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LE

PERSONE
La dottrina moderna pone a base di ogni discorso sul diritto delle persone i concetti di
capacità giuridica=s’intende L’idoneità ad essere titolari di diritti ed obblighi
e capacità di agire= idoneità ad operare direttamente nel mondo del diritto e perciò a compiere
personalmente atti giuridici.
Non sono categorie romane MA utili per inquadrare la realtà giuridica romana.
La parola persona era riferita solo a quelle che noi diciamo persone fisiche. Tutti gli esseri umani
erano detti persone ma non tutti avevano la capacità giuridica. La capacità di agire presuppone
oggi la capacità giuridica e viene riconosciuta a tutti gli esseri umani intellettualmente capaci: è
legata perciò ai minori di età e agli infermi di mente. a Roma la capacità di agire era riconosciuta
alle persone intellettualmente capaci ma non presupponeva necessariamente la capacità giuridica:
un Pater familias Era giuridicamente capace e al contempo capace di agire invece gli schiavi e i fili
familias erano capaci di agire ma era negata la capacità giuridica.
Requisiti previsti per
Capacità giuridica: essere impossesso dei tr5e status (libero, cittadino romano e padre di famiglia
(non soggetto alla potestà altrui) -> sui iuris significa libero di potestà alieni iuris incapaci di propria
potestà.
Capacità di agire: di età: 14 anni per i maschi e 12 anni per le femmine. Quando soggetto è in
grado di procreare e costituire un nuovo nucleo famigliare.

I SERVI
I servi non potevano godere di capacità giuridica poiché non avevano lo status libertatis. Liberi si
nasceva(ingenui) e si diventava( liberti). La schiavitù è un fenomeno antico già noto al diritto
romano del tempo delle 12 tavole. La diffusione però è legata al succedersi delle guerre vittoriose
e la cattura di Prigionieri che erano soliti diventare schiavi. Un’autorità pubblica avrebbe
provveduto alla vendita in modo che i nuovi schiavi si acquistassero in proprietà ai privati. Questa
regola però valeva anche per i romani anche se non tolleravano che i cittadini romani diventassero
schiavi in patria per cui anche se un romano tornava da schiavo recuperava automaticamente il
suo status, Fatto eccezione per il possesso e il matrimonio. In età post classica fu consentita la
vendita dei figli neonati che sarebbero divenuti schiavi: Giustiniano limitò la facoltà dei genitori di
vendere i propri figli ai soli casi di estrema indigenza.

Condizioni sociali dei servi: Inizialmente a Roma le condizioni degli schiavi non erano dure poiché i
servi non erano molti il rapporto alla popolazione. Aiutavano la famiglia nelle stesse mansioni in
cui figli e il Dominos erano impegnati. Con la crescita della potenza militare romana il numero
degli schiavi aumentò tanto che le famiglie più “ricche” arrivarono ad avere anche più di 100
schiavi. Le condizioni di vita divennero molto più dure e i servi venivano impiegati in miniera nei
lavori agricoli, e le donne spesso sfruttate come prostitute. Gli schiavi più intellettuali diventarono
maestri istruttori per i figli del Dominos. Durante il basso impero il numero di servi diminuisce
sempre di più e le condizioni migliorarono sempre più grazie alla dottrina filosofica storica e il
cristianesimo.
Condizioni giuridiche: Il giurì consulto gaio distingue il ius a seconda che riguardi delle persone le
cose e le azioni. I servi sono fatti rientrare tra le persone ma sono possibili oggetti di proprietà: res
mancipi. Non erano giuridicamente capaci perché non potevano avere loro carico alcun diritto e
alcun obbligo giuridico. Le unioni tra schiavi non erano considerati matrimoni ma contebernium.
Non hanno nessun rilievo giuridico e in più avevano rilevanza nella materia di diritto criminale
dove spesso lo schiavo era sottoposto a torture e a pene severe come la crocifissione. Con lo
stoicismo ma considerare i servi come persone: Giustiniano riconobbe le famiglie servili come
rilevanti. Nonostante i servi erano persone alieni iuris ( assoggettati ad altre podestà, senza
capacita di agire) si riconobbe una sorta di capacità di agire. Si chiede rilevanza giuridica certi loro
comportamenti volontari. Il criterio di massima fu che essi potessero migliorare la posizione
giuridico patrimoniale del Dominos. Infatti, fungevano da organo di acquisto del Dominos
partecipando validamente negozi e quindi danno luce e diritti soggettivi
Responsabilità nossale: Nell’età arcaica era la capacità della vittima di un delitto compiuto da un
servo altrui. Di impossessarsi o infliggere danni corporali a quest’ultimo, salvo la facoltà del
dominus di evitare ciò con una pena pecuniaria.
Per quanto riguarda gli atti illeciti diversi dall’acquisto se erano compiuti da schiavi erano in
efficaci. Il servo non aveva nulla di proprio e nulla che poteva disporre, non era giuridicamente
capace e quindi non poteva obbligare sé stesso. Però già nell’epoca arcaica era usanza concedere
ai servi un peculio, un gruzzolo di denaro, guadagnato con lavoro o con qualche attività
commerciale, poi anche beni diversi natura e persino immobili. Il proprietario del peculio restava il
dominus ma si ammise presto che gli schiavi potessero trasferire il possesso della res peculiares e
pertanto anche la proprietà delle res nec mancipi. Il dominus poteva revocare il peculio in qualsiasi
momento.
I servi che avevano un bel culo potevano spenderlo: facendo ciò potevano anche farsi carico di
obblighi assunti con atto lecito. Potevano inoltre durante l’età classica vincolarsi con obbligazioni
naturali s’che però non davano luogo ad azioni vere e proprie. Il creditore poteva trattenere ciò
che aveva ottenuto in adempimento.
azioni adiettizie: Con la crescita dell’economia romana l’esigenza di utilizzare i servi nella gestione
degli affari del Dominos si fece sempre più importante. Bisogna però che i terzi facessero pieno
affidamento sul fatto che il servo avrebbe preso parte agli affari del dominus. A ciò provvede il
pretore facendo riferimento a delle situazioni in cui il dominus si fosse assunto esplicitamente la
responsabilità di azioni finanziarie compiute dal servo. Vennero istituite le azioni adiettizie che
consideravano oltre la responsabilità naturale del servo anche quella del Dominus.
Erano: actio quod iussu, actio esercitoria, actio institoria, actio de peculio et de in rem verso e
anche l’actio tributoria. Nelle prime tre il Dominos rispondeva dell’intero debito contratto dallo
schiavo mentre nelle altre responsabilità come andava oltre certi limiti. Si trattava di azioni
adattate alla trasposizione di soggetti.
Actio quod issu: Presupponeva che l’impegno del server fosse stato preso sotto completa
osservanza del Dominus in seguito ad un’autorizzazione. Il Dominus si assumeva ogni rischio
Actio exercitoria: presupponeva che il proprietario dello schiavo fosse un exercitor navis(armatore)
e che affidasse allo schiavo a gestione e l’amministrazione della nave. Per i debiti contratti dal
servo rispondeva l’exercitor.
Actio institoria: Il Dominus poteva preporre il servo ad un settore di attività economica come
l’institor (direttore). Il Dominus rispondeva sempre dei debiti contratti dal servo.
actio de peculio et de in rem verso: Caratterizzato da due taxationes
- De peculio: Non andava oltre il valore del peculio stesso.
- De in rem verso: Nella quale non essendo sufficiente il più culo il Dominos rispondeva dei
debiti contratti dal servo nei limiti del suo arricchimento
Bisognava procedere alla stima del peculio esaurito il peculiare e non essendo ci stato un reale
arricchimento del Dominos spesso i creditori restavano insoddisfatti.
l’actio tributoria: Data origina dalle ultime due notazioni sopra scritte. Presupponeva un peculio e
delle obbligazioni fatte dal servo. I terzi creditori, temendo un dissesto finanziario da parte del
servo, si rivolgevano al pretore che invitava il Dominos a procedere alla ripartizione delle merci
peculiari attribuendo anche nel caso non bastasse una quota proporzionale a ciascuno. Poteva
essere esperito contro il Dominos dei creditori che lamentassero di aver avuto attribuito
fraudolentemente una quota minore rispetto a quella loro dovuta.

