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CHIMICA

“La chimica è lo studio della materia e delle sue proprietà, dei cambiamenti della materia stessa e
dell’energia associata a tali cambiamenti.”
MATERIA: ciò che costituisce l’universo, noi siamo materia. Tutto ciò che è massa e volume.
La chimica si interessa della composizione della materia.
Una sostanza è definita come una composizione chimica definita e fissa. Ogni sostanza ha
determinate proprietà fisiche e chimiche.
Stati della materia:
- SOLIDI: hanno forma e volume propri
- LIQUIDI: hanno volume proprio ma forma del recipiente
- GAS: hanno forma e volume del recipiente
Proprietà della materia:
- FISICHE: sono quelle che una sostanza presenta di per sé, senza interagire con altre
sostanze.
es. massa, volume, colore, temperatura…
- CHIMICHE: sono quelle che una sostanza presenta quando si trasforma e/o interagisce
con un’altra sostanza.
Le proprietà possono inoltre essere intensive, quando non dipendono dall’entità del campione, ed
estensive, quando dipendono dall’entità del campione.
MISCELE: Le miscele possono essere:
o SOLUZIONI: dimensioni di particelle minori di 10A
o DISPERSIONI: dimensioni di particelle comprese tra 10 e 1A = 10-10m
10.000A
o SOSPENSIONI: dimensioni di particelle maggiori di 10.000A
SISTEMI OMOGENEI: porzione di materiale caratterizzata in ogni suo punto dalla stessa
composizione in massa e dalla presenza di una sola fase.
soluzione = miscela omogenea
MISCUGLI
- OMOGENEI: si osserva una sola fase
- ETEROGENEI: possono essere emulsioni (liquidi non miscibili tra loro) e sospensioni
(solido disperso in liquido).

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I componimenti della materia
Quando parliamo di materia dobbiamo tenere in considerazione diverse leggi fondamentali e
diversi modelli atomici che si sono susseguiti nel corso della storia della chimica.
LEGGE DI LAVOISIER:
È la legge di conservazione della massa: la massa totale delle sostanze rimane invariata durante
una trasformazione chimica.
LEGGE DI PROUST:
È la legge della composizione definita e costante: gli elementi si scambiano tra di loro con
rapporti sempre costanti e definiti.
LEGGE DI DALTON:
È la legge delle proporzioni multiple: stessi elementi possono formare composti differenti in base
alle proporzioni con le quali si associano fra loro.
Egli grazie a questo arriva a 2 diverse conclusioni:
- La materia è costituita da atomi
- Gli atomi non si possono trasformare.
Modello di Thomson (1897):
Egli dà la prima prova della struttura interna dell’atomo studiando i RAGGI CATODICI.

Esperimento di Thomson:
Si consideri un tubo di vetro in cui sia stato fatto il vuoto e in cui siano inseriti due elettrodi
metallici (anodo e catodo) collegati da un generatore di differenza di potenziale. Quando il
generatore è acceso, si genera il raggio catodico dal catodo (polo negativo) all’anodo (polo
positivo) che va ad incidere sulla superficie terminale di un tubo rivestito di un materiale in grado
di emettere luce se colpito dal raggio.

I raggi catodici prodotti nell’esperimento non si propagano in modo rettilineo, ma venivano


deviati da un campo magnetico o elettrico. Cambiando il tipo di catodo, si ottenevano inoltre
raggi identici, indipendentemente dal tipo di metallo con cui era fatto il catodo.
Tali risultati indicavano che i raggi catodici erano costituiti da particelle cariche negativamente,
presenti in tutta la materia, e si presentavano quando tali particelle urtavano molecole di gas
residue nel tubo: tali particelle presero il nome di elettroni.

I raggi catodici sono radiazioni che vengono emesse quando si applica un’elevata
differenza di potenziale a due elettrodi metallici dentro un tubo messo sottovuoto.
Il raggio del catodo (-) va verso l’anodo (+).

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Egli dimostrò che:
▪ Le particelle avevano carica negativa (elettroni) proveniente dall’interno
degli atomi.
▪ Le particelle erano identiche anche cambiando metallo.
▪ Calcolare massa/carica della particella: 1/1000 dell’atomo di idrogeno.
Egli ideò che noi chiamiamo MODELLO A PANETTONE, ovvero nel nucleo dell’atomo c’è
materia, esso infatti è ritenuto pieno, e si distribuiscono all’interno cariche positive e
negative.
Esperimento di Millikan:

Esperimento di Millikan:
In una camera in cui vi è stato fatto il vuoto, vengono nebulizzate delle goccioline d’olio.
Una sorgente di raggi X provoca la ionizzazione delle molecole di aria residue, da cui vengono
emessi elettroni che si “appiccicano” sulla superficie delle gocce in diverse condizioni sperimentali.

Egli riuscì a misurare la carica dell’elettrone: -1,602 x 10-19C.


Da questo calcolo, grazie alle scoperte di Thomson, riuscì inoltre a calcolare la massa
dell’elettrone: 9,109 x 10-28g.
Modello di Rutherford:
Egli bombardò una sottile lamina d’oro
con un fascio di particelle positive (α).
Egli si aspettava che le particelle
attraversassero la lamina subendo delle
deviazioni minime dovute agli elettroni,
invece le particelle venivano deviate in
modo significativo.
Arriva così alla conclusione che:
un atomo è costituito prevalentemente
dallo spazio occupato da elettroni con al
centro una piccola massa positiva.
Formulò così l’ipotesi dei protoni,
particelle subatomiche che avevano
carica uguale ed opposta rispetto a quella degli elettroni e una massa di 1,7 x 10-27 kg.
Questo portò all’attuale considerazione dell’atomo nel quale troviamo un piccolo nucleo
positivo con gli elettroni, di carica negativa, che ruotano intorno.

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Il neutrone venne poi scoperto da Chadwick.
TEORIA ATOMICA ODIERNA:
“L’atomo è un’entità sferica elettricamente neutra. Il nucleo è costituito da protoni e neutroni tranne
per l’idrogeno nel quale troviamo un solo protone.”
Numero di massa: protoni + neutroni (in alto a sinistra)
Numero atomico: protoni (in basso a sinistra)
Simbolo chimico: nome dell’elemento
ISOTOPO: due elementi con lo stesso numero atomico ma differente numero di massa. Questo
determina una differente massa e differenti proprietà fisiche e chimiche.
u.m.a -> unità di massa atomica: è l’unità di misura della massa degli atomi.
1 u.m.a = 1,66054 x 10-24g = 1/12 massa del C12

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Il legame chimico
Possono legarsi secondo due modi:
- TRASFERIMENTI di uno o più elettroni dagli atomi di un elemento a quelli di un altro
atomo. E in questo caso avremo composti ionici.
- CONDIVISIONE di elettroni tra atomi di differenti elementi o anche medesimi. In questo
caso avremo composti covalenti.
Questi processi generano legami chimici.
I legami chimici sono forze che tengono uniti gli atomi degli elementi in un composto.
IONE: atomo o gruppo di atomi che presenta una carica; questa carica può essere positiva,
avremo in questo caso un catione, oppure negativa, avremo così un anione.
Anioni e cationi compongono i composti ionici.
Nb: i cationi perdono elettroni mentre gli anioni ne guadagnano.
La formula chimica:
Abbiamo tre principali modi per scrivere una formula:
- Formula minima: numero relativo di atomi del composto (HO -> perossido di azoto)
- Formula molecolare: numero reale di atomi per ciascuna molecola (H2O2 -> perossido di
azoto)
- Formula di struttura: H-O-O-H

La mole e le equazioni chimiche


La mole (n) è la quantità di sostanza di un sistema che contiene tante entità elementari quanti
sono gli atomi in 12g di C12, cioè 6,022 x 1023 (numero di Avogadro).
La massa molare (M) di una sostanza È la massa di una mole delle sue entità ed espressa in
g x mol-1.
Negli elementi la M corrisponde con la massa atomica
Nei composti la M e la somma delle masse atomiche degli atomi presenti nella formula.
La percentuale di massa di un elemento presente in un composto noto si può tenere dividendo la
massa atomica per la massa molare del composto.
La formula minima si ottiene usando come medici le masse in moli di ciascun elemento.
La formula molecolare e il numero effettivo di moli di ciascun elemento in una mole di composto.
Diversi composti possono avere la stessa formula e per questo per identificarli devo conoscere la
loro struttura.
Una reazione chimica è un processo nel quale una sostanza si trasforma in un'altra.
Un’equazione chimica utilizza simboli chimici per mostrare quello che avviene durante una
reazione chimica.
reagenti -> prodotti
Si definisce reagente limitante di una reazione, quel reagente che reagisce completamente
andando ad esaurirsi e determinando la fine della reazione stessa.
La resa teorica di una reazione e il 100% ma non è mai così perché una parte si disperde sempre
e questa determina la resa reale.
ή= resa reale/resa teorica x 100

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Classificazione delle reazioni
- Reazioni di combinazione: due sostanze si combinano per dare una terza sostanza.
2Na + Cl2 -> 2NaCl
- Reazioni di decomposizione: una sostanza reagisce scomponendosi in due o più
sostanze.
2HgO -> 2Hg + O2
- Reazioni di spostamento: un elemento reagisce con un composto spostando da esso un
altro elemento.
Fe + CuSO4 -> Cu + FeSO4
- Reazioni di doppio scambio: comporta lo scambio di parti tra due reagenti.
Kl + AgNO3 -> KNO3 + AgI
- Reazioni di combustione: sono particolari reazioni di combinazioni implicanti O2.
CH4 + 2O2 -> CO2 + 2H2O
Un’altra classificazione è quella basata su due grandi categorie:
- Reazioni acido-base: sostanza acida + sostanza basica -> SALE
- Reazioni di ossido-riduzione:
si definisce numero di ossidazione di un elemento in un composto, il numero di elettroni
ceduti o acquistati durante la formazione di un composto.
Le reazioni di NON ossido riduzione -> numero di ossidazione invariato
Le reazioni di ossido-riduzione -> comportano un trasferimento di elettroni da un atomo ad
un altro. (cambia in questo modo il numero di ossidazione).
STATO DI OSSIDAZIONE:
- In un elemento è sempre 0
- Un composto è sempre neutro
- Si dice ione-poliatomico quando il numero di ossidazione non è 0 ed esso rappresenta il
numero di carica dello ione.
- H con i non metalli è +1 e con i metalli è -1
- O è sempre -2 tranne nei perossidi che è -1
- Gli alogeni hanno -1
ma con O sono +1, +3, +5, +7
- I non metalli possono avere numero di ossidazione variabile:
il valore minimo si ricava da - (8-n) -> n indica il numero del gruppo
il valore massimo è +n
REDOX -> movimento netto di elettroni da un reagente ad un altro
Ossidazione -> cessione di elettroni
Riduzione -> acquisizione di elettroni
2Mg + O2 -> 2MgO
Mg -> viene ossidato poiché passa da 0 a +2 (è agente riducente)
O -> viene ridotto poiché passa da 0 a -2 (è agente ossidante)

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La struttura atomica
Il comportamento della materia a livello sub-atomico non può essere spiegato con le leggi della
meccanica classica, ma bisogna tener conto della natura particellare della materia e della natura
ondulatoria dell’energia.
La luce È una forma di radiazione elettromagnetica costituita dall'insieme di un campo elettrico di
un campo magnetico oscillanti (ovvero varianti nel tempo), che procedono nel vuoto alla velocità di
3 x 108 ms-1.
L’onda luminosa è caratterizzata da:
- Frequenza: è il numero di eventi che si
ripetono nell’unità di tempo. Si indica con ν e
si misura in Hertz (Hz), cioè [s-1].
- Ampiezza: è l’altezza dell’onda rispetto
all’asse orizzontale centrale, e si indica con
a.
- Lunghezza d’onda: è la distanza tra un
picco e quello successivo, e si indica con λ.
λ = c/v
- Intensità: è il quadrato dell’ampiezza.
Le onde dello spettro elettromagnetico si propagano tutte alla stessa velocità nel vuoto, ma
differiscono per frequenza e lunghezza d’onda.
Ci sono dei fenomeni legati alla luce che non erano chiari ai fisici all’inizio del XX secolo:
- La radiazione del corpo nero:
Un oggetto più viene riscaldato più brilla secondo il fenomeno di
incandescenza, inoltre un oggetto caldo è noto come corpo nero poiché
assorbe ed emette in un’ampia gamma di radiazioni poiché gli atomi e i
loro elettroni mostrano un comportamento collettivo.
Ma con la teoria elettromagnetica non si riusciva a spiegare, finché non
arrivò Planck che avanzò l’ipotesi che l’energia dei singoli oscillatori
elementari (atomi) non fosse una grandezza continua ed anzi essa
fosse il multiplo di un certo valore elementare non dividibile hv, dove h è
la costante di Plank e vale 6,626 x 10-34Js.
La quantità elementare di energia è detta quanto e la sua teoria è la TEORIA DEI QUANTI.
- L’effetto fotoelettrico:
Se l’atomo in oscillazione cede all’ambiente un’energia E, si produrrà una radiazione di frequenza
ν = 𝐸/ℎ. Ciò era in contrasto con la fisica classica, per la quale un oscillatore poteva oscillare con
qualsiasi energia.
Studiando l’effetto fotoelettrico cioè l’emissione di elettroni da parte
di un metallo la cui superficie sia esposta a radiazione ultravioletta,
si osservò che:
- Per una frequenza ν<ν0 anche se molto intensa, non
vengono emessi elettroni.
Per una frequenza ν>ν0 vengono emessi elettroni con
un’energia cinetica tanto più grande quanto maggiore è la
frequenza ν.
ν0 viene detta frequenza critica ed è caratteristica di ogni
metallo.
Ciò contrasta con la teoria ondulatoria che associa
l’energia della luce alla sua intensità.
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- Assenza di ritardo temporale, gli elettroni vengono emessi immediatamente,
indipendentemente dall’intensità, anche questo si oppone alla teoria ondulatoria.
Albert Einstein provò a spiegare tali osservazioni mutando profondamente il concetto di campo
elettromagnetico.
Secondo lui la radiazione era costituita da particelle (fotoni), ciascuna delle quali considerabile
come un pacchetto di energia correlabile con frequenza della radiazione.
Urtando il metallo, ogni fotone cede la sua energia ad un elettrone del metallo. Se l’energia è
maggiore del lavoro necessario ad estrarre l’elettrone, si ha effetto fotoelettrico e l’elettrone viene
emesso con un’energia cinetica pari a 𝑬 = 𝒎𝝂𝟐 = 𝒉𝝂 − 𝒉𝝂𝟎.
La teoria quantistica di Planck e la teoria fotonica di Einstein assegnavano all’energia proprietà fino
ad allora riservate alla materia: quantità fissa e particelle discrete. Ciò fu essenziale per spiegare le
interazioni tra materia ed energia a livello atomico. Tuttavia, il modello particellare non si
sostituisce al modello ondulatorio della luce; al contrario vanno accettati entrambi per comprendere
la realtà.
- Gli spettri atomici a righe:
Un’altra osservazione essenziale del XIX secolo riguardò la luce emessa da un elemento quando
questo è vaporizzato e poi eccitato termicamente/elettricamente.
Es. quando una corrente elettrica attraversa un campione di H2 a bassa pressione, questo
emette luce. H2 di per sé non può condurre l’elettricità, ma un campo elettrico intenso
strappa elettroni dalle sue molecole, che spezzano per formare un plasma (un insieme di
elettroni e ioni globalmente neutro) di ioni H+ ed elettroni che conducono la corrente. Quasi
immediatamente, ioni ed elettroni si legano di nuovo per formare atomi di idrogeno H
energeticamente eccitati che tornano al loro stato normale (non eccitato), emettendo
radiazione elettromagnetica per poi ricombinarsi formando nuovamente molecole di H2.
Facendo passare luce bianca attraverso un prisma si ottiene uno spettro luminoso continuo perché
la luce bianca consiste in tutte le lunghezze d’onda della radiazione visibile.
Invece, se per il prisma passa la luce emessa dagli atomi di idrogeno eccitati, si constata che la
radiazione è costituita da un certo numero di componenti o righe spettrali. La riga più brillante è
rossa (656 nm), seguita da altre lunghezze d’onda nel campo ultravioletto e infrarosso.
Questo costituisce lo spettro di emissione di H.

