrerebbe nella categoria dell’arbitramento.

Attualmente la norma non solo equipara i due coniugi, ma fa si che non subiscano rischi di inadempimento
in merito all’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia e quello inerente al mantenimento dei figli.
Infatti l’art 146 dispone che il diritto all’assistenza morale e materiale è sospeso nei confronti del coniuge
che si allontana senza giusta causa dalla residenza familiare e rifiuti di tornarvi. Il comma 3 dello stesso
articolo dispone che il giudice possa disporre il sequestro dei beni del coniuge che si è allontanato dalla
residenza familiare ma soltanto nella misura idonea a garantire gli obblighi di contribuzione.

La norma si preoccupa di specificare che è da ritenere giusta causa di allontanamento la proposizione della
domanda di separazione o di annullamento o di scioglimento del matrimonio, questa però concede al
giudice di valutare l’esistenza oppure no di un giustificato motivo.

COGNOME

Tra gli effetti del matrimonio vi sono quelli compresi negli artt. 143 bis e ter. Secondo il primo, la moglie
aggiunge al proprio il cognome del marito e lo conserva finchè non passa a nuove nozze. Poiché i figli
legittimi assumono per tradizione italiana il cognome del padre, che svolge la funzione di cognome
familiare, anche la moglie assume il cognome del marito. Tuttavia, tale assunzione non fa perdere alla
moglie il proprio, che anzi rimane in posizione predominante nella individuazione del soggetto tanto nei
rapporti sociali quanto in quelli professionali. Tale obbligo non sembra essere così rigido poiché vi sono
leggi che impongono l’uso del solo cognome di origine, pensiamo ad ipotesi in cui la donna abbia raggiunto
notorietà in campo artistico, letterario. Ciò però vale anche all’inverso e consente l’uso esclusivo del
cognome del marito, anche dopo eventuale scioglimento del matrimonio.

Ancora irrisolta, tuttavia, è la questione della trasmissibilità ai figli del cognome materno, in nome del
principio di eguaglianza e della pari dignità morale e sociale. La Corte Coatituzionale, ha negato
l’illegittimità della regola ma ha altresì affermato la compatibilità di soluzioni diverse al sistema, soluzione
ad esempio che consiste nell’attribuire la scelta del cognome che assumeranno i figli comuni ad un accordo
tra i coniugi. Diciamo che la concezione patriarcale oggi vigente non è in linea con l’attuale contesto
ordinamentale. L’automatismo ex lege previsto, nell’imporre l’attribuzione del cognome paterno al figlio
nato nel matrimonio, integra un’accettabile lesione del diritto all’identità personale della prole e del
principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi costituzionalmente riconosciuti, nonché una
violazione del divieto di non discriminazione. E’ stato approvato alla Camera il 24 settembre 2014 un
interessante progetto di legge che ora pende al vaglio del Senato. Attualmente la legge 91/1992 dispone
che l’acquisto di una cittadinanza straniera non comporta per il cittadino la perdita di quella italiana.

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