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RAPPRESENTANZA E VOTO NEGLI ISTITUTI RELIGIOSI

CAP 1 ELEZIONE E COOPTAZIONE: DINAMINCA DEI MODI DI


ATTRIBUZIONE DELL’AUTORITA’ NELLA CHIESA
Ambivalenza del termine “elezione” nel linguaggio canonisticoil termine elezione ha assunto il
significato prevalente di procedimento tecnico che consente alla società civile di darsi una
rappresentanza politica: il popolo sceglie chi concretamente lo debba rappresentare nelle assemblee
parlamentari l’elezione avviene quindi dal basso. Questa accezione ha finito col metterne in ombra un
altro spessore tipico dell’universo canonistico secondo cui il termine

Elezione: rimanda direttamente alla scelta che Dio opera nella storia individuando il suo popolo (gli
ebrei) e chi, fra gli uomini, è destinato ad entrare nel regno dei salvati. È il riconoscimento di Dio a
fondare il ruolo del suo popolo nell’economia della salvezza e a fondare l’autorità delle sue guide, i
sacerdoti. In quest’ottica i privilegi non sono legati a ragioni di sangue, ma si basano sulla chiamata di
Dio, che posa su un atto misterioso di elezione.
È qui evidente che la parola elezione non ha assunto un significato giuridico preciso e che prevale la sua
intonazione teologica: la Chiesa dei primi secoli non avverte quindi ancora il bisogno di darsi delle
specifiche regole per normativizzare la scelta della propria “classe dirigente”

V-VI sec: il termine elezione comincia a subire degli slittamenti nell’ambito del linguaggio giuridico
tanto che per elezione comincia ad intendersi il complesso dei procedimenti in grado di regolare in
maniera ordinata ed equa la scelta degli ordinati in sacris e dei vescovi. Le elezioni canoniche non
possono più basarsi su un giudizio dato dalla fede, ma dall’accaparramento del consenso. Ben presto i
Concili sono costretti ad occuparsi della disciplina delle elezioni, dettando norme e principi specifici.

Consenso di tutta la comunità: chierici e laici e il loro parere diventano momento fondante nel
procedimento di designazione dei vescovi. L’elezione divina si riflette nella decisione espressa, con
l’aiuto dello Spirito, dalla civica cristiana. Ora è quindi la dimensione giuridica ad apparire in primo
piano. Col passare del tempo la procedura canonica dettagliata delle regole elettorali sarà destinata via via
ad infittirsi, tuttavia continua a rimanere l’ambivalenza del termine electio per la quale dal metodo della
scelta degli uomini di governo deve trasparire un atto di elezione che trascende la volontà umana

L’elezione come modello iniziale di riferimento nella provvisione dell’ufficio


episcopaleoriginariamente il termine elezione può essere meglio reso con la parola scelta, scelta
necessariamente del clero e del popolo di tutta la comunità; inoltre i procedimenti per l’elezione dei
vescovi non sono frutto di un’opera legislativa, ma sono ispirati da Dio che esplicita la propria volontà
che trova coronamento nel consenso espresso dal clero e dal popolo. I primi tentativi di legislazione
riconoscono il ruolo fondamentale della comunità nella scelta del proprio vescovo. Anche i pontefici
riconoscono questo ruolo e, in assenza di una legislazione certa, cercano di insistere, nei loro interventi,
sui requisiti e qualità che il candidato dovrebbe presentare, sollecitando in questa prospettiva, il controllo
dell’autorità preposta alla regione ecclesiastica: il metropolita.

Rottura dell’ordine imperiale e nascita di una molteplicità di regni: provocano una confusione
istituzionale e politica di cui risentono anche i linguaggi. Le fonti alto-medioevali parlano
indifferentemente di electio e ordinatio in tema di nomine episcopali. Ciononostante la tradizione che i
vescovi vengano eletti dal popolo e dal clero nn viene mai meno. Tuttavia in

Francia: i re tendono ad intervenire nelle elezioni vescovili assicurandosi la copertura dei seggi
episcopali vacanti con persone grate. Questo indirizzo trionferà nei secoli successivi quando la scelta dei
vescovi cadrà nella sfera di disposizione delle autorità secolari. Cause di ciò il trionfo del regime feudale

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e la debolezza intrinseca degli episcopati.

