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19.LE RES
Il termine “res” noi lo traduciamo solitamente come ‘cosa’, ma assume nelle fonti
giuridiche romane significati molteplici. A noi interessa, per ora, il significato di ‘res’
come oggetto/beni (vi rientrano anche animali, terreni, edifici e per i romani pure gli
schiavi).
RES CORPORALES E INCORPORALES:
A)corporali: che si possono toccare;
B)incorporali: che non si possono toccare (eredità, usufrutto, obbligazioni, servitù
prediali). Le identificarono pertanto con taluni iura, cioè con taluni diritti soggettivi, o
comunque posizioni giuridiche soggettive, pure se tali diritti avevano ad oggetto cose
corporali.
È singolare come tra le res incorporales non compaia il diritto di proprietà,
identificandosi con il suo oggetto, era esso stesso considerato res corporales. La
classificazione delle res incorporales e corporales rilevava soprattutto a proposito del
possesso e degli istituti a base possessoria, come traditio e usucapione, essendosi
ritenuto che solo le cose corporales fossero suscettibili di possesso.
RES MANCIPI E RES NEC MANCIPI: si dissero res mancipi i fondi sul suolo italico
(sia terreni che edifici), gli schiavi, gli animali da tiro e soma e le servitù rustiche; tutte
le altre res si dissero nec mancipi. Le prime erano le cose di maggior pregio nella
società romana arcaica: x questo motivo si richiese che il trasferimento della proprietà
avesse luogo col rito solenne della mancipatio (dall’ultima età arcaica le stesse cose
si poterono trasferire anche mediante in iure cessio). Di contro, per il trasferimento
della proprietà delle res nec mancipi si ritenne sufficiente la traditio. Questa
classificazione andò a perdere significato con la decadenza della mancipatio e della
iure cessio.
19.10.I FRUTTI
I Romani considerarono i frutti propriamente quelli naturali prodotti delle piante e dagli
animali. Essi, dal punto di vista del diritto, divenivano propriamente frutti una volta
separati dalla cosa madre. Prima della separazione erano ‘partes’ e quindi non
avevano considerazione giuridica autonoma. Come frutti furono considerate anche le
attività lavorative dei servi; e alla stregua dei frutti furono trattati i cd “frutti civili”: il
corrispettivo cioè che si ottiene concedendo una cosa in godimento (es in caso di
locatio rei= il corrispettivo della locazione di una cosa).
20.1.3.3.LIMITAZIONI LEGALI
Le possibili interferenze tra immobili appartenenti a proprietari diversi erano possibili.
Alcune dovevano essere tollerate (ad esempio immissioni di fumo, acqua, e simili
dall’immobile del vicino al proprio) questo però purché dipendenti dall’uso normale del
fondo; e il proprietario di un fondo rustico doveva tollerare che rami di alberi del vicino
sporgessero sul proprio terreno, purché a ad altezza superiore a 15 piedi.
L’OCCUPAZIONE
Modo d’acquisto originario della proprietà quiritaria: consisteva nella presa di
possesso di cose che non appartenevano a nessuno (res nullius) (per es.: animali allo
stato selvaggio). Per occupazione poteva essere acquistato anche il dominio quiritario
delle cose abbandonate, pruché res nec mancipi. Delle res mancipi il proprietario
manteneva il dominio finché un eventuale occupante ne fosse divenuto egli stesso
proprietario per usucapione. (Il tesoro aspettava metà a chi lo trovava e metà al
proprietario del fondo).
L’ACCESSIONE
Si fa riferimento a fenomeni accomunati dalla circostanza che una cosa corporale
subisce un incremento, completamento, arricchimento, per l’aggiunta di un’altra, che
non appartiene allo stesso proprietario. La cosa che subisce incremento viene detta
principale; l’altra (che si aggiunge) accessoria. L’incremento si verifica a vantaggio
del proprietario della cosa principale e l'acquisto è a titolo originario e prescinde dal
consenso del dominus della cosa accessoria.
-Unione organica: caso di accessione di unione di cose di qualità diversa, tale per
cui una possa dirsi principale perché determina la funzione del tutto. L’unione si dice
organica quando ha luogo per compenetrazione di corpi sì che la cosa accessoria
diventa tutt’uno con la cosa principale (es.: semina tintura).
-Incrementi fluviali: come l’alveo abbandonato, per cui i proprietari dei fondi
rivieraschi, non limitati, estendevano il dominus sino alla linea mediana del fiume.
-Inaedificatio: consiste nella costruzione di un edificio con materiale appartenente a
persona diversa dal proprietario del suolo. Il principio che fu espresso al riguardo è
quello di ‘la superficie accede al suolo’. La soluzione fu sempre nel senso che il
proprietario del suolo divenisse automaticamente anche proprietario dell’edificio
(dell’edificio nel suo complesso non necessariamente dei materiali con cui esso era
stato costruito). Superficie: tutto ciò che insisteva stabilmente sopra il suolo.
-Costruzione su terreno proprio con materiali altrui: poteva accadere che taluno
costruisse su terreno proprio con materiale altrui, in tal caso il proprietario del suolo
diveniva proprietario dell’edificio ma non dei materiali di costruzione separatamente
considerati. Questi ultimi avrebbero continuato ad appartenere a colui al quale già
appartenevano. Questo però non avrebbe potuto rivendicarli finché l’edificio fosse stato
demolito. Fino a quel momento il suo diritto di proprietà sarebbe rimasto
quiescente(si sarebbe risvegliato a demolizione avvenuta). Finché durava la
costruzione, il dominus fundi non avrebbe potuto usucapire i materiali; quindi, pure se
la costruzione fosse durata per lungo tempo, avvenuta la demolizione il proprietario dei
materiali avrebbe potuto comunque pretenderne la restituzione mediante rei vindicatio.
(Tizio realizza una casa con materiali di proprietà di caio. L’edificio accede al suolo e
quindi sarà di proprietà del proprietario del suolo. Il proprietario dei materiali non ne
perde il diritto ma resta quiscente. Ma il proprietario dei materiali, visto che era stato
privato di un bene, poteva agire tramite un’azione penale chiamata Tignum iunctum:
penale del doppio del valore)
-Costruzione su terreno altrui con materiali propri: si distinguono due casi, a
seconda se il costruttore si in buona o cattiva fede. Se il costruttore è in buona fede si
ricade nel caso precedente (l’edificio rimane del proprietario del suolo e il proprietario
dei materiali rimane quiescente). Se è in cattiva fede, l’edificio sarà comunque del
proprietario del suolo, e in più anche la proprietà dei materiali. Quindi perde ogni diritto.
LA SPECIFICAZIONE
Modo di acquisto della proprietà a titolo originario si intende la trasformazione di una
cosa altrui (aliena) sino a farne altra cosa che, nel comune apprezzamento, appare
nuova (dall’uva si ricava vino). Si fece distinzione a seconda che la specificazione
fosse o non reversibile. Se era reversibile il dominus materiae ne avrebbe mantenuto
la proprietà; se non era reversibile (uva in vino) lo specificatore avrebbe acquistato la
res nova.
LA TRADITIO
Era un negozio bilaterale che si compiva con la consegna di una cosa e venne
qualificato iuris gentium. Poteva avere ad oggetto sia mobili che immobili e
trasferiva comunque il possesso. Riguardava pertanto solo le res corporales (le sole
suscettibili di possesso). Quando ne erano oggetto res nec mancipi la traditio trasferiva
anche la proprietà: aveva quindi effetti reali. Affinché la traditio trasferisse la proprietà,
era necessario che a compierla fosse il proprietario.
Consegna: la traditio si realizzava mediante consegna. Ma una consegna materiale
poteva mancare: bastava che il tradens facesse conseguire all’accipiens la disponibilità
della cosa. Vengono in considerazione in proposito:
A)traditio symbolica: traditio delle merci contenute nel magazzino, che si ritenne
compiuta mediante consegna chiavi del magazzino.
B)traditio longa manu: traditio del fondo che si ritenne validamente realizzata con
l’indicazione dei confini
dell’alienante all’acquirente e contemporanea dichiarazione di voler trasferire
l’immobile.
C)traditio brevi manu: si realizzava quando l’acquirente teneva già la cosa che
l’alienante gli trasmetteva.
Non ogni consegna era traditio in senso proprio, lo era solo quella per cui la persona
che riceveva acquistava il possesso (es.: consegna della cosa a scopo di custodia). Il
costituto possessorio: l'alienante trattiene presso di sè la cosa che vende, talchè al
compratore che consente non viene fatta materiale consegna.
Volontà della traditio: con la traditio di res nec mancipi il dominus trasferiva al
contempo proprietà e possesso. È necessario però precisare che per il passaggio del
possesso, occorreva la concorde volontà di tradens e accipiens di fare acquistare
all’accipiens una posizione indipendente in ordine alla cosa che veniva consegnata:
occorreva cioè che le parti fossero d’accordo di volere rispettivamente trasferire e
acquistare il possesso (uti dominus = quale proprietario).
Iusta causa traditionis: era la ragione per la quale si procedeva a traditio, e che
giustificava l’acquisto della proprietà. Poteva procedersi a traditio e quindi trasferire la
proprietà per più causae; quali: la causa vendendi ( nel caso del venditore che
consegnava al compratore la cosa venduta), la causa donandi (il donante che
consegnava al donatario la cosa donata), la causa solvendi (il creditore che adempiva
un’obbligazione di dare). L’esistenza di una iusta causa traditionis era indice della
volontà delle parti di volere attivamente trasferire la proprietà. Certo è in ogni caso
che, quando la proprietà passava nonostante mancasse una iusta causa effettiva, il
tradensi avrebbe potuto pretendere la restituzione mediante condictio.
LA ADIUDICATIO
Essa era la pronuncia del giudice formulare che traeva fondamento nella parte della
formule dei giudizi divisori. In virtù dell’adiudicatio, il giudice dei giudizi divisori
assegnava a ciascuna delle parti una o più res. oggetto della divisione. per effetto
dell’adiudicatio i coeredi di quote ideali cessavano di essere tali e divenivano
proprietari di beni determinati. L’adiudicatio era costitutiva perché era considerata
essa stessa modo di acquisto della proprietà.
