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CAPITOLO V - LE COSE

19.LE RES
Il termine “res” noi lo traduciamo solitamente come ‘cosa’, ma assume nelle fonti
giuridiche romane significati molteplici. A noi interessa, per ora, il significato di ‘res’
come oggetto/beni (vi rientrano anche animali, terreni, edifici e per i romani pure gli
schiavi).
RES CORPORALES E INCORPORALES:
A)corporali: che si possono toccare;
B)incorporali: che non si possono toccare (eredità, usufrutto, obbligazioni, servitù
prediali). Le identificarono pertanto con taluni iura, cioè con taluni diritti soggettivi, o
comunque posizioni giuridiche soggettive, pure se tali diritti avevano ad oggetto cose
corporali.
È singolare come tra le res incorporales non compaia il diritto di proprietà,
identificandosi con il suo oggetto, era esso stesso considerato res corporales. La
classificazione delle res incorporales e corporales rilevava soprattutto a proposito del
possesso e degli istituti a base possessoria, come traditio e usucapione, essendosi
ritenuto che solo le cose corporales fossero suscettibili di possesso.

COSE IN COMMERCIO E COSE FUORI COMMERCIO: le cose in commercio


potevano formare oggetto di proprietà privata, e comunque di rapporti giuridici
patrimoniali; fuori commercio no, erano fuori commercio le res divini iuris (di diritto
divino). Alle res divini iuris si contrapponevano le res humani iuris (di diritto umano)
che potevano essere pubbliche o private. Le res publicae (che appartenevano alla
collettività) erano fuori commercio se destinate all’uso pubblico; erano in commercio se
si trattava di beni dai quali il populus Romanus ricavava direttamente un reddito, o
comunque una utilità. Le res non pubbliche erano private e, naturalmente, erano in
commercio.

RES MANCIPI E RES NEC MANCIPI: si dissero res mancipi i fondi sul suolo italico
(sia terreni che edifici), gli schiavi, gli animali da tiro e soma e le servitù rustiche; tutte
le altre res si dissero nec mancipi. Le prime erano le cose di maggior pregio nella
società romana arcaica: x questo motivo si richiese che il trasferimento della proprietà
avesse luogo col rito solenne della mancipatio (dall’ultima età arcaica le stesse cose
si poterono trasferire anche mediante in iure cessio). Di contro, per il trasferimento
della proprietà delle res nec mancipi si ritenne sufficiente la traditio. Questa
classificazione andò a perdere significato con la decadenza della mancipatio e della
iure cessio.

BENI MOBILI E IMMOBILI:


A)immobile: suolo insieme a ciò che vi inerisce stabilmente;
B)mobili: animali e oggetti inanimati trasportabili e comunque amovibili; nel diritto
romano anche gli schiavi.
Questa classificazione di res non ebbe rilievo ai fini del trasferimento di proprietà, ciò
fino all’età classica. Ebbe significato a proposito dell’usucapione e della difesa del
possesso.

COSE FUNGIBILI E INFUNGIBILI:


A)fungibili: le cose che rilevano in rapporto al peso (ad es. frumento); numero
(monete); misura (stoffa). Si tratta di cose per le quali è rappresentabile un
equivalente, corrispondente per peso, numero, misura.
B)infungibili: sono quelle che non possono essere sostituite le une alle altre senza
danneggiare l'interesse del creditore.
GENERE E SPECIE: le cose di genere corrispondono in buona parte alle cose
fungibili. Solo che la prospettiva è diversa: ora l’accento si pone non sulla sostituibilità
ma sull’appartenenza ad una categoria (due bottiglie di vino rosso). Le cose di
specie corrispondono in buona sostanza alle cose infungibili. Anche qui prospettiva
diversa; si fa riferimento a cose perfettamente individuate (lo schiavo Stico).

COSE CONSUMABILI E COSE INCONSUMABILI:


A)consumabili: cose suscettibili di una sola utilizzazione: che si consumano per il
fatto stesso di usarle (cibo);
B)inconsumabili: cose che consentono un uso continuato.

COSE DIVISIBILI E INDIVISIBILI: Le cose si dicono divisibili o indivisibili a seconda


che siano o non suscettibili di essere materialmente senza perire e senza apprezzabile
pregiudizio economico.

COSE SEMPLICI, COMPOSTE, COLLETTIVE:


A)semplici: costituite da un’unità naturale (es. uno schiavo, una pietra);
B)composte: cose costituite da più cose semplici congiunte tra loro artificialmente,
sempre che le componenti fossero tuttavia riconoscibili (edificio, nave);
C)collettive: più cose semplici non congiunte e tuttavia considerate unitariamente
(gregge, biblioteca).

19.10.I FRUTTI
I Romani considerarono i frutti propriamente quelli naturali prodotti delle piante e dagli
animali. Essi, dal punto di vista del diritto, divenivano propriamente frutti una volta
separati dalla cosa madre. Prima della separazione erano ‘partes’ e quindi non
avevano considerazione giuridica autonoma. Come frutti furono considerate anche le
attività lavorative dei servi; e alla stregua dei frutti furono trattati i cd “frutti civili”: il
corrispettivo cioè che si ottiene concedendo una cosa in godimento (es in caso di
locatio rei= il corrispettivo della locazione di una cosa).

20.I DIRITTI REALI


Si dicono “reali” i diritti soggettivi su una cosa e, come tali, a carattere assoluto,
opponibili quindi a tutti i membri della collettività (erga omnes). A fronte di un diritto
reale di qualcuno tutti i consociati sono potenzialmente e in ugual misura obbligati a
tenere un comportamento negativo: cioè ad astenersi da azioni che con quel diritto
siano in contrasto.
Al contrario il diritto di credito(che costituisce il lato attivo del rapporto di
obbligazione) è un diritto patrimoniale relativo tra due parti: uno o + C e uno o più D
(entrambi soggetti precisamente individuati). La parte debitrice è tenuta in favore
dell’altra all’adempimento di una prestazione, che può consistere in un comportamento
positivo.
Questa classificazione dei diritti patrimoniali in diritti reali e di credito è alla base dei
negozi con effetti reali e con effetti obbligatori; e prende le mosse dalla storica
classificazione delle azioni in actiones in rem e in personam.
A)contratti obbligatori: sono quelli che producono effetti obbligatori;
B)contratti ad efficacia reale: sono quelli che producono l'immediato trasferimento, la
costituzione o modificazione di diritti.
Quest'ultima distinzione deve essere ulteriormente chiarita. Sembra che non vi sia
differenza tra contratti obbligatori e ad efficacia reale, e in effetti le differenza non è
netta, poiché entrambi hanno oggetto diritti, ma nei contratti obbligatori non vi è
automatica realizzazione del diritto poiché il soggetto si obbliga a tenere un
prestazione, e solo nell'esecuzione della prestazione si realizzerà il diritto del
creditore. L'oggetto dei contratti ad efficacia reale, invece, sta proprio nel fatto di
costituire (modificare o estinguere) diritti, anche di credito. La cessione del credito,
allora, seppure ha ad oggetto diritti di credito, è a efficacia reale, perché produce,
appunto, il trasferimento di tale diritto. La locazione o il deposito, invece, fanno
principalmente sorgere obblighi, per il depositante di restituire la cosa così come l'ha
ricevuta, per il locatore di permettere il godimento della cosa al conduttore; insomma
nei contratti obbligatori si guarda alla prestazione da eseguire, in quelli ad efficacia
reale al diritto da trasferire (modificare o estinguere).
DIRITTO DI PROPRIETÀ
Diritto reale per eccellenza: esso attribuisce al titolare (proprietario) un potere generale
potenzialmente illimitato al godimento e alla disposizione del bene che ne è oggetto.
Ma sulla stessa cosa possono gravare e coesistere altri diritti reali; che sono i diritti
reali limitati (o diritti sulla cosa altrui), questi sono stati classificati dalla dottrina come:
A)diritti di godimento: attribuiscono su una cosa, di cui altri è proprietario, facoltà di
godimento più o meno limitate (usufrutto, servitù ecc);
B)diritti reali di garanzia: conferiscono al titolare il diritto di soddisfare un proprio
credito rivalendosi su una cosa altrui in caso di inadempimento (pegno, ipoteca).
Importante è “l’opponibilità a terzi”: se da un canto il proprietario potrà perseguire
(con azione reale) la cosa propria presso chiunque eventualmente la possieda; d’altro
canto i titolari di diritti reali limitati potranno far valere il proprio diritto non solo contro
ogni possessore, non solo rispetto al proprietario (del tempo in cui il diritto limitato fu
costituito) ma anche nei riguardi di ogni successivo eventuale proprietario dello stesso
bene.
I diritti reali erano tipici (e tali lo sono ancora oggi), erano quindi quelli man mano
tutelati e riconosciuti.
CONTENUTI: per proprietà si intende un diritto soggettivo di natura reale per cui al
proprietario (che ne è titolare) si riconosce sulla cosa che ne è oggetto una signoria
generale. Il contenuto non è determinabile in modo rigido, è però potenzialmente il più
esteso ed esclusivo. Le facoltà del proprietario rientrano quasi tutte nell’idea del
godimento.
LIMITAZIONI. ‘ELASTICITÀ’: queste facoltà possono in concreto subire limitazioni di
varia ampiezza: quelle imposte dall’ordinamento giuridico sono dette limitazioni legali.
Ma sono pure possibili limitazioni volontarie, potendo le facoltà di godimento della
cosa venire compresse, ad opera del proprietario, per effetto della costituzione, sulla
cosa stessa, di diritti reali limitati (servitù, usufrutto ecc.). Solo che, una volta che questi
diritti si siano estinti le facoltà di godimento del proprietario tornano a espandersi sino a
riacquistare pienezza; si parla quindi di elasticità, che è uno dei caratteri più salienti
della proprietà.
LA PROPRIETÀ COME DIRITTO: diritto soggettivo di natura reale, che ha come
contenuto una signoria generale su una cosa. Il diritto di proprietà non si perde per il
fatto in sé che non venga esercitato (non uso), ma sussiste sin quando non si verifichi,
e sempre che si verifichi, un fatto che ne determini l’estinzione (ad esempio fin quando
una persona diversa dal proprietario non acquisti essa stessa la proprietà per
usucapione). Possiamo dire, in generale, che di norma il proprietario è anche
possessore della cosa propria, ma può non esserlo e tuttavia restare proprietario.

20.1.2.LA PROPRIETÀ E LE PROPRIETÀ DEL DIRITTO ROMANO


Questo modo di intendere la proprietà deriva a noi dal diritto romano. Dovette
delinearsi con chiarezza verso la fine dell’età arcaica, una volta emersa l’idea del
possesso come stato di fatto non sindacabile dall’effettivo esercizio e in sé per sé
tutelabile con interdicta. Era con l’idea semplice ed elementare dell’appartenenza
(questa cosa è mia o di Tizio) che si intendeva dapprima quel concetto per cui più tardi
si parlò di proprietà. E per significare che si trattava di un potere legittimamente
acquistato e riconosciuto dal ius più antico si aggiungeva ‘ex iure Quiritium’.
Nella tarda età repubblicana comparve un’espressione destinata ad affermarsi presto
come la più incisiva e caratteristica per indicare le proprietà romana: “dominum ex
iure Quiritium” (con il termine dominus si indicò il proprietario). L’uso di “proprietas”
arrivò in età classica; la nuova terminologia non comportò l’abbandono della vecchia.

20.1.3.IL DOMINIUM EX IURE QUIRITIUM


Trattandosi di istituzione del ius civile in senso stretto, potevano esserne titolari
esclusivamente cittadini romani. Ne erano oggetto res corporales, sia mancipi che
nec mancipi, sia mobili che immobili (per questi solo se res mancipi, e quindi solo se
siti in suolo italico).

20.1.3.1.LE ORIGINI DELLA PROPRIETÀ PRIVATA IMMOBILIARE A


ROMA
Inizialmente le terre appartenevano alla collettività ed erano prevalentemente adibite al
pascolo. Queste terre (ager publicus) accrebbero sempre di più con l’espansione
territoriale di Roma. Esse venivano in buona parte lasciate in godimento esclusivo a
privati, dapprima in forza di provvedimenti (revocabili) che ne consentissero
l’occupazione nei limiti delle possibilità di sfruttamento dell’occupante, più tardi in forza
di concessioni individuali (revocabili). Ma da un certo momento altre porzioni di ager
publicus cominciarono a essere oggetto di assegnazioni a carattere definitivo, cosicché
i beni acquistati divenivano propri dei privati ‘ex iure Quiritium’. All’assegnazione di
porzioni di ager publicus in proprietà privata si procedeva mediante ‘limitatio’, un rito
che aveva connotazioni sacrali e che si compiva con l’intervento del magistrato e di un
agrimensore che stabilivano i confini tra gli appezzamenti da assegnare. Inoltre si
aveva cura, al contempo, di lasciare attorno a ciascun appezzamento uno spazio libero
largo non meno di cinque piedi: era detto limes e non poteva essere acquistato per
usucapione.

20.1.3.2.LA RAPPRESENTAZIONE DEL DOMINIUM IURE QUIRITIUM


COME POTERE ASSOLUTO E ILLIMITATO
Ecco quindi che il dominium ex iure Quiritium poté avere ad oggetto sia beni mobili
che immobili. Contenuti: appare la tendenza a rappresentarlo come un potere
assoluto e illimitato (diritto di usare ed abusare della cosa propria). Il diritto romano
non conobbe divieto generale di atti emulativi, cioè comportamenti del proprietario di
un fondo nell’esercizio di un proprio diritto, senza trarne vantaggio ma solo per nuocere
il vicino. L’orientamento che al riguardo emerge dalle fonti giuridiche romane è che chi
esercita un proprio diritto non lede a nessuno. A far pensare che il dominio del diritto
romano comportasse un potere assoluto e illimitato sulla cosa è anche il fatto che la
proprietà civile immobiliare era esente da tributi. Il dominio sui beni mobili fu
assoggettato a imposte solo a partire da Diocleziano.
-Il dominio quiritario sugli immobili si estendeva illimitatamente sia in altezza che in
profondità.
- Il rito della limitatio per cui tra fondi congiunti veniva lasciato libero uno spazio di
almeno 5 piedi, consentiva ai proprietari libero accesso ai propri fondi; e riduceva al
minimo possibili interferenze tra vicini (stessa cosa avveniva per gli edifici, dove c’era
l’ambitus). In seguito però si usò talvolta procedere ad assegnazioni di terre a privati
anche senza il rito della limitatio: possibilità di fondi direttamente confinanti (agri
arcifinii). Si deve tuttavia ritenere che, nello stabilire i confini tra fondi, ogni volta si
avesse cura di assicurarne ai proprietari l’accesso indipendente.

20.1.3.3.LIMITAZIONI LEGALI
Le possibili interferenze tra immobili appartenenti a proprietari diversi erano possibili.
Alcune dovevano essere tollerate (ad esempio immissioni di fumo, acqua, e simili
dall’immobile del vicino al proprio) questo però purché dipendenti dall’uso normale del
fondo; e il proprietario di un fondo rustico doveva tollerare che rami di alberi del vicino
sporgessero sul proprio terreno, purché a ad altezza superiore a 15 piedi.

20.1.3.4.I MODI DI ACQUISTO


Il dominium ex iure Quiritium si acquistava in virtù di taluni fattori precisamente
individuati.
Acquisti iure civili e iure gentium: una prima classificazione dei modi di acquisto del
dominio.
A)Iure civili: riservati ai soli cittadini romani; tra i modi di acquisto c’è: mancipatio, in
iure cessio, usucapio.
B)Iure gentium: estesi anche ai non cittadini; tra i modi d’acquisto c’è: occupazione,
accessione, specificazione, traditio.
Acquisti originari e derivativi:
Originari: prescindono da ogni relazione tra chi acquista e il precedente proprietario.
Possono avere ad oggetto una cosa di nessuno (occupazione), ma possono anche
avere ad oggetto una cosa altrui (accessione, specificazione ecc.). Quel che rileva è
che l’acquisto abbia luogo indipendentemente da ogni relazione col precedente
proprietario. Si rileva solo l’acquisto in sé e le sue modalità di attuazione. Si acquistava
per occupazione, accessione, specificazione.
Derivativi: modi in cui l’acquisto dipende dalla trasmissione che ne fa il titolare, esiste
un’evidente connessione tra il diritto di chi trasmette (dante causa) e quello di chi lo
acquista (avente causa). La proprietà viene acquistata così com’era presso colui che
l’ha trasmessa. Nessuno può trasferire ad altri più di quanto egli stesso non abbia. Si
acquistava per mancipatio, in iure cessio, traditio, adiudicatio.
A questi modi di acquisto si accostano i modi costitutivi: fanno riferimento al
fenomeno per cui taluno diventa titolare di un diritto soggettivo che si costituisce ex
novo che ha tuttavia la sua radice espressa nel più ampio diritto del soggetto che lo
costituisce.
Acquisti a titolo particolare e a titolo universale:
Quelli menzionati erano tutti modi d’acquisto a titolo particolare (uno o più beni
individuati e determinati). I modi d’acquisto a titolo universale sono quellli in cui
l’acquisto di beni o diritti consegue all’acquisto di complessi patrimoniali dalle
componenti di per sé non necessariamente definite, talune delle quali potrebbero non
essere note all’acquirente al momento in cui ne diventa titolare.

L’OCCUPAZIONE
Modo d’acquisto originario della proprietà quiritaria: consisteva nella presa di
possesso di cose che non appartenevano a nessuno (res nullius) (per es.: animali allo
stato selvaggio). Per occupazione poteva essere acquistato anche il dominio quiritario
delle cose abbandonate, pruché res nec mancipi. Delle res mancipi il proprietario
manteneva il dominio finché un eventuale occupante ne fosse divenuto egli stesso
proprietario per usucapione. (Il tesoro aspettava metà a chi lo trovava e metà al
proprietario del fondo).
L’ACCESSIONE
Si fa riferimento a fenomeni accomunati dalla circostanza che una cosa corporale
subisce un incremento, completamento, arricchimento, per l’aggiunta di un’altra, che
non appartiene allo stesso proprietario. La cosa che subisce incremento viene detta
principale; l’altra (che si aggiunge) accessoria. L’incremento si verifica a vantaggio
del proprietario della cosa principale e l'acquisto è a titolo originario e prescinde dal
consenso del dominus della cosa accessoria.
-Unione organica: caso di accessione di unione di cose di qualità diversa, tale per
cui una possa dirsi principale perché determina la funzione del tutto. L’unione si dice
organica quando ha luogo per compenetrazione di corpi sì che la cosa accessoria
diventa tutt’uno con la cosa principale (es.: semina tintura).
-Incrementi fluviali: come l’alveo abbandonato, per cui i proprietari dei fondi
rivieraschi, non limitati, estendevano il dominus sino alla linea mediana del fiume.
-Inaedificatio: consiste nella costruzione di un edificio con materiale appartenente a
persona diversa dal proprietario del suolo. Il principio che fu espresso al riguardo è
quello di ‘la superficie accede al suolo’. La soluzione fu sempre nel senso che il
proprietario del suolo divenisse automaticamente anche proprietario dell’edificio
(dell’edificio nel suo complesso non necessariamente dei materiali con cui esso era
stato costruito). Superficie: tutto ciò che insisteva stabilmente sopra il suolo.
-Costruzione su terreno proprio con materiali altrui: poteva accadere che taluno
costruisse su terreno proprio con materiale altrui, in tal caso il proprietario del suolo
diveniva proprietario dell’edificio ma non dei materiali di costruzione separatamente
considerati. Questi ultimi avrebbero continuato ad appartenere a colui al quale già
appartenevano. Questo però non avrebbe potuto rivendicarli finché l’edificio fosse stato
demolito. Fino a quel momento il suo diritto di proprietà sarebbe rimasto
quiescente(si sarebbe risvegliato a demolizione avvenuta). Finché durava la
costruzione, il dominus fundi non avrebbe potuto usucapire i materiali; quindi, pure se
la costruzione fosse durata per lungo tempo, avvenuta la demolizione il proprietario dei
materiali avrebbe potuto comunque pretenderne la restituzione mediante rei vindicatio.
(Tizio realizza una casa con materiali di proprietà di caio. L’edificio accede al suolo e
quindi sarà di proprietà del proprietario del suolo. Il proprietario dei materiali non ne
perde il diritto ma resta quiscente. Ma il proprietario dei materiali, visto che era stato
privato di un bene, poteva agire tramite un’azione penale chiamata Tignum iunctum:
penale del doppio del valore)
-Costruzione su terreno altrui con materiali propri: si distinguono due casi, a
seconda se il costruttore si in buona o cattiva fede. Se il costruttore è in buona fede si
ricade nel caso precedente (l’edificio rimane del proprietario del suolo e il proprietario
dei materiali rimane quiescente). Se è in cattiva fede, l’edificio sarà comunque del
proprietario del suolo, e in più anche la proprietà dei materiali. Quindi perde ogni diritto.