Lo status libertatis poteva esser oggetto di contestazione. Sia che un libero rischiasse di diventare
schiavo, sia uno schiavo che poteva divenire libero. Si intuiva allora un processo di libertà che
poteva essere o nel caso di un libero che viveva come schiavo o nel caso in cui lo schiavo viveva
come un libero. Precedentemente il rito adottato fu la legis actio sacramenti in rem col sacramenti
fissato a 50 assi. Nel processo formulare si usarono le formule simili alla rei vindicatio. Durante il
processo extra ordine a giudicare era un parametro de liberaibus. Nel processo postclassico si
trattava di azioni meramente dichiarative. Durante il corso della disputa lo schiavo sarebbe vissuto
come libero. La persona interessata era dal punto di vista formale della lite oggetto. Inizialmente
ad essere parte del giudizio contro il dominus era l’adsertor in libertatem poiché il servo non aveva
le capacità di stare in giudizio e perché la sua libertà era incerta fino all’emissione della sentenza.
L’esigenza dell’adsertor fu abolita da Giustiniano che permise al presunto servo/libero di discutere
della sua libertà in processo.
Lo stato di schiavitù poteva cessare con lato di affrancazione, detto anche manumissio, da parte
del dominus. Per ius civile si avevano tre diversi tipi d manumissio:
• Manumissio vindicta: era un antico negozio formale e solenne che non tollerava ne
condizioni ne termini. Si svolgeva davanti al magistrato in iure ed erano presenti il dominus
e il servo. Era considerata da molti una finta vindicatio in libertatem dove un adsertor
dichiarava libero il servo toccandolo on una bacchetta e il dominus non poteva opporsi. Il
magistrato dichiarava l’adictio nei confronti della libertà e il servo era libero. Dall’età
repubblicana il Dominus doveva manifestare la sua volontà di liberare il servo. Il rito andò
semplificandosi potendolo compiere persino in strada
• Manumissio censo: era meno praticata e avveniva in occasione delle operazioni di redazione
delle liste di censo. Si realizzava con l’iscrizione del servo su accordo del dominus (che
doveva utilizzare parole solenni) alle liste di censimento dei cittadini che aveva luogo a
Roma ogni cinque anni.
• Manumissio testamento: era la più diffusa ed era molto antica.er5a la più diffusa perché
ovviamente il dominus voleva tenere il servo fino la sua morte. Si trattava di una
disposizione testamentaria: aveva quindi efficacia dopo la morte del dominus. Prima del
verificarsi di questa manumissio il servo era chiamato statuliber.

• Manumissio pretorie: Dall’ultima età repubblicana si uso affrancare i servi anche in forme
diverse: inter amicos (quando si annunciava ad una cerchia ristretta di amici) o per
epistulam (per semplice lettera). Gli schiavi liberati in questo modo non erano del tutto
liberi però perché non erano liberi per ius civile. Più tardi sarebbero considerati come
coloni mentre più tardi con Giustiniano prendere equiparati ai manomessi nelle forme
civili.

• Manumissio fedecommissaria: manomissione indiretta. Il testatore aveva fatto carico di
manomettere uno schiavo agli eredi o alla fede commessi. In caso di rifiuto l’onerato
avrebbe potuto esservi costretto extra ordinem. L’organo giudiziario successivamente
avrebbe potuto attribuire direttamente la libertà allo schiavo. Ad avviare la procedura
sarebbe stato lo schiavo stesso potendo comparire in processo.

• Nuove forme di manumissio: in età post-classica si trovò la manumissio in sacrosantis
ecclesiis.era una semplice dichiarazione di volontà presieduta dal vescovo di voler liberare
il proprio servo dinnanzi ai fedeli.
Il fenomeno dei servi che per effetto di ma non missione divenivano liberi cittadini romani
aveva assunto proporzioni preoccupanti poiché c’era un eccessivo numero di schiavi
liberati. Per questo motivo provvidero due leges
Lex Fufia Canina: Riguardo le manomissioni testamentarie e pose limite percentuale le
manomissioni disposte in testamento. Bisognava indicare uno per uno gli schiavi di
affrancare. Le manomissioni disposto in violazione erano considerate nulle.
Lex Aelia Sentia: relativa ad ogni tipo di manomissione. Stabilì che non si potevano liberare
gli schiavi con condotta turpe e che non si potevano manomettere gli schiavi in frode ai
creditori. Subordinò speciali garanzie ma non missioni compiute dai domini minori di
vent’anni e quelli dei servi di età inferiore ai trent’anni.
Queste due leggi furono aboliti da Giustiniano fatto salvo il divieto della legge Elia senzia
per quanto riguarda i manomessi in frode ai creditori.
I liberti
Gli schiavi liberati acquistando la libertà e con essa la cittadinanza romana. Divenivano
giuridicamente capaci. La loro condizione non era però uguale a quella di nati liberi infatti non
erano ingenui ma liberti.
Soffrivano di una minore considerazione sociale ed erano esclusi da qualsiasi carica pubblica. Una
volta liberati l’ex Dominos diventava patrono e poteva valersi del diritto di patronato Era una
potestà trasmissibile ai discendenti. In età preclassica e arcaica i padroni avevano addirittura
diritto di vita e di morte sugli schiavi liberati. I poteri di coercizione personale che gli derivavano
dalla ius patronatus permettevano al patrono di esigere dal liberto prestazioni giornaliere
domestiche. Nell’età repubblicana il liberto ancora schiavo faceva un giuramento al Dominos con il
quale prometteva che una volta libero avrebbe stipulato di compiere giornalmente le operae. Il
rapporto era così stretto che poteva capitare che nel cognito extra ordinem in caso di estrema
indigenza che le parti si supportassero con il resto degli alimenti.

LE PERSONAE IN CAUSA MANCIPI
Le persone di questo genere erano sia libero e cittadine romane ma erano al contempo
assoggettati alla potestà di altra persona. Si consideravano aLla stregua servi. Assumevano questa
condizione i figli emancipati del Pater familias. In età arcaica spesso era permessa la vendita dei
figli, un’usanza che risultava avversata già il tempo delle 12 tavole. Alla mancipatio dei filii si
continuo a fare ricorso, tuttavia, ai fini dell adoprino e dell emancipatio (la condizione di persona
in causa mancipi aveva breve duratura essendo strumentale per passaggio del filius o per
l’acquisto) o per dare la d’azione nossa (sostanziale e duraturo assoggettamento). A differenza dei
servi queste persone potevano sposarsi avere figli legittimi. Non avevano però capacità giuridica
ed erano alieni iuris in quanto soggetti alla potestà altrui. A differenza degli eredi, morto il
mancipio accipiens che li aveva acquistati e se non diventavano liberi ma la proprietà passava
all’erede. Erano poi liberati tramite manumissio, in ogni caso sarebbero poi stati soggetti al
patronato. I figli dati al nostro invece erano fortunatamente libere una volta risolto il loro debito.
Tutte queste figure caddero sempre più in disuso arrivando in età post-classica a non fare ricorso
alla mancipatio quando si trattava di adoprino ed emancipatio.