Nomina episcopale: diviene quindi un beneficio concesso dal re, ma anche dai signori feudali. Ma anche
in questo quadro profondamente mutato sopravvive l’idea secondo cui il clero e il popolo sono sempre i
soggetti attivi dell’elezione vescovile. A questa prassi si rifanno i pontefici che da un lato confermano la
titolarità spettante a clero e popolo, dall’altro, cominciano a riservarsi il diritto di procedere
personalmente alla consacrazione dell’eletto. In questo periodo, nel quale i regni fanno valere le proprie
prerogative in un campo così strategico come quello delle nomine episcopali, il papato risponde in
maniera ambivalente: 1) ribadisce la titolarità di clero e popolo 2) brandisce il principio di elezione da
parte del popolo per difendere le proprie prerogative.
Siamo alle soglie della lotta per le Investiture dove la chiesa decide di affrontare il potere temporale e
dalla quale essa uscirà vincitrice con una nuova concezione gerarchica e fortemente accentrata intorno
alla figura del pontefice: in questa fase non ci sarà piu spazio per una cooptazione del corpo episcopale
che coinvolga clero e popolo: con il rischi che si vada smarrendo l’autonomia delle chiese locali

La partecipazione del popolo di Dio alla scelta delle proprie guide nelle realtà pievanese la
partecipazione di clero e popolo era condizione necessaria per procedere alle nomine episcopali, a
maggior ragione era richiesto il consenso delle comunità per eleggere i presbiteri da porre a capo delle
diocesi

Pievi:comunità fondate da preti missionari per diffondere il Verbo nelle quali si esemplava il
cristianesimo dei primi secoli dell’Italia centrosettentrionale. Esse entravano a far parte della diocesi, ma
cominciarono ben presto a godere di autonomia. Questa unità di fede è retta dall’

Archipresbyter: che gode di notevole autonomia rispetto alla sede vescovile coordinata nelle proprie
attività quindi da chierici che avevano il potere di battezzare in tutte le epoche dell’anno,predicare,
istruire, benedire popolo e case; sorvegliare il clero inferiore delle parrocchie afferenti alla pieve. Con il
passare degli anni, questo complesso di poteri consente di attribuire alla pieve la configurazione di
un’istituzione dotata di autonomia, seppur sempre sottoposta al potere del vescovo. Ma ciò che conta è il
vincolo che lega la comunità locale al proprio clero; fondamentale rimane l’istituto giuridico dell’

Incolato: per il quale i ministri di culto ordinati presso una certa chiesa avevano il diritto dovere di non
abbandonarla senza giusto motivo; esso facilita quindi la formazione di un clero pievano stabile, entro il
cui ambito viene scelto l’arciprete, capo del suo capitolo(organo collegiale che raccoglie i chierici
intorno all’archipresbyter). Poteri del capitolo:

 ius statuendi: diritto di dettare norme del governo della pieve


 ius vigilandi e puniendi: reprimere le condotte devianti
 ius possidendi ed administrandi: facoltà di governare i propri beni posseduti a titolo originario

L’indipendenza di cui l’istituto pievano gode è sottolineato dal fatto che l’arciprete non è nominato dal
vescovo, ma tra i membri del clero locale con la partecipazione del popolo; vi è quindi una circolarità
perfetta della designazione delle guide nei primi secoli: vescovi scelti tra gli ordinati in sacris, da clero
e popolo, arcipreti eletti dal clero e dal popolo della pieve. Ciò rimane inalterato fino al

VIII sec: quando si manifesta la tendenza delle autorità secolari ad avere in concessione dai vescovi le
pievi; l’autorità sulle pievi comincia cos a fondarsi su di un titolo rilasciato dal vescovo. Quindi
l’autonomia dell’istituto non risentì profondamente: era del resto lo stesso indirizzo ecclesiologico
complessivo, soprattutto dopo la lotta per le Investiture, ad andare verso un progressivo accentramento
del potere ecclesiastico

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Dalla chiesa locale al governo universale: la scelta del Ponteficesin dal suo primo sorgere la chiesa
tende a riconoscere il primato del vescovo di Roma sulle altre comunità: ben presto si distingue la figura
del romano pontefice. A pieno titolo dunque, clero e popolo della comunità romana concorrono ad
eleggere il proprio vescovo che è al contempo pontefice in quanto successore di Pietro. La crescente
rilevanza dell’ufficio petrino portò ben presto a contrasti che si palesavano in maniera evidente al
momento di procedere alla scelta di un candidato da far succedere al soglio pontificio. Per ovviare
possibili conflitti si cercò di eliminare la componente elettorale che si pensava fosse più riconducibile ad
interessi politici contingenti: la componente laica.

Sinodo romano 499: pur riconoscendo il ruolo della comunità nella scelta del suo pastore, afferma che di
essa è investito soprattutto il ceto sacerdotale. È evidente che l’elezione del pontefice è ormai qualcosa di
diverso dalla semplice elezione di un vescovo e che essa muove interessi non solo ecclesiastici, inoltre, la
componente laica rappresentata dagli esponenti del potere secolare continua ad esercitare la propria
influenza, sino ad essere esplicitamente ammessa al procedimento elettorale. Signori feudali ed
imperatori divengono così determinanti con i loro interventi nel decidere il successore di Pietro. Da qui
nasce la

Consapevolezza della chiesa di dover riacquistare la titolarità piena ed esclusiva di designazione del
successore di Pietro, conferendone la designazione ad un collegio elettorale chiuso rappresentato solo da
cardinali e vescovi.

