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Frezza Chiara

n° matricola: 1237569
Filosofia dell’Arte

Il Cristo Giallo
Una riformulazione del sacro e del quotidiano attraverso l’arte.

Il corpo centrale di questo lavoro è costituito dall’analisi dell’opera di Paul Gauguin (1848-1903) Cristo
Crocifisso (1889), meglio conosciuto come Il Cristo Giallo, e in particolare – attraverso il collegamento alla
concezione dell’arte del primo Wittgenstein – viene posta in evidenza la modalità in cui l’artista attua una
sorta di doppia trasfigurazione: della religione e della vita ordinaria.
Il trovarsi di fronte a rappresentazioni pittoriche raffiguranti scene di vita ordinaria per uno spettatore
contemporaneo non è un fatto così singolare. La sempre più frequente tendenza degli artisti a ritrarre episodi
di vita quotidiana viene fatta risalire infatti all’inizio del Seicento, quando l’emergente borghesia mercantile,
non vedendosi rappresentata nelle scene sacre, diede un forte impulso alla raffigurazione di interni domestici
o luoghi urbani nei quali singoli individui o gruppi di persone stanno svolgendo delle attività più o meno
ordinarie. Dopo secoli di santi, madonne e crocifissi, la realtà che sta sotto gli occhi di tutti irrompe sulla
tela. Nel Novecento, a partire dai ready-made di Duchamp, anche oggetti come uno scolabottiglie, una ruota
di bicicletta e un orinatoio diventano candidati probabili di diletto estetico. La trasfigurazione del quotidiano
attuata dall’arte è la dimostrazione che qualche bellezza può essere ritrovata anche nei luoghi più inaspettati.
Che valore acquista allora la realtà quotidiana dopo la trasmutazione compiuta dall’attività artistica?
Paul Gauguin, uno dei massimi esponenti del post-impressionismo, incarna il prototipo dell’artista che
vuole evadere dalla realtà borghese per ricercare un mondo più puro e incontaminato. Vita primitiva e attività
ordinarie, possono essere considerate il fil rouge che tiene insieme tutti i suoi dipinti, a partire da quelli iniziali
d’influenza impressionista, passando per quelli della Bretagna, fino a quelli maturi realizzati nella Polinesia
Francese.
Com’è noto, il locus amoenus in cui condivise con altri pittori, tra cui Émile Bernard, la ricerca finalizzata a
una semplificazione dell’arte in direzione di ciò che verrà definito «sintetismo» è Pont-Aven, in Bretagna.

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Questa regione a nord-ovest della Francia, si rivelò essere una terra ricca di suggestioni, di tradizioni popolari
e luogo in cui era ancora possibile trovare «il primitivo» e «il selvaggio», aspetti cancellati invece nella Parigi
ormai industriale di fine ‘800, definita da Émile Zola «divoratrice di uomini».
È situata in Bretagna, la cappella di Trémalo in cui veniva conservato un Crocifisso ligneo piuttosto
semplice, diventato modello formale de Il Cristo Giallo. Il contenuto principale di tale tela è sicuramente il
crocifisso che si staglia in primo piano contro il paesaggio della campagna bretone. La figura di Cristo è
essenziale, legnosa e realizzata con forme semplici; i suoi piedi sono sovrapposti e poggiano su una piccola
mensola fermati da un grosso chiodo metallico. Ai piedi della croce vi sono alcune contadine bretoni che
pregano il Crocifisso in abito tipico, con cuffia bianca, ampia veste scura e grembiule. Lo sfondo è costituito
da un prato in discesa che viene interrotto da un muro a secco scavalcato da un uomo. Alcuni alberi
punteggiano i campi e tra di essi si possono intravedere alcune abitazioni mentre in lontananza, su un cielo
piuttosto sereno, si alzano le colline.
Ciò che prevale su ogni altro aspetto è però il colore, stridente e poco reale: il Cristo è giallo, quanto di
più lontano da un corpo crocifisso. Il giallo si dilata anche sui campi e sulle colline. Le forme sono
semplificate e costruite mediante campiture monocromatiche o debolmente chiaroscurate. Ispirandosi alla
tecnica utilizzata nelle vetrate medievali detta cloisonnisme, Gauguin, tramite una spessa linea di contorno,
distingue nettamente le figure dallo sfondo. Vi è l’abbandono dell’uso tradizionale della prospettiva in favore
di una profondità artificiale: le figure delle tre contadine creano la dimensione dello spazio nel primo piano
grazie a una prospettiva di grandezza. La sensazione di profondità è sottolineata dalla sovrapposizione dei
loro corpi e dalla progressiva diminuzione della grandezza degli alberi nello sfondo1.
Nell’arte di Gauguin, non vi è la ricerca della verità atmosferica, caratterizzata dall’istante fuggitivo della
luce o del vento, vi è l’abbandono della pittura en plein air e pertanto la perdita del diretto contatto con lo
scorcio naturale. Vi è una realtà primitiva rielaborata tramite diverse tecniche, dalle campiture tipiche del
sintetismo, all’uso di colori innaturali proprio del simbolismo. In accordo con ciò che sosteneva il critico
d’arte statunitense Clement Greenberg (1909-1994), potremmo dire che, in Gauguin, la rappresentazione di
attività quotidiane è data pur senza dissimulazione del medium fondamentale della pittura. Secondo
Greenberg è proprio l’esaltazione del carattere piano e delle proprietà dei pigmenti ciò che riesce ad
assicurare l’indipendenza della pittura come forma d’arte, distinguendola da altre attività come la scultura o
la fotografia. La pittura di Gauguin, pur rappresentando realtà rurali, è stata in grado di spogliarsi da tutto
ciò che condivideva con la scultura e la fotografia, si è liberata rispettivamente dallo spazio tridimensionale
e dal carattere documentario.
Inoltre, il fotografo americano Jeff Wall collega la crisi della rappresentazione prospettica e la successiva
frammentazione del tempo e dello spazio ai meccanismi sviluppatisi in quegli anni, propri della modernità
capitalistica. D’altro canto, la riproduzione di realtà primitive e non contaminate nei quadri di Gauguin vuole
essere la manifestazione artistica di una critica alla società borgese occidentale, e successivamente
concretizzata dalla fuga del pittore a Tahiti.
La pittura di sintesi, non soffermandosi sui dettagli, sulle ombre, e su tutti quegli artifici miranti a dare
l’illusione del vero, offre un concentrato di realtà rielaborato in chiave nuova, realtà in cui uomo e natura si
uniscono in un rapporto originario. Un’esperienza simile è descritta dal filosofo e artista Albert Camus
(1913-1960), nel racconto L’adultera contenuto in L’esilio e il Regno (1957), in cui la protagonista,
allontanandosi dal mondo mercantile in cui è solita vivere ed entrando in contatto con il deserto algerino e
con le popolazioni del luogo, viene travolta da una sorta di percorso iniziatico che prevede la
riappropriazione di se stessa tramite «l’accoppiamento» con la natura.
Oltre al carattere rurale, ciò che emerge dopo un primo sguardo a Cristo Crocifisso, è ovviamente l’elemento
sacro. Gauguin, per la fattura del dipinto si ispira alle antiche opere medievali aventi per soggetto la
Crocifissione. Lo fa apportando qualche modifica: al posto di Cristo si trova un modesto Crocifisso, e

