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Andrea Zanotti

IL MATRIMONIO CANONICO NELL’ETA’ DELLA TECNICA


G. Giappichelli Editore – Torino

1. SIDERA CORPORIS
A) L’origine: argilla e soffio, disordine e parola
Nella nebulosa che sta all‟origine del tempo, in quel confondersi di vuoto, acque, tenebre, deserto e vento di cui ci
narra il libro della Genesi si nasconde il volto di Dio, l‟ente creatore che ha dato origine a tutte le cose. Per sua
volontà ha inizio la storia, per un suo libero atto la materia si condensa ed interpreta lo spazio inabitato e, sino a quel
momento, inerte. La lingua dolce ed ascetica del mito religioso, non meno di quella dominata dalla secchezza
razionale della scienza, sembrano indicarci per vie diverse un‟unica origine, un unico atto creazionale: un big bang da
cui tutto promana. Prima di questo evento fondativo esisteva, dunque, solo il regno dell‟indistinto. Era ancora
possibile creare ogni cosa, nessuna scelta era stata fatta: è in questo teatro che prende corpo il racconto innervandosi
proprio sulla capacità di decidere di Dio sul caos e sul suo potere di dare un nome alle cose, di creare differenza nel
regno dell‟indistinto. Così la luce viene separata dalle tenebre, il sopra dal sotto, le acque dalla terra. Oltre lo spazio
anche il tempo inizia a pulsare: giorno e notte segneranno da ora in avanti la storia della terra, e il giorno sarà
illuminato dal sole e la notte verrà resa pallida dal cammino della luna e dal murmure tremolare delle stelle. Nel
dipanarsi progressivo della creazione compare volta a volta davanti ai nostri occhi tutto ciò che conosciamo come
natura, come mondo circostante: piante e sementi, uccelli del cielo e animali della terra. Ma alle specie viventi Dio
non dà un nome: questa operazione verrà riservata all‟uomo, che solo alla fine egli decide di creare a propria
immagine e somiglianza. La comparsa dell‟uomo giunge inevitabilmente alla fine della narrazione, allorché Dio si
accorge di essere rimasto unico ente indistinto e non riconoscibile. Così Dio si risolve a cavare dall‟argilla l‟immagine
di se stesso e di differenziarsi donandogli il suo soffio, lo spirito razionale che anima, sia pure in maniera e in scale
diverse, il Creatore e la creatura. Tra i poteri riflessi e concessi all‟uomo il più importante è il logos, la parola che può
metterlo in grado di porre, sia pure nell‟universo già illuminato del Paradiso terrestre, un ordine che faccia capo al
suo potere. Non è dunque un caso, ma costituisce in qualche modo il componimento della creazione, il fatto che Dio
conduca all‟uomo tutti gli animali della terra e quelli che popolano il cielo per vedere come li avrebbe chiamati; e che
Adam dia un nome a tutti gli animali domestici, a quelli selvatici e agli uccelli. Ma proprio la facoltà razionale donata
all‟uomo, la sua capacità di scelta e di decisione costringe in qualche modo Dio a fare i conti con la sua creatura.
Come la ribellione di Prometeo porta, alla lunga, alla sconfitta di Zeus, così l‟atto umano di cogliere del frutto
dell‟albero della conoscenza produce uno iato, un male che se conduce da un lato l‟uomo sulle strade impervie di una
storia finalizzata, in un tempo escatologico, a ritrovare il volto dell‟Eterno, dall‟altro riporta Dio alla sua solitudine.
Questa rottura è così profonda da costringere il Creatore a presidiare l‟Eden con i cherubini muniti di spade
fiammeggianti, per impedire ad Adam e alla sua progenie di rientrare nel luogo dove, per un breve momento, la
differenziazione provocata dalla creazione non aveva conosciuto conflitto. Il segreto della genesi della vita e la
titolarità del tempo rimangono, dunque, come i due elementi irrinunciabili che distinguono ancora la sostanza umana
e quella divina: senza questi tratti distintivi tutta l‟opera creazionale si rivelerebbe, nella logica della Scrittura, priva
di senso. Il soffio divino che ha animato l‟uomo continua così a vivere pur nel disordine che proprio la sua capacità di
scelta ha generato: e, per converso, l‟ordine generato dalla sua parola si risolve in un esodo che ancora dure.
B) Il corpo, mistero di Dio e mistero dell’uomo
Nel corpo dell‟uomo rimane scolpito il mistero più profondo che il racconto della Genesi, né alcun altra pagina del
Libro possono rivelare: l‟immagine di Dio, la sua identità. Anzi, il volto di Dio rimane per definizione nascosto e solo
Mosè tra gli uomini, sopravviverà dopo aver fissato lo sguardi di Colui che è e che sarà. La dimensione della fisicità
contiene, dunque, una dimensione ontologicamente misterica, che sottende la presenza di Dio nella carne, carne
inizialmente non facilmente corruttibile, come testimonia la longevità straordinaria dei Patriarchi fino a Noè che
partecipano ancora, e non casualmente, di un tempo millenario. È il cattivo uso del corpo che, ancora una volta,
legittima l‟intervento diretto del Signore. Il venir meno alla finalità sacra di popolare la terra, benedetta sin dal sesto
giorno, e questo lasciarsi andare ad una legge naturale, interna che inclina a cercare la bellezza come valore, fa sì che
Dio ponga un primo argine, riducendo il tempo nel quale il suo alito vitale abiterà il corpo. Se il bene è ciò che era
stato creato e del quale alla fine di ognuno dei primi sei giorni Dio diceva essere molto buono, il male diviene tutto
quello che ancora non esiste, ciò che deve essere ancora tratto ad esistenza dall‟indeterminato. E il motore di questo
processo è il corpo, abitato dall‟alito di Dio, ma anche da passioni e forze misteriose che sorprendono lo stesso
Creatore. È la potenza del corpo che bisogna limitare seguendo una duplice via: concedendogli un tempo breve, per
un verso, e segnandone indelebilmente la carne, dall‟altro. Il sigillo di Dio e del patto dell‟alleanza conclusa con
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Abramo non s‟inciderà in una qualsiasi parte del corpo: viceversa, il sigillo di appartenenza circonciderà il prepuzio:
“Vi impegnerete a circoncidere ogni maschio tra voi: reciderete il vostro prepuzio come segno del patto tra me e voi”.
Il comandamento di Dio cala dall‟alto sui discendenti della sua creatura, ancora intesi, come Adam, a decifrare la
propria natura attraverso l‟unico mezzo misterioso dato loro per conoscerla: il corpo. Il corpo dell‟uomo custodisce,
quindi, un mistero che può essere condiviso solo con un‟altra creatura umana, come è evidente nel riconoscimento
esplicito ed entusiasta di Eva da parte del primo uomo: “Questa sì! È osso delle mie ossa, carne della mia carne”.
Ecco comparire per la prima volta la parola carne, che identifica il mistero del corpo nella sua datità biologica.
Nell‟ingenuità delle origini prime, dove la tentazione della conoscenza non si è ancora manifestata, non vi è frattura
tra sostanza spirituale e dimensione fisica dell‟uomo, tanto che il Libro indugia sull‟immagine di Adamo ed Eva nudi
ma esenti di vergogna. Solo dopo aver mangiato il frutto dell‟albero della conoscenza i due si accorgeranno
improvvisamente della propria nudità, e, vergognandosene, tenderanno ad escludere Dio dalla consapevolezza della
propria ingenuità perduta, nascondendosi alla Sua vista. Il Dio cristiano dovrà risolversi, per dar origine ad una
nuova storia, ad incarnarsi, non avendo altra scelta per conoscere in prima persona le passioni e le dinamiche
dell‟uomo fatto di argilla e soffio. L‟eternità di Dio farà l‟esperienza più alta, in termini di conoscenza, nella fragilità
di Cristo e del suo corpo, nell‟amarezza di un calice che non può essere allontanato per nessuno, nemmeno per chi si è
calato nelle regole di un gioco da lui stesso poste. Assumendo un corpo umano il Creatore mangia così a sua volta e
paradossalmente del frutto della conoscenza: il non riconoscimento e la passione di Cristo rappresentano il prezzo di
una trasgressione che nella fede cristiana fonda la speranza di un riscatto eterno dal dominio della materia.
C) La meiosi divina: la scissione del principio femminile e del principio maschile
Pochi forse ricorderanno un passaggio del magistero di Giovanni Paolo I; il Papa durato esattamente una luna, ebbe
a dire, affacciandosi in Piazza S. Pietro: “Ricordate che Dio è papà ma anche mamma”. La maggior parte degli
osservatori interpretarono quell‟uscita di Albino Luciani come un accenno alla completezza dell‟amore di Dio per
l‟uomo, che conosce tutte le sfumature della mascolinità e della femminilità. In verità, l‟uscita di Giovanni Paolo I
era probabilmente assai meno ingenua di quanto gli esegeti non asserissero. Essa si ricollegava direttamente ad
un‟intuizione lontana eppur presente con qualche eco nel pensiero teologico delle origini. Lo stesso pensiero gnostico
postulava la coesistenza all‟interno della divinità del principio maschile e del principio femminile. Il Vangelo di
Filippo, ponendo il problema della differenziazione sessuale entro la Trinità, giunge per via semantica ad attribuire il
carattere femminile allo Spirito Santo, essendo la radice ebraica della parola spirito di genere femminile. Certo questi
sviluppi rimangono sempre ben alle soglie del pensiero teologico ortodosso, per il quale Dio rimane difficilmente
rappresentabile. Eppure il tema della sessualità divina rimane centrale per ogni religione tradizionale dalla quale
origini un‟antropologia che nella divinità si rifletta e si riconosca. La diade metafisica che fonda la divinità è un dato
riscontrabile sia nella tradizione indù che nelle sue derivazioni tantriche; nelle religiosi orientali i contesti simbolici di
cielo e terra, di acqua e fuoco si qualificano come ricorrenti, dando vita anche a simbologie che si riflettono nell‟atto
della congiunzione sessuale tra uomo e donna. Certo la teologia ebraica e quella cristiana meglio rimandano
all‟infinita purezza o all‟assoluta imparlabilità di Dio pur non ignorando tutto questo back-ground culturale
sommerso. Se si tiene presente questo orizzonte, non può essere considerato del tutto casuale il rispuntare improvviso
del tema della sessualità divina nel magistero di un Pontefice come Albino Luciani o nelle profondità di un pensiero
teologico trinitario come quello di Bruno Forte. La circolazione perfetta d‟amore nell‟ambito della Trinità è
all‟origine dell‟opera creazionale: e, per converso, anche nel contesto di altre culture religiose tradizionale il numero
tre rappresenti la perfezione, dal momento che l‟Uno è l‟inizio, il Due il principio femminile, il Tre il numero maschile
cui spetta d‟impersonare “l‟Unità non in sé ma aggiunta alla Terra”. Così nel creare Adam, creatura partecipe solo in
parte della totalità divina, Dio sceglie di produrre una sintesi e di non incarnare la complessità degli elementi che
compongono la sua sostanza. Adam sarà dunque maschio, e, in quanto finito e sessualmente determinato, non potrà
convivere in lui il profilo della diade metafisica che nutre la tradizione delle grandi narrazioni religiose indoeuropee. Il
principio unitario che convive in Dio nella creazione dell‟uomo risulta menomato: e se la creatura deve essere davvero
l‟immagine del Creatore, la Bibbia evidenzia che manca di qualche cosa. Tanto è vero che a sipario definitivamente
alzato Dio si rimette al lavoro e fa vedere la luce ad Eva, addormentando Adam, che nulla doveva sapere e vedere del
come le cose venivano chiamate ad esistenza, per non essere testimone del sommo atto creativo che spetta a Dio e a
Dio solo. Uomo e donna sono talmente complementari da segnare, nel reciproco incontro, la propria definitiva
maturità, come Dio stesso sottolinea appena creata Eva: “Perciò l‟uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà alla
sua donna e i due saranno una cosa sola”. Se il Signore concepisce la creatura umana a propria immagine e
somiglianza, Adamo ed Eva lo riflettono entrambi, incarnando di Lui aspetti e polarità diverse. Essi recano in sé,
ognuno per la propria parte, una scintilla del divino da cui sono originati, e continueranno a tramandarla di
generazione in generazione nel loro unirsi e procreare. Ulteriormente, recando in sé l‟immagine del divino, è lo stesso
Creatore a moltiplicarsi in tutti gli esseri derivati dall‟argilla e dal suo soffio.

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D) Nostalgia dell’Uno: il mito dell’androgino e la ricomposizione dell’infranto
La caratterizzazione sessuale del corpo, il suo specchiare nel maschi e nella femmina l‟immagine di Dio non è, dunque,
un dato secondario e semplicemente fenomenologico. È ciò che il sentire religioso deve aver colto come un tema
centrale, se è vero che il mito dell‟androginia diventa ricorrente pur in contesti molto diversi. La riconduzione ad
unità della divisione tracciata dalla differenziazione sessuale, la sintesi in un solo essere umano dell‟immagine
complessa della divinità diviene una sorta di topos delle tradizioni religiose arcaiche del bacino del Mediterraneo, non
meno che della mitologia greca che trova nel Fedro e nel Simposio di Platone un suo punto d‟approdo. Così è per
l‟induismo, dove non di rado Shiva e Paharvati vengono raffigurati sotto forma androgina; così è anche in alcune
interpretazioni kabbalistiche della Genesi ove si sostiene che il passo “maschi e femmina li creò” rimanderebbe
all‟idea della creazione di un essere primo connotato dall‟assunzione contemporanea delle caratteristiche proprie
dell‟uomo e della donna. E se un testo gnostico che fa parlare direttamente Dio, attribuisce a Dio stesso la qualità di
androgino, il Vangelo di Tommaso, parlando invece del Regno dei Cieli, afferma che vi potranno entrare le donne che
accetteranno di farsi maschio e i maschi che consentiranno di assumere in sé i valori della femminilità. La
caratterizzazione sessuale viene, dunque, avvertita come una non perfezione, come qualche cosa che traduce
incompiutamente l‟immagine della divinità, nella quale invece lo stato di perfezione compendia e contempla
armonicamente sia l‟elemento maschile che quello femminile. Per questo l‟idea dell‟androginia si muove al fondo delle
religioni tradizionali. Essa, poi, trova un singolare punto di rifrazione nelle leggi della biologia recentemente scoperte,
le quali ci narrano di una sorta di lotta del sesso maschile e femminile nella formazione del feto, che solo dal terzo
mese comincia a differenziarsi sessualmente. Questo contribuisce ad affermare che ognuno di noi reca con sé in una
certa percentuale il carattere del sesso che non è prevalso in maniera definitiva, facendo di ogni sensibilità umana un
dato irripetibile che confonde e mescola, se pure in maniera diversa, l‟elemento feminino e quello mascolino. Se il mito
dell‟androgino rappresenta la sintesi idealmente perfetta in una sola persona dei due principi che convivono in Dio, la
ricomposizione di quell‟immagine attraverso il farsi “una sola carne” dell‟uomo e della donna rappresenta qualche
cosa di ancora più alto, perché è alla radice di una sintesi vera, che parte dalla diversità ontologica incarnata dai due
elementi. E, soprattutto, questa sintesi passa necessariamente attraverso l‟amore terreno, l‟eros, che non trova la sua
definizione solo ed esclusivamente a compendio, nell‟uomo, della funzione riproduttiva: ma che rimanda, per sua
stessa natura, ad una dimensione altra. Il corpo diviene qui il protagonista ed insieme il transito della consumazione
di un destino che assomma in sé una dimensione fisica ed una dimensione spirituale. La riduzione della sessualità
umana ad un dato meramente riproduttivo non tiene, dunque, nel debito conto questa complessità.
E) Sessualità e desiderio: conoscenza e caduta
L‟idea per la quale la sessualità è uno strumento di conoscenza percorre trasversalmente le grandi tradizioni religiose
d‟Oriente e d‟Occidente che vedono implicato, nel suo esercizio, un disvelamento del grembo della divinità. La prima,
che si radica soprattutto nelle religioni creazionistiche, è quella che individua una sacralità dell‟atto unitivo e
procreativo dal momento che in esso si può considerare un prolungamento e una partecipazione dell‟uomo all‟atto
creazionale divino. La seconda, invece, si fonda nella considerazione per la quale nell‟esercizio della sessualità si
disvela un orizzonte diverso da quello che la successione dei gesti nel quotidiano pone: per essa l‟uomo attinge ad una
misura di sé prima sconosciuta, destinata a cambiare il senso e la portata dei suoi gesti e dei suoi pensieri. Per questo
il desiderio che spinge verso l‟unione sessuale è difficilmente decodificabile solo in un semplice movimento del sostrato
istintuale, comportando, viceversa, l‟anelito ad una realizzazione di sé negata per le normali vie della conoscenza. Si
fa strada, in questa direzione, la sessualità intesa come desiderio di conoscenza, giacché essa origina in un mistero non
disvelabile. L‟esperienza, l‟unica esperienza umana condivisa, dell‟innalzarsi e, dell‟uscir da sé nell‟estasi d‟amore,
avvicina l‟uomo alle soglie di un mondo sconosciuto, che lo trascende. Per questo la sessualità è conoscenza, come
asserisce lo stesso linguaggio biblico; per questo motivo, anche se la caratterizzazione procreatica della sessualità
nell‟Antico Testamento riveste una valenza finalistica assai forte, il matrimonio viene inteso come un mistero, fino ad
attingere, nel pensiero kebbalistico, all‟immagine dell‟unione di Dio con la shekinah. La stessa consapevolezza è
possibile rinvenire nell‟universo cristiano, e segnatamente in Paolo di Tarso, laddove egli affronta il tema del corpo
nel rapporto uomo-donna. In quest‟universo di discorso ancora non affiora la contaminazione e la sottomissione della
dimensione erotica alla dimensione procreativa: ed è ben chiaro che di per sé la procreazione è una conseguenza, ma
non l‟unica, della vita sessuale dell‟uomo. Tutta la tensione che innerva nel racconto della Genesi, il momento della
consumazione del frutto della conoscenza con la conseguente scoperta da parte dell‟uomo del proprio corpo e della
propria sessualità, non può essere sciolta e ricondotta a quell‟augurio “crescete e moltiplicatevi” che precede
cronologicamente l‟evento drammatico della caduta e che, bene è stato sottolineato, costituisce una benedizione e non
un comandamento che finalizza la dimensione della sessualità umana. Essa, viceversa, costituisce il velo di Maia
squarciando il quale l‟uomo intravvede una realtà più alta; ma proprio per questo è anche il luogo ove egli
sperimento, non di rado con dolore, il senso della propria fragile caducità.

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F) Genesi e Apocalisse: dalla maledizione del lavoro e del parto al nuovo, ultimo orizzonte disegnato dalla
tecnologia
Che la conoscenza abbia molto a che vedere con la sessualità è lo stesso racconto della Genesi a sottolinearlo: appena
Adamo ed Eva mangiano del frutto dell‟albero sino ad allora proibito, “i loro occhi si aprirono e si resero conto di
essere nudi”. Da questo momento in avanti il corpo nudo perderà tutta la sua ingenuità: e persino il Signore sentirà il
bisogno di coprirlo. Così ricoperto ed incerti sui propri passi osserviamo l‟uomo e la donna avviarsi sui sentieri
impervi di una storia della quale forse oggi intravvediamo la fine. Prima di rivestirli con le tuniche, il Creatore
pronuncia, dopo la disubbidienza, le maledizione che precedono il castigo terribile e senza appello: “tornerai alla terra
dalla quale sei stato tratto: perché tu sei polvere e alla polvere tornerai”. Dopo aver cercato di conquistare l‟albero
della conoscenza, è l‟albero della vita a rimanere precluso: per effetto di questa maledizione la vita stessa scorrerà con
fatica, a cominciare sin dal momento del parto. D‟ora in poi la sessualità sarà gravata dal peso procreativo destinato
a fare aggio su tutto, anche se, nonostante questo dato di fatto legato alla sofferenza di diventare madre, l‟istinto
guiderà la donna verso l‟uomo destinato a dominarla. Queste parole di Dio, gravi e senza appello, sono risuonate
lungo i molti secoli segnati dalle fatiche dell‟uomo, secoli che hanno visto i padri dei nostri padri mangiare con grande
lentezza del frutto della conoscenza che pure Adamo ed Eva avevano addentato per primi. Tanto che i dolori del
parto e la fatica di lavorare la terra sono finiti per apparire come necessità imposte dalla natura e dalle sue leggi
oscure e inconoscibili. Oggi non possiamo non accorgerci di come il quadro nel quale viviamo sia radicalmente
mutato. Un interlocutore molto più aggressivo per il sacro di quanto non fosse la scienza a fatto la sua comparsa: la
tecnologia. I progressi della ricerca scientifica e le loro applicazioni tecnologiche sembrano, infatti, avviate a superare
le maledizioni pronunciate da Dio all‟atto della caduta. I dolori della gravidanza e del parto, prima di tutto. Il
distacco, già avvenuto, tra sessualità e procreazione non può, infatti, di prospettiva, che aprire una linea di fuga per
la quale la maternità, la gravidanza ed il parto vengono portati al di fuori del corpo della donna. Il profilarsi della
distinzione tra madre genetica e madre naturale ne è un segno eloquente. Tale distinzione è già approdata nelle aule
di molti tribunali del pianeta, a testimonianza di come questo fenomeno investe ormai in pieno non solo le categorie
mediche i quelle metagiuridiche, ma quelle tout court giuridiche. Il diritto, si sa, arriva sempre per ultimo e sancisce le
rivoluzioni già avvenute: per questo l‟approdare nelle aule di giustizia delle tematiche legate al distacco tra sessualità
e procreazione è un segnale evidente di quanto esse si siano già diffuse nelle pratiche contro la sterilità non meno che
nella coscienza collettiva come via alternativa alla procreazione naturale.
Uno dei corollari prevedibili che discenderanno dall‟affermazione di questa prospettiva, sarà quella di liberare la
donna dal dominio dell‟uomo alla quale rimane sottomessa, proprio per lo stretto legame tra sessualità, sofferenza e
procreazione. Il lavoro, poi: il mondo gravato dalla colpa originale ha conosciuto sin qui l‟obbligo del lavoro,
derivante dalla maledizione pronunciata da Dio su Adamo. Il lento dominio dell‟uomo sulla natura è transitato
attraverso la fatica atavica d‟innumerevoli generazioni, che sui ritmi del lavoro sono riuscite a cavare da una terra
avara di che vivere. Nemmeno la prima rivoluzione industriale era riuscita a mutare quel quadro antropologico e
culturale, che proveniva e ritornava al mondo contadino. Solo in questi ultimi decenni l‟accelerazione dello sviluppo
legato all‟elettronica e all‟informatica ha determinato l‟entrata in scena dell‟automazione e della macchina, con
conseguente cambiamento radicale dell‟organizzazione produttiva. Progressivamente la fatica è stata relegata a
popolazioni immigrate subalterne e, soprattutto, alla forza delle macchine, comandate da computer e software. Le
diverse situazioni economiche e di mercato che si sono venute a delineare hanno consentito di conquistare ambiti di
libertà dal lavoro sempre più ampi. L‟incredibile cambiamento epocale avvenuto in campo occupazionale, collegato
ai fenomeni emergenti della mobilità, della flessibilità, della possibilità di svolgere ormai gran parte delle mansioni
attraverso le reti telematiche, ha scosso dalle fondamenta la concezione tradizionale del lavoro e della fatica che lo
accompagna. Certo a buon titolo, e senza tema di essere smentito, chiunque potrà affermare, di contrasto, come tutto
ciò sia vero se parliamo di una parte del mondo: quella ricca e tecnologicamente avanzata, giacché se dobbiamo
parlare dell‟altra parte del globo è sin troppo facile notare come né tipologia del lavoro sia mutata di molto, né,
d‟altra parte, siano venuti meno i dolori della gravidanza e del parto. È altrettanto vero, tuttavia, che noi abbiamo
preso in considerazione come paradigma lo sviluppo dell‟Occidente a tecnologia avanzata, dal momento che questa
realtà è destinata a segnare le tappe dello sviluppo futuro dell‟umanità. È in questo stesso futuro che riposerà anche
lo sviluppo economico definitivo dei Paesi oggi poveri. È facile prevedere che il maleficio e l‟incantesimo con il quale i
Paesi in via di sviluppo pagheranno il prezzo dell‟emancipazione sarà la dissoluzione delle loro culture e tradizioni
non compatibili con una lingua universale fatta ormai di 400 vocaboli inglesi, con un‟alimentazione globalizzata, con
una religiosità diffusa che tende ad eliminare la differenza affidata alla caratterizzazione di ogni singola fede e alla
struttura dogmatica tipica delle religioni tradizionali. Certamente siamo in procinto di vedere cieli nuovi e terre
nuove, e ben oltre a noi, saranno le generazioni future a contemplarli. L‟Apocalisse è il testo che chiude la sequenza
del Libro della Rivelazione e che postula l‟avvento di un tempo nuovo, segnato dal ritorno di Cristo. L‟Apocalisse
contempla il Giudizio e descrive un‟umanità nuova riscattata, liberata dal giogo della storia ed ammessa a vedere, per
stessa bocca dell‟Angelo “tutto ciò che deve accadere tra poco”. Chissà se l‟Angelo dell‟Apocalisse era tra quelli che
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Dio aveva destinato a montare la guardia con la spada fiammeggiante davanti al Paradiso terrestre affinché l‟uomo,
mangiato del frutto dell‟albero della conoscenza, non potesse tornare per mangiare dell‟albero della vita. L‟uomo,
fatto esperto del bene e del male, avendo condotto il processo della conoscenza fino ad un punto di non ritorno, è oggi
in grado di muovere verso il Paradiso perduto per dar l‟assalto all‟albero della vita. Le scoperte della biologia
molecolare, non a casa frutti assai recenti dell‟albero della conoscenza, lo rendono in grado di farsi signore della vita,
dei suoi segreti e dei suoi ritmi: di porsi cioè, definitivamente, al posto di Dio.
G) Il corpo come campo di sperimentazione dell’uomo e della macchina
A ben vedere, la signoria che l‟uomo cerca di stabilire sul proprio corpo, è frutto di una divisione passata nella civiltà
occidentale tra spirito e materia, tra anima e lo stesso corpo. In questa dialettica è il corpo ad avere la peggio, a
subire una riduzione di senso per finire ad essere un mero strumento della razionalità. Nelle epoche primitive e ancora
nella prima classicità non rinveniamo traccia di questa divisione: la realtà del mondo esterno è qualche cosa che
interagisce ancora con la totalità dell‟uomo, fatto indistintamente della sua materialità e dello spirito che abita in lui
e che lo anima. Non vi è una realtà metafisica, ultraterrena che debba e possa esser colta dalla parte più immateriale
dell‟uomo. La crisi del corpo coincide con l‟entrata in scena di pretese metafisiche per mezzo delle quali leggere il
mondo e suoi molti misteri. Così è per la filosofia greca che inaugura con Platone e il mito della caverna l‟universo
delle idee innate; così è anche per l‟orizzonte cristiano, nel quale è l‟anima a stagliarsi come la depositaria della parte
più nobile e degna della sostanza umana. Il corpo comincia, sin dalle pratiche di dissezione dei cadaveri iniziate
ancora in età medioevale, ma più ancora dopo l‟affermazione del razionalismo cartesiano e l‟avvento dell‟Illuminismo
poi, ad essere investigato come una macchina, come qualcosa di esterno alla stessa intimità dell‟uomo. La nostra
dimensione fisica altro non è, in questa prospettiva, se non una serie di organi giustapposti e ben collegati che devono
consentire alla nostra ragione o alla nostra anima, a seconda delle credenze, lo sviluppo delle sue facoltà. Su questa
via la scienza medica tenderà a dimenticare i bisogni del corpo e i complessi intrecci che legano nell‟uomo dato fisico e
dato psicologico (o sostanza immateriale), per limitarsi a curare gli effetti di squilibri rilevati per via sintomatologica.
A questa obsolescenza della centralità del corpo si accompagna anche una crescente rilevanza di funzioni affidate
anticamente alla fatica dell‟uomo e svolte ora con l‟ausilio di macchine via via sempre più efficienti.
L‟avvento dell‟elettronica e lo sviluppo di linguaggi informatici sempre più sofisticati hanno relegato ulteriormente il
corpo in una posizione subalterna e privilegiato in maniera sproporzionata il ruolo della mente e della razionalità.
Anzi, le macchine hanno già cominciato ad utilizzare il corpo come un eccellente laboratorio. D‟altro canto l‟uomo,
reso colpevole del suo dominio sul mondo della natura che lo rende simile a Dio, non è più disponibile a rinunciare alla
signoria sul corpo, che la razionalità piega alla sua volontà. Eliminata la dimensione fisica della fatica e del sudore nel
lavoro, il corpo può essere modellato a seconda della necessità e dei bisogni: in sintesi, della pura volizione soggettiva.
La fatica diventa, per questa via, elezione e divertimento: ed il sudore trova cittadinanza ormai quasi esclusiva nelle
palestre e nei centri di fitness e bellezza. D‟altro canto, il corpo può essere modificato a piacimento, e se un tempo le
sembianze potevano cambiare solo con l‟ausilio ed il ricorso a cosmesi e travestimenti, oggi la tecnologia consente di
manipolare il corpo fino a renderlo docile e fargli assumere l‟immagine che la razionalità si propone. Anche
sull‟esercizio della sessualità, ormai slegata da un fine procreativo, la razionalità si distende a dettare i modi di
atteggiarsi del corpo, facendogli assumere, di volta in volta, il ruolo che essa vuole venga recitato. Così i ruoli attivi e
passivi postulati dall‟esercizio delle omosessualità o dal modello sadomasochistico piegano la dimensione fisica ad un
gioco delle parti dettato di volta in volta da una rappresentazione di pura fantasia. È una libera opzione quella che
ora giuda la trasformazione di un corpo secondo la propensione, le necessità e i bisogni dati dalle pulsioni di una
psiche, soggettiva e collettiva, approdata al lidi della razionalità dispiegata. In questa dialettica che pare improntare
in maniera sempre più netta il tempo e la sensibilità post-moderne, la riconquista del corpo e la sua sottomissione
definitiva alla ragione, sembrano in verità precludere alla sua assenza e al suo svaporare nelle ragioni fredde di un
cervello virtuale. Il corpo e le sue costellazioni sembrano farsi più lontane e sconosciute all‟uomo dominato dalla
tecnica: e più forte il rimpianto e la nostalgia per quel pugno animato di argilla che da sempre contiene e custodisce
l‟immagine imperscrutabile di Dio.