Altre situazioni di dipendenza personale erano:
- Gli adicti: Debitori insolventi dal magistrato che seppure imprigionati di per sé fino alla
vendita di schiavitù restavano persone libere
- I coloni erano persone di umile origine condizione che si obbligavano ad un lavoro
subordinato, soprattutto durante il periodo di maggiore crisi e che portarono con loro un
progressivo irrigidimento delle classi sociali. Erano adoperati in quanto con la progressiva
diminuzione del numero di schiavi il costo della manodopera servile era minore di quella
coloniale. I coloni erano vincolati per contratto alla terra che coltivavano e il loro
proprietario poteva usare contro di loro violenza fisica e minacce. Vennero chiamati servi
di terra e subirono gravi limitazioni alla capacità giuridica e di agire.
- Clientes: gente debole che si metteva volontariamente sotto la protezione di un patrono

STATUS CIVITATIS
I cives romani
Lo ius civile era detto che era lo ius esclusivo dei cittadini romani. Il possesso dello stato di libertà
era una delle condizioni per la piena capacità di diritto privato. Cittadini romani si nasceva si
diventava. Per esserlo bisognava essere nati da un padre cittadino romano procreato all’interno di
un matrimonio legittimo, e fuori dal matrimonio se da madre cittadina romana.
Si diventava cittadini romani se:
- Si era schiavi liberati
- Si era alleati italici
- In seguito alla constitutio Antoniniana nel 212: ogni abitante libero dell’impero
Si perdeva la cittadinanza romana se
- Si diventava schiavi
- Quelli che si stabilivano in colonie
- Chi si esiliava o chi veniva esiliato

I peregrini
Si contrapponevano i cittadini romani. Erano persone libere ma non cives. Godevano dello ius
gentium. Gli veniva concesso talvolta lo ius commerci (capacità di commerciare) o lo ius connubi
(la capacità di effettuare un matrimonio con i romani)
I latini
La categoria privilegiata di pellegrini. Soprattutto per i latini prisci, cioè i cittadini delle città laziali
vicino a Roma, Potevano godere dello ius migrandi (diventavano cittadini romani che si
trasferivano stabilmente a Roma) ma anche potevano mantenere le loro istituzioni di diritto
pubblico e privato. Godevano anche dello ius commerci e dello ius connubi.
Peregrini dedictii
Erano il gradino più basso della gerarchia dei pellegrini. Erano i membri di collettività straniere che
si erano arresi a Roma senza condizioni.Partecipavano solo allo ius gentium. Le categorie tuttavia
andranno sempre più svanire con il tempo e i pellegrini furono gradualmente assimilati ai cives.

STATUS FAMILIAE
La piena capacità giuridica e la riconosciuta e le persone sui iuris, erano le persone libere, cittadini
romani e non soggetta potestà. A dominum erano soggetti gli schiavi, a mancipi un le persone in
causa mancipi, a patria potestà i figli e alla manus le donne. Familia È un termine che assume nelle
fonti giuridiche significati diversi. Ma la famiglia cui si fa riferimento quando si parla di status
familia è composta da una sola persona sui iuris e solitamente è l’uomo detto il pater familias e
potevano avere figli sotto la propria potestà. Le donne potevano essere titolari di diritti e di doveri
giuridici: era l’inizio e la fine della sua famiglia. la familia e la potestà nascevano con il matrimonio.

IL MATRIMONIO
Gli sponsali: il matrimonio era generalmente proceduto della promessa di matrimonio. Era fatta
con uno sponsio. A essa partecipavano le parti su iuris’, quindi o gli interessati o il Pater familias. si
parlò pertanto di sponsalia. Da esso nasce un vincolo giuridico come ad ogni sponsio. Dall’età
preclassica il volere del matrimonio era semplicemente espresso. Si introdusse anche una penalità
in caso di rottura della promessa, come per esempio la restituzione dei doni tra coniugi.

Premesse matrimonio: Presupposto per una famiglia iure dicta era un iusta nuptiae il nucleo o
matrimonio legittimo. A Roma il matrimonio consisteva nella convivenza stabile di due persone di
sesso diverso e nella volontà monogamica di continuare a vivere come marito e moglie. Senza di
quest’ultimo non si aveva il matrimonio ma concubinato. La cessazione avveniva in una
impossibile convivenza, o in mancanza dell’affectio maritalis. Il matrimonio romano fu un fatto
sociale prima che giuridico ed era altamente considerato nella società romana antica. Pur essendo
estremamente facile divorziare essere trattato sempre con grande rispetto. Il matrimonio poteva
accompagnarsi la conventio in manum, alla quale la moglie cadeva sotto la manus del marito.
Questo portava la moglie ad essere parte della famiglia del marito e per delle cure civile e ogni
legame con la famiglia di origine che quest’ultima non avesse avuto luogo la situazione giuridica
della donna sarebbe rimasta invariata e avrebbe avuto importanti riflessi soprattutto in materia
ereditaria (nei matrimoni sine manu la donna manteneva lo status familiae di prima in modo che il
suo sui iuris restava tale.)
Essi si suddividono in matrimonio cum manu e sine manu.
In età arcaica della prima età preclassica i matrimoni cum manu costituivano le regole, quelle sine
manu l’eccezione. Negli ultimi tempi della Repubblica matrimoni sine manu finirono per prevalere.
I matrimoni cum manu scomparvero del tutto nell’epoca immmediatamente successiva.

Le condizioni per potersi sposare erano 3
Il connubium: Era la possibilità di poter vivere il matrimonio legittimo con l’altro coniuge. Non si
rilevava in sé ma il riferimento all’altro coniuge. Ad esempio, prima di qualche anno dopo le 12
tavole Patrizi e plebei non potevano vivere in connubiium Uma. Ero sempre vietato il matrimonio
tra parenti in linea retta. Era permesso prima entro il sesto grado, con tempi diversi sul connubio
familiare si facevano sempre meno pesanti culminando con Claudio che permise il matrimonio tra
nipoti perché egli stesso voleva sposarsi con agrippina.
Il lutto vedovile: non comportava legazione nel compimento del matrimonio ma alcune sanzioni. Si
fa riferimento all’antico precetto per cui l’ha vietato alla vedova un nuovo matrimonio prima del
decorso del tempus lugendi (ovvero dieci mesi della morte del marito). Le sanzioni col tempo
andarono peggiorando, comportando infamia e l’impossibilità di ricevere il testamento del marito
defunto così come quello di altri mariti.
Età pubere: Era necessaria la capacità di procreare per potersi sposare. L’età pubere era 12 anni
per le femmine e 14 per i maschi. Gli evirati infatti non potevano sposarsi
Affectio maritatis: Esigeva il consenso dei coniugi e rappresentava la volontà di stare assieme.