LA LITIS AESTIMATIO
L’eventuale condanna pronunziata dal giudice del processo formulare non poteva che
essere espressa in denaro. Poteva quindi accadere che il possessore, convenuto con
la rivendica dal proprietario, una volta soccombente, anziché restituire subisse la
condanna pecuniaria, il cui importo (litis aestimatio) corrispondeva al valore della cosa
rivendicata.
Con l’offerta di pagare la litis aestimatio il convenuto manteneva il possesso della
cosa rivendicata e, se questa era nec mancipi, ne diveniva anche proprietario ex iure
Quiritium. Delle res mancipi il convenuto acquistava invece la proprietà pretoria
perché gli veniva riconosciuto sulla cosa rivendicata, un possesso valido ai fini
dell’usucapione.
L’USUCAMPIONE
Comportava acquisto del dominium ex iure Quiritium ed era riservata ai cittadini
romani Requisiti:
Res habilis: erano usucapibili le cose idonee ad essere usucapite (habiles). Non
erano habiles le res furtivae e le cose di cui taluno si fosse impossessato con la
violenza, esse mantenevano la non usucapibilità anche presso eventuali terzi
acquirenti in buona fede. Sarebbero state usucapibili una volta ritornate nel possesso
del proprietario.
Possessio: non ogni possesso conduceva all’usucapione, ma quello soltanto di chi
teneva la cosa come propria (uti dominus). L’esigenza del possesso dà conto del fatto
che non si poterono usucapire le res incorporales (no suscettibili a possesso).
Tempus: l’usucapione si compiva col decorso di 2 anni per gli immobili e 1 per le altre
cose. Occorreva possedere la cosa in modo continuo(non interrotto). Con la morte del
possessore il tempus usucapionis non subiva interruzioni perché l’erede subentrava
nel possesso al posto dell’ereditando e nella sua stessa posizione possessoria.
L’usucapione iniziata dal defunto avrebbe potuto così essere portata a compimento
dall’erede. In età postclassica con il principio accessio possessionis il compratore
avrebbe potuto sommare il proprio possesso a quello del dante causa in modo che, se
esso fosse stato della stessa qualità di quello del compratore ( di buona fede e giusta
causa), l’usucapione iniziata presso il venditore avrebbe potuto essere portata a
termine del compratore.
Titulus o iusta causa: si fa riferimento alla ragione oggettiva che stava alla base
dell’acquisto del possesso, tale da giustificare l’acquisto della proprietà per effetto del
possesso continuato per il tempo stabilito. Titolo più ricorrente nella pratica era pro
emptore: possedeva pro emptore il compratore cui il venditore avesse trasmesso il
possesso della cosa venduta ma non la proprietà. Questo poteva accadere o perché il
venditore non era proprietario della cosa venduta o perché, trattandosi di res mancipi,
ne avesse fatto semplicemente traditio.
Fides: da un certo punto in poi, ai fini dell’usucapione, si richiese anche la buona fede,
cioè la convinzione del possessore di non recare ad altri (col proprio possesso)
ingiusto pregiudizio. La buona fede doveva sussistere al tempo dell’acquisto del
possesso; se fosse venuta meno dopo, l’usucapione si sarebbe compiuta ugualmente.
Usucapio pro herede: la persona che avesse preso possesso anche di una sola cosa
ereditaria, purché appartenente a un’eredità giacente, trascorso un anno, avrebbe
acquistato l’eredità nel suo complesso pure in difetto di titolo ed anche se in mala fede.
Questo regime rispondeva all’esigenza che una eredità non restasse a lungo deserta.
Ma già in età preclassica la giuri. laica limitò gli effetti di questo tipo di usucapio: pur
restando fermo il principio di richiedere iusta causa e buona fede e il tempo di un
anno, l’effetto acquisitivo fu limitato alle singole cose ereditarie possedute.
20.3.L’USUFRUTTO
E un diritto reale limitato di godimento su cosa altrui. Esso può essere definito
come un diritto soggettivo reale di usare e percepire i frutti di una cosa altrui senza
alterarne la destinazione economica. Il titolare è detto usufruttuario, il proprietario
della cosa gravata, nudo proprietario.
Origini: fu riconosciuto come diritto per esigenze legate alla diffusione dei matrimoni
sine manu, nei quali la donna non entrava a far parte della familia del marito: da un lato
c’era la preoccupazione che, con la morte del marito, la moglie sui iuris cadesse
nell’indigenza; dall’altra stava il timore che, se il marito l’avesse istituita erede, i beni
da lei acquistati ex testamento dal marito, alla morte di lei sarebbero andati per diritto
ereditario agli appartenenti alla sua famiglia originaria, e non ai figli (nei matrimoni
sine manu non erano iure civili eredi legittimi della propria madre). Ecco quindi che per
conservare intatto ai figli il patrimonio della famiglia e assicurare al contempo alla
propria vedova un dignitoso sostentamento si diffuse la prassi di legare alla moglie
l’usus fructus di determinati beni, sì che ella ne godesse durante la vita e la proprietà
restasse ai figli.
L’usufrutto come servitù personale: con Giusti. esso fu, insieme all’usus, qualificato
come servitus. Nell’usufrutto e nell’uso il bene (mobile o immobile) era assoggettato a
una persona, la persona dell’usufruttuario.
Oggetto: potevano essere cose mobili e immobili, res mancipi e nec mancipi, purché
inconsumabili e fruttifere. Doveva trattarsi di res corporales. Si ammise che pure il
testatore potesse legare l’usufrutto di tutti i propri beni.
Uso, godimento e manutenzione: l’usufruttuario poteva usare la cosa gravata da
usufrutto e percepirne i frutti, i quali divenivano suoi dal momento della effettiva
percezione. Gli acquisti dello schiavo gravato di usufrutto andavano all'usufruttuario
solo se dipendevano da un esborso dell’usufrutto o dal lavoro dello schiavo.
L’usufruttuario doveva a sue spese curare la manutenzione ordinaria della cosa (avere
cura che non perisse o non si deteriorasse).
Cautio fructuaria: a garanzia dell’adempimento dei suoi obblighi all'usufruttuario si
imponeva la cautio fructuaria, una stipulatio pretoria con la quale l’usufruttuario
prometteva al nudo proprietario sia la restituzione del bene una volta
estinto l’usufrutto sia un uso della cosa con criteri di correttezza.
Carattere personale: l’usufrutto aveva carattere personale, era pertanto inalienabile e
intrasmissibile agli eredi.
Modi di costituzione:
A)legato per vindicationem, anche con la in iure cessio;
B)adiudicatio, nelle azioni divisorie quando il giudice lo riteneva utile in sede di
determinazione delle quote da attribuire.
C)deductio, quando taluno, nell’alienare la cosa propria con mancipatio o in iure cessio
tratteneva l’usufrutto.
D)pactio et stipulatio, fu Giust. che ne fece un modo di costruzione generale.
Non si costitutiva con traditio perché res incorporales e come tale non era suscettibile
di possesso.
Modi di estinzione:
A)morte usufruttuario;
B)condizione risolutiva;
C)scadenza termine finale;
D)trasformazione cosa sì da mutarne la destinazione economica o il suo deperimento;
E)rinunzia con in iure cessio;
F)acquisto proprietà, usufruttuario acquistava la proprietà o il proprietario acquistava
l’usufrtto;
G)non usus: un anno per i mobili e due anni per gli immobili;
Tutela giudiziaria: a difesa dell’usufruttuario stava la vindicatio usus fructus,
un’azione simile alla vindicationes per servitù.
20.4.IL QUASI USUFRUTTO
Con riguardo al legato di usufrutto di tutti i beni del testatore, un senatoconsulto del
principato riconobbe quali possibili oggetti di usufrutto tutte le cose che a quel
patrimonio appartenessero, anche denaro; facendo obbligo al legatario di prestare una
cautio con la quale promettere la restituzione dell’equivalente una volta estinto
l’usufrutto. Quindi delle cose consumabili il legatario avrebbe acquistato la proprietà,
salvo obbligo di restituzione.
20.3.L’USUS
Diritto reale di godimento su cose altrui. Il titolare (usuario) avrebbe avuto il diritto di
usare direttamente e personalmente la cosa, ma non di percepirne i frutti. A
differenza dell’usufrutto, l’usus non era divisibile, sicché più usuari l’avrebbero
esercitato indivisamente e sull’intero bene. Per i modi di costituzione, estinzione,
difesa giudiziaria il regime dell usus ricalcava quello dell’usufrutto. Era pure esso una
servitus.
20.8.L’ENFITEUSI
Concessioni di terre pubbliche. L’enfiteuta, solitamente tenuto al miglioramento del
fondo e in ogni caso obbligato al pagamento di un canone annuo, avrebbe potuto sì
alienare il fondo enfiteutico ma avrebbe dovuto, a parità di condizioni, preferire il
concedente; al concedente che lasciava alienare il fondo a terzi era dovuto il 2% del
prezzo o del valore del fondo. L’enfiteusi si estingueva per mancato pagamento del
canone o dell’imposta fondiaria per oltre 3 anni; per alienazione del fondo a terzi
effettuata senza cura degli adempimenti verso il concedente e per confusione.
20.9.PEGNO E IPOTECA
Sono classificati tra i diritti reali di garanzia, che sono quelli che attribuiscono al
creditore il diritto di rivalersi su una cosa altrui in caso di inadempimento. Bisogna
però distinguere tra “datio pignoris” e “conventio pignoris”.
Datio pignoris: era il pegno manuale, la consegna cioè di una cosa al creditore in
modo che la tenesse finché il credito non fosse stato soddisfatto: la proprietà della
cosa restava a chi aveva effettuato la consegna (solitamente il debitore); non si trattava
di una datio nel senso tecnico di trasferimento di proprietà. In origine riguardava solo
cose mobili, ma si estese presto ad ogni res mobile e immobile, mancipi e nec
mancipi.