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2. UOMO E DONNA LI CREO’: IL CORPO, LE PASSIONI E IL PATTO NUZIALE
A) L’uomo, la donna e l’augurio di dominare la terra
La natura complessa di Dio si sdoppia e prende forma nell‟opera creazionale più alta, quella che assume come
soggetto l‟uomo, in maschio e femmina. L‟amore che pervade e innerva il Creatore diviene così leggibile nella realtà e
nella metafora umana che celebra in ogni uomo e donna la possibilità di ricomporre l‟immagine unitaria del divino. Il
magisteri del Vaticano II fa discendere la propensione dell‟uomo ad essere “animale sociale” proprio da questa scelta
di Dio di creare l‟uomo differenziandolo nella sua sessualità. Da qui a sottolineare la finalizzazione procreatica del
matrimonio il passo è breve e viene compiuto nello stesso documento conciliare, la Costituzione Gaudium et Spes al
capo 50: “Il matrimonio e l‟amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della
prole”. La conclusione tracciata dal Concilio Vaticano II si polarizza sulla famiglia, luogo primo della società umana:
“Di conseguenza la vera pratica dell‟amore coniugale e tutta la struttura della vita familiare che ne nasce, senza
posporre agli altri fini del matrimonio, a questo tendono che i coniugi, con fortezza d‟animo, siano disposti a
cooperare con l‟amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la sua
famiglia”. Ma questa vocazione alla vita sociale, cui l‟istituzione familiare corrisponde, pur essendo centrale nella
concezione teologica e giuridica dell‟universo cristiano, non esaurisce la complessità della narrazione biblica in
argomento. La missione procreatica si palesa, infatti, in tutta la sua latitudine solo dopo l‟episodio della caduta,
allorquando la stessa sopravvivenza del genere umano pare affidarsi alla capacità di Adamo ed Eva di dar luogo ad
una discendenza. Dai dolori del parto di Eva, una delle conseguenze determinate dalla caduta, nacquero Caino, Abele
e Set. Ma solo dopo che anche Set ebbe un figlio, Enos, e con esso la certezza che la sessualità umana avrebbe
popolato la storia, la Genesi ci dice che “si cominciò ad invocare il nome del Signore”. Ecco che la vocazione
procreatica viene compiutamente adempiuta nella seconda generazione: ma è proprio qui che la Bibbia ritorna sui
suoi passi per ricordarci un valore che sostiene l‟unione dell‟uomo e della donna al di là della loro vocazione
generativa: il loro essere, cioè, unità metafisica, il loro riflettere l‟immagine unitaria di Dio.
È il primato dell‟uomo su tutto il creato che viene celebrato: l‟uomo (maschio e femmina), proprio perché fatto ad
immagine e somiglianza di Dio, non può non dominare l‟universo e ciò che esso racchiude. Nel tracciare quelle che
saranno identificabili dopo la caduta come le linee del tempo, il Creatore non può che auspicare il dominio della
creatura prediletta su tutte le altre, preconizzando la capacità tecnica dell‟uomo e, nello stesso tempo, augurando che
la sua specie possa essere la più numerosa e popolare tutta la terra, della quale egli è il compimento e la
giustificazione. L‟auspicio di fertilità sostanzia, da un lato, la raccomandazione di non perdere la capacità creativa
che l‟uomo reca in sé come custodia dell‟immagine di Dio; dall‟altro il premio e il patto di fedeltà che lega la creatura
al Creatore. In questa prospettiva molti passi dell‟Antico Testamento acquistano una specificità, ove letti secondo
questa orientazione. Così per Abramo, al quale Dio promette una discendenza più numerosa delle stelle che
illuminano il cielo per premiare la sua fiducia incrollabile. Il popolare la terra non è, dunque, riconducibile ad un
imperativo morale che si esaurisce nella sfera soggettiva. La procreazione non si sostanzia in un dovere: essa è una
promessa di Dio pronunciata su coloro che a loro volta promettono di fondare o di rispettare il patto di alleanza che
sostiene la storia della salvezza. Tanto è vero che il Testamento Antico non distingue filiazione legittima o naturale:
e, se è necessario, i patriarchi, per aumentare la discendenza, sono legittimati ad unirsi non solo con le mogli ma
anche con le schiave alle quali non di rado il Signore elargisce la propria benedizione di fertilità. Siamo qui
lontanissimi dall‟ordine della famiglia e della concezione dell‟uomo quale animale sociale che segnerà i secoli
dell‟avventura cristiana. Le esigenze dettate dal fine della salvezza oltremondana delle anime non aveva ancora fatto
capolino e il corpo parlava ancora il linguaggio delle cose. Esso comunicava i sogni dell‟uomo e i progetti di Dio: la
nostalgia per il Paradiso perduto, la comune volontà di dare origine ad una stirpe numerosa e santa e di dominare la
terra.
B) La salute oltremondana dell’anima e la contaminazione del corpo
La stirpe di Abramo si avvia a trasformarsi da un clan familiare ad un vero e proprio popolo e ad assumere
un‟organizzazione che lo porterà a diventare nazione. Lungo il cammino percorso alla ricerca di una terra, di una
patria, Israele si struttura e pone le basi di un‟organizzazione sociale solida e articolata. Centrale, in questo processo,
risulta la figura di Mosè, uomo guida di Israele e capo in grado di tradurre in norme precettive la via della salvezza
indicategli da Dio. In questa necessità di dettare le regole della vita sociale, la sessualità diviene un punto ineludibile
da regolare con lo strumento giuridico. Il suo controllo diventa un‟esigenza indifferibile per poter definire il profilo dei
rapporti sociali ed economici; al suo esercizio si collegano una serie di prescrizioni, anche di ordine sanitario, che ne
definiscono i confini. La sessualità comincia ad avere una prima e decisa orientazione: essa deve rispettare i confini
dell‟ordine familiare e deve tenersi al di fuori da una contaminazione da pratiche che vengono sanzionare con la pena
di morte: il rapporto sessuale con le bestie, il rapporto omosessuale maschile, l‟adulterio. Emerge qui per la prima
volta una dimensione del corpo legata alla distinzione tra ciò che è puro e ciò che è impuro: e questa distinzione, che

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affonda le radici nel lato oscuro e inquietante della dimensione della fisicità – il sangue del ciclo femminile, le malattie
e i contagi – viene scolpita dalla lettera della legge, che definisce i comportamenti in puri ed impuri. In questa
prospettiva il corpo è visto come un principio di contaminazione, come il portatore di una forza che può inclinare
verso il male. Si fa strada già qui l‟associazione tra impurità fisica e l‟idea di peccato: e il corpo è il mezzo per il quale
la contaminazione invade anche la purezza dell‟anima, che viene macchiata dal peccato. I comportamenti devianti da
quella legge che fonda il patto d‟alleanza tra Dio e il suo popolo vengono tipizzati e sanzionati con rigore esemplare.
Nemmeno i re vengono perdonati: e Dio abbandonerà Salomone le cui 700 spose e 300 concubine spinsero il più
grande tra i re d‟Israele a venerare altri idoli e divinità. Accanto a questa severità, con la quale la Bibbia guarda ad
alcuni comportamenti sessuali, si possano ritrovare in essa accenti assai diversi. Il caso del Cantico dei Cantici,
rimane da questo punto di vista, il caso più emblematico. In esso il corpo non appare mai come contaminato o
impuro: in questa pagine della Bibbia rifulge l‟amore terreno e l‟ingenua purezza che rimanda all‟Eden, alla nostalgia
per Adamo ed Eva, ad un mondo non ancora gravato di colpa. Questa intonazione diversa del Libro risuonerà con
qualche eco ancora in alcuni passaggi del Nuovo Testamento e, soprattutto, in quel non condannare di Gesù, in quel
suo riportare la fragilità umana, che nella passione e nella sessualità si misura e confronta, entro i confini misteriosi e
discreti della carità.
C) La natura e la condanna delle passioni
A ben guardare, coesistono in Paolo di Tarso impostazioni almeno in apparenza contraddittorie per quanto concerne
la concezione del corpo e della sessualità. Ancora sono rinvenibili in alcuni passi accennati che derivano la propria
discendenza da teologie che rimandano alla positività dell‟incontro tra l‟uomo e la donna, ad una sessualità che si fa
conoscenza dell‟assoluto, che attinge, proprio nella ricomposizione dell‟infranto, l‟immagine di Dio; anzi, di più,
l‟immagine di Cristo e della Chiesa. Dobbiamo rilevare come, nel definire l‟incontro anche sessuale tra l‟uomo e la
donna, l‟Apostolo Paolo usi il termine “grande mistero”. E chi parla di mistero dice sempre di una conoscenza
possibile, della possibilità di disvelamento di un orizzonte nuovo, più alto. Ma questo versante dell‟ispirazione
teologica di Paolo rimane minoritario, per lasciare invece largo spazio all‟irrompere della sua formazione intellettuale
ellenistica che attinge agli insegnamenti della seconda Stoa. Per essa il tendenziale sfavore con cui si guarda all‟uomo
ed alle sue inclinazioni passionali prende il sopravvento, fino a qualificare come negativo qualsiasi cedimento alle
esigenze della sessualità. In fondo, anche nella tradizione culturale greca, l‟amore era visto come un principio di
destabilizzazione: e non a caso, nel Simposio, Socrate definisce la passione come un daìmon, come qualche cosa che
attrae l‟uomo in una sfera alta, dove le certezze del quotidiano sfumano. Ma la differenza sta tutta nella
consapevolezza che questi processo d‟instabilità nel quale l‟amore introduce, prelude al divino, ad una conoscenza
superiore normalmente preclusa ai mortali, ad un luogo ove ogni cosa acquista un significato diverso fino a far
attingere alla realtà umana il massimo della sua nudità e verità. Mentre la lezione della cultura greca si sostanziava
nel rivolgere l‟impulso ideale alle passioni umane elevandole e rendendole per così dire divine e pure, in Paolo la
passione diviene il veicolo del male: e la sessualità rimane depotenziata dalla sua valenza di via della conoscenza.
Anzi, l‟amore umano diviene un elemento di disturbo nella dedizione totale a Dio, un disordine che pur facendo parte
della natura va dominato, limitato e, finalmente, sconfitto. Esso fa parte di ciò che si definisce come mondo in senso
deteriore e negativo: di ciò che si deve lasciare per seguire la via della perfezione evangelica.
D) La stella polare della castità
Non è mancato chi ha posto in rilievo come questa linea di riflessione di San Paolo dovesse essere collocata nella
giusta prospettiva storica. Secondo questa lettura del messaggio dell‟Apostolo, bisogna tener conto del fatto che
l‟epoca nella quale egli opera è contrassegnata da una degenerazione dei costumi del mondo romano-ellenista nel
quale il fenomeno della prostituzione da un lato, e dell‟omosessualità dall‟altro, erano rilevanti. Similmente, per ciò
che concerne il celibato e la castità, bisogna considerare come fosse pressante, nel pensiero di San Paolo, la certezza di
un prossimo ritorno del Cristo nella gloria, ragione per la quale bisognava tenersi pronti alla Sua chiamata senza farsi
distrarre da altri pensieri ed occupazioni. Ma pur tenendo conto di queste lenti di contestualizzazione appare tuttavia
chiara la condanna della sessualità, che tocca, laddove si fa cenno alla sessualità non matrimoniale, punte di un rigore
che non ammette appello. La castità deve essere insomma per il cristiano la stella polare che orienta il suo cammino
nel campo della vita sessuale: essa consente alla persona di non perdersi in passioni disordinate che distolgono la
mente dalla Verità, e, nel contempo, facilita la dedizione totale, a tempo pieno, delle forze fisiche disponibili al
servizio di Dio. Questo orientamento per il quale si eleva lo stato ideale di perfezione per i christifideles nel distacco
dai beni terreni e, in assoluto dalla tentazione della carne per il conseguimento della salvezza eterna dell‟anima e la
conquista del regno celeste, finisce conseguentemente col porre in ombra, nel pensiero prima di Paolo e poi dei Padri
della Chiesa, la destinazione sociale della sessualità umana, che pure discendeva dalla lettera della Genesi, da quel
“crescete e moltiplicatevi” che aveva sostenuto, nell‟universo ebraico, la liceità morale dello stesso matrimonio, e che
avrebbe potuto continuare a sostenerla nel nuovo ordine cristiano. In generale, è facilmente riscontrabile, nella

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trattatistica dei Padri sulla verginità, una certa svalutazione dello stato matrimoniale; e questa superiorità attribuita
alla castità ha finito con l‟influire sulla definizione certamente posteriore, della struttura giuridica del matrimonio.
Pure all‟interno del matrimonio, il valore sovraordinato della castità ha una sua cittadinanza, dal momento che
l‟esercizio della sessualità, anche laddove si presenti entro il quadro coniugale, rivela il suo carattere maculato, di
actus malus, perché mescolato necessariamente alla concupiscenza e alla “libido carnis”. Il tema del casto connubio fa
il proprio ingresso nell‟universo cristiano come il modello secondo il quale, facendo salvo il rapporto tra uomo e
donna, tuttavia si riesce ad evitare la contaminazione con il degrado della carne. Se la verginità segna il punto più
alto nella morale cristiana verso il quale tendere, un casto connubio può rappresentare uno stato che si avvicina
molto alla perfezione, come alla perfezione giunge il rapporto tra Cristo e la Chiesa che Paolo indica quale metafora
per sottolineare il significato anche ecclesiale forte che il rapporto tra l‟uomo e la donna sottende. Le conseguenze di
queste linee guida del pensiero cristiano implicheranno, quindi, due conseguenze: la prima concerne lo sfavore con il
quale è visto il matrimonio; il secondo riguarda l‟introduzione del celibato sacerdotale. Tale prescrizione non era
affatto scontata, essendo viceversa noto che in numerose civiltà tradizionali la figura del sacerdote si tiene distinta da
quella dell‟asceta (del monaco): ed è solo il secondo normalmente a rifuggire le cose del mondo, per seguire la via del
distacco e della trascendenza.
E) Il matrimonio come ordine residuale: le sue finalità medicinali e procreative
Se così stanno le cose, appare quasi come una conseguenza necessaria l‟iscrizione del matrimonio ad un ordine
inferiore, residuale, destinato ad essere praticato solo da coloro che non possono sostenere il peso della via della
perfezione, la quale postula lo stato verginale. Alla dimensione della sessualità viene, dunque, negata, nel
cristianesimo nascente, la sua valenza di porta dischiusa su profili più profondi, trasfiguranti e sacralizzanti della
realtà umana; ed il suo nucleo costitutivo di verità viene individuato invece nel profilo medicinale, che può aiutare
chi sa di poter essere preda del fuoco della carne, della sua impurità. Teologicamente la posizione subordinata della
donna riflette l‟immagine di Cristo e della Chiesa, nella quale si specchia il rapporto uomo-donna. Nella traduzione
antropologica di tale rappresentazione il potere e l‟inquietante forza femminile (vera portatrice delle passioni)
soggiace alla figura preponderante del marito. Come la Chiesa sottostà a Cristo, la donna deve sottostare al marito: e
similmente nelle prime comunità cristiane cui si rivolge San Paolo l‟uomo deve avere un ruolo di primo piano, mentre
la donna comincia a pagare il prezzo di un pregiudizio che prenderà presto le forme della misoginia. La natura
femminile, una volta stabilito l‟ordine del matrimonio come residuale rispetto al valore della castità, può essere
riscattata dal suo farsi, facendosi sposa, medicina per l‟uomo. In Paolo non appare ancora il motivo finalistico della
procreazione a sostenere il matrimonio; tuttavia, nella lettera a Timoteo, solo il destino di madre rappresenta l‟unica
possibilità, per le donne, di raggiungere la salvezza oltremondana dell‟anima. E la Chiesa delle origini avrà il suo bel
da fare a contrastare le tendenze teologiche radicali che si palesavano nel suo seno secondo le quali il matrimonio
avrebbe dovuto addirittura essere bandito per i cristiani, dal momento che ostacolava la via alla redenzione
assicurata solo dalla castità. Tuttavia la riflessione tesa a dare legittimazione al matrimonio pur non mettendo in
discussione la sua appartenenza ad un rango inferiore, continuerà sul solco tracciato da Paolo di Tarso. Molta parte
della Patristica continuerà a scavare in questa direzione, dando profondità e spessore al leit-motiv in tema di
matrimonio ravvisato nel suo essere medicina contro l‟infermità della libidine.
Il punto topico di questa riflessione è toccato da Agostino, animato, nella sua radicalità, dalla vicinanza con l‟eresia
manichea che egli è chiamato a combattere, nonché dall‟esperienza diretta, avuta nel suo passato di libertino, della
gloria e della fragilità della carne. La condanna della libidine assume in lui tinte e toni di forte accento e colore;
tuttavia, in Agostino, comincia a farsi strafa con forza la seconda grande finalità che legittimerà il matrimonio
nell‟orizzonte cristiano: il suo esser volto alla procreazione. Per quanto inteso in senso medicinale, sembra dire
Agostino, il matrimonio rimane contaminato da una realtà toccata dal peccato: dall‟atto sessuale dei coniugi, il cui
unico riscatto possibile è legato al suo essere, per natura, procreativo. Anzi, se un atto sessuale intervenuto tra i
coniugi non è votato chiaramente alla fecondazione, esso presenta i contorni del peccato grave. Il cristianesimo deve,
dunque, al pessimismo di matrice paolina e agostiniana la derivazione dei due fini che contraddistinguono il
matrimonio cristiano per quasi due millenni. Considerato uno status inferiore a quello del celibato, l‟amore dell‟uomo
e della donna si legittima solo per essere una medicina contro le tentazioni della carne; esso, poi, si conferma nella sua
legittimità solo con il permettere che nel suo ambito la sessualità si eserciti a condizione di esser volta
dichiaratamente alla procreazione. Questa dottrina, giunta, pur con qualche variazione, ma sostanzialmente
immodificata sino al Concilio Vaticano II, si è arricchita della nozione sacramentale che si afferma definitivamente
nel Concilio di Firenze nel 1439. Da allora il matrimonio viene definito come sacramento e fa il suo ingresso ufficiale
nel settenario sacramentale con il Concilio di Trento: tuttavia rimane, pur nella visione salvifica del sacramento, la
teoria negativa che ha germinato i fini cui l‟istituto deve corrispondere. Il matrimonio, dunque, nella sua essenza,
continuerebbe ad abitare un ordine dell‟umano inferiore a quello riservato alla castità: e che tale istituto abbisognasse

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di un riscatto lo si può intuire nella rivisitazione profonda che ha sentito il bisogno di praticarne il Concilio Vaticano
II.
F) La procreazione è secundum naturam?
Vi è un punto, nella cultura occidentale, nel quale l‟ordine introdotto dal cristianesimo circa la sessualità e il
matrimonio si converte nel suo contrario, negandolo, come in uno specchio rovesciato, e affermando esattamente
l‟idea opposta. Questo luogo è denso però d‟implicazioni e rappresenta, in maniera non secondaria, un passaggio
attraverso il quale la Rivoluzione francese filtra. Non è certo un caso che Guillame Apollinaire collochi la presenza del
Marchese De Sade presso la Bastiglia il 2 luglio 1789, identificando tale presenza come la causa scatenante i moti
insurrezionali che porteranno poi all‟innesco della Rivoluzione. Attraverso la profanazione del pudore e di valori
ritenuti fondanti l‟ordine morale, De Sade afferma una visione dell‟uomo nella quale libidine e razionalità si fondono
per distruggere d‟un sol colpo i capisaldi della tradizione cristiana che fondano l‟etica sessuale e la visione del
matrimonio fatta propria dall‟Occidente. Ci muoviamo, dentro l‟opera sadiana, come in un universo rovesciato, dove
tutto risulta capovolto e dove, in continuazione, succede ciò che non deve e non può accadete nell‟ordine morale,
sociale e religioso costituito. Gran parte del romanzo è incentrato sulle vicende che accadono alla protagonista
nell‟ambientazione di un convento. Gli autori degli stupri e delle perversioni sessuali sono monaci; le altre vittime
sono tenute in cattività e in uno stato di soggezione che prescinde dalla loro volontà. Profanato l‟ordine della
religiosità, De Sade infrange anche l‟ordine sociale: Justine e le sue compagne di sventura non provengono da un ceto
sociale di basso rango: viceversa, esse sono state rapite dal seno delle loro famiglie, che sono famiglie aristocratiche
collocate in cima alla scala sociale. Nella finzione sadiana il vecchio, l‟Ancien Régime, per essere superato, deve ancora
esistere. Ma dietro di esso, si profila un nuovo mondo, dove il corpo e la sessualità non obbediscono più alle finalità ad
essi impresse dal pensiero e dalla prassi cristiani; essi si lasciano viceversa andare dove li porta il principio di piacere,
quella libidine contro la quale Paolo di Tarso, Agostino e tutto il fluire della dottrina cristiana avevano cercato di
costruire un argine sicuro. Se si leggesse De Sade come una sorta di contrappasso al pensiero paolino, e più ancora,
agostiniano, tutto ciò risulterebbe ben percepibile. E proprio come in un manuale d‟istruzione concepito in senso
inverso a quanto Sant‟Agostino prevedeva in base alla ratio peccati si consiglia un uso contro natura della sessualità,
dal momento che tale uso riserva “la gioia più deliziosa di tutte”. In questa prospettiva, tutti i tabù e gli impedimenti
che la cultura giudaico-cristiana avevano posto al matrimonio e al contatto sessuale tra uomo e donna vengono
travolti, primi fra tutti quelli che derivano dal sangue e dalla parentela.
Il divario, in De Sade, che divide la sessualità e suoi piaceri dalla procreazione è ormai incolmabile e posto con lucida
consapevolezza. Il piacere è, per De Sade, il principio cui la stessa natura ha inclinato l‟uomo: e, dunque, la castità e
la virtù sono comportamenti aberranti e posti contro natura. Nel seguire senza pregiudizi il corso degli istinti e gli
impulsi che la natura suggerisce in noi si può ritrovare, per quest‟Autore, l‟unica, vera morale. La natura, per De
Sade, è qualche cosa che preesiste a Dio e ne prescinde; le sue leggi sono indifferenti alla nostra condotta ed anzi,
essendo l‟uomo frutto di natura il suo comportamento non può che derivare da una necessità intrinseca, cui siamo
inclinati al di là della nostra volontà. Una visione religiosa e una condotta morale si risolvono, nella logica sadiana, in
una negazione della natura stessa e non possono perciò portare vantaggio ma solo costrizioni inutili. È evidente che al
di là di queste enunciazioni sta la volontà rivoluzionaria che rivendica in maniera provocatoria ed esagerata i diritti
di libertà che si radicano, prima di tutto, in una soggettività liberata dai pregiudizi sui quali si fondava l‟Ancien
Régime. In questa radicalità non solo viene sancito il distacco della sessualità dalla sua funzione procreativa: ma la
stessa procreatica, intesa come vocazione naturale dell‟uomo, viene negata. Per questa via è totalmente conseguente
il fatto che De Sade non distingua più tra sessualità lecita e illecita, tra eterosessualità ed omosessualità, dal
momento che la liberazione di tutti gli istinti presenti nell‟uomo integra l‟unico modo adeguato per seguire le leggi di
natura. Ed è opera di presunzione dell‟uomo pensare che i piani della natura concepiscano la sopravvivenza della
specie umana in eterno. E che ne è del matrimonio nella visione sadiana? Qui il disvelamento è totale: e l‟unica
valenza che il matrimonio presenta riposa nel suo essere pura forma sociale, voluta dalle leggi vigenti, a cui, in
segreto, bisogna sfuggire. Nell‟universo sadiano non c‟è posto per una visione solidaristica dell‟istituto del
matrimonio, di un consortium omnis vitae che guidi la vita comune dell‟uomo e della donna: la soggettività fa aggio su
tutto e il dispiegarsi degli istinti, figli di una natura indifferente che basta a se stessa, si risolve nella ricerca
individuale del massimo piacere, anche a costo del dolore e del sacrificio altrui fino ad arrivare alla spietatezza.
In questo divorzio ormai avvenuto tra sessualità e procreazione, l‟amore è un gravame, qualcosa che imbriglia l‟uomo
distogliendolo dalle sue passioni. I sentimenti vengono vissuti come ostacoli che allontanano dal piacere, unica legge
di natura in grado di cadenzare i ritmi liberati dalla libidine. Così, come in una sorta di presa diretta che aggira i
sentimenti, in De Sade la razionalità si salda direttamente alla sessualità dell‟uomo, producendo una frattura
profonda di cui paga il conto la dimensione propriamente erotico-affettiva. Percepito con fastidio dal proprio tempo,
rimosso e rinchiuso nelle carceri e nei manicomi della Francia pre e post rivoluzionaria, aristocratico vittima della
Rivoluzione, rivoluzionario vittima del suo appartenere ad un ordine antico e diverso, De Sade è una voce aspra e