Decreto di Niccolo II 1059: segna una tappa significativa verso l’emancipazione del papato dal potere
secolare e nello stesso tempo, l’espulsione definitiva di clero e popolo dal processo di elezione. Tuttavia
nel decreto si avanza l’ipotesi che il papa-vescovo, per essere eletto, debba avere almeno l’implicita
approvazione dell’autorità secolare.

Autonomia e comunione gerarchica:le elezioni nella “concordia discordantium canonum”c’è chi


ha identificato questo definirsi della chiesa di Roma come chiesa del diritto in quest’opera. In particolare
nel decretum di Graziano sono indicati tutti i motivi che porteranno all’abbandono dello strumento
elettorale nella designazione dei vescovi e più in generale degli ordinati in sacris. In esso sono raccolti
canoni conciliari e testi pontifici di provenienza diversa che affermano punti di vista contrastanti sul
problema delle elezioni. Nonostante le difficoltà di ricomporre ad unità il pensiero di Graziano sul tema
delle elezioni ecclesiastiche è possibile rinvenire un minimo comun denominatore che guida il
compilatore della Concordia. Vi sono sostanzialmente 3 livelli in cui si situa il discorso sulle elezioni
ecclesiastiche:
1. scelta del pontefice: quanto al suo modo di elezione, che prevede l’intervento
dell’Imperatore o dei suoi legati, esso risente di una situazione storica complessa fino ad
arrivare ad un punto per cui i principi secolari hanno volontariamente rinunciato al
privilegio di intervenire attivamente nell’elezione. Quindi una volta affermato che essa
spetta unicamente alla chiesa, bisogna stabilire a chi tocchi in concreto l’elettorato attivo, il
potere di eleggere il capo della cristianità: secondo Graziano deve essere eletto da tutto il
clero della diocesi romana eliminando definitivamente la componente laica
2. elezione dei vescovi: avviene similmente alle precedente, la estromissione dei laici appare
più sfumata: il popolo sembra cioè chiamato a fare da pura comparsa, da sfondo sul quale
risalti a contrasto il potere elettivo vero, che spetta solo ai sacerdoti
3. elezione dell’archipresbyter: diversa è la situazione in quanto troppo forte si presenta qui il
ruolo del popolo.

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Secondo Graziano, le elezioni sono una sorta di spia che ci segnala un’ispirazione ecclesiologica
orientata in senso gerarchico; non è un caso che emergano due canoni che rinviano alla necessità di una
consultazione della Sede Apostolica per procedere ad una valida elezione vescovile; tali canoni aprono la
strada ad un vero e proprio sindacato di legittimità della Santa Sede. Per il momento le elezioni in
concreto cominciano cmq ad essere riservate nel decretum a dei collegi elettorali cui fanno parte solo gli
ordinati in sacris (persone del clero) che si distinguono quindi dai laici

Nell’epoca della controriforma Bellarmino distingue tra populus ducens e ductus, pietra militare nel
processo di elaborazione del diritto della chiesa che contrappone la libertas imperandi, riservata ai
chierici alla necessitas oboediendi, cui i fedeli laici devono sottostare.

Il trionfo del primato pontificio e l’eclissi del modello elettorale nella decretistica e nelle
Decretalila linea di pensiero contenuta nella Concordia si sviluppa nell’opera dei decretasti, fino ad
approdare a conclusioni che finiranno col preparare il terreno alla completa dismissione del metodo
elettorale nella scelta del ceto episcopale non meno che dei chierici. Nella elaborazione dei decretisti il
momento elettorale si smembra definitivamente in più fasi tra loro distinte; una conferma si rinviene
nell’opera di

Rufino: che enuncia che ci sono 5 fasi, laddove i cardini centrali sono da individuare nella electio
clericorum e nella confermatio metropolitani.

NB:Una volta affermata definitivamente la supremazia della chiesa sul potere secolare in campo di
elezione,si sottolinea che la procedura elettorale non può durare troppo a lungo, mettendo in luce il
problema di efficienza, correlato alla maggiore rapidità delle operazioni di voto. Il motivo è che il
seggio vescovile non può rimanere vacante per più di 3 mesi. Il tema dello sposalizio tra chiesa locale e il
suo vescovo e del conseguente stato di vedovanza della chiesa che si determina alla morte del titolare
dell’ufficio episcopale, diventa centra nella