Conventio pignoris: un patto tra il creditore e il proprietario di una cosa (debitore) con
cui, pur restando la cosa presso il proprietario, si conveniva che il creditore ne avrebbe
preso possesso in caso di inadempimento, e l’avrebbe tenuta fino all’avvenuta
estinzione del debito.
Tutela giudiziaria: con datio pignoris e conventio pignoris, il creditore pignoratizio
acquistava sulla cosa il possesso: un possesso utile ai fini della tutela con gli interdetti
possessori (non ai fini di usucapione). Con l'actio hypothecaria che il pegno si
configura come diritto reale di garanzia.
Pegno e ipoteca: pur distinguendo tra datio pignoris e conventio pignoris, e anche
consapevoli di talune differenze di regime, i giuristi romani configurarono il pegno come
istituto unitario.
Legittimazione: il pegno aveva solitamente ad oggetto cose corporali. Era
validamente costituito da chi avesse la cosa in bonis: cioè dal proprietario quiritario e/o
dal proprietario pretorio.
Poteri del creditore pignoratizio: il C. pignoratizio, una volta possessore della cosa
pignorata, avrebbe avuto di essa sì il possesso utile per la difesa possessoria
interdittale ma non il godimento, e neppure il semplice uso. Se l’avesse usata e si
fosse trattato di cosa mobile, avrebbe commesso furto. Quanto ai frutti, il C. avrebbe
potuto percepirli, salvo interessi. Se il credito non veniva soddisfatto, il C. tratteneva la
cosa finché il debito non si fosse estinto.
Patto commissorio e il ius vendendi: da ultima età repubblicana si riconobbero validi
ed efficaci (se aggiunti all’atto della costituzione del pegno) sia il patto commissorio (il
C., inadempiente D., avrebbe acquistato in proprietà il bene pignorato); sia il patto per
cui si dava al C. facoltà di vendere la cosa, soddisfarsi con il ricavato e restituire al D.
quanto eventualmente sopravanzato. Più praticato fu il ius vendendi: il C. pignoratizio
veniva autorizzato sì ad alienare la cosa in caso di inadempienza ma non a
manciparla, e neanche a farne in iure cessio. Avrebbe potuto fare solo traditio. Così, se
la res fosse stata mancipi, il compratore ne avrebbe acquistato nient’altro che il
possesso ad usucapionem e con esso la proprietà pretoria. Ne avrebbe acquistato la
proprietà quiritaria se la cosa a lui venduta fosse stata res nec mancipi. Il patto
commissorio fu vietato da Costantino.
Pluralità di creditori ipotecari: poiché la conventio pignoris (o ipoteca), a differenza
della datio, non comportava il passaggio immediato del possesso al C., la stessa cosa
poteva essere convenuta in pegno (ipotecata) a più C., in tempi diversi e per
obbligazioni diverse. Si stabiliva quindi un rango di precedenze tra i C. secondo il
criterio ‘precedente nel tempo, prevalente nel diritto’: era considerato di rango
maggiore (con ipoteca di 1° grado) non tanto il chi vantasse credito più antico, quanto il
C. in favore del quale l’ipoteca fosse stata convenuta prima. Ai C. di grado inferiore si
dava la possibilità di pagare quanto dovuto al C. di grado superiore per subentrare nel
suo rango.
Estinzione: essa avveniva per:
A)l’estinzione del debito garantito;
B)adempimento;
C)perimento della cosa che ne era oggetto;
D)confusione (nella stessa persona venivano a coincidere le figure del proprietario e
del creditore pignoratizio);
E)vendita;
F)rinunzia creditore.
21.IL POSSESSO
La genesi: le terre pubbliche (ager publicus) erano prima lasciate in godimento a
privati: a volte in dipendenza di provvedimenti con i quali se ne consentiva
l’occupazione, altre volte in forza di speciali concessioni ad opera dei censori dietro
corrispettivo. In ogni caso i concessionari erano detti possessores, il loro potere sulle
terre possessio, l’esercizio del potere ‘possidere’. Da un certo punto il pretore
cominciò a proteggere questi possessores di agri publici contro molestie e
spossessamenti con provvedimenti del tipo di quelli che poi si dissero interdicta. La
stessa protezione il pretore accordò a quanti avessero l’usus di un immobile ai fini
dell’usucapione, o comunque lo tenessero come proprio, poi la estese ancora; tutti
quanti, godendo dello stesso tipo di protezione giudiziaria dei possessores di agri
publici, furono qualificati possessores.
Possessori e detentori: criterio di assicurare la difesa possessoria e attribuire la
relativa qualifica a soggetti che avessero in ordine alla cosa e in punto di fatto una
posizione indipendente, o ne avessero comunque il controllo. Gli esclusi (non
potevano far ricorso a interdetti possessori) erano quei soggetti che pur avendo una
relazione materiale con la cosa, non furono dai Romani riconosciuti possessori, ma
detentori: coloni, inquilini, locatari, depositari, comodatari, usufruttuari, servi e filii
familias.
21.2.POSSESSO E PROPRIETÀ
Tra i possessori legittimati all’esercizio degli interdetti a difesa del possesso vi furono
coloro che tenevano la cosa uti domini, come se fossero proprietari. È soprattutto in
riferimento a questi che si sottolinea nelle fonti come il possesso sia uno stato di fatto,
una situazione che prescinde dal corrispondente stato di diritto. Quindi il possessore uti
dominus era protetto sia che fosse effettivamente proprietario della cosa posseduta sia
che no; ed era protetto sia contro 3i, sia contro lo stesso proprietario se fosse stato lui
a violare il suo possesso. Pertanto, il dominus non possessore, per riavere il
possesso della cosa propria, avrebbe dovuto ricorrere alla rivendica. Se avesse
sottratto in via di autodifesa, la cosa al possessore attuale, avrebbe dovuto anzitutto
ripristinare lo status quo ante.
CAPITOLO VI - LE OBBLIGAZIONI
Per obbligazione si intende il vincolo giuridico (non materiale) per cui un soggetto,
debitore(D) è tenuto a un determinato comportamento nei confronti di altro soggetto,
creditore(C). Il comportamento cui è tenuto il D., e che il C. può pretendere, è la
prestazione; il dovere giuridico del D. è il debito. Il corrispondente diritto soggettivo
del C. è il credito. Quel che caratterizza l’obbligazione è che si tratti di persone
determinate: il diritto di credito, che rappresenta il lato attivo dell’obbligazione, è un
diritto relativo (non assoluto come il diritto reale) perché rispetto ad esso ad essere
obbligate sono una o più persone determinate, esattamente individuate; così come
devono essere determinate e individuate le persone del creditore. L’azione che si dà al
C. contro il D. è un actio in personam. La prestazione del D. consiste in un
comportamento determinato, che spesso è un comportamento positivo: il D. deve fare
qualcosa, a differenza dei soggetti passivi nei diritti reale cui non si può imporre un
fare, come pagare. La realizzazione del credito, pertanto, esige in ogni caso la
collaborazione del D. Il D. inadempiente, se l’inadempimento è a lui imputabile,
incorre di ‘responsabilità’; che è la posizione di chi deve rendere conto, ed è perciò
esposto al rischio di dovere subire una sanzione.
32.LA MORA
È il ritardo colpevole nell’adempimento della prestazione. Poteva essere
imputabile o al D. o al C.
La mora del debitore(mora solvendi): il D. cadeva in mora quando, consapevolmente
e senza alcuna giustificazione, non adempiva al proprio debito. Affinché questa
consapevolezza fosse evidente, si diffuse la prassi di invitare il D. ad adempiere, che fu
chiamata interpellatio. Il D. sarebbe caduto in mora dal momento della interpellatio,
essa si ritenne superflua con:
a. Obbligazioni con termine iniziale previsto nel negozio costitutivo
dell’obbligazione;
b. Obbligazioni nascenti da furto.
La posizione del D. in mora era più gravosa rispetto a quella di ogni altro D.: esso
moroso era infatti responsabile per l’impossibilità sopravvenuta della prestazione
qualunque ne fosse stata la causa. Il periculum sarebbe stato in ogni caso a suo
carico. Anche in proposito si fece ricorso al principio della perpetuatio obligationis: se il
D. è in mora, una volta divenuta per qualsiasi motivo impossibile la prestazione,
l’obbligazione si perpetua. Si ammise però talvolta (nei iudicia bonae fidei) che il D.
moroso fosse liberato se avesse provato che, eseguita tempestivamente la
prestazione, la cosa sarebbe perita ugualmente. Altro principio (nell’ambito dei
giudizi di buona fede) è quello per cui il D. moroso deve corrispondere al C. anche i
frutti della cosa dovuta dal momento in cui sia caduto in mora; o, nel caso dei debiti
pecuniari, gli interessi. Le conseguenze della mora del D. venivano meno una volta
che lo stesso D. avesse purgato la mora offrendo di eseguire la prestazione.
La mora del creditore (mora solvendi): cadeva in mora il C. che rifiutasse la
prestazione che il D. gli offriva. Con la mora del C., il D., divenuta impossibile la
prestazione, sarebbe stato in ogni caso responsabile per dolo soltanto. Per le
obbligazioni pecuniarie si stabilì ulteriormente che, se il D. avesse avuto cura di
depositare in luogo pubblico la pecunia e dopo averla obsignata, sarebbe cessato il
corso di eventuali interessi. Successivamente si andò anche oltre, e si dispose che il
D., nelle stesse circostanze, sarebbe stato liberato dal suo debito. A parte ciò, la
mora cessava una volta che il C. concretamente manifestasse disponibilità a ricevere
prestazione.
34.I CONTRATTI
Essi sono negozi giuridici bilaterali con effetti obbligatori, produttivi dell’obbligazione,
o delle obbligazioni concordemente volute dalle parti.
Tipicità: i contratti erano tipici, tipiche essendo le fonti delle obbligazioni perché erano
tipiche le azioni (in personam) che le sanzionavano; erano quindi di numero chiuso,
ognuno con proprio regime giuridico, ognuno con actio o actiones proprie.