La struttura del matrimonio
per la costituzione del matrimonio non si esigeva alcun rito: solo che vi fossero i requisiti di validità
ed era sufficiente che si stabilisse la convivenza insieme alla volontà di vivere come marito e
moglie=affectio maritatis.
In difetto non vi sarebbe stato matrimonio ma concubinato. Il matrimonio romano era
monogamico: non era concepibile che alcuno nutrisse affetto contemporaneamente nei confronti
di due persone diverse. Se un coniuge avesse desiderato costituire un nuovo matrimonio avrebbe
dovuto prima sciogliere il precedente. La convivenza era una soggettiva e provarla sarebbe stato
facile. Come si faceva però a provare affectio meritatis? Esso poteva desumersi dalla preesistenza
di sponsali, dalla circostanza che si era proceduto a costituzione di dote, a conventio in Manum o
in età cristiana dall’avvenuta benedizione nuziale della chiesa. Il processo di verifica era più
semplice se la donna era giusto Ernesto (non di cattiva reputazione o di teatro) oppure se
entrambi fossero di pari rango sociale

Gli effetti del matrimonio erano molteplici.
- solo i figli nati all’interno del matrimonio erano definiti legittimi e potevano beneficiare della
patria potestà del padre
- La donna acquistava la dignità sociale e giuridica del marito
- Tra i coniugi doveva esserci fedeltà. l’infedeltà dava luogo a sanzioni patrimoniali quando si
trattava di restituire la dote. L’infedeltà della moglie era configurata come adulterio.
Poiché la moglie adultera in età arcaica era passabile come omicidio, nel 18 d.c. Con la l’ex
iulia de adulteriis si imposero pene severe.
- Le donazioni tra coniugi erano fermamente vietate
- Col diritto pretorio tra marito e moglie si stabilirono reciproche aspettative successorie
- Tra i coniugi era vietata dal pretore ogni azione infamante egli inventò un’azione apposita
non infamante e applicabile ad esempio dal marito contro la moglie per via delle cose
sottratte in vista del divorzio.

Il divorzio
Il matrimonio si scioglieva oltre che per morte del marito della moglie anche per il fatto che in uno
o in entrambi i coniugi fosse venuta meno l’affetto sentimentale e si fosse interrotta la convivenza.
Non erano richieste formalità per il divorzio (nel caso di matrimonio cum manu si doveva ricorrere
ai negozi formali). Il divorzio determinava lo scioglimento del matrimonio qualunque ne fosse la
causa. In un capo scolastica per influsso del cristianesimo se inizio ad ostacolare il divorzio ma non
ad abolirlo. Nessun ostacolo fu posta invece al divorzio per mutuo consenso. Il divorzio è
consentito un’altra ipotesi di comportamento gravemente colpevole dell’altro coniuge (adulterio,
Scomparsa, deportazione prigionia). Tutti gli altri divorzi divennero sine causa, colpiti da sanzioni
varie. Restava valido il matrimonio della libertà che divorziava del patrono senza il suo consenso.
Per i parziali bisognava fare richiesta scritta o davanti i testimoni altrimenti il matrimonio sarebbe
rimasto male. Nella storia romana ci si allontana sempre di più dal concetto di matrimonio come
fatto sociale di convivenza avvicinandosi al concetto di matrimonio come forte vincolo giuridico.

La dote
Istituto del diritto romano arcaico. Consisteva in uno o più cose o diritti che la moglie conferiva il
marito per sostenere i pesi del matrimonio nei matrimoni sine umano. Nei matrimoni cum manu
per la moglie rappresentava invece un compenso alle aspettative ereditarie perse. In caso di
divorzio la dote la restituita alla moglie e serviva lei per il mantenimento una volta vedova o
divorziata.
La dote si costituiva di:
- Datio: significava tecnicamente trasferimento di proprietà in favore del marito. Indicava
pertanto non un negozio ma un effetto reale. Si realizzava con negozi astratti quale:
mancipatio, in iure cessio, traditio. La donna assume il ruolo di causa esterna
- Promissio: Erano stipulatio compiuta dotis causa. Effettuato in favore del marito, che diveniva
il creditore. Aveva effetti obbligatori e il marito poteva se gli effetti non erano realizzati
chiamare in giudizio con l’actio ex stipulato.
- Dictio: era un negozio solenne ed esclusivo della dote. esso si compiva con la pronuncia di
certa verba da parte del solo costituente. L’effetto era solo obbligatorio: Il marito avrebbe
avuto il permesso di reclamare l’adempimento con un actio in personam di ius civile.

La dote poteva essere costituita sia prima del matrimonio sia durante il matrimonio. Se era
costituita prima la dictio e la promissio si intendevano compiute sotto condizione sospensiva che
avessero effetto a matrimonio avvenuto con la conseguenza che se il marito avesse agito prima
del matrimonio la sua azione sarebbe stata respinta. La datio invece produceva gli effetti traslativi
del dominio. Il costituente, se le nozze non avessero mai avuto luogo avrebbe potuto pretendere
la restituzione di quanto dato a titolo di dote.
Dote res mulieris: il marito diveniva titolare dei beni e diritti dotali, nonostante la dote si costituiva
una considerazione della moglie in fatti era considerata “cosa di lei”. Era d’obbligo per il marito
restituire la dote alla moglie una volta che il matrimonio era stato sciolto con un’azione chiamata
actio rei uxoriae. Agli inizi dell’età classica una lex iulia de fundo totali vietò al marito, pena la
nullità, di allenare beni immobili dotali senza il consenso della moglie.
indirettamente alla moglie, tuttavia spesso proprio perché esistente in considerazione della moglie
era anche “cosa di lei”. Era infatti obbligatorio per il marito restituire la dota alla moglie dopo il
divorzio, con un’azione per la restituzione utilizzabile dalla moglie chiamate actio rei uxoriae. La
stessa lex iulia de fundo tutali (capitolo della de adulteeris) vietò al marito, pena la nullità, di
alienare beni immobili dotali senza il consenso della moglie.

Restituzione: Il marito mediante stipulatio prometteva al costituente la restituzione della dote, o i
suoi eredi avrebbero fatto ricorso a una actio ex stipulatu.
Venne poi fin dall’età repubblicana l’actio rei uxoriae, strutturata con formula in ius. Era formulata
con oportere, quindi in personam. Questa azione era molto simile a quelle ex fide bona.
Il matrimonio doveva essere però sine manu per funzionare. L’azione non si trasmetteva agli
eredi, proprio perché era un diritto PERSONALE della moglie. Se la moglie fosse morta la dote
sarebbe restata al marito.
IL marito, post rei uxoriae era responsabile del perimento e deterioramento della dote se dipeso
da suo dolo o colpa. Esso però, se la dote aveva oggetto di denaro, avrebbe potuto restituire la
dote in più rate se non colpevole di adulterio, e lo faceva avvalendosi di alcune retentiones. Erano
strutture delle rei uxoriae che permettevano al marito di trattenere alcune parti della dote in
determinate circostanze: Alcune di carattere etico e quindi non trasportabili agli eredi, altre invece
sì perché di natura patrimoniale.

La retentio propter liberos: era un contributo lasciato al marito per il mantenimento e
l’educazione dei figli a suo carico. Spettava se il divorzio avveniva per colpa della moglie. Non
poteva ammontare oltre alla metà della dote.
La retentio propter mores sanzionava la cattiva condotta della moglie. Era quindi imputabile solo
nel caso in cui la moglie fosse la causa del divorzio e l’ammontare dipendeva dalle azioni da lei
compiute. Non oltre un sesto della dote.
La retentio propter res donatas: spettava al marito qualunque fosse il motivo di scioglimento del
matrimonio e ammontava alla stessa somma che egli aveva donato durante le nozze alla moglie.
La retentio propter res amotas: Spettava al marito e risarciva quanto la moglie avesse sottratto
dalla casa in vista del divorzio. (Al posto dell’actio rerum amotarum)
La retentio propter inpensas: riguardava invece quanto il marito avesse speso sui beni dotali. Sia
spese utili che voluttuarie, ossia di mero funzionamento e mantenimento o di abbellimento.