Quando un gas rarefatto (esempio gas di atomi di H) viene eccitato (per riscaldamento, con una
scarica elettrica) si ottiene uno spettro a righe, non uno spettro continuo, poiché gli atomi del gas
possono emettere solo radiazioni di frequenza definita che dipendono dal tipo di elemento che le
emette.
Espressione che riproduce la frequenza delle linee spettrali:
1 1 1
= 𝑅𝐻 ( 2 − 2 )
𝜆𝑣𝑎𝑐 𝑛1 𝑛2

𝜆𝑣𝑎𝑐 : lunghezza d’onda di una riga nel vuoto


n1 e n2: numeri interi positivi con n1<n2
RH: costante di Rydberg = 1,096776 x 107 m-1
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A seguito di questa formulazione si parla di:
- Serie di Balmer: l’insieme delle righe nella regione del
visibile, per cui n1 =2.
- Serie di Lyman: l’insieme delle righe nella regione
dell’ultravioletto, per cui n1 = 1.
- Serie di Paschen: l’insieme delle righe nella regione
dell’infrarosso per cui n1 = 3.
La presenza di righe spettrali in uno spettro di emissione,
suggerisce che l’energia di un elettrone all’interno di un atomo
sia limitata a una serie di valori discreti, detti livelli
energetici, e che la riga sia la rappresentazione di una
transizione, cioè un cambiamento di stato tra due livelli
energetici consentiti.
La differenza di energia tra due livelli è pari a quella
(caratteristica) della radiazione elettromagnetica emessa
dall’atomo.
Il fatto che si osservino righe spettrali distinte suggerisce che,
nell’atomo, un elettrone possa avere solo certe energie.
MODELLO ATOMICO DI BOHR
Il modello atomico di Bohr tiene conto della quantizzazione dell’energia e la applica al modello
nucleare dell’atomo di Rutherford.
I postulati di Bohr:
- L’elettrone descrive orbite circolari intorno al nucleo
- All’elettrone che si muove intorno al nucleo sono permesse solo alcuni stati stazionari
(immutabili nel tempo) cioè orbite a cui corrisponde un valore definito di Energia:
𝑛ℎ
𝐸=
2𝜋
- L’elettrone non irradia energia quando si trova in un’orbita permessa, ma solo se passa da
un’orbita più esterna ad una più interna permessa e la frequenza della radiazione emessa
(quanto) sotto forma di fotoni è uguale a:
𝐸2 − 𝐸1
𝑣= 𝑐𝑜𝑛 𝐸2 > 𝐸1

L’orbita ad energia più bassa è lo stato
fondamentale, corrisponde a n = 1 e ha un raggio pari
a 53pm detto raggio di Bohr. Se l’elettrone è in
un’orbita superiore alla prima è in uno stato eccitato.
L’atomo compie una transizione in un altro stato
stazionario (cioè l’elettrone si trasferisce su un’altra
orbita) soltanto assorbendo o emettendo un fotone la
cui energia è uguale alla differenza di energia fra i due
stati.
Si genera una riga spettrale quando viene emesso un fotone dall’elettrone che passa da uno stato
ad energia maggiore (E2) ad uno di energia minore (E1).
Nel modello di Bohr, il numero quantico è associato al raggio dell’orbita dell’elettrone e quindi alla
sua energia: minore è il valore di n, minore è il raggio, minore è l’energia dell’orbita.
Questo modello ha però i suoi limiti:
- È adatto solo all’H e agli atomi idrogenoidi”, con Z > 1 e mono-elettronici He+, Li2+…, non
adatto agli atomi pluri-elettronici perché non prende in considerazione le addizionali
attrazioni tra nucleo ed elettroni e repulsioni inter-elettroniche.
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- In realtà non esistono “orbite fisse”
- Il modello non da nessuna informazione sull’intensità delle righe, nessun criterio razionale
per ripartire gli elettroni nelle loro orbite, nessuna giustificazione del mancato irraggiamento
da parte degli elettroni costretti a ruotare attorno al nucleo.
DUALISMO ONDA-PARTICELLA:
Abbiamo visto che l’energia ha una duplice natura, ondulatoria e particellare (fotoni).
La materia è costituita da particelle, ma anche da onde?
Nel 1924 Louis de Broglie ipotizzò che se l’energia è di natura particellare allora forse anche la
materia può avere una natura ondulatoria:
Eq. Plank: E = hv
Eq. Einstein: E = mc2
Posso eguagliarle e avrò:
hv = mc2
Poiché v = c/λ
mc2 = hc/λ
λ = h/mc
Ad una particella di massa m che viaggi alla velocità v (quantità di moto mv), può essere associata
una lunghezza d’onda (di de Broglie):
λ = h/mv
Esplicitando il denominatore come momento lineare (quantità di moto) p, si ottiene la relazione di
De Broglie:
λ = h/p
Se le particelle si muovessero di moto ondulatorio gli elettroni dovrebbero presentare diffrazione e
interferenza.

Di fatto un elettrone in moto ha λ = 10-10 m e quindi gli spazi tra un atomo e l’altro in un cristallo
funzionerebbero da perfette fenditure.
Nel 1927, Clinton Davisson e Lester Germer spararono elettroni a velocità ridotta contro un
bersaglio di nichel cristallino.
Venne misurata la dipendenza dall'angolo di incidenza dell'elettrone riflesso, e si determinò che
aveva lo stesso pattern di diffrazione dei raggi X, così come previsto da William Henry Bragg.
Pertanto, se un elettrone (particella avente massa) è in grado di dare diffrazione come se fosse
un’onda, è possibile affermare la natura ondulatorio della materia.
PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG
Non si può specificare l’esatta localizzazione di una particella che si comporta come un’onda. Il
dualismo onda-particella implica infatti che l’elettrone dell’atomo di idrogeno non possa essere
descritto come una particella orbitante attorno al nucleo secondo una traiettoria definita.
Inoltre, tanto più esattamente si conoscerà la posizione, tanto meno esattamente si conoscerà la

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quantità di moto (e viceversa). Questo è un aspetto della complementarità della posizione e del
momento.
Nel 1927 Werner Heisenberg formulò il principio di indeterminazione in termini quantitativi: ove
si conosca la posizione di una particella con incertezza pari a ∆𝑥, il valore di p (quantità di moto)
parallelo all’asse 𝑥 si può conoscere solo con un’incertezza ∆𝑝, dove ∆𝑝 = 𝑚∆v.
E vale la relazione:
𝐡
𝐦∆𝐯 ∙ ∆𝐱 ≥
𝟒𝛑
Se ∆𝑥 è molto grande allora ∆𝑝 è molto piccolo, e viceversa.
Si introduce così la meccanica ondulatoria che evidenzia la probabilità di presenza al posto
della localizzazione.
Il concetto di onda associata ad un elettrone non permette di assegnare a questa particella una
posizione esattamente determinata nello spazio.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg (1927) stabilisce che la contemporanea conoscenza
della quantità di moto e della posizione di una particella comporta una certa indeterminazione di
queste grandezze.
Non si può assegnare agli elettroni un’orbita definita, ma si può calcolare la probabilità di trovare
un elettrone in un certo punto dell’atomo.
Si deve passare da orbite a orbitali. -> L’orbitale è una regione di spazio intorno al nucleo,
delimitata da una superficie, all’interno della quale c’è il 90-95% di probabilità di trovare l’elettrone.
LA MECCANICA QUANTISTICA
L’accettazione della natura duale di materia ed energia e del principio di indeterminazione è
culminato nella meccanica quantistica, la quale esamina il moto ondulatorio dei corpi su scala
atomica.
Nel 1927, Erwin Schröedinger sostituì al concetto di traiettoria quello di funzione d’onda (Ψ) una
funzione matematica del moto della materia/onda associata all’elettrone in termini di tempo e
posizione.
L’equazione di Schröedinger (1927): è un’equazione differenziale la cui soluzione è una funzione
d’onda che permette di descrivere il moto di un determinato elettrone lungo le tre coordinate,
rispetto al nucleo posto all’origine.
𝝏𝟐 𝝍 𝝏𝟐 𝝍 𝝏𝟐 𝝍 𝟖𝝅𝟐 𝒎
+ + + (𝑬 − 𝑬𝒑𝒐𝒕 )𝝍 = 𝟎
𝝏𝒙𝟐 𝝏𝒚𝟐 𝝏𝒛𝟐 𝒉𝟐
E energia totale
Epot energia potenziale
m massa elettrone
h costante di Plank
𝝏 derivata parziale
Il primo membro dell’equazione di Schröedinger viene scritto comunemente H∙Ψ, dove H è detto
operatore hamiltoniano del sistema e rappresenta un insieme di operazioni matematiche che,
quando applicate su una particolare Ψ, dà uno stato energetico permesso.
Pertanto, l’equazione assume la forma H∙Ψ = E∙Ψ e si usa per calcolare sia E che Ψ.
Ogni soluzione all’equazione (cioè ogni stato energetico dell’atomo) è associata ad una data
funzione d’onda detta anche orbitale atomico.
Nel modello quantomeccanico, il concetto di orbitale non ha nulla a che fare con il concetto di
orbita: l’orbita era una traiettoria che si supponeva fosse seguita dall’elettrone, mentre l’orbitale è
una funzione matematica priva di significato fisico.
Dirac dimostrò che Ψ2 , sempre positivo, misura la probabilità di trovare l’elettrone in un certo
punto dello spazio, viene chiamato densità di probabilità elettronica.
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NUMERI QUANTICI
Risolvendo l’equazione di Schröedinger per un atomo tridimensionale, si trova che per specificare
ciascuna funzione d’onda sono necessari tre parametri chiamati numeri quantici.
- Il numero quantico principale: n
n determina l’energia dell’elettrone
n è sempre intero e positivo
più alto è il valore di n, maggiore è l’energia dell’elettrone e maggiore è la sua distanza dal
nucleo.
- Il numero quantico secondario o angolare: l
l determina la forma geometrica della nuvola elettronica
l è sempre intero, varia da 0 a (n-1)
- Il numero quantico magnetico: m
m determina l’orientazione degli orbitali l’uno rispetto all’altro
m è sempre intero, varia da -l a +l
In sintesi, l’orbitale rappresenta uno spazio al di fuori del quale la probabilità di trovare l’elettrone è
trascurabile.
Gli stati energetici e gli orbitali dell’atomo sono descritti con termini specifici e associati a uno o più
numeri quantici:
- Livello (guscio): è dato dal valore di n. Minore è il valore di n, minore è il livello energetico
dell’elettrone e maggiore è la probabilità che esso si trovi vicino al nucleo. Tutti gli orbitali di
un dato guscio posseggono la stessa energia, indipendentemente dal valore di l: si parla di
orbitali degeneri.
- Sottolivello (sotto guscio): i livelli atomici contengono sottolivelli che disegnano la forma
dell’orbitale, dettata dal valore di l:
• l = 0: sottolivello s
• l = 1: sottolivello p
• l = 2: sottolivello d
• l = 3: sottolivello f.
I nomi dei sottolivelli si ottengono abbinando il valore di n e la designazione letterale
(es: per n = 2 e l= 1 si ha il sottolivello 2p).
- Orbitale: ciascuna combinazione permessa di n, l, m specifica uno degli orbitali atomici.
Ogni sottolivello dell’atomo di H corrisponde a orbitali con forme caratteristiche:
ORBITALE s: ha forma sferica.
L’elettrone dell’atomo di H nello stato fondamentale si
trova nell’orbitale 1s. La densità elettronica è massima in
corrispondenza del nucleo, mentre la distribuzione di
probabilità radiale è massima lievemente all’esterno del
nucleo.
Entrambi i diagrammi (quello legato alla distanza e
quello legato alla probabilità) scendono in modo regolare
all’aumentare della distanza.
L’orbitale 2s ha due regioni di densità elettronica più
alta, e la distribuzione di probabilità radiale della regione
più lontana è più alta di quella della regione più vicina
perché la somma di tutte le ψ2 è estesa ad un volume
maggiore. Tra le due regioni esiste un nodo sferico e,
siccome l’orbitale 2s è più grande dell’1s, un elettrone in questo orbitale trascorre più tempo più
lontano dal nucleo rispetto a quando occupa l’orbitale 1s.

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L’orbitale 3s ha tre regioni di densità elettronica più alta e due nodi, e così via.
ORBITALE p: formato da 2 lobi.
L’orbitale p ha due regioni (lobi) di alta probabilità, da parti opposte rispetto al nucleo. Il nucleo
giace sul piano nodale di questo orbitale, e l’orbitale p a energia più bassa è il 2p.
L’elettrone trascorre lo stesso tempo in entrambi lobi. A differenza di un orbitale s, l’orbitale p ha un
orientamento specifico nello spazio dato dai tre possibili valori di m: essi si riferiscono a tre orbitali
p mutamente ortogonali, identici per dimensione, forma ed energia, ma con diverso orientamento
(e l’asse ortogonale su cui giacciono è indicata a pedice del nome dell’orbitale).
ORBITALE d: formato da 4 lobi
Essendoci cinque possibili valori di m, un orbitale d può avere cinque orientamenti possibili.
Quattro orbitali d hanno quattro lobi determinati da due piani nodali mutuamente ortogonali con il
nucleo situato nella giunzione dei lobi. Tre di questi orbitali (dx, dy, dz) giacciono nei piani
mutuamente ortogonali (xy, xz, yz), con i loro lobi tra gli assi. Un quarto orbitale (dx2−y2) giace
anch’esso nel piano xy, ma i suoi lobi sono diretti lungo gli assi. Un quinto orbitale (dx2) presenta
due lobi che giacciono lungo l’asse z e una regione di densità elettronica a forma di ciambella
(detta toroide) circonda il centro.
ORBITALE f: forma complessa multilobata.
Ne esistono 7 con n=4, l=3 e m=-3…+3

Gli elettroni si comportano come se ruotassero intorno ad un asse passante per il loro centro. Dato
che gli elettroni possono ruotare solo in due direzioni, il numero quantico può assumere solo due
valori, +½ e –½, a volte indicati anche come ‘’spin su’’ e ‘’spin giù’’. Ogni elettrone che ruota su sé
stesso produce un campo magnetico. Quando due elettroni hanno spin opposto, l’attrazione
dovuta ai loro opposti campi magnetici contribuisce a compensare la forza repulsiva dovuta alle
loro cariche uguali. Queste permette ai due elettroni di occupare la stessa regione di spazio
(orbitale).
Non è stato necessario introdurre il numero quantico di spin ms finché abbiamo trattato solo
l’atomo di idrogeno (1 elettrone).
Non è una proprietà dell’orbitale ma dell’elettrone. Quindi ciascun elettrone è descritto
completamente ed univocamente da 4 numeri quantici: i primi 3 descrivono l’orbitale in cui si trova
e il quarto il suo spin.
Il numero massimo di orbitali presenti in uno strato di numero quantico principale n è n2.
Il numero massimo di elettroni permessi in un certo livello di energia è limitato e dato da 2n2.
n = 1 popolazione massima = 2(1)2 = 2
n = 2 popolazione massima = 2(2)2 = 8
n = 3 popolazione massima = 2(3)2 = 18
n = 4 popolazione massima = 2(4)2 = 32
CARICA NUCLEARE EFFETTIVA
𝒁𝑬𝑭𝑭 = (𝒁 − 𝑺)
dove Z è il numero atomico e S è una costante di schermo, tanto minore
quanto più gli elettroni sono capaci di penetrare vicino al nucleo.
Per il calcolo di S valgono le seguenti regole di Slater:
- Elettroni che appartengono a gruppi superiori rispetto a quello
occupato dall'elettrone in esame non danno alcun contributo allo
schermaggio.
- Se l'elettrone in esame è in un orbitale ns o np, valgono le presenti
considerazioni:
13
a. ogni altro elettrone del gruppo {ns, np} dà un contributo pari a 0,35 allo schermaggio,
tranne per il gruppo {1s} che contribuisce per 0,30;
b. ogni elettrone del guscio (n-1) dà un contributo pari a 0,85;
c. ogni elettrone del guscio (n-2) o inferiori dà un contributo pari a 1,00
- Se l'elettrone in esame è in un orbitale nd o nf, valgono le presenti considerazioni:
a. gli altri elettroni del gruppo {nd} o {nf} danno contributo pari a 0,35;
b. gli elettroni di tutti i gruppi sottostanti contribuiscono per 1,00.
Ps. Gli elettroni tendono a riempire gli orbitali privilegiando sempre quelli a energia inferiore.
ATOMI POLIELETTRICI
Gli orbitali degli atomi con più di un elettrone possono essere ottenuti utilizzando la base di orbitali
calcolati per H e adattati al problema (interazione elettrone-
elettrone).
Le caratteristiche degli orbitali si modificano perché:
• diminuiscono i valori di Energia all’aumentare di Z
• i sottolivelli di un livello n non hanno la stessa energia.
L’energia dipende da l (s < p < d < f).
Il numero n non domina da solo il valore del livello energetico:
- E6s < E4f < E5d
- E5s < E4d
- E4s < E3d
Per questo abbiamo delle regole per la costruzione delle
configurazioni elettroniche:
- METODO AUFBAU: si riempiono progressivamente i vari orbitali partendo da quelli a energie
inferiori.
- METODO DI PAULI: al massimo un orbitale ospita due elettroni, aventi spin opposto
- REGOLA DI HUND: se più configurazioni sono possibili, la più stabile sarà quella a massima
molteplicità di spin, ossia quella con il maggior numero di elettroni spaiati.
LA CONFIGURAZIONE ELETTRONICA
È l’indicazione di come gli elettroni di un dato atomo sono distribuiti nei vari orbitali nello stato
fondamentale.
L’ordine con cui gli elettroni occupano gli orbitali è tale da minimizzare l’energia dell’atomo (stato
fondamentale) per atomi isolati.
Costruzione del diagramma degli orbitali: costituito da una casella per ciascun orbitale in un dato
livello energetico, con i livelli raggruppati per sottolivelli, e con una freccia che indica la presenza di
un elettrone e la direzione orientata del suo spin (↑ per + ½ e ↓ per – ½).
La tavola periodica degli elementi può essere divisa in blocchi a seconda del riempimento degli
orbitali di valenza.
Si possono distinguere 3 categorie di elettroni:
Elettroni interni: quelli nel gas nobile precedente e in ogni serie di transizione completata.
Riempiono i livelli energetici inferiori dell’atomo.
Elettroni esterni: quelli del livello energetico più alto (n più alto).
Elettroni di valenza: quelli che intervengono nella formazione dei composti. Negli elementi di
transizione a volte anche elettroni d interni sono da annoverarsi come di valenza. Gli elettroni di
valenza sono pari al n°. di colonna (gruppo).