LA SPECIFICAZIONE
Modo di acquisto della proprietà a titolo originario si intende la trasformazione di una
cosa altrui (aliena) sino a farne altra cosa che, nel comune apprezzamento, appare
nuova (dall’uva si ricava vino). Si fece distinzione a seconda che la specificazione
fosse o non reversibile. Se era reversibile il dominus materiae ne avrebbe mantenuto
la proprietà; se non era reversibile (uva in vino) lo specificatore avrebbe acquistato la
res nova.

LA MANCIPATIO E LA IN IURE CESSIO


Queste pratiche avevano una struttura poco adeguata per atti traslativi perché era solo
chi acquistava ad avere un ruolo attivo. Per la in iure cessio ciò può essere spiegato
rilevando che essa fu il risultato dell’adattamento di strutture processuali a funzioni
negoziali. Per la mancipatio le spiegazioni vanno cercate in concezioni giuridiche di
epoca remota. Una volta emersa l’idea della proprietà come diritto soggettivo che di
per sé prescinde dal possesso, dovette al contempo affermarsi il principio per cui
l'acquisto da parte del mancipio accipiens (mancipatio) o del cessionario (in iure
cessio) di quel potere che fu detto “dominum” fosse subordinato all’esistenza dello
stesso potere rispettivamente nel mancipante e nel cedente. La mancipatio e la in iure
cessio si configuravano come modi di acquisto a titolo derivativo; inoltre essi
trasferivano si la proprietà civile sulle res mancipi ma comportavano passaggio di
possesso
solo quando si trattava di beni mobili.

LA TRADITIO
Era un negozio bilaterale che si compiva con la consegna di una cosa e venne
qualificato iuris gentium. Poteva avere ad oggetto sia mobili che immobili e
trasferiva comunque il possesso. Riguardava pertanto solo le res corporales (le sole
suscettibili di possesso). Quando ne erano oggetto res nec mancipi la traditio trasferiva
anche la proprietà: aveva quindi effetti reali. Affinché la traditio trasferisse la proprietà,
era necessario che a compierla fosse il proprietario.
Consegna: la traditio si realizzava mediante consegna. Ma una consegna materiale
poteva mancare: bastava che il tradens facesse conseguire all’accipiens la disponibilità
della cosa. Vengono in considerazione in proposito:
A)traditio symbolica: traditio delle merci contenute nel magazzino, che si ritenne
compiuta mediante consegna chiavi del magazzino.
B)traditio longa manu: traditio del fondo che si ritenne validamente realizzata con
l’indicazione dei confini
dell’alienante all’acquirente e contemporanea dichiarazione di voler trasferire
l’immobile.
C)traditio brevi manu: si realizzava quando l’acquirente teneva già la cosa che
l’alienante gli trasmetteva.
Non ogni consegna era traditio in senso proprio, lo era solo quella per cui la persona
che riceveva acquistava il possesso (es.: consegna della cosa a scopo di custodia). Il
costituto possessorio: l'alienante trattiene presso di sè la cosa che vende, talchè al
compratore che consente non viene fatta materiale consegna.
Volontà della traditio: con la traditio di res nec mancipi il dominus trasferiva al
contempo proprietà e possesso. È necessario però precisare che per il passaggio del
possesso, occorreva la concorde volontà di tradens e accipiens di fare acquistare
all’accipiens una posizione indipendente in ordine alla cosa che veniva consegnata:
occorreva cioè che le parti fossero d’accordo di volere rispettivamente trasferire e
acquistare il possesso (uti dominus = quale proprietario).
Iusta causa traditionis: era la ragione per la quale si procedeva a traditio, e che
giustificava l’acquisto della proprietà. Poteva procedersi a traditio e quindi trasferire la
proprietà per più causae; quali: la causa vendendi ( nel caso del venditore che
consegnava al compratore la cosa venduta), la causa donandi (il donante che
consegnava al donatario la cosa donata), la causa solvendi (il creditore che adempiva
un’obbligazione di dare). L’esistenza di una iusta causa traditionis era indice della
volontà delle parti di volere attivamente trasferire la proprietà. Certo è in ogni caso
che, quando la proprietà passava nonostante mancasse una iusta causa effettiva, il
tradensi avrebbe potuto pretendere la restituzione mediante condictio.

IL LEGATO PER VINDICATIONEM


A differenza dei precedenti negozi di acquisto del dominium, che erano inter vivos, il
legato per vindicationem era un atto mortis causa. Anche esso era un modo di
acquisto derivativo e a titolo particolare. Si trattava di una disposizione testamentaria
con la quale il testatore attribuiva direttamente una cosa propria a un terzo, detto
legatario. Questo acquistava sulla cosa legata la proprietà civile una volta che, morto
il testatore, il testamento fosse divenuto efficace.

LA ADIUDICATIO
Essa era la pronuncia del giudice formulare che traeva fondamento nella parte della
formule dei giudizi divisori. In virtù dell’adiudicatio, il giudice dei giudizi divisori
assegnava a ciascuna delle parti una o più res. oggetto della divisione. per effetto
dell’adiudicatio i coeredi di quote ideali cessavano di essere tali e divenivano
proprietari di beni determinati. L’adiudicatio era costitutiva perché era considerata
essa stessa modo di acquisto della proprietà.

LA LITIS AESTIMATIO
L’eventuale condanna pronunziata dal giudice del processo formulare non poteva che
essere espressa in denaro. Poteva quindi accadere che il possessore, convenuto con
la rivendica dal proprietario, una volta soccombente, anziché restituire subisse la
condanna pecuniaria, il cui importo (litis aestimatio) corrispondeva al valore della cosa
rivendicata.
Con l’offerta di pagare la litis aestimatio il convenuto manteneva il possesso della
cosa rivendicata e, se questa era nec mancipi, ne diveniva anche proprietario ex iure
Quiritium. Delle res mancipi il convenuto acquistava invece la proprietà pretoria
perché gli veniva riconosciuto sulla cosa rivendicata, un possesso valido ai fini
dell’usucapione.

L’USUCAMPIONE
Comportava acquisto del dominium ex iure Quiritium ed era riservata ai cittadini
romani Requisiti:
Res habilis: erano usucapibili le cose idonee ad essere usucapite (habiles). Non
erano habiles le res furtivae e le cose di cui taluno si fosse impossessato con la
violenza, esse mantenevano la non usucapibilità anche presso eventuali terzi
acquirenti in buona fede. Sarebbero state usucapibili una volta ritornate nel possesso
del proprietario.
Possessio: non ogni possesso conduceva all’usucapione, ma quello soltanto di chi
teneva la cosa come propria (uti dominus). L’esigenza del possesso dà conto del fatto
che non si poterono usucapire le res incorporales (no suscettibili a possesso).
Tempus: l’usucapione si compiva col decorso di 2 anni per gli immobili e 1 per le altre
cose. Occorreva possedere la cosa in modo continuo(non interrotto). Con la morte del
possessore il tempus usucapionis non subiva interruzioni perché l’erede subentrava
nel possesso al posto dell’ereditando e nella sua stessa posizione possessoria.
L’usucapione iniziata dal defunto avrebbe potuto così essere portata a compimento
dall’erede. In età postclassica con il principio accessio possessionis il compratore
avrebbe potuto sommare il proprio possesso a quello del dante causa in modo che, se
esso fosse stato della stessa qualità di quello del compratore ( di buona fede e giusta
causa), l’usucapione iniziata presso il venditore avrebbe potuto essere portata a
termine del compratore.
Titulus o iusta causa: si fa riferimento alla ragione oggettiva che stava alla base
dell’acquisto del possesso, tale da giustificare l’acquisto della proprietà per effetto del
possesso continuato per il tempo stabilito. Titolo più ricorrente nella pratica era pro
emptore: possedeva pro emptore il compratore cui il venditore avesse trasmesso il
possesso della cosa venduta ma non la proprietà. Questo poteva accadere o perché il
venditore non era proprietario della cosa venduta o perché, trattandosi di res mancipi,
ne avesse fatto semplicemente traditio.
Fides: da un certo punto in poi, ai fini dell’usucapione, si richiese anche la buona fede,
cioè la convinzione del possessore di non recare ad altri (col proprio possesso)
ingiusto pregiudizio. La buona fede doveva sussistere al tempo dell’acquisto del
possesso; se fosse venuta meno dopo, l’usucapione si sarebbe compiuta ugualmente.
Usucapio pro herede: la persona che avesse preso possesso anche di una sola cosa
ereditaria, purché appartenente a un’eredità giacente, trascorso un anno, avrebbe
acquistato l’eredità nel suo complesso pure in difetto di titolo ed anche se in mala fede.
Questo regime rispondeva all’esigenza che una eredità non restasse a lungo deserta.
Ma già in età preclassica la giuri. laica limitò gli effetti di questo tipo di usucapio: pur
restando fermo il principio di richiedere iusta causa e buona fede e il tempo di un
anno, l’effetto acquisitivo fu limitato alle singole cose ereditarie possedute.

20.1.3.5. LA DIFESA DELLA PROPRIETà QUIRITARIA. LA REI


VINDICATIO
A difesa del dominium ex iure Quiritium vi era anzitutto la rei vindicatio, rivendica che
spettava al proprietario non possessore contro il possessore non proprietario.
Tendeva a far conseguire al proprietario il possesso.
Per la rei vindicatio si agiva dapprima con la legis actio sacramenti in rem, che aveva
struttura bilaterale (alla vindicatio seguiva la contravindicatio): il pretore provvedeva
pertanto ad attribuire all’una o all’altra parte, durante il processo, il possesso della cosa
controversa e su ognuna delle parti gravava l’onere di fornire la prova
dell’appartenenza a sé del bene rivendicato. Diverso era il regime della rivendica nel
processo formulare: si trattava di una formula con clausola restitutoria o arbitraria
(Tizio sia giudice. Se risulta che la cosa di cui si tratta appartiene a Caio ex iure
Quiritium e la cosa non gli verrà restituita, tu giudice condannerai Sempronio in favore
di Caio in tanto denaro quanto sarà il valore di quella cosa. Se non risulta, lo
assolverai). Il giudice avrebbe dovuto quindi verificare che la cosa controversa
appartenesse all’attore ex iure Quiritium. Se non gli fosse risultato, avrebbe assolto il
convenuto. Lo assolveva anche se, risultando appartenere la cosa all’attore, il
convenuto avesse ottemperato all’invito di restituire rivoltogli dal giudice.
Il giudice lo avrebbe condannato solo se, risultando appartenere la cosa all’attore, il
convenuto, invitato a restituire, non lo avesse fatto. La condanna di regola sarebbe
stata espressa in denaro (commisurata al valore della cosa al tempo della sentenza.
Solo che a determinare il valore della cosa sarebbe stato di norma lo stesso attore
mediante giuramento). Appare da ciò che il convenuto possessore avrebbe mantenuto
il possesso della cosa durante il giudizio (non vi era alcun provvedimento pretorile di
assegnazione provvisoria del possesso). Era solo l’attore a dovere provare di essere
proprietario. La conseguenza era che il convenuto sarebbe stato assolto sol che
l’attore non avesse raggiunto la prova di proprietà.
Onere della prova a carico dell’attore: l’onere della prova poteva risultare
particolarmente gravoso: bisognava provare non solo di avere acquistato in forza di un
adeguato negozio traslativo di proprietà, ma anche di avere acquistato dal
proprietario. Soccorreva ad ogni modo l’usucapione, sì che bastava che l’attore
dimostrasse di aver posseduto la cosa, o che alcuno dei danti causa l’avesse
posseduta in buona fede e con iusta causa per il tempo necessario per usucapirla.
Spese. Il ius retentionis: poteva accadere che il convenuto possessore, prima della
lite, avesse erogato sulla cosa delle spese. Ai fini del rimborso, il convenuto, purché
possessore di buona fede, avrebbe potuto opporre l’exceptio doli reputandosi iniquo il
comportamento dell’attore che insistesse nell’azione senza prima aver rimborsato
almeno talune spese. Con la conseguenza che, verificata l’exceptio (continuando cioè
l’attore a negare il rimborso), il convenuto sarebbe stato assolto. Avrebbe in tal modo
trattenuto la cosa; da qui il riconoscimento al possessore di buona fede che avesse
erogato spese sulla cosa altrui, del ius retentionis. Doveva trattarsi però di spese
necessarie o utili.
Necessarie: se senza di esse la cosa sarebbe perita o deteriorata e queste andavano
rimborsate per l’intero. Utili: se avevano migliorato la redditività della cosa e queste
spese andavano rimborsate nella misura minore tra lo speso e il migliorato. Non si
potevano però pretendere il rimborso delle spese voluttuarie, che erano quelle di mero
abbellimento. Gli si concesse però di portare via gli oggetti a tali spese relativi purché
si trattasse di oggetti che il dominus soli non aveva acquistato in proprietà per
accessione, e sempre che portarli via fosse possibile senza danneggiare il bene
rivendicato. Nessun rimborso era dovuto al possessore di mala fede.
Legittimazione passiva: la rivendica doveva essere contro il possessore perché era il
esso ad essere passivamente legittimato. Ciò si dedusse dalla clausola restitutoria
parte integrante della stessa formula.
Frutti e danni: dalla clausola restitutoria si dedusse anche che il convenuto, per
essere assolto, avrebbe dovuto restituire anche i frutti percepiti dopo la litis
contestatio,e risarcire i danni che la cosa (dopo la litis contestatio) avesse subito per
suo dolo o colpa.
Usucapione del bene rivendicato: l’esercizio della rivendica non avrebbe interrotto
l’eventuale decorso dell’usucapione in favore del convenuto. Si stabilì quindi che il
possessore che avesse usucapito dopo la litis contestatio dovesse ritrasferire
all’attore la proprietà e compiere quindi l’idoneo atto traslativo.
Litis aestimatio: il convenuto che, una volta rimasto soccombente, non avesse
restituito la cosa rivendicata, sarebbe stato condannato a pagarne il valore.

20.1.9. IL CONSORTIUM “ERCTO NON CITO”


La prima manifestazione del fenomeno di comproprietà, dove più soggetti sono
riconosciuti titolari del diritto di proprietà sullo stesso bene, può essere ravvisato nella
Roma delle origini. Si costituiva automaticamente alla morte del pater familias tra più
heredes sui. Si poteva anche costituire tra estranei mediante ricorso a una legis
actio. Il regime di questo consorzio era tale per cui ciascun consorte avrebbe potuto,
anche senza concorso degli altri, sia gestire e fruire delle cose comuni, sia alienarle e
disporne per l’intero, con effetti verso tutti gli appartenenti al consortium. Ciascun
partecipante alla comunione era considerato proprietario dell’intero (proprietà plurima
integrale).
Il consortium scomparve prima dell’ultima età repubblicana.

20.1.10.LA COMMUNIO DI PROPRIETA


Già da prima che scomparisse il consortium era andato prendendo corpo altro tipo di
comproprietà, la communio o comunione di proprietà. Poteva essere:
A)volontaria: che si costituiva per volontà dei comproprietari (in vista di una società ad
es);
B)incidentale: prescindeva dalla volontà dei partecipanti alla communio.
Il regime giuridico della communio diverge dal consortium nella concezione di base,
perché ciascun partecipante (socius) era titolare di un quota ideale del bene (una
frazione del diritto di proprietà). Si negò pertanto che più persone potessero essere
proprietarie per l’intero della stessa cosa. Da qui la conseguenza che ogni
comproprietario potesse (senza il consenso degli altri) alienare la propria quota, ma
nulla di più.
Ius prohibendi: l’eco del regime dell’antico consortium si coglie ancora sia nella regola
per cui ciascun comproprietario poteva da solo (e senza consenso preventivo degli
altri) operare nella gestione e fruizione della cosa comune, sia nel principio per cui
spettava a ciascuno dei contitolari il diritto di veto (assente il criterio, oggi presente,
per cui certe decisioni vanno prese a maggioranza).
Ius adcrescendi: proprio della communio, comportava che se un socius avesse
rinunziato alla sua quota, questa si sarebbe accresciuta agli altri, a ciascuno in
proporzione della misura del suo diritto sulla cosa comune.
Manumissio del servo comune: era una manifestazione del ius adcrescendi. La
manomissione di un servo comune, a differenza che nel consortium, non rendeva
libero lo schiavo ma dava luogo ad accrescimento in favore degli altri comproprietari.
Lo schiavo avrebbe acquistato la libertà solo se tutti avessero compiuto l’atto di
affrancazione, anche se in tempi diversi.
Actio communi dividundo: rimedio proprio per la divisione dei beni comuni dove si
adottò formula con adiudicatio.
Oltre ad adiudicatio, la formula conteneva una condemnatio stante l’esigenza, specie
quando ad essere comuni erano cose indivisibili, di procedere a conguagli in denaro.
Ma il fatto che la formula avesse condemnatio consentiva al giudice di procedere
altresì al regolamento di dare ed avere reciproco tra i comproprietari per spese, frutti
e danni relativi alla communio che si andava a sciogliere. Si disse pertanto che la
communio incidens era possibile fonte di obbligazioni. L’actio communi dividundo non
poteva prescindere dalla divisione: per conteggi e saldi bisognava attendere la
divisione giudiziale.

20.2.LE SERVITÙ PREDIALI


Oltre alla proprietà il diritto romano conobbe altri diritti soggettivi di natura reale, che
noi oggi chiamiamo: ‘diritti reali limitati su cosa altrui’. Tra questi (in particolare tra i
diritti reali di godimento) le servitù prediali; per cui il proprietario di un fondo può
pretendere dal proprietario di un fondo vicino un comportamento determinato di
tolleranza o omissione. Le servitù prediali riguardano solo beni immobili: fondi rustici
e urbani. Spettano al proprietario ‘in quanto tale’ di un fondo, e ad essere obbligato è il
proprietario ‘in quanto tale’ di un fondo vicino. Questo vuol dire che la servitù segue i
due fondi (dominante e servente). Non è alienabile separatamente dai fondi. Da
quanto detto emerge anche che i due fondi devono appartenere a proprietari diversi
(non è concepibile una servitù su cosa propria), ecco perché le servitù vengono
classificate tra i diritti su cosa altrui.
Utilitas: la servitù deve essere utile al fondo dominante, non in sé al proprietario, ma
utile oggettivamente al fondo
Necessità quindi che i due fondi debbano essere vicini.
Servitus in facendo consistere nequit: altra regola è che la servitù non può
consistere in un fare. Il punto di vista è quello del proprietario del fondo servente, il
quale potrà essere tenuto a tollerare o non facere, mai ad un comportamento positivo.
Servitù positive e negative:
A)positive: le servitù per il cui esercizio il proprietario del fondo dominante non potrà
non tenere un comportamento attivo. Ad esse corrisponde un tollerare del dominus del
fondo servente.
B)negative: le servitù il cui esercizio non comporta in sé alcuna attività. Ad esse
corrisponde, nel proprietario del fondo servente, un non facere.
Indivisibilità: le servitù sono indivisibili, si costituiscono e estinguono per l’intero, mai
pro-parte.
Origini: il riconoscimento delle servitù delle servitù quali entità giuridiche autonome
avvenne dopo la legge delle Dodici Tavole, ciò fu dovuto al cresciuto fenomeno di fondi
e di edifici mancanti di limes e ambitus, l’esigenza di stabilire “servizi” tra fondi.
Tipicità: non si pervenne mai all’idea di servitus come categoria unitaria, si andarono
piuttosto riconoscendo
gradualmente singole figure di servitù. Erano quindi tipiche. Un temperamento alla
tipicità era rappresentato dal “modus servitutis”, una precisazione delle modalità di
esercizio della servitù; come le due servitù di passaggio (iter e actus).
Servitù rustiche e urbane: le servitù relative ai fondi rustici si dissero “servitù
rustiche”; le altre, relative ad edifici, “servitù urbane”. Le prime si fecero rientrare tre le
res mancipi, le altre tra le res nec mancipi.
Fondi italici e provinciali: poiché il riconoscimento delle servitù avvenne in relazione
a fondi oggetto di dominium ex iure Quiritium, si dissero servitù solo i servizi tra fondi
relativi a fondi italici (l’estensione provinc. è nell’età postclas).
Servitù personali prediali: con Giustiniano la servitus si estese pure ad usufrutto e
uso, che si dissero servitù personali. Per l’idea che ogni servitù comportava un
assoggettamento: di un fondo ad un altro fondo nelle servitù
prediali, di una res a una persona nelle servitù personali ( il Codice Napoleonico ha
bandito la qualificazione di uso e usufrutto come servitù).
Costituzione: per la loro natura di diritti reali le servitù si costituivano mediante negozi
con effetti reali: con mancipatio le servitù rustiche (che erano res mancipi), con in
iure cessio tutte quante, rustiche e urbane. Tra i modi di costituzione delle servitù
figurano anche ‘pactio et stipulatio’, un patto accompagnato da stipulatio, l’uno e
l’altra aventi ad oggetto il contenuto di una servitù. Nel diritto giustinianeo quest’ultimo
modo divenne il modo generale di costituzione della servitù. Si costituivano anche
mediante exceptio servitutis (nn aveva a che fare nulla con exceptio del processo
formulare). Aveva luogo quando il proprietario di due fondi, nell’alienarne uno mediante
mancipatio, d’accordo con l’acquirente (in forza di una lex mancipi) costituiva tra essi
una servitù. Nel diritto giustin. la mancipatio venne sostituita dalla traditio. Potevano
essere anche costituite con adiudicatio quando ne ravvisava l’opportunità di stabilire
servitù tra i fondi che, con la divisione, venivano assegnati a comproprietari o coeredi
diversi. Altro modo di costituzione era il legato per vindicationem, il quale
presupponeva che il legatario fosse proprietario di un fondo e che l’altro fondo
destinato ad essere servente fosse del testatore e da costui si trasmettesse all’erede o
ad altro legatario per vindicationem. Le servitù non si costituivano mediante traditio
perché si trattava di res incorporales che non erano suscettibili di possesso; per lo
stesso motivo esse non si sarebbero dovute poter costituire per usucapione.
Estinzione:
A)per confusione: i due fondi iniziavano ad appartenere allo stesso proprietario;
B)rinunzia
C)non usus: qui bisogna far distinzione tra servitù rustiche, che erano generalmente
positive, e servitù urbane che erano generalmente negative. Queste ultime, per il
loro esercizio, non richiedevano alcun comportamento positivo del titolare: si
esercitavano solo per il fatto di possedere il fondo dominante. Con Giusti. il tempo di
non uso fu allungato
Per stabilire se servitù potesse considerarsi non esercitata si vedeva quando il
dominus del fondo servente avesse tenuto comportamento incompatibile con
l’esercizio della servitù.
Tutela giudiziaria: a difesa delle servitù giovava la vindicatio servitutis (non la rei
vindicatio che era a difesa della proprietà), con l’avvertenza che il formulario della legis
actio sacramenti in rem e la intentio della formula venivano ogni volta adattati al tipo di
servitù in questione.