Giustiniano rinnovò talmente tanto la materia dotale che venne chiamato legislator uxorius.
Con lui scomparve al dotis dictio. La datio veniva fatta ormai solamente tramite traditio,
accompagnata da un documento scritto. Anche nella promissio era necessario un solo documento
scritto. Vennero da Giustiniano tutelate maggiormente le ragioni della donna. La dote era
maggiormente considerata dalla moglie, definendolo un naturale dominium. Il divieto di
alienazione della dote da parte del marito fu reso assoluto, anche in presenza dell’accordo della
donna. Prese anche l’idea che la dote conseguentemente ad un divorzio dovesse essere in favore
dei figli. In caso di morte della moglie o di divorzio a lei imputabile, i beni dotali passavano in
proprietà ai figli e il marito ne manteneva il godimento. Giustiniano abolì il processo delle
retentiones. I beni immobili erano da restituire immediatamente, i beni mobili entro un anno.
Giustiniano infine soppresse actio rei uxoriae e creò una generale actio ex stipulatu a cui fu esteso
il regime de i iudicia bon fidei, il medesimo applicato alle rei uxoriae. Venne definita con una
generica actio dote.

I FILI FAMILIAS
Erano alieni iuris., perché ricadevano sotto podestà altrui e quindi non giovavano di nessuna
capacità giuridica.
Erano coloro nati da matrimonio legittimo un manu e sin manu. Se il padre era filius familias i nati
andavano sotto la patria potestà dell’ave paterno. Se il padre fosse morto prima della nascita, il
figlio sarebbe nato sui iuris.

Adrogatio: era l’adozione di un soggetto sui iuris. Quest’ultimo cessava di essere tale cadeva sotto
la patria potestà dell’adrogante. Si compiva con la partecipazione del comitio curiata. Erano
articolati in 30 Ci: il pontefice interrogava tre soggetti interessati sulla volontà di abrogare o di
essere drogato. Dopodiché avendo avuto una risposta positiva il pontefice rivolgeva altra rogatio
al popolo che dava il proprio senso. Col tempo il rito si semplificò e bastarono 30 littori. Erano
escluse le donne, quindi esse non potevano essere adrogate, e non potevano nemmeno adrogare.
Adrogante poteva essere anche più giovane della adrogato fino a quando venne stabilito che
dovresti avere almeno diciott’anni in più. Successivamente prescritto dell’imperatore, rendendo la
procedura è più semplice e veloce, diventano poi lo standard. In questo caso è possibile anche
adrogare le femmine. I beni e i diritti soggettivi dell’adrogato passano all’adrogante. I debiti in
precedenza contratti dell’adrogato si estinguevano mail pretore concesse ai creditori un actio utili
rescissa capitis deminutione che faceva agire il giudice come se l’adornato non ci fosse mai stata.

Adoptio in senso stretto: riguardava l’adozione di un soggetto alieni iuris. Lui passava dalla famiglia
d’origine a quella adottante facendo cadere la patria potestà del padre del padre biologico e
acquistava quella dell’adottante. Inizialmente questo processo non era possibile poiché la patria
potestà terminava solo con la morte di chi esercitava. La legge delle 12 tavole però stabilì che chi
vendesse il figlio emancipandolo per più di tre volte avrebbe perso la potestà come punizione.
Questo permise di creare procedimenti ad hoc per le adozioni. Si procedeva così: il padre
emancipato per tre volte il figlio all’adottante il quale acquistandolo dopo la prima la seconda
mancipatio la manometteva. Ripetendo il processo per la terza volta la potestà naturale si
estingueva ma non si era ancora creata quella adottiva. Il padre adottivo riemancipava il futuro
figlio al precedente padre naturale che lo acquistava come persona in causa mancipii. I 3 soggetti
andavano davanti ad un magistrato e si compiva una iure in cessio. L’adottante rivendicava come
propria la persona che voleva adottare affermando che si trattava di un proprio figlio; il padre
naturale taceva e il magistrato pronunciava l’adictio in favore dell’adottante e questi otteneva la
patria potestà dell’adottato. Il procedimento era complesso per i maschi, mentre per le figlie o i
nipoti bastava una sola mancipatio. Anche qui l’età di differenza era di almeno 18 anni.
Giustiniano semplificò il procedimento permettendo l’adozione anche tramite una semplice
richiesta. Giustiniano infine modificò l’adoptio e la rese parziale, mantenendo la vera potestà
naturale e l’eredità generata da essa, ma potendo come percepire l’eredità del padre adottivo che
non avesse lasciato il testamento.

Legittimazione: Fu riconosciuta dall’età postclassica in poi. Fu riconosciuta per i figli nati fuori da
matrimonio legittimo una volta che quest’ultimo lo diventava.

I figli famiglia oerano diretti figli del potestas o adottati o figli di alieni iuris. Il padre aveva diritto di
vita o di morte sui propri figli ma la religione e il costume mitigarono questo aspetto durante il
tempo. Nei casi più gravi interveniva la sua grazia dove il padre era condannato a morte.Nell’età
repubblicana Era il censore a certificare la situazione familiare e non dipendeva dalla
Chiesa.l’uccisione crudele del figlio ingiustificata fu repressa con sanzioni criminali poiché era
trattata come l’uccisione di un uno straniero. Il diritto di Vito di morte e quindi ad estinguersi
velocemente negli anni.

La posizione dei figli era uguale a quella degli schiavi poiché erano privi della capacità giuridica e
non avevano diritti propri e neanche ad essi faceva capo doveri giuridici. Per gli illeciti compiuti dei
figli il Pater poteva convenire tramite azioni nossali. Anche loro veniva dato un peculio che
potevano trasferirne proprietà. La nostra lega scomparve ad aprire il giudizio forma direttamente i
figli. Durante l’ultima Repubblica venne riconosciuta capacità ai figli di famiglia di effettuare
obbligazioni civili. Bisogna precisare però che: potevano solo i figli maschi non le figlie, i creditori
avrebbero potuto procedere con l’azione di accertamento dei crediti e conseguente sentenza di
condanna però non avrebbero potuto procedere esecutiva mente essendo precluso sia
l’esecuzione personale e se l’esecuzione patrimoniale. I creditori avrebbero dovuto attendere che
gli stesso sarebbe diventato sui iuris. In relazione a ciò un senatoconsulto macedoniano fu
emanato. Egli vieto i mutui in denaro ai filii familias, In quanto, per estinguere i suoi debiti un tale
macedoniano ha ucciso il padre per poterli pagare con l’eredità. Sebbene fosse riconosciuta loro la
capacità di obbligarsi civilmente si obbligarono le cosiddette azioni addietizie. Con l’ultima
Repubblica i figli poterono presenziare in giudizio del processo formulare in poi. Prima come
cognitor o peculator e poi per se stessi quando poterono obbligarsi civilmente.

Con Augusto si finì per ammettere che i figli avessero bene propria poiché egli concesse ai figli
milites di poter disporre validamente dei proventi del servizio militare. Adriano estese essa anche
il milites dimessi dalla militia. Ebbe inizio così un processo evolutivo che porta alla configurazione
di un peculio Castrense->era molto più solido del normale per Curio e il padre non avrebbe potuto
reclamare. Nel corso dell’età classica si finì per considerarlo come appartenente lo stesso filius
familias. Egli poteva oltre che obbligarsi civilmente anche diventare attore nei relativi giudizi.
Poteva anche litigare col padre in giudizio. In caso di morte il peculio castrense tornava dal padre.
In età post classica si attribuì ai filii familias la proprietà dei beni provenienti da successione
materna, puoi anche dei beni provenienti dal lato materno e dei beni acquistati in occasione del
matrimonio e con Giustiniano anche dei beni in ogni modo acquistati dal filiuss’perché non
proveniente dal padre. Si parla di bona avventitia.In ogni caso l’amministrazione e il godimento
spettavano al Pater familias. Si parla di usufrutto legale. Solo alla morte del padre li avrebbero
ereditati completamente.