Summa decretorum di Uguccio, che distingue:

 una prima fase nella quale, eletto dai chierici della diocesi, si instaurerebbe una sorta di
matrimonio rato tra chiesa e vescovo
 una seconda fase nella quale, intervenuta la conferma dell’elezione da parte della superiore
istanza gerarchica, il rapporto tra chiesa e vescovo si consolida sino a divenire una sorta di
matrimonio indissolubile.
All’autorità gerarchica cioè toccherebbe il compito di ratificare una elezione che altrimenti sarebbe
destinata a rimanere non perfetta. Tanto ciò è vero che è ben possibile, per i chierici-elettori, cambiare il
responso fino al momento dell’avvenuta confermazione. Per questa via entra nell’universo canonistico la
distinzione tra momento dell’elezione e momento della sua conferma. In controtendenza rispetto a gran
parte dei decretisti, che sostengono che in capo al vescovo non sorge alcun potere di governo prima
dell’approvazione della sua elezione da parte dell’autorità competente, Uguccio sostiene che al vescovo
spetta, prima della conferma della sua elezione, un certo potere giurisdizionale: se non altro il diritto di
amministrare i beni della chiesa anche se non ancora la capacità di esercitarlo in concreto. E ciò a
differenza del pontefice, che solo dal momento dell’avvenuta elezione ha senz’altro la pienezza di
giurisdizione sulla chiesa universale. Questa differenza è da ricollegarsi, per U, al fatto che mentre chi
elegge il vescovo è un soggetto, i chierici, diverso da quello che conferma la nomina, metropolita, nel
caso del papa chi elegge e chi conferma è lo stesso soggetto cardinalizio.

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Principi della decretistica sono:
a) I soggetti attivi delle elezioni episcopali sono solo gli ordinati in sacris.
b) È assolutamente necessario il momento della conferma dell’avvenuta elezione da parte
dell’istanza gerarchica superiore, il metropolita.
Nb: Entrambi queste linee trovano cittadinanza a pieno titolo nelle decretali di Gregorio IX.
In una struttura gerarchico-piramidale ogni istanza superiore diviene responsabile della bontà delle scelte
operate nel dare alla chiesa una classe dirigente all’altezza del compito: il papa risponde del corpo
cardinalizio, i cardinali e metropoliti dei vescovi e questi ultimi rispondono delle elezioni degli arcipreti.
Nulla più sfugge allo stretto controllo gerarchico l’autonomia delle chiese locali comincia a declinare e
sull’orizzonte si staglia la figura del pontefice al cui ufficio i vescovi debbono soggezione ed obbedienza.

Nel diritto canonico delle decretali i vescovi diventano semplici soggetti della giurisdizione pontificia:
solo al papa compete la potestà di trasferire i vescovi da una sede all’altra, questo apre la possibilità per la
sede apostolica di guardare ad essi come a propri funzionari.

Dal controllo dell’attività elettorale alla cooptazione del populus ducensLiber Sextus di Bonifacio
VIII: in esso giunge a compimento la parabola che porta dalla elezione dei vescovi alla loro designazione
per mano del pontefice. In quest’opera si compie una reductio ad unum che porta da individuare nella
sede apostolica l’organo deputato a nominare direttamente i pastori del popolo di Dio. A questo risultato
si perviene in maniera progressiva, attestando prima di tutto una competenza in via esclusiva del vescovo
di Roma a dirimere i conflitti che possono insorgere nelle diocesi in seguito ad elezioni non regolari del
vescovo, o di elezione di persona non degna. Una volta posto il principio di giurisdizione esclusiva del
papa, il Liber Sextus si spinge molto più in là nella rivendicazione al pontefice della titolarità di nominare
direttamente i vescovi.
- Per cominciare, i controlli sull’elezione si fanno più stringenti: il momento della conferma
dell’elezione da parte della santa sede non si sostanzia più, come avveniva nelle Decretali, in una
mera ricognizione delle qualità che l’eletto deve possedere, ma a assurge a vera e propria
condizione di efficacia dell’avvenuta elezione.
- Oltre a ciò si stabilisce anche che prima della conferma apostolica l’eletto non può compiere alcun
atto di governo, pena la decadenza dalla carica.

Il processo è ormai compiuto: il primato del pontefice fa aggio su tutto, sino a penetrare e controllare
capillarmente la vita di ogni comunità locale, e soprattutto sino a designarne direttamente la guida.

Popolo di Dio e gregge di Dio: il superamento delle pievi e l’affermazione delle parrocchie questo
indirizzo complessivo è destinato a mutare profondamente non solo l’organizzazione del vertice della
piramide ecclesiastica, ma anche la configurazione della sua base. Una delle forme tipiche dell’edificio
cristiano era la pieve; in un processo di accentramento anche la plebe avrebbe finito per cedere il passo a
modelli organizzativi meno autonomi, le parrocchie.

XII sec: l’architettura dell’edificio cristiano subisce profondi mutamenti: basti pensare ai cambiamenti
quanto all’elezione dell’arcipretequei poteri elettivi che in un primo tempo erano spettati alla comunità
plebana attraverso il collegio dei canonici e la partecipazione attiva del popolo dei fedeli, passano in un
secondo momento al vescovo = Viene così meno nell’elezione del pievano, l’intervento del popolo e del
clero. L’unità spirituale delle pievi si sfalda ulteriormente quando si introduce l’uso di concedere le pievi
anche a signori laici a ben presto anche la sopravvivenza delle stesse diviene problematica e sottoposta al
moto centrifugo delle parrocchie ognuna delle quali sempre più tende ad avere un rapporto diretto col
vescovo diocesano. L’immagine di una chiesa fortemente accentrata intorno alla propria gerarchia
comincia così a delinearsi secondo una linea di tendenza che sancisce la sconfitta delle autonomie locali
che proprio attraverso le pievi avevano raggiunto il grado più alto della propria parabola.