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sgradevole che va però capita e decodificata. La sua opera rappresenta una chiave di lettura importante per
comprendere ciò che sta avvenendo nel nostro tempo, che lui ha anticipato di quasi due secoli. Con lui il corpo viene
definitivamente distolto dalla sua funzione procreativa e piegato alla finzione e al gioco del piacere. Proprio ciò che
oggi viene celebrato senza più scalpore nel transessualismo, nelle pratiche sado-maso, nell‟ormai rivendicata
cittadinanza all‟omosessualità. Il suo lascito più rilevante sta proprio nell‟arditezza della sua fervida immaginazione,
che egli offre al lettore come una provocazione e una sfida. Nel suo pensiero ritroviamo, dunque, molta parte dei
fermenti che agitano l‟attuale passaggio di civiltà e tutti i suoi disagi; nella sua scrittura possiamo rivenire, a tratti,
una testimonianza a futura memoria di che cosa rischia oggi di divenire una razionalità saldata direttamente alla
sfera della sessualità umana.
G) La fecondazione extracorporea e la scissione tra elezione d’amore e sessualità, tra procreazione
e desiderio
Lo sguardo di De Sade traguardava lontano. Esso, d‟istinto, coglieva la centralità che avrebbe assunti nella cultura
contemporanea la signoria dell‟uomo sul proprio corpo, facendone non più lo strumento finalistico della procreazione,
ma il mandante e il destinatario ad un tempo del proprio piacere. Ciò che egli non poteva, invece, immaginare era
come la tecnologia avrebbero enormemente accelerato questo processo, rivoluzionando la stessa procreatica e
rendendo possibile una fecondazione extracorporea. Diciamo tecnologia e non già scienza, dal momento che non è
oggi più la scienza a guidare questo processo messo in campo, in termini di conoscenza, già da molto tempo. La
tecnologia è un cliente, con cui fare i conti, assai più aggressivo della scienza; ed è in suo potere di rendere già
disponibile ciò che la scienza ha indicato come possibile. I suoi impressionanti progressi, nel campo delle scienze della
vita sono sotto gli occhi di tutti. La fecondazione in vitro, la creazione di embrioni da seme di donatori sconosciuti, la
pratica dell‟affidamento della gravidanza ad un utero diverso da quello della madre naturale, e i lidi ultimi della
clonazione, hanno sortito l‟effetto di scindere, nell‟immaginario soggettivo e collettivo ormai definitivamente, il nesso
di unità che la natura aveva posto tra esercizio della sessualità e processo generativo. Il superamento dell‟antico
ordine naturale ci impone di ripensare le categorie sin qui usate per affrontare i temi della sessualità umana e del
matrimonio che fonda la famiglia. Se si riguardi alla realtà delle cose così come esse ci si propongono, non possiamo
non accorgerci del processo di riduzione in profondità che subisca la sfera della sessualità. Essa, per lo più, viene
ormai intesa ed interpretata come un bisogno soggettivo che può e deve essere esaudito nell‟unità di tempo
prescindendo, se necessario, dall‟incontro fisico con un‟altra persona. Apparentemente quest‟affermazione non segna
una novità assoluta nella vita dell‟Occidente, ma qui ci pare di poter registrare una novità rilevante che l‟età della
tecnica ci pone: la sfera di eros, popolata dall‟immaginario mediatico, affidata alla navigazione in rete e agli incontri
virtuali delle cabine cyber-sex o delle telefonie on-line, tende ad essere risolta come un puro bisogno individuale,
svincolato dalla fatica, anche fisica, dell‟incontro. La tecnica tende ad accorciare sempre di più la distanza che separa
il desiderio dal suo soddisfacimento: e a questa legge generale dunque non sfugge nemmeno eros, immediatamente
disponibile, come una qualsiasi altra merce, sugli scaffali del grande magazzino nel quale ormai viviamo. L‟idea di
una mera fruizione delle cose implica necessariamente un essere più soli, un condividere meno con gli altri uno spazio,
un luogo, un destino. Ed è forse questa incapacità o non volontà di assumere destini altrui condividendo il proprio
che sta alla base della preferenza che oggi si registra nelle società avanzate per le forme di vita single, che prescindono
da una famiglia stabile. La tecnologia, ben più della caduta delle ideologie, libera la soggettività verso lidi ancora
sconosciuti, dove la volizione personale non tollera alcun freno né alcuna limitazione plausibile. Ciò che si è scelto di
fare deve avere corso: e la soglia della sopportazione si è fatta ormai sottile, sempre più sottile. Il desiderio e il suo
soddisfacimento, dunque, tendono ormai cronologicamente a coincidere, così come l‟elezione d‟amore tende a
risolversi nel semplice esercizio della sessualità. Tutto il contrario di quanto ci aveva consegnato la tradizione
antropologica dalla quale proveniamo.

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3. L’OBSOLESCENZA DEI FONDAMENTI GIURIDICI DEL MATRIMONIO
A) Fondamenti metagiuridici dell’istituto
Anche se è pur vero che nel guardare a fondo alle logiche che hanno presieduto all‟istituto del matrimonio canonico e
più in generale del matrimonio così come inteso nei diritti secolari, si possono cogliere convergenze e dissonanze tra la
Chiesa e gli Stati, purtuttavia le categorie metagiuridiche di riferimento si può ben dire fossero largamente condivise.
Esse derivano da quella stessa visione del mondo che ha accomunato per lunghi secoli i civies d‟Europa, cristiani di
formazione, se non proprio di appartenenza. E se le legislazioni degli Stati oggi traducono in norme valori
metagiuridici che si sono ormai congedati da quella visione del matrimonio e della famiglia propria della tradizione
occidentale, la Chiesa non può continuare a proporre una concezione di quegli istituti che affonda le proprie radici in
categorie metagiuridiche irrinunciabili, come è irrinunciabile l‟identità che le è propria. Anzi, dall‟interno
dell‟ordinamento canonico si può ben a ragione sostenere che non vi può essere una distinzione netta tra norme
metagiuridiche e norme giuridiche in senso proprio, dal momento che la sua tavola di fondazione irreformabile è il
diritto divino, naturale e positivo. Gli apporti del magistero, della teologia, della liturgia e della scienza giuridica, si
qualificano dunque come strumenti dinamici per approfondire e disgelare progressivamente i contenuti della
Rivelazione mettendola in grado di essere compresa e vissuta, anche secondo i suoi inevitabili profili normativi, dagli
uomini nel contesto del loro tempo. Data questa inscindibile unità tra diritto divino e diritto umano, tra norme
morali (principi metagiuridici) e proposizioni normative, è tuttavia possibile enucleare e tenere in evidenza i valori
sostanziali che informano tutta la costruzione giuridica del matrimonio canonico determinandone i tratti distintivi.
Prima di tutto quelli che la Chiesa deriva dal diritto naturale, che pur attingendo le proprie categorie dalle
speculazioni della dottrina cattolica, tuttavia pone principi validi per tutti gli uomini e non solo per i christifideles. In
tale sfera del diritto naturale, il matrimonio risponde al principio vitale della propagazione della specie ed
all‟elevazione del rapporto tra l‟uomo e la donna riscattandolo alla dignità di elemento fondativi di civiltà. Per essere
apprezzato dalla Chiesa come istituto di diritto naturale, il matrimonio deve però corrispondere ai requisiti della
monogamicità e dell‟indissolubilità. Certo, secondo la teologia, poi, tale istituto rappresenta il tramite per raggiungere
un valore sacramentale. Secondo lo stesso Vaticano II, infatti, l‟uomo e la donna nella loro unione divengono, proprio
nell‟atto procreatico, cooperatori dell‟opera creazionale di Dio, che continua nel presente attraverso l‟incessante
generazione della stirpe umana. L‟apporto teologico consente, dunque, di aggiungere un diverso valore sostanziale
alla destinazione naturale del matrimonio, e di aprirne, per così dire, l‟orizzonte di senso alla luce del rapporto tra Dio
e l‟uomo. Ma è nella liturgia che troviamo altri valori metagiuridici propri dell‟istituto, i quali attraverso le forme del
rito, rivelano il suo profilo antropologico. La velatio, lo scambio degli anelli, la successione delle letture, le formule del
consenso, e tutto il contesto nel quale il matrimonio viene celebrato afferma la visione antropologica cristiana alla
quale la liturgia confezione il vestito, dandogli forma, e facendo assumere all‟incontro dell‟uomo e della donna un
rilievo pubblico che deve essere testimoniato di fronte alla comunità dei credenti. Dunque, le finalità, delineate già
dal diritto naturale, la sostanza del matrimonio cristiano definito dalla teologia, la forma plasmata dalla liturgia, sono
gli scrigni nei quali sono contenuti i fondamenti metagiuridici che distinguono e caratterizzano il matrimonio
cristiano.
B) La trascrizione normativa del matrimonio
La necessità di dare veste giuridica al matrimonio non è coeva alle origini dell‟ordinamento canonico. Nonostante
l‟insieme dei valori metagiuridici che ne formano la natura cominci già a delinearsi, l‟architettura propriamente
giuridica dell‟istituto si verrà costituendo dopo il primo millennio. È nell‟età aurea del diritto canonico, infatti, che i
giuristi avvertiranno il bisogno di marcare con lo strumento giuridico i confini dell‟esistenza, della validità e della
liceità del rapporto tra uomo e donna volto alla costituzione della famiglia. Ciò non significa che la Chiesa non
intervenga, nel corso del primo millennio, a dettare norme in questo campo d‟interesse; sia nella forma di decretali
pontificie che di canoni conciliari, il diritto canonico comincia a dispiegarsi per sancire comportamenti ammessi o
proibiti da porre all‟attenzione dei credenti. Fanno così il loro ingresso, per queste vie, i primi impedimenti e divieti
volti a garantire il rispetto dei legami di sangue e l‟indissolubilità del vincolo. Tuttavia questi provvedimenti
affrontano e risolvono singole situazioni, e non assurgono al rango di norme erga omnes, pur rappresentando un
significativo indirizzo di fondo dell‟intero ordinamento. Le sanzioni che il dispregio di queste prescrizioni prevedono,
poi, sono sanzioni prettamente spirituali, che raggiungono la loro massima estensione con l‟esclusione dal bene
dell‟Eucarestia. In fondo era stato così fin dall‟inizio. Anche se portatori di un‟antropologia nuova, diversa, che stava
sottesa all‟atto dello sposarsi, i cristiani contraggono matrimonio secondo le regole dello Stato. Quelle regole, giusta il
diritto romano, assimilavano quest‟istituto al possesso, fondandosi il matrimonio su due elementi: l‟uno formale e
l‟altro sostanziale. Il primo d‟integrava con la deductio in domum mariti, tramite l‟atto concreto, cioè, con il quale
l‟uomo conduceva la donna nella propria casa. Il secondo, invece, si sostanziava nella maritalis affectio, nel feeling cioè
che lega due persone. E in questa logica appare del tutto coerente, dal punto di vista giuridico, la centralità del

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consenso che fonda il matrimonio romano. Ovvio, dunque, secondo questa concezione esistenziale e, per così dire
metagiuridica del matrimonio, che il diritto romano non potesse conoscere il valore dell‟indissolubilità: il matrimonio
finiva con il cessare della maritalis affectio. Il valore metagiuridico tutelato, nella sostanza, era la libertà dell‟elezione
d‟amore che non tollera il giogo di un dover essere che sfida il tempo. Toccherà al dominio barbaro sovvertire
radicalmente il modello giuridico di riferimento, introducendo una visione del rapporto uomo-donna (e quindi del
matrimonio) assai diversa da quella propria della romanità. Secondo quest‟angolo prospettico, la donna non ha
autonomia rispetto all‟uomo, ma vi appartiene fin dal suo nascere. La figlia è del padre, gli appartiene secondo un
diritto di proprietà che egli può cedere, ove lo ritenga e quando sarà il momento, ad un altro uomo che ne diventerà il
marito. È evidente che in questa logica non ha senso veder tutelato il valore della libertà del consenso della sposa:
essa rappresenta, qui semplicemente, una merce di scambio e non potrà certo sciogliere un matrimonio che non
dipende dalla sua volontà. Di qui il farsi strada non più del modello di riferimento giuridico del possesso, ma di
quello, ben diverso, che intende interpretare il matrimonio secondo lo schema della compravendita. La Chiesa, che
spesso nella lunga notte dei barbari per mancanza di un potere civile e politico stabile aveva esercitato giurisdizione
secolare, si trovava ad assumere, dopo la lotta per le investiture, un ruolo egemone anche rispetto ai poteri imperiali.
Di qui la necessità di veder affermata la propria giurisdizione anche in temporalibus, e di regolare direttamente ambiti
di rapporti lasciati, precedentemente, al potere civile.
Tra questi il matrimonio, e, di qui, l‟urgenza di definirne la natura giuridica. Tra le due tradizioni, la romana e la
barbarica, Graziano, il padre della rinascita del diritto canonico, sceglie la seconda. Il matrimonio viene, dunque,
assimilato ad una compravendita che si perfeziona non con il consenso, ma con la consegna della cosa. Nel caso di
specie, la consegna della “cosa” era rappresentata dalla consumazione carnale del matrimonio. Ma nello stretto nesso
che unisce nella sfera canonistica diritto divino e diritto umano, questa teorica, nota come copulatheoria, non avrebbe
potuto trovare cittadinanza. Se Maria era immacolata quel matrimonio doveva essere invalido; e, certo, il caso
contrario non si dava perché non contemplato dalla Rivelazione. Fu dunque la teologia, per bocca di Pietro
Lombardo, a suggerire la risposta che sarebbe stata accolta definitivamente dal Pontefice Alessandro III: il
matrimonio è un contratto che si perfeziona col consenso libero delle parti; purtuttavia si distinse (e si continua a
distinguere ancor oggi) tra matrimonio rato (celebrato) e matrimonio rato e consumato. Tutti e due questi matrimoni
sono, per gli sposi, indissolubili e perfetti: quello non consumato può però essere sciolto dall‟autorità della Chiesa nei
casi strettamente previsti dalle sue norme. Così la Chiesa, e con essa la scienza canonica, per secoli ha definito il
matrimonio come un contratto consensuale e formale, senza porsi il problema se questa forma giuridica fosse la più
adatta a tradurre la sostanza sacramentale del matrimonio. In tempi recenti una parte della dottrina si è interrogata
se ad essi non si attagliasse maggiormente la figura del negozio o dell‟atto giuridico. E dopo aver escluso sia la natura
contrattuale del matrimonio sia la sua assimilazione al negozio giuridico ne concludeva che l‟abito giuridico che
meglio si confà al matrimonio è quello dell‟atto giuridico in senso stretto. Una dichiarazione di volontà, cioè, alla
quale l‟ordinamento ricollega automaticamente degli effetti che non rientrano nella sfera di disponibilità dei nubendi.
Ma la parte maggioritaria della dottrina anche post-conciliare non si è sforzata di esercitarsi sul punto, preferendo
accettare pedissequamente l‟insegnamento tradizionale onde il matrimonio avrebbe natura di contratto consensuale e
formale.
C) La divaricazione dei modelli secolare e canonico nell’esperienza italiana
In pochi anni si è consumato un lunghissimo cammino, che mostra con nettezza di contorni la divaricazione ormai in
componibile tra i modelli secolare e canonico. Il matrimonio secolare attinge i suoi obbiettivi da finalità
metagiuridiche radicalmente diverse da quelle perseguite dalla Chiesa: e tende a raggiungerle per vie nuove, che
temperano la qualificazione pubblicistica dell‟istituto, irrinunciabile, invece, per il diritto canonico, secondo il quale il
matrimonio è, prima di ogni cosa un sacramento. Nella costruzione dell‟istituto matrimoniale operata dalla
legislazione secolare il modello elaborato dal diritto canonico ha sempre funto da punto di riferimento, da realtà
giuridica e antropologica da cui attingere materiali di costruzione. Del resto, le cose sono andate così fin da quando
raggiunta l‟unità d‟Italia, il Codice civile del 1865 introdusse un‟idea di matrimonio civile che si rivelava anche solo
ad un primo esame omogenea o almeno compatibile con i principi della Chiesa e le esigenze di una societas christiana.
Anche questo dato di fatto contribuì ad imporre senza traumi nel costume e nella prassi sociale l‟abitudine alla
doppia celebrazione civile e religiosa: e solo il Concordato del 1929 ripristinerà gli effetti civili del matrimonio
canonico. In ultima analisi, la deconfessionalizzazione dell‟istituto operata dal governo liberale si limitò
all‟introduzione appunto della forma civile del matrimonio, ma non incise certo sulla sostanza del retroterra culturale
e giuridico nel quale l‟istituto affondava le proprie radici. Né questa linea di tendenza si modificò per tutto il secolo
XIX e neppure fino alla seconda metà del secolo XX. La lenta erosione del retroterra culturale e antropologico
sottesa al profilo del matrimonio civile può essere fatta risalire alla fine degli anni ‟60. Nel 1968 e nel 1969 la Carta
costituzionale, con sentenza n. 147, depenalizzava l‟adulterio, rimuovendo dal Codice le norme in materia di
violazione della fedeltà coniugale ancora resistenti. Un secondo evento legislativo, poi, entra alla fine del 1970 a

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modificare sostanzialmente la disciplina del matrimonio civile in Italia. A seguito di un referendum che contrappone
in maniera aspra l‟opinione pubblica del Paese, viene introdotto il divorzio con legge n. 898 del 1 dicembre 1970.
Si può , dunque, affermare come il dato centrale nelle vicende recenti del matrimonio civile in Italia risulti essere la
perdita, fin dall‟inizio degli anni ‟70, delle caratteristiche della fedeltà e dell‟indissolubilità, che rappresentano,
viceversa, due dei pilastri portanti della costruzione canonistica dell‟istituto. Nello stesso tempo, il matrimonio civile
abbandonava progressivamente gli ancoraggi del diritto pubblico per essere progressivamente assorbito nell‟area del
diritto provato. Non dobbiamo, quindi, stupirci se il matrimonio civile, nella legge 19 maggio 1975, n. 151, nota come
“riforma del diritto di famiglia”, diviene, di fatto, un negozio tra privati per il conseguimento d‟interessi privati, sia
pure socialmente rilevanti. Tutta la sostanza dell‟accordo che regge il rapporto tra i coniugi viene affidato alla pura
volontà delle parti. Si è superato cioè definitivamente il modello secondo il quale il matrimonio (e la famiglia che ne
nasceva) era una struttura portatrice di un interesse unitario superiore a quello dei suoi singoli partecipanti. Non
sarebbe, dunque, più un fato istituzionale (la rilevanza sociale della famiglia tradizionale) che funge da pietra miliare
del matrimonio civile: ma una scelta elettiva, dove la variabile affettiva, l‟amore, è destinata a giocare una parte
sempre più rilevante. Tanto la famiglia non è più il luogo legittimo dell‟incontro eterosessuale e della procreazione,
che non solo la riforma del 1975 ha fatto venir meno l‟impotenza come fatto invalidante anche se conosciuta
dall‟altro coniuge: ma, ben oltre, i sistemi giuridici secolari premono per il riconoscimento dello status matrimoniale
per le coppie omosessuali. Già una risoluzione del Parlamento europeo dell‟8 febbraio 1994 in tema di parità di diritti
degli omosessuali nell‟Unione Europea sollecita gli Stati membri verso due linee direttrici. La prima concerne
l‟abrogazione di quelle norme che possano rivelarsi lesive o discriminanti rispetto alle relazioni omosessuali; la
seconda contiene l‟invito a legiferare positivamente accogliendo negli ordinamenti nazionali il matrimonio
omosessuale. La possibilità poi, cui qui si fa riferimento solo per accenni, di dar luogo ad una procreazione anomica,
fuori cioè dalle leggi biologiche tradizionali sin qui vigenti, è destinata a mutare ulteriormente l‟idea, forse, del
matrimonio, e certamente quella di famiglia. Ormai la disciplina in vigore e la sua costante applicazione ha accorciato
molto le distanze tra convivenze di fatto e famiglie: equiparando quasi totalmente lo status giuridico di figlio
naturale a quello di figlio legittimo e disciplinando i rapporti tra i coniugi secondo una logica che si avvicina a quella
dell‟unione libera. Si è così determinata, nei fatti, una pluralità di modelli matrimoniali, graduati secondo la
sensibilità e la volontà delle parti. Matrimonio civile e matrimonio canonico appaiono ormai talmente distanti e
fondati su parametri così diversi da rendere incomprensibile persino un linguaggio che pretendesse d‟interpretarli
entrambi.
D) La difficile percezione dell’oggetto del foedus coniugalis
Eppure a questo transito verso una visione più intima e personale dell‟istituto matrimoniale non è estraneo neppure
l‟ordinamento giuridico della Chiesa, che pure mantiene saldamente legata la natura stessa dell‟istituto ad una
ragione pubblicistica. L‟emersione dell‟elemento personalistico diventa nella riflessione condotta dal Concilio
Vaticano II, il dato centrale che guida la recente evoluzione del sistema. Il documento conciliare che si occupa di
questo tema (Gaudium et Spes) si china a recuperare la nozione di sacramentum amoris a proposito dell‟atto giuridico
(matrimonium in fieri) e a porre in primo piano il rispetto della persona all‟interno del rapporto coniugale
(matrimonium in facto esse). Una nuova sensibilità e, insieme, l‟esigenza della Chiesa di accogliere nuovi bisogni e di
colloquiare con le culture contemporanee determinavano un nuovo orientamento, peraltro già auspicato ed atteso da
tutta una corrente della giurisprudenza ecclesiastica preconciliare. Esso faceva sentire il proprio peso soprattutto in
quegli ambiti dove era decisivo l‟intuitus personae per la riuscita di un matrimonio. L‟allargamento della disciplina
dell‟errore alle qualità di genere, la rilevanza invalidante del dolo, la creazione di nuovi capita nillitatis che tengano in
considerazione la complessità e la fragilità psicologica dei nubendi, l‟abbandono dell‟ordinatio ad prolem come unica
stella polare del matrimonio canonico anche attraverso l‟adozione di una nozione d‟impotenza più precisa,
esplicitamente ristretta alla sola impotentia coeundi, ne sono alcuni esempi significativi. Tuttavia, pur “aprendo” il
sistema matrimoniale ad una concezione dove le motivazioni soggettive acquistano via via più rilevanza,
nell‟ordinamento canonico mai viene meno l‟idea e la realtà per la quale il matrimonio è e rimane un‟istituzione
garantita e protetta nella sfera del diritto pubblico della Chiesa. In sostanza, il matrimonio canonico continua ad
essere quella società naturale permanente tra l‟uomo e la donna vocata alla procreazione che Dio ha elevato alla
dignità di sacramento. Peraltro, l‟apertura indubitabile operata dal legislatore verso la rilevanza che la persona nella
sua globalità gioca all‟interno del matrimonio rende più incerta la definizione e la percezione dell‟oggetto del foedus,
del patto d‟alleanza tra l‟uomo e la donna, così come viene definito nel can. 1055, che riprende l‟esatta definizione
conciliare con la ricca ambiguità che la contraddistingue. Una volta qualificato il matrimonio come contratto al can.
1012, e dopo aver ribadito, al can 1081, che è il consenso la causa efficiente del matrimonio che non può essere
supplita da alcun altro potere umano, si definiva l‟oggetto del contratto matrimoniale che altro non era se non lo “jus
in corpus”. In questa prospettiva risulta centrale l‟apporto conciliare che innova profondamente, recuperando, sul
punto, la tradizione teologica più alta, la nozione globale di persona anche per ciò che concerne l‟impegno coniugale.