La situazione di Filius familia poteva terminare principalmente in due modi diversi:
- Morte del pater familias: con la morte del padre i figli cessavano di essere filiis e diventavano
sui iuris. I figli maschi diventavano paters familias. Gli altri filiis familia restavano alieni iuris
e cadevano sotto la patria potestà del loro genitore divenuto a sua volta Pater familias. Alla
morte del padre di famiglia è equiparata la capitis deminutio maxima omega che andavano
a rimuovere la libertà e la cittadinanza. Solo un cittadino romano poteva emanare potestà
- Emancipatio: Il processo creativo dei pontefici oltre a portare all’adoptio avrebbe portato alla
emancipatio. Consisteva nella liberazione dei filii familias volontaria da parte del pater
attuale. Il processo terminava con la manumissio della persona in causa mancipi. Poteva
essere compiuta anche dal fiduciario, ma così facendo il figlio sarebbe stato costretto al
patronato per quest’ultimo. Per questo motivo una volta cessata la potestà̀ naturale si
riemancipava al padre. In età̀ post-classica sarà̀ necessaria invece una semplice
dichiarazione.

DONNE IN MANU
Erano persone libere soggetta potestà. Si acquisiva per effetto della convenzione in mano. Le
donne venivano assoggettati alla potestà del marito. Il marito acquisiva i diritti trasmissibili e la
donna perdeva tutti i suoi debiti. Poteva riguardare sia donne iuris, che passavano dalla condizione
di su iuris ad alieni iuris e si integravano così nella famiglia di lui con conseguenze giuridiche simili
a quelle dell’adrogatio, e sia filiae familias, che cessavano di appartenere alla famiglia di origine ed
entravano a far parte della famiglia del marito su di esse cessava la patria potestà del proprio
padre e si costituiva la manus del marito.
La conventio in manum si compiva mediante
• Usus: Consisteva nella convivenza coniugale protratta per un anno. La donna avrebbe potuto
interromperla allontanandosi per tre notti consecutive dalla casa del marito(usurpatio
trinoctii). Già all’inizio dell’età classica era scomparso questo rito
• Confarreatio: Era un rito arcaico antico. esigeva la pronuncia di parole determinate n
presenza di 10 testimoni, degli sposi e deii sacerdoti. Era fatto un sacrificio a Giove e si
offriva pane di farro. Era riservato alle classi più elevate e durante l’età repubblicana ebbe
sempre più rare applicazioni.
• Coemptio: era una emancipati al fine dell’acquisto della manus; l’oggetto era la donna.
Emancipato era la donna stessa se sus iuris o il suo il pater se alieni iuris. L’acquirente era il
marito sus iuris altrimenti il suo Pater familias. Scomparve insieme con la Manu stessa in
età post-classica.
La moglie in manus era considerata allo stesso modo della figlia per il marito, di nipote per il
suocero, di sorella peri figli. Questo solo in ambito giuridico e non sociale. La morte del pater
aveva gli stessi effetti e rendeva sui iuris la donna, e se il matrimonio fosse stato compiuto tramite
confarreatio si sarebbe avuto la diffareatio, rito uguale e contrario.


Parentela e affinità, gli alimenti
Il vincolo tra più componenti della stessa famiglia era detto agnatio, ed era una sorta di parentela
civile che prescindeva dal titolo di sangue. Di norma il vincolo di sangue non mancava ma poteva
anche mancare nei casi di adozione; erano comunque legati da agnatio. Il vincolo di agnatio non si
estingueva nemmeno con la morte del pater familias costitutivo: con la sua morte la familia si
rompeva in tante piccole familiae quanti erano i figli. Era però esclusivamente in linea maschile.
Poiché presupponeva la potestà, strumento dello ius civile si parla sempre di cittadini romani. Essa
aveva conseguenze giuridiche importanti per quanto riguarda il testamento e di cura furiosi.
Il vincolo di agnatio si estingueva invece per emancipatio, datio in adoptionem, coemptio, e in ogni
caso di conventio in manum.

Diversa dall’agnatio era la cognatio, parentela di sangue sia in linea maschile che femminile. A
volte coincideva con cognatio a volte no. Ebbe inizialmente poca rilevanza per il diritto e
considerata di ius naturale. Ne ritrova molta di più nel diritto giustinianeo, dove venne parificata
alla agnatio.

La parentela poteva essere in linea retta e in linea collaterale. I parenti in linea retta erano gli
ascendenti e i discendenti tra loro, in linea collaterale chi aveva un ascendente in comune. Per
contare il grado di parentela si usavano le generazioni, senza calcolare nel computo la generazione
maggiore. Anche per la linea collaterale il computo dei gradi tiene conto delle generazioni
risalendo all’ascendente comune e si discende al parente in relazione al quale si vuole stabilire il
grado.
L’affinità: Era il legame che univa un coniuge con i parenti dell’altro coniuge. Anch’essi si possono
disporre in linea retta o in linea collaterale.

Gli alimenti: inizialmente in una rigida mentalità come quella romana la mancanza di negozi privati
attuati all’obbligo del sostentamento familiare non permetteva di chiedere a parenti il
sostenimento necessario. Questo cambiò col tempo quando le strutture giuridiche divennero
meno severe, come quando i filii familias potessero presenziare in processo per sé stessi, e
permise di sanzionare pretese alimentari tra i parenti più vicini. Non intervenne al riguardo il
pretore ma nel processo extra ordinem vennero istituiti degli obblighi di sostentamento tra
genitori e figli, e più tardi anche in linea retta generalmente.


CAPTIS DEMINUTIO
Può essere definita un mutamento di stato per cui si spezzavano i precedenti vincoli di agnatio.
Venne istituito dai giuristi repubblicani e mantenuto fino all’età postclassica, seppur in misura
minore.
Si parla di capitis maxima, ove si perdeva la libertà, media dove si perdeva la cittadinanza, minima
dove si perdeva lo status familiae e di conseguenza i legami di agnatio. Il testamento di chi subiva
capitis deminutio era invalido. Talvolta aveva lo stesso effetto della morte, come nel contesto
dell’usufrutto che si estingueva per morte e capitis deminutio. Spesso veniva infatti paragonata
alla morte.

LIMITAZIONI DELLA CAPACITÀ GIURIDICA
La capacità solitamente si riconosceva a tutti i cittadini romani sui iuris, ma vi erano diverse
eccezioni. Una è quella dei liberti, incapaci nel diritto pubblico e limitati nella actiones contro il
patrono; I coloni, i cui beni erano considerati alla stregua del peculio servile e gli addicti, i clientes
ecc. E’importante ricordare inoltre come con l’avvento della cristianità persero la loro capacità
giuridica i pagani, ebrei. apostati, eretici. Anche di diritto privato.

infamia
Le persone che per comportamenti riprovevoli, per l'esercizio di determinate attività o per la
condanna subita in certi giudizi andavano incontro disistima sociale. Erano colpite da infamia o
ignominia le persone dedite mestieri turpi (le prostitute), i condannati per crimini, chi avesse
subito condanna per responsabilità propria in determinate azioni e i debitori che non pagavano
nonostante la proscriptio. Infami e ignominia andavano incontro a gravi capacità di diritto
pubblico, ebbero il divieto dall’editto pretorio di proporre istanze giudiziarie nell'interesse altrui, di
nominare cognitori e procuratori e di essere loro stessi cognitori e procuratori. Per quanto
riguarda le donne di cattiva reputazione la legislazione imperiale nego la capacità di acquistare
eredità e legati.
Le donne: Alle donne per il diritto pubblico fu negata ogni capacità. Per il diritto privato la maggior
parte delle limitazioni alla capacità giuridica delle donne riguardava la patria potestà. Le donne
furono anche escluse dagli uffici di tutore e non potevano rappresentare altri in giudizio.