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Decretali: in esse si fa ora riferimento alle parrocchie.
La pieve non costituisce piu, all’aba della nuova epoca, il modello organizzativo di riferimento: sarebbe
toccato quindi alla parrocchia svolgere la funzione di una capillare cura d’anime. L’immagine di popolo
di Dio sbiadisce per lasciare posto a quella di gregge di Dio che meglio sembra definire il nuovo rapporto
tra populus ducens e ductus
Investitura e ius publicum ecclesiasticumin questo quadro complessivo il momento dell’elezione
acquista dunque un’autonoma rilevanza come elemento rivelatore di una linea evolutiva. È indubitabile
che a partire dal
XIV sec: la scelta di chi debba guidare le dicesi sia riservata al pontefice, anche se nell’
Età della controriforma: non è raro trovare all’interno dei concordati limitazione alla libertà del
pontefice che inseriscono come pregiudiziale il gradimento dell’autorità secolare. I vescovi dunque non
vengono piu nominati sulla base di un’elezione, ma da tramite un principio d’autorità posto dall’esterno,
di concerto tra l’autorità religiosa e quella secolare. La caduta in desuetudine del momento elettorale
segna, nel contesto dell’evoluzione del diritto canonico nell’età della controriforma, lo ius publicum
ecclesiasticum, l’espunzione dell’idea che il vescovo debba essere espressione della chiesa locale.
Questo indirizzo trova piena cittadinanza nella
codificazione del 1917: essa segna l’approdo finale del processo ecclesiologico di accentramento

CAP II ARMONIA CONSENSO: L’ELEZIONE DEGLI ORGANI DI GOVERNO NELLA


TRADIZIONE DELLE COMUNITA DI VITA CONSACRATA
Regola e libertàmonachesimo: non nasce dal nulla ma viene preceduto dal fenomeno
dell’anacoresimo( gli anacoreti o eremiti erano coloro che realizzavano la completa rinuncia al mondo
ritirandosi nella completa solitudine) per il quale una vocazione radicale spingeva i più intransigenti tra i
fedeli a separarsi completamente dal mondo per meglio avvicinarsi a Dio. La fama di maestri di vita
spirituale raggiunta da alcuni anacoreti finiva col porto come esempio da seguire nella via della
perfezione spirituale. La dimensione giuridica di quella spontanea scelta di separazione dal mondo, si
reggeva sulla concordia, senza alcun bisogno di regole fisse.
Legge assoluta:era la libertà individuale di ricerca; ma, com’è usuale dire,
ubi societas ibi ius: ben presto la vita in comune, che consentiva alcuni vantaggi in termini di scambio di
esperienza, cominciò a basarsi su di una
regola, posta dal Maestro, che tendeva a tracciare un modo di vita che rendesse più proficua l’esperienza
comunitaria, che se fosse stata affidata all’improvvisazione avrebbe finito col distogliere dal proprio
scopo coloro che avevano scelto la via della perfezione. La regola diviene dunque una garanzia, il metro
e la misura nella quale la libertà di ognuno trovi. Nelle prime regole antiche non vi è un grande spazio
dedicato all’organizzazione giuridica dell’esperienza religiosa: in esse si riflette la previsione di ritmi di
vita consoni alla meditazione e alla ricerca interiore. Il diritto qui palesa la sua natura strumentale e di
servizio.
Libertà: è il vero fondamento della regola, essa è frutto della Grazia, mentre la
Legge:è una limitazione della libertà dell’uomo.
Regola di San Benedetto da Norcia: inaugura una stagione nuova nella storia del monachesimo
occidentale; essa si distingue dalle precedenti proprio per la sua architettura complessa nella quale la
dimensione giuridica comincia a segnare una primazia fino a quel momento sconosciuta. Tale regola
comincia con la delineazione della figura dell’abate che nel monastero fa le veci di Cristo. All’autorità
dell’abate fa riscontro il dovere di obbedienza dei monaci per avviarsi sulla strada della perfezione
spirituale. Si cominciano però a delineare anche i modi di elezione dell’abate e la possibilità per il
medesimo di attivare deleghe nell’esercizio del suo potere. Tale regola avrà una fortuna enorme e fungerà
da stella polare. Più tardi, nel
XI-XII sec: si assisterà ad un fiorire di movimenti religiosi che pretenderanno di fondare la propria
specificità su di una nuova regola che tenderà a divenire il manifesto di fondazione e nel corso del