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È lontanissima dal Vaticano II l‟idea che nel consenso gli sposi si limitino a scambiarsi uno“jus in corpus”: per esso,
viceversa, i due sono chiamati ad una dimensione ben più profonda, che implica una “intima communitas vitae et
amoris”. L‟accenno esplicito alla parola amore apriva un universo complicato da interpretare per i giuristi, i quali si
attenevano al vecchio insegnamento per il quale l‟oggetto del matrimonio è lo “jus in corpus”.
A maggior ragione, dopo l‟emanazione del Codice giovanneo-paolino e l‟assunzione della definizione di “foedus”,
appare ancora più urgente cogliere l‟oggetto di questo patto d‟alleanza tra l‟uomo e la donna che non può certo
risolversi – oggi meno di ieri – in un mero scambio di corpi. L‟oggetto del foedus risulta infinitamente più ricco ma
anche molto più indefinito, e in esso confluiscono dimensioni non facilmente decifrabili e definibili dal diritto. In altri
termini, è percepibile, sia nelle mutazioni d‟indirizzo del Concilio Vaticano II prima, che nel precipitato di tali
insegnamenti in canoni poi, che il personalismo tipico della cultura contemporanea è entrato dentro il recinto del
matrimonio canonico, imprimendogli una dinamica volta a cogliere il dato esistenziale dell‟incontro tra l‟uomo e la
donna più che non quello funzionale alla stabilità sociale ed alla propagazione della specie. Una direzione che mira a
tutelare e promuovere le soggettività in gioco. Cionondimeno l‟inevitabile contaminazione avvenuta con la cultura
contemporanea ha introdotto alcuni cambiamenti – di linguaggio, ma non solo – che rendono in alcuni punti l‟istituto
matrimoniale canonico decifrabile con minore chiarezza rispetto a quanto non fosse in passato. E uno di questi punti
è rappresentato dall‟oggetto del consenso che sta all‟origine di un “foedus” tradizionalmente definito contratto
matrimoniale.
E) La teoria dei fini
Chi ne voglia la riprova non ha che da riguardare alla teoria dei fini che regge, nella legislazione attualmente vigente,
l‟istituto del matrimonio. I fini rappresentano qualche cosa che sta fuori dalla struttura del contratto o del negozio
giuridico: e rappresentano i motivi per i quali l‟ordinamento riconosce e dota di senso quell‟atto giuridico.
Tradizionalmente i fini che l‟ordinamento canonico prefissava per il matrimonio erano due: la sedatio libidinis e la
procreatio prolis. Solo più tardi si aggiunge il mutuum adiutorium: una sorta di reciproca solidarietà degli sposi che
recupera uno spessore umano nella vita di coppia. La codificazione canonica del 1917 porta a sintesi finale, questo
lungo sviluppo dinamico dell‟ordinamento: e fissa, nel can. 1013, la teoria dei fini del matrimonio, stabilendo che
esiste un fine primario e sovraordinato, rappresentato dalla procreatio atque educatio prolis, e due fini secondari e
subordinati, individuati nel mutuum adiutorium e nel remedium concupiscientiae. Il dettato del can. 1013 era e rimane
ancor oggi chiarissimo nella sua lapidari età che individua il fine primario nella procreatio atque educatio prolis: e,
d‟altronde, al di là della generosità della dottrina che a lungo ha cercato di moderare l‟assolutezza di tale assunto
legislativo, questa dizione codiciale riassumeva coerentemente in sé lo sviluppo di una concezione teologica del
rapporto uomo-donna che affondava le proprie radici remote nella visione paolino-agostiniana. Per questa via, e con
una coerenza insuperabile, il fine procreativo, proclamato come sovraordinato dall‟ordinamento, si rifletteva
nell‟oggetto del consenso che il can. 1081 identificava nello jus in corpus volto a quegli atti idonei alla procreazione. Il
Concilio Vaticano II entra in questa materia rivalutando la visione del matrimonio ereditata dalla Chiesa della
Controriforma. Esso è fondato, per la Chiesa del Concilio, nell‟intima comunità di vita e d‟amore coniugale. E pur
riconoscendo che “l‟istituto stesso del matrimonio e l‟amore coniugale sono ordinati alla procreazione e all‟educazione
della prole e in queste trovano il loro coronamento”, la Gaudium et Spes afferma,al contempo: “…Perché è Dio stesso
l‟autore del matrimonio, (esso è) dotato di molteplici valori e fini; tutti quanti di somma importanza…”. Su tale
indicazione era tutto l‟ordinamento canonico a mettersi in movimento, interrogandosi come, sulla scorta del recupero
di una teologia personalistica e sulla rinnovata visione del matrimonio inteso quale sacramentum amoris, era possibile
tradurre in un sistema giuridicamente armonico le indicazioni avute dal Vaticano II. Era, in particolare,
l‟orientazione eminentemente procreatica a porre le difficoltà maggiori nel rende4re il sacramento del matrimonio
percepibile come valore alla sensibilità dell‟uomo contemporaneo. Così, Paolo VI, un Papa cui è toccato l‟arduo
compito di dare ordine e sistematicità a quanto il Vaticano II aveva posto sul terreno, intuisce che bisogna aprire
definitivamente la strada all‟idea secondo la quale se è pur vero che il coronamento del matrimonio è la prole, resta
altrettanto vero che l‟intima communitas vitae et amoris, come l‟aveva definita il Concilio, non è poggiata
esclusivamente sulla procreatica, dalla quale può ormai persino prescindere.
È in questa prospettiva che va inquadrata la pronuncia del Sant‟Ufficio del 1977 per la quale si stabiliva la validità
di quella consumazione del matrimonio che non conosca l‟emissione da parte dell‟uomo di un verum semen in testiculis
elaboratum, come sin lì pretendeva invece la dottrina classica della Chiesa. Non sfuggiva alla dottrina più attenta ed
autorevole che quella pronuncia del Sant‟Ufficio provocava una sorta di rivoluzione copernicana all‟interno della
stessa concezione del matrimonio canonico, fino a legittimare qualcuno a parlare di tramonto del modello
tradizionalmente concepito dalla Chiesa. Muovendosi entro queste coordinate, il nuovo Codice di diritto canonico
sancisce al can. 1055 che i fini del matrimonio sono due: esso è cioè “ordinato al bene dei coniugi e alla procreazione
ed educazione della prole”. Come si può notare, i fini risultano essere non più tre ma due, e nessuno dei due risulta
sovraordinato rispetto allo‟altro: inoltre, anche ad un primo sguardo è facile cogliere come la dizione “bene dei

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coniugi” sia comprensiva di una realtà umana più larga rispetto a quel muutum adiutorium che identificava uno dei
fini secondari del matrimonio nel Codice pio-benedettino. In questo senso, si può affermare come il matrimonio
canonico tipizzato dal Codice giovanneo-paolino indulga, pur essendo ben ancorato in quanto sacramento nell‟ambito
del diritto pubblico, ad una lettura più spiccatamente privatistica di quanto non avvenisse nella legislazione
previgente. In altri termini si avverte come una sorta di consapevolezza del legislatore di non poter prevedere e
normativizzare nella teoria dei fini tutte le vicende che possono investire le personalità degli sposi nel loro cammino e
dover, quindi, mantenere aperto un discorso affidato, anche e soprattutto, alle soggettività in gioco. Quest‟inclinare
ed aprirsi del diritto della Chiesa alle ragioni delle soggettività è un elemento originale e nuovo che fa cogliere quanto,
non solo entro il recinto dei diritti secolari, ma anche all‟interno di un diritto immutabile nella sua tavola di
fondazione, abbia giocato la spinta verso la rilevanza delle ragioni soggettive indotta dalla modernità.
F) Le cause
È forse anche per questo motivo che dalla redazione del Codice del 1983 possiamo notare come siano spariti, almeno
come categoria esplicitata, i bona matrimonii: gli effetti tipici – bonum prolis, bonumdifei, bonum sacramenti – che
tradizionalmente venivano menzionati esplicitamente nel diritto anteriore. Oggi i fini entrano nella struttura
giuridica dell‟istituto fino a coincidere, di fatto, con gli effetti del matrimonio stesso. Redazionalmente, invece,
vengono matenute distinte le proprietà essenziali che caratterizzano il matrimonio canonico e che sono l‟unità e
l‟indissolubilità. A ben guardare, la categoria di “fine” risulta tendenzialmente estranea agli ordinamenti secolari, che
usano invece la parola “causa”. L‟insegnamento prevalente, tuttavia, ritiene possibile ed utile servirsi del concetto di
causa in un orizzonte più largo che comprende, dunque, anche i negozi non patrimoniali. Nel caso di specie, benché
l‟ordinamento italiano non dia una definizione del matrimonio l‟indicazione della dottrina parla di una causa
identificata nella comunione di vita materiale e spirituale che s‟instaura tra i coniugi. Dalla causa, invece nella
dogmatica secolare, vanno tenuti distinti i motivi, identificati come le determinazioni soggettive che stanno alla base
della decisione individuale di concludere o no quel determinato atto giuridico. i motivi sono generalmente ritenuti
irrilevanti per il diritto: a meno che non vengano dedotti nella struttura negoziale come elementi accidentali
assumendo la veste di condizioni, termini e modi. E dal momento che il matrimonio, sia civile che canonico, non
tollera l‟apposizione di condizioni de futuro, termini e modi, possiamo concluderne che i motivi sono certamente
esclusi dalla sfera della rilevanza giuridica che comprende e definisce l‟istituto. Insomma, l‟ordinamento non mostra
atte4nzione per i motivi soggettivi, dando rilevanza alla teoria dei fini, così come l‟ordinamento secolare similmente
dà rilevanza alla causa. Ma è davvero sempre stato così? Nella decretistica non troviamo il termine fine, a delineare la
funzione alla quale è orientato il matrimonio, ma il termine causa. E tra le cause, vengono annoverate le principali –
individuate nella speranza della prole e nel rimedio alla concupiscenza – e quelle secondarie, identificate nelle ragioni
personali che possono indurre al matrimonio. E se anche queste cause seconde, per stare all‟insegnamento della
decretistica, o queste cause impulsive, per accedere invece all‟insegnamento della decretalistica, non hanno una
rilevanza giuridica determinante, certo è che esse sono ben presenti all‟attenzione del giurista. Le cause seconde,
dunque, avevano un certo rilievo nella canonistica medioevale ed erano assimilate, nella trattazione, alle cause prime:
la procreatio prolis ed il remedium concupiscientiae che diventeranno i fini del matrimonio canonico. Il fatto è che,
allora, il matrimonio non era ancora stato dichiarato sacramento: e, dunque, non era ancora stato attratto
definitivamente nella sfera del diritto pubblico; per questo, all‟interno della sua struttura, i motivi soggettivi
potevano avere ancora una cittadinanza residuale. Nella sua definizione istituzionale, in questa necessità di sottrarre
il matrimonio a qualsiasi determinazione personale, scolora la nozione di causa e affiora quella molto più forte di
“fine”. Il fine, a differenza della causa negli ordinamenti secolari, non deve essere perseguito positivamente dai
soggetti, basta solo che essi non lo escludano con un positivo atto di volontà. I fini del matrimonio vengono così
scolpiti senza incertezze e refluiscono lungo i secoli dentro le varie stagioni delle codificazioni canoniche; distinti dalle
cause seconde, essi garantiscono la Chiesa circa la teleologia che l‟incontro dell‟uomo e della donna persegue: la
propagazione delle specie e il dominio della sessualità.
G) Dalla condivisione al regno della fruizione: la difficile sopravvivenza del matrimonio e della
famiglia alle soglie del terzo millennio
Nel tramonto della civiltà umanistica e nel travaglio della nascita di qualche cosa di nuovo per noi assolutamente
inedito, è molto probabile che la stessa nozione di amore possa mutare di contenuto e di accento. In questo contesto,
un ruolo non secondario è destinata a svolgere l‟avvenuta separazione tra sessualità e procreatica. Chi pro-crea
(coloro che creano, cioè, “pro”, al posto di Dio, facendosi suo tramite per compiere la sua opera) non solo intreccia la
propria sorte con quella di qualcun altro, ma dà origine ad una vita che lo vincolerà ad un destino comune. Non è solo
l‟amore, nelle società tradizionali, ad essere forte come la morte: ma il flusso di vita che ne promana e che segna,
legandoli, i destini degli sposi. Per questo la copula carnale, la consumazione, rende il matrimonio indissolubile. In
questo senso la formula liturgica riassume bene il senso di quando detto allorché gli sposi si promettono fedeltà,

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nell‟atto del consenso. Sul terreno teologico, è proprio nel momento della morte che Cristo assume la Chiesa come sua
sposa, promettendole fedeltà fino alla fine del Tempo. Dopo quella consumazione, che si sostanzia nel dono della vita
stessa, quelle nozze mistiche diventeranno indissolubili. Così, in Occidente, le vite sono state condivise nel
matrimonio e nella famiglia: come, analogamente, le società e gli Stati hanno costituito gli scenari ove gli individui
hanno potuto abitare la Storia. E, in questo quadri, le religioni hanno tenuto un luogo fondamentale, con quel loro
porsi come istanza di condivisione di una fede e di un destino comune. Oggi, quasi senza accorgercene, siamo
transitati dal parametro della condivisione a quello della fruizione: e in questo passaggio anche i rapporti con le
persone, oltre che con le cose, mutano di segno. Così come sempre meno essenziale risulta mangiare allo stesso tavolo,
o partecipare alla Storia, allo stesso modo risulta sempre più difficile condividere un destino nella cornice di una
famiglia. L‟età della tecnica, che tende ad accorciare sempre di più la distanza tra il desiderio e la sua fruizione, rende
la soglia della sopportazione soggettiva, della fatica che un rapporto, anche il più alto, implica rispetto all‟altra
persona, sempre più sottile e ridotta. L‟amore è probabilmente destinato, nel moltiplicarsi dei suoi modelli di
riferimento, a perdere dimensione in profondità, a frammentarsi in una superficie incerta e mutabile. Così la famiglia,
cellula prima della società non meno che primo luogo di comunione ecclesiale, passa oggi, probabilmente, il suo
momento di crisi più profondo. E, con essa, lo stesso matrimonio, non più percepito come unico luogo individuato e
specifico della procreazione e del rimedio alla concupiscenza ha bisogno di riandare alle radici della propria origine per
riscoprire una possibile identità.

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4. ADEQUATIO REI AD INTELLECTUM: CAPACITAS ANIMI E CAPACITAS CORPORIS
A) Quali capacità per quale matrimonio?
Abbiamo avuto modo di vedere come il matrimonio sia per la Chiesa, prima di ogni altra cosa, un sacramento. Ciò
contribuisce ad affermare la giurisdizione piena ed esclusiva della Chiesa su quest‟istituto, al quale il diritto canonico
assicura accesso a tutti colori che lo desiderino, giusta il can. 1058. Il canone successivo precisa che il matrimonio dei
cattolici, anche quando sia battezzata una sola delle parti, è retto non solo dal diritto divino ma anche da quello
canonico. Esiste, dunque, un diritto soggettivo assoluto a contrarre matrimonio? Secondo una parte della dottrina,
un diritto al matrimonio non sembra configurabile “non solo per la ragione più generale della difficoltà di concepire
un diritto ai sacramenti, ma anche per il fatto che in varie occasioni la celebrazione del matrimonio è rimessa alla
discrezionalità dell‟autorità ecclesiastica”. Tuttavia, per un‟altra parte della dottrina proprio la dizione del can. 1058
pone, invece, un diritto naturale e assoluto a contrarre matrimonio per coloro qui iure non prohibentur. E ciò
contribuisce, secondo questo indirizzo di pensiero, a qualificare quelle circostanze soggettive od oggettive che ostano
alla valida celebrazione di un matrimonio – e che chiamiamo impedimenti - come assolutamente eccezionali e
tassative. In questo panorama, non è mancato, tuttavia, chi abbia cercato di rileggere la casistica degli impedimenti
secondo la teoria del negozio giuridico, alla quale il modello del matrimonio canonico accolto nel Codice del 1917
s‟ispira: con il risultato di risolvere e razionalizzare gli impedimenti come la classificazione tassativa dei requisiti
soggettivi ed oggettivi indispensabili per poter concludere le nozze. E, per meglio enucleare questa impostazione,
andrebbero distinti requisiti riconducibili alla capacità d‟agire (o capacitas animi) e quelli connessi invece con la
capacità fisica (capacitas corporis) necessaria per poter adire al matrimonio. Certo è che, almeno, la dottrina giuridica
del secolo scorso è arrivata a tenere ben distinti i vizi del consenso dagli impedimento veri e propri, contribuendo a
portare un po‟ di chiarezza in una materia che, sino a quel momento, si presentava come una sorta di selva barocca
inestricabile e irriducibile ad una qualche logicità. Prima di parlane diffusamente, è utile rendere note le
classificazioni usate dalla dottrina a proposito degli impedimenti. Essi si distinguono, anzitutto, in impedimenti di
diritto divino e di diritto umano, a seconda che essi derivino la loro esistenza da un atto del legislatore umano o
prescindano da qualsiasi formalizzazione positiva. I primi riguardano tutti gli uomini e non possono essere dispensati,
mentre i secondi vincolano i soli battezzati e possono essere dispensati dall‟autorità ecclesiastica. Rispetto alla
legislazione previgente, si è fatto più largo il potere dei Vescovi in materia, potendo essi, di fatto, dispensare da tutti
gli impedimenti tolti quelli esclusivamente riservati alla S. Sede: e cioè l‟impedimento proveniente dai sacri ordini o
dal voto perpetuo di castità emesso in un istituto religioso di diritto pontificio, e l‟impedimento di crimine.
Per ciò che riguarda invece gli effetti prodotti, la dottrine soleva distinguere gli impedimenti dirimenti da quelli
impedienti. I primi determinano l‟invalidità del matrimonio celebrato, ai secondi l‟ordinamento ricollega non la
sanzione dell‟invalidità del vincolo, ma quella, più lieve, della illiceità. In altri termini, chi contrae matrimonio in
presenza di un impedimento dirimente dà vita ad un atto giuridico radicalmente viziato da invalidità, chi invece
procede alle nozze in costanza di un impedimento impediente conclude un atto giuridico perfettamente valido ma
illecito: e questa illiceità si risolverà nell‟applicazione di una sanzione canonica a carico di colui (o coloro) che hanno
posto in essere un atto contra legem. La nuova codificazione non enuncia più esplicitamente questa distinzione; essa
tuttavia rimane concettualmente scolpita laddove si afferma al can. 1024 che il matrimonio concluso da due soggetti
dei quali uno però abbia ricevuto il battesimo in altra Chiesa o comunità ecclesiale (mixta religio) non può essere
contratto senza una previa licenza della competente autorità ecclesiastica. Da ultimo, e tornando all‟aspetto
sostanziale investito dagli impedimenti, rimane da enunciare la classificazione che li distingue tra assoluti e relativi.
Sono assoluti quegli impedimenti che valgono nei confronti di tutte le persone (es. l‟età o l‟ordine sacro); mentre sono
relativi gli impedimenti che esplicano la loro funzione impeditiva solo in relazione a persone determinate (es. crimen o
consanguineità). Vi possono essere degli impedimenti assoluti e relativi allo stesso tempo, come è il caso
dell‟impotenza che sarà impedimento assoluto qualora una determinata persona sia impossibilitata ad avere rapporti
sessuali con tutte le persone di diverso sesso, o se, viceversa, tale impossibilità si registri esclusivamente con una
persona determinata.
B) La distanza tra realtà e parola. La difficile rappresentazione del modello matrimoniale: a)
defectus discretionis iudicii; b) maturità psicologica; c) il fragile confine tra capacitas
animi e l’error iuris
Vi sono ragioni patologiche gravi che possono ostacolare la formazione del processo cognitivo o volitivo di un
soggetto: e la scienza medica e medico-canonica ha distinto già da secoli l‟ipoteso dell‟amentia (la follia), dalla mentis
debilitas (debolezza mentale o imbecillità) e dalla mentis exturbatio (oscuramento temporaneo della lucidità cosciente).
Già la dottrina classica della Chiesa escludeva la validità del consenso dato da persone affette da tali gravi sindromi
patologiche: pur tuttavia essa contemplava l‟ipotesi che il consenso venisse espresso in quei determinati momenti
(lucida intervalla), nei quali può accadete che il soggetto in questione recuperi, sia pure per un breve momento, l‟uso

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delle facoltà cognitive e volitive. Il tenore del can. 1095 della codificazione vigente riprende la dizione della
legislazione del 1917 e si ferma a richiedere come presupposto soggettivo per la validità del matrimonio
semplicemente un uso sufficiente della ragione, lasciando così intendere che bisognerà valutare caso per caso la
sussistenza o meno di quel minimo di capacità cognitiva e volitiva necessaria per esprimere un consenso valido. La
dottrina classica della Chiesa circa la possibilità per un infermo di mente di contrarre matrimonio in un intervallo di
lucidità non sembra, dunque, del tutto superata. Ma al di là delle proiezioni patologiche della discretio iudicii, bisogna
comunque ammettere che il matrimonio è una delle realtà più difficilmente rappresentabili di fronte alle sfere della
conoscenza e della volontà. Qui la novità introdotta dal Codice del 1983 appare, invece, rilevante ed innovativa. Il
can. 1095 si apre, infatti, al paragrafo secondo, a prevedere l‟incapacità a prestare il consenso matrimoniale per coloro
che difettano gravemente di discrezione di giudizio circa i diritti ed i doveri matrimoniali essenziali da dare e
accettare reciprocamente. Lo spiraglio aperto alla sensibilità tipica dell‟uomo contemporaneo appare di rilevante
momento: il nuovo Codice va ben oltre al dato di una patologia conclamata e si spinge fino ad abbracciare
quell‟ambito della fragilità ed immaturità psicologica che, seppure non codificata dalla scienza medica, risulta non di
meno rilevante ai fini del buon andamento del matrimonium in facto esse. La differenza rilevante rispetto alla
codificazione previgente rappresenta l‟approdo di un lungo percorso giurisprudenziale iniziatosi ancora in epoca
preconciliare soprattutto in quei paesi dell‟Occidente chiamati a fare i conti col mutare di un‟antropologia che
contempla una difficoltà maggiore ad uscire dalle logiche e dalla psicologie tipiche dell‟età adolescenziale.
C) L’unità della natura umana e la sottile distinzione tra capacità fisica e psichica: a) aetas, b)
impotentia; c) capacitas assumendi onera coniugalia
L‟eredità più alta che lascia dietro di sé la scienza psicanalitica consiste nell‟aver disvelato l‟unità inscindibile della
natura umana, il suo essere, corpo e spirito, profondamente legati in un mondo pulsionale nel quale è difficile
tracciare confini e distinzioni. Nell‟universo teologico la distinzione tra anima e corpo è più netta e portata ad un
grado di comprensione logica alla quale la lezione psicanalitica non accede, postulando zone d‟ombra e momenti di
sovrapposizione non razionalizzabili. Per questo il tracciato tradizionalmente così netto tra capacitas animi e
capacitas corporis oggi appare più opaco fino ad indurci a trattare nello stesso luogo dei presupposti sia fisici che
psicologici. Nell‟impedimento di aetas confluiscono motivi che riguardano il profilo psicologico i quali a loro volta non
possono non influire profondamente anche sulle attitudini e i comportamenti imputabili direttamente alla sfera fisica
che sostanzia la sessualità umana. Allo stesso modo nell‟impedimento di impotentia si riflettono o si possono riflettere
aspetti meramente fisici e implicazioni tipicamente psicologiche. Fino al 1977 la dottrina classica della Chiesa
definiva come impotenza quell‟incapacità ad avere un rapporto sessuale nel quale si avesse l‟emissione da parte del
maschio di un verum semen in testiculis elaboratum. È proprio la rivalutazione del profilo unitivo del matrimonio, non
contrapposto ma giustapposto da Paolo VI alla vocazione generativa del matrimonio, a determinare la svolta per la
quale dal 1977 si ritiene valida quella consumazione del matrimonio anche se in essa non vi sia stata emissione del
verum semen. La nozione d‟impotenza si riduce, dunque, ad una mera impotentia coeundi, che per avere efficacia
invalidante deve essere antecedente al matrimonio e perpetua. Il diritto canonico contempla la possibilità che
l‟impedimento d‟impotenza possa essere assoluto o relativo. Le cause che stanno a monte dell‟impotenza possono
essere sia di ordine fisico che di ordine psicologico, a sottolineare ulteriormente il difficile distinguo tra l‟uno e l‟altro
aspetto della natura umana. Oggi il diritto della Chiesa non può non considerare con attenzione il fenomeno
dell‟omosessualità e, più in genere, delle sessualità diverse. A prescindere da un giudizio morale, il diritto canonico
matrimoniale si è trovato a farsi carico in questi ultimi decenni di quelle situazioni matrimoniali minate dall‟emergere
di situazioni di questo tipo. Di fatto nella legislazione previgente l‟unico modo per risolvere casi di ninfomania o di
omosessualità era quello di ricorrere al caput nullitatis rappresentato dall‟incapacità psichica: il che implicava
qualificare come malati di mente soggetti ninfomani o omosessuali. Anche qui l‟apporto della giurisprudenza si è
rivelato di fondamentale importanza. Si è ragionato partendo dalle radici romanistiche sulle quali riposano gran
parte degli ordinamenti contemporanei, ed in particolare dal principio secondo il quale nessuno è tenuto ad una
prestazione divenuta per lui impossibile. Applicando questa teoria generale del diritto se ne è concluso che sarebbe
stato praticabile pretendere che un omosessuale fosse costretto per tutta la vita a rendere lo jus in corpus o, viceversa,
dovesse essere dichiarato pazzo per poter essere liberato dagli obblighi del matrimonio. Allo stesso modo la
giurisprudenza si è atteggiata per quanto attiene la ninfomania. Naturalmente la legge canonica richiede, ai fini della
nullità del matrimonio, che vi sia una vera e propria incapacitas assumendi gli oneri del matrimonio e non già una
incapacitas adimplendi, un‟incapacità cioè che si collochi a valle del consenso ed investa il matrimonium in facto esse.
Sfera fisica e sfera psicologica interagiscono di volta in volta, caso per caso, a determinare se siamo in presenza di
un‟incapacità di assumere gli oneri del matrimonio o se siamo di fronte ad un caso di impotentia; se questa impotentia
si collochi sull‟orizzonte della fisicità o dell‟impossibilità psicologica. La tecnica rende molto più problematica la
rigidità delle sistematiche giuridiche e, al contempo, molto più fragili le soglie di resistenza dei comportamenti umani
di fronte all‟infinito variegarsi delle ipotesi e delle possibilità.