20.3.L’USUFRUTTO
E un diritto reale limitato di godimento su cosa altrui. Esso può essere definito
come un diritto soggettivo reale di usare e percepire i frutti di una cosa altrui senza
alterarne la destinazione economica. Il titolare è detto usufruttuario, il proprietario
della cosa gravata, nudo proprietario.
Origini: fu riconosciuto come diritto per esigenze legate alla diffusione dei matrimoni
sine manu, nei quali la donna non entrava a far parte della familia del marito: da un lato
c’era la preoccupazione che, con la morte del marito, la moglie sui iuris cadesse
nell’indigenza; dall’altra stava il timore che, se il marito l’avesse istituita erede, i beni
da lei acquistati ex testamento dal marito, alla morte di lei sarebbero andati per diritto
ereditario agli appartenenti alla sua famiglia originaria, e non ai figli (nei matrimoni
sine manu non erano iure civili eredi legittimi della propria madre). Ecco quindi che per
conservare intatto ai figli il patrimonio della famiglia e assicurare al contempo alla
propria vedova un dignitoso sostentamento si diffuse la prassi di legare alla moglie
l’usus fructus di determinati beni, sì che ella ne godesse durante la vita e la proprietà
restasse ai figli.
L’usufrutto come servitù personale: con Giusti. esso fu, insieme all’usus, qualificato
come servitus. Nell’usufrutto e nell’uso il bene (mobile o immobile) era assoggettato a
una persona, la persona dell’usufruttuario.
Oggetto: potevano essere cose mobili e immobili, res mancipi e nec mancipi, purché
inconsumabili e fruttifere. Doveva trattarsi di res corporales. Si ammise che pure il
testatore potesse legare l’usufrutto di tutti i propri beni.
Uso, godimento e manutenzione: l’usufruttuario poteva usare la cosa gravata da
usufrutto e percepirne i frutti, i quali divenivano suoi dal momento della effettiva
percezione. Gli acquisti dello schiavo gravato di usufrutto andavano all'usufruttuario
solo se dipendevano da un esborso dell’usufrutto o dal lavoro dello schiavo.
L’usufruttuario doveva a sue spese curare la manutenzione ordinaria della cosa (avere
cura che non perisse o non si deteriorasse).
Cautio fructuaria: a garanzia dell’adempimento dei suoi obblighi all'usufruttuario si
imponeva la cautio fructuaria, una stipulatio pretoria con la quale l’usufruttuario
prometteva al nudo proprietario sia la restituzione del bene una volta
estinto l’usufrutto sia un uso della cosa con criteri di correttezza.
Carattere personale: l’usufrutto aveva carattere personale, era pertanto inalienabile e
intrasmissibile agli eredi.
Modi di costituzione:
A)legato per vindicationem, anche con la in iure cessio;
B)adiudicatio, nelle azioni divisorie quando il giudice lo riteneva utile in sede di
determinazione delle quote da attribuire.
C)deductio, quando taluno, nell’alienare la cosa propria con mancipatio o in iure cessio
tratteneva l’usufrutto.
D)pactio et stipulatio, fu Giust. che ne fece un modo di costruzione generale.
Non si costitutiva con traditio perché res incorporales e come tale non era suscettibile
di possesso.
Modi di estinzione:
A)morte usufruttuario;
B)condizione risolutiva;
C)scadenza termine finale;
D)trasformazione cosa sì da mutarne la destinazione economica o il suo deperimento;
E)rinunzia con in iure cessio;
F)acquisto proprietà, usufruttuario acquistava la proprietà o il proprietario acquistava
l’usufrtto;
G)non usus: un anno per i mobili e due anni per gli immobili;
Tutela giudiziaria: a difesa dell’usufruttuario stava la vindicatio usus fructus,
un’azione simile alla vindicationes per servitù.
20.4.IL QUASI USUFRUTTO
Con riguardo al legato di usufrutto di tutti i beni del testatore, un senatoconsulto del
principato riconobbe quali possibili oggetti di usufrutto tutte le cose che a quel
patrimonio appartenessero, anche denaro; facendo obbligo al legatario di prestare una
cautio con la quale promettere la restituzione dell’equivalente una volta estinto
l’usufrutto. Quindi delle cose consumabili il legatario avrebbe acquistato la proprietà,
salvo obbligo di restituzione.

20.3.L’USUS
Diritto reale di godimento su cose altrui. Il titolare (usuario) avrebbe avuto il diritto di
usare direttamente e personalmente la cosa, ma non di percepirne i frutti. A
differenza dell’usufrutto, l’usus non era divisibile, sicché più usuari l’avrebbero
esercitato indivisamente e sull’intero bene. Per i modi di costituzione, estinzione,
difesa giudiziaria il regime dell usus ricalcava quello dell’usufrutto. Era pure esso una
servitus.

20.6.IL DIRITTO DI SUPERFICIE


Tutto ciò che stava organicamente sopra il suolo, in virtù dei principi propri
dell’accessione, accedeva al suolo. Il proprietario del terreno non poteva non essere
al contempo proprietario anche della superficie. Nulla impediva però che lo stesso
dominus potesse dare in locazione, e persino vendere la superficie. Gli effetti
sarebbero stati quelli propri dei relativi contratti: l’altro contraente (superficiario)
avrebbe acquistato solo un diritto di credito al godimento dell’edificio già esistente o
da lui costruito. Questo perché locazione e vendita, quali contratti, davano luogo
soltanto a effetti obbligatori. Sull’edificio quindi il superficiario non avrebbe acquistato
né proprietà né altro diritto reale. Ciò anche nel caso di vendita, la quale non solo
non trasferiva la proprietà ma neanche faceva sorgere nel venditore l’obbligo di
trasferirla. Il pretore ritenne di dover assegnare al superficiario una tutela ulteriore
rispetto a quella che gli derivava dai contratti di locazione o vendita: prima una tutela di
tipo possessorio (interdictum de superficiebus) contro turbative al godimento della
superficie anche se provenienti da terzi (utile pure per il recupero della superficie
contro l’autore dello spoglio). Con la concessione di questa azione reale ecco che il
diritto al godimento della superficie può essere configurato (iure praetorio) quale diritto
reale limitato di godimento su cosa altrui. Il corrispettivo periodico fisso (o canone)
cui, con cadenza generalmente annuale, era solitamente tenuto il superficiario, si disse
solarium.
Le concessioni potevano essere a termine, ed erano revocabili per mancato
pagamento del canone.

20.7.GLI AGRI VECTIGALES


Le terre pubbliche che i censori prima e anche i municipia poi erano usi dare in
concessione a privati erano dette “agri
vectigales”. I concessionari erano detti possessores e tutelati con interdicta contro
turbative e sopossesamneti. Le concessioni potevano essere a termine ed erano
revocabili per mancato pagamento del canone. Erano generalmente qualificate
locazioni. Più avanti si configurerà lo ius in agro vectigali, dove si ammise la
trasmissibilità mortis causa e inter vivos. Configurabile come diritto reale di godimento
su cosa altrui.

20.8.L’ENFITEUSI
Concessioni di terre pubbliche. L’enfiteuta, solitamente tenuto al miglioramento del
fondo e in ogni caso obbligato al pagamento di un canone annuo, avrebbe potuto sì
alienare il fondo enfiteutico ma avrebbe dovuto, a parità di condizioni, preferire il
concedente; al concedente che lasciava alienare il fondo a terzi era dovuto il 2% del
prezzo o del valore del fondo. L’enfiteusi si estingueva per mancato pagamento del
canone o dell’imposta fondiaria per oltre 3 anni; per alienazione del fondo a terzi
effettuata senza cura degli adempimenti verso il concedente e per confusione.

20.9.PEGNO E IPOTECA
Sono classificati tra i diritti reali di garanzia, che sono quelli che attribuiscono al
creditore il diritto di rivalersi su una cosa altrui in caso di inadempimento. Bisogna
però distinguere tra “datio pignoris” e “conventio pignoris”.
Datio pignoris: era il pegno manuale, la consegna cioè di una cosa al creditore in
modo che la tenesse finché il credito non fosse stato soddisfatto: la proprietà della
cosa restava a chi aveva effettuato la consegna (solitamente il debitore); non si trattava
di una datio nel senso tecnico di trasferimento di proprietà. In origine riguardava solo
cose mobili, ma si estese presto ad ogni res mobile e immobile, mancipi e nec
mancipi.
Conventio pignoris: un patto tra il creditore e il proprietario di una cosa (debitore) con
cui, pur restando la cosa presso il proprietario, si conveniva che il creditore ne avrebbe
preso possesso in caso di inadempimento, e l’avrebbe tenuta fino all’avvenuta
estinzione del debito.
Tutela giudiziaria: con datio pignoris e conventio pignoris, il creditore pignoratizio
acquistava sulla cosa il possesso: un possesso utile ai fini della tutela con gli interdetti
possessori (non ai fini di usucapione). Con l'actio hypothecaria che il pegno si
configura come diritto reale di garanzia.
Pegno e ipoteca: pur distinguendo tra datio pignoris e conventio pignoris, e anche
consapevoli di talune differenze di regime, i giuristi romani configurarono il pegno come
istituto unitario.
Legittimazione: il pegno aveva solitamente ad oggetto cose corporali. Era
validamente costituito da chi avesse la cosa in bonis: cioè dal proprietario quiritario e/o
dal proprietario pretorio.
Poteri del creditore pignoratizio: il C. pignoratizio, una volta possessore della cosa
pignorata, avrebbe avuto di essa sì il possesso utile per la difesa possessoria
interdittale ma non il godimento, e neppure il semplice uso. Se l’avesse usata e si
fosse trattato di cosa mobile, avrebbe commesso furto. Quanto ai frutti, il C. avrebbe
potuto percepirli, salvo interessi. Se il credito non veniva soddisfatto, il C. tratteneva la
cosa finché il debito non si fosse estinto.
Patto commissorio e il ius vendendi: da ultima età repubblicana si riconobbero validi
ed efficaci (se aggiunti all’atto della costituzione del pegno) sia il patto commissorio (il
C., inadempiente D., avrebbe acquistato in proprietà il bene pignorato); sia il patto per
cui si dava al C. facoltà di vendere la cosa, soddisfarsi con il ricavato e restituire al D.
quanto eventualmente sopravanzato. Più praticato fu il ius vendendi: il C. pignoratizio
veniva autorizzato sì ad alienare la cosa in caso di inadempienza ma non a
manciparla, e neanche a farne in iure cessio. Avrebbe potuto fare solo traditio. Così, se
la res fosse stata mancipi, il compratore ne avrebbe acquistato nient’altro che il
possesso ad usucapionem e con esso la proprietà pretoria. Ne avrebbe acquistato la
proprietà quiritaria se la cosa a lui venduta fosse stata res nec mancipi. Il patto
commissorio fu vietato da Costantino.
Pluralità di creditori ipotecari: poiché la conventio pignoris (o ipoteca), a differenza
della datio, non comportava il passaggio immediato del possesso al C., la stessa cosa
poteva essere convenuta in pegno (ipotecata) a più C., in tempi diversi e per
obbligazioni diverse. Si stabiliva quindi un rango di precedenze tra i C. secondo il
criterio ‘precedente nel tempo, prevalente nel diritto’: era considerato di rango
maggiore (con ipoteca di 1° grado) non tanto il chi vantasse credito più antico, quanto il
C. in favore del quale l’ipoteca fosse stata convenuta prima. Ai C. di grado inferiore si
dava la possibilità di pagare quanto dovuto al C. di grado superiore per subentrare nel
suo rango.
Estinzione: essa avveniva per:
A)l’estinzione del debito garantito;
B)adempimento;
C)perimento della cosa che ne era oggetto;
D)confusione (nella stessa persona venivano a coincidere le figure del proprietario e
del creditore pignoratizio);
E)vendita;
F)rinunzia creditore.

21.IL POSSESSO
La genesi: le terre pubbliche (ager publicus) erano prima lasciate in godimento a
privati: a volte in dipendenza di provvedimenti con i quali se ne consentiva
l’occupazione, altre volte in forza di speciali concessioni ad opera dei censori dietro
corrispettivo. In ogni caso i concessionari erano detti possessores, il loro potere sulle
terre possessio, l’esercizio del potere ‘possidere’. Da un certo punto il pretore
cominciò a proteggere questi possessores di agri publici contro molestie e
spossessamenti con provvedimenti del tipo di quelli che poi si dissero interdicta. La
stessa protezione il pretore accordò a quanti avessero l’usus di un immobile ai fini
dell’usucapione, o comunque lo tenessero come proprio, poi la estese ancora; tutti
quanti, godendo dello stesso tipo di protezione giudiziaria dei possessores di agri
publici, furono qualificati possessores.
Possessori e detentori: criterio di assicurare la difesa possessoria e attribuire la
relativa qualifica a soggetti che avessero in ordine alla cosa e in punto di fatto una
posizione indipendente, o ne avessero comunque il controllo. Gli esclusi (non
potevano far ricorso a interdetti possessori) erano quei soggetti che pur avendo una
relazione materiale con la cosa, non furono dai Romani riconosciuti possessori, ma
detentori: coloni, inquilini, locatari, depositari, comodatari, usufruttuari, servi e filii
familias.

21.1. GLI INTERDETTI POSSESORI


I soggetti ai quali si riconosceva una vera possessio erano tutelati mediante interdicta.
Gli interdetti potevano essere volti o alla conservazione o al recupero del possesso.
Interdictum uti possidetis: riguardava gli immobili, tendeva a far cessare turbative e
molestie, e doveva essere esperito entro l’anno dal giorno in cui queste avessero
avuto inizio. Dell’interdictum uti possidetis era necessaria l'exceptio vitiosae
possessionis: per cui prevaleva quello dei due litiganti che possedeva la cosa in
modo non violento, non clandestino, non precario rispetto all’avversario; prevaleva cioè
il litigante che, rispetto all’avversario, possedeva l’immobile senza vizi (possessio
iusta). Quindi chi aveva acquistato il possesso con violenza godeva sì della difesa
possessoria con l’uti possidetis, non però nei confronti della persona che aveva
spossessato.
Interdictum utrubi o Mobili: struttura, funzione e regime analogo rispetto a quello
detto prima. Si applicava a schiavi, animali e altre cose mobili. Con la differenza che
prevaleva in questo caso il litigante che avesse posseduto la cosa per maggior tempo
durante l’ultimo anno.
Interdictum unde vi o Restitutorio immobili: si dava entro l’anno alla persona che
avesse subito spoglio violento del possesso, ed era volto al recupero del possesso
perduto. Tutelava solo il possessor iustus e riguardava solo beni immobili.
Interdictum de vi armata o Restitutorio: senza limiti di tempo, spettava alla vittima di
uno spoglio violento contro la persona che lo spoglio avesse commesso avvalendosi di
una banda armata. Differiva dall’unde vi perché non conteneva l'exceptio. Tutelava
quindi comunque la vittima dello spossessamento, anche se possessor iniustus.

21.2.POSSESSO E PROPRIETÀ
Tra i possessori legittimati all’esercizio degli interdetti a difesa del possesso vi furono
coloro che tenevano la cosa uti domini, come se fossero proprietari. È soprattutto in
riferimento a questi che si sottolinea nelle fonti come il possesso sia uno stato di fatto,
una situazione che prescinde dal corrispondente stato di diritto. Quindi il possessore uti
dominus era protetto sia che fosse effettivamente proprietario della cosa posseduta sia
che no; ed era protetto sia contro 3i, sia contro lo stesso proprietario se fosse stato lui
a violare il suo possesso. Pertanto, il dominus non possessore, per riavere il
possesso della cosa propria, avrebbe dovuto ricorrere alla rivendica. Se avesse
sottratto in via di autodifesa, la cosa al possessore attuale, avrebbe dovuto anzitutto
ripristinare lo status quo ante.

21.3.POSSESSIO AD USUCAPIONEM E POSSESSIO AD INTERDICTA


L’effetto fondamentale del possesso era di legittimare i possessori all’esercizio degli
interdetti possessori. Ma non solo: il possesso era uno stato di fatto che dava luogo ad
un altro effetto: l’usucapione. La quale non riguardava tutti i possessori, ma solo quelli
‘uti domini’ che tenevano la cosa come propria, con animus domini. Coloro che, in
presenza degli altri requisiti richiesti, con il corso del tempo, se non proprietari, lo
sarebbero divenuti per effetto dell’usucapione (possesso ad usucapionem); per
indicare l’altro effetto: quello per cui si dava luogo alla tutela possessoria interdittale
(possessio ad interdicta). I due effetti rispondevano a esigenze diverse: di
mantenimento dell’ordine sociale la tutela interdittale; garantire quanti si curano dei
propri affari a preferenza di quanti li trascurano usucapione. Nel diritto romano,
nonostante il comune impiego dei termini possessio, possessores e possidere NON si
è pervenuti a una concezione unitaria del possesso.

21.4.CORPUS POSSESSIONIS E ANIMUS POSSIDENDI. ACQUISTO,


CONSERVAZIONE E PERDITA DEL POSSESSO
I giuristi romani individuarono nel possesso un:
A)Corpus possessionis: si riconobbe sia a quanti avessero un contatto materiale
con la cosa ma pure a quanti ne avessero la effettiva disponibilità e comunque il
controllo.
B)Animus possidendi: non fu inteso come animus domini (intenzione di tenere la
cosa uti domini, come proprietari) ma come intenzione di tenere la cosa per sé, nel
proprio interesse, proprio nomine, e comunque in maniera indipendente.
A queste due caratteristiche i Romani diedero più che altro significato a proposito di:
-acquisto del possesso: il possesso di una res si acquistava dal momento in cui
taluno, con animus possidenti, aveva la possibilità di disporne (corpus);
-conservazione del possesso: conservazione che durava finché non smetteva
l’animus;
-perdita del possesso: si perdeva quando venivano meno la possibilità di disporre
della cosa e l’animus possidendi, o anche solo l’una o l’altro.
In merito alla conservazione e perdita nel caso del possessore del fondo che ne esca
con proposito di tornarvi: solitamente egli conserva il possesso, ma lo perde se altri, in
sua assenza, vi si insedia con la violenza.
Interversione del possesso: ‘nessuno può mutare a se stesso la causa del
possesso’= non ha effetto l’interversione del possesso che si compia senza intervento
di altra persona, o comunque senza manifestarsi all’esterno. Il senso è che chi ha
iniziato a tenere una cosa in forza di un titolo, di una causa, non può pretendere di
possederla ad altro titolo per avere mutato da sé il proprio animus. Es.: il detentore che
tiene la cosa quale depositario non può pretendere di esserne divenuto possessore
uti dominus per il fatto di avere ad un certo momento concepito l’intenzione di
continuare a tenere la cosa come propria. Affinché il depositario diventi possessore uti
dominus occorre che il deponente gli venda la cosa.