Ma esistevano anche correttivi: si pensi alla stipulatio, anch’essa contratto, in cui la
tipicità stava nella forma e non nei contenuti (che potevano essere i più diversi ed
eterogenei).
Effetti obbligatori: I contratti del diritto romano avevano effetti soltanto obbligatori.
Effetti reali si riconoscevano ad altri negozi giuridici bilaterali come: mancipatio e
traditio, che mai furono qualificati come contratti.
Contratti unilaterali e bilaterali: si ha riguardo al momento formativo dell’atto, che
richiede la partecipazione di due o più parti. Dal punto di vista degli effetti i contratti, in
ogni caso negozi giuridici bilaterali, si distinguono a loro volta in contratti unilaterali,
quali sorgono obbligazioni a carico di una sola parte; e bilaterali, quelli da cui sorgono
obbligazioni a carico di ambedue le parti. Categoria intermedia è quella dei contratti
bilaterali imperfetti, nei quali ad essere obbligata è in ogni caso una sola parte, ma
eventualmente può nascere obbligazione anche a carico dell’altra (deposito e
comodato). In merito ai contratti di compravendita e locazione si deve notare il
carattere bilaterale, per cui ciascuna parte era al contempo creditrice e debitrice
dell’altra. Trattandosi di negozi sanzionati da azioni di buona fede, si afferma il
principio della interdipendenza delle prestazioni: quindi una parte non avrebbe
potuto pretendere dall’altra l’adempimento se non avesse a sua volta adempiuto, o non
fosse stata almeno pronta ad adempiere (contratti sinallagmatici). Un caso a sé e
quello della società, negozio e contratto bilaterale perché due erano le parti e con
obbligazioni reciproche; ma talvolta, negozio e contratto plurilaterale, perché vi
convergevano più di due manifestazioni di volontà, con obbligazioni a favore e a carico
di tutte.
Contratti consensuali: in questi l’obbligazione si contrae in virtù del consenso:
questo vuol dire che il consenso, comunque manifestato, non solo era necessario
(come in tutti i contratti) ma era anche sufficiente. Essi, finché non avesse avuto inizio
l’esecuzione, si potevano sciogliere per muto dissenso. I giuristi romani vi
annovereranno compravendita, locazione, società, mandato, tutti sanzionati azioni di
buona fede.
Contratti reali: in questi l’obbligazione si contrae in virtù della consegna della cosa.
Gli effetti obbligatori si producevano, pertanto, per effetto della consegna di una cosa e
a partire da quel momento. Il consenso non mancava ma era come incorporato nella
consegna, e con la consegna si manifestava. La consegna poteva essere una traditio
(mutuo e pegno). Nel deposito e nel comodato depositario e comodatario, con la
consegna, diventavano solo detentori.
Contratti verbali e letterali:
A)contratto verbale: quello per eccellenza fu la stipulatio. Nei contratti verbali
l’obbligazione nasceva per effetto della pronunzia di parole determinate;
B)contratti letterali: l’obbligazione nasceva con la materiale registrazione per
iscritto di certe operazioni contabili.
Il consenso non mancava, solo che era espresso mediante verba o scriptura.
34.1.IL MUTUO
È definito un contratto reale unilaterale, per cui una parte, detta mutuante, consegna
all’altra, detto mutuatario, una somma di denaro o un’altra cosa fungibile con
l’impegno del mutuatario di restituire al mutuante altrettanto dello stesso genere. Il
mutuo era un negozio causale che realizzava un prestito di consumo. Con la
consegna (traditio) il mutuatario acquistava la proprietà del denaro o delle altre cose
che gli venivano consegnate (che erano res nel mancipi): si trattava quindi di una
datio. Ne nasceva un’obbligazione soltanto, a carico del mutuatario, che avrebbe
dovuto restituire l’equivalente di quanto ricevuto, e per ciò compiere egli stesso una
datio traditio. Quale proprietario del denaro o di quant’altro avuto in prestito, il
mutuatario, avrebbe potuto disporne liberamente; e il rischio sarebbe stato a suo
carico. Per la restituzione, per cui si pattuiva un termine, il mutuante avrebbe agito
con la condictio, che era l’azione per la restituzione del dato e aveva sia applicazioni
contrattuali che extracontrattuali, quella per il mutuo era un’applicazione
contrattuale. La condictio quando aveva ad oggetto una somma di denaro era detta
‘actio certae creditae pecuniae’; se l’oggetto era diverso, era detta ‘condictio certae rei’.
Essa era una azione di stretto diritto in personam e in ius. La formula era senza
demonstratio (astratta). Nell’intentio vi era dedotto un ‘dare oportere’ a carico del
convenuto.
Il mutuo era pertanto un istituto del ius civile, era però riconosciuto e tutelato anche
nei confronti dei peregrini. Il D. era tenuto a restituire l’equivalente di quanto ricevuto,
nulla di più; non era tenuto pertanto al pagamento di interessi. Per gli interessi, se
voluti, si faceva ricorso a una distinta stipulatio; numerose leggi si preoccuparono di
stabilire un limite massimo agli interessi, pena la nullità della parte eccedente.
Fenus nauticum: può essere considerato una specie particolare di mutuo; un prestito
marittimo: riguardava somme di denaro date in prestito x operazioni commerciali
d’oltre mare con tassi di interesse elevati (consentiti anche se al di sopra dei limiti
legali perché se il denaro trasportato periva durante il viaggio il rischio del perimento
era a carico del mutuante, e il D. era liberato).
34.2.IL DEPOSITO
Era un contratto reale bilaterale imperfetto, per cui una parte (deponente)
consegnava all’altra (depositario) una cosa mobile con l’intesa che il depositario la
custodisse gratuitamente e la restituisse al deponente a semplice richiesta.
Con la consegna il depositario acquistava la detenzione della cosa depositata, però
non avrebbe potuto usarla: avrebbe altrimenti commesso ‘furtum usus’; per il
perimento o deterioramento egli era responsabile per dolo, e anche per culpa lata. A
sua volta il deponente era tenuto a rimborsare al depositario le eventuali spese
necessarie che questi avesse erogato su quanto depositato, e a risarcirgli i danni che
la cosa gli avesse procurato (da qui qualifica di bilaterale imperfetto).
Al depositario non era dovuto nulla per la custodia: il contratto era per sua essenza
gratuito. La pattuizione di un compenso avrebbe snaturato il rapporto facendolo
rientrare nella locatio operis. La tutela giudiziaria che si stabilì tra la fine dell’età
repubblicana e l’inizi di quella classica era doppia, pretoria e civile.
Il sequestro: era un tipo speciale di deposito. Vi si faceva ricorso quando
sull’appartenenza della cosa vi era controversia tra due o più persone e queste
preferivano affidarla a un terzo, il sequestratario, perché la custodisse, con l’intesa
che l’avrebbe restituita a quello tra i deponenti che ne fosse stato riconosciuto
proprietario. Il sequestro differiva quindi dal vero deposito perché la restituzione
andava fatta a uno soltanto dei deponenti, e solo dopo che si fosse verificata la
condizione prevista (che uno dei deponenti fosse stato riconosciuto dominus). Il
regime era anche diverso perché il sequestratario, anziché la semplice detenzione,
acquistava la possessio ad interdicta. Però il sequestratario, per le spese e i danni,
godeva della stessa tutela del depositario.
Il deposito irregolare: talune fonti considerano deposito anche l’affidamento ad altri di
denaro contante, che l’accipiente, divenutone proprietario, avrebbe potuto mescolare
con il proprio e utilizzare. A richiesta, avrebbe dovuto restituire l’equivalente (tipo
deposito bancario). Poteva però assomigliare al mutuo anche se la differenza stava
che nel deposito irregolare l’iniziativa era del deponente, che desiderava che sul
denaro venisse custodito.
34.3.IL COMODATO
Era un contratto reale e bilaterale imperfetto, una parte (comodante) consegnava
all’altra (comodatario) una cosa mobile con l’impegno del comodatario di restituire la
stessa cosa; eppure il comodatario acquistava nient’altro che la detenzione della
cosa ricevuta in comodato. Solo che il comodato era un prestito d’uso gratuito
nell’interesse del comodatario: questo poteva usare la cosa comodata e non doveva
per l’uso alcun compenso (se fosse intervenuto compenso il rapporto sarebbe rientrato
nella locatio rei). Poiché il contratto era tutto a vantaggio del comodatario, questo,
perita o deteriorata la cosa, rispondeva per custodia, criterio di resp. rigoroso. Al
comodatario (come al deposit.) erano dovuti rimborso per eventuali spese erogate
sulla cosa e risarcimento per eventuali danni che la cosa gli avesse procurato. Anche
il comodato (come il deposito) ebbe tutela pretoria e tutela civilistica, con in favore
del comodante per la restituizione della cosa; azione contraria in favore del
comodatario per eventuali spese e danni.
34.4.IL PEGNO
Era un contratto reale bilaterale imperfetto, per cui taluno (oppignorante) a garanzia
di un debito consegna al C. una cosa con l’intesa che, estinto il debito, la stessa cosa
gli venga restituita. Il C. pignoratizio acquista sulla cosa la possessio ad interdicta,
ma non può utilizzarla. Per perimento o deterioramento risponde per custodia. Anche
al C. pignoratizio era dovuto il rimborso di eventuali spese necessarie e danni. Il
regime usato fu l’actio diretta per chi, avendo ricevuto una cosa in pegno a garanzia
di un proprio credito, una volta estinto il credito non l’avesse restituita.
34.5.LA FIDUCIA
La tutela processuale di deposito, comodato e pegno risale all’ultima età repubblicana.