14
La tavola periodica

La legge periodica (1869, Mendeleev in Russia e


Meyer in Germania) stabilisce che gli elementi,
quando vengono disposti in ordine di massa
atomica, mostrano una periodicità delle proprietà.
- La tavola periodica è composta da colonne
(gruppi) e righe (periodi).
- Nei gruppi, le proprietà chimiche sono molto
simili.
- Mosley (1913) scoprì che era più corretto
ordinare gli elementi secondo il numero atomico.

Gli elementi chimici che presentano analoga configurazione elettronica hanno anche analoghe
proprietà chimiche e fisiche.
Quando due o più atomi reagiscono fra loro si ha una interazione che mette in gioco gli elettroni
più esterni. Il numero di elettroni e la loro distribuzione negli orbitali atomici determinano il tipo ed il
numero di legami che un atomo può dare.
- Gli elementi dello stesso gruppo hanno uguale configurazione esterna.
- Ciascun periodo comincia con un elemento con un solo elettrone nell’orbitale s dello stato
più esterno e termina con uno avente gli orbitali s e p dello strato più esterno riempiti.
La configurazione elettronica degli elementi dell’ottavo gruppo cioè i gas nobili, è ns2, np6.
Tutti i sottolivelli s e p sono completamente occupati.
Gli elettroni dei livelli pieni non prendono parte alle reazioni chimiche quindi questi elementi sono
inerti.
LE PROPRIETÀ PERIODICHE
- Raggio atomico: ra
I raggi atomici sono dedotti da misure di distanza interatomiche e hanno significato perché
permettono un confronto fra diversi atomi.
All’interno di un periodo, il raggio atomico diminuisce da sinistra a destra.
15
-> Lungo il periodo, la carica del nucleo aumenta.
-> Gli elettroni del livello n =1 sono attratti dal nucleo con una forza proporzionale alla
carica nucleare provocando una contrazione dell’orbitale.
-> L’effetto sugli elettroni dei gusci esterni è minore perché la carica nucleare è
parzialmente schermata.
All’interno di un gruppo, il raggio atomico aumenta dall’alto verso il basso.
-> Lungo gli elementi di un gruppo, gli elettroni occupano in ogni atomo un guscio in più
che nell’atomo precedente. Anche se, per il progressivo aumento della carica nucleare,
ogni guscio diventa più piccolo, l’aggiunta di un altro guscio ha sempre effetto
predominante.
Il raggio ionico si valuta dalle dimensioni caratteristiche dei composti
- Energia di ionizzazione: Ei
L’energia di ionizzazione è la quantità di energia necessaria per allontanare l’elettrone più
esterno di un atomo allo stato gassoso e formare uno ione con una carica positiva
(catione).
M + E1→M+ + e- (prima ionizzazione)
M+ + E2→ M++ + e- (seconda ionizzazione)
L’energia di ionizzazione diminuisce all’aumentare del raggio atomico (più lontano e
l’elettrone dal nucleo, più facile sarà la sua estrazione), quindi:
• all’interno di un periodo, l’energia di ionizzazione aumenta da sinistra a destra.
• all’interno di un gruppo, l’energia di ionizzazione diminuisce dall’alto al basso.
Le Ei successive aumentano perché si rimuovono elettroni da ioni con carica positiva
sempre maggiore.
L’andamento non è regolare, ma include ad un certo punto un aumento drastico (salto) di
energia. Questo salto compare dopo che sono stati rimossi gli elettroni esterni (di valenza)
e vengono rimossi gli elettroni interni (energia necessaria molto maggiore!).
- Affinità elettronica: Ae
L’affinità elettronica è l’energia che si sviluppa quando un atomo allo stato gassoso
acquista un elettrone per formare uno ione con una carica negativa (anione) = la forza con
cui l’elettrone è tenuto unito all’atomo.
X + e-→ X- + energia [kJ/mol] (– Ea1: energia ceduta → segno –)
L’affinità elettronica diminuisce all’aumentare del raggio atomico (più lontano è un
elettrone dal nucleo, più è difficile la sua acquisizione), quindi:
• All’interno di un periodo, l’affinità elettronica aumenta da sinistra a destra (con alcune
anomalie).
• All’interno di un gruppo, l’affinità elettronica diminuisce dall’alto al basso (con alcune
eccezioni).
- Elettronegatività: χ
L’elettronegatività è la capacità relativa di attrarre gli elettroni condivisi tra due atomi
(quindi vale solo per atomi legati tra di loro).
L’elettronegatività secondo Millikan è pari alla media aritmetica dell’energia di ionizzazione
e dell’affinità elettronica.
𝐸ion + |𝐸𝐴𝐸 |
χ =
2

L’elettronegatività secondo Pauling di un elemento A calcolata conoscendo


l’elettronegatività di un elemento B attraverso la seguente relazione:
|Χ𝐴 − Χ 𝐵 | = √∆
Pauling ammette cioè che la differenza di elettronegatività tra due elementi sia uguale alla
radice quadrata di una quantità Δ, detta energia di risonanza ionico-covalente espressa
in eV, il cui valore è dato da:

16
Δ = 𝐷𝐴𝐵 − √𝐷𝐴𝐴 ∙ 𝐷𝐵𝐵
DAB = energia di dissociazione del legame della molecola biatomica formata da A e B.
all’energia del legame covalente si somma una componente ‘’ionica’’, legata al dipolo che si
genera per lo spostamento degli elettroni di legame ed alla differenza di elettronegatività
dei due atomi.

In una molecola, il nucleo di un atomo più piccolo è più vicino alla coppia di elettroni di
legame, pertanto l’elettronegatività è in relazione inversa con il raggio atomico.
All’interno di un gruppo, l’elettronegatività diminuisce dall’alto al basso.
All’interno di un periodo, l’elettronegatività aumenta da sinistra a destra.
METALLI ALCALINI -> 1° gruppo
Configurazione elettronica ns1, elevata reattività, producono ioni M+.
Reagendo con:
- O2 formano ossidi basici
- H2 formano idruri
- Alogeni formano Sali
I metalli alcalini reagiscono rapidamente con l’aria umida ed Rb e Cs, per questo devono essere
conservati in contenitori isolati.
Gli alcalini reagiscono con l’acqua per formare idrogeno e l’idrossido del metallo corrispondente.
La reattività aumenta scendendo lungo il gruppo.

METALLI ALCALINO-TERROSI -> 2°gruppo


Configurazione elettronica ns2, elevata reattività, ma minore degli alcalini, producono ioni M2+.
Reagendo con:
- O2 formano ossidi basici
- H2 formano idruri
- Gli alogeni formano Sali
Gli alcalini reagiscono più violentemente degli alcalino-terrosi.
13° GRUPPO
Configurazione elettronica ns2 np1, producono ioni M3+, ma il B anche negativi B- (boruri).
Il carattere metallico cresce lungo il gruppo:
- il B con O2 forma anidridi
- Al e i seguenti formano ossidi
L’alluminio è un elemento molto utilizzato per la sua leggerezza e per la resistenza alla corrosione:
forma un ossido molto resistente (Al anodizzato) ed è riciclabile.
14° GRUPPO
Configurazione elettronica ns2 np2, producono ioni M4+, ma il C e il Si anche negativi (carburi,
siliciuri).
Il carattere metallico cresce lungo il gruppo:
- il C e il Si con O2 formano anidridi
- gli altri formano ossidi
Si e Ge sono semiconduttori intrinseci.
15° GRUPPO
Configurazione elettronica ns2 np3.
L’azoto forma molecole biatomiche
Il carattere metallico cresce lungo il gruppo:
- N, P e As con O2 formano anidridi
17
- gli altri formano ossidi.
16° GRUPPO
configurazione elettronica ns2 np4 e producono principalmente ioni negativi.
Il carattere metallico cresce lungo il gruppo:
- formano anidridi e poi ossidi.
ALOGENI -> 17°gruppo
Configurazione elettronica ns2 np5, hanno elevata reattività e producono ioni negativi X-.
- Con O2 formano anidridi
- Con i metalli alcalini formano sali.
GAS NOBILI -> 18° gruppo
Configurazione elettronica ns2 np6, reattività nulla per He, Ne e Ar e sono possibili alcuni composti
con Kr, Xe e Rn.

18
Il legame chimico
Gli atomi tendono a formare legami per minimizzare l’energia potenziale del sistema.
Esistono due famiglie di legami:
- I legami intramolecolari: legami tra atomi per la formazione di molecole o reticoli
cristallini.
Sono dei legami forti e possono essere di tre tipi: legame ionico, legame covalente (puro
o polare), legame metallico.
- I legami intermolecolari: legami tra molecole → stato liquido e solido.
Sono dei legami deboli e possono essere di tre tipi: legame idrogeno, legami di Van Der
Waals, forze di dispersione.
LEGAMI INTRAMOLECOLARI
Fra i legami intramolecolari è possibile ottenere legami chimici tramite queste combinazioni:
- Metallo + Non Metallo: si ha trasferimento di elettroni e quindi si ottiene un legame ionico.
Si osserva tra atomi con grandi differenze nelle loro tendenze a cedere o acquistare
elettroni (gruppi 1, 2, 17 e sommità del 16).
A seguito del trasferimento di un elettrone al non metallo, ciascuno dei due atomi forma
uno ione con una configurazione di gas nobile. L’attrazione elettrostatica tra questi ioni li
colloca nella disposizione tridimensionale di un solido ionico, la cui formula chimica
rappresenta il rapporto catione/anione.
- Non Metallo + Non Metallo: si ha condivisione di due elettroni tra due atomi e quindi si
ottiene un legame covalente.
Si osserva tra atomi con piccola differenza nella loro tendenza a cedere o acquistare
elettroni. Ciascuno dei due atomi trattiene fortemente i propri elettroni (alta energia di
ionizzazione) e tende anche ad attrare altri elettroni (affinità elettronica molto negativa).
L’attrazione esercitata da ciascuno dei due nuclei sugli elettroni di valenza dell’altro attrae i
due atomi, e la coppia di elettroni condivisa è considerata localizzata tra i due atomi. Ciò
porta alla formazione di molecole separate, la cui formula chimica rispecchia i numeri
effettivi di atomi della molecola.
- Metallo + Metallo: si ha la messa in comune di elettroni tra molti atomi e quindi si ottiene
un legame metallico.
In generale, gli atomi metallici sono relativamente grandi e i loro pochi elettroni esterni sono
efficacemente schermati dai livelli interni pieni. La bassa energia di ionizzazione e la
piccola o positiva affinità elettronica fanno sì che gli atomi metallici mettano in comune i
loro elettroni di valenza in un ‘’mare di elettroni’’ uniformemente distribuito, che fluisce tra e
attorno agli ioni metallici e li attrae, tenendoli così uniti. In un legame metallico gli elettroni
sono delocalizzati, cioè si muovono liberamente in tutto il campione di metallo.
LEGAME IONICO:
È un legame di natura elettrostatica nel quale gli elettroni sono trasferiti da un atomo a bassa
energia di ionizzazione (elettropositivo) ad un atomo ad elevata affinità elettronica
(elettronegativo).
È comunque soddisfatta l’elettro-neutralità e gli ioni tendono a circondarsi del maggior numero di
ioni di segno opposto formando un reticolo cristallino.
Il legame risulta dall’attrazione elettrostatica fra i due ioni con carica diversa che si sono formati.
- Metalli dei gruppi 1 e 2 tendono a cedere 1 e 2 elettroni e formare cationi M+, M2+ con la
stessa struttura elettronica del gas nobile precedente.
- I non metalli dei gruppi 15, 16, 17 tendono ad acquisire elettroni per formare anioni con la
stessa struttura elettronica del gas nobile successivo