21.5.L’OGGETTO DEL POSSESSO


Il possesso di una cosa composta non comportava possesso anche delle singole
partes che la componevano, sicché il possessore dell’intero, durante l’unione, non le
avrebbe usucapite. Il possesso riguardava le res corporales, non quelle incorporales
(negazione che fosse concepibile il possesso di usufrutto e servitù, res incorporales). Il
diritto di proprietà non era un ius, ma si identificava come la cosa che ne era oggetto;
quindi chi teneva la cosa come propria possedeva direttamente la cosa stessa.
La ‘quasi possessio’: quanti esercitavano usufrutto e servitù non furono ritenuti
possessori: non possedevano la cosa perché il possesso restava al nudo proprietario
e al proprietario del fondo servente, non possedevano usufrutto e servitù perché si
trattava di iura, e quindi res incorporales. Ora, negare il possesso a quanti
esercitassero usufrutto e servitù volava dire negare loro la difesa interdittale
possessoria contro molestie e impedimenti, e voleva dire pure negare ai non titolari
l’acquisto per usucapione non sol del bene gravato, ma anche dello stesso diritto di
usufrutto e servitù. Ma per quanto riguarda la tutela contro molestie e impedimenti il
pretore intervenne sin dalla prima età classica, concedendo in via utile, a quanti
titolari e non, esercitavano usufrutto su immobili, gli interdetti uti possidetis e unde
vi che, per la mancanza di possesso, non potevano competere loro in via diretta; tutelò
con certi interdicta coloro che esercitavano talune servitù. Non si trattava di interdetti
propriamente possessori ma essi rappresentarono lo spunto per cui i classici
qualificarono l’esercizio di usufrutto e servitù come una ‘quasi possessio’.
Le concezioni moderne: in età medievale e poi moderno si avrà una concezione
unitaria del possesso, e all’espressione di esso come esercizio di fatto del diritto di
proprietà o di altro diritto reale. Nell’800-900 il punto di vista era stato quello di vedere
nel possesso la somma di corpus (la detenzione della cosa) e animus (disposizione di
animo qualificata).

CAPITOLO VI - LE OBBLIGAZIONI
Per obbligazione si intende il vincolo giuridico (non materiale) per cui un soggetto,
debitore(D) è tenuto a un determinato comportamento nei confronti di altro soggetto,
creditore(C). Il comportamento cui è tenuto il D., e che il C. può pretendere, è la
prestazione; il dovere giuridico del D. è il debito. Il corrispondente diritto soggettivo
del C. è il credito. Quel che caratterizza l’obbligazione è che si tratti di persone
determinate: il diritto di credito, che rappresenta il lato attivo dell’obbligazione, è un
diritto relativo (non assoluto come il diritto reale) perché rispetto ad esso ad essere
obbligate sono una o più persone determinate, esattamente individuate; così come
devono essere determinate e individuate le persone del creditore. L’azione che si dà al
C. contro il D. è un actio in personam. La prestazione del D. consiste in un
comportamento determinato, che spesso è un comportamento positivo: il D. deve fare
qualcosa, a differenza dei soggetti passivi nei diritti reale cui non si può imporre un
fare, come pagare. La realizzazione del credito, pertanto, esige in ogni caso la
collaborazione del D. Il D. inadempiente, se l’inadempimento è a lui imputabile,
incorre di ‘responsabilità’; che è la posizione di chi deve rendere conto, ed è perciò
esposto al rischio di dovere subire una sanzione.

23.GENESI E STORIA DELL’OBBLIGO


Atti illeciti: l’unico tipo di reazione pensato e ammesso agli inizi contro alcuni
comportamenti ritenuti lesivi dei principi che reggevano la comunità, imputabili ad
estranei al gruppo familiare, fu la vendetta: l’offensore doveva essere punito. La pena
era corporale; nei casi più gravi il colpevole poteva essere ucciso. Ad infliggere la
pena era il pater familias del gruppo familiare offeso. Poiché si trattava di pena
corporale, l’applicazione di essa non poteva non passare attraverso
l’impossessamento immediato dell’estraneo autore dell’illecito. Qui siamo ancora
lontani dall’idea classica dell’obligatio: non vi è traccia di prestazione intesa come
comportamento dovuto da un D. e che il C. può pretendere.
Ma è facile supporre che l’offeso potesse rinunziare alla vendetta se l’offensore, o altri
per lui, offrivano di pagare una composizione pecuniaria: si sarebbe evitato così che
all’offensore venisse inflitta la prevista pena corporale.
La somma di denaro che l’offeso riscuoteva al posto di essa fu detta anch’essa poena,
si trattava di un riscatto, di un onere che liberava l’offensore dalla vendetta della
vittima. Non era un’obbligazione perché la pena non era una prestazione cui
l’offensore fosse tenuto. Né l’offeso poteva pretenderla: egli era solo legittimato a
procedere all’assoggettamento dell’avversario, solo che doveva rinunziarvi se otteneva
invece una pena pecuniaria. L’idea dell’obbligazione nacque per gli atti leciti.
Nexum: un gestum per aes et libram: un atto che si compiva con l’intervento di 5
testimoni cittadini romani puberi e
di un libripens con bilancia. Vi si ricorreva in relazione a prestito di denaro, o di
metallo usato come merce di scambio. C. e D. dovevano essere presenti: il C.
pronunziava parole solenni, con le quali affermava per sé il potere che si andava a
costituire sull’altra parte, contemporaneamente ne faceva atto di apprensione. Con il
nexum, il D. divenuto nexus, pur restando persona libera (non serva) era assoggettato
al C; il quale lo teneva presso di sé, esercitava su di lui materiale coercizione, se del
caso lo sottoponeva a punizioni corporali, e comunque lo utilizzava per attività
lavorative. Questo sin quando il nexus non avesse con il suo lavoro scontato il debito,
oppure un terzo o lo stesso nexus non avessero, col pagamento, direttamente
soddisfatto il C. Per liberare il nexus era in ogni caso necessaria la solutio per aes et
libram, cui il C. soddisfatto non avrebbe potuto sottrarsi in virtù di quella fides che
avrebbe dovuto garantire i nexi contro gli abusi di coloro a cui erano soggetti. Come si
vede, quello che si andava a costituire sui nexi era un potere diretto e immediato su
una persona.
Praedes e vades: le figure più antiche tra quelle a noi note di garanti.
A)praedes: nei rapporti tra privati a loro si ricorreva nella legis actio sacramenti in rem,
per garantire che la parte a cui il pretore avesse assegnato provvisoriamente il
possesso della cosa controversa la restituisse all’avversario (insieme
con i frutti) in caso di soccombenza.
B)vades: si faceva ricorso per garantire la ricomparsa in giudizio della parte convenuta
quando l’udienza era rinviata ad altro giorno. Si faceva ricorso pure nelle legis
actiones.
Sembra che le formalità per l’assunzione della garanzia, nell’un caso e nell’altro,
fossero verbali, secondo lo schema di domanda e congrua risposta positiva. Sorgeva
in tal modo un’aspettativa dell’interrogante ad un certo risultato.
Ma non era dai praedes o dai vades che il C. attendeva il comportamento idoneo al
risultato ma dall’avversario in giudizio, il quale doveva restituire la cosa controversa
(insieme con i frutti) oppure ricomparire in tribunale nel giorno stabilito. Quindi praedes
e vades garantivano in realtà il fatto di un terzo. Di fronte a un C. nel quale nasceva
un’aspettativa a una prestazione, stavano distintamente un D. e uno o più responsabili
(vades/praedes). Ed era contro questi ultimi che il C. si rivolgeva in caso di
inadempimento: debito e responsabilità facevano capo a persone diverse.
Sponsio: il negozio più antico che dava luogo a un rapporto nel quale è possibile
scorgere la struttura dell’obligatio
classica è la sponsio. Ad essa partecipavano interrogante e promittente. Quest
ultimo restava vincolato alla promessa, e quindi a una prestazione futura, ed era egli
stesso responsabile in caso di mancato adempimento.
Evoluzione: la stessa struttura del rapporto che nasceva dalla sponsio si andò a poco
a poco estendendo ad altri rapporti, pure essi da atto lecito. Si parlò a riguardo di
obligatio, nel significato tecnico che sappiamo. Il fenomeno interessò poi gli atti
illeciti, onde la pena pecuniaria, sorta come riscatto per liberare l’offensore
dall’assoggettamento all’offeso, fu configurata alla stregua di contenuto di una
prestazione alla quale era tenuto l’autore dell’illecito (C) in favore della vittima
dell’illecito (C). Quanto alla responsabilità: agli inizi l’esecuzione per debiti si
effettuava per mezzo della legis actio per manus iniectionem, il responsabile era
esposto al rischio dell’assoggettamento personale al potere del C. Venute meno le
legis actiones, l’esecuzione rimase e con essa il rischio dell’addictio del D. Non solo
però gli addicti furono trattati con minore rigore, ma si affermò, ad opera del pretore,
un nuovo modo di agire in via esecutiva per cui, in alternativa all’esecuzione personale,
il C. avrebbe potuto procedere a esecuzione patrimoniale; così lo stato di soggezione
conseguente a responsabilità avrebbe potuto comportare assoggettamento alla
potestà del C. e non più della persona ma del patrimonio del D. Con l’andare del
tempo all’esecuzione personale si dovette fare ricorso solo contro D. del tutto privi di
mezzi. Così facendo l’obligatio venne concepita come vincolo relativo solo al
patrimonio del debitore.

24.OBBLIGAZIONI CIVILI E ONORARIE


Per indicare il vincolo giuridico che nasceva dalla sponsio si parlò da subito di
oportere. A differenza che per i diritti reali (punto di vista dell’attore che affermava per
sé un proprio diritto) il punto di vista adottato qui è del convenuto-D gravato da un
obbligo nei confronti dell’avversario-C. L’oportere non era qualificato ex iure Quiritium,
questo era segno della più recente origine dell’obligatio rispetto alla proprietà. Va
comunque sottolineato che l’oportere delle azioni in personam denotava comunque
l’esistenza di un vincolo di ius civile. La qualifica di ‘obligatio’ fu in un primo tempo
riservata ai rapporti sottostanti alle azioni in personam in ius. Solo in età classica dal
terminologia e il regime proprio delle obligationes furono estesi ai rapporti di diritto
onorario.

23.LE OBBLIGAZIONI NATURALI


A ogni obligatio corrispondeva un’actio in personam. Ma i classici parlarono di
obligationes anche con riferimento a rapporti non sanzionati da azioni: le obligationes
naturales. Si trattava di obbligazioni tali più in punto di fatto che in punto di diritto;
quindi le obbligazioni vere e proprie, quando occorreva contrapporle a quelle naturali,
furono dette civili: non perché fondate sul ius civile anziché sul diritto
onorario, ma perché sanzionate da actiones. Il difetto di azione, per cui il D. non
avrebbe potuto essere costretto all’adempimento, era il non effetto dell’obbligazione
naturale. L’effetto primo era la soluti retentio, per cui il C. avrebbe potuto trattenere
quanto adempiuto spontaneamente: contro di lui, pertanto, non sarebbe stata
proponibile la condictio indebiti. All’obbligazione naturale si riconobbero altri effetti
come: poteva essere oggetto di novazione, era valutabile ai fini della compensazione,
potevano essere costituite garanzie reali e personali per essa. Le prime obbligazioni
naturali identificate furono in relazione i debiti da atto lecito assunti dagli schiavi in
favore di persone diversa dal padrone, purché lo schiavo fosse intellettualmente
capace e con un negozio valido di efficace; nel corso dell’età classica si fece rientrare
anche le obbligazioni assunte dal pupillo senza l’autorità del tutore.

26.I POSSIBILI CONTENUTI DELLA PRESTAZIONE


Per sapere questi contenuti si deve prendere le mosse dalle formule delle azioni in
personam in ius. In esse, quale oggetto dell’oportere che l’attore pretendeva gravare
sul convenuto, era indicato: “dare oportere”, “dare facere oportere” e “praestare
oportere”. Quindi i possibili contenuti della prestazione erano: dare, fare e praestare.
1. dare oportere: significava trasferire la proprietà o costituire altro diritto reale. Non
bastava che il D. tenuto a dare rem ne facesse mancipatio, in iure cessio o traditio ma
occorreva che, in virtù di questi atti, il C. acquistasse la proprietà (non bastava l’atto,
era necessario l’effetto). Peraltro, ai fini dell’adempimento dell’obbligazione di dare, si
richiese che il C. oltre alla proprietà acquistasse anche il possesso della cosa a lui
dovuta.
2. facere oportere: era più ampio come concetto. Comprendeva ogni comportamento
diverso dal ‘dare’. Vi rientrava anche il non facere e poteva trattarsi sia di un’attività
materiale sia del compimento di un negozio giuridico
3. praestare oportere: da questo termine derivano i termini tecnico-giuridici prestare e
prestazione, si riscontra un significato generico in relazione ad ogni possibile
prestazione.

27.I REQUISITI DELLA PRESTAZIONE


La prestazione doveva avere carattere patrimoniale, il C. doveva avervi interesse, il D.
non poteva essere tenuto per il fatto altrui, la prestazione doveva essere possibile,
lecita, determinata o determinabile.
-Carattere patrimoniale: la prestazione doveva essere suscettibile di essere valutata
in denaro. Il principio non è originario: la più antica obligatio aveva carattere
personale. Quindi per l’affermazione del principio di patrimonialità dovette essere
determinante l’impiego del processo formulare.
-Le stipulazioni penali: l’ostacolo poteva essere aggirato con il ricorso a una
stipulazione penale, una stipulatio con la quale una parte prometteva all’altra di
pagare una certa somma di denaro (poena) per l’eventualità che la prestazione non
venisse effettuata come e quando convenuto. La poena era una pena convenzionale,
stabilita preliminarmente, d’accordo tra le parti. Aveva la sua fonte nella stipulatio, ed
era pertanto di natura assai diversa rispetto alla pena delle azioni penale (che avevano
fonte in atti illeciti).
-Il creditore doveva avere interesse alla prestazione: affinché nascesse
obbligazione non bastava che la prestazione fosse suscettibile di valutazione
pecuniaria, si richiedeva anche che il C. vi avesse interesse. Importante ricordare il
divieto di contratti in favore di terzi: il divieto di stipulatio in cui il D. promettesse di
compiere una prestazione in favore di un terzo estraneo al negozio. Tale divieto non
solo comportava che il terzo non avesse azione per l’adempimento ma comportava
anche che lo stesso stipulante non ne avesse azione. Tizio interroga: “prometti di darmi
100 se entro l’anno non darai 100 a Sempronio?” Caio risp. “prometto”) si eludeva il
divieto di stipulationes in favore di terzi. Il resto era una condizione. -Promessa del
fatto altrui: è da porre in relazione al criterio per cui debito e responsabilità
dovevano fare capo alla stessa persona. Fu negata l’efficacia dei contratti in favore
di terzi e l’invalidità dell’assunzione dell’impegno con un terzo estraneo al negozio
tenesse un determinato atteggiamento. Il principio che si affermò fu che la prestazione
dovesse avere ad oggetto un comportamento proprio del debitore. Anche questo
principio poteva essere neutralizzato con una stipulazione penale, per cui una parte si
faceva promettere dall’altro una somma determinata di denaro se le sue aspettative
fossero andate deluse.
-Possibilità: la prestazione doveva essere possibile; infatti era nullo il negozio
giuridico che ponesse a carico del D. una prestazione rivelatasi impossibile. Non ci si
riferiva a impossibilità sopravvenuta ma a impossibilità iniziale. La prestazione
poteva essere impossibile materialmente (consegnare edificio già distrutto) o
giuridicamente (trasferire proprietà di un uomo libero). Il principio per cui si negava
valore ad un’obbligazione con prestazioni impossibili faceva riferimento l’impossibilità
assoluta, non relativa.
-Liceità: doveva essere lecito, pena nullità. Non era lecita la prestazione contraria al
diritto oggettivo o al buon costume.
-Determinabilità: la prestazione doveva essere determinata o determinabile. Poteva
essere determinabile anche con rinvio a elementi esterni rispetto al negozio che si
compiva (es.: in una compravendita le parti convenivano che il prezzo fosse uguale a
quello suo tempo pagato dal venditore per l’acquisto).
-Ab heredis persona obligatio incipere non potest : era nulla la stipulatio per la
quale il promittente assumesse l’impegno di adempiere all’erede dello stipulante, o
dopo la morte dello stipulante, o dello stesso promittente. I giuristi classici però
proposero accorgimenti che, senza negarlo, praticamente lo eludevano; si fece così
ricorso alla figura dell’adstipulator. Per esempio si ritiene valida una stipulatio per la
quale il promettente avrebbe adempiuto in punto di morte (mandato post mortem= il
mandatario accetta di costruire un monumento funebre al mandante questi dal denaro
per le spese).

28.LE OBBLIGAZIONI INDIVISIBILI


La prestazione può essere in sé suscettibile di essere frazionata in più prestazioni
omogenee o può non esserlo. Si parla nel primo caso di prestazioni divisibili, nel
secondo indivisibili. Erano in regola divisibili le obbligazioni di dare. In merito ad esse
occorre precisare che esse erano divisibili non solo quando la prestazione aveva ad
oggetto denaro o altre cose fungibili, ma anche quando aveva ad oggetto una cosa
individuata nella specie. L’ obbligazione di dare sarebbe stata indivisibile solo se
fosse stata indivisibile non tanto la res quanto il diritto che era oggetto della
prestazione: erano quindi indivisibili le obbligazioni di costruire una servitù o di
costruire il diritto reale di usus. Erano sempre indivisibili le obbligazioni di fare. Va da
sé che le obbligazioni indivisibili non potevano essere adempiute parzialmente,
cosicché si applicò il regime delle obbligazioni solidali elettive.

29.LE OBBLIGAZIONI ALTERNATIVE


Ad ogni obligatio corrispondeva solitamente una sola prestazione. Le obbligazioni
alternative erano obbligazioni con due o più prestazioni, in cui il D. era liberato con
l’adempimento di una(es. di stipulatio: “prometti di darmi il servo Stico o 10”,
“prometto”, nasceva una obbligazione con due prestazioni, ciascuna alternativa rispetto
all’altra). La scelta (electio) tra le due prestazioni spettava di regola al debitore.
Spettava al C. solo se ciò risultava espresso dall’atto costitutivo dell’obbligazione. La
scelta poteva essere cambiata sino al momento dell’adempimento se spettava al D.,
non oltre il momento dell’esercizio dell’azione contro il D. inadempiente se spettava al
C. Con l’impossibilità di una delle prestazioni, l’obbligazione alternativa cessava
solitamente di essere tale, e il D. era tenuto ad adempiere la prestazione ancora
possibile. Faceva eccezione il caso in cui, spettando la scelta al C., l’impossibilità
sopravvenuta della prestazione fosse imputabile al D.: il C. avrebbe potuto allora
scegliere tra la prestazione possibile e la stima di quella divenuta impossibile.

30.LE OBBLIGAZIONI GENERICHE


La prestazione poteva avere ad oggetto sia cose individuabili per l’appartenenza a
una categoria (obbl. generiche) sia cose determinate nella specie (obbl. specifiche).
Erano solitamente generiche le obbligazioni in cui la prestazione avesse avuto ad
oggetto cose fungibili. Potevano nascere sia da stipulatio sia da legato per
damnationem. Era tuttavia necessario (pena: nullità stipulatio o legato) che l’oggetto
della prestazione fosse indicato con ragionevole determinatezza; talchè, sarebbero
stati nulli stipulatio e legato di dare un fondo o un servo. Meglio se oltre il genere di
appartenenza e la quantità si precisava la qualità (es. 10 ettolitri di vino ‘falerno’). Il
genus dedotto nell’obbligazione poteva essere più o meno ampio, più o meno limitato.
Se si pone un genus limitato appare più evidente la somiglianza con le obbligazioni
alternative; però nelle obbligazioni generiche, a differenza delle alternative, l’obblig. era
una sola. Per certi aspetti tuttavia il regime era uguale: così per quanto riguarda la
facoltà di scelta, di regola riservata al D. con ius variandi sino al momento
dell’adempimento. Quanto alla res su cui esercitare la scelta, non vi furono dapprima
limitazioni: il D., se il genus comprendeva cose di varia qualità, poteva scegliere le
peggiori; il C., quando a lui eccezionalmente spettava la scelta, poteva pretendere le
migliori. Successivamente, si andò però facendo strada il principio per cui la scelta
doveva orientarsi sulle cose di media qualità. Infine caratteristica propria delle
obbligazioni generiche è che la prestazione non può divenire impossibile per
perimento della cosa, perché il genus non può perire.