In precedenza, il risultato pratico di questi negozi si conseguiva con il ricorso alla
fiducia. Una parte, il fiduciante, trasferiva all’altra, il fiduciario, la proprietà di una
cosa (res mancipi) mediante mancipatio o in iure cessio. Ciò con il patto che, verificate
certe condizioni, la stessa cosa sarebbe stata ritrasferita in proprietà al fiduciante: il
pactum fiduciae. Se e quando la cosa dovesse tornare in proprietà al fiduciante
dipendeva dalla causa negoziale per cui alla fiducia si era fatto ricorso (negozio
fiduciario). La fiducia poteva essere: cum creditore, dove il passaggio di proprietà era
a garanzia di un credito del fiduciario sicché sarebbe stato dopo l’avvenuta estinzione
del debito che il C. fiduciario avrebbe dovuto ritrasferire al fiduciante la proprietà della
res fiduciae data; cum amico, la causa poteva essere la custodia (come nel
deposito), forse anche un prestito d’uso (come nel comodato): il fiduciario avrebbe
pertanto ritrasferito la proprietà all’altra parte a semplice richiesta.
Il fiduciante, poiché mancipatio e in iure cessio di immobili non comportavano di per sé
passaggio del possesso, avrebbe potuto, nella fiducia cum creditore, trattenere il
possesso: avrebbe allora riacquistato la proprietà per effetto di usureceptio (si
compiva con il decorso 1 anno a prescindere a iusta causa). Il fiduciario evitava
usureceptio se lasciava la cosa all’altra parte a titolo di locazione o precario.
Al fiduciante non possessore dapprima bastava, ai fini della restituzione, fare
affidamento sul vincolo che nasceva dalla fides. Con il processo formulare al fiduciante
si diede un’actio fiduciae per il riacquisto di proprietà e possesso.
L’azione era in personam, reipersecutoria e infamante e la formula faceva riferimento a
criteri di lealtà e correttezza. Il grado di responsabilità del convenuto fu esteso alla
culpa. Il fiduciario avrebbe potuto far valere con exceptio doli e eventuale retentio le
proprie contropretese per spese necessarie e danni.
334.8.LA COMPRAVENDITA
Nell’età arcaica la funzione della compravendita si realizzava attraverso la mancipatio,
con lo scambio immediato di cosa contro prezzo. Più tardi, per la stessa funzione si
riconobbe validità, ma con effetti solo obbligatori, al mero consenso. La giurisprudenza
rilevò che, nella specie, le obligationes nascevano per effetto del solo consesno e
qualificò ‘contratto’ l’atto con cui questo consenso si manifestava, inquadrandolo poi
tra i contratti consensuali. Pertanto, la compravendita del diritto romano (emptio
venditio) può essere definita come un contratto consensuale in cui una parte
(venditore) si obbliga a fare conseguire all’altra (compratore) il pacifico godimento di
una cosa (merx). E dal canto suo il compratore si obbliga a pagare al venditore un
corrispettivo in denaro (pretium) nella misura convenuta. Ad obbligarsi erano ambedue
le parti: da ciò la qualificazione di contratto bilaterale. Era fruibile da cittadini e
peregrini (ius gentium). Era sanzionata da azioni in ius di buona fede.
Il consenso: doveva essere manifestato, non importa come. Fu solo per esigenze
probatorie che si usò redigere per iscritto un documento che attestasse l’accordo
concluso e le condizioni della vendita. Da età postclassica l’impiego di strumenti
probatori ebbe tale ampia diffusione che, in relazione alla vendita di immobili esso fu
ritenuto necessario. Al consenso così manifestato si attribuì efficacia traslativa del
dominio. Non era raro il ricorso a una caparra, somma di denaro che in età classica
poteva essere versata contestualmente alla conclusione del contratto, col solo valore di
conferma del consenso prestato.
L’oggetto: l’oggetto della vendita era detto merx: più spesso si trattava di cose
corporali (res mancipi e nec mancipi, cose mobili e immobili), ma la vendita poteva
avere ad oggetto anche eredità, superficie, servitù, usufrutto, crediti (cose non
corporali). Era ammessa anche la vendita di cose future, che poteva essere o una
vendita soggetta alla condizione sospensiva che le cose vendute venissero ad
esistenza (emptio rei speratae); o l’emptio spei, una vendita aleatoria, non
condizionata: il compratore avrebbe dovuto comunque pagare il prezzo stabilito
forfetariamente, il venditore non avrebbe potuto esigere di più.
Il prezzo: doveva essere espresso in denaro contante. Solo se il prezzo fosse stato
espresso in denaro sarebbe stato possibile distinguere quale delle due prestazioni
fosse il prezzo e quale la merce, e pertanto quale delle parti fosse il compratore e
quale il venditore. Distinguerlo era necessario perché diverse erano le azioni che
spettavano all’uno e all’altro (actio empti al compratore/ actio venditi al venditore); ed
erano diverse le prestazioni alle quali compratore e venditore erano tenuti (l’uno
doveva trasferire la proprietà delle monete, l’altro solo il pacifico possesso della
merce), e diverse erano le responsabilità. La misura del prezzo era quella
liberamente concordata tra le parti.
Le obbligazioni del compratore: il compratore era tenuto a pagare il prezzo e quindi
fare traditio delle monete sì da farne conseguire al venditore la proprietà. Contro il
compratore inadempiente il venditore avrebbe esercitato l’actio venditi.
Le obbligazioni del venditore: il venditore era tenuto a far conseguire al compratore il
pacifico godimento della merx: ciò comportava che il venditore non era di per sé
obbligato a trasferire al compratore la proprietà della cosa venduta ma a farne
traditio: una traditio che faceva acquistare al compratore il possesso della cosa
libero da persone e cose. Contro il venditore inadempiente al compratore si dava
l’actio empti (buona fede). Se la merce non consegnata contestualmente alla vendita
periva, il compratore rispondeva per custodia. Ma il rischio (periculum) era a carico
del compratore: perita la cosa accidentalmente o per forza maggiore il compratore
sarebbe stato ugualmente tenuto a pagare il prezzo.
L’evizione: il venditore che aveva venduto una cosa non propria non era per questo
in sé responsabile, purché avesse fatto conseguire al compratore il pacifico godimento
della cosa venduta. Una responsabilità del venditore poteva sorgere se il compratore
subiva evizione: il terzo rivendicava con successo, presso il compratore, la cosa
venduta. Il venditore non era tenuto a mancipare la cosa venduta, neppure se si fosse
trattato di res mancipi: avrebbe dovuto solo far acquistare al compratore il possesso
della cosa libero da persone e cose. Ma era prassi frequente che il venditore di res
mancipi, pur non avendone l’obbligo, ne facesse mancipatio. Ecco allora che il
venditore mancipante, in dipendenza della mancipatio, incorreva in responsabilità
per il fatto della minacciata evizione, perché era tenuto a prestare auctoritas: ad
assistere il compratore nel giudizio di rivendica promosso dal terzo.
Contro il mancipante che (debitamente avvisato del giudizio in corso) non avesse
prestato auctoritas o che, essendo intervenuto, non avesse potuto evitare l’evizione, si
dava al mancipio accipiens compratore l’actio auctoritas per il doppio del prezzo.
Ma la mancipatio poteva non avere luogo sicché il compratore poteva garantirsi
facendosi promettere dal venditore (con una stipulatio duplae) il doppio del prezzo in
caso di evizione. In età classica si finì per ritenere conforme alla bona fides che,
almeno in assenza di mancipatio, ogni venditore prestasse la stipulatio duplae. La
conseguenza fu che il venditore, per l’evizione subita dal compratore, poté essere
chiamato a rispondere direttamente con l’actio empti: la responsabilità del venditore
per l’evizione si fece discendere direttamente dal contratto consensuale di
compravendita (a prescindere da mancipatio o stipulatio).
Vizi occulti: vizi o difetti materiali della cosa non manifesti al compratore all’atto della
vendita. Il punto di partenza è che una responsabilità del venditore non discendeva di
per sé dal contratto consensuale di vendita. A parte ciò, il venditore che avesse
promesso con stipulatio che la cosa venduta possedeva certe qualità, o era esente da
certi vizi, sarebbe stato convenibile dal compratore (stipulante) con l’actio ex stipulatu
una volta verificata l’assenza delle qualità promesse o la presenza dei vizi dichiarati
inesistenti. Per il minor valore si ammise il ricorso all’actio empti: in questa maniera la
garanzia del venditore per vizi occulti si fece discendere dal contratto consensuale di
compravendita e ne divenne elemento naturale.
Patti aggiunti: Il regime della vendita poteva essere integrato o derogato mediante
patti aggiunti. In materia di compravendita si trattava di patti risolutivi sospensivamente
condizionati per cui la vendita, nel suo complesso, risultava soggetta a condizione
risolutiva. Quei patti prevedevano che, al verificarsi di una certa condizione, la vendita
dovesse considerarsi non avvenuta.
34.9.LA LOCAZIONE
Era un contratto consensuale bilaterale per cui, con l’esplicita previsione di un
corrispettivo (merces) una parte (locatore) si impegna a mettere a disposizione
dell’altra, per un periodo di tempo limitato e con uno scopo preciso, una cosa mobile o
immobile. E l’altra parte (conduttore) si impegna a prenderla in consegna per poi
restituirla una volta scaduto il termine convenuto o raggiunto lo scopo previsto. Le
obbligazioni reciproche delle parti erano sanzionate dalle actiones locati (a favore del
locatore) e conducti (in favore del conduttore) che erano in ius ex fide bona.
Il tipo di contratto può essere qualificato ius gentium in relazione ai soggetti che ne
fruivano e ius civilis per gli effetti. Si usava distinguere tra i diversi tipi di locatio.
Locatio rei: corrisponde in sostanza alla locazione del nostro codice civile. Poteva
avere ad oggetto cose mobili o immobili. Il locatore assumeva l’obbligo di
consegnare la cosa, che doveva essere idonea all’uso convenuto ed esente da vizi
non dichiarati, e di assicurarne al conduttore il godimento. Il conduttore assumeva
l’obbligo di pagare la mercede (solitamente espressa in denaro) alle scadenze stabilite,
di mantenere la cosa nelle condizioni in cui gli era stata consegnata e di restituirla alla
scadenza. Il conduttore acquistava, anche, la detenzione della cosa (non il possesso),
ed era responsabile per custodia nel caso di perimento o deterioramento della cosa
locata. Per il mancato godimento della cosa dipendente da caso fortuito o forza
maggiore, il locatore non era responsabile, ma il conduttore sarebbe stato liberato
dall’obbligo di pagare la mercede.