1 Il testo a cui ho fatto riferimento per gli aspetti più tecnici dell’opera è I Grandi Maestri dell’Arte: Gauguin e la scuola di Pont-Aven
(2008), a cura di Giovanna Uzzani.

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sostituisce la Vergine, la Maddalena, e i vari apostoli, con tre semplici contadine. Vi è una correlazione tra
Cristo e il grano data dall’utilizzo dello stesso colore: in Gesù il giallo simboleggia il dolore umano, e il giallo
che descrive la crescita del grano diventa metafora del ciclo religioso della vita di un cristiano. L’aspetto
religioso, in particolare il mistero del sacrificio, viene così inscritto nella vita di tutti i giorni.
Ci si potrebbe a questo punto chiedere: la trattazione artistica di determinati temi, in questo caso quelli
del quotidiano e del sacro, è anche una forma di comprensione, attraverso i mezzi dell’arte, dei significati
che essi racchiudono?
Wittgenstein parla di arte come modo di vedere. In un passo tratto dai Quaderni 1914-1916 il filosofo
scrive:
L’opera d’arte è l’oggetto visto sub specie aeternitatis; e la vita buona è il mondo visto sub specie aeternitatis. Questa è la
connessione tra arte ed etica.
Il consueto modo di vedere gli oggetti quasi dal di dentro; il vederli sub specie aeternitatis dal di fuori.
[…] La cosa vista sub specie aeternitatis è la cosa vista con tutto il suo spazio logico2.
Wittgenstein collega quindi la visione sub specie aeternitatis alla visione della cosa con tutto il suo spazio
logico, cioè nelle sue possibili connessioni con altri oggetti in stati di cose. La visione sub specie aeternitatis è
un peculiare tipo di visione che vede le cose dal di fuori, così che l’oggetto «ha l’intiero mondo come
sfondo»3, mentre il modo usuale di guardare alle cose, vede gli oggetti come se fosse in mezzo a esse. Lo
spazio logico è una metafora per indicare un dominio di possibilità per un segno di diventare simbolo ma è
anche lo spazio aperto dalle analisi delle proposizioni. Ciò che le proposizioni sensate, cioè, a detta del
Wittgenstein del Tractatus le proposizioni delle scienze, descrivono è il come del mondo, l’accidentale accadere
delle cose. A questo modo d’essere, Wittgenstein contrappone quello del valore, che invece non è
accidentale.
Il senso del mondo deve essere fuori di esso. […] non v’è in esso alcun valore.
Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’essere fuori da ogni avvenire ed esser-così. Infatti, ogni avvenire ed esser
così è accidentale.
Dev’essere fuori dal mondo4.
Il senso, e quindi il valore del mondo, non dev’essere ricercato nell’accidentale. Nessun fatto del mondo
può dare senso e valore al mondo. In che modo quindi il valore può emergere dalla realtà? Wittgenstein in
un’altra annotazione dei Quaderni scrive:
«Significato» le cose acquistano solo in rapporto alla mia volontà5.