31.LA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE


Il creditore che non adempie la prestazione, se l’inadempimento è a lui imputabile,
incorre in responsabilità contrattuale.
L’impossibilità sopravvenuta della prestazione: l’inadempimento poteva dipendere
da impossibilità sopravvenuta della prestazione. Il D. ne era responsabile se
l’impossibilità fosse stata a lui imputabile.
Il “factum debitoris”: nelle obbligazioni di dare cose determinate sanzionate da azioni
in ius di stretto diritto, il D. rispondeva dell’impossibilità sopravvenuta della
prestazione se essa fosse stata conseguente a un suo comportamento positivo e
cosciente (non importa se voluto o non).
La custodia: quando il D. teneva a proprio vantaggio una cosa altrui, che avrebbe
dovuto restituire, il D. rispondeva per custodia. Il D. era liberato solo se la cosa periva,
o comunque la prestazione diventava impossibile, per caso fortuito o forza
maggiore, in dipendenza di eventi che sfuggivano a ogni sua possibilità di
controllo. In ogni altra ipotesi egli sarebbe stato responsabile: quindi anche se
l’oggetto dovuto gli fosse stato rubato.
Il dolo: il depositario invece rispondeva non per custodia (sebbene dovesse custodire
la cosa) ma solo per dolo, perché era a vantaggio del deponente che egli teneva la
cosa depositata. Il dolo in questo caso non era l’inganno e neppure il comportamento
iniquo. In questa materia per dolo si intese la volontarietà del comportamento, e
insieme la volontarietà dell’evento dannoso da esso provocato. Quindi commetteva
dolo il depositario che volontariamente avesse provocato il perimento della cosa
depositata, ad es. se avesse ucciso il servo che gli era stato affidato).
Il dolo e la colpa: il grado di responsabilità del D. fu limitato al dolo e alla colpa, che è
un comportamento negligente o imprudente. Ci sono gradazioni di culpa diverse:
A)culpa lata: è la colpa grave, nella quale incorre il D. che non intende quel che tutti
intendono e che, quanto agli effetti, viene equiparata al dolo.
B)culpa levis: consiste nel non adoperare la diligentia propria dell’uomo medio.
Viene anche detta ‘culpa in abstracto’, contrapposta alla culpa in concreto.
C)culpa in concreto: è quella di chi non cura le cose altrui come le proprie: al D. si
rimprovera, in altre parole, di non impiegare la diligenza che adopera nelle cose
proprie.
In età classica prende avvio un ulteriore processo evolutivo, che sarà portato a
compimento nel diritto postclassico e giustinianeo; per cui, a quello della culpa,
finiscono per essere assimilati i criteri del factum debitoris e della custodia. Si
pervenne a un regime di responsabilità tutto ancorato, in via di principio, sul dolo e
sulla colpa.
Esonero, limitazione e aggravamento della responsabilità: ai criteri di imputazione
dell’inadempimento (dei quali s’è detto) si poteva, nelle obbligazioni da contratto,
derogare con patto contrario. Così diventava possibile estendere a forza maggiore la
responsabilità di ogni debitore. Sarebbe stato nullo però il patto che esonerasse il D.
dal dolo.
Il periculum: il rischio dipendente da un evento pregiudizievole per taluno e non
imputabile a nessuno è detto periculum. Esso era solitamente a carico del C., non
importa se proprietario o non della cosa perita. Nei contratti bilaterali se
l’obbligazione veniva spinta da una parte, l’altra doveva adempiere alla propria
prestazione.
La perpetuatio obligationis: il fatto che il D. fosse ritenuto responsabile
dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione comportava che, contro di lui, il C.
avrebbe potuto esercitare ancora l’azione propria del rapporto tra le parti, la stessa
esperibile se la prestazione fosse stata ancora possibile. Ciò fu possibile con la
perpetuatio obligationis: divenuta impossibile la prestazione per causa imputabile al
D, l’obbligazione, lungi dall’estinguersi, si perpetua.

32.LA MORA
È il ritardo colpevole nell’adempimento della prestazione. Poteva essere
imputabile o al D. o al C.
La mora del debitore(mora solvendi): il D. cadeva in mora quando, consapevolmente
e senza alcuna giustificazione, non adempiva al proprio debito. Affinché questa
consapevolezza fosse evidente, si diffuse la prassi di invitare il D. ad adempiere, che fu
chiamata interpellatio. Il D. sarebbe caduto in mora dal momento della interpellatio,
essa si ritenne superflua con:
a. Obbligazioni con termine iniziale previsto nel negozio costitutivo
dell’obbligazione;
b. Obbligazioni nascenti da furto.
La posizione del D. in mora era più gravosa rispetto a quella di ogni altro D.: esso
moroso era infatti responsabile per l’impossibilità sopravvenuta della prestazione
qualunque ne fosse stata la causa. Il periculum sarebbe stato in ogni caso a suo
carico. Anche in proposito si fece ricorso al principio della perpetuatio obligationis: se il
D. è in mora, una volta divenuta per qualsiasi motivo impossibile la prestazione,
l’obbligazione si perpetua. Si ammise però talvolta (nei iudicia bonae fidei) che il D.
moroso fosse liberato se avesse provato che, eseguita tempestivamente la
prestazione, la cosa sarebbe perita ugualmente. Altro principio (nell’ambito dei
giudizi di buona fede) è quello per cui il D. moroso deve corrispondere al C. anche i
frutti della cosa dovuta dal momento in cui sia caduto in mora; o, nel caso dei debiti
pecuniari, gli interessi. Le conseguenze della mora del D. venivano meno una volta
che lo stesso D. avesse purgato la mora offrendo di eseguire la prestazione.
La mora del creditore (mora solvendi): cadeva in mora il C. che rifiutasse la
prestazione che il D. gli offriva. Con la mora del C., il D., divenuta impossibile la
prestazione, sarebbe stato in ogni caso responsabile per dolo soltanto. Per le
obbligazioni pecuniarie si stabilì ulteriormente che, se il D. avesse avuto cura di
depositare in luogo pubblico la pecunia e dopo averla obsignata, sarebbe cessato il
corso di eventuali interessi. Successivamente si andò anche oltre, e si dispose che il
D., nelle stesse circostanze, sarebbe stato liberato dal suo debito. A parte ciò, la
mora cessava una volta che il C. concretamente manifestasse disponibilità a ricevere
prestazione.

33.LE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI


Nei testi giuridici si parla di ‘causae’, lì dove il termine causa è adoperato nel
significato di ‘fonte’ accanto a ‘ragione’ (ragion d’essere obiettiva), ‘funzione’. Le fonti
di obbligazioni nel diritto romano erano tipiche, così come erano tipiche le azioni che
le sanzionavano. I giuristi romani le raggrupparono in categorie. Le obbligazioni si
distinguono a seconda che derivino da contratto, si intesero atti leciti con effetti
obbligatori ma con significato più ristretto, per cui si dicono contratti non tutti gli atti
leciti obbligatori, ma solo i negozi giuridici almeno bilaterali nei quali sia dato
ravvisare tra le parti un accordo volto a far nascere l’obbligazione; o da delitto, atti
illeciti sanzionati da azioni penali.

34.I CONTRATTI
Essi sono negozi giuridici bilaterali con effetti obbligatori, produttivi dell’obbligazione,
o delle obbligazioni concordemente volute dalle parti.
Tipicità: i contratti erano tipici, tipiche essendo le fonti delle obbligazioni perché erano
tipiche le azioni (in personam) che le sanzionavano; erano quindi di numero chiuso,
ognuno con proprio regime giuridico, ognuno con actio o actiones proprie.
Ma esistevano anche correttivi: si pensi alla stipulatio, anch’essa contratto, in cui la
tipicità stava nella forma e non nei contenuti (che potevano essere i più diversi ed
eterogenei).
Effetti obbligatori: I contratti del diritto romano avevano effetti soltanto obbligatori.
Effetti reali si riconoscevano ad altri negozi giuridici bilaterali come: mancipatio e
traditio, che mai furono qualificati come contratti.
Contratti unilaterali e bilaterali: si ha riguardo al momento formativo dell’atto, che
richiede la partecipazione di due o più parti. Dal punto di vista degli effetti i contratti, in
ogni caso negozi giuridici bilaterali, si distinguono a loro volta in contratti unilaterali,
quali sorgono obbligazioni a carico di una sola parte; e bilaterali, quelli da cui sorgono
obbligazioni a carico di ambedue le parti. Categoria intermedia è quella dei contratti
bilaterali imperfetti, nei quali ad essere obbligata è in ogni caso una sola parte, ma
eventualmente può nascere obbligazione anche a carico dell’altra (deposito e
comodato). In merito ai contratti di compravendita e locazione si deve notare il
carattere bilaterale, per cui ciascuna parte era al contempo creditrice e debitrice
dell’altra. Trattandosi di negozi sanzionati da azioni di buona fede, si afferma il
principio della interdipendenza delle prestazioni: quindi una parte non avrebbe
potuto pretendere dall’altra l’adempimento se non avesse a sua volta adempiuto, o non
fosse stata almeno pronta ad adempiere (contratti sinallagmatici). Un caso a sé e
quello della società, negozio e contratto bilaterale perché due erano le parti e con
obbligazioni reciproche; ma talvolta, negozio e contratto plurilaterale, perché vi
convergevano più di due manifestazioni di volontà, con obbligazioni a favore e a carico
di tutte.
Contratti consensuali: in questi l’obbligazione si contrae in virtù del consenso:
questo vuol dire che il consenso, comunque manifestato, non solo era necessario
(come in tutti i contratti) ma era anche sufficiente. Essi, finché non avesse avuto inizio
l’esecuzione, si potevano sciogliere per muto dissenso. I giuristi romani vi
annovereranno compravendita, locazione, società, mandato, tutti sanzionati azioni di
buona fede.
Contratti reali: in questi l’obbligazione si contrae in virtù della consegna della cosa.
Gli effetti obbligatori si producevano, pertanto, per effetto della consegna di una cosa e
a partire da quel momento. Il consenso non mancava ma era come incorporato nella
consegna, e con la consegna si manifestava. La consegna poteva essere una traditio
(mutuo e pegno). Nel deposito e nel comodato depositario e comodatario, con la
consegna, diventavano solo detentori.
Contratti verbali e letterali:
A)contratto verbale: quello per eccellenza fu la stipulatio. Nei contratti verbali
l’obbligazione nasceva per effetto della pronunzia di parole determinate;
B)contratti letterali: l’obbligazione nasceva con la materiale registrazione per
iscritto di certe operazioni contabili.
Il consenso non mancava, solo che era espresso mediante verba o scriptura.

34.1.IL MUTUO
È definito un contratto reale unilaterale, per cui una parte, detta mutuante, consegna
all’altra, detto mutuatario, una somma di denaro o un’altra cosa fungibile con
l’impegno del mutuatario di restituire al mutuante altrettanto dello stesso genere. Il
mutuo era un negozio causale che realizzava un prestito di consumo. Con la
consegna (traditio) il mutuatario acquistava la proprietà del denaro o delle altre cose
che gli venivano consegnate (che erano res nel mancipi): si trattava quindi di una
datio. Ne nasceva un’obbligazione soltanto, a carico del mutuatario, che avrebbe
dovuto restituire l’equivalente di quanto ricevuto, e per ciò compiere egli stesso una
datio traditio. Quale proprietario del denaro o di quant’altro avuto in prestito, il
mutuatario, avrebbe potuto disporne liberamente; e il rischio sarebbe stato a suo
carico. Per la restituzione, per cui si pattuiva un termine, il mutuante avrebbe agito
con la condictio, che era l’azione per la restituzione del dato e aveva sia applicazioni
contrattuali che extracontrattuali, quella per il mutuo era un’applicazione
contrattuale. La condictio quando aveva ad oggetto una somma di denaro era detta
‘actio certae creditae pecuniae’; se l’oggetto era diverso, era detta ‘condictio certae rei’.
Essa era una azione di stretto diritto in personam e in ius. La formula era senza
demonstratio (astratta). Nell’intentio vi era dedotto un ‘dare oportere’ a carico del
convenuto.
Il mutuo era pertanto un istituto del ius civile, era però riconosciuto e tutelato anche
nei confronti dei peregrini. Il D. era tenuto a restituire l’equivalente di quanto ricevuto,
nulla di più; non era tenuto pertanto al pagamento di interessi. Per gli interessi, se
voluti, si faceva ricorso a una distinta stipulatio; numerose leggi si preoccuparono di
stabilire un limite massimo agli interessi, pena la nullità della parte eccedente.
Fenus nauticum: può essere considerato una specie particolare di mutuo; un prestito
marittimo: riguardava somme di denaro date in prestito x operazioni commerciali
d’oltre mare con tassi di interesse elevati (consentiti anche se al di sopra dei limiti
legali perché se il denaro trasportato periva durante il viaggio il rischio del perimento
era a carico del mutuante, e il D. era liberato).

34.2.IL DEPOSITO
Era un contratto reale bilaterale imperfetto, per cui una parte (deponente)
consegnava all’altra (depositario) una cosa mobile con l’intesa che il depositario la
custodisse gratuitamente e la restituisse al deponente a semplice richiesta.
Con la consegna il depositario acquistava la detenzione della cosa depositata, però
non avrebbe potuto usarla: avrebbe altrimenti commesso ‘furtum usus’; per il
perimento o deterioramento egli era responsabile per dolo, e anche per culpa lata. A
sua volta il deponente era tenuto a rimborsare al depositario le eventuali spese
necessarie che questi avesse erogato su quanto depositato, e a risarcirgli i danni che
la cosa gli avesse procurato (da qui qualifica di bilaterale imperfetto).
Al depositario non era dovuto nulla per la custodia: il contratto era per sua essenza
gratuito. La pattuizione di un compenso avrebbe snaturato il rapporto facendolo
rientrare nella locatio operis. La tutela giudiziaria che si stabilì tra la fine dell’età
repubblicana e l’inizi di quella classica era doppia, pretoria e civile.
Il sequestro: era un tipo speciale di deposito. Vi si faceva ricorso quando
sull’appartenenza della cosa vi era controversia tra due o più persone e queste
preferivano affidarla a un terzo, il sequestratario, perché la custodisse, con l’intesa
che l’avrebbe restituita a quello tra i deponenti che ne fosse stato riconosciuto
proprietario. Il sequestro differiva quindi dal vero deposito perché la restituzione
andava fatta a uno soltanto dei deponenti, e solo dopo che si fosse verificata la
condizione prevista (che uno dei deponenti fosse stato riconosciuto dominus). Il
regime era anche diverso perché il sequestratario, anziché la semplice detenzione,
acquistava la possessio ad interdicta. Però il sequestratario, per le spese e i danni,
godeva della stessa tutela del depositario.
Il deposito irregolare: talune fonti considerano deposito anche l’affidamento ad altri di
denaro contante, che l’accipiente, divenutone proprietario, avrebbe potuto mescolare
con il proprio e utilizzare. A richiesta, avrebbe dovuto restituire l’equivalente (tipo
deposito bancario). Poteva però assomigliare al mutuo anche se la differenza stava
che nel deposito irregolare l’iniziativa era del deponente, che desiderava che sul
denaro venisse custodito.

34.3.IL COMODATO
Era un contratto reale e bilaterale imperfetto, una parte (comodante) consegnava
all’altra (comodatario) una cosa mobile con l’impegno del comodatario di restituire la
stessa cosa; eppure il comodatario acquistava nient’altro che la detenzione della
cosa ricevuta in comodato. Solo che il comodato era un prestito d’uso gratuito
nell’interesse del comodatario: questo poteva usare la cosa comodata e non doveva
per l’uso alcun compenso (se fosse intervenuto compenso il rapporto sarebbe rientrato
nella locatio rei). Poiché il contratto era tutto a vantaggio del comodatario, questo,
perita o deteriorata la cosa, rispondeva per custodia, criterio di resp. rigoroso. Al
comodatario (come al deposit.) erano dovuti rimborso per eventuali spese erogate
sulla cosa e risarcimento per eventuali danni che la cosa gli avesse procurato. Anche
il comodato (come il deposito) ebbe tutela pretoria e tutela civilistica, con in favore
del comodante per la restituizione della cosa; azione contraria in favore del
comodatario per eventuali spese e danni.

34.4.IL PEGNO
Era un contratto reale bilaterale imperfetto, per cui taluno (oppignorante) a garanzia
di un debito consegna al C. una cosa con l’intesa che, estinto il debito, la stessa cosa
gli venga restituita. Il C. pignoratizio acquista sulla cosa la possessio ad interdicta,
ma non può utilizzarla. Per perimento o deterioramento risponde per custodia. Anche
al C. pignoratizio era dovuto il rimborso di eventuali spese necessarie e danni. Il
regime usato fu l’actio diretta per chi, avendo ricevuto una cosa in pegno a garanzia
di un proprio credito, una volta estinto il credito non l’avesse restituita.

34.5.LA FIDUCIA
La tutela processuale di deposito, comodato e pegno risale all’ultima età repubblicana.
In precedenza, il risultato pratico di questi negozi si conseguiva con il ricorso alla
fiducia. Una parte, il fiduciante, trasferiva all’altra, il fiduciario, la proprietà di una
cosa (res mancipi) mediante mancipatio o in iure cessio. Ciò con il patto che, verificate
certe condizioni, la stessa cosa sarebbe stata ritrasferita in proprietà al fiduciante: il
pactum fiduciae. Se e quando la cosa dovesse tornare in proprietà al fiduciante
dipendeva dalla causa negoziale per cui alla fiducia si era fatto ricorso (negozio
fiduciario). La fiducia poteva essere: cum creditore, dove il passaggio di proprietà era
a garanzia di un credito del fiduciario sicché sarebbe stato dopo l’avvenuta estinzione
del debito che il C. fiduciario avrebbe dovuto ritrasferire al fiduciante la proprietà della
res fiduciae data; cum amico, la causa poteva essere la custodia (come nel
deposito), forse anche un prestito d’uso (come nel comodato): il fiduciario avrebbe
pertanto ritrasferito la proprietà all’altra parte a semplice richiesta.
Il fiduciante, poiché mancipatio e in iure cessio di immobili non comportavano di per sé
passaggio del possesso, avrebbe potuto, nella fiducia cum creditore, trattenere il
possesso: avrebbe allora riacquistato la proprietà per effetto di usureceptio (si
compiva con il decorso 1 anno a prescindere a iusta causa). Il fiduciario evitava
usureceptio se lasciava la cosa all’altra parte a titolo di locazione o precario.
Al fiduciante non possessore dapprima bastava, ai fini della restituzione, fare
affidamento sul vincolo che nasceva dalla fides. Con il processo formulare al fiduciante
si diede un’actio fiduciae per il riacquisto di proprietà e possesso.
L’azione era in personam, reipersecutoria e infamante e la formula faceva riferimento a
criteri di lealtà e correttezza. Il grado di responsabilità del convenuto fu esteso alla
culpa. Il fiduciario avrebbe potuto far valere con exceptio doli e eventuale retentio le
proprie contropretese per spese necessarie e danni.

34.6.I CONTRATTI VERBALI. LA STIPULATIO.


Tra i contratti verbali figurava la stipulatio. Di essa conosciamo già la struttura
essenziale fatta di interrogazione e congrua risposta. La stipulatio, per il carattere
astratto e la struttura estremamente agile (anche se formale), si è prestata ad
innumerevoli applicazioni, sia nel campo processuale, sia fuori di esso. Essa era un
contratto in cui il consenso doveva essere espresso verbis, secondo lo schema che
conosciamo di interrogazione dello stipulante e di risposta del promittente, e in cui il
promittente assumeva l’impegno di compiere la prestazione indicata
dall’interrogante. Si trattava di contratto astratto e unilaterale, perché da essa
nasceva obbligazione solo a carico
del promittente. Va da sé che era necessaria la contemporanea presenza delle due
parti. E la risposta doveva seguire alla domanda entro un tempo ragionevolmente
breve. Dapprima la stipulatio doveva produrre i suoi effetti obbligatori sol che le
formalità orali fossero state compiute; ma relativamente presto per quanto riguarda
l’errore, durante l’età classica in termini generali, si affermò il principio della nullità
anche della stipulatio cui facesse difetto il consenso. Prototipo della stipulatio fu la
sponsio, ed è in essa che va individuata la più antica fonte di obligatio. La sponsio era
riservata ai cives, era di ius civile solo per gli effetti, di ius gentium quanto alla
fruibilità.
Adiectus solutionis causa: i soggetti della stipulatio erano interrogante e
promittente: il promittente doveva adempiere allo stipulante. Ma l’interrogazione
poteva essere formulata in modo che l’altro promettesse di adempiere o allo stipulante
o a un terzo. Il terzo in tal caso sarebbe stato un adiectus solutionis causa, aggiunto
ai fini dell’adempimento, sicché il promittente avrebbe potuto adempiere
indifferentemente, e in ogni caso validamente, o allo stipulante o all’adiectus. Ma
quest’ultimo non era C., non avrebbe avuto pertanto azione contro il D. inadempiente;
avrebbe potuto solo esigere la prestazione se il promittente si fosse rivolto a lui per
l’adempimento.
Adstipulator: era un secondo stipulante che, avendone avuto incarico dal primo, vi si
affiancava rivolgendo pure lui al promissor invito a compiere in suo favore la stessa
prestazione promessa all’altro (prometti di darmi la stessa cosa?). Con la risposta
positiva del promittente si dava luogo a due stipulationes, con uguale oggetto e due
distinti C., ognuno dei quali era legittimato ad agire ex stipulatu. Solo che, per il
fenomeno della solidarietà il promittente era liberato con una prestazione soltanto: in
favore dell’uno o dell’altro dei C.Quest’uno era utile se il C. moriva prima.
Adpromissor: come allo stipulante poteva affiancarsi un adstipulator, così al
promittente potevano affiancarsi uno o più adpromissores, che promettevano di
prestare quanto già promesso allo stesso stipulante da altro promittente. Nascevano
così più stipulationes, con uguale oggetto e più D. con funzioni di garanzia.
Actio ex stipulatu: l’azione dello stipulante contro il D. inadempiente era l’actio ex
stipulatu. Nel processo formulare questa actio aveva formule diverse a seconda che la
stipulatio fosse di dare o facere: nel primo caso l’azione era con intentio certa e la
formula era come quella della condictio; nel secondo caso la formula era con
demonstratio e intentio incerta.
L’evoluzione postclassica: le formalità della stipulatio erano verbali ma, sin dall’ultima
età repubblicana, si uso attestarne il compimento in documenti scritti: questi avevano
un valore solo probatorio, servivano quindi a facilitare la prova sia dell’avvenuta
solennità orale sia dei contenuti.
Dotis dictio e promisso iurata liberti: tra i contratti verbali si annoverano anche la
dotis dictio e la promisso iurata libera. A differenza della stipulatio esse si compivano
utroque loquente, con verba pronunziati da una sola parte, quella che si obbligava.
Esse erano contratti unilaterali.