Locatio operis: poteva avere ad oggetto cose mobili e immobili. Il locatore si
obbligava a consegnare una cosa; il conduttore a esercitare autonomamente ma
nell’interesse del locatore una certa attività relativamente alla stessa cosa sì da
raggiungere il risultato convenuto, per poi restituirla al locatore. Il conduttore avrebbe
acquistato la detenzione e sarebbe stato responsabile per custodia se la res locata
periva o si deteriorava; per cattiva esecuzione dell’opera lo stesso conduttore
rispondeva per ‘imperitia’ (equiparata alla culpa). Egli invece era liberato per
impossibilità sopravvenuta della prestazione dipendente da caso fortuito o forza
maggiore; nel qual caso il periculum sarebbe stato del locatore, che avrebbe dovuto
ugualmente pagare la mercede.
La lex Rhodia de iactu: un regime particolare di locatio operis si stabilì riguardo alle
merci trasportate per mare. Se per difficoltà della navigazione si era costratti a gettare
in mare parte delle merci locate per il trasporto, secondo i principi il rischio avrebbe
dovuto essere sopportato dai locatori delle merci perdute. Ma il diritto romano recepì
questa lex per cui, nel caso prospettato, il rischio si ripartiva proporzionalmente tra
tutti i locatori delle merci che erano state imbarcate sulla stessa nave (bona fides).
Locatio operarum: un uomo libero assumeva l’impegno di mettere la propria attività
lavorativa (operae) alle dipendenze di altra persona, la quale si obbligava a pagare,
come corrispettivo una certa mercede. Il lavoratore era il locatore, il datore di lavoro il
conduttore. Il periculum era a carico del datore di lavoro, che avrebbe dovuto pagare
la mercede anche se il lavoratore non avesse prestato le opere per cause a lui non
imputabili. Corrisponde in buona sostanza al contratto di lavoro subordinato. Bisogna
specificare che i lavoratori liberi, in età classica, erano pochi e soffrivano di scarsa
considerazione sociale. Tra le attività lavorative prestate nell’interesse di terzi furono
considerate degne di uomini liberi solo le cosiddette artes liberales (avvocati). Esse
non erano prestate in posizione di subordinazione e si esercitavano gratuitamente. Si
potevano offrire però dei donativi che divvenerò una prassi obbligatoria.
34.10.LA SOCIETÀ
Era un contratto consensuale bi/plurilaterale, per cui due o più persone (socii)
convenivano di mettere in comune beni e attività di lavoro al fine di conseguire un
lucro per tutti previa divisione di profitti e perdite. Si trattava di un contratto iuris
gentium e insieme di ius civile perché sanzionato da una azione in ius (actio pro socio
di buona fede). Il grado di responsabilità del socio per inadempimento o cattivo
adempimento era diverso a seconda delle situazioni e circostanze: si rispondeva per
dolo o per colpa, in qualche caso per custodia. Ma il criterio generale appare quello
della culpa in concreto. Il tipo più antico di società fu la societas omnium bonorum
(di tutti i beni), dove i soci convenivano di mettere in comune tutti i loro beni, presenti e
futuri. Ma non dovette tardare il riconoscimento di altri tipi. La società consensuale era
un singolare contratto consensuale perché non solo le parti si obbligavano in forza del
semplice consenso comunque manifestato ma era altresì necessaria la perseveranza
nel consenso (affectio societatis). La società si scioglieva pertanto, oltre che per
reciproco dissenso, anche se uno solo dei soci manifestava la volontà di recedere dal
contratto. Si scioglieva anche per esaurimento dello scopo, per l’impossibilità
sopravvenuta di raggiungerlo, per morte e capitis deminutio anche di un solo dei
soci. Dal contratto di società, sanzionate dall’actio pro socio, nascevano le
obbligazioni. Profitti e perdite andavano divisi in parti uguali se nulla era convenuto in
proposito; diversamente secondo i patti. Un patto per cui un socio partecipasse agli
utili e non alle perdite era valido; era nullo il patto che limitava la partecipazione di
questo o quel socio alle perdite soltanto. Per la fraternitas che si stabiliva tra soci e per
la fiducia reciproca che essa avrebbe dovuto comportare, la condanna nell’actio pro
socio era infamante; ma il convenuto godeva del beneficium cmperentiae, per cui
avrebbe potuto evitare la condanna pagando tempestivamente nei limiti delle sue
possibilità economiche.
La società consensuale romana non dava luogo alla costituzione di un patrimonio
autonomo distinto da quello personale dei singoli soci; né la societas assumeva
rilevanza esterna verso terzi. Così per limitare la responsabilità verso terzi
nell’esercizio di un’attività comune, si ricorreva all’espediente di svolgerla per mezzo di
schiavi, appositamente forniti di peculio. In tal modo la responsabilità dei domini non
sarebbe andata oltre il valore del peculio; al più, non oltre il limite del loro
arricchimento conseguente all’attività del servo.
34.11.IL MANDATO
Era un contratto consensuale bilaterale imperfetto, per cui una parte conferisce un
incarico all’atra, che si impegna ad eseguirlo (mandante e mandatario).
Al mandatario non era dovuto alcun compenso. La previsione di un compenso
avrebbe fatto sì che il rapporto, anziché nel mandato, si inquadrasse nella locatio
operis. Il mandato poteva essere nell’interesse del solo mandante o nell’interesse
anche di terzi. Furono invece negati gli effetti del mandato all’incarico nell’interesse del
mandatario: ad esso si attribuì il significato di semplice suggerimento. Contro il
mandatario si dava al mandante l’actio mandati directa. Contro il mandante si dava
al mandatario l’actio mandati contraria. Il mandatario (perseguibile con l’azione diretta)
aveva l’obbligo di eseguire fedelmente l’incarico e trasferire al mandante beni, diritti
e crediti acquistati in relazione al mandato espletato. Sul mandante (perseguibile con
l’azione contraria) gravava l’obbligo di rimborsare al mandatario le spese e risarcire i
danni occorsi, e sollevarlo dai debiti assunti.
L’esigenza che il mandatario trasferisse al mandante quanto acquistato, e che il
mandante si accollasse i debiti assunti dal mandatario derivava dal fatto che il
mandatario non era rappresentante (diretto) del mandante. Il sistema adottato era
quello della rappresentanza indiretta. Per l’inadempimento o per la cattiva
esecuzione del mandato, il mandatario rispondeva solitamente solo per dolo.
La condanna nell’actio mandati directa comportava infamia per il mandatario.
Le azioni mandati, diretta e contraria, erano in ius ex fide bona e spettavano anche
contro e a favore di peregrini (ius gentium assieme a ius civile). Il mandato si
estingueva per revoca del mandante, per rinunzia del mandatario e per morte di una
delle parti; per reciproco dissenso e una volta esperito l’incarico.
35.I PATTI
Erano convenzioni e accordi, in qualsiasi forma manifestati, che non rientravano nello
schema di alcun contratto tipico; vennero detti nuda pacta. Inizialmente si sostenne
che dai nudi patti non nascesse obbligazione (tranne che per furto e iniuria) poi questo
principio perse in larga misura il suo valore; superata così la tipicità contrattuale, ogni
accordo, purché lecito avrebbe potuto essere contratto e avere effetti obbligatori. Il
pretore tutelò i patti precisando che doveva trattarsi di patti concordati senza dolo
dell’una o dell’altra parte, non contrari a leggi e fonti normative equiparate, né in frode
ad esse. A tali patti il pretore diede però efficacia limitata: non mediante actiones ma
mediante exceptio pacti conventi questo vuol dire che i patti, a differenza dei
contratti, non davano luogo a obbligazioni. La parte che ne traeva vantaggio non
avrebbe potuto promuovere giudizio; convenuta però in violazione del patto, avrebbe
opposto l’exceptio pacti conventi sì da essere assolta una volta che il giudice avesse
verificato l’effettiva esistenza del patto.
Patti aggiunti: in materia di giudizi di buona fede, dovendo il giudice stabilire a che
cosa fosse tenuto il convenuto ex fide bona (è conforme a buona fede mantenere gli
impregni assunti), l’exceptio pacti conventi era superflua perché il giudice avrebbe
potuto tenere conto dei patti in favore del convenuto pure se la formula non ne avesse
fatto menzione. In merito ai patti aggiunti a contratti dai quali derivavano azioni di
buona fede si fece distinzione tra ‘pacta adiecta in continenti’ e ‘pacta adiecta ex
intervallo’, I primi contestuali, gli altri successivi alla conclusione del contratto. Inoltre I
primi furono considerati parte integrante del contratto, e pertanto ebbero veri e propri
effetti obbligatori.
Il compromissum: Giustiniano diede poi efficacia diretta obbligatoria al patto
(extragiudiziario) con cui due parti convenivano di rimettere all’arbitrato di un terzo
scelto di comune accordo la decisione di una controversia tra loro. La rilevanza
giuridica era indiretta: attraverso reciproche stipulationes penali ciascuna parte
prometteva all’altra una pena pecuniaria, se la parte promittente non si fosse poi
adeguata alla pronunzia dell’arbitro. Questo fu il compromissum, che la moderna
dottrina qualificò come ‘patto legittimo’ in base al fatto che a dare diretta efficacia
obbligatoria era stata una costituzione imperiale, una legge.
Altri sviluppi postclassici: un ulteriore breccia aperta nel sistema classico delle
obbligazioni è rappresentata dall’estensione dell’efficacia obbligatoria dei patti aggiunti
contestualmente ai contratti, anche se non di buona fede (mutuo e stipulatio). In tal
modo, superata in sostanza la tipicità contrattuale, ogni accordo, purché lecito,
avrebbe potuto essere detto ‘contratto’ ed avere effetti obbligatori.
37.I DELITTI
Le obligationes derivavano pure da questi; atti illeciti, comportamenti volontari riprovati
dal diritto.