CAPACITÀ DI AGIRE
Per capacità d'agire si intende idoneità di operare direttamente nel mondo del diritto EA compiere
personalmente atti giuridici.
La capacità di agire a Roma non presupponeva la capacità giuridica mentre ad oggi si.
Alcune persone alieni iuris, i servi e i filii familias, a Roma potevano agire, e solitamente compiere
acquisti per il pater familias e trasferire la proprietà di res nec mancipi.

Puberi e impuberi
Per il riconoscimento della capacità di agire rilevava anzitutto l'età.
La distinzione fondamentale era tra puberi e impuberi:
- i puberi avevano raggiunto l'età per procreare. Si faceva distinzione tra maschio (che la
raggiungeva 14 anni) e femmina (che la raggiungeva 12). La capacità di agire era riconosciuta ai
puberi pienamente se maschi meno pienamente se femmine
- gli impuberi non avevano raggiunto la capacità fisiologica di generare: erano gli infantes ho
infantia maiores. Erano i fanciulli non ancora in grado di un eloquio ragionevole: la fine
dell'infanzia terminava col compimento del settimo anno. gli infantia mayores erano gli impuberi
che avevano superato l'infantia. In parte la capacità di agire era riconosciuta agli infantes maiores,
solo per quanto riguarda l’acquisto di un diritto però. Per gli impuberi sui iuris si faceva ricorso ad
un tutore che esercitava la tutela impuberis.

La tutela degli impuberi era un istituto del ius civile. Poteva essere legittima, testamentaria e
dativa.
Si dice legittima quando era chiamato come tutore l’agnate proximo all’impubere, cioè il parente
di grado più vicino. Si attuava quella legittima solo quando il pater familias prima di morire non
avesse dato ordine ad una tutela testamentaria indicando egli stesso, familiare o estraneo il tutore
del figlio. La tutela dativa nacque invece dopo una lex attilia del 210 a.c.che diede al pretore il
potere di nominare su istanze della madre, congiunti o estranei, un tutore all’impubere sui iuris
che non ne avesse alcuno.
La tutela era nell’insieme potestativa e protettiva, ossia il tutore esercitava un potere sull’infante
nell’interesse della famiglia e doveva garantirgli nello stesso tempo protezione ed assistenza.
Inizialmente l’approccio era più potestativo, con l’arrivo della tutela in datio venne rese un
rapporto a maggior fine protettivo. Le persone designate potevano inizialmente rifiutare la tutela,
solo se muniti di valide excusationes, che avrebbero portato il tutore designato a individuare un
valido tutore al proprio posto.
Per tutta l’età classica la tutela fu prerogativa maschile, divenne solo dopo in casi eccezionali
concessa alle donne su ispirazione ellenistica.
I poteri del tutore: Prerogativa del tutore impubere era l’autoritas, che era in sostanza la
dichiarazione della volontà espressa dal pupillo. Veniva applicata all’infante maior che intendeva
compiere atti diversi da quelli di proprietà intendeva compiere azioni come obbligazioni o
alienazioni ed era necessaria la presenza del tutore. Gli infantes invece ovviamente non potevano
compiere alcun atto giuridicamente rilevante. Era il tutore a dover soddisfare e assisterlo nelle sue
esigenze mondane. Egli poteva acquistare e trasferire possesso nell’interesse del pupillo, e quindi
trasferire proprietà di res nec mancipi con atti che si imputavano direttamente al pupillo. La sua
capacità venne sempre più limitata dapprima da Settimio severo che impedì ai tutori di trasferire
la proprietà di fondi e poi il divieto venne esteso per tutto tranne che per cose di poco valore. Per
tutti i negozi che comprendevano acquisto e perdita del possesso il tutor agiva in nome proprio.
Questo significa che nell’alienazione e nell’acquisto di res mancipi era lo stesso tutore a esserne a
carico, e avrebbe poi dovuto trasferire tutto al pupillo una volta pubere.
Le responsabilità del tutore: La tutela cessava una volta che terminava l’età pubere. Il tutore in
quel momento avrebbe dovuto rendere conto della sua gestione tutelare. Già contemplata nelle
dodici tavole era l’actio rationibus distrahendis che andava a punire il tutore di tutti gli abusi
commessi volontariamente al pupillo. L’azione era penale ed in duplum, senza comportare infamia
a differenza della actio tutelae che non poteva essere ad essa cumulabile. L’actio tutelae era un
iudicius bona fidea, con attività reipersecutoria e comportava infamia. Nell’intentio figurava un
oportere ex fide bona. In questa azione il tutore era spinto a riconsegnare tutti i beni che aveva
acquistato per la gestione tutelare e rispondeva di tutti i pregiudizi patrimoniali derivati al pupillo
dalla gestione imputabile a dolo o colpa al tutore.