34.7.I CONTRATTI LETTERALI


L’obbligazione nasceva litteris, per il fatto in sé della scriptura, che presupponeva però
il consenso manifestato tra le parti. Il solo contratto letterale che, riguardò i cittadini
romani fu il nomen transscripticium. L’operazione contabile che lo realizzava poteva
essere:
A)a re personam: il pater familias, già C. di una somma di denaro, d’accordo col
proprio D. registrava nel codex accepti (dove venivano segnate le entrate) quanto
dovutogli come se l’avesse incassato; al contempo segnava nel codex espensi
(venivano segnate le uscite) la stessa somma come se l’avesse data a mutuo allo
stesso D.
Si estingueva così il credito nascente da altro titolo e si costituiva, con la registrazione
nel codex expensi e a carico dello stesso D., una obligatio litteris.
B)transscriptio a persona in personam: il pater familias, avendone avuto delega da
un proprio D., segnava nel codex accepti la somma che quello gli doveva come se
l’avesse incassata, e registrava nel codex expensi la stessa somma come se l’avesse
data a mutuo al terzo. Così si estingueva il debito verso l’uno e nasceva litteris una
obbligazione a carico dell’altro.
Nei due casi aveva luogo una sorta di novazione; non era necessaria la
contemporanea presenza di ambedue le parti.
L’azione che si dava al C. era una condictio: actio certae creditae pecuniae.

334.8.LA COMPRAVENDITA
Nell’età arcaica la funzione della compravendita si realizzava attraverso la mancipatio,
con lo scambio immediato di cosa contro prezzo. Più tardi, per la stessa funzione si
riconobbe validità, ma con effetti solo obbligatori, al mero consenso. La giurisprudenza
rilevò che, nella specie, le obligationes nascevano per effetto del solo consesno e
qualificò ‘contratto’ l’atto con cui questo consenso si manifestava, inquadrandolo poi
tra i contratti consensuali. Pertanto, la compravendita del diritto romano (emptio
venditio) può essere definita come un contratto consensuale in cui una parte
(venditore) si obbliga a fare conseguire all’altra (compratore) il pacifico godimento di
una cosa (merx). E dal canto suo il compratore si obbliga a pagare al venditore un
corrispettivo in denaro (pretium) nella misura convenuta. Ad obbligarsi erano ambedue
le parti: da ciò la qualificazione di contratto bilaterale. Era fruibile da cittadini e
peregrini (ius gentium). Era sanzionata da azioni in ius di buona fede.
Il consenso: doveva essere manifestato, non importa come. Fu solo per esigenze
probatorie che si usò redigere per iscritto un documento che attestasse l’accordo
concluso e le condizioni della vendita. Da età postclassica l’impiego di strumenti
probatori ebbe tale ampia diffusione che, in relazione alla vendita di immobili esso fu
ritenuto necessario. Al consenso così manifestato si attribuì efficacia traslativa del
dominio. Non era raro il ricorso a una caparra, somma di denaro che in età classica
poteva essere versata contestualmente alla conclusione del contratto, col solo valore di
conferma del consenso prestato.
L’oggetto: l’oggetto della vendita era detto merx: più spesso si trattava di cose
corporali (res mancipi e nec mancipi, cose mobili e immobili), ma la vendita poteva
avere ad oggetto anche eredità, superficie, servitù, usufrutto, crediti (cose non
corporali). Era ammessa anche la vendita di cose future, che poteva essere o una
vendita soggetta alla condizione sospensiva che le cose vendute venissero ad
esistenza (emptio rei speratae); o l’emptio spei, una vendita aleatoria, non
condizionata: il compratore avrebbe dovuto comunque pagare il prezzo stabilito
forfetariamente, il venditore non avrebbe potuto esigere di più.
Il prezzo: doveva essere espresso in denaro contante. Solo se il prezzo fosse stato
espresso in denaro sarebbe stato possibile distinguere quale delle due prestazioni
fosse il prezzo e quale la merce, e pertanto quale delle parti fosse il compratore e
quale il venditore. Distinguerlo era necessario perché diverse erano le azioni che
spettavano all’uno e all’altro (actio empti al compratore/ actio venditi al venditore); ed
erano diverse le prestazioni alle quali compratore e venditore erano tenuti (l’uno
doveva trasferire la proprietà delle monete, l’altro solo il pacifico possesso della
merce), e diverse erano le responsabilità. La misura del prezzo era quella
liberamente concordata tra le parti.
Le obbligazioni del compratore: il compratore era tenuto a pagare il prezzo e quindi
fare traditio delle monete sì da farne conseguire al venditore la proprietà. Contro il
compratore inadempiente il venditore avrebbe esercitato l’actio venditi.
Le obbligazioni del venditore: il venditore era tenuto a far conseguire al compratore il
pacifico godimento della merx: ciò comportava che il venditore non era di per sé
obbligato a trasferire al compratore la proprietà della cosa venduta ma a farne
traditio: una traditio che faceva acquistare al compratore il possesso della cosa
libero da persone e cose. Contro il venditore inadempiente al compratore si dava
l’actio empti (buona fede). Se la merce non consegnata contestualmente alla vendita
periva, il compratore rispondeva per custodia. Ma il rischio (periculum) era a carico
del compratore: perita la cosa accidentalmente o per forza maggiore il compratore
sarebbe stato ugualmente tenuto a pagare il prezzo.
L’evizione: il venditore che aveva venduto una cosa non propria non era per questo
in sé responsabile, purché avesse fatto conseguire al compratore il pacifico godimento
della cosa venduta. Una responsabilità del venditore poteva sorgere se il compratore
subiva evizione: il terzo rivendicava con successo, presso il compratore, la cosa
venduta. Il venditore non era tenuto a mancipare la cosa venduta, neppure se si fosse
trattato di res mancipi: avrebbe dovuto solo far acquistare al compratore il possesso
della cosa libero da persone e cose. Ma era prassi frequente che il venditore di res
mancipi, pur non avendone l’obbligo, ne facesse mancipatio. Ecco allora che il
venditore mancipante, in dipendenza della mancipatio, incorreva in responsabilità
per il fatto della minacciata evizione, perché era tenuto a prestare auctoritas: ad
assistere il compratore nel giudizio di rivendica promosso dal terzo.
Contro il mancipante che (debitamente avvisato del giudizio in corso) non avesse
prestato auctoritas o che, essendo intervenuto, non avesse potuto evitare l’evizione, si
dava al mancipio accipiens compratore l’actio auctoritas per il doppio del prezzo.
Ma la mancipatio poteva non avere luogo sicché il compratore poteva garantirsi
facendosi promettere dal venditore (con una stipulatio duplae) il doppio del prezzo in
caso di evizione. In età classica si finì per ritenere conforme alla bona fides che,
almeno in assenza di mancipatio, ogni venditore prestasse la stipulatio duplae. La
conseguenza fu che il venditore, per l’evizione subita dal compratore, poté essere
chiamato a rispondere direttamente con l’actio empti: la responsabilità del venditore
per l’evizione si fece discendere direttamente dal contratto consensuale di
compravendita (a prescindere da mancipatio o stipulatio).
Vizi occulti: vizi o difetti materiali della cosa non manifesti al compratore all’atto della
vendita. Il punto di partenza è che una responsabilità del venditore non discendeva di
per sé dal contratto consensuale di vendita. A parte ciò, il venditore che avesse
promesso con stipulatio che la cosa venduta possedeva certe qualità, o era esente da
certi vizi, sarebbe stato convenibile dal compratore (stipulante) con l’actio ex stipulatu
una volta verificata l’assenza delle qualità promesse o la presenza dei vizi dichiarati
inesistenti. Per il minor valore si ammise il ricorso all’actio empti: in questa maniera la
garanzia del venditore per vizi occulti si fece discendere dal contratto consensuale di
compravendita e ne divenne elemento naturale.
Patti aggiunti: Il regime della vendita poteva essere integrato o derogato mediante
patti aggiunti. In materia di compravendita si trattava di patti risolutivi sospensivamente
condizionati per cui la vendita, nel suo complesso, risultava soggetta a condizione
risolutiva. Quei patti prevedevano che, al verificarsi di una certa condizione, la vendita
dovesse considerarsi non avvenuta.

34.9.LA LOCAZIONE
Era un contratto consensuale bilaterale per cui, con l’esplicita previsione di un
corrispettivo (merces) una parte (locatore) si impegna a mettere a disposizione
dell’altra, per un periodo di tempo limitato e con uno scopo preciso, una cosa mobile o
immobile. E l’altra parte (conduttore) si impegna a prenderla in consegna per poi
restituirla una volta scaduto il termine convenuto o raggiunto lo scopo previsto. Le
obbligazioni reciproche delle parti erano sanzionate dalle actiones locati (a favore del
locatore) e conducti (in favore del conduttore) che erano in ius ex fide bona.
Il tipo di contratto può essere qualificato ius gentium in relazione ai soggetti che ne
fruivano e ius civilis per gli effetti. Si usava distinguere tra i diversi tipi di locatio.
Locatio rei: corrisponde in sostanza alla locazione del nostro codice civile. Poteva
avere ad oggetto cose mobili o immobili. Il locatore assumeva l’obbligo di
consegnare la cosa, che doveva essere idonea all’uso convenuto ed esente da vizi
non dichiarati, e di assicurarne al conduttore il godimento. Il conduttore assumeva
l’obbligo di pagare la mercede (solitamente espressa in denaro) alle scadenze stabilite,
di mantenere la cosa nelle condizioni in cui gli era stata consegnata e di restituirla alla
scadenza. Il conduttore acquistava, anche, la detenzione della cosa (non il possesso),
ed era responsabile per custodia nel caso di perimento o deterioramento della cosa
locata. Per il mancato godimento della cosa dipendente da caso fortuito o forza
maggiore, il locatore non era responsabile, ma il conduttore sarebbe stato liberato
dall’obbligo di pagare la mercede.
Locatio operis: poteva avere ad oggetto cose mobili e immobili. Il locatore si
obbligava a consegnare una cosa; il conduttore a esercitare autonomamente ma
nell’interesse del locatore una certa attività relativamente alla stessa cosa sì da
raggiungere il risultato convenuto, per poi restituirla al locatore. Il conduttore avrebbe
acquistato la detenzione e sarebbe stato responsabile per custodia se la res locata
periva o si deteriorava; per cattiva esecuzione dell’opera lo stesso conduttore
rispondeva per ‘imperitia’ (equiparata alla culpa). Egli invece era liberato per
impossibilità sopravvenuta della prestazione dipendente da caso fortuito o forza
maggiore; nel qual caso il periculum sarebbe stato del locatore, che avrebbe dovuto
ugualmente pagare la mercede.
La lex Rhodia de iactu: un regime particolare di locatio operis si stabilì riguardo alle
merci trasportate per mare. Se per difficoltà della navigazione si era costratti a gettare
in mare parte delle merci locate per il trasporto, secondo i principi il rischio avrebbe
dovuto essere sopportato dai locatori delle merci perdute. Ma il diritto romano recepì
questa lex per cui, nel caso prospettato, il rischio si ripartiva proporzionalmente tra
tutti i locatori delle merci che erano state imbarcate sulla stessa nave (bona fides).
Locatio operarum: un uomo libero assumeva l’impegno di mettere la propria attività
lavorativa (operae) alle dipendenze di altra persona, la quale si obbligava a pagare,
come corrispettivo una certa mercede. Il lavoratore era il locatore, il datore di lavoro il
conduttore. Il periculum era a carico del datore di lavoro, che avrebbe dovuto pagare
la mercede anche se il lavoratore non avesse prestato le opere per cause a lui non
imputabili. Corrisponde in buona sostanza al contratto di lavoro subordinato. Bisogna
specificare che i lavoratori liberi, in età classica, erano pochi e soffrivano di scarsa
considerazione sociale. Tra le attività lavorative prestate nell’interesse di terzi furono
considerate degne di uomini liberi solo le cosiddette artes liberales (avvocati). Esse
non erano prestate in posizione di subordinazione e si esercitavano gratuitamente. Si
potevano offrire però dei donativi che divvenerò una prassi obbligatoria.

34.10.LA SOCIETÀ
Era un contratto consensuale bi/plurilaterale, per cui due o più persone (socii)
convenivano di mettere in comune beni e attività di lavoro al fine di conseguire un
lucro per tutti previa divisione di profitti e perdite. Si trattava di un contratto iuris
gentium e insieme di ius civile perché sanzionato da una azione in ius (actio pro socio
di buona fede). Il grado di responsabilità del socio per inadempimento o cattivo
adempimento era diverso a seconda delle situazioni e circostanze: si rispondeva per
dolo o per colpa, in qualche caso per custodia. Ma il criterio generale appare quello
della culpa in concreto. Il tipo più antico di società fu la societas omnium bonorum
(di tutti i beni), dove i soci convenivano di mettere in comune tutti i loro beni, presenti e
futuri. Ma non dovette tardare il riconoscimento di altri tipi. La società consensuale era
un singolare contratto consensuale perché non solo le parti si obbligavano in forza del
semplice consenso comunque manifestato ma era altresì necessaria la perseveranza
nel consenso (affectio societatis). La società si scioglieva pertanto, oltre che per
reciproco dissenso, anche se uno solo dei soci manifestava la volontà di recedere dal
contratto. Si scioglieva anche per esaurimento dello scopo, per l’impossibilità
sopravvenuta di raggiungerlo, per morte e capitis deminutio anche di un solo dei
soci. Dal contratto di società, sanzionate dall’actio pro socio, nascevano le
obbligazioni. Profitti e perdite andavano divisi in parti uguali se nulla era convenuto in
proposito; diversamente secondo i patti. Un patto per cui un socio partecipasse agli
utili e non alle perdite era valido; era nullo il patto che limitava la partecipazione di
questo o quel socio alle perdite soltanto. Per la fraternitas che si stabiliva tra soci e per
la fiducia reciproca che essa avrebbe dovuto comportare, la condanna nell’actio pro
socio era infamante; ma il convenuto godeva del beneficium cmperentiae, per cui
avrebbe potuto evitare la condanna pagando tempestivamente nei limiti delle sue
possibilità economiche.
La società consensuale romana non dava luogo alla costituzione di un patrimonio
autonomo distinto da quello personale dei singoli soci; né la societas assumeva
rilevanza esterna verso terzi. Così per limitare la responsabilità verso terzi
nell’esercizio di un’attività comune, si ricorreva all’espediente di svolgerla per mezzo di
schiavi, appositamente forniti di peculio. In tal modo la responsabilità dei domini non
sarebbe andata oltre il valore del peculio; al più, non oltre il limite del loro
arricchimento conseguente all’attività del servo.

34.11.IL MANDATO
Era un contratto consensuale bilaterale imperfetto, per cui una parte conferisce un
incarico all’atra, che si impegna ad eseguirlo (mandante e mandatario).
Al mandatario non era dovuto alcun compenso. La previsione di un compenso
avrebbe fatto sì che il rapporto, anziché nel mandato, si inquadrasse nella locatio
operis. Il mandato poteva essere nell’interesse del solo mandante o nell’interesse
anche di terzi. Furono invece negati gli effetti del mandato all’incarico nell’interesse del
mandatario: ad esso si attribuì il significato di semplice suggerimento. Contro il
mandatario si dava al mandante l’actio mandati directa. Contro il mandante si dava
al mandatario l’actio mandati contraria. Il mandatario (perseguibile con l’azione diretta)
aveva l’obbligo di eseguire fedelmente l’incarico e trasferire al mandante beni, diritti
e crediti acquistati in relazione al mandato espletato. Sul mandante (perseguibile con
l’azione contraria) gravava l’obbligo di rimborsare al mandatario le spese e risarcire i
danni occorsi, e sollevarlo dai debiti assunti.
L’esigenza che il mandatario trasferisse al mandante quanto acquistato, e che il
mandante si accollasse i debiti assunti dal mandatario derivava dal fatto che il
mandatario non era rappresentante (diretto) del mandante. Il sistema adottato era
quello della rappresentanza indiretta. Per l’inadempimento o per la cattiva
esecuzione del mandato, il mandatario rispondeva solitamente solo per dolo.
La condanna nell’actio mandati directa comportava infamia per il mandatario.
Le azioni mandati, diretta e contraria, erano in ius ex fide bona e spettavano anche
contro e a favore di peregrini (ius gentium assieme a ius civile). Il mandato si
estingueva per revoca del mandante, per rinunzia del mandatario e per morte di una
delle parti; per reciproco dissenso e una volta esperito l’incarico.

34.12.I CONTRATTI INNOMINATI


Sebbene i contratti fossero tipici si andò riconoscendo valore obbligatorio a certe
convenzioni atipiche, non definibili con un ‘nomen’. Si trattava comunque di negotia,
di convenzioni per cui ciascuna delle parti veniva onerata o di un dare o di un facere; il
valore obbligatorio non si riconosce alla convenzione in sèma all’esecuzione che vi
avesse dato una delle parti. “do ut des, do ut facias” non si tratta di semplici
convenzioni a dare o facere da una parte e dare o facere dall’altra; ma del dare o
facere che una parte effettivamente compie in vista dell’impegno a dare o facere
dell’altra di una prestazione che si compie in vista di una controprestazione.
Si andò affermando il principio per cui, nelle convenzioni atipiche, la parte che avesse
fatto la prestazione avrebbe potuto avanzare la pretesa alla controprestazione a mezzo
di un’azione con intentio che esprimesse col verbo oportere l’obbligo alla
controprestazione del convenuto. L’azione fu detta praescriptis verbis, e il grado di
responsabilità del D. per impossibilità sopravvenuta della prestazione fu generalmente
esteso alla colpa. Ecco che le convenzioni in tal modo protette divennero vere e
proprie fonti di obligationes, e che le stesse convenzioni poterono essere qualificate
contractus (perché sanzionate da un’azione volta all’adempimento). Noi possiamo
classificarli come unilaterali perché ad obbligarsi è una sola parte, la stessa che riceve
la prestazione; e accostarli ai contratti reali perché l’obbligazione non nasce per il solo
fatto della convenzione ma occorre un dare o un facere. Con Giustiniano, all’actio
praescriptis verbis fu esteso il regime dei giudizi di buona fede, e ne fu ampliato il
campo di applicazione a tal punto che essa divenne una sorta di actio generalis.
La condictio causa data causa non secuta: ancor prima del ricorso all’actio
praescriptis verbis, i negozi del tipo ‘do ut des’ e ‘do ut facias’ non erano rimasti privi di
tutela, perché la parte che avesse compiuto una datio avrebbe potuto esperire la
condictio (extracontrattuale) per ripetere quanto prestato nel caso in cui la
controprestazione fosse mancata. (Costituisce in ultima analisi uno sviluppo di questo
regime l’art.1453 del C.C., con riguardo a tutti i contratti a prestazioni corrispettive,
dispone che, quando uno dei contraenti non adempie, l’altro possa a sua scelta
chiedere o l’adempimento o la risoluzione.
Figure di contratti innominati: i classici inquadrarono nel tipo ‘do tu des’ la
donazione modale, la permuta (scambio di cosa contro cosa/contratto reale
unilaterale), il contratto estimatorio (una parte dava all’altra una cosa stabilendone il
valore, e l’accipiente si obbligava o a venderla a restituire il ricavato nei limiti della
stima o a restituire la cosa stessa), la ‘datio ad inspiciendum’ (una parte consegnava
all’altra una cosa perché ne determinasse il valore e poi la restituisse). Ai contratti
innominati furono assimilati, più avanti, la transazione e il precario.
Il precario: consisteva nella concessione di un bene (in origine immobile) che una
parte (concedente) faceva all’altra (precarista) perché ne godesse gratuitamente e lo
restituisse a semplice richiesta. Il precarista fu tutelato contro terzi con l’interdictum
uti possidetis, e così qualificato possessore. Non essendo tutelato pure contro il
concedente, quest’ultimo avrebbe potuto riprendere possesso della cosa in ogni
momento con atto di autodifesa, pure contro la volontà del precarista. Al fine di
consentire al concedente il recuperare la cosa, il pretore predispose nel suo editto
l’interdictum quod precario, inizialmente, poi l’actio praescriptis verbis.
Inizialmente non classificato come contratto, poi sì e gli si attribuì qualifica di contratto
innominato. Fu qualiticato ius gentium.