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XIIIsec: la chiesa deciderà di intervenire ponendo il principio secondo cui solo le regole riconosciute e
approvate dalla santa sede avranno valore giuridico. La libertà dunque di seguire la propria specifica
vocazione religiosa dipende dall’approvazioone della regola da parte del pontefice
Le garanzie che circondano l’elezione dell’abate nelle prime regole monastiche non si trovano tracce
rilevanti che consentano di individuare una procedura che regoli in maniera minuziosa i modi di elezione
del capo del cenobio. Ma gia nella regola di san benedetto si rinvengono alcune indicazioni di
fondamentale importanza:
 innanzitutto viene stabilito il principio secondo cui tocca a tuta la comunità designare la
figura adatta a ricoprire il ruolo di abate
 dopo questo assunto la regola introduce un correttivo: la scelta dell’abate può essere
operata non solo da tutta la comunità, ma anche “da una parte di essa, seppur piccola, ma
con più savio consiglio”
Prima garanzia posta a tutela dell’eccellenza della scelta dell’abate è dunque che su di essa converga
non tanto il maggior numero di monaci, ma soprattutto coloro che tra essi più si avvicinano per
eccellenza di vita condotta secondo la regola e per maggior statura culturale a quell’ideale di perfezione
cui la vita consacrata tende
Seconda garanzia che San benedetto pone riguarda le qualità cui la figura dell’abate deve
corrispondere;la regola afferma: chi deve essere costituito abate deve essere scelto in base alla dignità
della vita e alla scienza delle cose spirituali, anche se fosse l’ultimo nell’ordine della comunità.” Non
dunque principi gerarchici consolidati presiedono alla scelta, ma lo spirito di Dio
Terza garanzia riguarda la possibilità di intervento nel processo elettorale dell’abate da parte di
forze esterne all’abbazia; questa possibilità viene contemplata nel solo caso in cui i monaci eleggessero
nell’ufficio di abate una persona non degna di tale compito. In tale ipotesi la regola fa esplicito
riferimento alla necessità di un intervento esterno, o del vescovo alla cui diocesi quel luogo appartiene o
degli abatii o dei cristiani vicini. Questa garanzia è l’unica che apra l’universo chiuso del monastero
all’esterno, innescando una possibile forma di controllo che non tarderà a trasformarsi in un’ingerenza.
I principi secolari no meno che i vescovi e i pontefici cercarono a piu riprese di condizionare il
procedimento di scelta degli abati degli Ordini monastici; e non fu impresa facile per i monaci mantenere
la propria indipendenza nell’elezione delle loro guide. Spesso tali elezioni divennero infatti causa di
conflitti; pur tuttavia queste garanzia non saranno certo sufficienti a fermare le intromissioni di papi e re
nelle elezioni
Giurisdizione propria e indipendenza della chiesa gerarchica: gli statuti e la ricerca del modello
elettorale ideale sin dal primo espandersi del monachesimo in Europa si pone il problema relativo al
rapporto con la gerarchia ecclesiastica segnatamente con l’autorità episcopale. Emergeva con chiarezza
la linea di tendenza delle comunità monastiche ad essere autonome, esenti rispetto alla giurisdizione
vescovile.
Dispute assai accese: riguardavano per lo piu l’ordinazione dei monaci, i poteri del vescovo nella
conferma dell’elezione dell’abate, la consacrazione delle chiese, l’alienazione dei beni del monastero. Di
queste e altre questioni finirono con l’essere investiti i concili e i pontefici, che cercarono di dettare delle
norme in grado di risolvere questi conflitti.
Problema di fondo:era quello relativo alla pretesa di esenzione dei religiosi dalla giurisdizione
episcopale. Già dal
VI sec: si può osservare come i monasteri fossero cresciuti in numero e dimensioni, sino a diventare dei
centri di potere politico e religioso autonomo, anche la massa dei beni patrimoniali di proprietà dei
religiosi crebbe notevolmente. Il tentativo di spogliare i monasteri dei loro possedimenti giocò un ruolo
determinante nell’applicazione dell’istituto dell’esenzione a favore di alcuni grandi monasteri. In questo
modo si passò da un sistema privilegiario che ogni monastero contrattava con il vescovo del luogo, ad un
sistema di esenzioni che assicurava piena e totale autonomia ad ogni singolo monastero.
La possibilità di avere o meno giurisdizione propria dipendeva dalla forza e dalla fama di cui una
comunità godeva, logicamente quindi solo i monasteri piu forti si affermavano una giurisdizione propria a
scapito di quelli meno potenti che continuavano a rimanere soggetti all’autorità del vescovo diocesano.