I delitti erano tipici: non si stabilì uno schema generale per cui gli atti che vi rientrassero
si qualificavano come tali. Ad esser detti delitti furono comportamenti determinati che
l’ordinamento riprovava, ognuno con proprie connotazioni e con proprio regime
giuridico, tutti comunque rientranti tra quelli che, per distinguerli dall’inadempimento
delle obbligazioni, si è soliti chiamare atti illeciti extracontrattuali.
L’obligatio che derivava specificamente dai delicta era rappresentata dal vincolo
giuridico che era riconosciuto esistente tra offensore ed offeso per cui l’uno era tenuto
verso l’altro al pagamento di una pena pecuniaria perseguibile con un’azione penale
nell’ambito di un processo privato.
Il criterio generale per l’imputabilità del delitto al suo autore fu generalmente quello del
dolo: il delitto si imputava al suo autore se commesso col deliberato proposito di
provocare all’offeso il pregiudizio che gliene era derivato. Solo che in questa materia il
dolo era il più delle volte implicito nel comportamento dello sensore. Ma, con riguardo
al damnum iniura datum, si giunse a parlare di colpa e si imputò così il
danneggiamento anche a chi l’avesse provocato per negligenza e imprudenza.
D’altro punto di vista si deve notare che esistevano anche i crimina: comportamenti
più direttamente lesivi degli interessi della comunità, e pertanto più gravemente
riprovati erano andati assumendo una connotazione propria sanzionati con delle pene
anche assai gravi (dalla pena capitale alla multa). Repressi nell’ambito di iudicia
pubblica. Nel concorso tra quest’ultimo e i ‘iudicia privata’ (che erano di norma i giudizi
per i quali in età classica si agiva per formulas), più spesso i due iudicia si cumulavano;
a volte si pretendeva che il ‘iudicia publicum’ si svolgesse prima di quello privato. Nel
diritto giustinianeo resteranno pochi i delitti non perseguibili come crimini. Ciò portò alla
depenalizzazione degli illeciti privati extracontrattuali, cioè alla totale
depenalizzazione del diritto privato.
37.1.IL FURTO
Tra i delicta il furto era uno dei più antichi. Esso coincide con la sottrazione illecita di
una cosa mobile altrui. Da un certo momento la giurisprudenza si preoccupò che non
restassero impuniti taluni comportamenti sentiti come illeciti e tuttavia come tali non
sanzionati; si pervenne, così, ad una concezione di esso molto ampia, sì che si
qualificò furto ogni comportamento doloso che, non integrando gli estremi di altri delitti,
provocasse ad altri una perdita, o anche solo uno svantaggio relativamente ad una
cosa mobile o immobile. Successivamente si ebbe un ridimensionamento della nozione
nuovamente limitato alle cose mobili. Ma quello di furto rimase un concetto ampio,
ferma restando l’esclusione di fattispecie rientranti in altri delicta, si ritenne sufficiente,
sotto il profilo oggettivo la contrectatio rei, cioè il contatto fisico con la cosa pur senza
la materiale sottrazione (furtum usus). Quanto all’aspetto soggettivo, dovendosi
distinguere il furto da altre figure di illecito, si richiese a volte che la contrectatio fosse
compiuta contro la volontà del proprietario della cosa, altre volte che fosse
compiuta per conseguire un lucro, altre volte ancora che l’autore avesse l’intenzione
di commettere furto; in ogni caso si trattava di contrectatio fraudolosa. Non era
considerato furto la sottrazione di cose ereditarie di un’eredità giacente, e sì escluse
pure il furto tra marito e moglie.
Genera furtorum:
A)Furtum manifestum: furto commesso dal ladro preso, catturato dal derubato sul
fatto;
B)Furtum nec manifestum: ogni furto non manifesto.
Sanzioni: l’autore del furtum manifestum poteva essere fustigato e poi addictus dal
magistrato al derubato. Ma se il furto era commesso di notte o se il ladro avesse
tentato di difendersi con le armi, il derubato, invocata la testimonianza dei vicini,
avrebbe potuto impunemente uccidere il ladro. Molto presto queste misure non furono
più applicate. Furono sostituite dall’actio furti manifesti (azione penale pretoria)
mediante la quale il derubato perseguiva il quadruplo del valore della cosa rubata.
L’azione si esercitava direttamente contro il ladro se questi era sui iuris; contro
l’avente potestà e in via nossale se il ladro era alieni iuris, soggetto a potestà.
Per il furtum nec manifestum si era stabilita una pena pecuniaria per il doppio valore
della cosa rubata. Questa fu mantenuta dal pretore e perseguita con la penale actio
furti nec manifesti. Entrambe le actio (manifesti e nec) erano infamanti ed era
legittimato, non tanto il derubato in sé, quanto il derubato che avesse un interesse
giuridicamente apprezzabile che la cosa non venisse rubata. Solitamente ad avere
questo interesse era il proprietario della cosa, ma poteva anche essere una persona
diversa (comodante ad es.). Queste azioni rimasero di natura penale.
La condictio ex causa furtiva: con la penale actio furti concorreva, e con essa si
cumulava, la condictio (reipersecutoria). A differenza che all’actio furti, alla condictio ex
causa furtiva era ammesso il proprietario della cosa rubata in quanto tale; con la
conseguenza che, ad es. nel caso di furto di cosa comodata, il comodante dominus
avrebbe agito contro il ladro con la condictio, il comodatario con l’actio furti (le due
azioni si cumulavano perché una era reipersecutoria, l’altra penale).
Quella della condictio ex causa furtiva era una singolare applicazione della condictio
perché, secondo la regola, la condictio presupponeva una datio ed era diretta a una
datio (intendendosi per datio il trasferimento della proprietà). Ma nel caso del furto non
vi è stata una datio (il ladro non diveniva proprietario) né l’azione era volta a una
datio. E ciò si spiega supponendo che il significato tecnico di ‘datio’ come
trasferimento di proprietà non sia originario.
Condictio (azione personale) e rei vindicatio (azione reale) rappresentavano per il
derubato una garanzia maggiore. Ma la condictio era per il proprietario derubato un
rimedio più sicuro, essa era un actio in personam, comunque esperibile contro il
ladro debitore pure se non più possessore e pure se la cosa fosse perita, comunque
fosse perita, persino se per forza maggiore. Ciò per la regola che il ladro è sempre in
mora.
37.4.L’INIURIA
La legge XII Tav. prevedeva pene diverse per determinate offese arrecate all’integrità
fisica o comunque al fisico di altra persona. Le offese previste dalla legislazione erano:
A)membrum ruptum: lesione fisica con perdita definitiva della funzionalità di un
organo; la pena stabilita era la legge taglione alla quale l’autore si poteva sottrarre
concordando con la vittima una composizione pecuniaria.
B)os fractum: frattura di un osso che non comportava perdita della funzionalità
dell’organo; la pena era di 300 o di 150 sia seconda che la vittima fosse un libro un
servo.
C)lesioni e violenze fisiche minori; la pena era di 25 anni.
Da un certo punto il taglione fu ritenuto una pena rozza e primitiva, però le pene
pecuniarie previste apparvero irrisorie. Per questo motivo il pretore istituì, per la
persecuzione degli atti dolosi e ingiusti di violenza fisica alle persone, tutti qualificati
iniuriae, l’actio iniuriarum aestimatoria (detta aestimatoria per la natura pecuniaria e
non predeterminata della pena). In virtù di successivi interventi pretori con l’actio
iniuriarum furono represse pure le offese morali, anch’esse poi sussunte sotto la
denominazione di iniuria. Quest’actio era penale e infamante. La pena era
pecuniaria, nella misura di volta in volta stabilita secondo l’entità dell’offesa sulla base
di criteri di equità. Per il carattere particolare e delicato della materia a giudicare non
era il giudice unico ma un giudice collegiale (i recuperatores).
La condemnatio della formula era con taxatio. Per il suo carattere personalissimo
l’actio iniuriarum era intrasmissibile agli eredi non solo dal lato passivo ma anche da
quello attivo (morto l’offeso prima di averla esercitata l’azione non sarebbe stata
esperibile dagli eredi).
39.1.L’ADEMPIMENTO (solutio)
L’adempimento della prestazione non era sempre sufficiente, in età arcaica, A
estinguere l’obbligazione. La solutio divenne il modo più naturale per l’estinzione
delle obbligazioni dalla prima età postclassica. Con la solutio l’obbligazione si
estingueva ipso iure.
A compierla era solitamente il D. Poteva effettuarla anche un terzo, salvo che non si
trattasse di prestazioni di facere che richiedevano specifiche abilità. La solutio doveva
essere fatta al C. Ma si poteva adempiere anche al procurator del C, a persona
all’uopo personalmente indicata dallo stesso C, all’adiectus solutionis causa. La
prestazione doveva essere adempiuta per l’intero, salvo che il C. non accettasse un
adempimento parziale. Eccezionalmente il D. poteva effettuare un adempimento
parziale, questo perché godeva del beneficium competentiae; esso si realizzava in
forza della taxatio e comportava che il D. non potesse subire condanna oltre il limite
delle sue possibilità economiche. Il D. avrebbe in tal modo evitato esecuzione per
debiti e infamia che vi era connessa.
Datio in solutum (dazione in pagamento): il D. doveva eseguire esattamente la
prestazione dovuta. Avrebbe potuto al posto di essa compiere una prestazione diversa,
effettuando così una datio in solutum, solo con il consenso del C.
La prestazione andava adempiuta nei tempi indicati nell’atto costituivo: e quindi, alla
scadenza del termine o dell’avveramento della condizione, se erano previsti termini
iniziali o condizioni sospensive; se l’atto costitutivo non li avesse preveduti, i tempi di
esecuzione della prestazione avrebbero dovuto desumersi dalle circostanze o dal tipo
di prestazione. In difetto di indicazioni (esplicite o implicite) la prestazione era dovuta
immediatamente. Il luogo dell’adempimento era quello risultante dall’atto costitutivo,
dalle circostanze e dal tipo di prestazione. Se nulla risultava, la prestazione andava
eseguita nel luogo dove il debitore poteva essere convenuto in giudizio (domicilio).