19
L’energia reticolare non può essere misurata direttamente, ma la si può ricavare attraverso la
legge di Hess applicata ad un ciclo di Born-Haber: questo è l’insieme delle tappe che portano
dagli elementi ai composti ionici, e per il quale sono note tutte le entalpie tranne l’energia
reticolare.
L’energia reticolare (ΔHreticolare0) è direttamente proporzionale all’energia elettrostatica e, mediante
la legge di Coulomb e la considerazione che la distanza minima tra catione e anione è uguale alla
distanza tra i loro centri (che è la somma dei loro raggi ionici), si può scrivere che:
𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑐𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑖𝑐𝑎 ∙ 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑎𝑛𝑖𝑜𝑛𝑖𝑐𝑎 0
𝐸𝑛𝑒𝑟𝑔𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑖𝑜𝑛𝑖𝑧𝑧𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 ∝ ∝ ∆𝐻𝑟𝑒𝑡𝑖𝑐𝑜𝑙𝑎𝑟𝑒
𝑟𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑐𝑎𝑡𝑖𝑜𝑛𝑖𝑐𝑜 + 𝑟𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑎𝑛𝑖𝑜𝑛𝑖𝑐𝑜
Effetto del raggio ionico: scendendo lungo un gruppo, il raggio ionico aumenta, quindi l’energia di
attrazione tra cationi e anioni diminuisce a causa dell’aumento della distanza interparticellare. In
effetti l’energia reticolare diminuisce lungo un gruppo.
Effetto della carica ionica: aumenta notevolmente l’energia reticolare.
Il modello del legame ionico spiega la natura dei solidi ionici: se si considera un campione di
NaCl, esso è duro (non si lascia penetrare facilmente), rigido (non si piega), e fragile (si rompe
senza deformarsi). Queste proprietà sono dovute alle intense forze attrattive che mantengono gli
ioni in posizioni specifiche in tutto il cristallo. Per spostare gli ioni da queste posizioni occorre una
pressione sufficiente che porti gli ioni con lo stesso segno vicini tra loro, e ciò rompe
improvvisamente il campione.
La maggior parte dei composti ionici non conduce l’elettricità allo stato solido, ma la conduce allo
stato fuso o in soluzione acquosa poiché gli ioni devono essere liberi di muoversi per poter
condurre corrente elettrica, e ciò non può avvenire se sono immobilizzati in un cristallo solido.
Questo modello spiega anche perché sono necessarie temperature elevate per fondere o far
bollire un composto ionico. Infatti, per rendere gli ioni liberi dalle loro posizioni e vaporizzarli si
devono fornire grandi quantità di energia.
In realtà si nota che l’attrazione ionica è così forte che il vapore sarà costituito da coppie ioniche,
cioè molecole ioniche gassose (unico caso in cui si può parlare di molecole di un composto
ionico).
LEGAME COVALENTE:
Il legame covalente è dovuto alla condivisione tra 2 atomi di una o più coppie elettroniche in modo
che ciascun atomo raggiunga la configurazione del gas nobile (regola dell’ottetto).
Coppia di elettroni condivise tra gli atomi: gli elettroni appartengono ad entrambi gli atomi e in
questo modo entrambi gli atomi possono arrivare ad una configurazione stabile.
Quando gli atomi sono uguali si parla di legame covalente omopolare, altrimenti di legame
covalente polare.
Per capire quello che accade, consideriamo due atomi di H isolati: quando questi si trovano molto
distanti tra loro, ciascuno di essi si comporta come se l’altro non fosse presente. Al diminuire della
distanza tra i due nuclei, ciascuno di essi comincia ad attrarre l’elettrone dell’altro atomo, e questa
attrazione fa diminuire l’energia potenziale del sistema.
Le attrazioni continuano a fargli avvicinare tra loro, e l’energia potenziale diminuisce
progressivamente. Tuttavia, si inizia ad osservare anche un aumento delle repulsioni tra i due
nuclei e i due elettroni.
Ad una certa distanza internucleare, a fronte della crescente repulsione, viene raggiunta
l’attrazione massima, e il sistema ha l’energia potenziale minima. Qualsiasi distanza internucleare
minore farebbe incrementare di molto le repulsioni, aumentando così l’energia potenziale.
La mutua attrazione tra i nuclei e la coppia di elettroni costituisce il legame covalente che tiene
uniti i due atomi di H per formare la molecola di H.
Si può rappresentare il legame covalente come sovrapposizione delle forme orbitaliche degli
20
orbitali spaiati, cioè che contengono un solo elettrone: in questo modo nella zona di
sovrapposizione gli elettroni possono essere assegnati entrambi all’uno e all’altro atomo.
Più è estesa la zona di sovrapposizione, più il legame è forte.
L’ordine di legame è il numero di coppie di elettroni condivise tra due atomi legati.
Ad esempio, H2, HF ed F2 presentano legami covalenti singoli, cioè costituiti da una sola
coppia di elettroni di legame, e si dice che l’ordine di legame è pari a 1.
Molte molecole invece contengono legami multipli.
Un legame doppio è costituito da due coppie di elettroni condivise tra due atomi, e l’ordine di
legame è pari a 2.
Ad esempio, l’etilene (C2H4) contiene un doppio legame tra atomi di C e ciascuno di essi
raggiunge l’ottetto contando come suoi i 4 elettroni del doppio legame e i 4 elettroni dei due
legami semplici con gli atomi di H.
Un legame triplo è costituito da 3 coppie di elettroni condivise, quindi due atomi condividono 6
elettroni e l’ordine di legame è pari a 3.
Ad esempio la molecola N2.
La forza del legame covalente dipende dall’intensità della mutua attrazione tra nuclei legati ed
elettroni condivisi.
L’energia di legame (o entalpia di legame, o forza di legame) è l’energia necessaria per vincere
questa attrazione.
La rottura del legame è un processo endotermico e quindi l’energia di legame è sempre positiva.
L’energia di legame può anche essere vista come la differenza di energia tra gli atomi separati
e gli atomi legati.
La stessa energia di legame corrisponde all’energia rilasciata quando si forma il legame.
Un legame covalente è anche caratterizzato dalla sua lunghezza di legame, cioè la distanza tra i
nuclei di due atomi legati.
Ovviamente, la lunghezza di legame è in relazione con la somma dei raggi degli atomi legati.
Esiste una stretta relazione tra ordine di legame, energia di legame e lunghezza di legame: per
una data coppia di atomi, un ordine di legame più alto dà origine a una lunghezza di legame più
corta e a un’energia di legame più alta.
Pertanto, per una data coppia di atomi si ha che un legame più corto è un legame più forte.
Se da un lato la condivisione di elettroni tra coppie di atomi dà origine a legami forti e localizzati,
può sembrare difficile giustificare il comportamento dei composti formati in questo modo (gas,
liquidi o solidi basso fondenti).
Bisogna però distinguere tra:
- Forti forze di legame covalente: tengono uniti gli atomi all’interno della molecola.
- Deboli forze intermolecolari: mantengono le molecole l’una vicina all’altra nel campione.
Sono quest’ultime forze deboli le responsabili delle proprietà fisiche dei composti covalenti,
e non i legami covalenti tra coppie di atomi.
Quando una sostanza molecolare bolle, le forze deboli intermolecolari vengono vinte, ma i legami
covalenti che tengono uniti gli atomi non vengono spezzati.
Esistono però anche delle sostanze covalenti dette solidi covalenti reticolari: in questo caso non
si hanno molecole separate, ma si tratta di reticoli tridimensionali formati da legami covalenti tra
tutti gli atomi del campione.
Le proprietà di queste sostanze rispecchiano la forza dei loro legami covalenti.
Esempi: il quarzo (SiO2, con Si e O connessi covalentemente in tutto il campione) e il
diamante (ogni atomo di C è legato covalentemente ad altri 4 atomi di C, fonde a 3550°C
ed è la sostanza più dura nota).

21
A differenza dei solidi ionici, quelli covalenti sono tipicamente cattivi conduttori elettrici (anche allo
stato fuso o in soluzione): non sono infatti presenti ioni, e gli elettroni sono localizzati (non liberi di
muoversi per produrre una corrente elettrica).
Nel momento i cui parliamo di legami intramolecolari non possiamo dimenticare il concetto di
elettronegatività.
Linus Pauling sviluppò la scala di valori di elettronegatività a partire di studi su molecole di H2, F2 e
HF. Ipotizzò che la molecola HF avesse un’energia di legame intermedia tra quelle di H2 (432 kJ
mol-1) ed F2 (159 kJ mol-1); tuttavia il valore misurato fu 565 kJ mol-1.
Secondo il ragionamento di Pauling, questa differenza era dovuta ad un contributo elettrostatico
all’energia del legame H-F: se F attrae la coppia di elettroni di legame più fortemente di H (cioè se
F è più elettronegativo di H), gli elettroni trascorreranno più tempo vicino a F. Questa condivisione
disuguale di elettroni fa sì che l’estremità F del legame sia parzialmente negativa e l’estremità H
parzialmente positiva, e l’attrazione tra queste cariche parziali aumenta l’energia necessaria per
rompere il legame.
Basandosi su studi simili condotti sui restanti alogenuri di idrogeno e molti altri composti, Pauling
giunse alla scala dei valori relativi di elettronegatività. I valori non sono quantità misurate, ma si
basano sull’assegnazione, fatta da Pauling, del più alto valore di elettronegatività (4,0) al F.
Quando atomi con diverse elettronegatività formano un legame, la coppia di legame viene
condivisa in modo diseguale, e il legame risultante ha un polo parzialmente negativo e uno
parzialmente positivo. In questa situazione si ha polarità di legame, e il legame è detto legame
covalente polare ed è rappresentato con una freccia polare orientata verso il polo negativo, oppure
con i simboli 𝛿+ e 𝛿−.
Al contrario, in un legame tra atomi identici (ad es H2) o con la stessa elettronegatività, la coppia di
legame è condivisa in modo uguale e si ha un legame apolare (o puro).
L’esistenza di cariche parziali su due atomi legati
costringe a chiedersi quale sia il confine tra un legame
covalente e un legame ionico.
È possibile calcolare il carattere ionico di un legame
mediante la relazione:
2
𝐼% = (1 − 𝑒 −0,25∆𝜒 ) ∙ 100

LEGAME METALLICO:
Per il legame metallico, tutti gli atomi metallici presenti nel campione condividono i propri elettroni
di valenza per formare un ‘’mare di elettroni’’, si dice che gli elettroni sono delocalizzati.
Gli ioni metallici non sono mantenuti nelle loro posizioni tanto rigidamente quanto nel legame
ionico.
- Il campione di metallo è tenuto unito dalla mutua attrazione dei cationi metallici sugli
elettroni mobili altamente delocalizzati.
- Il numero di elettroni con cui ciascun atomo contribuisce al legame cresce da uno per il
sodio, a due per il magnesio, a tre per l’alluminio.
- La forza del legame metallico cresce nello stesso ordine.
Anche se le proprietà fisiche dei metalli variano in ampi intervalli, la maggior parte dei metalli è
costituita da solidi con temperature di fusione da medie ad alte (ad eccezione del mercurio che
fonde a -39°C, al contrario il tungsteno presenta il legame metallico più forte e fonde a 3410°C) e
temperature di ebollizione molto più alte.
Tipicamente i metalli sono duttili e malleabili (conseguenza della flessibilità del legame metallico
22
dovuta al fatto che gli elettroni mobili consentono ai piani ionici di scivolare uno sull’altro).
Conducono l’elettricità (gli elettroni più esterni di ciascun atomo sono liberi di muoversi in ogni
direzione).
Sono lucenti poiché in grado di assorbire la luce visibile di tutte le frequenza che gli elettroni mobili
riemettono con la stessa frequenza e intensità.
I SIMBOLI DI LEWIS
Un metodo per rappresentare gli elettroni di valenza degli atomi interagenti in un legame chimico è
costituito dai simboli di Lewis: si scrive il simbolo dell’elemento per rappresentare nucleo ed
elettroni interni, dopodiché si dispongono attorno ad esso una serie di puntini che rappresentano
gli elettroni di valenza.
Numero e appaiamento dei puntini danno informazioni sul comportamento di legame di un
elemento:
- Metalli: il numero totale dei puntini è il numero massimo di elettroni che il metallo cede per
formare un catione.
- Non Metalli: il numero di puntini spaiati è il numero di elettroni che si appaiano attraverso la
condivisione di elettroni.
Gilbert Newton Lewis espresse il comportamento degli elementi nel formare legami attraverso la
regola dell’ottetto: quando gli atomi si legano, essi cedono, acquistano o condividono elettroni
per raggiungere un livello esterno pieno di 8 elettroni.
LE STRUTTURE DI LEWIS
Il primo passo verso la visualizzazione della forma di una molecola è convertire la formula
molecolare in una struttura di Lewis (detta anche formula di Lewis perché non indica la
tridimensionalità delle specie).
Si tratta di una formula di struttura bidimensionale costituita da simboli di Lewis che rappresentano
ciascun atomo e gli atomi vicini, le coppie di legame che li tengono uniti e le coppie solitarie che
riempiono il guscio esterno di ciascun atomo.
Nella maggior parte dei casi, la regola dell’ottetto guida alla corretta assegnazione degli elettroni
agli atomi in una struttura di Lewis secondo i seguenti passaggi:
- Calcolo del numero di elettroni: si sommano gli elettroni di valenza di tutti gli atomi e, se
sono ioni, il numero di cariche coinvolte.
- Collocazione degli atomi: data una formula ABn, si colloca l’atomo A in centro e gli atomi
B attorno.
- Collocazione degli elettroni: si dispongono gli elettroni di valenza attorno a ciascun
atomo.
- Formazione di legami singoli: si traccia un segmento che connette i due atomi legati,
sostituendo i due elettroni precedentemente disegnati.
- Formazione di legami multipli: qualora la formazione di legami singoli non permetta il
completamente dell’ottetto di alcuni atomi, si procede alla formazione di legami doppi o
tripli.
- Verifica: il numero di elettroni disegnati (di legame e di non legame) deve coincidere con la
sommatoria calcolata al punto 1.
È fondamentale tenere presente che:
- In caso di legame ionico, non si traccia alcun segmento, ma si disegnano catione e anione
uno accanto all’altro.
- Ogni segmento tracciato deve sostituire una coppia di elettroni.
- Una formula di Lewis è sbagliata se non si disegnano le coppie di non legame.
Il legame covalente è dato dalla messa in comune di due elettroni. Quando questi due elettroni
provengono dallo stesso atomo (detto donatore) e sono donati ad un atomo che possiede un
orbitale vuoto (detto accettore), si dice che si instaura un LEGAME DATIVO o legame covalente
23
dativo.
In struttura di Lewis viene rappresentato da un segmento che termina con una freccia puntata
verso l’atomo accettore.
STRUTTURE DI RISONANZA
A volte esistono più modi per descrivere la formula di struttura d’una molecola. Quando in una
molecola o ione poliatomico sono presenti dei doppi legami, è possibile scrivere più formule di
struttura. Ciò non significa che esistono, ad esempio, diverse molecole di O3 e in realtà nessuna
delle due strutture di Lewis rappresenta accuratamente questa specie.
In teoria il legame doppio è più corto del legame semplice ma nella molecola di O3 i due legami
hanno la stessa lunghezza, intermedia tra quella del legame semplice e quella del legame doppio
(come se l’ordine di legame fosse 1,5).
La molecola è quindi più correttamente rappresentata dall’ibrido di risonanza, cioè una media
delle strutture limite rappresentabili.
La necessità di più di una struttura di Lewis per rappresentare la molecola di O3 è dovuta alla
delocalizzazione di coppie di elettroni: nell’ibrido di risonanza due coppie di elettroni (una di
legame e una di non legame) sono delocalizzate, cioè la loro densità elettronica è distribuita
sull’intera molecola. La delocalizzazione elettronica diffonde la densità elettronica su un volume
maggiore, riducendo le repulsioni elettrostatiche e stabilizzando la molecola.
L’ibrido di risonanza si può quindi disegnare con una linea curva tratteggiata per rappresentare le
coppie delocalizzate.
Es. il benzene
CARICA FORMALE
La carica formale (C.F.) di un atomo in un ibrido di risonanza corrisponde alla carica che esso
assumerebbe se gli elettroni di legame fossero condivisi ugualmente.
La C.F. di un atomo è data da:
− − 1 −
𝐶. 𝐹. = 𝑒𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑧𝑎 − (𝑒𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑣𝑖𝑠𝑖 + 𝑒𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑣𝑖𝑠𝑎 )
2
È importante ricordarsi che la somma delle C.F. degli atomi di un composto deve essere uguale
alla carica effettiva di questo composto, cioè 0 nel caso di una molecola neutra e la carica ionica
nel caso di uno ione.
Si considerano i seguenti criteri per scegliere le strutture di risonanza più plausibili:
- Le C.F. più piccole sono preferibili alle più grandi
- Non sono desiderabili C.F. simili su atomi adiacenti
- Una C.F più negative dovrebbe risiedere su un atomo più elettronegativo.
NB: questo è applicabile solo quando gli atomi disposti attorno a quello centrale sono diversi tra di
loro.
COMPOSTI NON OTTEZIALI
Occorre distinguere tre classi di strutture di Lewis che comportano eccezioni alla regola dell’ottetto:
- Molecole elettron-deficienti: le molecole gassose contenenti Be o B come atomo centrale
hanno meno di 8 elettroni attorno a quest’ultimo. Nel dettaglio, ci saranno 4 elettroni attorno
a Be e 6 attorno a B. Non possono quindi formare legami doppi.
- Molecole con numero dispari di elettroni: sono dette radicali liberi e contengono un
elettrone solitario (spaiato, disaccoppiato) che le rende paramagnetiche ed estremamente
reattive.
Ciò succede spesso quando l’atomo centrale appartiene ad un gruppo con numero dispari
(es: N, Cl, …).
- Strati di valenza espansi (o gusci di valenza espansi)
Molte molecole e molti ioni hanno più di 8 elettroni di valenza intorno all’atomo centrale
Un atomo può espandere lo strato di valenza per accogliere più elettroni, sia come coppie
24
solitarie sia come coppie di legame.
L’atomo centrale utilizza orbitali d esterni vuoti (oltre agli orbitali s e p occupati)
Si hanno strati di valenza espansi solo per i non metalli centrali del Periodo 3 o superiore
(hanno a disposizione orbitali d )
Un ulteriore fattore è la grandezza dell’atomo centrale (deve essere abbastanza grande da
poter “alloggiare” intorno a sé un elevato numero di atomi, es. PCl5).
Questi elementi presentano una covalenza variabile, ovvero un’attitudine a formare un
numero variabile di legami covalenti (es. PCl3 e PCl5).
LA TEORIA VSEPR E GEOMETRIA MOLECOLARE
Per costruire la geometria molecolare a partire dalla struttura di Lewis i chimici impiegano la teoria
VSEPR. Il suo principio fondamentale è che ciascun gruppo di elettroni di valenza attorno ad un
atomo centrale è situato il più lontano possibile dagli altri gruppi per minimizzare le repulsioni.
Si definisce ‘’gruppo’’ di elettroni qualsiasi insieme di elettroni che occupa una regione localizzata
attorno all’atomo.
Ciascuno di questi gruppi di elettroni respinge gli altri gruppi per minimizzare le repulsioni,
massimizzando gli angoli tra di loro.
La disposizione tridimensionale dei nuclei connessi da questi gruppi da origine alla geometria
molecolare.
repulsione tra coppie solitarie > repulsione tra coppie solitarie e coppie di legame > repulsione
tra coppie di legame
Le geometrie molecolari che si originano quando tutti i gruppi di elettroni attorno all’atomo centrale
sono gruppi di legame sono le seguenti:

Quando alcuni gruppi sono di non legame, si originano differenti geometrie molecolari.
Metodo AXE: per classificare le geometrie molecolari, si assegna a ciascuna una designazione
AXmEn, dove A è l’atomo centrale, X è un atomo circostante, E è un gruppo di elettroni di valenza
di non legame, m e n sono numeri interi.
I passaggi da seguire sono:
- Disegnare la struttura di Lewis
- Contare il numero m di atomi X a cui è legato l’atomo centrale A: questo è il valore di AXm
- Contare il numero n di doppietti non condivisi rimasti sull’atomo centrale: questo valore è
indicato con En
- Disegnare e indicare nome ed angolo di legame della geometria AXmEn
Occorre tener presente che:
- il numero di gruppi di elettroni dell’atomo centrale si indica spesso come numero sterico
(N.S.).
- Gli elettroni solitari collocati sugli atomi esterni non influenzano la geometria molecolare.
- Vengono conseguentemente definiti gli angoli di legame, cioè ciascun angolo formato dai
nuclei di due atomi circostanti col nucleo dell’atomo centrale posto nel vertice. Gli angoli
indicati nella figura precedente sono quelli che si osservano quando tutti i gruppi di elettroni
25
di legame attorno ad un atomo centrale sono identici e sono connessi ad atomi dello stesso
elemento. Quando non è così gli angoli di legame deviano da questi angoli ideali.
La teoria VSEPR distingue:
- Geometria molecolare con due gruppi di elettroni: essi sono disposti il più lontano
possibile tra loro, cioè orientati in direzioni opposte rispetto all’atomo centrale. Si parla di
geometria lineare, con angolo di legame di 180°, con formula AX2.
Due esempi sono BeCl2 e CO2; quest’ultima presenta due doppi legami, ciascuno dei quali
conta come un singolo gruppo di elettroni.
- Geometria molecolare con tre gruppi di elettroni: essi sono disposti sui tre vertici di un
triangolo equilatero. Si parla di geometria trigonale planare, con angolo di legame di 120°,
con formula AX3.
Ne sono esempi BF3 e NO3-.
- Nel caso in cui i tre legami formati dall’atomo centrale sono di ordine diverso tra loro la
geometria reale sarà lievemente diversa da quella prevista dalla teoria VSEPR. Infatti, il
legame doppio ha maggiore densità elettronica, pertanto respingerà i due legami singoli più
fortemente rispetto a quanto essi si respingano mutualmente.
- Nel caso in cui uno dei tre gruppi di elettroni sia una coppia di non legame, si parla di
geometria angolare (o piegata), con angolo di legame inferiore a 120°, e formula AX2E.
Ne è esempio SnCl2, dove uno dei tre vertici del triangolo è occupato da un doppietto
solitario dell’atomo centrale.
La coppia solitaria ha un effetto importante sull’angolo di legame; infatti, essa è attratta da
un solo nucleo ed esercita repulsioni più forti di quelle esercitate dalle coppie di legame.
- Geometria molecolare con quattro gruppi di elettroni: essi sono disposti sui quattro
vertici di un tetraedro, cioè un poliedro con quattro facce costituite da triangoli equilaterali
identici. Si parla di geometria tetraedrica, con angolo di legame di 109,5°, con formula AX4.
- Nel caso in cui uno dei quattro gruppi di elettroni sia una coppia di non legame, si
parla di geometria trigonale piramidale, con angolo di legame inferiore ai 109,5° e formula
AX3E.
- Nel caso in cui due dei quattro gruppi di elettroni siano coppie di non legame, si
parla di geometria angolare (o piegata), con angolo di legame inferiore ai 109,5° e formula
AX2E2.
Ne è esempio H2O, il cui angolo di legame è di 104,5°.
- Geometria molecolare con cinque gruppi di elettroni: essi sono disposti sui cinque
vertici di una bipiramide trigonale, cioè due piramidi trigonali con una base in comune. In
tale geometria vi sono due tipi di posizioni per i gruppi di elettroni circostanti e due angoli di
legame. Si distinguono:
• Gruppi equatoriali: giacciono in un piano trigonale che comprende l’atomo centrale, e
hanno angolo di legame tra di loro pari a 120°
• Gruppi assiali: uno sopra e uno sotto il piano, formano un angolo di 90° con il piano
equatoriale
Si parla di geometria bipiramidale trigonale, con formula AX5.
Nel caso ci siano gruppi di elettroni di non legame, si distinguono le geometrie ad altalena
(AX4E), a T (AX3E2) e lineare (AX2E3).
- Geometria molecolare con sei gruppi di elettroni: essi sono disposti sui sei vertici di un
ottaedro, cioè un poliedro con otto facce formate da triangoli equilateri identici e sei vertici
identici. Si parla di geometria ottaedrica, con angolo di legame 90° e con formula AX6.
Nel caso ci siano gruppi di elettroni di non legame, si distinguono le geometrie piramidale
quadrata (AX5E), e planare quadrata (AX4E2).
Molte molecole hanno più di un atomo centrale, e le loro geometrie sono combinazioni delle
geometrie viste nel caso di un singolo atomo centrale.

26
POLARITÀ MOLECOLARE
La conoscenza della forma delle molecole di una sostanza è essenziale per comprenderne il
comportamento chimico e fisico. Uno degli effetti più importanti della geometria molecolare è la
polarità molecolare: questa influenza temperature di fusione ed ebollizione, solubilità, reattività e
funzione biologica delle molecole.
In una molecola biatomica (es: HF), se c’è differenza di elettronegatività tra i due atomi si ha un
legame covalente polare e ciò comporta che anche la molecola stessa sia polare. Invece, in una
molecola con più di due atomi, sia la geometria molecolare che la polarità di legame determinano
la polarità molecolare. Occorre quindi considerare la polarità di tutti i legami e la loro disposizione
nello spazio.
Sperimentalmente si osserva che, all’interno di un campo elettrico, molecole polari si orientano
rivolgendo le loro cariche parziali verso gli elettrodi con carica di segno opposto. Si definisce
momento di dipolo (µ) il prodotto di queste cariche parziali per la loro distanza reciproca; l’unità di
misura è il debye (D), che vale 3,34∙10-30 C.m-1.
La determinazione della polarità molecolare deve tener conto della geometria, in quanto non
sempre la presenza di legami covalenti polari dà origine a una molecola polare.
Ad esempio, i due legami C=O presenti nella CO2 sono covalenti polari, la molecola non è polare.
Difatti la geometria lineare comporta che la polarità di legame identiche si controbilancino
esattamente e conferiscano alla molecola un momento di dipolo nullo.
Un liquido bolle quando le sue molecole hanno energia sufficiente per formare bolle di gas. Ciò
richiede alle molecole di liquido di vincere le forze intermolecolari attrattive deboli, e la presenza di
un dipolo molecolare influenza l’intensità di queste attrazioni. Ad esempio, si considerino due
sostanze aventi la stessa formula molecolare (C2H2Cl2), ma diversa formula di struttura e uguale
geometria VSEPR (planare trigonale attorno a ciascun atomo di C). Analizzando la polarità dei
singoli legami e la geometria molecolare, si nota che una sostanza presenta momento di dipolo
nullo, l’altra no. A livello sperimentale si nota che il composto con momento dipolare non nullo ha
una temperatura di ebollizione di 13°C superiore rispetto all’altro.

27
Teoria dei legami covalenti e metallici
Nonostante la teoria VSEPR spieghi le geometrie molecolari ipotizzando che i gruppi di elettroni
tendano a minimizzare le loro repulsioni, essa non spiega come queste geometrie sono
interpretabili dal punto di vista delle interazioni degli orbitali atomici. Inoltre, nessuno degli orbitali
s, p, d, f è orientato verso alcune delle geometrie VSEPR descritte, come la tetraedrica e la
bipiramidale trigonale.
La geometria molecolare, inoltre, non basta a giustificare i comportamenti spettrali e magnetici.
La teoria del legame di valenza (o VB da Valence Bond) è una teoria quantistica che tiene conto
degli orbitali atomici:
- Un legame covalente si forma per sovrapposizione (occupazione dello stesso spazio)
parziale di due orbitali atomici secondo il criterio della massima sovrapposizione.
- Gli orbitali sovrapposti contengono al massimo due elettroni (Pauli)
- Il legame singolo avviene con sovrapposizione orbitalica sulla linea immaginaria
congiungente i nuclei. Si chiama legame σ. I legami σ più comuni coinvolgono
sovrapposizioni s-s, s-p, p-p.
- Un legame multiplo (doppio o triplo) ha un solo legame σ mentre il secondo (ed
eventualmente il terzo) hanno diversa simmetria (legami π).

- Sovrapposizione di testa: si ha la sovrapposizione dell’estremità di un orbitale all’estremità


dell’altro. Si origina un legame σ, avente densità elettronica più alta lungo l’asse del legame e
forma un ellissoide (cioè la figura generata dalla rotazione di un’elisse attorno al suo asse
maggiore).
Tutti i legami singoli, formati da qualsiasi combinazione di orbitali ibridi, s o p che si
sovrappongono, sono legami σ.

- Sovrapposizione di fianco: si ha la sovrapposizione laterale di un orbitale di un atomo


con quello di un altro. Si origina un legame π, avente due regioni di densità elettronica,
uno al di sopra e una al di sotto dell’asse del legame σ.
Un legame π contiene due elettroni che si muovono attraverso entrambe le regioni del
legame.

28
L’entità della sovrapposizione influenza la forza di legame. Poiché la sovrapposizione di fianco
non è tanto estesa quanto la sovrapposizione di testa, un legame π è leggermente più debole di
un legame σ, e quindi un legame doppio avrà forza lievemente minore rispetto a quella di due
legami singoli sommati tra loro.
Il tipo di legame influenza la capacità di una parte di una molecola di ruotare rispetto a un’altra
parte. Un legame σ permette la libera rotazione delle parti della molecola perché non viene
influenzata l’entità della sovrapposizione orbitalica. Invece gli orbitali p devono essere paralleli per
partecipare alla sovrapposizione laterale, pertanto un legame π limita la rotazione attorno al
legame stesso. Il legame π permette quindi due diverse disposizioni di atomi attorno ai due atomi
di C legati, il che può avere un importante effetto sulla polarità molecolare.
Il modello quanto-meccanico non dà una buona descrizione del legame covalente:
1. Non prevede il numero e la disposizione spaziale dei legami di certi atomi
2. l’energia dei legami calcolata è minore di quella reale.
L’ibridazione degli orbitali atomici consiste in una combinazione lineare di un numero definito di
funzioni d’onda (orbitali atomici) per ottenere degli orbitali ibridi (lo stesso numero) che descrivono
più accuratamente le caratteristiche dei legami (sempre sulla base della sovrapposizione delle
nuvole elettroniche).
Tre punti essenziali riguardo al numero e tipo di orbitali ibridi sono:
- Il numero di orbitali ibridi ottenuti è uguale al numero di orbitali atomici mescolati
- Il tipo di orbitali ibridi ottenuti varia in funzione dei tipi di orbitali atomici mescolati
- La presenza di un certo tipo di orbitale ibrido viene ipotizzata solo dopo aver osservato la
sua geometria molecolare
Si distinguono i seguenti comuni tipi di ibridazione:
- Ibridazione sp: la teoria VB spiega la geometria lineare ipotizzando che il mescolamento di
due orbitali non equivalenti (un orbitale s e un orbitale p) dia origine a due orbitali ibridi sp
equivalenti e separati da 180°. L’orbitale ibrido ha un lobo grande e uno più piccolo. Gli
orientamenti degli orbitali ibridi
estendono la densità elettronica nella
direzione di legame minimizzando le
repulsioni tra gli elettroni che gli
occupano. Perciò, sia la forma che
l’orientamento massimizzano la
sovrapposizione dell’orbitale
dell’altro atomo nel legame.

29
- Ibridazione sp2: la teoria VB spiega la geometria trigonale planare ipotizzando il
mescolamento di un orbitale s e due orbitali p. Si originano tre orbitali ibridi sp2 equivalenti
orientati verso i vertici di un triangolo equilatero. È importante sottolineare che il numero ad
apice nella notazione degli orbitali ibridi non indica il numero di elettroni presenti
nell’orbitale, ma il numero di orbitali atomici di un dato tipo che si sono mescolati.

Il doppio legame:
-> la serie di orbitali sp2 + p forma un
legame σ
-> la sovrapposizione degli orbitali p forma
un legame π.

- Ibridazione sp3: la teoria VB spiega la geometria tetraedrica ipotizzando il mescolamento


di un orbitale s e tre orbitali p. Si originano quattro orbitali ibridi sp3 equivalenti orientati
verso i vertici di un tetraedro. Ad esempio, C è ibridato sp3 in CH4.

si ricordi che la formazione di legami stabilizza la molecola al punto che, in alcuni casi, un
atomo può assumere configurazioni elettroniche meno stabili, che tuttavia gli consentono di
formare un maggior numero di legami. Il processo con cui un atomo trasferisce un elettrone
da un orbitale saturo ad un orbitale vuoto prende il nome di promozione elettronica.
- Ibridazione sp3d: la teoria VB spiega la geometria bipiramidale trigonale ipotizzando il
mescolamento di un orbitale s, tre orbitali p e un orbitale d. Si originano cinque orbitali ibridi
sp3d equivalenti orientati verso i vertici di una bipiramide trigonale.
Ad esempio, P è ibridato sp3d in PCl5.

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- Ibridazione sp3d2: la teoria VB spiega la geometria ottaedrica ipotizzando il mescolamento
di un orbitale s, tre orbitali p e due orbitali d. Si originano sei orbitali ibridi sp3d2 equivalenti
orientati verso i vertici di un ottaedro.
Ad esempio, S è ibridato sp3d2 in SF6.

TEORIA DEGLI ORBITALI MOLECOLARI


Per spiegare la forma delle molecole sono sufficienti la teoria VSEPR e quella del legame di
valenza. Tuttavia, per spiegare le proprietà magnetiche e spettroscopiche delle molecole e la
delocalizzazione elettronica, si ricorre ad un’altra teoria, che prevede la formazione di orbitali
molecolari delocalizzati sull’intera molecola.
Mentre la teoria VB prevede che i legami siano localizzati tra i due nuclei degli atomi legati, la
teoria degli orbitali molecolari (o teoria MO) prevede che si formino dei veri e propri orbitali
molecolari che appartengono a tutta la molecola, più difficili da visualizzare rispetto alla teoria VB.
Nella teoria MO, in pratica, gli orbitali molecolari vengono trattati da un punto di vista quanto-
meccanico nello stesso modo in cui si erano trattati gli orbitali atomici (funzioni d’onda, densità di
probabilità elettronica): vi sono nelle molecole orbitali molecolari caratterizzati da una certa forma e
una certa energia e occupati dagli elettroni della molecola stessa.
1. Gli elettroni di una molecola possono essere rappresentati (analogamente a quelli di un
atomo) da funzioni d’onda ψ, dette orbitali molecolari, caratterizzate da propri numeri
quantici che ne determinano la forma e l’energia.
2. Il quadrato della funzione d’onda ψ2 rappresenta la probabilità di trovare l’elettrone in un
determinato punto dello spazio.
3. L’energia dell’orbitale, ottenuta risolvendo l’equazione di Schröedinger in modo
approssimato per una certa funzione d’onda, corrisponde all’energia necessaria per
allontanare l’elettrone dalla molecola.
4. I vari orbitali molecolari hanno delle forme rappresentabili con delle superfici limite che
delimitano le regioni di spazio in cui è compresa la maggior parte della nuvola elettronica.
5. La distribuzione degli elettroni in una molecola viene effettuata secondo il principio di
aufbau.
Una molecola essendo un sistema più complesso di un atomo, poiché è costituita da almeno due
atomi con un certo numero di elettroni associati, le funzioni d’onda corrispondenti agli orbitali
molecolari vengono ottenute con metodi approssimati, come il metodo LCAO (Linear Combination
of Atomic Orbitals).
Con questo metodo, gli orbitali molecolari vengono calcolati facendo la combinazione lineare delle
funzioni d’onda degli orbitali atomici corrispondenti.
Il numero di orbitali molecolari che si formano dalla combinazione lineare degli orbitali atomici è
uguale al numero degli orbitali atomici.

31
Consideriamo l’esempio della molecola di H2: gli orbitali atomici dei due atomi H sono sovrapposti
e si possono distinguere due modi di combinazione:
- Addizione delle funzioni d’onda: si ottiene un orbitale molecolare di legame, che ha
una regione di alta densità elettronica tra i nuclei. La sovrapposizione aumenta la
probabilità che gli elettroni siano tra i nuclei.