35.I PATTI
Erano convenzioni e accordi, in qualsiasi forma manifestati, che non rientravano nello
schema di alcun contratto tipico; vennero detti nuda pacta. Inizialmente si sostenne
che dai nudi patti non nascesse obbligazione (tranne che per furto e iniuria) poi questo
principio perse in larga misura il suo valore; superata così la tipicità contrattuale, ogni
accordo, purché lecito avrebbe potuto essere contratto e avere effetti obbligatori. Il
pretore tutelò i patti precisando che doveva trattarsi di patti concordati senza dolo
dell’una o dell’altra parte, non contrari a leggi e fonti normative equiparate, né in frode
ad esse. A tali patti il pretore diede però efficacia limitata: non mediante actiones ma
mediante exceptio pacti conventi questo vuol dire che i patti, a differenza dei
contratti, non davano luogo a obbligazioni. La parte che ne traeva vantaggio non
avrebbe potuto promuovere giudizio; convenuta però in violazione del patto, avrebbe
opposto l’exceptio pacti conventi sì da essere assolta una volta che il giudice avesse
verificato l’effettiva esistenza del patto.
Patti aggiunti: in materia di giudizi di buona fede, dovendo il giudice stabilire a che
cosa fosse tenuto il convenuto ex fide bona (è conforme a buona fede mantenere gli
impregni assunti), l’exceptio pacti conventi era superflua perché il giudice avrebbe
potuto tenere conto dei patti in favore del convenuto pure se la formula non ne avesse
fatto menzione. In merito ai patti aggiunti a contratti dai quali derivavano azioni di
buona fede si fece distinzione tra ‘pacta adiecta in continenti’ e ‘pacta adiecta ex
intervallo’, I primi contestuali, gli altri successivi alla conclusione del contratto. Inoltre I
primi furono considerati parte integrante del contratto, e pertanto ebbero veri e propri
effetti obbligatori.
Il compromissum: Giustiniano diede poi efficacia diretta obbligatoria al patto
(extragiudiziario) con cui due parti convenivano di rimettere all’arbitrato di un terzo
scelto di comune accordo la decisione di una controversia tra loro. La rilevanza
giuridica era indiretta: attraverso reciproche stipulationes penali ciascuna parte
prometteva all’altra una pena pecuniaria, se la parte promittente non si fosse poi
adeguata alla pronunzia dell’arbitro. Questo fu il compromissum, che la moderna
dottrina qualificò come ‘patto legittimo’ in base al fatto che a dare diretta efficacia
obbligatoria era stata una costituzione imperiale, una legge.
Altri sviluppi postclassici: un ulteriore breccia aperta nel sistema classico delle
obbligazioni è rappresentata dall’estensione dell’efficacia obbligatoria dei patti aggiunti
contestualmente ai contratti, anche se non di buona fede (mutuo e stipulatio). In tal
modo, superata in sostanza la tipicità contrattuale, ogni accordo, purché lecito,
avrebbe potuto essere detto ‘contratto’ ed avere effetti obbligatori.

36.GLI ATTI LECITI NON CONTRATTUALI


Ricordando quanto più sopra detto sugli atti leciti obbligatori non convenzionali (non
contrattuali), sulle variae causarum figurae di Gaio e sulle obbligazioni quasi ex
contractu, bisogna adesso considerare le singole figure.

36.1.LA NEGOTIORUM GESTIO


Era la gestione di affari altrui senza mandato, intrapresa con la convinzione che si
trattasse appunto di affari altrui e iniziata utilmente, non rilevando se poi l’esito della
gestione fosse stato utile o non utile per il gerito. Era in presenza di questi requisiti che
si davano alle parti le actiones negotiorum gestorum diretta e contraria, ambedue
di buona fede. Possiamo ricurve che:
A)sul gestore, che era perseguibile con l’actio negotiorum gestorum directa, gravava
l’obbligo di portare a termine l’affare intrapreso e di trasferire al gerito beni e diritti
che ne avesse ricavato, o avrebbe dovuto ricavarne.
B)sul gerito, perseguibile con actio negotiorum gestorum contraria, gravava l’obbligo di
assumere su di sé le obbligazioni che l’altro avesse contratto in relazione alla gestione
e di rimborsargli le spese e i danni inerenti alla gestione stessa.
La responsabilità del gestore al riguardo, prima limitata al dolo, fu poi estesa alla colpa.
Le applicazioni di questo istituto furono molteplici e varie e si usavano i meccanismi
della rappresentanza indiretta.

36.2.LA TUTELA, LA COMMUNIO INCIDENS, LA COEREDITÀ


Tra le fonti di obbligazioni da atto lecito non contrattuale vengono in considerazione
anche tutela, communio incidens e coeredità (la gestione della tutela impuberum, la
gestione della cosa comune e la gestione dell’eredità comune).
Cessata la tutela, il tutore dell’impubere doveva rendere conto all’ex pupillo della
gestione tutelare e quindi trasmettere beni e diritti acquisiti e risarcire i danni; e
che l’ex pupillo era obbligato a rimborsare all’ex tutore le spese e a sollevarlo dai
debiti e oneri assunti per la gestione. Le rispettive obligationes erano sanzionate
dall’actio tutelae directa e contraria, di buona fede: la prima contro il tutore, quella
contraria contro il pupillo. L’azione diretta era infamante ed in essa il tutore rispondeva
per culpa in concreto. Pure la gestione dell’eredità comune poteva dar luogo a diritti
e doveri reciproci tra comproprietari e coeredi, al pareggio dei conti si prevedeva in
sede di divisione, da cui riconoscimento di obbligazione tra le parti. Il criterio di
responsabilità del debitore sarebbe stato quello della culpa in concreto.
36.3.I LEGATI OBBLIGATORI E I FEDECOMMESSI
I legati ‘per damnationem’ e ‘sinedi modo’ davano luogo ad obbligazioni tra erede e
legatario. L’obbligazione a carico dell’erede nasceva una volta che, morto il testatore, il
testamento avesse acquistato efficacia.
1. Legato per damnationem: il testatore, mediante l’uso di certa verba, onerava
l’erede di compiere una prestazione determinata, che poteva consistere in un dare o
facere, in favore del legatario.
2. Legato sinedi modo: il testatore (con certa verba) poneva a carico dell’erede un
obbligo di non facere sì da consentire al legatario di fare alcunché.
Attraverso l’erede inadempiente si dava al legatario l’actio ex testamento, in
personam, in ius e di stretto diritto. Ma l’actio ex testamento comportava condanna al
doppio in caso di contestazione infondata.
Ai legati potevano essere accostati i fedecommessi: disposizioni di ultima volontà in
favore di terzi che il testatore rimetteva per l’esecuzione alla fides dell’erede o del
legatario. Quest’ultimi pertanto ebbero in genere per la sostanza effetti obbligatori
nonostante non vennero classificati come tali. Al fedecommisero si dava la petitio
fideicommissi, in essa il giudice giudicava con criteri di equità e gli era lasciata ampia
discrezionalità nell’interpretazione della disposizione testamentaria.

36.4.IL PAGAMENTO DI INDEBITO (SOLUTIO INDEBITI)


La solutio indebiti, quale specifica fonte di obbligazione, ricorreva ogni qual volta un
soggetto (solvens) eseguisse una datio (intesa come trasferimento di proprietà)
nell’erronea convinzione di esservi tenuto, e l’altra parte (accipiens) ricevesse la
prestazione inconsapevole che non fosse dovuta. Trovava allora applicazione la
condictio indebiti per la restituzione del dato, cioè l’obbligazione dell’accipiens di
restituire al solvens (ritrasferendone la proprietà) quanto ricevuto indebitamente.
L’accipiens avrebbe dovuto restituire la stessa cosa se si trattava di cosa specifica,
l’equivalente se si trattava di denaro o altre cose fungibili.

36.5.ALTRE APPLICAZIONI NON CONTRATTUALI DELLA


CONDICTIO
Tutte riguardanti ipotesi in cui l’accipiens, come nella solutio indebiti, era obbligato a
restituire quanto ricevuto, o l’equivalente.
Esempio: Condictio causa data causa non secuta; condictio che trovava
applicazione quando si era proceduto a datio dotis e il matrimonio non avesse avuto
più luogo.
In tutti questi casi l’accipiens, senza la condictio, avrebbe realizzato, a danno di chi
aveva compiuto la datio, un arricchimento ingiustificato (considerazioni di equità
fondate sul rilievo per cui nessuno deve potersi avvantaggiare ingiustificatamente a
danni di altri). I compilatori di Giustiniano fecero assumere alle condictiones (non
contrattuali) la funzione di strumenti propri contro l’ingiustificato arricchimento.

37.I DELITTI
Le obligationes derivavano pure da questi; atti illeciti, comportamenti volontari riprovati
dal diritto.
I delitti erano tipici: non si stabilì uno schema generale per cui gli atti che vi rientrassero
si qualificavano come tali. Ad esser detti delitti furono comportamenti determinati che
l’ordinamento riprovava, ognuno con proprie connotazioni e con proprio regime
giuridico, tutti comunque rientranti tra quelli che, per distinguerli dall’inadempimento
delle obbligazioni, si è soliti chiamare atti illeciti extracontrattuali.
L’obligatio che derivava specificamente dai delicta era rappresentata dal vincolo
giuridico che era riconosciuto esistente tra offensore ed offeso per cui l’uno era tenuto
verso l’altro al pagamento di una pena pecuniaria perseguibile con un’azione penale
nell’ambito di un processo privato.
Il criterio generale per l’imputabilità del delitto al suo autore fu generalmente quello del
dolo: il delitto si imputava al suo autore se commesso col deliberato proposito di
provocare all’offeso il pregiudizio che gliene era derivato. Solo che in questa materia il
dolo era il più delle volte implicito nel comportamento dello sensore. Ma, con riguardo
al damnum iniura datum, si giunse a parlare di colpa e si imputò così il
danneggiamento anche a chi l’avesse provocato per negligenza e imprudenza.
D’altro punto di vista si deve notare che esistevano anche i crimina: comportamenti
più direttamente lesivi degli interessi della comunità, e pertanto più gravemente
riprovati erano andati assumendo una connotazione propria sanzionati con delle pene
anche assai gravi (dalla pena capitale alla multa). Repressi nell’ambito di iudicia
pubblica. Nel concorso tra quest’ultimo e i ‘iudicia privata’ (che erano di norma i giudizi
per i quali in età classica si agiva per formulas), più spesso i due iudicia si cumulavano;
a volte si pretendeva che il ‘iudicia publicum’ si svolgesse prima di quello privato. Nel
diritto giustinianeo resteranno pochi i delitti non perseguibili come crimini. Ciò portò alla
depenalizzazione degli illeciti privati extracontrattuali, cioè alla totale
depenalizzazione del diritto privato.

37.1.IL FURTO
Tra i delicta il furto era uno dei più antichi. Esso coincide con la sottrazione illecita di
una cosa mobile altrui. Da un certo momento la giurisprudenza si preoccupò che non
restassero impuniti taluni comportamenti sentiti come illeciti e tuttavia come tali non
sanzionati; si pervenne, così, ad una concezione di esso molto ampia, sì che si
qualificò furto ogni comportamento doloso che, non integrando gli estremi di altri delitti,
provocasse ad altri una perdita, o anche solo uno svantaggio relativamente ad una
cosa mobile o immobile. Successivamente si ebbe un ridimensionamento della nozione
nuovamente limitato alle cose mobili. Ma quello di furto rimase un concetto ampio,
ferma restando l’esclusione di fattispecie rientranti in altri delicta, si ritenne sufficiente,
sotto il profilo oggettivo la contrectatio rei, cioè il contatto fisico con la cosa pur senza
la materiale sottrazione (furtum usus). Quanto all’aspetto soggettivo, dovendosi
distinguere il furto da altre figure di illecito, si richiese a volte che la contrectatio fosse
compiuta contro la volontà del proprietario della cosa, altre volte che fosse
compiuta per conseguire un lucro, altre volte ancora che l’autore avesse l’intenzione
di commettere furto; in ogni caso si trattava di contrectatio fraudolosa. Non era
considerato furto la sottrazione di cose ereditarie di un’eredità giacente, e sì escluse
pure il furto tra marito e moglie.
Genera furtorum:
A)Furtum manifestum: furto commesso dal ladro preso, catturato dal derubato sul
fatto;
B)Furtum nec manifestum: ogni furto non manifesto.
Sanzioni: l’autore del furtum manifestum poteva essere fustigato e poi addictus dal
magistrato al derubato. Ma se il furto era commesso di notte o se il ladro avesse
tentato di difendersi con le armi, il derubato, invocata la testimonianza dei vicini,
avrebbe potuto impunemente uccidere il ladro. Molto presto queste misure non furono
più applicate. Furono sostituite dall’actio furti manifesti (azione penale pretoria)
mediante la quale il derubato perseguiva il quadruplo del valore della cosa rubata.
L’azione si esercitava direttamente contro il ladro se questi era sui iuris; contro
l’avente potestà e in via nossale se il ladro era alieni iuris, soggetto a potestà.
Per il furtum nec manifestum si era stabilita una pena pecuniaria per il doppio valore
della cosa rubata. Questa fu mantenuta dal pretore e perseguita con la penale actio
furti nec manifesti. Entrambe le actio (manifesti e nec) erano infamanti ed era
legittimato, non tanto il derubato in sé, quanto il derubato che avesse un interesse
giuridicamente apprezzabile che la cosa non venisse rubata. Solitamente ad avere
questo interesse era il proprietario della cosa, ma poteva anche essere una persona
diversa (comodante ad es.). Queste azioni rimasero di natura penale.
La condictio ex causa furtiva: con la penale actio furti concorreva, e con essa si
cumulava, la condictio (reipersecutoria). A differenza che all’actio furti, alla condictio ex
causa furtiva era ammesso il proprietario della cosa rubata in quanto tale; con la
conseguenza che, ad es. nel caso di furto di cosa comodata, il comodante dominus
avrebbe agito contro il ladro con la condictio, il comodatario con l’actio furti (le due
azioni si cumulavano perché una era reipersecutoria, l’altra penale).
Quella della condictio ex causa furtiva era una singolare applicazione della condictio
perché, secondo la regola, la condictio presupponeva una datio ed era diretta a una
datio (intendendosi per datio il trasferimento della proprietà). Ma nel caso del furto non
vi è stata una datio (il ladro non diveniva proprietario) né l’azione era volta a una
datio. E ciò si spiega supponendo che il significato tecnico di ‘datio’ come
trasferimento di proprietà non sia originario.
Condictio (azione personale) e rei vindicatio (azione reale) rappresentavano per il
derubato una garanzia maggiore. Ma la condictio era per il proprietario derubato un
rimedio più sicuro, essa era un actio in personam, comunque esperibile contro il
ladro debitore pure se non più possessore e pure se la cosa fosse perita, comunque
fosse perita, persino se per forza maggiore. Ciò per la regola che il ladro è sempre in
mora.

37.2.LA RAPINA (bona vi rapta)


La grave situazione dell’ordine pubblico, turbato da frequenti scorrerie di bande di
schiavi, organizzate dai loro padroni con conseguenti ruberie e saccheggi indusse il
pretore Locullo, nel 76 a.C., a prevedere l’actio vi bonorum raptorum. L’azione era
volta a sanzionare la sottrazione di cosa altrui commessa con violenza. L’azione era
penale e infamante. Entro l’anno la pena era al quadruplo del valore della cosa
sottratta; dopo l’anno al suo semplice valore.

37.3.IL DANNEGGIAMENTO (DAMNUM INIURIA DATUM)


A riguardo del delitto di danneggiamento bisogna prendere le mosse dalla legge
Aquilia che era articolata in 3 capitoli:
1. Riguardava l’uccisione iniuria di schiavi e pecudes (quadrupedi da gregge,
bestiame) altrui.
2. Riguardava l’adstipulator il quale, in frode allo stipulante, avesse estinto il credito
mediante acceptilatio.
3. Riguardava il ferimento di schiavi e pecudes (anche animali non pecudes),
distruzione o semplice danneggiamento di cose inanimate.
A carico dell’autore del fatto illecito la legge prevedeva una pena. Questa non era il
multiplo ma la semplice stima del pregiudizio arrecato. Il calcolo della stima era
diverso a seconda dei capitoli. Nel primo caso la pena era del maggior valore che
schiavi o animali avessero avuto durante l’anno precedente l’uccisione; per il secondo
caso la pena era nell’importo del credito estinto; nel terzo caso nel maggior valore
di schiavi animali e cose inanimate nei 30 giorni precedenti l’evento dannoso.
L’azione contro l’autore del danno era l’actio legis Aquiliae, penale e in ius. Ad essa
era attivamente legittimato il proprietario delle cose perite o danneggiate. Il pretore
però, mediante actiones utiles (ficticiae) estese la tutela aquiliana ai non proprietari.
Nonostante la natura penale, i classici riconobbero all’actio legis Aquiliae una
sostanziale funzione reipersecutoria (era la meno penale delle azioni penali). Si
adottarono pertanto validi strumenti per il superamento del principio del cumulo di
azione penale e azione reipersecutoria. Con il tempo si poté qualificare l’actio legis
Aquiliae non più penale ma ora reipersecutoria ora mista (penale e reipersecutoria
insieme). Se il danno fosse stato provocato nel momento di maggior valore della ‘res’
nell’ultimo anno o mese l’azione sarebbe stata reipersecutoria; nella diversa ipotesi in
cui la cosa avesse perduto valore nell’ultimo anno o mese l’azione doveva
considerarsi mista. Prima si sanzionava il danno misurando il valore in sé della cosa,
successivamente si diede rilievo all’interesse dell’attore all’integrità fisica della
cosa stessa. La giurisprudenza attribuì a iniuria (danno ingiusto) valenza soggettiva,
e pervenne all’idea della culpa (intesa come comportamento negligente). Dal punto di
vista oggettivo il danno doveva offendere l’integrità fisica della cosa. Più tardi si diede
un’actio in factum di carattere generale a copertura d’ogni ipotesi di danno comunque
inerente a cose.

37.4.L’INIURIA
La legge XII Tav. prevedeva pene diverse per determinate offese arrecate all’integrità
fisica o comunque al fisico di altra persona. Le offese previste dalla legislazione erano:
A)membrum ruptum: lesione fisica con perdita definitiva della funzionalità di un
organo; la pena stabilita era la legge taglione alla quale l’autore si poteva sottrarre
concordando con la vittima una composizione pecuniaria.
B)os fractum: frattura di un osso che non comportava perdita della funzionalità
dell’organo; la pena era di 300 o di 150 sia seconda che la vittima fosse un libro un
servo.
C)lesioni e violenze fisiche minori; la pena era di 25 anni.
Da un certo punto il taglione fu ritenuto una pena rozza e primitiva, però le pene
pecuniarie previste apparvero irrisorie. Per questo motivo il pretore istituì, per la
persecuzione degli atti dolosi e ingiusti di violenza fisica alle persone, tutti qualificati
iniuriae, l’actio iniuriarum aestimatoria (detta aestimatoria per la natura pecuniaria e
non predeterminata della pena). In virtù di successivi interventi pretori con l’actio
iniuriarum furono represse pure le offese morali, anch’esse poi sussunte sotto la
denominazione di iniuria. Quest’actio era penale e infamante. La pena era
pecuniaria, nella misura di volta in volta stabilita secondo l’entità dell’offesa sulla base
di criteri di equità. Per il carattere particolare e delicato della materia a giudicare non
era il giudice unico ma un giudice collegiale (i recuperatores).
La condemnatio della formula era con taxatio. Per il suo carattere personalissimo
l’actio iniuriarum era intrasmissibile agli eredi non solo dal lato passivo ma anche da
quello attivo (morto l’offeso prima di averla esercitata l’azione non sarebbe stata
esperibile dagli eredi).