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D) La sopravvivenza degli impedimenti di raptus e crimen alla depenalizzazione del diritto della
Chiesa
Questa capacità di adattamento del diritto della Chiesa conosce sempre un limite di espansione dato dalla tradizione
secolare dalla quale esso promana. Uno degli ostacoli più impegnativi con il quale il diritto canonico si trova oggi a
confrontarsi è quello rappresentato dall‟emancipazione femminile. Tutto ciò spiega la sopravvivenza nell‟ambito di
uno stesso ordinamento di prospettive e antropologie diverse che riflettono anche la complessità di un‟istituzione che
si rivolge a tutte le latitudini e longitudini. Così se da un lato la Chiesa che vive nei paesi a tecnologia avanzata
elabora nuovi capita nullitatis, quella che vive in altre situazioni tiene fermo ad impedimenti apparentemente obsoleti
quali, ad esempio, il raptus. Esso si sostanzia in una speciale tutela conferita alla donna nell‟ipotesi in cui essa venisse
rapita a scopo di matrimonio. Tale impedimento funzionava in chiave deterrente come una sorta di effetto penale
anticipato rispetto ad una condotta deviante. Questa previsione trova ancora cittadinanza nel Codice del 1983 al can.
1089. Esso prevede che la stessa figura dell‟impedimento cessi allorquando la donna, rilasciata dal rapitore, decida di
tornare da lui e di celebrare matrimonio fondato sul libero consenso. Ci si può chiedere se questo impedimento possa
essere applicabile in via analogica anche nel caso in cui venga rapito un uomo a scopo di matrimonio. La risposta è
negativa: e una tale fattispecie dovrà essere ricompressa nell‟ipotesi più generale di violenza fisica. La lettera del
diritto canonico, infatti, limita tassativamente l‟applicazione dell‟impedimentum raptus al solo e tipico caso del
rapimento della donna. Un mutamento profondo, invece, ha subito la nozione dell‟impedimentum criminis
contemplata oggi al can. 1090. La legislazione previgente accoglieva un‟ipotesi più ampia di crimini rilevanti ai fini
dell‟integrazione di tale impedimento. In particolare, accanto al caso del coniugicidio perpetrato allo scopo di
contrarre nuove nozze, il can. 1075 del Codice del 1917 annoverava anche altre ipotesi tra cui spiccava quella
dell‟adulterio con promessa di matrimonio. Oggi la disciplina si è venuta semplificando sino a presentare la sola
possibilità dell‟uccisione del coniuge proprio o altrui al fine di poter tornare a disporre della possibilità di nuove nozze
avendo eliminato alla radice l‟impedimento di legame derivante da matrimonio preesistente.
E) La volizione soggettiva e l’imperativo categorico di tener fermo agli impegni presi: gli
impedimenti di ligamen, ordo, votum simplex e votum solemne
La volontà umana è, per sua natura, labile e soggetta a mutamenti col cambiare delle circostanze, interiori ed
esteriori, nelle quali il soggetto si trova ad agire. Questo è il motivo per il quale il diritto canonico prevede una
fermezza assoluta per quei vincoli di appartenenza che nascono dall‟adesione totale ad un destino. Così l‟ordine sacro
imprime un carattere indelebile che non può mai venire meno e che la Chiesa considera non compatibile con l‟ordine
matrimoniale. Analogamente un impedimento di altrettanta forza dirimente nasce dalla circostanza per la quale un
uomo o una donna abbiano formulato il voto pubblico perpetuo di castità emesso per accedere ad un istituto
religioso. La solennità dell‟impegno e la pubblicità del voto con cui un fedele si è consacrato ad una ricerca spirituale
di maggiore perfezione escludono, dunque, in radice la possibilità di concludere un susseguente matrimonio. Il tabù
del sacro non è tipico solo della religione cristiana: lo ritroviamo anche presso le religioni pagane ed i culti tradizionali
antichi. Nella codificazione del 1917 era presente anche la figura di un impedimento impediente, il votum simplex, per
la quale si qualificava come valido, ma illecito, il matrimonio contratto da un soggetto dopo che il medesimo aveva
emesso voto privato di verginità o castità di non sposarsi o di accedere ad un istituto religioso. Ma anche il
matrimonio è per la Chiesa un sacramento: e tale è l‟esclusività del vincolo scaturente, che dal momento del consenso
prende vigore l‟impedimentum ligaminis. Per esso è fatto divieto a chiunque abbia celebrato un matrimonio di
contrarre successivamente nuove nozze nella sopravvivenza di un vincolo matrimoniale valido.
F) I difficili transiti della coscienza in una società multietnica e multiculturale: la disparitas
cultus e la mixta religio
La visione religiosa del mondo costituisce un principio d‟identità assai forte ed è comune a tutte le grandi religioni il
tentativo di difendere la propria antropologia. Non deve, dunque, stupire che l‟attenzione delle chiese si sia rivolta
con particolare attenzione all‟istituto del matrimonio cercando di riservare ai soli aderenti al proprio credo la
possibilità di contrarre reciproche nozze. Il divieto dei matrimoni misti è, dunque, trasversale alle religioni. Il divieto
di concludere matrimonio tra cristiani, ebrei e musulmani ha contraddistinto nei secoli gli ordinamenti religiosi di
queste tre confessioni che si sono incrociate nel bacino del Mediterraneo. Oggi il panorama che si disegna ai nostri
occhi è totalmente mutato, ed esso postula una mescolanza progressiva di popolazioni ed etnie in grande movimento
sul quadrante della globalizzazione. Pur tuttavia la difesa che ogni religione ha eretto a salvaguardia di se medesima
e dunque anche del proprio istituto matrimoniale viene ribadita e il sistema degli impedimenti che prevede
l‟impossibilità di contrarre, senza dispensa da parte dell‟autorità religiosa, un matrimonio misto rimane, sia pure con
accenti e rigidità diverse, negli ordinamenti cristiani, ebraico ed islamico. Nel diritto canonico, in particolare,
l‟impedimento di disparitas cultus prevede l‟impossibilità, senza previa dispensa, per un cattolico di contrarre
matrimonio con un non battezzato. Tale impedimento, che commina la nullità, può essere dispensato solo dopo che
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sia stata formulata dalla parte cattolica la dichiarazione di essere pronta ad allontanare i pericoli di abbandonare la
fede e la promessa sincera di fare quanto in suo potere perché tutti i figli siano battezzati ed educati nella fede
cattolica. Di questi impegni l‟altra parte deve essere portata a conoscenza in modo tale che essa sia consapevole delle
promesse e degli obblighi assunti dal coniuge cattolico. Per poter, infine, concedere la dispensa l‟autorità ecclesiastica
dovrà vigilare affinché entrambe le parti siano istruite sui fini e le proprietà del matrimonio che non devono essere
escluse da nessuno dei due contraenti. Il can. 1126 dispone che spetta alla Conferenza Episcopale sia stabilire il modo
in cui devono essere fatte le suddette dichiarazioni e promesse, sia determinare la forma per cui di esse consti nel foro
esterno e la parte non cattolica ne sia informata. Dal punto di vista redazionale i cambiamenti contenuti nel nuovo
Codice investono anche la disciplina di quei matrimoni tra cristiani dei quali solo uno risulti battezzato nella chiesa
cattolica: nella disciplina previgente tale situazione dava origine ad un impedimento impediente esplicitamente
contemplato. Oggi si applicano i canoni 1124-1126 dettati per questi matrimoni propriamente detti misti e che
abbiamo visto applicati nel caso d‟impedimento di disparitas cultus per effetto di rinvio. L‟inosservanza della forma
canonica di celebrazione, prevista come causa d‟invalidità nel caso di matrimoni contratti con un infedele, determina
invece la semplice illiceità nell‟ipotesi di matrimonio contratto tra un soggetto cattolico e uno cristiano di rito
orientale. In questa circostanza, per la validità si richiede l‟intervento di un ministro sacro.
G) Il rispetto dei tabù del sangue nel confondersi delle tracce della famiglia tradizionale:
consaguinitas, affinitas, cognatio legalis, publica onesta
Tra gli impedimenti che tradizionalmente non ponevano grossi problemi interpretativi rientravano quelli derivanti
dai divieti di mescolare il sangue familiare e di attentare alla stabilità dei vincoli sociali e di parentela che dalla
famiglia traggono origine. Così l‟impedimento di consanguineità riguarda il vincolo che sorga tra due persone che
discendono, in linea retta all‟infinito e in linea collaterale fino al quarto grado, dallo stesso stipite e rende invalido
l‟eventuale matrimonio tra loro intervenuto. In linea retta e nel secondo grado della linea collaterale (fratello e
sorella) tale impedimento è considerato di diritto naturale, dunque non dispensabile; dal terzo grado esso può essere
soggetto a dispensa. Alla stessa logica risponde l‟impedimento di affinità, riconducibile al diritto umano o
ecclesiastico, che opportunamente tende ad ostacolare quel matrimonio che potrebbe sorgere tra il coniuge e i
consanguinei dell‟altro. Esso può esistere solo in linea retta ed è, pur con difficoltà, dispensabile. Anche in questo
modo la Chiesa, non meno che le società civili hanno inteso salvaguardare il tabù rappresentato dal sangue nonché,
più in generale, l‟ordine morale e sociale della famiglia. Nella stessa logica si collocano gli impedimenti di pubblica
honestas e cognatio legalis. Il primo, detto anche semiaffinità, riguarda le situazioni che insorgono in costanza di
convivenza notorie e pubbliche tali da far considerare come matrimoniale il legame familiare instaurato tra due
persone che non sono, in realtà, sposate. Tale impedimento opera nel primo grado della linea retta. Il secondo, invece,
sorge in virtù del vincolo che s‟instaura tra diversi soggetti in caso di adozione legale, ed opera sia in linea retta che
entro il secondo grado della linea collaterale. Tale impedimento è dispensabile, e si discute se esso cessi in caso di
revoca del provvedimento di adozione. Sin qui i confini tracciati dal diritto sulla scorta di quei confini che
tradizionalmente contenevano i processi relativi alla procreazione umana. Oggi quel limite posto dalla natura è stato
superato in virtù della tecnica. Sotto le mentite spoglie di pratiche cliniche volte a sconfiggere la sterilità, i processi di
fecondazione in vitro e di maternità surrogate si sono venuti affermando in maniera sempre più massiccia. Per
quanto la legislazione italiano non contempli l‟ipotesi di fecondazione in vitro eterologa, né la possibilità di far ricorso
all‟affitto d‟utero per ospitare la gestazione di un embrione ottenuto da un ovocita prelevato da donatrice, è del tutto
evidente che il quadrante globale sul quale ci muoviamo impone di tener conto di questi sviluppi in atto. Di più
ancora: l‟incertezza rispetto alla possibile derivazione genetica di un individuo ed alla relativa possibilità della sua
venuta ad esistenza sono destinate ad aumentare notevolmente stante le possibilità indotte dalle tecnologie del
freddo, in grado di crioconservare materiale genetico. Le conseguenze di tutto ciò non ci appaiono ancora ben
determinate, tuttavia esse saranno in grado di modificare gli assetti delle famiglie ed i loro patrimoni. In questo
contesto, la determinazione dei confini stabiliti dal sangue e dall‟ordine familiare diviene ogni giorno più difficile e
problematico. Le tracce della famiglia tradizionale tendono a confondersi, a farsi più labili: e più palpabili le
violazioni di quei tabù che la tragedia greca ci ha tramandato nelle vicende di Edipo e della sua stirpe.

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5. SOLUS CONSENSUS FACIT NUPTIAS: I VIZI DELLA VOLONTA’
A) Inattualità della teoria negoziale e la trasformazione del matrimonio in un contratto atipico: le
variazioni indotte sul tema della volontà
La definizione dell‟istituto matrimoniale canonico ha mutato materiali di costruzione dagli ordinamenti secolari. Dal
diritto romano, prima di tutto, dal quale il diritto della Chiesa trae il principio fondamentale secondo cui “solus
consensus facit muptias”. Il consenso libero e non surrogabile delle parti è, dunque, la testata d‟angolo sulla quale
poggia l‟architettura della volontà nel matrimonio canonico. Ma la ripresa di materiali dogmatici estranei
all‟universo canonistico non si ferma qui. Le dottrine del negozio giuridico e del contratto hanno conosciuto nella
civiltà giuridica moderna, se non una trasposizione nel diritto canonico, certamente una qualche cittadinanza. Per
questa via si è radicata nell‟ordinamento della Chiesa una lettura della dottrina della volontà che è assimilabile a
quella dispiegata nei diritti secolari. Così il legislatore del 1917 ha codificato la disciplina della volontà matrimoniale
secondo uno schema a coordinate fisse elaborato nelle codificazioni continentali. Nella legislazione vigente il
matrimonio, benché definito a più riprese come contratto, lascia trasparire una sostanza sacramentale altra che
contribuisce a rendere più problematica e aperta questa classificazione. È ciò che ha colto una parte della dottrina
laddove ha sollevato il dibattito intorno al mantenimento del principio d‟identità e d‟inseparabilità tra contratto e
sacramento. D‟altronde è singolare notare come le categorie di negozio e di contratto, che tanta parte hanno avuto
nell‟elaborazione canonistica ma la cui radice prima sta negli ordinamenti secolari, proprio in essi cominciano a
mostrare i segni di una crisi evidente. Infatti, oggi si registra una grande incertezza sulla qualificazione giuridica del
matrimonio negli ordinamento statali: e se vero che una parte della dottrina ha avanzato l‟ipotesi che si tratti di un
contratto privatoi ai fini generali, è pur vero che ciò cui stiamo assistendo è una progressiva delegificazione del
matrimonio civile ridotto, ormai ad un rapporto tra le parti soggetto ad una negoziazione continua. In questo
contesto è necessario che il diritto canonico torni a riflettere su se stesso per trovare una propria via sulla quale
ripensare la qualificazione giuridico-sacramentale del matrimonio.
B) I casi di scuola rimasti sul campo della totale mancanza di volontà: jocus, violenza fisica,
errore ostativo
Da questo punto di vista il Codice del 1983 si muove in una direzione anfibologica: se da un lato esso apre una parte
del proprio sistema ad accogliere istanze di ripensamento e di adeguamento dell‟ordinamento a nuove sensibilità,
dall‟altra contiene alcuni retaggi ormai obsoleti che però un tempo facevano parte integrante della dottrina circa la
volontà matrimoniale. Classicamente i trattati, in questa materia, sortivano ad elencare i casi di assoluta e radicale
mancanza di volontà. Lo jocus prima di tutto: quella situazione, cioè, nella quale è del tutto evidente come il
matrimonio che si sta celebrando per finzione scenica o per scherzo non riveste nemmeno i caratteri estrinseci del
matrimonio canonico. È del tutto evidente che la fattispecie dello jocus assume un proprio valore esemplificativo a
fini praticamente espositivi e didattici. L‟errore ostativo si sostanzia in quel lapsus che si manifesta al momento
dell‟estrinsecazione del consenso e non ha nulla a che vedere con l‟errore nel quale può invece incappare la volontà nel
suo farsi o nel suo determinarsi. Anche questa ipotesi oggi è ridotta ad essere annoverata tra gli esempi di scuola. La
rilevanza dell‟errore ostativo, infatti, era legata strettamente, alla formula con la quale il consenso veniva esplicitato:
essa si risolveva, nella liturgia preconciliare, in un semplice sì pronunciato dai nubendi. Questa tipologia di errore,
che implicava la nullità, oggi non è più praticamente ipotizzabile stante la riformulazione della dichiarazione del
consenso che esclude, nella sua complessità e nel suo dettaglio, l‟ipotesi in parola. L‟altro caso tipico di totale carenza
della volontà dipendeva dall‟esercizio della forza fisica di costrizione usata per estorcere il consenso. Oggi l‟utilizzo di
questa via per indurre un soggetto al consenso matrimoniale non è facilmente immaginabile nelle sue forme classiche.
Nel caso della violenza fisica, però, si registra un indirizzo di pensiero che riconduce a questa figura l‟ipnosi nonché
l‟assunzione coatta di droghe o psicofarmaci che debilitino in maniera decisiva la volontà del soggetto passivo. Allo
stesso modo il plagio da parte d‟individualità singole o collettive che possono determinare una grande influenza sul
nubendo può essere assimilato alla figura della violenza fisica.
C) La simulazione
Il tratto distintivo che accomuna le ipotesi sopra esaminate è rappresentato dal fatto che in esse la volontà è
totalmente carente: ipotesi da tenere ben distinte da quei casi nel quali invece, pur apparendo una volontà
consensuale, uno e entrambi o coniugi nutrano una volontà interna totalmente difforme rispetto a quanto essi
vogliono far apparire. La simulazione, dunque, si qualifica non tanto come un caso di mancanza della volontà, ma
come quella fattispecie nella quale esiste ed è rilevabile un disvalore gli effetti, le proprietà o altri essenziali elementi
che contribuiscono a connotare il matrimonio canonico. Ma se è vero che il matrimonio nel diritto canonico è, prima
di ogni altra cosa, un sacramento del quale gli stessi sposi sono i ministri, è vero a maggior ragione che quest‟atto di
volontà implica direttamente la partecipazione divina al consenso. Questa è la ragione per la quale la disciplina

21
simulatoria si differenzia notevolmente nel diritto canonico rispetto da quanto è dato osservare nella sfera del diritto
civile. In quella sede, infatti, non è rilevante, ai fini della nullità, la simulazione unilaterale, detta anche riserva
mentale, che ha viceversa cittadinanza all‟interno dell‟ordinamento giuridico della Chiesa. Il matrimonio simulato,
invece, da entrambi i nubendi per raggiungere fini altri è nullo e la prova di tale nullità è normalmente più facilmente
provabile in foro esterno. Del pari, anche la riserva mentale deve essere provata e non solamente sospettata sia per
via di confessione della parte resa in giudizio sia per assunzione di prove testimoniali che si collochino in un tempo
anteriore a quello del consenso. Apparentemente può esservi una zona di sovrapposizione e d‟ombra che delimita il
capo di estensione della simulazione da quello dell‟error iuris. In tutte e due le ipotesi, infatti, ciò che esce distorto è il
modello matrimoniale proposto dalla Chiesa: nel caso dell‟errore una o entrambe le parti nutrono un‟erronea
concezione circa un elemento fondamentale del matrimonio; nella seconda ipotesi una o entrambe le parti con un
positivo atto di volontà escludono di volere un elemento o più elementi essenziali di talché il matrimonio canonico ne
risulta inevitabilmente inficiato. Il tratto distintivo sta tutto nella volontarietà di tale esclusione che, a differenza
dell‟errore, assume, nell‟esclusione simulatoria, consapevolezza piena.
Tradizionalmente la simulazione si rivolgeva contro i tria bona matrimonii di derivazione agostiniana: bonum prolis,
bonum fidei, bonum sacramenti: e si definiva totale o assoluta quando era volta ad escludere il matrimonium ipsum,
mentre si classificava come parziale o relativa quando essa si rivolgeva contro uno o più tra i bona matrimonii. Oggi la
nuova codificazione canonica introduce ipotesi inedite di simulazione parziale. Il can. 1101 stabilisce la necessità di
non escludere un elemento essenziale o una proprietà essenziale del matrimonio. Gli elementi essenziali del
matrimonio possono essere ricondotti all‟ordinazione che esso contempla rispetto ai suoi fini scolpiti nel can. 1055: il
bene dei coniugi e la procreazione ed educazione della prole. Le proprietà essenziali, invece, sono rinvenibili nel can.
1099 laddove vengono identificate nell‟unità, nell‟indissolubilità e nella dignità sacramentale. Certamente la
simulazione contro il bonum prolis riveste un‟importanza fondamentale nell‟economia della disciplina della volontà ed
è rilevante quel rifiuto della prole quando risulti perpetuo, assoluto ed irrevocabile. Da questa ipotesi si deve tenere
distinta la situazione nella quale due coniugi, all‟interno di un quadro programmatorio della loro vita familiare,
possono decidere, utilizzando i periodi naturali di infertilità, di procrastinare la procreazione. Per ciò che attiene,
invece, l‟educazione della prole, la simulazione non può travolgere l‟obbligo alla custodia dei figli ed al loro primo
allevamento e adattamento al ritmo vitale sia fisico che psicologico. La seconda ordinatio che non deve essere esclusa
con un positivo atto di volontà è quella volta al conseguimento del bonum coniugum individuato come ulteriore fine
del matrimonio canonico. Questa dizione comprende la dimensione affettiva ed il profilo della dignità delle persone
coinvolte nel matrimonio e della loro progressiva integrazione nell‟intima communitas vitae et amoris. Di conseguenza
renderà nullo il matrimonio quella simulazione volta ad escludere il bene dell‟altro coniuge e indirizzata viceversa a
far soffrire l‟altra persona conseguendo semplicemente scopi puramente personali ed egoistici. Nel rispetto e nella
dignità degli sposi si inscrive anche il bonum fidei, qualificato oggi come una delle proprietà essenziali del matrimonio.
Per essa le parti si obbligano ad una fedeltà degli sposi e perpetua che sancisce un vincolo di esclusività per ciò che
riguarda non solo la sfera di esercizio della sessualità ma la conduzione dell‟intera vita familiare che normalmente
origina dal matrimonio. La dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate se questo limite andasse ad intaccare
anche quei consensi matrimoniali nei quali una o entrambe le parti non fossero del tutto sicure di escludere al
momento della celebrazione delle nozze alcun altro rapporto anche occasionale che potesse verificarsi nella sfera della
sessualità con persona diversa. L‟orientamento generale sembra volto a prendere in considerazione, ai fini della
nullità, solo quella simulazione che tenda a mantenere e far salvo, al di là del consenso dato, rapporti affettivi ed
esistenziali profondo, e non dettato dall‟estemporaneità, tali da impedire di condividere con il coniuge la totalità
dell‟avventura umana ed esistenziale rappresentata dal matrimonio, ed in specie dal matrimonio canonico. L‟altra
proprietà di diritto naturale caratterizzante il matrimonio canonico investe il valore dell‟indissolubilità. Il rapporto
che nasce con l‟estrinsecazione del consenso potrà avere termine, nella logica della Chiesa, solo con la morte di uno dei
coniugi. Per questo sarà invalido quel matrimonio fondato su di una simulazione volta ad escludere l‟indissolubilità
precostituendo artatamente quei mezzi che possano successivamente condurre alla dichiarazione di nullità del
vincolo. Oggi la nozione relativa alla simulazione circa l‟indissolubilità tende ad allargarsi fino ad abbracciare
l‟orizzonte di molti soggetti che, vivendo ormai in contesti civili ove il divorzio e la mentalità divorzista si sono
affermati da molto tempo, tendono ad escludere che il matrimonio sia corredato dalla proprietà dell‟indissolubilità.
La Chiesa non può rinunciare a presumere viceversa l‟adesione tra interno volere e manifestazione del consenso e che
quel consenso si riferisca al modello di matrimonio proposto: giacché al fondo di ogni specifico matrimonio continua
ad intravedersi, come in uno specchio d‟acqua, l‟immagine delle nozze mistiche tra Cristo e la Chiesa.
D) La volontà viziata: l’errore e il dolo
Se l‟elaborazione giuridica per ciò che riguarda la simulazione ha avuto dinamiche decisive dopo l‟entrata in vigore
del nuovo Codice di diritto canonico, la legislazione riguardante la disciplina dell‟errore motivo o errore proprio
raccoglie invece nel Codice il movimento giurisprudenziale decisivo registrato lungo il corso del „900. Sino a quel

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momento la dottrina classica della Chiesa insegnava che l‟errore motivo o proprio per essere invalidante doveva
verificarsi su tra ambiti di possibilità: il primo riguardava l‟errore di persona, il secondo l‟errore sulla qualità della
persona, il terzo concerneva la condizione servile. L‟error in personam si alimentava non di radi dalla possibilità di
contrarre matrimonio per procura e dalla prassi, invalsa nei secoli, di destinare a nozze persone che tra di loro non si
conoscevano al solo scopo di rinforzare l‟ambito d‟influenza sociale, politica ed economica di famiglie blasonate.
L‟unica possibilità di errore sulla qualità ammessa da autorevole dottrina era quella riguardante la tipologia
dell‟errore su una qualità identificante, di talché l‟errore sulla qualità, di fatto, non era che una variante dell‟errore di
persona. La terza articolazione dell‟errore investiva, invece, il piano delle parità dei contraenti e la disponibilità di
disporre di ciò che viene conferito nel patto nunziale. Da queste tre ipotesi che sostanziavano l‟errore di fatto va
concettualmente tenuto distinti l‟errore di diritto che sorgeva allorquando uno o entrambi i nubendi non
identificassero e non di rappresentassero correttamente l‟istituto del matrimonio, travisandolo con altra situazione
giuridica implicante diritti e doveri di diversa natura. Alcune pronunce rotali che si collocano tra gli anni ‟30 e ‟40
aprono la strada ad un‟interpretazione più larga sull‟errore riguardante la qualità della persona sino a porre le
premesse per un ripensamento di tutta la materia. In questo universo di discorso il Concilio Vaticano II costituisce
uno spartiacque decisivo. In esso si afferma quella linea personalistica che porta a valorizzare, anche nel contesto
matrimoniale, la concezione di persona magis integre et complete considerata. Applicata al matrimonio quest‟idea reca
con sé la necessità che i nubendi abbiano chiara la rappresentazione della persona con la quale vogliono istituire il
matrimonio e che questa rappresentazione coincida con l‟uomo e la donna in carne ed ossa con cui ci si reca all‟altare.
Queste considerazioni hanno indotto la Chiesa a considerare l‟opportunità di allargare le maglie dell‟errore sulla
qualità non limitandola puramente e semplicemente nel recinto stretto della qualità identificante ma dilatandola sino
a ricomprendere quelle qualità di genere assolutamente essenziali nella prospettiva della condivisione di un destino.
La nuova codificazione canonica, al can. 1097, oggi qualifica come invalidante quell‟errore che cade su una qualità di
genere quando essa sia stata intesa direttamente e principalmente come necessaria ai fini della determinazione del
nubente al consenso matrimoniale. Naturalmente rimane invariata la nozione dell‟errore di persona, mentre sparisce
completamente la nozione riguardante la condizione servile dal momento che nessun paese del mondo contempla
come lecita la schiavitù. L‟onda lunga che ha sostenuto questa rivisitazione dell‟errore ha finito con il novare
profondamente anche la disciplina del dolo.
Il dolo si sostanzia in un raggiro o in un inganno volti a costruire una falsa rappresentazione della realtà tale da
indurre uno o entrambi i nubendi a prestare il consenso. Le ragioni della stabilità assoluta del vincolo avevano
sospinto il legislatore del 1917 ad interpretare il dolo come dolus bonus ed a considerare l‟emanazione della grazia
santificante che segue il sacramento comunque un bene maggiore che s‟irradiava a favore dei coniugi. Queste vie
avevano condotto al risultato di non conferire al dolo efficacia invalidante. Con un colpo d‟ala l‟insegnamento
conciliare ha spazzato via queste ambiguità e timori, aprendo alla verità elementare che l‟avventura matrimoniale
non può esordire con un inganno. Ma consapevole anche dei rischi che questa nuova posizione poteva amplificare, il
legislatore canonico ha cercato di riportare la rilevanza del dolo tendenzialmente a situazioni oggettivamente
rilevabili. Così il can. 1098 conferisce oggi efficacia invalidante a quel dolo volto ad indurre all‟errore circa una
qualità che per sua natura può perturbare gravemente il consorzio di vita coniugale. È pertanto la natura della
qualità che deve essere pesata oggettivamente e non la semplice volizione soggettiva che entra a conferire il peso e la
misura della qualità in questione.
E) La violenza psicologica
La straordinaria rilevanza che la Chiesa annette al consenso dei nubendi implica una tutela attenta e consapevole
della sua libertà. Non solo, dunque, la violenza fisica è motivo di nullità del matrimonio canonico implicando una
totale mancanza di volontà: ma anche il consenso viziato dall‟intervento di una violenza psicologica (vis) o di un
timore (metus) che devino il corretto formarsi dell‟intimo convincimento di uno o di entrambi i coniugi porta
all‟invalidità del consenso prestato. Questo argine è sempre stato presente nel diritto della Chiesa e figurava anche nel
Codice del 1917 al can. 1087. Per esso, si doveva tenere per invalido quel matrimonio verso il quale ci fosse decisi a
muovere in virtù di una minaccia grave, proveniente dall‟esterno, ingiustamente incussa e tale da indurre il soggetto
cui era rivolta nella convinzione di poter liberarsene solo celebrando il matrimonio. Era poi necessario che la violenza
psicologica esercitata fosse diretta proprio allo scopo di estorcere il consenso e non ad altro fine. Rispetto a questa
disciplina, le novità introdotte dalla codificazione giovanneo-paolina non sono di carattere meramente redazionale, ed
in esse si riflettono alcune novità sostanziali introdotte dal nuovo legislatore canonico: tra esse, la delineazione di una
disciplina più larga relativa ai vizi del volere. Coerentemente a tale impostazione, l‟attuale can. 1103 libera la figura
della violenza psicologica dai requisiti dell‟ingiustizia e del suo essere direttamente intesa ad estorcere il consenso. A
fronte della gravità dell‟azione incussa, si deve registrare necessariamente la gravità del timore indotto nel soggetto
passivo. Si può affermare che la gravità del timore può essere classificata secondo variabili che contribuiscono a
definire il soggetto passivo: l‟età, il sesso, il carattere, le condizioni fisiche ed intellettuali. Da ultimo va rilevato che

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non necessariamente l‟attualità della minaccia si risolve in un‟unità di tempo rispetto alla determinazione al
consenso: la minaccia può provenire dal passato e riguardare un male futuro; e in questo senso si può sostenere che
anche un semplice ma fondato sospetto circa la gravità della minaccia e dei suoi effetti possa condurre alla
dichiarazione della nullità del matrimonio. Una species particolare della violenza psicologica si sostanzia poi nella
figura del metus reverentialis: figura alla quale l‟ordinamento giuridico canonico non ha mai rifiutato rilevanza. Ciò
che entra in gioco in questa ipotesi è lo speciale vincolo di dipendenza affettiva e psicologica che lega due soggetti. In
concreto sarà il soggetto “forte” ad indurre il soggetto “debole” a contrarre matrimonio, minacciando di rompere ogni
futura relazione con lui se il suo desiderio non si realizzi. Nel metus reverentialis il male minacciato non investe,
dunque, la sfera della fisicità o la sfera della patrimonialità ma quella affettiva e psicologica, di talché esso si risolve
nella lacerazione di un rapporto che viene vissuta come un accadimento insopportabile. Nemmeno le sfumature più
riposte vengono trascurate: tutti gli ambiti dell‟animo umano vengono scandagliati dall‟occhio vigile
dell‟ordinamento, affinché si possa davvero dire che nella libertà della scelta elettiva che l‟uomo e la donna fanno uno
dell‟altro rifulga la dignità del sacramento.
F) La non ammissibilità di condizioni all’intentio sacramentalis
Tanto la scelta delle parti deve essere libera, tanto più essa stessa non potrà avere zone d‟ombra. Del resto, abbiamo
già visto come lo schema giuridico del matrimonio canonico non sia suscettibile di essere assimilato tout court al
contratto o al genus negoziale: ragione per la quale non è concesso ai nubendi di entrare nella lex matrimonialis
sottoponendo la propria adesione a clausole rilevanti dagli istituti tipici previsti allo scopo: la condizione, il termine e
il modo. Negli ordinamenti secolari, per lo più, non si ammette l‟apposizione di condizioni al matrimonio: nel diritto
canonico della Controriforma tale possibilità esisteva secondo accezioni ancora più ampie di quelle conosciute dai
diritti statuali, purché non in contrasto con gli effetti tipici del matrimonio e coerenti con il modello di matrimonio in
fieri proposto dalla Chiesa. Infatti, la nozione civilistica di condizione sospensiva, per la quale essa si sostanzia in un
avvenimento futuro ed incerto da cui le parti fanno decorrere l‟efficacia del negozio già perfettamente concluso, viene
allargata, nell‟orizzonte canonistico, fino a ricomprendere non solo le condizioni proprie (quelle cioè de futuro) ma
anche le improprie. Oltre a queste condizioni lecite, la casistica contenuta nel can. 1092 del Codice del 1917 conteneva
poi l‟ipotesi di apposizione di condizioni impossibili o illecite. Queste ultime potevano rientrare nella nozione turpis
simpliciter considerata per non apposta, o turpis qualificata. La condizione turpis qualificata era, invece, quella che
contrasta con uno dei bona matrimonii, che andava cioè ad identificare la sostanza stessa del contratto-sacramento.
L‟apertura all‟apposizione di condizioni è stata giudicata da molta parte della dottrina come un vulnus alla purezza
che dovrebbe caratterizzare il consenso. Ed è forse tenendo conto di questi rilievi che il nuovo Codice di diritto
canonico del 1983 ha profondamente innovato la materia al can. 1102, rendendo esplicito che non è più consentito
contrarre matrimonio sotto condizione sospensiva de futuro. L‟unica condizione oggi ammissibile per il diritto della
Chiesa è, dunque, quella impropria, passata o presente. Essa, peraltro, dovrà essere certificata in una licenza scritta
rilasciata dall‟Ordinario del luogo, senza la quale la condizione non è lecitamente apponibile. Qui affiora una diversità
in componibile tra la legislazione italiana e quella canonica proprio nei principi cardine che sostengono la costruzione
dell‟istituto: per l‟art. 108 del Codice civile, infatti, la condizione si ha per non apposta, e ciò non sortisce effetto
alcuno. Nel diritto della Chiesa, invece, non si pone mai in gioco il tema dell‟efficacia, dal momento che non è
possibile immaginare l‟ipoteso di un matrimonio valido ma inefficace: il sacramento esiste ed è valido oppure non può
sorgere validamente e rimane confinato, al contempo, nella sfera dell‟inefficacia. Va altresì detto, che meno che mai
nel diritto canonico matrimoniale avrebbe potuto trovare luogo le c.d. condizioni risolutive, quegli eventi futuri ed
incerti, cioè, al verificarsi dei quali le parti fanno derivare la cessazione degli effetti dell‟atto tra loro concluso. È del
tutto evidente che l‟apertura del sistema a questa tipologia di condizione, avrebbe di fatto introdotto il divorzio
all‟interno di un sistema che pone, a proprio fondamento, l‟indissolubilità del vincolo contratto dai coniugi.