- Sottrazione delle funzioni d’onda: si ottiene un orbitale molecolare di anti-legame, che


ha nodo tra i nuclei, cioè una regione a densità elettronica nulla. La sovrapposizione
sottrattiva porta quindi all’annullamento della probabilità che gli elettroni occupino lo spazio
tra i nuclei.

L’orbitale molecolare legante ha energia più bassa rispetto agli orbitali atomici che si sono
combinati per formarlo. Esso è infatti distribuito in prevalenza nella regione internucleare, e i nuclei
sono attratti verso gli elettroni interposti. Un elettrone in questo orbitale molecolare può
delocalizzare la sua carica su un volume molto maggiore rispetto a quanto sia possibile nel suo
orbitale atomico individuale. Poiché le repulsioni inter-elettroniche sono ridotte, l’orbitale
molecolare legante risulta stabilizzato.
Al contrario, l’orbitale molecolare anti-legante ha energia più alta rispetto agli orbitali atomici che si
sono combinati per formarlo. Infatti, i suoi elettroni sono disposti all’esterno della regione
internucleare, e quindi i nuclei non sono mutualmente schermati: si respingono e ciò provoca una
destabilizzazione complessiva.

HOMO: Highest Occupied Molecular Orbital


LUMO: Lowest Unoccupied Molecular Orbital

32
Altri esempi di sovrapposizione di orbitali:

Sia l’orbitale molecolare legante che quello anti-legante per la molecola H2 sono orbitali molecolari
σ perché sono dotati di simmetria cilindrica rispetto ad una retta immaginaria passante per i nuclei.
L’orbitale molecolare legante è denotato con il simbolo σ1s, mentre quello anti-legante si indica con
σ𝟏𝐬∗.
Per interagire effettivamente e formare orbitali molecolari, gli orbitali atomici devono avere energia
e orientamento simili.
Il riempimento degli orbitali molecolari segue il principio di Aufbau, la regola di Hund e il principio di
esclusione di Pauli.
Si perviene così alla costruzione di diagrammi degli orbitali molecolari, che mostrano l’energia
relativa e il numero di elettroni in ciascun orbitale molecolare, nonché gli orbitali che li hanno
formati.
La teoria MO ridefinisce l’ordine di legame (O.L.), che diventa:
1 −
𝑂. 𝐿. = (𝑒𝑂𝑀 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑛𝑡𝑖— 𝑒𝑂𝑀 𝑎𝑛𝑡𝑖−𝑙𝑒𝑔𝑎𝑛𝑡𝑖 )
2
Valori di O.L. positivi indicano che la molecola è più stabile rispetto agli atomi separati; in generale
più l’O.L. è alto più il legame è forte.
Mediante l’approccio della teoria MO è possibile scrivere la configurazione elettronica delle
molecole.
Si scrive il simbolo di ogni orbitale molecolare tra parentesi e si pone ad apice il numero di elettroni
presenti.
La teoria MO può essere usata per descrivere le molecole biatomiche omonucleari, cioè costituite
da due atomi identici. Per alcuni elementi queste molecole rappresentano sostanze elementari (es:
Cl2); in altri casi si possono ottenere molecole di elementi solo in condizioni gassose ad alta
temperatura (es: Li2).
MOLECOLE X2 DEL SECONDO PERIODO (blocco p):
Vengono coinvolti gli orbitali atomici 2p.
Gli orbitali p interagiscono in diverse direzioni: la combinazione di testa origina l’orbitale
molecolare σ (σ2p e σ2p∗), la combinazione di fianco origina la coppia di orbitali molecolari π
(π2p e π2p∗).
L’ordine dei livelli energetici degli orbitali molecolari si basa sull’ordine dei livelli energetici degli
orbitali atomici e sul modo di combinazione degli orbitali p:
- Gli orbitali derivanti da orbitali 2s hanno energia inferiore a quella degli orbitali molecolari
derivanti da orbitali 2p.
- Gli orbitali molecolari leganti hanno energia inferiore a quella degli orbitali molecolari anti-
leganti.

33
- Gli orbitali atomici p hanno capacità di interagire più estesamente di testa che di fianco.
Pertanto, l’orbitale molecolare σ2p ha energia inferiore a quella dell’orbitale π2p.
Analogamente, l’orbitale σ2p∗ avrà un effetto destabilizzante maggiore rispetto a quello
dell’orbitale π2p∗.
- Ne risulta il seguente ordine energetico degli orbitali molecolari derivati da orbitali atomici
2p (O, F e Ne): σ2p < π2p < π2p∗ < σ2p*
Il diagramma degli orbitali molecolari atteso quando i tre orbitali 2p di un atomo si combinano con i
tre orbitali 2p di un altro atomo prevede la generazione di un orbitale legante σ2p, e di due orbitali
leganti π2p (questi ultimi aventi la stessa energia); la combinazione porta anche alla formazione di
tre orbitali anti-leganti: un σ2p∗ e due π2p∗.
Tuttavia, il diagramma degli orbitali molecolari deve anche tenere conto del fenomeno di
mescolamento che avviene quando interagiscono orbitali 2p semipieni (es: B, C, N). La loro
energia è molto vicina a quella degli orbitali 2s. Ne risulta un mescolamento tra l’orbitale 2s di un
atomo e il 2p di testa dell’altro. Questo mescolamento degli orbitali abbassa l’energia degli orbitali
molecolari σ2s e σ2s∗, e innalza l’energia degli orbitali molecolari σ2p e σ2p∗. L’effetto principale che si
osserva è l’inversione dell’ordine degli orbitali molecolari σ2p e π2p.
L’occupazione degli orbitali molecolari è correlata con le proprietà magnetiche. I concetti di
paramagnetismo e diamagnetismo visti per atomi isolati valgono anche in caso di molecole
caratterizzate dalla presenza di elettroni spaiati/appaiati; ciò non è desumibile tramite gli approcci
delle teorie VSEPR e VB.

Disegnando il diagramma delle


orbitali molecolari, si vede che B2
e O2 sono paramagnetici, mentre
C2, N2 e F2 sono diamagnetici.

Le molecole biatomiche eteronucleari sono quelle costituite da due atomi diversi, e presentano
diagrammi degli orbitali molecolari asimmetrici (infatti, gli
orbitali atomici dei due atomi hanno energie diverse.
Ad esempio, in HF si ha che F attrae molto di più i propri
elettroni di quanto H faccia col suo unico elettrone. Ne
consegue che tutti gli orbitali atomici occupati di F hanno
energia inferiore all’orbitale 1s di H. Perciò, l’orbitale 1s di H
interagisce solo con gli orbitali 2p di F: con uno di essi si ha
sovrapposizione di testa (originando σ e σ * ), mentre gli
altri due orbitali 2p di F, non coinvolti nella formazione del
legame vengono definiti orbitali molecolari non leganti
(hanno la stessa energia degli orbitali atomici isolati e non
contribuiscono all’O.L.).
Poiché l’orbitale molecolare legante occupato è
energeticamente più vicino agli orbitali atomici di F, si dice
che l’orbitale di F contribuisce al legame H-F più
dell’orbitale di H. In generale, nelle molecole covalenti polari gli orbitali molecolari leganti sono
energeticamente più vicini agli orbitali atomici dell’atomo più elettronegativo.

34
Altro esempio di molecola eteronucleare è NO, altamente reattiva perché possiede un elettrone
spaiato. Si possono scrivere due principali strutture di Lewis,
entrambe caratterizzate da un doppio legame, ma
sperimentalmente si misura un O.L. maggiore di 2. Inoltre, non
è chiaro dove risiede l’elettrone solitario, anche se le C.F.
minori nella struttura I suggerirebbero che questo si trovi
sull’atomo di N. Mediante la teoria MO è possibile rispondere a
questi dubbi, e il riempimento con gli 11 elettroni di valenza
porta ad un elettrone solitario nell’orbitale π2p∗. Si calcola,
inoltre, un O.L.=2,5, conforme ai dati sperimentali.
Gli elettroni leganti risiedono in orbitali molecolari
energeticamente più vicini agli orbitali atomici dell’atomo di O,
mentre l’orbitale antilegante π2p∗ è più vicino agli orbitali atomici
di N: siccome l’elettrone solitario sta in quest’ultimo orbitale
molecolare, si può dedurre che esso risieda più vicino all’atomo
di N.
Nel caso di molecole con più di due atomi, la forma degli orbitali
molecolari si complica e non può essere rappresentata facilmente in modo figurativo, però la teoria
M.O. spiega bene la delocalizzazione elettronica.
Infatti, presuppone che si formino degli orbitali molecolari che appartengono a tutta la molecola e
quindi, automaticamente, gli elettroni siano delocalizzati su tutta la molecola. Quando parlammo
della teoria VB, facemmo invece ricorso alle strutture di risonanza. (O3, C6H6, CO32-…).

TEORIA DEL LEGAME METALLICO


Modello a bande
Consideriamo 2 atomi di Li (Z=3) (o di
qualsiasi altro metallo alcalino. Essi
formano un orbitale legante (σ2s) saturo
(HOMO) e un orbitale anti-legante (σ2𝑠∗)
vuoto (LUMO). Se gli atomi sono due,
formano due orbitali di legame saturi e
due di anti-legame vuoti e il sistema è
più stabile perché contiene più orbitali di
legame saturi.
Per un qualsiasi numero n di atomi di
atomi di litio si hanno pertanto n/2
orbitali di legame saturi e n/2 orbitali di
anti-legame vuoti. Al crescere di n i
livelli energetici su cui si dispongono gli
elettroni sono sempre più vicino fino a
formare una banda continua di energia.
La banda di valenza è la banda elettronica a più alta energia di quelle occupate dagli elettroni
nello stato fondamentale, cioè a 0K. Il livello energetico occupato più in alto nella banda di valenza
è detto livello di Fermi (LF). Per esempio, per il litio metallico, il livello di Fermi si situa esattamente
a metà della banda 2s.
LC LF Per T > 0k, alcuni elettroni prima ‘’congelati’’ nella metà inferiore della banda 2s passano a
livelli energetici superiori risultando così liberi di muoversi e di condurre energia sia elettrica sia
termica.
Si chiama banda di conduzione la banda elettronica a più bassa energia tra quelle vuote o non

35
completamente occupate dagli elettroni nello stato fondamentale.
Il livello energetico più basso della banda di conduzione è detto livello di conduzione (Lc).
SEMICONDUTTORI
Nei metalli, e in genere nei materiali conduttori, il livello di conduzione ha sempre un’energia o
inferiore a quella del livello di Fermi, mentre ha un’energia superiore nei materiali semiconduttori,
e ancora più in quelli isolanti. In questi ultimi due casi, gli elettroni, per passare dalla banda di
valenza a quella di conduzione devono superare un salto energetico E a cui corrisponde la
cosiddetta banda proibita (o intervallo di energia proibito).
Per aumentare la conducibilità dei semiconduttori naturali (es: Si, Ge) si aumenta la temperatura o
si aggiungono piccole percentuali di impurezze (drogaggio). Si parla allora di semiconduttori
estrinseci (contro i semiconduttori intrinseci che non sono modificati).
Più elettroni sono condivisi nelle bande di conduzione metalliche, più è stabile il solido metallico. A
partire dal settimo gruppo gli elettroni cominciano ad andare anche nelle bande di non legame e le
temperature di fusione iniziano a scendere fino alla fine del blocco d.
Il fenomeno della superconduttività si manifesta con la resistenza nulla di un materiale al
passaggio della corrente.
Tale fenomeno non si realizza per tutti i materiali, ma solo per alcuni e soprattutto al di sotto di una
temperatura, detta “critica” Tc. Il problema tecnologico nell’applicazione di tali materiali è che tale
temperatura è molto bassa, in genere vicina a quella dello 0 assoluto! (-273,15°C).
Oltre al fenomeno della resistenza nulla, i superconduttori si comportano inoltre da perfetti
elettromagneti permanenti, e rappresentano il più promettente sviluppo tecnologico per la
realizzazione di treni a levitazione magnetica a basso costo.

36
Lo stato gassoso
Un gas non ha né forma, né volume proprio e può essere compresso ed espanso.
Le molecole dei gas sono molto distanti tra loro e si muovono continuamente ed in modo caotico.
La temperatura dei gas è misura della velocità media delle molecole del gas: quanto maggiore è la
temperatura, tanto più velocemente si muovono le sue molecole (in media).
Il volume dei gas cambia significativamente con la pressione e con la temperatura, cioè i gas si
espandono se riscaldati e si contraggono se raffreddati.
Inoltre i gas fluiscono liberamente, hanno densità relativamente basse e sono miscibili in tutte le
proporzioni.
La pressione è definita, in modo generale, dal rapporto
𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎[𝑁]
𝑃𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 =
𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 [𝑚2 ]
Il barometro è un dispositivo per misurare la pressione atmosferica, inventato nel XVII secolo da
Evangelista Torricelli. Si tratta di un tubo di vetro lungo circa 1 m, chiuso a un’estremità, riempito di
Hg e capovolto in una vaschetta di Hg. Quando si capovolge il tubo nella vaschetta una parte del
Hg defluisce dal tubo, creando il vuoto al di sopra del Hg rimasto nel tubo. Al livello del mare e a
0°C, il deflusso si arresta a 760 mm che corrisponde alla pressione atmosferica esercitata sulla
superficie del Hg nella vaschetta. Poiché la pressione della colonna di Hg è direttamente
proporzionale alla sua altezza, un’unità di pressione di uso comune è il mmHg.
La pressione atmosferica è generata dalla forza esercitata dai gas atmosferici sulla superficie
terrestre.
La pressione atmosferica diminuisce con l’altitudine (es: sull’Everest vale 270 mmHg).
I barometri sono riempiti di Hg per via della sua alta densità, che permette di usare uno strumento
di dimensioni contenute; se invece si usasse l’acqua, la pressione atmosferica a livello del mare
sarebbe 10,3 m.
Relativamente all’unità di misura della pressione, si può procedere mediante:
- Pascal (Pa): è l’unità di misura nel Sistema Internazionale (SI), la cui analisi dimensionale
[𝑁]
è 𝑃𝑎 = [𝑚2 ] .
- Atmosfera (atm): è un’unità molto più grande del pascal, e si definisce come 1 atm =
101325 Pa.
- Millimetro di mercurio (mmHg o torr), è definito come 1 mmHg = 𝟏/ 𝟕𝟔𝟎 atm.
- Bar (bar): definito come 1 bar = 105 Pa.
Le leggi dei gas descrivono il comportamento fisico dei gas mediante 4 variabili:
- Pressione (p)
- Temperatura (T)
- Volume (V)
- Quantità (numero di moli: n)
Un gas ideale è un gas per cui le relazioni tra queste variabili sono lineari. Non esiste nessun gas
realmente ideale, ma la maggior parte dei gas si comporta quasi idealmente a pressioni e
temperature ordinare ed approssima il modello ideale ad alte temperature e basse pressioni.
Si dice perfetto o ideale, un gas che possa essere descritto come insieme di particelle puntiformi
che siano senza interazioni reciproche ed abbiano urti perfettamente elastici fra di loro e con le
pareti del recipiente.
Le leggi che stabiliscono le relazioni tra le proprietà dei gas, pressione, volume e temperatura si
riferiscono ad un gas ideale o perfetto, ossia a un modello di gas che deve rispondere ai seguenti
requisiti:
37
- Le sue particelle sono in continuo movimento secondo traiettorie rettilinee regolate dalle
leggi del caso;
- Le sue particelle (puntiformi) hanno un volume proprio (covolume) trascurabile rispetto al
volume a disposizione del gas stesso;
- Tra le particelle non esistono interazioni;
- Gli urti delle particelle sono elastici, ossia non comportano perdita di energia (si conserva la
quantità di moto).
𝒌
LEGGE DI BOYLE: 𝑽 = 𝑷
Relazione tra volume e pressione di un gas (a temperatura e quantità costante).
Dall’altezza della colonna d’aria e dal diametro del tubo, Boyle calcolò il volume di aria
intrappolato. Continuando ad aggiungere Hg nel tubo, Boyle aumentava la pressione totale
esercitata sull’aria e il volume di aria diminuiva → il prodotto della pressione con il volume risultava
costante, il volume era direttamente proporzionale al reciproco della pressione.
LEGGE DI CHARLES: 𝑽 = 𝒌𝑻
Relazione tra volume e temperatura di un gas e determinazione della temperatura assoluta in
Kelvin (K).
si consideri un tubo diritto, chiuso a un’estremità, intrappolante una quantità fissa di aria sotto un
piccolo tappo di Hg. Il tubo viene immerso in un bagno d’acqua che può essere riscaldato o
raffreddato. Dopo ogni variazione di temperatura, si misura la lunghezza della colonna d’aria, che
è direttamente proporzionale al suo volume. La pressione esercitata sul gas è costante perché la
pressione atmosferica non varia.
Charles osservò una diretta proporzionalità tra il volume e la temperatura. Inoltre, osservò che
raffreddando, il volume si contrae finché il gas non occupa un volume teorico nullo a – 273,15°C.
Questa temperatura è detta zero assoluto, mai raggiunta sperimentalmente, ma in ogni caso non
avverrebbe l’annullamento del volume perché prima di 0 K il gas condenserebbe diventando
liquido.
LEGGE DI GAY-LUSSAC: 𝑷 = 𝒌𝑻
Se da un lato la legge di Charles è espressa come effetto della variazione di temperatura sul
volume di un gas, va anche ricordato che volume e pressione sono interdipendenti secondo la
legge di Boyle. Dall’unione di queste due relazioni si deduce che anche temperatura e pressione
debbano essere interdipendenti secondo qualche relazione matematica. Ciò fu verificato da
Joseph Louis Gay-Lussac. È pertanto possibile enunciare la legge di Gay-Lussac: a volume
costante, la pressione esercitata da una quantità fissa di gas è direttamente proporzionale alla
temperatura assoluta.
PRINCIPIO DI AVOGADRO: 𝑽 = 𝒌𝒏
Si considerino cilindri muniti da stantuffo. Si introducono 0,10 mol di ghiaccio secco (CO2 solida)
nel cilindro A e 0,20 mol nel cilindro B. Riscaldandosi, il solido si trasforma in CO2 gassosa
spingendo verso l’alto lo stantuffo. Raggiunta una temperatura costante, Amedeo Avogadro notò
che il volume del cilindro B era esattamente il doppio del cilindro A; inoltre, la pressione dei due
gas era uguale a quella atmosferica.
La legge di Avogadro afferma che, a temperatura e pressione fisse, il volume occupato da un gas
è direttamente proporzionale alla quantità in moli del gas.
Principio di Avogadro: “nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, volumi uguali di gas
diversi contengono lo stesso numero di particelle”.
VOLUME MOLARE NORMALE
Per comprendere meglio i fattori che influenzano il comportamento dei gas, i chimici usano le
condizioni normali di temperatura e pressione (NTP): 0 °C e 1 atm (si tratta di valori esatti).