I minori di 25 anni
Con la crescita dell’economia romana si avvertì il pericolo di rendere giuridicamente efficienti dei
quattordicenni. Nel 200 a.C. un lex Laetoria, istituì un’azione, l’actio legis laetoria, contro quanti
avessero negoziato contro un minore di 25 anni e l’avessero raggirato. Cadde poi in desuetudine.
Era esercitabile da chiunque e quindi actiones populares. La pena era pecuniaria ed era un
multiplo del pregiudizio. Negli ultimi anni della repubblica Il pretore propose nuovi rimedi a tutela
dei minori di 25 anni con l’exceptio legis laetoriae e la in integrum restitutio propter aetatem.
L’exceptio legis leatoraea era data esecuzione quando un negozio pregiudizievole verso un minore
di 25 anni era stato compiuto ma non era ancora in esecuzione. La in integrum restitutio propter
aetatem invece veniva applicata ai negozi già efficaci.Per utilizzare questi due strumenti non era
necessario che il giovane fosse stato per forza raggirato, bastava che avesse subito un pregiudizio
patrimoniale. Questo portò le persone a spesso non fidarsi nel compiere negozi con minori di 25
anni.
La cura minorum: dall’età repubblicana vi era la possibilità di affidare un curatore all’adolescente.
Lo nominava il pretore stesso ogni qual volta se ne faceva richiesta e obbligatoriamente in
particolari situazioni. Il curatore aiutava il giovane nell’espletamento degli affari, e se del caso
prestava consenso. Esso non era necessario nei negozi che restavano validi e invalidi
indipendentemente da esso. Se prestato però il minore non poteva pretendere in giudizio di
essere salvato per via della sua inesperienza. Il curator minoris poteva anche gestire direttamente
il patrimonio dell’adolescente. I negozi compiuti dal curatore erano imputati di norma a lui stesso,
e poi al massimo sarebbero stati trasferiti al curato. La cura minorum durava fino al
venticinquesimo anno, e spesso coincideva con la tutela.
La venia aetatis: era una concessione data a singoli minori di 25 anni che si faceva prima
direttamente al principe poi al magistrato. Se il giovane era considerato di sani principi, infatti, gli
si permetteva di agire nel mondo giuridico negoziale come se non fossero minori, (dovevano
comunque avere più di 20 anni) ma non potevano più ricorrere nel caso alla exceptio lex legis
laetorea né alla in integrum restitutio propter aetatem.
Altri casi di incapacità di agire. Furiosi e prodigi
La capacità di agire era negata agli infermi di mente(furiosi) e ai prodigi. Lo stato del furius era tale
e quale quello dell’infans, la posizione del prodigus era paragonabile a quella dell’infans maior. I
prodigi non potevano infatti compiere atti aes et libram e tanto meno compiere alienazioni o
obbligazioni.
Vennero così istituiti per la loro tutela il curator furiosi e il curator prodigi che solitamente erano
l’agnatus proximus. Se non lo si individuava è tramite cura honoraria che il magistrato ne
individuava uno.
I compiti del curator furiosi erano sulla persona e sul patrimonio, quelli del curator prodigi solo sul
patrimonio. Il regime giuridico era simile a quello della tutela impuberis. Le 12 tavole riconobbero
al curator furiosi il potere di alienare i beni del curato. Sordi muti ed altri invalidi se sui iuris erano
muniti di uno speciale curatore che li aiutava personalmente e nella manifestazione della volontà
personale.
La tutela muliebre
Le donne avevano si capacità di agire ma con limitazioni di diverso ordine, molto gravi in età
arcaica. La situazione andrà migliorando molto col tempo, quasi fino alla parità col sesso maschile.
La condizione della donna secondo il diritto era di forte subordinazione, mentre dal punto di vista
sociale godeva di grande rispetto. Questo accadeva a Roma a differenza per esempio di Atene, ove
la moglie non era distinguibile dalla schiava. Le donne sui iuris e puberi erano dapprima soggette
alla tutela, specificamente tutela mulieris. Essa veniva applicata a tutte le donne libere dalla
potestà, che cadevano sotto il tutore mulieris. Poteva essere come la tutela impubera
testamentaria, dativa, legittima, Testamentari a quando alla morte il pater familias indicava il
tutore mulieris finire. In difetto per via legittima si affidava come tutore l’agnatus proximus. Se
questo avesse mancato ci avrebbe pensato il pretore, che dava un tutore dativo.
Il tutor mulieris non gestiva il patrimonio della donna, ma il suo compito era di assisterla nella
gestione patrimoniale. Per effettuare negozi di alienazione di res mancipi, e il compimento di
obbligazioni doveva affidarsi all’autoritas del tutore.
Nel testamento il pater familias poteva indicare che la donna scegliesse tramite sua scelta (optio) il
tutore che l’avrebbe affiancata. Si parlò al riguardo di tutor optivus. La donna poteva anche fare
coemptio di sé stessa a una persona di fiducia, e questa la acquistava in manu. Quest’ultimo la
mancipava alla persona che la donna voleva come tutore legittimo.
Una lex di augusto, papia poppea, riconobbe alle donne ingenue con tre figli, quattro se liberte lo
ius liberorum, esonerandole dalla tutela e donando quindi a loro piena capacità di agire. Nel 410
tutte le donne avevano accesso allo ius liberorum.

LE PERSONE GIURIDICHE:
Anche entità diverse dalle persone giuridiche possono essere centro di diritti e doveri giuridici. Si
parla in tal caso di persone giuridiche. La persona giuridica può essere a base personale, la
corporazione, o a base patrimoniale, la fondazione.
-Per corporazione si intende una aggregazione di persona con propria organizzazione interna, alla
quale fanno capo diritti e doveri che non sono uguali a quelli dei singoli. Era una soggettività
giuridica diversa da quella dei suoi componenti. La corporazione resta la stessa pure se ne variano
i componenti.
- Per fondazione si intende invece un complesso patrimoniale volto ad un preciso scopo (ad
esempio opera pia). I rapporti giuridici fanno capo alla fondazione stessa, e anch’essa non cambia
quando ne varia l’entità fisica dei componenti o beneficiari.
le corporazioni
La persona giuridica a diritti e doversi distinti da quelli dei suoi dipendenti.
IL populus romanus: era l’entità collettiva composta dai cittadini romani politicamente organizzati.
Corrispondeva in sostanza al nostro stato, Tutto ciò che concerneva il popuus romanus era
“pubblico”. Non si parlò mai di proprietà privata a riguardo. Era costituito da res publicae, e la sua
cassa era dapprima l’erarium poi il fisco.
Civitates e collegia: Differentemente la capacità giuridica di queste istituzioni fu anche di diritto
privato.
Le civitates erano municipia e coloniae, agglomerati urbani fuori roma, le prime composte da
cittadine le seconde da latini coloniarii. Con la concessione della cittadinanza di caracalla nel 212
furono unificate. I collegiae erano di minore importanza e portata, che avevano scopo di culto o
comunque atti a perseguire interessi religiosi. Potevano trattarsi inoltre di associazioni di artigiani
o commercianti ed esistevano infine i collegia tenuiorum che erano congregazioni di povera gente
al fine di provvedere funerali e riti di sepoltura. I collegiae erano molto antichi, ma spesso
venivano sciolti (come quello di bacco). Ad un certo punto vennero sciolti tutti i collegi esistenti,
ad eccezione di quelli più antichi, e per la loro costituzione era necessaria approvazione da parte
del senato o dell’imperatore. I collegi tenuiorum invece vennero sempre considerati leciti. La
composizione era solitamente numerosa, e il numero minimo era per la nascita era di tre persone,
dopo avrebbero potuto anche di minuire. Sia civitates che collegiae potevano prendere parte in
processi di diritto privato tramite actores. Essi erano loro rappresentanti, ma non in senso proprio.
Questo gli permetteva di avere accesso ai più svariati negozi. Potevano fare capo di debiti o
crediti, e potevano anche avere schiavi e diritto di usufrutto. Marco Aurelio consentì ai collegi di
affrancare i propri schiavi e quindi di assumerne il patronato.
Le fondazioni.
Nei testi giuridici romani manca l’idea di un patrimonio titolare di sé stesso, e manca quindi l’idea
stessa di fondazione. Simile ad essa è tuttavia l’eredità giacente, ossia lo stato del complesso
ereditario dalla morte del testatore fino all’accettazione da parte dell’erede. Durante quel lasso di
tempo l’eredità non apparteneva a nessuno, e quindi in caso di furto, non si aveva vero e proprio
furtum. L’erede avrebbe dovuto aspettare di diventare dominus per la rivendica. Marco Aurelio
tutelò queste situazioni col crimen hereditatis, ove il responsabile sarebbe stato punito con pena
pubblica criminale. Per altre questioni si sentì il bisogno di agire diversamente: Il servo con il
dominus morto durante la giacenza dell’eredità non poteva acquistare a nessuno, e per questo di
ricorse a pretoree finzione giuridiche per agire come se l’erede fosse divenuto tale sin dalla morte
del padre, potendo evitare così spiacevoli situazioni. Si affermò anche nel diritto romano che il
giacimento ereditario era da considerare come persona, e più precisamente come il proprietario
originale dell’eredità ormai defunto. Questo permetteva all’erede di divenire titolare dei rapporti
giuridici costituiti durante la giacenza.
Le piae cause: Si usava disporre legati in favore di civitates con l’onere di devolverne il credito in
favore della cittadinanza o comunque agli strati più poveri di essa. Poteva essa essere in favore di
corporazioni religiose vincolandone il reddito a scopi di culto o beneficenza. Si parla di pia causa
come autonoma soggettività giuridica.

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