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XII sec: ciò che nei sec VIII e IX era concesso solo ai monasteri di maggior fama è oramai concesso a
tutte le congregazioni e a tutti gli ordini monastici
Elezione e cooptazione: la divaricazione tra chiesa gerarchica e comunità dei consacratinel
periodo di affermazione del papato e dell’età aurea del diritto canonico, si assiste ad una divaricazione
significativa:
 nella chiesa gerarchica il sistema elettorale per designare vescovi e archi presbiteri cade in
desuetudine e lo stesso procedimento di designazione del pontefice viene riportato alla
competenza di un collegio elettorale assai ristretto, il collegio cardinalizio
 nel mondo dei regolari, i sistemi elettorali si affinano e vengono portati ad un grado di
perfezione e di sofisticata efficienza tale da fornire un modello per gli stessi ordinamenti
secolari
L’esigenza di salvaguardare l’indipendenza della chiesa spinge la gerarchia ecclesiastica a rifuggire dai
sistemi elettivi, troppo pericolosi ed esposti alle ingerenze dei poteri laici fino a scegliere la via della
cooptazione
Garantiti nella loro specificità gli ordini religiosi diventano una sorta di ricchissimo laboratorio
giuridico-istituzionale nel quale vengono sperimentati modelli costituzionali di rappresentanza e di voto,
di gestione del potere e di tutela delle minoranze. Le regole e le costituzioni modellano non più solo una
spiritualità che caratterizza quella determinata esperienza religiosa; ma delineano dei veri e propri sistemi
politico-amministrativi.
È forse lecito affermare come in tutta la scienza canonica l’elaborazione che riguarda il diritto dei
religiosi è quella che ppiù si avvicina alle logiche dei diritti statuali
Assemblea e mandato:voto e responsabilità nel vivere comunitarioil mandato che un’assemblea
conferisce ad un abate si radica, prima che in una fiducia nelle sue capacità di governo, nel suo prestigio
spirituale e morale. La meta cui il superiore deve guidare la comunità è quella di vivere secondo il
modello di comportamento proposto dalla regola. Pur non essendoci tra l’assemblea e l’eletto il rapporto
che può oggi esistere in una democrazia avanzata tra il parlamento e il capo dell’esecutivo, le costituzioni
che via via arricchiscono di contributi la regola di San Benedetto cominciano a designare i poteri di
controllo e di compartecipazione necessaria rispetto all’attività di governo che viene demandata all’abate.
Nel mandato che l’assemblea gli affida non rientra il potere di legiferare in quanto egli è interprete
della legge, non fonte.
Charta Caritatis: apparsa per opera dell’ordine cistercense all’alba del XII sec istituisce la prima
assemblea rappresentativa e deliberativa, formata da rappresentanti del potere locale regolarmente eletti
che in poco tempo acquisirà un’autonomia istituzionale con vastissimi poteri legislativi, esecutivi e
giudiziari, tra i quali quello di rimuovere gli abati indegni, di vigilare sull’applicazione della legge e
sull’attività degli organi esecutivi. Affermatasi nel corso del tempo la centralità dell’assemblea
all’interno del mondo benedettino, questa stessa centralità ha trovato cittadinanza anche presso gli altri
ordini religiosi. Il primato dell’assemblea rispetto al capo dell’esecutivo è affermato: anche laddove essa
venga convocata con minore frequenza non c’è dubbio che ad essa spetti la summa potestas. Per questo
si può inoltre affermare l’importanza del
L’esercizio del voto: questo perché una volta eletti, i titolari del potere esecutivo esercitano il loro
compito fino alla fine del mandato; la resp di tale esercizio chiama ognuno a delineare senza possibilità di
ripensamento a breve, il futuro della propria famiglia religiosa
La partecipazione corresposabile all’esercizio del potereil solo voto non esaurisce gli spazi di
partecipazione all’esercizio del potere all’interno degli ordini religiosi, la cui concezione costituzionale
contempla l’apporto e la collaborazione di tutti alla vita dell’ordine. Attraverso istituti giuridici quali i
consigli e i capitoli conventuali, i consigli e i capitoli provinciali, i definitori provinciali, si evita che
l’attività dell’esecutivo rimanga isolata nell’azione esclusiva di chi è stato eletto e si tende, invece, a
collegarla ai bisogni reali di tutta la famiglia e di ogni singola comunità. Una forma di partecipazione è
contemplata ad es nell’ordine benedettino: dove si prevede che la normale attività di governo dell’abate
debba essere corroborata dal consiglio degli anziani, che egli ha il dovere di consultare procedendo alla
gestione ache degli affari di secondaria importanza.