Vi è quindi una correlazione tra valore, significato e volontà.


Il mondo è indipendente dalla mia volontà.
Anche se tutto ciò che noi desideriamo avvenisse, tuttavia ciò sarebbe solo, per così dire, una grazia del fato, poiché
non v’è, tra volontà e mondo, una connessione logica che garantisca ciò, e la supposta connessione fisica non potremmo
certo volerla a sua volta6.
L’azione della volontà di cui parla Wittgenstein sembra essere una presa di posizione verso il mondo,
essa è il modo in cui viene ricevuta la realtà, che ha come risultato un’alterazione del mondo. L’unico modo
in cui la volontà può produrre un cambiamento nei limiti del possibile, entro i limiti del mondo, è nel
cambiare modo di vedere in cui tale mondo ci tocca. In questo modo i limiti del possibile non saranno
percepiti come limitazioni.
Se il volere buono o cattivo altera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò che può
essere espresso dal linguaggio.
In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire, decrescere o crescere in toto.
Il mondo del felice è un altro mondo che quello dell’infelice7.

2 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosoficus e Quaderni 1914-1916, a cura di A. G. Conte, Torino 1964, paragrafo 7.10.16, p. 229.
3 Ibidem.
4 Ivi, proposizione 6.41, p. 106.
5 Ivi, paragrafo 15.10.16, p. 231.
6 Ivi, proposizioni 6.373-6.374, p.105.
7 Ivi, proposizione 6.43, p.107.

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Collocare noi stessi fuori dai limiti della logica sarebbe come considerare questi limiti anche dall’altra
parte. La persona felice è quella che non patisce i limiti del mondo ma li accetta come condizioni di possibilità
del proprio vivere, e in questo modo si accorda con le possibilità di significato che ci sono offerte nel
contesto del mondo, e delle attività che partecipiamo attraverso la logica. Infelice, e dunque cattiva, è la vita
che denigra il mondo quando esso non risponde ai suoi bisogni. Essa, per quanto riguarda i fatti, può essere
identica alla vita felice. Solo se siamo in armonia con il mondo potremo essere in grado di raggiungere quella
visione sub specie aeternitatis che ci permette di vedere le cose con l’intero mondo come sfondo, le cose insieme
con l’intero spazio logico. Come Wittgenstein chiarisce alla fine del Tractatus, «la visione del mondo sub specie
aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata –»8, vale a dire, il raggiungimento di quella peculiare
visione che è esibita e resa manifesta dall’arte e dall’etica. Infatti, «l’arte è un’espressione. L’opera d’arte
buona è l’espressione compiuta»9. Disegnare e pensare sono due lati della stessa medaglia: entrambi tracciano
i limiti tra il dominio del possibile e la necessità di ciò che accade.
Nella visione di Wittgenstein l’arte richiama la stretta connessione che sussiste tra il valore e il recupero
del significato. L’attività artistica riesce a far sì che un oggetto non sia più un pezzo di natura come un altro,
ma essa libera dall’accidentalità quell’oggetto, trasferendolo nella dimensione del valore. Il valore che l’arte
dischiude non è un contenuto fattuale. Nello stesso modo in cui l’amore di una persona – magari la persona
di cui siamo innamorati – redime il nostro essere per caso, anche certa arte compie un atto d’amore: essa
riscatta l’oggetto banale dall’accidentalità. Quello che gli artisti a volte fanno è quindi offrire un luogo nuovo
per vedere le cose da una prospettiva diversa. Ci chiedono di riflettere su noi stessi, sui nostri modi
consolidati di vedere e di pensare.
Tornando alla questione iniziale, il riferimento all’opera di Gauguin ci mette in evidenza la trasfigurazione
che l’arte realizza, la quale comporta un andar oltre l’aspetto accidentale, per attingere alla visione della realtà
con tutto il suo spazio logico, alla visione sub specie aeternitatis. Vi è un’analogia che intercorre tra il ruolo
dell’artista e quello di un sacerdote che celebra l’Eucarestia data da un cambiamento di sostanza nella
permanenza delle apparenze. Oltre a esservi una trasmutazione del quotidiano, ne Il Cristo Giallo è anche
data una rielaborazione dell’aspetto religioso. Il giallo acceso del corpo di Cristo è distribuito su tutta la pelle
e si estende nel paesaggio, nei campi e nelle colline. Tramite questo riferimento cromatico, Cristo partecipa
alla vita quotidiana dei contadini e il ciclo di crescita del grano è paragonato al ciclo religioso della vita di un
cristiano. Vi è quindi l’inscrizione del sacro all’interno della quotidianità rurale: Gauguin inserisce nella vita
di tutti i giorni il mistero del sacrificio come aspetto sacro fondamentale per la crescita della vita. La bellezza
derivata dalla rappresentazione del divino immerso nel profano ci porta a casa, facendoci comprendere la
natura di Cristo: una natura divina ma anche fallibilmente umana.

8 Ivi, proposizione 6.45, p.108.


9 Ivi, paragrafo 19.9.16., p.229.

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