38
In queste condizioni, il volume di 1 mol di gas perfetto è detto volume molare normale e vale 22,4
L.
EQUAZIONE DI STATO DEI GAS PERFETTI
Combinando le equazioni di Boyle, Charles e Gay-Lussac, si ha l’equazione di stato dei gas
perfetti: pV = nRT
R: costante universale dei gas
Il valore numerico di R dipende dalle unità di misura usate
𝑃𝑉 1[𝑎𝑡𝑚] ∙ 22,414[𝐿] 𝑎𝑡𝑚 ∙ 𝐿 𝐽
𝑅= = = 0,0821 [ ] = 8,314 [ ]
𝑛𝑇 1[𝑚𝑜𝑙] ∙ 273,15[𝐾] 𝑚𝑜𝑙 ∙ 𝐾 𝑚𝑜𝑙 ∙ 𝐾
Nel caso di variazione delle condizioni di un gas, cioè tenendo costante il numero di moli ma
variando gli altri parametri tra uno stato 1a uno stato 2 possiamo usare la relazione:
𝑃1 𝑉1 𝑃2 𝑉2
=
𝑇1 𝑇2
DENSITÀ E MASSA MOLARE
La densità di un gas è:
- Direttamente proporzionale alla sua massa molare;
- Inversamente proporzionale alla temperatura.
𝑚 𝑚
𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖𝑡à(𝑑) = e 𝑚𝑜𝑙𝑖(𝑛) = 𝑀𝑀
𝑉
𝑚 𝑚𝑅𝑇
Quindi 𝑃𝑉 = 𝑅𝑇 -> 𝑀𝑀 =
𝑀𝑀 𝑃𝑉

Calcolo della massa molare delle leggi dei gas:


𝑚𝑅𝑇
𝑀𝑀 =
𝑃𝑉
LEGGE DI DALTON
Tutte le sostanze allo stato gassoso si mescolano facilmente tra loro formando quasi sempre
miscele omogenee.
Ogni gas in una miscela si comporta come se fosse l’unico gas presente (se non avvengono
reazioni chimiche).
In una miscela di diversi gas, si chiama pressione parziale dell’i-esimo gas (pi), la pressione che
esso eserciterebbe se fosse da solo.
Se consideriamo una miscela di 3 gas, valgono le relazioni:

39
TEORIA CINETICA DEI GAS:
Il modello che spiega il comportamento macroscopico dei gas a livello delle singole particelle è la
teoria cinetica dei gas. Questa teoria è stata elaborata al XIX secolo da James Clerk Maxwell e
Ludwig Boltzmann, che hanno spiegato razionalmente quanto gli altri scienziati avevano osservato
per via empirica.
Ogni particella varia la propria velocità in ogni urto, perciò le particelle sono caratterizzate da una
velocità media: la maggior parte delle particelle si muove a velocità vicine a quella media. Si può
quindi ricavare la curva di distribuzione delle velocità delle particelle di un gas a diverse
temperature.
Si nota che le curve si appiattiscono e si allargano all’aumentare
della temperatura; in particolare la velocità più probabile
aumenta all’aumentare della temperatura. Ciò è dovuto al fatto
che l’energia cinetica media (𝐸̅ c o 𝐸̅ k) delle particelle è
direttamente proporzionale alla temperatura assoluta. Quindi a
una data temperatura, tutti i gas hanno la stessa energia cinetica
media.
Origine della pressione: quando una particella urta contro una
parete, esercita su di essa una forza. Un gran numero di urti da
origine alla pressione misurata, che sarà funzione del n° di
particelle.
LEGGE DI BOYLE: (pV=kT) siccome le particelle gassose sono masse puntiformi separate da
spazio vuoto, quando la pressione esercitata sul gas aumenta (a temperatura costante) la distanza
reciproca tra le particelle diminuisce, con conseguente diminuzione del volume del campione.
Simultaneamente, aumenterà la pressione del gas perché al diminuire del volume, diminuiranno le
distanze tra particelle gassose e pareti del recipiente, rendendo gli urti più frequenti.
LEGGE DI CHARLES: (V/T=k) al crescere della temperatura, aumentano la velocità più probabile
delle particelle e l’energia cinetica media. Ne deriva un numero di urti tra particelle e pareti del
recipiente maggiore, portando ad un aumento della pressione interna che porta le pareti del
recipiente a muoversi verso l’esterno aumentando il volume del gas e ripristinando la pressione
iniziale.

LEGGE DI AVOGADRO: (V/n = k) aggiungendo particelle in un recipiente, il volume si espande


finché il numero di urti riferito all’unità di area della parete non diventa uguale al numero prima
dell’aggiunta.
LEGGE DI DALTON DELLE PRESSIONI PARZIALI: (pi= xiptot) aggiungendo particelle di un gasA
a particelle di un gasB, aumenterà il numero totale di particelle e ciò porterà ad un aumento della
quantità di urti sulle pareti del recipiente, determinando un corrispondente aumento della
pressione. La pressione parziale di un gas è quindi data dalla frazione di particelle di quel gas
quando urta contro le pareti del recipiente.
La teoria cinetica dei gas permette anche di spiegare perché numeri uguali di molecole di gas
diversi occupano lo stesso volume. Per la definizione
di energia cinetica (Ec = ½ mv2), due corpi a massa
diversa hanno la stessa energia cinetica solo se le
loro velocità sono diverse: il corpo più pesante avrà
velocità minore. Nel caso di un gran numero di
molecole, si considera l’energia cinetica media,
secondo l’equazione 𝐸̅ c = 1/2 ∙ 𝑀𝑀 ∙ 𝑢̅2, dove 𝑢̅2 è la
media dei quadrati delle velocità delle particelle.
Il valore √̅̅̅
𝑢̅2 è detto velocità quadratica media: una
40
particella che si muove alla velocità quadratica media ha energia cinetica media.
3𝑅𝑇
Vale la reazione 𝑢̅ = √ , da cui deriva che gas aventi la stessa temperatura hanno la stessa
𝑀𝑀
energia cinetica media.
Pertanto, la legge di Avogadro richiede che le particelle di massa maggiore abbiano una velocità
minore. Le particelle più piccole riusciranno ad urtare con più frequenza le pareti del recipiente, ma
ciascun loro urto eserciterà una forza minore sulle pareti. Poiché alla stessa temperatura sia le
particelle di massa minore che quelle di massa maggiore urtano contro le pareti con la stessa
energia cinetica media, esse esercitano la stessa pressione e i gas occupano lo stesso volume.
La relazione ̅̅̅
𝐸𝐶 ⋉ 𝑇 permette di giungere all’equazione Ec = 𝟑/𝟐 kBT (quindi se T = 0K anche Ec =
0J), chiamata energia cinetica dei gas, dove kB è la costante di Boltzmann, calcolata come R/NA
(R = costante universale dei gas, NA = Numero di Avogadro) e che vale 1,381∙10-23 J/K.
Questa relazione mostra come la temperatura sia in relazione con l’energia media del moto
particellare.
EFFUSIONE GASSOSA
La teoria cinetica dei gas fu in grado di spiegare l’effusione, cioè il processo con cui un gas fugge
dal suo recipiente attraverso un piccolo orifizio, trasferendosi in uno spazio in cui è stato fatto il
vuoto. Thomas Graham osservò che la velocità di effusione (numero di moli di gas che effondono
nell’unità di tempo) era inversamente proporzionale alla radice quadrata della densità del gas.
Poiché la densità è direttamente proporzionale alla massa molare, la legge di Graham afferma
che la velocità di effusione (𝑣𝑖) di un gas è inversamente proporzionale alla radice quadrata della
sua massa molare.
𝑣 √𝑀𝑀𝐵
Quando si confrontano due gas, vale la relazione 𝑣𝐴 = che mostra come il gas con la massa
𝐵 √𝑀𝑀𝐴
molare minore effonde più velocemente, e questo avviene perché la velocità più probabile delle
sue molecole è più alta.
È inoltre possibile determinare la massa molare di un gas incognito confrontando la sua velocità di
effusione con quella di un gas noto.
DIFFUSIOSE GASSOSA
Il processo di diffusione gassosa è il movimento di un gas attraverso un altro gas, e la velocità di
diffusione segue la legge di Graham.
Ad esempio, facendo fluire in un tubo di HCl da un’estremità e NH3 dall’altra estremità, si formerà
un anello bianco (NH4Cl). Questo anello non si trova al centro del tubo ma è più vicino all’estremità
da cui arriva HCl. Questo avviene perché, secondo la legge di Graham, HCl fluisce più lentamente
di NH3, in quanto la sua massa molare è maggiore.
GAS REALI
In realtà, le molecole non sono masse puntiformi, ma hanno un volume determinato dalle
dimensioni dei loro atomi e dalle lunghezze dei loro legami. Inoltre, gli atomi contengono particelle
cariche, che danno origine a forze intermolecolari attrattive e repulsive. Sono pertanto attese delle
deviazioni dal comportamento dei gas perfetti nel caso dei gas reali.
A temperature relativamente alte e pressioni relativamente basse, la maggior parte dei gas
semplici presenta un comportamento quasi ideale. Discostandosi da questi valori (es: in condizioni
NTP), i gas deviano lievemente dal comportamento ideale.
In tabella si notano lievi variazioni nel valore del volume molare rispetto a quello atteso per un gas
perfetto (22,414 L per 1 mol), e ciò è più evidente quando ci si avvicina alla temperatura di
liquefazione del gas.

41
𝒑𝑽
Discostandosi molto dal comportamento ideale (es: 10 atm), si può costruire un grafico 𝑹𝑻 vs pest
e considerare una quantità di 1 mol di gas diversi.
Nel caso del gas perfetto, il rapporto in ordinata è uguale a 1 per qualsiasi valore di pressione. La
maggior parte dei gas reali ha la curva osservata per
CH4: prima scende al di sotto del valore ideale, poi sale
in modo proporzionale alla pressione. Questo
andamento è dovuto a due effetti parzialmente
sovrapposti:
- Attrazioni intermolecolari
- Volume molecolare
ATTRAZIONI INTERMOLECOLARI:
𝑝∙𝑉
Causano, a pressioni moderatamente elevate, i bassi valori di nel grafico. Infatti, in queste
𝑅∙𝑇
condizioni, quando una molecola si avvicina alla parete del recipiente, essa viene attratta da tutte
le molecole vicine e la forza del suo urto diminuisce.
Questo effetto, ripetuto in tutto il campione, fa diminuire la pressione del gas, e pertanto il rapporto
𝑝∙𝑉
aumenta. Lo stesso effetto si può realizzare abbassando la temperatura, fino ad un punto in cui
𝑅∙𝑇
le attrazioni intermolecolari saranno così grandi da far condensare il gas in liquido.
VOLUME MOLECOLARE:
𝑝∙𝑉
A pressioni molto alte, il valore del rapporto 𝑅∙𝑇 aumenta rispetto al caso ideale. Infatti, l’effetto
della pressione porta ad una diminuzione del volume libero, che passa da essere circa uguale a
quello del recipiente fino a diventarne molto minore; diventa invece prevalente il volume
𝑝∙𝑉
molecolare. Il numeratore del rapporto 𝑅∙𝑇 (che pone il volume del recipiente a numeratore)
diventa però artificiosamente più grande, facendo così crescere il valore finale del rapporto.
𝑝∙𝑉
Nel grafico vs pest, H2 presenta un andamento diverso rispetto a quello di CH4, in quanto questi
𝑅∙𝑇
gas sono costituiti da particelle con attrazioni intermolecolari così deboli che l’effetto del volume
molecolare predomina a tutte le pressioni.
EQUAZIONE DI VAN DER WAALS
Nel 1973, Johannes Van der Waals mostrò che l’equazione di stato poteva essere corretta in due
modi per descrivere accuratamente il comportamento dei gas reali:
- correggere in aumento la pressione misurata, addizionando un fattore che tenga conto
delle attrazioni intermolecolari.
- correggere in diminuzione il volume misurato, sottraendo dall’intero volume del recipiente
un fattore che tenga conto del volume molecolare.
𝑛2 𝑎
L’equazione di Van der Waals è (𝑝 + 𝑉2
) (𝑉 − 𝑛𝑏) = 𝑛𝑅𝑇, dove a e b sono le costanti di Van der
Waals, numeri positivi determinati sperimentalmente per ogni gas. La costante a è in relazione col
numero di elettroni, che a sua volta è in relazione con la complessità di una molecola e con
l’intensità delle sue attrazioni intermolecolari. La costante b è in relazione col volume molecolare.
Ovviamente, per un gas perfetto le costanti a e b sono nulle, perché le particelle non si attraggono
reciprocamente e non hanno volume.
- La temperatura critica (Tc) è la temperatura sopra la quale una sostanza non può esistere
allo stato liquido, neanche se sottoposta a compressione.
- La pressione critica (Pc) è la pressione al di sotto della quale una sostanza può
trasformarsi in vapore in presenza del liquido corrispondente. Al di sopra della Pc la
trasformazione del liquido in gas avviene senza passaggio per la fase vapore.

42
LIQUEFAZIONE DEI GAS
Quando un gas si trova a basse T e P elevate, non si possono trascurare le forze intermolecolari,
quindi si può avere la liquefazione, un passaggio di stato da gas a liquido.
Ogni sistema gassoso è caratterizzato da una temperatura critica e una pressione critica.
Il vapore è un aeriforme che si trova al di sotto della sua Tc (può essere liquefatto a quella T
aumentando la pressione: ad es. il vapore acqueo).
Il gas è un aeriforme che si trova al di sopra della sua Tc (non può essere liquefatto per
compressione a quella T: ad es. O2 dell’aria).