37.5.ALTRI ILLECITI EXTRACONTRATTUALI


L’actio de pauperie: l’azione faceva riferimento ai danni prodotti da animali, più
precisamente da pecudes, quadrupedi da gregge o armento con comportamenti in
naturali e spontanei. L’azione si dava contro il proprietario delle bestie, il quale era
posto di fronte all’alternativa o di risarcire il danno o di dare a nossa l’animale
trasferendone all’attore la proprietà. All’azione era attivamente legittimato il
danneggiato che vi avesse interesse: normalmente il dominus delle res danneggiate,
eventualmente persona diversa (es comodatario).
Rispetto alle altre azioni nossali, l’actio de pauperie era un’azione del tutto singolare:
era nossale ma non penale. L’alternativa alla dazione a nossa, non era il pagamento
della pena, ma il risarcimento del danno. Contemplata nelle XII tavole e mantenuta
nel corpus iuris giustinianeo.

38.LE OBBLIGAZIONI QUASI EX DELICTO


Derivavano dagli illeciti pretori non dolosi.
a. Iudex qui litem suam fecerit: giudice che avesse giudicato male per imperizia.
Alla parte che ne risentiva danno il pretore dava un’actio in factum.
b. Effusum vel deiectum: danni a persone e cose provocati da oggetti lanciati o
comunque lasciati cadere dall’alto delle case di un’abitazione sulla pubblica via. Il
pretore promise un’azione penale in factum. I criteri per la determinazione della pena
erano diversi a seconda dei casi; per i danni a cose la pena era determinato dal giudice
nella misura del doppio dei danni arrecati, per il ferimento di un uomo libero la pena era
pure determinato dal giudice ma secondo equità, la pena era invece fissa per la morte
di un uomo libero.
c. Positum aut suspensum: fu concessa dal pretore contro l’habitator della casa sul
cui tetto o cornicione fosse stata appoggiata o posata una cosa che, cadendo,
avrebbe potuto provocare danni ai passanti. L’azione era penale e in factum.
d. Per furti e danneggiamenti a passeggeri ed avventori che si verificavano sulle navi,
nelle locande, nelle stazioni. Il pretore concesse azioni penali in factum e duplum
contro gli armatori, gli albergatori, i gestori.
Nelle ipotesi b,c,d, l’obbligazione sorgeva a carico di habitator, dominus exercitor
navis anche se l’evento dannoso, furto o situa di pericolo fossero in effetti imputabili ad
altri. Si trattò in sostanza di responsabilità oggettiva, senza colpa.

39.ESTINZIONE DELLE OBBLIGAZIONI


Le obbligazioni si estinguevano più spesso ipso iure o ope exceptionis. Con la
compensazione le applicazioni si estinguevano ope iudicis, per effetto della sentenza
del giudice.

39.1.L’ADEMPIMENTO (solutio)
L’adempimento della prestazione non era sempre sufficiente, in età arcaica, A
estinguere l’obbligazione. La solutio divenne il modo più naturale per l’estinzione
delle obbligazioni dalla prima età postclassica. Con la solutio l’obbligazione si
estingueva ipso iure.
A compierla era solitamente il D. Poteva effettuarla anche un terzo, salvo che non si
trattasse di prestazioni di facere che richiedevano specifiche abilità. La solutio doveva
essere fatta al C. Ma si poteva adempiere anche al procurator del C, a persona
all’uopo personalmente indicata dallo stesso C, all’adiectus solutionis causa. La
prestazione doveva essere adempiuta per l’intero, salvo che il C. non accettasse un
adempimento parziale. Eccezionalmente il D. poteva effettuare un adempimento
parziale, questo perché godeva del beneficium competentiae; esso si realizzava in
forza della taxatio e comportava che il D. non potesse subire condanna oltre il limite
delle sue possibilità economiche. Il D. avrebbe in tal modo evitato esecuzione per
debiti e infamia che vi era connessa.
Datio in solutum (dazione in pagamento): il D. doveva eseguire esattamente la
prestazione dovuta. Avrebbe potuto al posto di essa compiere una prestazione diversa,
effettuando così una datio in solutum, solo con il consenso del C.
La prestazione andava adempiuta nei tempi indicati nell’atto costituivo: e quindi, alla
scadenza del termine o dell’avveramento della condizione, se erano previsti termini
iniziali o condizioni sospensive; se l’atto costitutivo non li avesse preveduti, i tempi di
esecuzione della prestazione avrebbero dovuto desumersi dalle circostanze o dal tipo
di prestazione. In difetto di indicazioni (esplicite o implicite) la prestazione era dovuta
immediatamente. Il luogo dell’adempimento era quello risultante dall’atto costitutivo,
dalle circostanze e dal tipo di prestazione. Se nulla risultava, la prestazione andava
eseguita nel luogo dove il debitore poteva essere convenuto in giudizio (domicilio).

39.2.REMISSIONE DEL DEBITO


Si indica l’atto con il quale il C. rinunzia ad esigere il proprio credito. Per il diritto
romano vengono in considerazione:
A)La solutio per aes et libram: il rito si svolgeva dinanzi a 5 cittadini romani puberi e
un libripens(che reggeva bilancia), presente D. e C., il D. dichiarava solennemente di
liberare sé stesso dal potere del C. Contemporaneamente gettava sulla bilancia il
metallo dovuto, e il libripens provvedeva alla pesatura. Con l’introduzione della
moneta cognata il debitore percuoteva la bilancia con una moneta che consegnava
simbolicamente al creditore.
Era un atto necessario per la liberazione dei nexi dal potere del C., per lo
scioglimento del vincolo a carico del condannato in un giudizio privato e per l’estinzione
delle obbligazioni pecuniarie per damnationem. La solutio per aes et libram ferma
restando (in alternativa all’effettivo adempimento) la sua applicazione alle sole
obbligazioni pecuniarie da iudicatum e da legato per damnationem, mantenne
l’effetto estintivo ipso iure.
B)L’acceptilatio: significa ‘considerare come ricevuto’ ed era un atto a formalismo
interno, simmetrico e contrario alla stipulatio. Alla domanda del D. “hai ricevuto quel
che ti ho promesso?” il C. rispondeva di sì. Così come la stipulatio l’obbligazione si
costituiva verbis; l’estinzione aveva luogo ipso iure. Non tutte le obbligazioni si
estinguevano mediante acceptilatio, ma solo quelle da stipulatio e le altre nate verbis.
L’acceptilatio fu riconosciuta idonea ad estinguere l’obbligazione a prescindere
dall’effettivo adempimento, cosicché fu adoperata per la remissione dei debiti
(definita anch’essa imaginaria solutio). (Ipso iure).
C)Pactum de non petendo: modo di estinzione ope exceptionis/ipso iure. Il C.
poteva rimettere il debito impegnandosi con semplice patto a non pretendere
l’adempimento della prestazione. Andrebbe avuto l’efficacia propria dei nuda pacta.

39.3.LA TRANSAZIONE
Modo di estinzione ope exceptionis. Era una specifica causa di negozi astratti e,
insieme, un particolare caso di applicazione del pactum de non petendo.
Presupponeva una lite in corso o anche solo incertezza sui diritti e doveri reciproci
delle parti, sicché queste, per mettere fine alla lite o alla prospettiva di liti future,
pattuivano reciproche attribuzioni e rinunzie.
Per le attribuzioni, quando non vi si procedeva immediatamente (come nelle
mancipationes, traditiones) si assumeva l’impegno mediante stipulatio.
Per le rinunzie il pactum transactionis era sufficiente potendo esso all’occorrenza
essere opposto validamente: se del caso, mediante exceptio.

39.4.LA NOVAZIONE
Si intende la sostituzione di una obbligazione con un’altra talché la prima si
estingue e al suo posto sorge la nuova. La novazione si verificava per effetto di una
stipulatio che, avendo ad oggetto la stessa prestazione, facesse espresso riferimento
al rapporto obbligatorio che con essa si voleva estinguere.
Per effetto della novazione la prima obbligazione si estingueva ipso iure, e con essa si
estinguevano, se non rinnovate, eventuali garanzie personali e reali, e si interrompeva
il corso di eventuali interessi. I classici subordinarono l’effetto novativo alla presenza
di altri due requisiti: aliquid novi(la nuova obbligazione doveva presentare qualcosa di
nuovo rispetto all’antica) e animus novandi(si richiedeva l’intenzione delle parti di
procedere a novazione). (Idem debitum)
La stipulatio Aquiliana: un caso interessante e particolare di novazione oggettiva si
realizzava con questa stipulatio. In unica stipulatio si deduceva in maniera generica il
corrispettivo pecuniario di ogni debito o comunque obbligo del promittente verso lo
stipulante in modo che, compiuta la stipulatio, il promittente fosse tenuto verso lo
stipulante ad una sola prestazione. Vi si ricorreva a scopo transattivo e nei rapporti tra
amministratori di complessi patrimoniali e amministrati.
La delegatio promittendi: nella novazione soggettiva l’elemento nuovo riguardava o
la persona del C. o quella del D. e faceva generalmente seguito a delegatio
(autorizzazione unilaterale e informale). La delegatio poteva essere:
A)attiva: Il C. (delegante) invitava il proprio D. (delegato) a promettere con stipulatio a
un terzo (delegatario) quel che lo stesso D. doveva al C. Avveniva così: il terzo
(delegatario) interrogava il delegato: ‘prometti di dare a me quel che devi al delegante
Tizio?’; il D. delegato rispondeva ‘prometto’. Così,per effetto della stipulatio, si
estingueva (per novazione) l’obbligazione tra delegante e delegato e se ne costituiva
una nuova (ex stipulatu) con lo stesso oggetto tra delegato e delegatario. Mutava in
tal modo la persona del creditore.
B)passiva: Delegante: D., Delegato: terzo, Delegatario: C.
Su invito del D. il terzo prometteva al C. ciò che allo stesso doveva il delegante.
Cambiava in tal modo la persona del debitore.
Litis contestatio e sentenza: presenta un effetto preclusivo (l’atto con cui si
chiudeva la fase in iure del processo) ed estintivo: il C. non può tornare ad agire, e
quindi il suo credito è estinto (ipso iure). Il giudice avrebbe dovuto comunque
condannare il convenuto riconosciuto (D) perché una volta estinta per effetto della litis
contestatio l’obbligazione, non per questo il D. convenuto deve intendersi liberato: non
è più tenuto in virtù del vincolo originario ma è comunque tenuto in forza di un vincolo
di natura processuale. Vincolo chiamato condemnari oportere.
La sentenza di condanna poi avrebbe fatto estinguere il condemnari oportere e dato
luogo a obligatio iudicati. Per effetto della litis contestatio, pertanto, aveva luogo una
sorta di novazione. Ad ulteriore novazione dava luogo la sentenza di condanna.

39.5.LA COMPENSAZIONE
Modo di estinzione ope exceptionis. Se il C. è anche D. del proprio debitore, crediti e
debiti reciproci si estinguono nella misura in cui concorrono. Si distingue oggi tra
compensazione legale e giudiziale: nella prima, l’estinzione ha luogo
automaticamente, perché vengono a coesistere tra le stesse persone crediti e debiti
reciproci; nella seconda, l’estinzione si verifica per effetto della sentenza del giudice, il
quale procede ad operazione contabile e condanna una delle parti all’importo
corrispondente alla differenza tra i due crediti. Il fenomeno della compensazione legale
è sconosciuto al diritto romano. Era dapprima esclusa anche la compensazione
giudiziale, perché ad ogni obligatio corrispondeva un’azione tipica, e le strutture del
processo ordinario erano tali da non consentire, in via di principio, che si mescolassero
nell’ambito dello stesso giudizio questioni attinenti ad actiones diverse.
Dall’ultima età repubblicana riguardo al processo formulare si ammisero alcune
deroghe. I casi di compensazione erano 3:
A)Obbligazioni perseguibili con azioni di buona fede: non si ritenne di buona fede
chiedere l’adempimento di una prestazione se non si era a sua volta adempiuta la
propria. Si fece quindi rientrare tra i poteri del giudice dei iudicia bonae fidei la facoltà
di tenere conto dei controcrediti del convenuto sì da procedere eventualmente a
compensazione e condannarlo nel caso al pagamento della differenza. Affinché il
giudice potesse procedere a compensazione si richiedeva che i due crediti fossero ‘ex
eadem causa’: dipendessero cioè dalla stessa fonte (causa), dallo stesso rapporto.
B)Altra deroga riguardò gli argentarii (banchieri) che disponevano di strumenti di
riscontro contabile e ai quali si impose l’onere (se erano al contempo C. e D. dei propri
clienti) di agire contro i clienti cum compensatione: avrebbero dovuto calcolare
preliminarmente il saldo per cui erano creditori, sì che nell’intentio della formula relativa
all’azione riguardante il loro credito venisse indicato quel saldo (rischio che se veniva
indicato importo maggiore perdevano la lite per pluris petitio).
Anche in questo caso il credito si estingueva in forza della sentenza del giudice. A
differenza dei iudicia bonae fidei i due crediti (dell’argentarius e del cliente) dovevano
essere omogenei e avere necessariamente ad ogetto cose fungibili (denaro e
denaro). I due crediti potevano non derivare ex eadem causa.
C)Azioni esercitate dal bonorum emptor, il quale aveva l’obbligo di agire cum
deductione contro i debitori del fallito se costoro fossero stati a loro volta creditori dello
stesso. I crediti e le cause potevano essere diverse e non omogenee.

39.6.IL CONCURSUS CAUSARUM


Modo di estinzione ipso iure. Comunemente si fa riferimento all’ipotesi del C. di una
cosa determinata (species) il quale, dopo che l’obbligazione è sorta, acquista la stessa
cosa ad altro titolo, per altra via. La conseguenza era dapprima che l’obbligazione si
estingueva in ogni caso; ma in un secondo tempo prevalse che l’obbligazione si
estingueva in quanto le due causae (quella in base alla quale la res era dovuta e l’altra
in base alla quale la res veniva acquistata dal creditore) fossero ambedue lucrative
(non una lucrativa e l’altra onerosa). In caso contrario (una lucrativa e una onerosa) il
D. continuava ad essere tenuto al pagamento del corrispettivo pecuniario (aestimatio).
(Nel diritto romano, modo di estinzione delle obbligazioni, operante allorché il creditore,
prima della scadenza dell'obbligazione, otteneva la cosa o la prestazione che gli era
dovuta per altra via).

44.LE GARANZIE PERSONALI DELLE OBBLIGAZIONI


Le garanzie reali delle obbligazioni attribuiscono al C. il diritto di rivalersi su cosa
altrui in caso di inadempimento. Non così le garanzie personali: queste si
realizzano con l’intervento di un terzo (garante) che assume di adempiere la stessa
obbligazione del D. principale. A Roma si usavano di più le garanzie personali.

44.1.STIPULAZIONI DI GARANZIA
La più antica garanzia personale è la sponsio (il prototipo della stipulatio). Si compiva
pertanto verbis, ed era idonea a garantire soltanto le obbligationes contratte ‘verbis’.
Doveva essere prestata subito dopo la promissio del D. principale, intervenendo lo
sponsor, o gli altri sponsores, quali adpromissores accanto al promissor. La sponsio
riservata ai cives romani. L’obbligazione di garanzia che con essa si assumeva si
estingueva con la morte dello sponsor.
Più recente rispetto alla sponsio è la fidepromissio, riconosciuta verosimilmente nella
prima età preclassica. Era una vera e propria stipulatio. Il regime giuridico era
fondamentalmente come quello della sponsio: solo che la fidepromissio era fruibile da
cives e peregrini (iuris gentium).
Sul finire della Repubblica fu riconosciuta la fideiussione. Era pure essa una stipulatio
accessibile a cives e peregrini. Il regime giuridico si svolgeva: con la morte del
fideiussore l’obbligazione relativa passava agli eredi; potevano essere garantite anche
obbligazioni diverse da quelle contratte verbis.
Un tratto comune alle 3 stipulazioni di garanzia era che, con esse, si costituiva, tra D.
principale e garanti da una parte e C. dall’altra, il regime della solidarietà elettiva
passiva, essendo D. principale e garanti tenuti in solidum verso il C. (solo che, in
deroga al regime della solidarietà elettiva passiva, era riconosciuto tra più garanti il
beneficium divisionis). La posizione del garante o dei garanti era però per certi versi
differenziata rispetto a quella del debitore principale perché carattere proprio delle
stipulazioni di garanzia era l’accessorietà: esse presupponevano cioè l’esistenza
dell’obbligazione principale. Erano così nulle le stipulazioni prestate per importi
superiori a quelli del debito principale (erano valide se prestate per meno). E
l’estinzione dell’obbligazione principale comportava necessariamente l’estinzione delle
obbligazioni di garanzia.
Non era vero il contrario: l’obbligazione principale si estingueva solo se quella di
garanzia si era estinta in virtù di un fatto che investiva l’intero rapporto.
L’obbligazione principale quindi si estingueva per effetto di solutio, acceptilatio,
novazione, pactum de non petendo in rem, litis contestatio. Non si estingueva se
l’obbligazione di garanzia si era estinta per confusione, capitis deminutio, pactum de
non petendo in personam e neppure (per quanto riguarda sponsio e fidepromissio) se
l’obbligazione di garanzia si era estinta per decorso del biennio o per morte del
garante.
Circa i rapporti tra D. principale e garanti, va da sé che il sacrificio economico della
prestazione avrebbe dovuto essere sopportato in ultima analisi solo dal D. principale.
Ma la sola azione di regresso in favore dei garanti per ripetere quanto prestato al C.
era l’actio depensi che riguardava la sponsio. Il rapporto tra D. principale e
fidepromissor e fideiussor veniva inquadrato nel mandato, con il risultato di dare ai
garanti (in funzione di azione di regresso) l’actio mandati contraria.
Allo stesso fine si usò, in età classica, solo per debiti in denaro, procedere
diversamente: al garante che prima della litis contestatio si fosse dichiarato pronto a
pagare, il C. nell’esigere la prestazione, cedeva contestualmente l’azione contro il D.
principale. [sviluppo postclassico pag 335].

44.2.IL MANDATO DI CREDITO


L’idea di impiegare il mandato in funzione di garanzia delle obbligazioni da mutuo
affiora nell’ultima età repubblicana. Si realizzava: il garante, assumendo ruolo di
mandante, dava incarico al futuro C. di dare a mutuo una certa quantità di denaro a un
terzo. Si contraeva in tal modo un mandato di credito. Al creditore, una volta data la
somma a mutuo, spettava sia l’actio certae creditae pecuniae contro il D. sia l’actio
mandati contraria contro il mandante. Le azioni di mandate erano di buona fede (a
differenza delle stipulazioni di garanzia). Se poi erano più mandati di uno stesso
credito, esercizio dell’azione contro uno non avrebbe impedito il creditore, finché non
fosse stato soddisfatto, di ripetere l’azione contro gli altri. Il beneficium divisionis e
quello excussionis vennero estesi al mandato.

45.GLI ATTI IN FRODE DEI CREDITORI


Poiché il patrimonio del D. rappresentava, per i C. (specie dopo l’istituzione della
bonorum venditio) una garanzia estrema, di carattere generale, per la soddisfazione
dei loro crediti, si provvide a tutelare le aspettative degli stessi creditori contro il
pericolo che il patrimonio del D. si riducesse oltre misura sino a rivelarsi insufficiente.
A tutela di questo interesse ci furono:
- Lex Aelia Sentia: sancì nullità della manomissione dei servi fatta dal D. in frode ai C.
- Denegatio actionis: riguardava le obbligazioni che il D., rivelatosi insolvente, avesse
assunto a proprio carico con il proposito di accrescere, aumentando il passivo, la sua
situazione di insolvibilità. Ebbene, al terzo C. il pretore avrebbe denagato l’azione
contro il bonorum emptor.
- Integrum restitutio ob fraudem: gli atti del D. che ne avevano ridotto il patrimonio
venivano sostanzialmente revocati. Si considerava il bene alienato come se fosse
ancora compreso nel patrimonio del D; cosicché una volta effettuata la bonorum
venditio e assegnato il patrimonio del debitore al bonorum emptor, questi avrebbe
recuperato la cosa alienata presso l’acquirente esercitando un’actio ficticia ‘come se
l’alienazione non vi fosse stata’.
- Interdictum fraudatorium: si dava direttamente al singolo creditore, e dopo la
bonorum venditio. Riguardava anche esso gli atti di riduzione dell’attivo patrimoniale
che il debitore avesse fatto in frode ai creditori; ed era rivolto contro il terzo in favore
del quale tali atti erano stati compiuti. L’interdictum era restitutorio e il termine era di un
anno.
I requisiti comuni (anche alla denegatio actionis) erano:
- Eventus damni: l’atto del debitore doveva essere tale da avere recato effettivo
pregiudizio ai creditori, avendo ridotto il patrimonio del debitore in misura tale che esso
non era più sufficiente (o lo era meno di prima) per soddisfare i creditori. Ha carattere
oggettivo.
- Consilium fraudis: requisiti soggettivi. Il primo era la determinazione, da parte del
D., di realizzare l’eventus damni.
- Scientia fraudis: requisito soggettivo. Era la conoscenza, da parte del terzo in cui
favore era stato compiuto l’atto fraudolento, del consilium fraudis del D.

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