39.3.LA TRANSAZIONE
Modo di estinzione ope exceptionis. Era una specifica causa di negozi astratti e,
insieme, un particolare caso di applicazione del pactum de non petendo.
Presupponeva una lite in corso o anche solo incertezza sui diritti e doveri reciproci
delle parti, sicché queste, per mettere fine alla lite o alla prospettiva di liti future,
pattuivano reciproche attribuzioni e rinunzie.
Per le attribuzioni, quando non vi si procedeva immediatamente (come nelle
mancipationes, traditiones) si assumeva l’impegno mediante stipulatio.
Per le rinunzie il pactum transactionis era sufficiente potendo esso all’occorrenza
essere opposto validamente: se del caso, mediante exceptio.
39.4.LA NOVAZIONE
Si intende la sostituzione di una obbligazione con un’altra talché la prima si
estingue e al suo posto sorge la nuova. La novazione si verificava per effetto di una
stipulatio che, avendo ad oggetto la stessa prestazione, facesse espresso riferimento
al rapporto obbligatorio che con essa si voleva estinguere.
Per effetto della novazione la prima obbligazione si estingueva ipso iure, e con essa si
estinguevano, se non rinnovate, eventuali garanzie personali e reali, e si interrompeva
il corso di eventuali interessi. I classici subordinarono l’effetto novativo alla presenza
di altri due requisiti: aliquid novi(la nuova obbligazione doveva presentare qualcosa di
nuovo rispetto all’antica) e animus novandi(si richiedeva l’intenzione delle parti di
procedere a novazione). (Idem debitum)
La stipulatio Aquiliana: un caso interessante e particolare di novazione oggettiva si
realizzava con questa stipulatio. In unica stipulatio si deduceva in maniera generica il
corrispettivo pecuniario di ogni debito o comunque obbligo del promittente verso lo
stipulante in modo che, compiuta la stipulatio, il promittente fosse tenuto verso lo
stipulante ad una sola prestazione. Vi si ricorreva a scopo transattivo e nei rapporti tra
amministratori di complessi patrimoniali e amministrati.
La delegatio promittendi: nella novazione soggettiva l’elemento nuovo riguardava o
la persona del C. o quella del D. e faceva generalmente seguito a delegatio
(autorizzazione unilaterale e informale). La delegatio poteva essere:
A)attiva: Il C. (delegante) invitava il proprio D. (delegato) a promettere con stipulatio a
un terzo (delegatario) quel che lo stesso D. doveva al C. Avveniva così: il terzo
(delegatario) interrogava il delegato: ‘prometti di dare a me quel che devi al delegante
Tizio?’; il D. delegato rispondeva ‘prometto’. Così,per effetto della stipulatio, si
estingueva (per novazione) l’obbligazione tra delegante e delegato e se ne costituiva
una nuova (ex stipulatu) con lo stesso oggetto tra delegato e delegatario. Mutava in
tal modo la persona del creditore.
B)passiva: Delegante: D., Delegato: terzo, Delegatario: C.
Su invito del D. il terzo prometteva al C. ciò che allo stesso doveva il delegante.
Cambiava in tal modo la persona del debitore.
Litis contestatio e sentenza: presenta un effetto preclusivo (l’atto con cui si
chiudeva la fase in iure del processo) ed estintivo: il C. non può tornare ad agire, e
quindi il suo credito è estinto (ipso iure). Il giudice avrebbe dovuto comunque
condannare il convenuto riconosciuto (D) perché una volta estinta per effetto della litis
contestatio l’obbligazione, non per questo il D. convenuto deve intendersi liberato: non
è più tenuto in virtù del vincolo originario ma è comunque tenuto in forza di un vincolo
di natura processuale. Vincolo chiamato condemnari oportere.
La sentenza di condanna poi avrebbe fatto estinguere il condemnari oportere e dato
luogo a obligatio iudicati. Per effetto della litis contestatio, pertanto, aveva luogo una
sorta di novazione. Ad ulteriore novazione dava luogo la sentenza di condanna.
39.5.LA COMPENSAZIONE
Modo di estinzione ope exceptionis. Se il C. è anche D. del proprio debitore, crediti e
debiti reciproci si estinguono nella misura in cui concorrono. Si distingue oggi tra
compensazione legale e giudiziale: nella prima, l’estinzione ha luogo
automaticamente, perché vengono a coesistere tra le stesse persone crediti e debiti
reciproci; nella seconda, l’estinzione si verifica per effetto della sentenza del giudice, il
quale procede ad operazione contabile e condanna una delle parti all’importo
corrispondente alla differenza tra i due crediti. Il fenomeno della compensazione legale
è sconosciuto al diritto romano. Era dapprima esclusa anche la compensazione
giudiziale, perché ad ogni obligatio corrispondeva un’azione tipica, e le strutture del
processo ordinario erano tali da non consentire, in via di principio, che si mescolassero
nell’ambito dello stesso giudizio questioni attinenti ad actiones diverse.
Dall’ultima età repubblicana riguardo al processo formulare si ammisero alcune
deroghe. I casi di compensazione erano 3:
A)Obbligazioni perseguibili con azioni di buona fede: non si ritenne di buona fede
chiedere l’adempimento di una prestazione se non si era a sua volta adempiuta la
propria. Si fece quindi rientrare tra i poteri del giudice dei iudicia bonae fidei la facoltà
di tenere conto dei controcrediti del convenuto sì da procedere eventualmente a
compensazione e condannarlo nel caso al pagamento della differenza. Affinché il
giudice potesse procedere a compensazione si richiedeva che i due crediti fossero ‘ex
eadem causa’: dipendessero cioè dalla stessa fonte (causa), dallo stesso rapporto.
B)Altra deroga riguardò gli argentarii (banchieri) che disponevano di strumenti di
riscontro contabile e ai quali si impose l’onere (se erano al contempo C. e D. dei propri
clienti) di agire contro i clienti cum compensatione: avrebbero dovuto calcolare
preliminarmente il saldo per cui erano creditori, sì che nell’intentio della formula relativa
all’azione riguardante il loro credito venisse indicato quel saldo (rischio che se veniva
indicato importo maggiore perdevano la lite per pluris petitio).
Anche in questo caso il credito si estingueva in forza della sentenza del giudice. A
differenza dei iudicia bonae fidei i due crediti (dell’argentarius e del cliente) dovevano
essere omogenei e avere necessariamente ad ogetto cose fungibili (denaro e
denaro). I due crediti potevano non derivare ex eadem causa.
C)Azioni esercitate dal bonorum emptor, il quale aveva l’obbligo di agire cum
deductione contro i debitori del fallito se costoro fossero stati a loro volta creditori dello
stesso. I crediti e le cause potevano essere diverse e non omogenee.
44.1.STIPULAZIONI DI GARANZIA
La più antica garanzia personale è la sponsio (il prototipo della stipulatio). Si compiva
pertanto verbis, ed era idonea a garantire soltanto le obbligationes contratte ‘verbis’.
Doveva essere prestata subito dopo la promissio del D. principale, intervenendo lo
sponsor, o gli altri sponsores, quali adpromissores accanto al promissor. La sponsio
riservata ai cives romani. L’obbligazione di garanzia che con essa si assumeva si
estingueva con la morte dello sponsor.
Più recente rispetto alla sponsio è la fidepromissio, riconosciuta verosimilmente nella
prima età preclassica. Era una vera e propria stipulatio. Il regime giuridico era
fondamentalmente come quello della sponsio: solo che la fidepromissio era fruibile da
cives e peregrini (iuris gentium).
Sul finire della Repubblica fu riconosciuta la fideiussione. Era pure essa una stipulatio
accessibile a cives e peregrini. Il regime giuridico si svolgeva: con la morte del
fideiussore l’obbligazione relativa passava agli eredi; potevano essere garantite anche
obbligazioni diverse da quelle contratte verbis.
Un tratto comune alle 3 stipulazioni di garanzia era che, con esse, si costituiva, tra D.
principale e garanti da una parte e C. dall’altra, il regime della solidarietà elettiva
passiva, essendo D. principale e garanti tenuti in solidum verso il C. (solo che, in
deroga al regime della solidarietà elettiva passiva, era riconosciuto tra più garanti il
beneficium divisionis). La posizione del garante o dei garanti era però per certi versi
differenziata rispetto a quella del debitore principale perché carattere proprio delle
stipulazioni di garanzia era l’accessorietà: esse presupponevano cioè l’esistenza
dell’obbligazione principale. Erano così nulle le stipulazioni prestate per importi
superiori a quelli del debito principale (erano valide se prestate per meno). E
l’estinzione dell’obbligazione principale comportava necessariamente l’estinzione delle
obbligazioni di garanzia.
Non era vero il contrario: l’obbligazione principale si estingueva solo se quella di
garanzia si era estinta in virtù di un fatto che investiva l’intero rapporto.
L’obbligazione principale quindi si estingueva per effetto di solutio, acceptilatio,
novazione, pactum de non petendo in rem, litis contestatio. Non si estingueva se
l’obbligazione di garanzia si era estinta per confusione, capitis deminutio, pactum de
non petendo in personam e neppure (per quanto riguarda sponsio e fidepromissio) se
l’obbligazione di garanzia si era estinta per decorso del biennio o per morte del
garante.
Circa i rapporti tra D. principale e garanti, va da sé che il sacrificio economico della
prestazione avrebbe dovuto essere sopportato in ultima analisi solo dal D. principale.
Ma la sola azione di regresso in favore dei garanti per ripetere quanto prestato al C.
era l’actio depensi che riguardava la sponsio. Il rapporto tra D. principale e
fidepromissor e fideiussor veniva inquadrato nel mandato, con il risultato di dare ai
garanti (in funzione di azione di regresso) l’actio mandati contraria.
Allo stesso fine si usò, in età classica, solo per debiti in denaro, procedere
diversamente: al garante che prima della litis contestatio si fosse dichiarato pronto a
pagare, il C. nell’esigere la prestazione, cedeva contestualmente l’azione contro il D.
principale. [sviluppo postclassico pag 335].