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6. LITURGIA E FORMA DI CELEBRAZIONE
A) La libertà di forma e la non intromissione della Chiesa nella celebrazione del matrimonio
C‟è un documento che ci illustra l‟atteggiamento iniziale del cristianesimo nascente rispetto al‟istituto del
matrimonio. Nella Lettera a Diogneto si dice, infatti, che in nulla i cristiani si differenziano dagli altri cittadini
riguardo al matrimonio se non per il fatto che non buttano via i feti, cioè non praticano l‟aborto. L‟adeguamento
della prassi cristiana al rito romano è avvenuto, nella Chiesa delle origini, senza particolari scossoni. Per un lungo
lasso di tempo la Chiesa non si è introdotta nella questione matrimoniale né ha dettato al riguardo forme specifiche,
evitando che la giurisdizione ecclesiastica si compromettesse in una questione che aveva, in quel momento,
connotazioni di ordine eminentemente secolare. Due erano, probabilmente, i motivi di una simile condotta: da un lato
giocava l‟idea che il matrimonio tutti dovessero avere libero accesso non prevaricato da una veste di ordine formale;
d‟altro lato vi era chi, come Agostino, pensava che la presenza di un ordinato in sacris nella liturgia sponsale avrebbe
finito col compromettere la stessa immagine della Chiesa nell‟ipotesi che quel matrimonio non avesse avuto un esito
felice. Ciononostante il bisogno di produrre un rito di appartenenza cristiano che rendesse esplicita la diversità dei
seguaci di Cristo ha preteso un proprio diritto di cittadinanza, trasformando la liturgia stessa nel materiale di
costruzione primo e forse più prezioso nell‟edificazione del matrimonio canonico. Naturalmente gli andamenti della
storia sono sempre meno netti di quanto appaiano in una ricostruzione a posteriori: ed è pur vero che nello sviluppo
del diritto canonico ritroviamo a più riprese e in tempi diversi raccomandazioni e norme canoniche che esortano a
celebrare le nozze coram Ecclesia; ma è altrettanto vero che queste norme comminavano per i comportamenti
trasgressivi sanzioni che riguardavano e il foro interno e il profilo della liceità del matrimonio, senza intaccarne la
validità.
B) La sottolineatura liturgica di quell’atto volto a suggellare amor quae omnia vincit
Molte delle variabili introdotte nelle formule di celebrazione si sono innestate sull‟istituto romanistico
reinterpretandone le forme ed il portato simbolico. Così, la veste della sposa, il flammeum di colore rosso in onore a
Giove diviene un abito bianco a significare la verginità; così ancora il velo della sposa sostituisce il cappuccio del
mantello a significare il rispetto a Dio ma anche la nuvola del mistero che avvolge l‟uomo e la donna in quel
passaggio irrepetibile della propria vita. Questa necessità di produrre una propria proiezione di senso sull‟istituto del
matrimonio non è venuta meno neppure quando la Chiesa si rende consapevole di dover produrre un proprio modello
esclusivo di matrimonio canonico in competizione con le legislazioni secolari. Alla secchezza del linguaggio usato dai
decretasti e dai decretalisti si giustappone la ricchezza del florilegio liturgico che riflette un sentire assai profondo ed
articolato della realtà matrimoniale nei secoli che precedono la Chiesa della Controriforma. Da Graziano in avanti
l‟attenzione dei giuristi si sposterà sulle questioni di fondo ma anche sui dettagli normativi volti a definire, pure nella
loro astrattezza, i contorni del matrimonio canonico, della sessualità che in esso si esplica e delle conseguenze che
riverbera sia sulla societas fidelium che nella realtà secolare. Non solo le parole ed i gesti che gli sposi compiono nel
loro promettersi per tutta la vita, ma anche le formule di benedizione che oramai gli ordinati in sacris proferiscono ad
ogni matrimonio cristiano disvelano un mondo nel quale il valore dell‟amore, come valore fondante lo stesso
matrimonio, non entra necessariamente in conflitto con la sua prospiciente forma e natura giuridica.
C) La riforma tridentina e la necessità storica di normativizzare una forma di celebrazione del
matrimonio ad substantiam
La novità rilevante che si registra nel XV secolo è rappresentata dalla pronuncia del Concilio di Firenze per la quale il
matrimonio diviene, a pieno titolo, sacramento. Questa scelta di fondo operata dalla Chiesa era destinata ad avere
conseguenze fondamentali nella definizione del matrimonio canonico che viene così definitivamente attratto, per il
fatto di essere un sacramento, nell‟ambito del diritto pubblico. Pur tuttavia rimaneva intangibile il problema
riguardante la forma, dal momento che essendo l‟accesso all‟istituto libero per definizione, libera ne doveva risultare
anche la forma, affidata alla spontaneità degli sposi ed alla tradizione che, al riguardo, connotava ogni singola
comunità di fedeli. Né la dottrina ufficiale aveva mutato al proposito accento per effetto della dichiarazione di sacra
mentalità: si continuava, infatti, a ritenere che i ministri del matrimonio fossero gli sposi e non già il celebrante. Di
prospettiva, invece, il cambio d‟indirizzo era netto: perché parlare di sacra mentalità del matrimonio implicava un
controllo stretto su un atto che rivestiva per la Chiesa non solo un valore giuridico ma, ben oltre, un valore teologico
ed ecclesiologico fondante. Tutto ciò è bene evidente all‟interno del procedere dell‟assise tridentina, che, dopo aver
accolto il matrimonio come ultimo arrivato nel settenario sacramentale, dedica una parte larga delle proprie
attenzioni alla definizione della disciplina matrimoniale contenuta nel decreto Tametsi. In particolare, sono ben note
le posizioni che a Trento avevano sostenuto come il ministro del matrimonio dovesse essere individuato non già negli
sposi ma nel celebrante, rappresentando l‟ordinato in sacris la mediazione attraverso la quale la sostanza
sacramentale poteva essere trasmessa. Il Concilio di Trento conformò la dottrina tradizionale della Chiesa secondo la

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quale i ministri del matrimonio rimanevano gli sposi. Ma le preoccupazioni d‟indole dottrinale si giustapponevano,
nell‟asse tridentina, ad altre di carattere prettamente politico. Non a caso il Concilio procedeva sempre, nei suoi
lavori, su due piste parallele: da un lato la riforma dogmatica volta a ribadire la stabilità del patrimonium fidei della
Chiesa nei confronti dei protestanti; dall‟altro a mettere in campo quella riforma ecclesiastica necessaria per rendere
la Chiesa e la propria gerarchia credibile agli occhi dei fedeli e nel contempo renderla attrezzata e resistente nei
confronti delle pretese di sopraffazione che animavano gli Stati secolari usciti dalla temperie culturale della Riforma.
Su entrambi questi fronti era convinzione profonda della Chiesa come la sua capacità di resistere nella storia di un
Occidente che stava mutando fosse affidata ad un controllo capillare che passava per le fibre ultime della società
civile: e la famiglia avrebbe rappresentato, in questa prospettiva, un baluardo formidabile. Bisognava, dunque,
garantirsene il controllo e dotarsi soprattutto di quegli strumenti che assicurassero la non mescolanza tra cattolici e
protestanti. In questa prospettiva la forma libera di celebrazione del matrimonio rappresentava un vulnus mortale.
Fu questo il motivo dominante che condusse la Chiesa ad introdurre, accogliendola nel Tametsi, la forma pubblica di
celebrazione sanzionandola con l‟invalidità del matrimonio medesimo. Si disponeva, dunque, che il matrimonio
dovesse essere obbligatoriamente celebrato alla presenza di un sacerdote e di almeno due testimoni, dichiarandosi
invalido o nullo quel matrimonio che non avesse osservato nella celebrazione del consenso questa forma definita
“pubblica”. Per il diritto canonico da quel momento il matrimonio diviene un contratto formale e come tale viene
assunto e classificato nel contesto ecclesiale. Ciò che è indubitabile è la rivalutazione della figura e del ruolo del
celebrante, vero e proprio pubblico ufficiale chiamato a testimoniare dell‟avvenuto consenso e della sua regolarità, in
una parola il “notaio” di ogni matrimonio celebrato davanti alla Chiesa. Per avere vigore nei territori europei i
decreti tridentini dovevano avere conosciuto la pubblicazione in ogni parrocchia per almeno 30 giorni: e ciò non
accade, per motivi e contingenze di ordine storico e politico, in maniera omogenea nel contesto continentale. Ciò
contribuì a formare due aree distinte per ciò che riguardava la legislazione sul matrimonio: da un lato i luoghi
tridentini dove il Tametsi era stato pubblicato ed aveva vigore, dall‟altro i luoghi non tridentino dove ciò non era
avvenuto e dove si continuò ad applicare la normativa canonica classica che non prevedeva particolari forme di
celebrazioni. A questa confusione fu messo rimedio molto più tardi, nel 1907, per mano di Pio X. Egli emanò un
decreto, il Ne Temere, che sostanzialmente allargava in tutto l‟orbe cattolico la disciplina del Tametsi.
D) Pubblicizzazione dell’istituto e liturgia nuziale
Il progressivo radicarsi del matrimonio in un‟area d‟interesse pubblicistico, avrebbe trainato con sé, come un
corollario, la necessità di rivisitare una liturgia nuziale. Certo non era immaginabile che i precetti del Tridentino
potessero fondare un nuovo corso immediatamente. Troppo lunga era una tradizione di diverso segno, che dava alla
libertà dei ministri del sacramento, gli sposi stessi, la facoltà di scegliere liberamente la forma e le parole rituali
ritenute più adatte. Il consenso si era espresso, nel corso di lunghi secoli, per formule molto semplici o per gesti
concludenti, quali lo sfioramento della mano alla presenza dei parenti, il bacio pubblico sul sagrato della chiesa e lo
scambio degli anelli. Ma al di là del momento di estrinsecazione del consenso, l‟usanza diffusa comportava la dia
cronicità di fasi distinte della formazione della volontà matrimoniale, segnata dalle tappe del corteggiamento, della
trattativa tra l‟uomo e il padre della sposa, della promessa di matrimonio e, finalmente, dell‟esplicitazione definitiva
della volontà. La liturgia post-tridentina ha agito principalmente su due fronti: il primo concerneva la concentrazione
dell‟espressione del consenso al momento della sua celebrazione, eliminando progressivamente le fasi intermedie, che
finivano solo per ingenerare confusione sulla certezza della volontà definitivamente esplicitata. Il secondo mirava ad
espungere tutti gli elementi profani che si erano inseriti nel contesto della celebrazione che ormai si svolgeva in chiesa
alla presenza del parroco e che poco si addicevano e al carattere sacro del luogo e, soprattutto, alla dignità
sacramentale solennemente ribadita dal Concilio di Trento. Così in molte diocesi furono emanati, proprio in
applicazione del Tridentino, divieti espliciti che riguardavano il bacio e il bere insieme rompendo poi il bicchiere, le
danze, i banchetti, l‟offerta dei doni alla sposa. Persino la musica liturgica subì modificazioni importanti, con
l‟eliminazione tendenziale di quegli elementi polifonici che avevano finito per sovrapporsi alla pratica del gregoriano,
riproposto invece in tutta la sua solenne ieraticità. Ma c‟è una terza direttrice di senso che si riflette nella liturgia
derivando da un luogo teologico alto, quale quello sacramentale.
La Controriforma inaugura una concezione non statica ma dinamica del sacramento, introducendo un‟attenzione del
tutto peculiare non solo per il matrimonio in fieri, ma per il matrimonio in facto esse. Il sacramento, cioè, accompagna
tutta la vita degli sposi, scandendone i ritmi e gli appuntamenti più rilevanti. Se non si avesse presente questo dato di
fondo, risulterebbe incomprensibile la ragione per la quale nel contesto del Rituale Romanum, del libro, cioè, che
raccoglie il dettato della liturgia post-tridentina, si trovino non solo le formule relative alla celebrazione del consenso,
che può avvenire sia dentro che fuori la Messa, ma anche altre formule di accoglienza e di benedizione destinate ad
accompagnare gli sposi lungo tutto l‟arco della loro vita. E se, per quanto possa apparire paradossale, la formula
matrimoniale viene ridotta al nudo scambio dei consensi dove ai nubendi è richiesto di rispondere un semplice voglio
alla domanda del celebrante volta ad accertare la positiva volontà di entrambi, ed alla susseguente benedizione e

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scambio degli anelli, il Rituale Romanum si dispiega con maggiore dovizia su altri appuntamenti liturgici. Il primo
riguarda la benedizione della moglie incinta, soprattutto se la sua gravidanza sia a rischio. Il secondo concerne la
cerimonia di solenne accoglienza in chiesa della donna che ha partorito, davanti alla quale l‟aspetta il parroco. Il
terzo, infine, contempla la messa e la benedizione per coloro che abbiano raggiunti i 25 anni e poi i 50 anni di nozze. Il
matrimonio nella cadenza di un rito passato al vaglio dell‟ortodossia tridentina ritrova la sua unità dinamica: e viene
legato, nel momento del suo farsi e del suo dipanarsi nella vita, da una forte sottolineatura comunitaria, che registra,
corrobora e partecipa al senso dell‟amore umano che si fa tensione verso l‟eternità.
E) Forme ordinarie e straordinarie di celebrazione del consenso
La codificazione pio-benedettina non fa che recepire e precisare in alcuni dettagli la forma di celebrazione così come
era stata enucleata dal Concilio di Trento. Per essa, dunque, la forma ordinaria di celebrazione è la forma pubblica
che prevede, nello stesso luogo, la presenza degli sposi, l‟assistenza di un ministro di culto e la presenza ulteriore di
almeno due testimoni. Il ministro di culto deve essere stato legittimamente consacrato e deve avere la potestà
ordinaria di assistere al matrimonio conferita con l‟ufficio di parroco del luogo dove si celebra il matrimonio, oppure
deve essere investito di tale potestà da una delega da parte del titolare. Per ciò che riguarda poi i testimoni esso
devono essere in grado di assistere e testimoniare circa l‟atto che si sta per concludere. La celebrazione del consenso
deve poi essere preceduta dalle pubblicazioni (o banni nuziali) che devono restare affissi presso le porte della Chiesa
parrocchiale nei 15 giorni precedenti, onde consentire a chiunque di poter denunciare eventuali impedimenti di cui
fosse a conoscenza e che potessero ostacolare la valida celebrazione del matrimonio. Alla forma ordinaria di
celebrazione, denominata anche forma pubblica, il Codice del 1917 prevedeva tre possibili deroghe, denominate anche
forme straordinarie di celebrazione: la prima riguardava il c.d. matrimonio di coscienza e si riferiva a quell‟atto che il
vescovo poteva decidere dovesse essere celebrato segretamente e con l‟omissione delle pubblicazioni per causa grave
ed urgente. Questo matrimonio doveva comunque vedere la presenza, se non del vescovo in persona, del parroco
competente e di due testimoni: esso veniva annotato, poi, non nel libro parrocchiale dei matrimoni ma solamente in
un registro conservato nell‟archivio segreto della sede episcopale. Gli intervenuti erano vincolati al segreto e solo il
vescovo aveva la facoltà di pubblicare quel matrimonio, rompendo così il segreto qualora dalla convivenza dei due
sposi potessero nascere motivi di pubblico scandalo. La seconda forma straordinaria di celebrazione va individuata
nel matrimonio in articulo mortis. Esso può essere celebrato dal vescovo o dal parroco da lui delegato omettendo le
formalità previste dalla forma pubblica ed eventualmente con dispensa dagli impedimenti direttamente connessi alla
sua sfera di giurisdizione. La terza tipologia che fa eccezione alla forma di celebrazione ordinaria è quella nota come
matrimonio coram solis testibus. Tale forma si presenta come una necessità urgente allorquando o un pericolo di morte
o la previsione dell‟impossibilità per motivi non imputabili alla volontà umana (calamità naturali o eventi bellici) di
poter contare sulla presenza del vescovo o di un ordinato in sacris per almeno un mese rischino di rendere
impraticabile lo ius naturale al matrimonio. In tale eventualità il matrimonio potrà essere celebrato alla presenza dei
soli testimoni. La validità di questo matrimonio va ricondotta alla verità mai posta in discussione dalla Chiesa per la
quale i ministri del sacramento del matrimonio rimangono sempre e comunque gli sposi.
F) La riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II e la disciplina del Codice giovanneo-paolino
Il matrimonio ha costituito, per il Concilio Vaticano II, un importante banco di prova per misurare la capacità della
Chiesa di ritrovare, nel proprio patrimonio valoriale, una possibilità di dialogo con l‟uomo contemporaneo. Lo sforzo
del Concilio è stato quello di reinterpretare nel presente l‟istituto del matrimonio accordando in esso una rilevanza
fondamentale alla dimensione personale, ed interpretando in un‟antropologia più vasta e complessa il rapporto tra
uomo e la donna non finalizzandolo solo ed unicamente alla funzione procreatica. Per quanto riguarda la riflessione
teologica, il Concilio ha cercato di ragionare intorno al sacramento del matrimonio come se esso rappresentasse un
anello di congiunzione tra la dimensione eucaristica e il nuovo orizzonte dischiuso dalla Chiesa nella seconda metà del
„900. Da un lato il farsi largo dell‟idea che la procreatica era non un dovere ma una collaborazione al piano creaturale
di Dio, dall‟altro la convinzione che la scelta reciproca dell‟uomo e della donna richiamasse l‟offerta irrinunciabile che
Cristo fa di se medesimo alla Chiesa sino al punto cruciale di dare la vita per essa, hanno costituito i due pilastri
fondativi della nuova interpretazione del matrimonio canonico che il Concilio ci offre. Il Concilio Vaticano II pone in
maniera ancora più forte ciò che Paolo aveva delineato come un‟intuizione teologica immediata e non argomentata:
l‟unione dell‟uomo e della donna è, nel matrimonio, l‟immagine di Cristo e della Chiesa e l‟offerta reciproca è
un‟offerta che rimanda al luogo più alto descritto dai Vangeli, che altro non è se non quello della Passione. Di qui la
chiave di lettura eucaristica che il Vaticano II ha impresso all‟istituto del matrimonio e tale linea prospettica è così
forte da mutare le stesse cadenze della lex orandi. Ancora, sottolineando la rinnovata centralità degli sposi e la
necessità di un consenso libero e consapevole delle responsabilità che il matrimonio reca con sé, viene mutata la
formula di celebrazione che passa dal laconico “sì” ad un formulario più ricco ed articolato dal quale risulta chiara
l‟accettazione reciproca e l‟assunzione di un impegno comune. I testi utilizzati dal celebrante ricalcano da ultimo

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sentieri pre- tridentini: in essi sembra venir meno il piglio fermo secondo il quale era la persona del celebrante ad
unire in matrimonio, per lasciare spazio a dizioni scritturali per le quali la Chiesa, attraverso l‟ordinato in sacris
benedice la volontà degli sposi e l‟accoglie non facendosi, di essa, causa efficiente. In tema di forma il Codice del 1983
sembra ripercorrere la struttura della legislazione previgente, apponendo però alcune varianti degne di nota. In primo
luogo il nuovo Codice precisa i termini entro i quali la delega può essere conferita al celebrante: si stabilisce che
l‟autore della delega deve essere il legittimo titolare della potestà ordinaria e che il soggetto verso cui s‟indirizza deve
essere un ordinato in sacris o un diacono che non sia impedito nell‟esercizio del suo ufficio. Essa poi deve essere
espressa e può rivestire carattere speciale o generale. La prima ipotesi riguarda l‟assistenza ad un matrimonio
determinato, mentre la seconda avrà ad oggetto la generalità dei matrimoni celebrati entro l‟ambito di giurisdizione
propria del delegante. In questo secondo caso la delega dovrà avere forma scritta.
G) Altre forme di celebrazione di matrimonio religioso. Irriducibilità della sostanza immateriale
propria dell’atto religioso alla figura del matrimonio civile
Il can. 1112, invece, introduce una novità di rilievo: esso prevede che tale delega possa essere indirizzata anche ai laici
laddove manchino sacerdoti e diaconi: a tale possibilità il vescovo diocesano può accadere previo parere della
Conferenza Episcopale e ottenuta la licenza della Santa Sede. Qui i laici suppliscono alla funzione del sacerdote nel
matrimonio che è quella di essere teste pubblico qualificato: questa ipotesi va tenuta distinta da quella prevista dal
matrimonio coram testibus (can. 1116) nella quale i laici continuano a comparire come testi comuni. Nel caso in cui chi
assiste al matrimonio in buona fede non abbia in realtà tale facoltà la Chiesa supplisce, a norma del can. 144, a questo
difetto di giurisdizione nei casi di errore comune e dubbio positivo e probabile sia di diritto sia di fatto. Conseguenza
ne è che l‟atto nasce valido fin dal principio nonostante questo vizio di forma. La codificazione del 1983 pone alla
nostra attenzione, poi, un‟altra importante novità contenuta nel can. 1117. Per esso si afferma che la forma ordinaria
di celebrazione deve essere osservata se almeno una delle parti contraenti sia battezzata nella Chiesa cattolica o in
essa accolta e non separata dalla medesima con atto formale. La ratio di tale norma è quella di non vincolare alle
prescrizioni formali del matrimonio canonico e se non coloro che si sentano partecipi della vita ecclesiale, non
limitando il senso di appartenenza unicamente ad un dato risalente all‟anagrafe battesimale. Per ciò che riguarda,
infine, le forme straordinarie di celebrazione, il Codice del 1983 non contiene novità di rilievo e ricalca, salvo qualche
variante redazionale, la codificazione previgente.