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Il principio guida della partecipazione generale ha tenuto, nel diritto dei religiosi e nella sua evoluzione,
un posto fondamentale. Poste queste promesse è piu agevole comprendere come proprio nelle costituzioni
degli ordini religiosi abbiano fatto storicamente apparizione per la prima volta nell’occidente cristiano
alcuni principi democratici, espressione naturale di una chiamata partecipativa all’esercizio del potere e
che sono oggi i capisaldi dei nostri ordinamenti secolari:
 principio della delega dei poteri
 possibilità e necessità di decentrare l’attività di governo attuando così una partecipazione
piu larga alla vita istituzionale dell’ordine
Modi e tecniche delle elezioni nelle diverse famiglie religioseil principio dell’unanimismo conteneva
però in sé un’utopia di perfezione della vita cristiana difficilmente attingibile nella realtà delle cose, per
questo il metodo di elezione che si basava proprio sulla acclamazione unanime venne di fatto ben presto
abbandonato. Se ciò era vero per la chiesa gerarchica, a maggior ragione la vita monastica contemplava
con sfavore l’ipotesi di abbandonare la scelta delle proprie guide al gioco dialettico delle maggioranze e
delle minoranze, senza porre dei limiti in grado di garantire il conseguimento del miglior risultato
evitando spaccature all’interno della comunità. Il raggiungimento della maggioranza relativa perciò ha
trovato difficile cittadinanza nei sistemi elettorali elaborati dalle costituzioni degli ordini religiosi, che si
sono sempre sforzati di raccogliere il maggior consenso possibile intorno alla figura destinata a reggere
l’autorità. Lo stesso
San Benedetto: nella propria regola aveva cercato di mitigare la portata del principio maggioritario
esigendo, per l’elezine dell’abate, non solo la pars maior, ma anche la pars senior, quella cioè che
annoverava la componente piu qualificata e prestigiosa della comunità monastica. Il punto tendenziale di
sintesi tra la parte maior e quella sanior sembra esser raggiunto nell’
Elezione per compromesso: per cui il diritto di ogni singolo soggetto ad esprimere direttamente il voto
veniva volontariamente delegato ad un numero dispari di arbitri o compromissari che direttamente
procedevano all’elezione del candidato. In verità, il compromesso si sostanziava in una elezione
sdoppiata in due momenti ben distinti: determinazione arbitri + decisione da parte di questi.
Non è invece un caso se l’introduzione di un sistema maggioritario puro e semplice si deve
sostanzialmente ai Domenicani, che elaborarono nelle loro costituzioni un disegno più avanzato dal
punto di vista giuridico, che sembra abbandonarsi di pie e con maggior fiducia alla volontà comune.
Questo sistema dei Domenicani ha spinto in un breve lasso di tempo molti altri ordini a modificare in
questo senso le proprie costituzioni.
Negli stessi anni nei quali si andava affermando con forza il primato pontificio e la cooptazione come
metodo di collazione degli uffici ecclesiastici, all’interno di quella sorta di galassia rappresentata dagli
ordini religiosi, si faceva invece strada l principio che nella volontà dei più risiede la legittimità del
potere.
La dottrina canonistica piu autorevole comincia ad elaborare l’idea per la quale la maggiore autorità
morale e spirituale può non essere in netto contrasto con la legge dei numeri; e che il numero maggiore
dei consensi debba probabilmente riflettere la bontà della scelta operata dai più per volere divino.
L’affermazione definitiva del principio maggioritario va di pari passo con il consolidarsi di una serie di
modalità e di tecniche di voto che ne garantiscano la libertà, la trasparenza e l’efficacia. L’espressione
del voto, prima di tutto, che può essere dato in maniera pubblica o segreta; l’uso di votare per seduta o
alzata, abbassando o rialzando il cappuccio, levando la mano, sono tutti modi di esprimere pubblicamente
il proprio voto documentati nella vita degli ordini religiosi a partire dal X sec.
L introduzione dello scrutinio segreto ha origini consuetudinarie piu antiche; il voto segreto secondo la
forma canonica classica veniva da ognuno espresso localmente e in maniera riservata a tre scrutatori,
previamente designati, che provvedevano a segnarlo per iscritto e a rendere poi pubblici i risultati sanciti
e registrati in un verbale ostensibile alla generalità. Altre modalità che tendevano a preservare in misura
maggiore la segretezza del voto furono introdotte in epoca immediatamente successiva: tra queste l’uso
di deporre in un urna posta all’uscita della sala capitolare delle fave, delle ballotte o dei sassi. Dopo
il Concilio di T l’adozione dello scrutinio segreto divenne vincolante
Assenza o rinuncia al voto: comportano delle sanzioni, tuttavia l’assenza pone il problema

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dell’identificazione del numero minimo dei membri dell’assemblea necessario per dar luogo ad una
valida elezione: il problema del quorum. L’astensione non è ammessa come non sono ammessi e
classificati nulli i voti incerti, condizionati, alternativi
Punto fondamentale circa il voto è che sia indissolubilmente legato alla coscienza, infatti,a partire dal
XII sec: sono esplicitamente vietati presso i Domenicani e altri movimenti la promessa di voto in
cambio di favore, le pressioni di ogni genere per agevolare un candidato rispetto ad un altro, la
diffusione di notizie tendenziose a danno di un eleggibile. Per questo non di rado l’espressione del
voto viene preceduta da una preparazione spirituale che spesso prevede l’assunzione dei sacramenti
della confessione e della comunione prima delle operazioni di voto
Ricerca dell’unanimità e musica omofonicaun inno chiudeva normalmente tutta la sequenza degli
atti dell’elezione;in questo modo la coesione spirituale della comunità trovava il proprio coronamento, la
propria rappresentazione vocale nel canto gregoriano, termine collettivo che si usa dare ad un
determinato stile di canto omofonico. Il chorus è un elemento fondamentale della vita liturgica

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