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7. IL MATRIMONIO IN FACTO ESSE
A) L’iniziale non invasività della Chiesa nella vita coniugale che principia da un consenso
validamente dato
Sin qui abbiamo trattato del c.d. matrimonio in fieri, cioè dello schema giuridico astratto al quale la Chiesa propone
di adeguarsi. Per un lungo tratto di tempo l‟ordinamento canonico ha appuntato tutti i suoi sforzi nel definire la
nozione di matrimonio, la sua natura sacramentale, la casistica soggettiva ed oggettiva che prescinde alla possibilità
o impossibilità di concludere quel determinato coniugio. Da quest‟atteggiamento di fondo discendeva la scarsa
attenzione posta dalla Chiesa sin quasi tutto il secolo XVI su ciò che succedeva dopo il momento del consenso.
Nessuno sguardo ricognitivo dell‟ordinamento canonico su quella comunità di vita e di amore che comincia dal
momento del consenso; nessuna indicazione se non minimale e minimalista sul rapporto tra gli sposi e tra i genitori e
la prole che non fosse lasciata all‟ombra della volizione personale; nessun precetto volto a presidiare la famiglia.
Questo interesse marca un ritardo assoluto rispetto al primo concretarsi ed evidenziarsi della struttura giuridico-
sacramentale del matrimonio così come essa si è venuta definendo in un lungo corso di secoli fino ad approdare, di
fatto, alle soglie del Tridentino.
B) Il progressivo interesse per ciò che accade nella vita matrimoniale: il controllo della sessualità
nell’epoca della Controriforma
È questo tempo il tempo nel quale la Chiesa cambia l‟atteggiamento con il quale assume l‟istituto del matrimonio: da
un lato la certezza oramai acquisita di avere titolo a normare l‟unione dell‟uomo e della donna, dall‟altro il dover dare
un nuovo impianto ed un significato morale all‟istituto matrimoniale porta la Chiesa a prendere in considerazione
non solo lo schema giuridico astratto, ma anche il matrimonio in facto esse: l‟insieme cioè delle situazioni che
originano dal consenso correlate a comportamento che la Chiesa tende sempre più a regolare. Il perché è facilmente
ricostruibile tenendo conto del grande sviluppo che la sfera morale assume nel corso del XVI e XVII secolo. Nello
specifico, la Chiesa del Tridentino si rende conto di essere su quel passaggio di civiltà nel quale è necessario
contrapporre ad una concezione edonistica propria del Rinascimento un modello di etica sessuale totalmente diverso.
Di qui la presenza stabile nella canonistica conciliare e postconciliare di un comparto dedicato al matrimonio in facto;
di qui anche il forte dilatarsi della teologia morale nella sfera della casistica, per la quale i comportamenti relativi alla
sessualità umana vengono indagati, setacciati e classificati con un ordine che la manualistica dei confessori saprà poi
interpretare dal punto di vista della pena spirituale da infliggere ai trasgressori. Questa inclinazione della teologia
morale finirà per dare l‟intonazione ad una scienza canonica votata, in tempi ancora relativamente recenti, a
discutere sui meccanismi biofisici della sessualità umana, su centimetri di penetratio o sul concetto di vera introductio.
Di fatto, nell‟epoca della Controriforma, la disciplina del matrimonio in facto coincide in larga parte con il tentativo
di controllo della sessualità coniugale e si occupa assai poco di assumere l‟angolo prospettico dell‟antropologia
cristiana disegnando compiti, funzioni e ruoli all‟interno di una realtà straordinariamente ricca e vitale quale è quella
del matrimonio e della famiglia che ne origina.
C) I Diritti e doveri nascenti dal matrimonio nel quadro di una società contadina e liberal-
borghese
Questo quadro di fondo diviene un manifesto che fa sintesi di una concezione della sessualità e della famiglia che può
far base ferma nella costruzione solida di uno Stato poggiato stabilmente su quella che si riconosce essere la prima
cellula della società civile. Il matrimonio e la famiglia delineati dal diritto della Chiesa diventano funzionali alla
costruzione di una compagine sociale ben ordinata. In essa il mondo contadino funge da pietra angolare: e dentro il
mondo contadino il padre si staglia, a sua volta, come il padrone assoluto. Ma, a ben vedere, questo modello tenderà
ad affermarsi anche nel primo affermarsi della classe liberal-borghese, dove quelle istanze che porteranno ad una
pretesa emancipazione femminile avranno bisogno di molto tempo per radicarsi e produrre frutto. La crisi della
famiglia tradizionale si verificherà più tardi quando l‟ingresso della donna nel mercato del lavoro porrà in discussione
la posizione dominante della figura maschile. L‟autorità del marito nei confronti della moglie trova un preciso
pendant nella potestà del padre verso i figli. La patria potestà rimane, sia in ambito canonico che in quello civile, ben
ferma. E questa rigida organizzazione gerarchica è funzionale ad un modello di famiglia chiusa verso l‟esterno. Nel
modello delineato è difficile discernere le connotazioni confessionali da quelle secolari: ed in effetti a partire dal
Concilio di Trento sarà sostanzialmente unico l‟archetipo di matrimonio che si afferma nella realtà italiana, sia pure
differenziato dagli usi e costumi locali. In questa linea di tendenza vi era il rischio di secolarizzare l‟istituto
matrimoniale mettendone in ombra la sua fondazione sacramentale. Ma questo convergere delle ragioni ecclesiastiche
e di quelle secolari nella regolamentazione della disciplina matrimoniale è, a ben guardare, solo apparente. Certo la
disciplina del matrimonio in facto esse è stata per molto, forse troppo tempo, funzionale a quei poteri che professano,
rispetto alla Chiesa, un‟altra ispirazione nell‟interpretare il rapporto tra l‟uomo e la donna e tra essi e la propria
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discendenza. Ma è anche vero che la riflessione conciliare ha posto in evidenza determinazioni e modi del matrimonio
canonico che hanno continuato ad esistere sia pure in una convergenza tra morale e diritti secolari che spesso ha fatto
offuscare, nel corso della storia, l‟immagine del sacramento.
D) La rincorsa verso la fuga in avanti delle società a democrazia diffusa: la pretesa parità tra i
coniugi e il rapporto con la prole
Questa sorta di perfetta coincidenza tra ragioni teologiche e giuridico-secolari nel determinare il recinto normativo
del matrimonio in Occidente era destinata a rilevarsi in epoca più vicina a noi non già come una coincidenza ma come
un‟imperfetta sovrapposizione. Se è vero che sino ancora alla fine degli anni ‟50 del secolo appena trascorso chi avesse
osservato nel panorama italiano il matrimonio civile rispetto a quello religioso non avrebbe notato ad occhio nudo
nessuna grande divaricazione, è altrettanto vero che nel tempo poi sin qui trascorsa sono intervenute modifiche così
sostanziali nella vita economia e sociale da incidere in maniera decisiva sulla struttura e la morfologia del matrimonio
civile separato oggi da una distanza ormai abissale rispetto a quello canonico. È sotto gli occhi di tutti come la
straordinaria accelerazione impressa dalla tecnica abbia finito per svellere dalle radici le motivazioni per le quali
tradizionalmente un uomo ed una donna si univano nel vincolo del matrimonio. Proprio la scissione oramai avvenuta
tra sessualità e procreazione fa ormai leggere nelle legislazioni nazionali il matrimonio come un residuo del passato.
Ma forse, proprio per questo, la Chiesa ha dedicato e sta dedicando un largo spazio al matrimonio in facto esse,
rendendosi conto che il recupero di un retroterra simbolico e spirituale forte è per lei irrinunciabile nella fuga in
avanti delle società secolari trainate dalla tecnica e dominate dal relativismo etico. In questa prospettiva la lezione
del Concilio Vaticano II è stata fondante. Il rapporto tra i coniugi, prima di tutto, con quel recuperare il senso di una
parità nei diritti e nei doveri che non può avere cittadinanza in una società di ontologicamente diversi come quella
disegnata dall‟ordinamento della Chiesa. Il rapporto con i figli, poi: dove la figura della patria potestà lascia il posto
ad una genitorialità congiunta e consapevole che non si limita all‟esercizio di un‟autorità, ma che assume il profilo
dell‟educazione in senso solidale e maturo.
E) Il matrimonio, l’identità familiare e le garanzie poste a guarentigia della sua in
contaminazione. Privilegi e precauzioni sanciti dagli effetti del matrimonio nullo
Il ruolo preminente scolpito dal pater familias qualificava l‟ordine familiare come caratterizzato da una forte
gerarchia interna dove non solo non esisteva lo spazio per un‟equa ponderazione e valorizzazione dei ruoli assunti:
ma, ben oltre, esso garantiva la conduzione “strategica” delle alleanze sociali, politiche ed economiche anche
attraverso una “politica” guidata ed accorta dei matrimoni dei figli, anche se minori. La Chiesa, per verità, si era
sempre distinta, sotto questo profilo, dalle legislazioni secolari, tutelando la libertà del consenso al matrimonio del
minore ed emancipandolo nella sua capacità sia intellettiva che volitiva. Tuttavia l‟ordine sociale che si era imposto
aveva, nonostante queste differenze di fondo marcate dalla Chiesa, utilizzato il quadro di riferimento della famiglia
come un instrumentum Regni. Basta por mente alla legislazione italiana post-unitaria che demarcava con una linea
netta e ben individuabile la distinzione tra figli legittimi e figli nati non in costanza di matrimonio. La cruda
laconicità della legge sanciva, dunque, un ordine sociale rigidamente chiuso e nel quale la purezza della discendenza
giocava un ruolo decisivo nella possibilità di sviluppo e di affermazione della personalità di soggetti che non fossero
nati in costanza di matrimonio. Tutto questo oggi non può che essere percepito come una violazione patente dei
diritti fondamentali della persona; ma ciò che può sorprendere maggiormente è una sorta di cedimento a queste
ragioni di fondo, che sono evidentemente spurie e configgenti rispetto ai valori propri dell‟antropologia cristiana,
nella codificazione del diritto canonico del 1917. Essa accede, invece, a questa logica allorquando prende in
considerazione i presupposti soggettivi necessari ad un maschio battezzato perché possa essere investito, in generale,
dall‟ordine sacro, e, in specifico, della responsabilità dell‟episcopato. Tra essi viene ricompresa la qualità dell‟essere
figlio legittimo. Quale che sia l‟esatta genesi di questa norma essa cozza con quegli stessi principi della costituzione
ecclesiastica che fondano la dignità sacerdotale. In questa logica risultano anche comprensibili alcuni effetti che il
diritto canonico fa discendere dal matrimonio contratto coram Ecclesia e che, per quanto siano riconducibili alla sua
radice sacramentale, assolvono anche, in via sussidiaria, ad una funzione sociale ben individuabile. Così è per quanto
attiene il profilo della nullità o invalidità, che, ove fatto valere, travolge tutti gli effetti del matrimonio, retroagendo i
capita nullitatis al momento del consenso e rendendo nullo tutto il percorso successivo. Qui la sostanza sacramentale
gioca un ruolo di primo piano, di talché è ben difficile immaginare una sentenza costitutiva di nullità che disponga ex
nunc l‟invalidità di un atto al quale Dio stesso ha partecipato; e, per contro, è altrettanto indubitabile che ammettere
un‟ipotesi di questo tipo significherebbe dare cittadinanza, nel diritto della Chiesa, alla figura del divorzio. Tuttavia,
va anche rilevato come in virtù di questo modo di atteggiarsi dello ius Ecclesiae si ottenga il risultato di poter disfarsi
completamente del matrimonio, ove ne venga provata la nullità. Il sacramento può, dunque, giocare, a seconda
dell‟angolo prospettico dal quale viene guardato, come motivo di totale cancellazione di un ordine familiare o come
barra stabilizzatrice del coniugium. E spesso non saranno, nel concreto delle vicende umane, le ragioni di teologi a

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suffragare la nullità o la validità del matrimonio, ma le contingenze delle scelte soggettive, che per molti secoli sono
state appannaggio del contraente più forte: di quel pater familias dal quale dipendevano, in maniera esclusiva, le
scelte volte a condizionare la vita di tutti coloro che della famiglia, fondata sul matrimonio, partecipavano.
F) Matrimonio, famiglia e tutela della proprietà che contraddistingue la società familiare: il
sistema successorio
Ma se il marito era il capo della famiglia, erano le “cose” quelle che contribuivano a delinearne il profilo, a costruirne
il principio d‟individuazione. La terra dove la persistenza della famiglia era radicata nella civiltà contadina; ma anche
la casa ed i possedimenti che formeranno i contorni della famiglia di stampo liberal-borghese sono elementi rispetto ai
quali l‟unità familiare si definisce, rimanendo il vero cardine attorno al quale ruota il succedersi delle generazioni. Per
questo la proprietà va difesa e, se possibile, allargata. La terra, l‟azienda, il patrimonio familiare diventano, dunque,
la garanzia, ben al di là dei rapporti affettivi, dell‟unità della famiglia e del suo perdurare nel tempo di generazione in
generazione. Ed è qui che il diritto successorio spiega una valenza fondamentale, che va letto non di per se stessa, ma
in stretta colleganza con il diritto di famiglia. Il pre-giudizio morale che grava sui figli nati al di fuori del matrimonio
si traduce qui in termini d‟incapacità a succedere per coloro che stanno al di fuori di una discendenza legittima, quella
che salvaguarda il nome ed il tratto distintivo della stirpe. È una conquista tutto sommato recente quella che “apre”
il sistema successorio alla prole naturale. Pur tuttavia non possiamo ancora dire che la condizione di figlio naturale
sia equiparata, ai fini successori, in tutto e per tutto a quella del figlio legittimo o legittimato. Basti pensare
all‟ipotesi contenuta nell‟art. 580 del Codice civile attualmente in vigore per la quale solo i figli naturali che abbiano
avuto il riconoscimento al mantenimento, all‟istruzione e all‟educazione possono vedersi riconosciuto il loro diritto ad
un assegno vitalizio pari all‟ammontare della rendita della quota dell‟eredità alla quale avrebbero diritto se la
filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta. L‟evoluzione imprevedibile dettata dall‟impatto delle nuove tecniche
di procreazione umana tende poi, ben oltre, a rendere problematica l‟applicazione di quelle norme che tutelavano
l‟ordine familiare e successorio fondato sul tabù dell‟incesto e sulla decifrabilità dei rapporti di parentela. Ci pare di
poter affermare che tutto l‟asse normativo che detta l‟assetto del diritto di famiglia e del diritto successorio abbia
conosciuto un forte spostamento da una concezione che partiva dalle “cose”, dal patrimonio e dall‟unità che il
patrimonio accumulato dalle generazioni precedenti garantiva alla famiglia, verso una concezione che pone al centro
la soggettività e i suoi diritti a prescindere dalla sua appartenenza ad un sistema familiare e sociale verificato nella
legittimità della discendenza.
G) Dalla proprietà immobiliare alla proprietà mobiliare: la deregulation della famiglia e la
possibile crisi di quel sistema
Il grande passaggio epocale scandito dall‟economia delle società post-industriali ha trainato con sé il transito dal
capitale immobiliare al capitale mobiliare. La ricchezza e le plusvalenze non vengono più immobilizzate nella
proprietà immobiliare, meno remunerativa e più dispendiosa: sempre più ingenti di capitali, formate non di rado
dalla raccolta di un‟infinita molteplicità di piccoli risparmiatori, vengono indirizzati sul mercato mobiliare, più
flessibile molto più remunerativo. La mobilità e l‟internazionalità di capitali sempre più anonimi nella loro
composizione riflette, in qualche modo e più in generale, la mobilità degli individui nelle società contemporanee, in
grado di spostarsi velocemente e di cambiare lavoro, attitudini, situazioni affettive ed istituzionali con molta minore
problematicità rispetto al recente passato dal quale proveniamo. Più che beni trasmissibili ad eredi certi, oggi si tende
ad accumulare proprietà mobiliari suscettibili di essere pagate al portatore, potendo variare la volizione affettiva
delle persone con molta maggiore facilità di un tempo. E in questo svapore del valore anche (e soprattutto) simbolico
della proprietà immobiliare si riflette il nuovo paradigma fondativo delle attuali unioni familiari che popolano le
società post-industriali: la convivenza temporanea che rifiuta la stabilità e la sfida del tempo. Tutto questo si può
ricavare dai dati statistici che mostrano un incremento notevolissimo delle c.d. famiglie di fatto, delle unioni
temporanee di persone dello stesso sesso o di sesso diverso, dei singles aperti e abituati al declinare continuo delle
scelte sentimentali ed affettive. La deregulation della famiglia implica anche, come un corollario, la possibilità di
disporre delle proprie sostanze al di là della legittimità della discendenza e dei diritti acquisiti e derivanti da un patto
di stabilità che sempre meno le nuove generazioni sembrano esser disposte a contrarre. Il taglio con il passato è netto;
in questo smarrirsi dei contorni tradizionali della famiglia, anche il cognome con il quale la prole dovrà essere
designata non è più un elemento di trasmissibilità certa: dal nome del solo padre si è passati alla possibilità di apporre
ai figli, congiuntamente il cognome del padre e della madre, mentre una recente sentenza della Corte di Cassazione ha
stabilito, infine, la legittimità dell‟apposizione del cognome della sola madre. Questa realtà ci parla di una crisi del
sistema familiare che passa anche per il cambiamento degli effetti che dal matrimonio nascono, dal variare non solo
dei diritti e dei doveri che investono oggi i coniugi, ma, altresì, del complesso dei rapporti economici che investono la
famiglia ed ognuno dei suoi componenti, fino a toccare, da vicino, quel sistema successorio da sempre considerato il
vigile guardiano dell‟integrità del patrimonio di famiglia e della legittimità della sua trasmissione nel tempo.

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8. VICENDE MODIFICATIVE ED ESTINTIVE
A) La fermezza del principio d’indissolubilità e l’elasticità applicativa del diritto matrimoniale
canonico
Il matrimonio canonico validamente celebrato coram Ecclesia e consumato dagli sposi è, per sua stessa natura,
indissolubile. Questo principio dell‟indissolubilità gode di una tale fermezza da farlo assurgere a tratto distintivo ed
irrinunciabile dell‟istituto stesso. Questa straordinaria capacità di tenere fermo a se stesso ha connotato il sacramento
del matrimonio lungo i secoli dell‟Occidente cristiano, radicando questo modello monogamico assoluto come il punto
di riferimento nello sviluppo di una civiltà, quella europea, che ha sin qui fatto della solidità della famiglia la propria
pietra d‟angolo. Tutto ciò ha fatto s‟ che al di fuori dell‟amore istituzionalizzato nella forma sponsale, vagasse, nella
realtà non meno che nell‟immaginario soggettivo e collettivo, l‟amore libero, quel daimon erotico che rifluiva così
nell‟adulterio o nelle altre diverse forme nelle quali si può esprimere la sessualità umana. Pur tuttavia, questa sorta di
dicotomia tra amore lecito ed illecito che ha percorso l‟Occidente e la sua letteratura, non sempre ha potuto scorrere
entro binari paralleli e scissi: e la Chiesa si è resa consapevole di come, in casi estremi, il rigore dettato dal dogma
dell‟indissolubilità dovesse e potesse conoscere vie di fuga ed applicazioni più elastiche di quanto l‟assolutezza di tale
principio postulava. In questa prospettiva diviene leggibile tutto il sistema delle possibili vicende modificative ed
estintive del matrimonio canonico, che si qualificano per il loro porsi come eccezioni rispetto alla regola della stabilità
del vincolo. La caratteristica di tutte le forme modificative ed estintive del matrimonio canonico risiede nel fatto che
al diritto canonico è sconosciuto il profilo dell‟annullabilità: esso o viene regolarmente ad esistenza e non è dirimibile,
oppure nasce con un vizio coevo che ne giustifica, retroattivamente, la dichiarazione di nullità. Per questo le sentenze
di un giudice ecclesiastico non sono mai costitutive ma sempre dichiarative di nullità.
B) Inesistenza, nullità e scioglimento del matrimonio, soli strumento per interpretare il tempo
della volizione personale e dell’instabilità affettiva
Proprio sulla capacità di tener fermo ad una scelta impegnativa e tendenzialmente definitiva come il matrimonio si
può misurare la progressiva instabilità trainata dall‟età della tecnica. Il dato statistico per il quale l‟incremento
vertiginoso del fallimento delle unioni familiari tende ad avvicinarsi alla quota del 50%, non deriva la propria
esistenza solo dall‟introduzione dell‟istituto civile del divorzio ed alla mentalità che esso avrebbe indotto: c‟è qualche
cosa di più profondo che va colto e portato alla luce. La frammentazione dell‟immagine, il moltiplicarsi dei modelli
comportamentali che fa crescere il relativismo etico ed al contempo abbassa le soglie di resistenza della volizione
soggettiva, la difficoltà crescente a rinunciare a ciò che il presente offre, qualificandosi il presente come l‟unica
dimensione del tempo percepibile: tutto questo spinge le soggettività fuori da un modello di stabilità sentimentale,
affettiva e sessuale proiettata nel futuro. Se questa è la nuova antropologia è del tutto evidente che un istituito come
il matrimonio canonico, che fa della stabilità proiettata lungo tutto l‟arco della vita il suo tratto distintivo, non possa
non mostrare i segni di una crisi evidente. Nella casistica che cade sotto la nostra percezione, vi è, innanzitutto, una
prima ipotesi nella quale si contempla con totale evidenza che di sicuro non siamo in presenza di un atto giuridico
esistente per il diritto canonico. Si tratta di tutte quelle circostanze ove manchi perfino la species seu figura
matrimonii: dove non siano rinvenibili, cioè, i requisiti minimi che identifichino un matrimonio contratto
canonicamente, l‟ordinamento qualifica quell‟atto come giuridicamente inesistente. Dall‟inesistenza va tenuta
concettualmente ben distinta la fattispecie del matrimonio invalido o nullo, non distinguendosi nel diritto
matrimoniale canonico a nessun effetto il profilo dell‟invalidità da quello della nullità del vincolo. Il matrimonio
invalido o nullo rivela nel suo venire ad esistenza, un vulnus riconducibile ad un impedimento, ad un vizio del
consenso o della forma di celebrazione che ne mina sin dall‟origine la sua costituzione. Non quindi condizioni
sopravvenute: ma elementi caduca tori già presenti all‟atto dello scambio del consenso andranno ricercati per
determinare e dichiarare la nullità ab origine di quel determinato matrimonio. Ecco perché parlare di scioglimento del
matrimonio, in diritto canonico, è indice, nella generalità dei casi, di una terminologia non corretta: le sentenze che
comminano la nullità hanno qui natura sempre dichiarativa e mai costitutiva. In altri termini, possiamo affermare
che un matrimonio canonico perfettamente rato e consumato non può mai venire sciolto. Va sottolineato come le
possibilità accennate siano le sole esistenti nell‟ordinamento giuridico della Chiesa in base alle quali sia possibile
graduare un‟ipotesi di “dissolvimento” del vincolo coniugale.
C) Una speranza e un rimedio al possibile profilarsi di un fallimento dell’unione: la separazione,
manente vinculo, temporanea e perpetua
Dentro queste maglie strette tessute dall‟ordinamento, la Chiesa si è fatta carico, nel corso della sua storia,
dell‟eventualità che il matrimonio sacramento potesse essere soggetto a turbative per effetto di contingenze non solo
rapportabili alla sfera della sessualità e delle passioni ma, più in generale, alle difficoltà nel rapporto interpersonale
che da sempre possono sorgere nella vita coniugale. Le origini dell‟istituto della separazione son ben più remote del
Codice del 1917: ma nel primo Codice di diritto canonico essa trova una collocazione sistematica ed occupa un posto
32
preciso all‟interno della definizione del matrimonio. La legislazione previgente poneva sempre in primo piano la
coabitazione come un diritto dovere irrinunciabile del patto coniugale: ma una volta fatta questa promessa essa
passava a prendere in considerazione le ipotesi che potessero dar luogo alla concessione di una separazione perpetua o
temporanea. La separazione temporanea veniva consentita sulla base di un‟indicazione tassativa contenuta nel can.
1131 ed era pronunciata dal vescovo. Tale atto non poneva in alcun modo in dubbio il permanere della stabilità del
vincolo, tanto è che essa prendeva il nome di separazione manente vinculo. L‟altra ipotesi di separazione, invece, si
sostanziava nella richiesta avanzata dal coniuge innocente nei confronti dell‟altro che si fosse macchiato di adulterio.
La separazione doveva essere pronunciata per sentenza dal giudice ecclesiastico e poteva avere natura perpetua. Va
da sé che anche la separazione perpetua veniva pronunciata manente vinculo, a sottolineare, ulteriormente, il
principio indefettibile dell‟indissolubilità. L‟architettura di quest‟istituto non è fondamentalmente cambiata nella
nuova codificazione canonica. Vi sono, tuttavia, tre novità da registrare per l‟interprete: la prima riguarda la
disciplina della separazione temporanea laddove sparisce l‟elencazione esemplificativa della casistica, lasciando così
maggiore discrezionalità al potere del vescovo. La seconda concerne, invece, la mutata disciplina della separazione
per adulterio, che contempla oggi la necessità di esperire un tentativo di conciliazione fondato sull‟esortazione al
perdono rivolta al coniuge incolpevole. La terza, infine, è vocata alla tutela del bene della prole. Il nuovo Codice non
stabilisce come criterio prioritario ai fini dell‟affidamento, l‟innocenza del coniuge, ma: come prescrive il can. 1154, si
dovrà provvedere opportunamente al debito sostentamento e all‟educazione dei figli una volta effettuata la
separazione. La separazione canonica si qualifica, dunque, come un rimedio alle situazioni di crisi: ma, ancor più,
come la speranza di poter recuperare l‟unità che nel matrimonio s‟inscrive.
D) Affinità e differenze tra l’istituto canonistico della separazione e la nozione di separazione
elaborata dagli ordinamenti secolari
È facile cogliere come il pilastro che sostiene tutta la costruzione canonistica, laddove si parli di separazione dei
coniugi, è il discrimine della colpa. Per definizione, infatti, non può esistere nel diritto della Chiesa una separazione
consensuale. Tutto diverso, invece, l‟impianto dell‟istituto della separazione nella sua nozione civilistica. Essa, di
fatto, non ignora l‟ipotesi della colpa: ma la sua natura tende a consolidarsi in maniera definitiva sulla con sensualità.
La struttura della separazione conosce, nel diritto civile, una prassi che vede gli sposi come unici protagonisti della
vicenda: a loro (e ai loro avvocati) tocca trovare un accordo su tutte le questioni da regolare, economiche ed
educative. Il giudice si limita a compiere una ricognizione sull‟equità del compromesso raggiunto nella separazione,
ma non entra nel merito della colpa o dell‟innocenza degli stessi coniugi. Nel contesto civilistico, poi, la separazione
assolve ad una funzione ontologicamente diversa da quella giocata nello ius Ecclesiae. Mentre in quest‟ultimo
contesto la separazione si pone come una sorta di momento di riflessione rispetto al quale l‟auspicio è quello che la
crisi coniugale si possa risolvere e la completezza del vincolo possa tornare a dispiegarsi ricomprendendo la communio
tori ac mensae, in ambito civilistico la separazione si pone come l‟anticamera del divorzio. È significativo notare che
giacciono in Parlamento diverse ipotesi di disegni di legge che prevedono la riduzione ulteriore da 3 anni ad uno dello
spazio intercorrente tra separazione e divorzio. Questo dato di fatto rende evidente l‟avvenuto abbassamento della
soglia di sopportabilità, nell‟uomo contemporaneo, rispetto ad impegni presi nel campo sentimentale ed esistenziale.
La divaricazione di questi due modelli matrimoniali, il civile ed il canonico, non era ancora così netta all‟epoca
dell‟entrata in vigore del nuovo Codice di diritto canonico. In esso, infatti, si ritrova ancora una norma singolare
contenuta nel can. 1692, in base alla quale il vescovo, nei casi in cui la decisione ecclesiastica non ottenga effetti civili
e si possa prevedere una sentenza civile non contraria al diritto divino, può concedere licenza di ricorrere
direttamente al tribunale dello Stato. Oggi, su questo punto, il panorama è radicalmente mutato e il breve tempo nel
quale si consumerà la separazione civile non consentirà quella riflessione sul recupero del rapporto di coppia nel quale
quella rationabilitas aveva puntato.
E) I casi di “divorzio canonico”: lo scolorare dei tratti distintivi del favor fidei nella progressiva
dispersione delle ragioni ideologiche tipiche delle società multiculturali
I matrimoni rati e consumati sono, per la Chiesa, indissolubili: ma proprio partendo da quest‟assunto si può
argomentare che i matrimoni o solamente rati o solamente consumati sono di per sé suscettibili di “divorzio
canonico”. Ciò conferisce, paradossalmente, una stabilità ancora più forte ai matrimoni reati e consumati che
affondano la radice della loro fermezza nella sacra mentalità. È in ragione di questa fede che la Chiesa concede la
possibilità ad un infedele già sposato con altro infedele, e successivamente convertitosi, di passare a nuove nozze con
parte cattolica. Detto questo è evidente che il favor fidei si qualifica come una possibilità che l‟ordinamento della
Chiesa si è dato di difendere l‟identità rappresentata dalla convinzione religiosa: e di difenderla fin dentro il cerchio
intimo tracciato dalla realtà familiare. E se gli impedimenti di disparitas cultus e di mixta religio funzionano come
deterrenti preventivi rispetto ad una possibile contaminazione del sangue e della fede, il favor fidei funziona come una
possibilità di transito verso la certezza della praticabilità del proprio credo e dell‟educazione della prole in

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quell‟ambito cristiano al quale un infedele si sia successivamente convertito. Lungo i molti secoli dell‟Occidente i
confini e le barriere che segnavano e distinguevano i mondi della diversità erano ben netti e ben sorvegliati da mura e
da cavalieri armati. Per questi motivi il ricorso alla scioglimento in favorem fidei era un evento raro: oggi, viceversa, i
potenti flussi migratori che caratterizzano il tempo presente ripropongono con forza il tema contenuto sia
nell‟impedimento di disparitas cultus che nell‟istituto del favor fidei. In questo difficile transito di civiltà il riemergere
dei fondamentalismi mostra la difficoltà di conciliare i principi identitari derivanti da una visione religiosa del mondo
anche all‟interno della realtà familiare. Così i casi di divorzio canonico in favorem fidei sono in aumento, sia quelli
tipizzati dalla lettera del Codice che altri regolati da normative extracodiciali. Un ambito, invece, dove non si
dovrebbe registrare più una necessità così forte di difesa rispetto ad un credo diverso è quello che investe i rapporti
tra la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane. Il ruolo svolto dal privilegio paolino per ciò che riguarda gli
infedeli viene giocato dal c.d. privilegio petrino (così chiamato perché concesso dalla potestà vicaria dal Pontefice),
ove sono venuti in considerazione per la prima volta originariamente i matrimoni tra un non battezzato e un
battezzato acattolico poi passato al cattolicesimo. Successivamente la Santa Sede ha concesso dispensa di
scioglimento anche nel caso di matrimonio tra un cattolico e un non battezzato celebrato con dispensa
dall‟impedimento di disparitas cultus e di matrimonio tra due non battezzati, che non si sono convertiti al
cattolicesimo ma dei quali uno desidera contrarre nuovo matrimonio con un cattolico.
F) L’inconsumazione. Tra ordinamento canonico e ordinamento civile: la concezione mutante
dell’idea stessa di consumazione
L‟altra ipotesi prevista dall‟ordinamento canonico di scioglimento del matrimonio riguarda l‟inconsumazione. Il
Codice fornisce la nozione di consumazione prevedendo che si avveri, al can. 1061, quando i coniugi hanno compiuto
tra loro, in modo umano, l‟atto di per sé idoneo alla generazione della prole al quale il matrimonio è ordinato per sua
natura e per il quale i coniugi diventano una sola carne. Di per sé la sola in consumazione non è sufficiente per
ottenere la dispensa super rato et non consummato, che è e rimane di prerogativa del Pontefice. Il can. 1142, infatti,
esige una seconda condizione per poter procedere in tale senso: una giusta causa che può essere data o dalla necessità
di togliere l‟altro coniuge da un‟ipotesi d‟incontinenza, oppure dalla necessità di risolvere un dissidio tra coniugi già
separati o, ancora, dall‟opportunità di rimuovere il pericolo di un grave scandalo. Oggi la titolarità di quest‟azione
spetta ad entrambi i coniugi, che possono agire anche se l‟altra parte palesasse la sua contrarietà. La dispensa super
rato si sostanzia in un rescritto pontificio e riveste, quindi, la forma di atto amministrativo. La concezione di
consumazione è venuta mutando nella visione canonistica nel periodo trascorso tra il Concilio Vaticano II e la nuova
codificazione. Sino a quel momento, infatti, l‟idea di consumazione si nutriva esclusivamente di una nozione
biomeccanica, di talché la determinazione se pronunciare o no un provvedimento super rato et non consumato era
affidata alla constatazione che si fosse verificato anche minimamente un rapporto sessuale a prescindere dalle
modalità e dalla consapevolezza con cui esso fosse stato posto in essere. La dimensione personalistica inaugurata dal
Concilio ha ritenuto insufficiente quest‟angolo prospettico e ha considerato l‟unione sessuale tra i coniugi secondo una
concezione che tiene conto della ricchezza umana e antropologica del gesto. La Chiesa sembra accedere ad una
concezione evolutiva e dinamica dell‟antropologia cristiana che si esprime nell‟esercizio della sessualità dentro il
matrimonio, superando le logiche miopi e non di rado sessuofobiche che avevano alimentato una stagione troppo
lunga della canonistica. L‟inconsumazione rappresenta un motivo di divorzio anche davanti ai tribunali civili.
Curiosamente, dunque, la legislazione civile fa sopravvivere nel proprio ordine una causa di divorzio di natura
squisitamente canonistica, che l‟ordinamento della Chiesa aveva elaborato lungo i secoli onde poter rimediare
all‟impossibilità di risolvere situazioni complesse attraverso la via, a le preclusa, del divorzio. La procreazione rimane
rescissa dal suo ambito naturale per restare affidata, di prospettiva, a pratiche di genetica medica che rompono il
nesso di unità, intoccabile per la Chiesa, tra profilo unitivo e procreativo della consumazione del matrimonio. Tanto
la Chiesa ne è convinta che concede dispensa super rato anche in quei casi nei quali i coniugi abbiano avuto dei figli
affidandosi a pratiche d‟inseminazione e di fecondazione artificiale senza mai aver dato luogo all‟una caro.
G) La volontà di tener fermo al matrimonio e di convalidarne la vigenza: gli istituti della
convalidatio simplex e della sanatio in radice
Il determinarsi di una mirabile costruzione giuridico-canonica intorno all‟istituto del matrimonio è proceduto nei
secoli per sedimentazioni progressive sino ad approdare, nella sua interezza, alla formulazione codiciale. Nella sua
veste definitiva, la natura sacramentale del matrimonio diviene la stella polare alla quale orientarsi per definire la
peculiarità di tutto l‟istituto. Il sacramento implica la fermezza e la stabilità del vincolo che non solo esclude
tassativamente l‟ipotesi del divorzio, ma che opera così in profondità da introdurre una presunzione secondo la quale
il matrimonio è da ritenere valido sino al momento in cui non se ne dia prova contraria. Questo è ciò che la dottrina
canonica ha chiamato favor matrimonii. Ciononostante vi sono dei casi nei quali, una volta celebrato il matrimonio, ci
si accorge dell‟invalidità di quell‟unione che può derivare dalla presenza di un impedimento, da un vizio del consenso

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o, ancora, da un vizio di forma. Qualora ci si trovi in quest‟ipotesi gli sposi che ne abbiano conoscenza e
consapevolezza, si trovano di fronte a due alternative: la prima è quella di avviare la procedura giudiziale per
ottenere la dichiarazione della nullità del vincolo; la seconda riguarda, invece, la possibilità, che la Chiesa accorda, di
sanare il loro matrimonio. Le strade per le quali è possibile ottenere questo secondo risultato sono due: la prima
concerne l‟istituto della convalidatio simplex. Il can. 1156 contempla l‟ipoteso della convalidazione di un matrimonio
nullo a causa di un impedimento dirimente: e prevede che qualora l‟impedimento sia cessato, o sia stato dispensato, il
consenso possa venire rinnovato dalle parti o, almeno, dalla parte che è consapevole dell‟impedimento. È naturale, in
questa fattispecie come, di fatto, da un nuovo consenso nasca un nuovo matrimonio, e che il vincolo precedentemente
contratto sia sopravvissuto solo in virtù della buona fede dei coniugi. Diverso è, invece, il caso della seconda ipotesi di
convalidazione, quella che investe la figura della sanatio in radice. Qui la convalidazione del matrimonio avviene
senza la rinnovazione del consenso ed è concessa dall‟autorità ecclesiastica competente. Essa comporta,
necessariamente, la dispensa dall‟impedimento o dal vizio di forma presenti al momento dell‟avvenuta celebrazione.
Il Codice raccomanda, poi, al par. 3 del can. 1161 che non si conceda la sanazione in radice se non vi sia una forte
probabilità che le parti vogliano perseverare nella vita coniugale. Per tale atto, infatti, si opera retroagendo al
momento dell‟avvenuta celebrazione e recuperando validità tutto il percorso matrimoniale, compreso di tutti i suoi
effetti canonici. Dunque, a differenza della convalidatio simplex, qui tutto l‟arco della vita matrimoniale viene
recuperato sino dalla sua radice lontana, radice che si colloca al momento della celebrazione. Rimane da considerare,
come una parte della dottrina ha sottolineato, che la sanatio in radice si differenzia dalla convalidatio per la sua
natura di straordinarietà: il che implicherebbe, per un suo utilizzo, la presenza di cause gravi e giuste per le quali non
sia consentito dar luogo alla convalidatio simplex.

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9. SACRAMENTUM AMORIS
A) Il dogma dell’Incarnazione: porta della storia e luogo di fondazione della sacralità della
famiglia
Vi è un tratto distintivo che connota il cristianesimo e lo fa diverso da qualsiasi altro credo religioso. Esso si risolve
tutto in ciò che per i christifideles è rappresentato dal dogma dell‟incarnazione, dalla fede, cioè, per la quale Dio non
più l‟Altro rispetto all‟uomo ma, viceversa, assume su di sé la condizione umana per riscattarla e portarla al
compimento dell‟ultimo giorno. Da questa novità cristiana la stessa nozione di corpo da un lato viene assunta e
nobilitata, dal momento che è lo stesso Dio a prendere sembianze umane: dall‟altro il corpo, e dunque l‟incontro
dell‟uomo e della donna, diviene una realtà che nasconde uno spessore altro, quel mistero di cui parlava San Paolo e
che prelude alla definizione del matrimonio come riflesso umano delle nozze mistiche tra Cristo e la Chiesa. Per un
verso, dunque, l‟incarnazione è il punto in cui Dio irrompe nella storia degli uomini; per l‟altro verso, ancora, esso è il
luogo in cui l‟amore umano si fa sacro. Tanto è vero quest‟assunto che la fede cristiana, nell‟avvertire qui il suo punto
di originalità, contempla un altro dogma che è quello della verginità di Maria. Dal dogma dell‟incarnazione, dunque,
non discende certo la nozione della sacramentalità del matrimonio: ma in esso stanno inscritti in nuce tutti i motivi
che porteranno, nel loro sviluppo, a quelle conclusioni. La famiglia diventerà sacra perché la sua radice lontana
s‟identifica con la stessa origine del cristianesimo e con la sua impreteribile identità: che è e che rimane quella della
fede in un Dio incarnato.
B) Nozze mistiche e nozze terrene: il superamento simbolico-comunitario della finità dell’amore
umano
Ben al di là delle distinzioni che connotano sia le religioni del Libro che altre fedi o credenze, è innegabile come in
tutte le culture che abbiamo avuto la percezione del sacro, l‟incontro dell‟uomo e della donna non è un dato qualsiasi
tra gli altri che si registra nel contesto della vita civile: in esso si fondano e si riassumono significati simbolici che
vengono avvertiti come fondamentali nel contesto della percezione soggettiva non meno che in quella collettiva. Nel
matrimonio religioso riluce sempre un riflesso della divinità, sia pure con forza e sfumature diverse: di talché nel
diritto ebraico Dio è invocato nella cerimonia nuziale pur lasciando liberi nel loro destino gli sposi, i quali, potranno,
secondo quel diritto, conoscere il divorzio. Per contro, in tutte le varianti della religione islamica, il matrimonio è
incentrato soprattutto sulla prole più che sul rapporto tra gli sposi. Nonostante queste diverse intonazioni, rimane
pur vero il dato per il quale il matrimonio è rappresentabile come un istituto del tutto peculiare che conosce, negli
ordinamenti a base religiosa, un posto ed un rilievo non paragonabili ad altri. In questa prospettiva il dogma
dell‟incarnazione e, insieme, il portato teologale per il quale le nozze terrene rimanderebbero alle nozze mistiche del
Cristo e della Chiesa, offrono al cristianesimo il destro per costruire una stabilità definitiva nel rapporto tra l‟uomo e
la donna escludendo in esso ogni possibilità di ripudio o di divorzio. Ma per un lungo tratto di tempo si è pensato che
l‟incontro dell‟uomo e della donna, pur rimanendo ad un ordine celeste, fosse solo e semplicemente un segno, ma il
segno di una realtà più alta che rimandava al simbolo di una cosa sacra ma che non rappresentasse nell‟ordine
teologico e giuridico della Chiesa un sacramento in senso tecnico. Questa convinzione era ancora ben radicata in
quella che è definita l‟età aurea del diritto canonico. Non si può non riconoscere in questa elaborazione un tratto che
rimanda ad un‟eco vetero testamentaria che la Chiesa riprenderà nell‟elaborazione teologica risalente al Concilio
Vaticano II e nella quale risuonava l‟immagine del matrimonio come metafora dell‟alleanza tra Javhé e il suo popolo.
Di più, di più ancora: nella stessa costruzione dell‟indissolubilità la sacramentalità tiene un luogo privilegiato proprio
nella decretistica e nella decretalistica. Per esse il matrimonio rato è intrinsecamente indissolubile perché simboleggia
l‟unione dell‟anima con Dio, ma diviene estrinsecamente indissolubile allorché la consumazione trasforma il
matrimonio nell‟immagine vivente del connubio tra Cristo e la Chiesa. Non eravamo ancora all‟affermazione
definitiva secondo la quale il matrimonio è anche in senso tecnico un sacramento.
C) Il trionfo della sacramentalità del matrimonio canonico
Il secolo che separa il Concilio di Firenze da quello di Trento era stato, per la Chiesa, un secolo denso di avvenimenti
ed incognite. Esso era stato attraversato da inquietudini profonde, culminate nella radicale negazione proclamata da
Lutero e, più in generale dal protestantesimo, della capacità sacramentale della Chiesa, della sua legittimità ad essere
istanza di mediazione tra il divino e l‟umano. Per il pensiero protestante il matrimonio non rivestiva la realtà e la
dignità del sacramento, ma si risolveva in quel suo essere, benché importante tra gli atti umani, affare meramente
terreno. Tra le verità di fede che il Concilio di Trento controversisticamente ristabilisce nell‟assise tridentina vi è
quella che concerne la natura sacramentale del matrimonio, il suo essere, per gli sposi, veicolo della grazia
santificante. Il trionfo della sacra mentalità recava con sé alcune conseguenze importanti. In primo luogo la natura
sacramentale del matrimonio radicava definitivamente l‟istituto in quell‟area pubblicistica dove non avrebbe avuto
ragion d‟essere se si fosse trattato di un atto che riguardava solo ed unicamente gli sposi; in secondo luogo tale

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definizione finiva per porre l‟accento e l‟attenzione della Chiesa non solo sul matrimonio come atto ma anche sulla
dimensione dinamica che il sacramento dischiudeva. Ciò, d‟altronde, per gli interpreti più attenti della canonistica
precedente la dichiarazione della sacramentalità risultava chiaro dallo stesso significato spirituale che il matrimonio
investiva. Questo significato non poteva esaurirsi nel momento dello scambio dei consensi ma durava ben oltre fino
ad investire la vita stessa degli sposi. La terza conseguenza annessa alla proclamazione della sacramentalità del
matrimonio riguarda la trascrizione giuridica della realtà sacramentale dal momento che, posto il suo fondamento
soprannaturale, si rendeva necessario qualificare dal punto di vista normativo quale fosse il carattere di cui si
rivestiva il consenso degli sposi. Quello che qui preme è sottolineare come la distinzione tra volontà contrattuale e
intentio sacramentale che ancora nella coscienza vigile dei giuristi della tradizione tridentina e subito post-tridentina
era ancora ben presente, era destinata a smarrirsi nel corso dei secoli successivi fino a sbiadire del tutto.
D) La divaricazione tra la valorizzazione ulteriore della nozione del sacramento del matrimonio
prodotto dalla teologia contemporanea e dal Concilio Vaticano II e gli orientamenti delle
società secolari
Le linee evolutive sulle quali il Concilio Vaticano II muove la propria intonazione teologica fanno riferimento ad una
riflessione antropologica secondo la quale il disvelamento della realtà divina avviene per effetto di una conoscenza
progressiva e profonda della natura umana. La verità non cala dall‟alto, scandita dal regolo dell‟ortodossia: essa
s‟irradia dalla progressiva comprensione della realtà umana. In quest‟intuizione si può leggere buona parte di un vero
e proprio metodo conciliare che, qualificando Cristo come il nuovo Adamo, lo assume a codice di lettura della povertà
e della fragilità dell‟uomo per portarlo a redenzione nel rispetto totale dell‟idea di persona. Questa concezione pervade
anche la struttura del matrimonio canonico e, prima ancora, la sua stessa missione, la sua orientazione teologica. Sino
a quel momento la mirabile costruzione giuridica dell‟istituto si nutriva quasi esclusivamente di diritti e doveri, di
obblighi e soggezioni: la Gaudium et Spes porta una ventata di aria fresca in questa concezione aprendo al valore
dell‟amore coniugale, che diviene autentico quando è assunto dall‟amore divino. Il matrimonio, che si sostanzia in un
vincolo d‟amore, diviene un mezzo per ricondurre l‟uomo a Dio, per partecipare alla sua continua opera creatrice.
Errerebbe, tuttavia, chi pensasse che questa rivalutazione dell‟amore umano muovesse secondo la medesima
dinamica sulla quale andava evolvendosi l‟idea della libertà come fondamento nei rapporti tra uomo e donna nelle
società secolari al tempo del Concilio e del post-concilio. Quel tempo era segnato dalla forte affermazione dei diritti di
parità rivendicati dall‟universo femminile: e, al contempo, dall‟idea della libera volizione soggettiva come
fondamento di ogni rapporto affettivamente rilevante tra l‟uomo e la donna. Questa spinta, che portava alle
conclusioni ultime il soggettivismo moderno di stampo protestante coniugandolo con il dispiegarsi della ragione
illuminista, trovava il suo naturale approdo non solo nell‟introduzione del divorzio, ma, di prospettiva, in quella
trasformazione del matrimonio da prima cellula stabile della società civile ad un accordo sempre e continuamente
rinegoziabile tra le parti. La volizione soggettiva tende, nell‟età della tecnica, a trasformarsi in pura dimensione
egotica, che non tollera legami stabili e di durata nel tempo e che tende a collocare sempre più in basso la soglia di
resistenza rispetto agli impegni inscritti nell‟ordine familiare: nell‟ordine, cioè, dell‟assunzione di responsabilità
reciproche. Per alcuni versi la Chiesa sembrerebbe aver secondato a tale linea di tendenza, cercando di allargare i
pertugi procedurali che portano alla dichiarazione di nullità del matrimonio onde venire incontro al disagio crescente
di una civiltà che sembra non più indicare nell‟istituto del matrimonio ilo modello tipico dell‟organizzazione sociale.
Ma ancora una volta non bisogna fermarsi alle apparenze: l‟amore coniugale proclamato dal Concilio e le ragioni
personalistiche che hanno tradotto quel valore in nuova legislazione canonica non hanno nulla a che vedere con quel
moto di liberazione progressiva delle soggettività operata dall‟età della tecnica: anzi ne rappresentano, caso mai, la
negazione dialettica. La Chiesa comincia ad avere consapevolezza del fatto che molti di coloro che giungono all‟altare
per sposarsi non hanno affatto presente e chiaro ciò che la Chiesa propone circa il matrimonio cristiano. Né la
pastorale può ovviare del tutto a questa mancanza di conoscenza e consapevolezza, dal momento che i diversi,
possibili modelli di rapporto tra uomo e donna che abitano le società civili fanno già parte dell‟immaginario
soggettivo e collettivo di coloro che in Occidente sono chiamati oggi ad interpretare l‟età della tecnica. L‟evidenza di
quanto detto si misura facilmente sul terreno della morale, dove la lontananza tra i modelli civile e religioso, per ciò
che concerne il matrimonio e la famiglia, risulta talmente evidente da non meritare approfondimenti ulteriori. Ma
oltre l‟ambito della morale sta il terreno dogmatico, che quella morale, per la Chiesa, nutre e sostiene. Su quel terreno
la sacramentalità gioca il ruolo distintivo e fondamentale che divide ormai irreversibilmente la civiltà cristiana dalle
nuove società secolari. È qui, su questo versante, che si riverbera tutta la peculiarità del diritto matrimoniale
canonico. Tanto è vero il ragionamento sin qui condotto che la Chiesa non solo ha sottolineato con forza questo
punto; ma la dottrina canonistica, per altro verso, si è chinata a chiedersi se la consapevolezza circa la sacramentalità
del matrimonio possa incidere come autonomi caput mullitatis.

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E) Errore, esclusione della sacramentalità, assenza di fede e invalidità del matrimonio canonico
Tradizionalmente il bonum sacramenti stava ad indicare il bene dell‟indissolubilità. E, dunque, nella sua trascrizione
giuridica, la nozione sacramentale si concretava in una delle proprietà del matrimonio canonico. Ciò presupponeva
che norma fosse indirizzata ad una generalità di soggetti i quali non solo non ignoravano la natura sacramentale del
matrimonio, ma fossero anche coscienti che proprio l‟importanza dell‟impegno reciprocamente assunto implicasse,
ontologicamente, la stabilità del vincolo. Oggi lo scenario nel quale il diritto canonico è chiamato ad operare appare
completamente diverso, dominato da altre culture e modelli di vita. Diventa, in questa prospettiva, assai più
credibile e larga l‟ipoteso di errore circa la natura sacramentale del matrimonio. È costante nella dottrina l‟idea che
questa tipologia di errore non renda affatto invalido il consenso matrimoniale, dal momento che il consenso
contrattuale e il consenso sacramentale non sono, per la norma canonica, distinguibili. Può incidere sulla validità del
matrimonio l‟errore circa la sacra mentalità laddove risulti che esso sia stato determinante ad orientare la volontà e
dunque il consenso. Da quest‟ipotesi va tenuta ben distinta quella attualmente contenuta nel can. 1101 riguardante
la figura della simulazione e le sue articolazioni. In particolare il paragrafo 2 contempla l‟invalidità del matrimonio
laddove le parti escludano con un positivo atto di volontà il matrimonio stesso, una sua proprietà essenziale oppure
un suo elemento essenziale. Da questa problematica va tenuta distinta un‟altra questione, che riguarda il quesito se
sia necessaria, in chi contrae matrimonio, la presenza della fede oppure no. Sino ad ora la dottrina canonistica si era
attestata su una linea di demarcazione prettamente formale, secondo la quale il certificato di battesimo avrebbe di
fatto integrato l‟appartenenza alla fede cattolica. In questi ultimi anni il distacco, anche se non formale ma di natura
sostanziale, di una larga parte dei battezzati dalla professio fidei ha spinto qualche autore a chiedersi se non andasse
in altro modo provata un‟appartenenza reale alla Chiesa prima di procedere alla celebrazione. D‟altra parte non è
mancato chi, proprio argomentando dall‟inseparabilità del contratto del sacramento, ha ribadito che il consenso al
contratto di per sé stesso traina con sé anche il consenso al sacramento. Comunque si voglia risolvere questa
questione, certo s‟impone una considerazione conclusiva. L‟emergere di queste perplessità e di queste inquietudini nel
sistema matrimoniale canonico per ciò che riguarda la consapevolezza richiesta circa la sacra mentalità, rende chiaro
anche agli occhi della Chiesa di non esercitare più quella egemonia culturale, sociale ed antropologica che aveva
dettato senza alcuna incertezza per lunghi secoli un modo di porsi e di orientarsi nel rapporto tra l‟uomo e la donna
che trovava nel matrimonio un punto di sintesi mirabile e condiviso.
F) L’affacciarsi di un nuovo cielo e lo smarrimento delle costellazioni
I miti greci, evaporati dalla vita incarnata sulla terra, si sono condensati nel cielo, dove le costellazioni assumono i
nomi degli eroi, dei luoghi, delle divinità. Esse custodiscono la memoria e, come insegnerà l‟Ariosto, il senso degli
uomini. Per questo essi hanno sempre vissuto scrutando il cielo, perché lì è disegnata la mappa segreta che indica la
rotta delle navi e la direzione del nostro cammino. Così è stato anche per la civiltà cristiana, che di quella classica ha
occupato la centralità, ponendo i punti fermi della propria identità e della propria cosmologia. Per questo nel cielo
cristiano ritroviamo sidera corporis: quei punti fissi della concezione dell‟uomo ai quali si ancorano saldamente una
concezione della sessualità umana, una visione antropologica del rapporto tra uomo e donna, e, finalmente, la
definizione giuridica di quel rapporto e delle conseguenze che da esso promanano. Certo il cielo cristiano si è arricchito
di molte altre costellazioni e simboli, dominati dall‟immagine di Cristo e dalla sua Chiesa e seguiti dalla folla dei santi,
dei beati che ne contemplano il volto. Il cielo in cui s‟inscrive oggi l‟età della tecnica è un cielo assai diverso da quelli
che abbiamo fin qui conosciuto: meno terso e splendente, esso è soprattutto privo di quel linguaggio simbolico del
quale l‟uomo l‟ha sempre animato. Anzi, la tecnica tendenzialmente non sa che farsene di un cielo, perché ad esso non
ha narrazioni da affidare. Le storie, sacre o profane che siano, hanno sempre bisogno di un tempo: di un passato, di
un presente e di un futuro. L‟età della tecnica, invece, sembra vivere sempre e solo nel presente: il passato non
rappresenta più il punto di riferimento per la costruzione di un futuro che sfugge al suo interesse e, dunque, alla sua
capacità di definizione. Lo spazio del sacro, in questa dimensione, diviene progressivamente angusto, quasi
impercettibile nel suo proclamare un‟alterità di tempi e spazi, nel suo non poter rinunciare al passato in cui si
pongono le profezie e le promesse di un‟umanità riscattata dalla sua fragilità, in quel suo proiettarsi fuori del tempo e
dello spazio per aprire una prospettiva escatologica di cieli nuovi e terre nuove. Lo stesso corpo sembra, nell‟età della
tecnica, perdere di consistenza e subire la concorrenza della virtualità, delle immagini e, ormai, delle sensazioni
sintetiche e digitali. In questa prospettiva, persino l‟amore diviene difficilmente parlabile e rappresentabile, così
confuso ormai e non più distinguibile dal desiderio e dalla passione. In una comunicazione interpersonale assai scarna
e fatta orfana nei linguaggi delle sfumature di cui vive e si alimenta, l‟amore rischia di essere espulso dall‟età della
tecnica, giacché anch‟esso è narrazione che viene dal passato e si proietta nel futuro. A nessuno può sfuggire come il
procedere delle tecniche di procreazione assistita e, di prospettiva, asessuata, quali la partenogenesi e la clonazione,
coniugate con le possibilità d‟intervento offerte oggi dalle manipolazioni genetiche ci debbano far riflettere su quali
siano i rischi insiti oggi nel cammino dell‟uomo. E mentre i laser di nuova epoca solcano le notti di metropoli più che
non sanno il silenzio dei campi, alle nuove domande che si affollano alla nostra mente le vecchie costellazioni offrono
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la testimonianza delle origini e la speranza che viene dal soffia che nel Libro si dice abbi animato il pupazzo di argilla
forgiato da Dio: sidera corporis.
G) Altezza e inadattabilità del matrimonio cristiano quale de sacramento est significatione
alle logiche della nuova storia.
C‟è qualcosa di assolutamente inconciliabile, di irriducibile che diviene il regno della tecnica da una visione religiosa
del mondo: la banalizzazione del gesto. Il gesto, che nel linguaggio ambivalente del sacro diviene rituale sino ad
assumere le sembianze del procedere liturgico, tende a diventare, nella società della comunicazione che della tecnica è
figlia, ripetizione, frammento disperso e dunque anonimo nella sua fruizione. La Chiesa non può, se questo fosse
davvero il futuro che ci attende, accettare di vivere in un orizzonte nel quale l‟uomo e la sua dignità non si staglino in
primo piano, ma la dignità dell‟uomo non è, non può essere un valore astratto, disincarnato dalla realtà: anzi, proprio
il dogma dell‟Incarnazione apre alla sfida del tempo e dello spazio. Ogni creatura acquista significato perché è
chiamata a vivere in un contesto determinato, qui ed ora, affidando il proprio destino a volti e a luoghi precisi che ne
connotano l‟identità. La progressiva erosione delle identità appare oggi come la soglia che disvela un mondo popolato
di uomini e donne dai contorni sempre meno precisi ed individuati, anzi, di più ancora: in un mondo dominato dalla
tecnica e dalla scissione tra sessualità e procreazione forse svanirà, nei millenni futuri, la distinzione tra l‟uomo e la
donna, funzionale alla procreazione. E in questo racconto di senso sull‟umana avventura, il matrimonio rappresenta
un capitolo centrale, ineludibile. Tanto capitale, nella sua sostanza e nella sua forma, da essere assunto a specchio del
rapporto mistico tra Cristo e la sua Chiesa. Ecco perché, nel suo approdo definitivo, il matrimonio è divenuto un
sacramento; e il rapporto tra l‟uomo e la donna che esso innalza e consacra è chiamato a sfidare lo spazio poiché essi
lasceranno il padre e la madre, non meno del tempo, dal momento che l‟amore è più resistente dello sheòl – il vento del
deserto - e forte come la morte. Con questa nuova storia la Chiesa non può illudersi di venire a patti, non può
accettare lo scambio secondo il quale essa si riduce ad essere uno degli elementi, per quanto importante, di un
palinsesto televisivo a fronte di qualche posizione di privilegio. Non si tratta più di marcare nei numeri statistici di
coloro che contraggono matrimonio religioso una posizione di preminenza della Chiesa cattolica a prescindere dalla
qualità e dalla consapevolezza di quel consenso che nel rito antico si radica: si tratta, piuttosto, di tenere alta la
bandiera di un‟antropologia, di una concezione dell‟uomo che rischia la sopravvivenza all‟alba del terzo millennio. E
se un tempo essa era chiamata, nei confronti dei poteri secolari, a tutela la libertà che nel matrimonio si celebra, come
richiama eticamente Manzoni nei Promessi Sposi, oggi la Chiesa rappresenta uno dei possibili interlocutori in grado di
promuovere una coscienza critica che possa fare resistenza alla banalizzazione dell‟affettività, della sessualità, dei
linguaggi dell‟amore e del corpo che la civiltà della tecnica sembra veicolare con sé come un maleficio.

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