43
Lo stato liquido
Liquido: stato condensato della materia, ma con disposizione disordinata delle particelle.
- Particelle in movimento continuo ma con energia cinetica minore dei gas (ma maggiore dei
cristalli). La distanza tra le particelle è piccola.
- La forza di legame tra le particelle è maggiore dei gas e minore dei cristalli.
- In genere hanno densità inferiore al solido corrispondente.
Unica eccezione: l’acqua
- I liquidi sono sostanze incomprimibili. Al riscaldamento il volume aumenta con la
temperatura seguendo la relazione V = V0 ∙ (1 + k ∙ T) dove k è il coefficiente di
dilatazione termica.
- Le forze di attrito interno ad un liquido sono la causa della sua viscosità. Le particelle si
muovono con difficoltà.
FORZE INTERMOLECOLARI
Le forze intermolecolari, dette anche forze di Van der Waals, sono le
forze esistenti fra le molecole.
Sono responsabili della natura delle fasi della materia e la loro
transizione.
Le interazioni intermolecolari (e inter-ioniche) sono riconducibili
all’interazione elettrostatica tra due cariche.
L’energia potenziale tra due cariche è:
𝑄1 𝑄2
𝐸𝑝 =
4𝜋𝜀0 𝑟
Dove Q1 e Q2 sono i valori delle 2 cariche, ε0 è la costante dielettrica
e r la distanza internucleare. Tale energia diminuisce all’aumentare
della distanza.
Stesso andamento per legami chimici e forze intermolecolari.
Cambiano intensità e distanza.
Nel caso delle forze intermolecolari, la profondità della buca è molto
minore e la distanza maggiore rispetto ai legami chimici.
CONFRONTO DELLE FORZE DI LEGAME
I legami covalente, ionico, metallico sono forze intra-molecolari che influenzano le proprietà
chimiche delle sostanze.
Le forze intermolecolari sono invece forze attrattive tra molecole, atomi e/o ioni ed influenzano le
proprietà fisiche delle sostanze (punto di ebollizione fusione, solubilità, stato di aggregazione, etc.
etc.).
Differenza tra legami chimici e forze intermolecolari:
- Le forze di legame sono più forti di quelle intermolecolari (maggiori energie associate).
- Le forze intermolecolari si indicano con linee tratteggiate, per distinguerle dai legami.
- Le forze intermolecolari dipendono in modo inverso dalla distanza r tra le specie
interagenti.
- Le forze intermolecolari si instaurano tra specie che hanno cariche elettriche permanenti
(ioni, dipoli) e/o specie polarizzabili (atomi, molecole con µ = 0).
POLARIZZITÀ: facilità con cui la nuvola elettronica di una particella può essere “distorta” da un
campo elettrico esterno (sorgente macroscopica o microscopica).
Varia periodicamente in modo inverso al raggio atomico (o ionico).
- I cationi sono meno polarizzabili dei rispettivi atomi.
- Gli anioni sono più polarizzabili dei rispettivi atomi.
Per le molecole aumenta con la massa molecolare.

44
FORZE IONE-DIPOLO: Si originano quando uno ione e una molecola polare (dipolo) si attraggono
mutuamente. L’energia di legame è compresa fra 40 e 600 kJ / mol.
FORZE DIPOLO-DIPOLO: Si originano quando le cariche parziali di molecole polari vicine tra loro
agiscono da minuscoli campi elettrici, orientando le molecole in modo che il polo positivo di una
attragga il polo negativo dell’altra. Maggiore è la polarità delle molecole, maggiore è l’interazione
dipolo-dipolo che si instaura (5-25 kJ/mol).
nel caso di composti aventi masse molari pressoché uguali, la temperatura di ebollizione aumenta
all’aumentare del momento di dipolo. Il maggiore momento di dipolo crea forze dipolo-dipolo più
forti, che per essere vinte, richiedono temperature più alte.
LEGAME A IDROGENO: viene anche chiamato ponte a idrogeno. Si origina tra molecole che
hanno un atomo di H legato ad un atomo piccolo, altamente elettronegativo e con coppie di
elettroni solitarie.
- E’ più forte di un “normale” dipolo-dipolo ed è fortemente direzionale.
- E’ un importante tipo di forza intermolecolare che si instaura tra molecole in cui ci sono
degli atomi di H legati ad altri elementi fortemente elettronegativi (N, O, F). I legami H-F, H-
O, H-N sono fortemente polari.
- Le piccole dimensioni di N, O e F sono essenziali per la formazione del legame idrogeno
per due motivi: rendono questi atomi così elettronegativi che il loro H legato
covalentemente è altamente positivo; permettono alla coppia solitaria sull’altro atomo di N,
O e F di avvicinarsi all’atomo di H
Il legame a idrogeno ha un profondo impatto in molti sistemi, comportando ad esempio l’aumento
della temperatura di ebollizione dei liquidi in cui è presente. Nonostante la forza di un singolo
legame a idrogeno sia solo il 5% di quella di un legame covalente singolo, la combinazione di molti
legami a idrogeno può essere forte. Ad esempio, un numero grandissimo di legami a idrogeno
tiene unite le due catene molecolari del DNA, avvolte in una lunga doppia elica. Tuttavia, ciascun
legame è così debole che si può rompere quando è necessario che le catene si separino nei
processi di sintesi proteica e riproduzione cellulare.
FORZE CARICA-DIPOLO INDOTTO: Possono essere di tipo ione-dipolo indotto (3-15 kJ/mol) o
dipolo-dipolo indotto (2-10 kJ/mol).
Nonostante gli elettroni siano localizzati in coppie di legame o coppie solitarie, essi sono in
movimento continuo e vengono spesso visualizzati come ‘’nuvole’’ di carica negativa. Un campo
elettrico vicino è capace di distorcere queste nuvole, attraendo la densità elettronica verso una
carica positiva o allontanandola da una carica negativa.
Di fatto, il campo elettrico induce una distorsione della nuvola elettronica e, nel caso di una
molecola apolare, ciò origina un momento di dipolo indotto temporaneo.
La sorgente di campo elettrico può essere la carica di uno ione vicino o la carica parziale di una
molecola polare vicina.
La facilità con cui la nuvola elettronica di una particella può essere distorta è detta polarizzabilità.
FORZE DI DISPERSIONE DI LONDON: Vengono anche chiamate forze dipolo istantaneo-dipolo
indotto (0,05-40 kJ/mol).
Sono le forze che spiegano perché molecole totalmente apolari (es: Cl2) possano esistere in fase
condensata.
Fritz London spiegò per via quanto-meccanica l’esistenza di forze di dispersione causate da
oscillazioni momentanee della carica elettronica. Infatti, la carica elettronica in un atomo è
distribuita uniformemente attorno al nucleo se si considera un intervallo di tempo; invece, in un
dato istante la carica può non essere uniformemente distribuita, e ciò crea un dipolo istantaneo
sull’atomo, capace di influenzare un atomo vicino generando un dipolo indotto su quest’ultimo. Il
risultato è un moto sincronizzato degli elettroni su atomi vicini, che da origine a interazioni
attrattive.
45
In generale, le forze di dispersione aumentano al crescere del numero di elettroni, il quale è
strettamente correlato con la massa molare.
Ad esempio, le forze di dispersione sono maggiori in Br2 rispetto a Cl2 . A parità di massa molare,
le forze di dispersione dipendono dalla geometria molecolare e crescono all’aumentare del numero
di punti di contatto tra molecole.
PROPRIETÀ DELLO STATO LIQUIDO
In un campione di liquido, le forze intermolecolari esercitano su una molecola situata sulla
superficie libera effetti diversi da quelli esercitati su una molecola situata all’interno del liquido. Le
molecole interne sono attratte dalle altre da ogni lato, mentre le molecole sulla superficie libera
sono soggette a un’attrazione netta (risultante) orientata all’ingiù e si muovono verso l’interno per
aumentare le attrazioni e diventare più stabili. Perciò, la superficie libera di un liquido tende ad
avere la minima area possibile, quella di una calotta sferica.
Per ottenere l’effetto opposto, cioè aumentare l’area della superficie, le molecole devono muoversi
verso la superficie vincendo alcune attrazioni nell’interno.
La tensione superficiale è l’energia richiesta per aumentare di una quantità unitaria l’area della
superficie. In generale, più intense sono le forze interparticellari in un liquido, maggiore è la
tensione superficiale.
Ad esempio, H2O ha elevata tensione superficiale perché le sue molecole formano legami ad
idrogeno multipli. Al fine di diminuire la tensione superficiale si ricorre ai tensioattivi (es: saponi,
detergenti,…), che si aggregano sulla superficie e rompono i legami a idrogeno; si usano molto per
agevolare la bagnabilità delle superfici o la miscibilità tra liquido diversi.
Quando un liquido fluisce, le sue molecole scorrono l’una accanto all’altra.
La viscosità del liquido è la sua resistenza allo scorrimento ed è dovuta alle attrazioni
intermolecolari che si oppongono al movimento. La viscosità diminuisce all’aumentare della
temperatura: quest’ultima infatti aumenta la velocità delle molecole e queste riescono a vincere più
facilmente le forze intermolecolari (es: si pensi all’olio nella padella, che più si riscalda, più diventa
fluido). La viscosità di un liquido è influenzata dalla geometria molecolare: molecole lunghe fanno
più contatto tra loro rispetto a quelle sferiche, e quindi hanno viscosità maggiori.
La capillarità è la risultante tra la competizione tra le forze intermolecolari all’interno del liquido
(forze di coesione) e le forze di attrazione (forse di adesione) tra il liquido delle pareti del
contenitore.
Un discorso diverso va fatto con l’acqua.
L’acqua presenta alcune delle proprietà più insolite riscontrabili, originate dalla natura degli atomi
di H e O che ne costituiscono la molecola, dalle due coppie di legame e dalle due di non legame,
dalla forte differenza di elettronegatività tra H e O, dalla geometria angolare e dall’elevata polarità
molecolare. Ciò permette a ciascuna molecola d’acqua di formare quattro legami a idrogeno con le
molecole circostanti.
Il grande potere solvente dell’acqua è dovuto alla sua polarità e alla sua eccezionale capacità di
formare legami a idrogeno. L’acqua scioglie i composti ionici mediante forze ione-dipolo, sostanze
polari (non ioniche) in grado di formare legami a idrogeno, ma anche gas apolari mediante forze
dipolo-dipolo indotto.
L’acqua ha un calore specifico eccezionalmente alto, a causa dell’elevato numero di legami a
idrogeno da vincere per permettere alle molecole di aumentare la loro velocità media al crescere
della temperatura. Il fatto che il 70% della superficie terrestre sia coperta da acqua permette quindi
escursioni termiche limitate da giorno e notte (di contro , sulla luna si passa da 100 a -150°C).
L’acqua ha anche un’entalpia di vaporizzazione eccezionalmente alta, che consente ad
organismi come l’uomo di poter vivere (il calore prodotto dal metabolismo non viene quindi usato
solo per scaldare l’organismo, ma viene usato per rompere i legami a idrogeno e far evaporare il
sudore).
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L’acqua ha anche elevata tensione superficiale ed elevata capillarità. Queste consentono sia la
presenza di detriti vegetali (nutrienti per specie acquatiche) sulla superficie dei corsi d’acqua, sia la
vita delle piante in condizioni aride (le radici assorbono l’acqua che sale per azione capillare tra le
particelle di suolo).
La formazione di quattro legami a idrogeno attorno a ciascuna molecola d’acqua conferisce al
ghiaccio una struttura aperta esagonale, rispecchiata nella realtà dall’elegante simmetria dei
fiocchi di neve. Il mutamento correlato alla formazione di un tessuto reticolare (da liquido a solido)
sta nel lieve ampliamento dell’angolo di legame H-O-H. Nel liquido è di 104,5°, mentre il passaggio
alla fase solida lo stabilizza a 109,5° (tetraedro). I grandi spazi all’interno del ghiaccio gli
conferiscono una densità inferiore rispetto all’acqua liquida (e ciò consente, ad esempio il
congelamento della superficie di un lago senza farla precipitare sul fondale).
Nel passaggio solido/liquido, la struttura aperta esagonale del ghiaccio crolla e la molecole
diventano libere di assumere un impaccamento molto più compatto allo stato liquido, riempiendo
così gli spazi della struttura solida che sta crollando. L’acqua raggiunge la massima densità (1,00
g/mL) a 3,98°C, dopodiché questa diminuirà leggermente per effetto della dilatazione termica.
STATI FISICI E TRANSIZIONI DI FASE
Si definisce fase una porzione di un sistema
termodinamico che presenta stato fisico e
composizione chimica uniformi, mentre altre
grandezze (ad esempio temperatura e pressione)
possono essere non uniformi.
Un sistema omogeneo è sempre monofasico (cioè
costituito di una singola fase), mentre un sistema
eterogeneo è in genere polifasico (cioè costituito da
più fasi).
Il concetto di fase non corrisponde al concetto di
stato di aggregazione, dunque quando si parla di
fase solida, fase liquida o fase gassosa si sta
specificando lo stato di aggregazione che caratterizza
una particolare fase del sistema, ma all’interno dello stesso sistema possono essere presenti ad
esempio più fasi liquide o più fasi solide; ad esempio una miscela acqua/olio ha lo stesso stato di
aggregazione (liquido), ma due fasi differenti.
Qualora si considerino solidi e liquidi, si preferisce parlare di fasi condensate, in quanto le loro
particelle sono estremamente vicine le une alle altre.
Considerando una sostanza, è opportuno distinguere al suo interno:
- Forze intramolecolari: sono le forze di legame che si esercitano all’interno di ciascuna
molecola (o ione poliatomico), e che influenzano le proprietà chimiche della sostanza.
- Forze intermolecolari: si esercitano tra le molecole (o ioni poliatomici) e influenzano le
proprietà fisiche della sostanza.
L’energia potenziale tra particelle (atomi, molecole o ioni) in un campione di materia è dovuta a
forze attrattive e repulsive, che corrispondono alle forze intermolecolari. L’interazione tra queste
forze e l’energia cinetica delle particelle da origine alle proprietà di ciascuno stato di aggregazione
e alle transizioni di fase ( o cambiamenti di stato).
Il fatto che una sostanza sia nello stato gassoso, liquido o solido dipende dall’interazione tra
l’energia potenziale delle attrazioni intermolecolari (che tende a unire le molecole) e l’energia
cinetica delle molecole (che tende a disperderle). Si può pertanto distinguere:
- Gas: l’energia di attrazione è piccola rispetto all’energia associata al moto, quindi le
particelle sono mediamente lontane tra loro. A livello macroscopico, questo determina il
moto casuale delle particelle, l’elevata compressibilità, la fluidità e la diffusione del
campione gassoso.
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- Liquidi: le attrazioni sono più forti perché le particelle sono in contatto, ma la loro energia
cinetica è ancora tale da permettere loro di muoversi casualmente l’una rispetto all’altra. A
livello macroscopico, un liquido assume la forma del recipiente, ha una superficie libera, e a
causa del piccolissimo spazio tra le particelle si ha una compressibilità molto limitata,
accompagnata da fluidità e diffusione inferiori a quelle dei gas.
- Solidi: le attrazioni predominano sul movimento in misura tale che le particelle rimangono in
posizioni fisse l’una rispetto all’altra, oscillando intorno alle proprie posizioni. A livello
macroscopico, il solido ha una forma specifica, risulta incomprimibile e le sue particelle non
fluiscono.
Le transizioni di fase (o passaggi di stato) sono determinate dall’interazione tra energia cinetica e
forze intermolecolari. All’aumentare della temperatura, cresce l’energia cinetica media, per cui le
particelle so muoveranno più rapidamente, riuscendo così a vincere le forze attrattive.
È possibile distinguere le seguenti transizioni di fase:
- Condensazione (o liquefazione): da gas a liquido;
- Evaporazione (o vaporizzazione): da liquido a gas;
- Solidificazione (o congelamento): da liquido a solido;
- Fusione: da solido a liquido;
- Sublimazione: passaggio diretto da solido a gas;
- Brinamento: passaggio diretto da gas a solido
Queste transizioni di fase sono accompagnate da variazioni di entalpia. Condensazione e
solidificazione sono trasformazioni esotermiche (si libera energia quando si instaurano interazioni
interpaticellari), mentre fusione ed evaporazione sono trasformazioni endotermiche (occorre
energia per rompere le interazioni).
Nel caso di una sostanza pura, ogni
transizione di fase è accompagnata
da una specifica variazione di
entalpia (misurata a 1 atm e alla
temperatura della trasformazione);
es: ∆H0fus indica l’entalpia standard
del processo di fusione.
In generale, si nota che l’entalpia di
fusione è minore di quella di
evaporazione: è infatti richiesta
meno energia per allontanare di
poco le particelle di un liquido (per
farlo diventare un gas).
Si può applicare quantitativamente la teoria cinetica alle transizioni di fase mediante una curva di
riscaldamento e di raffreddamento, che rappresenta le trasformazioni che avvengono quando si
fornisce o si sottrae calore a velocità costante a un particolare campione di materia.
Immaginando di raffreddare da 130 a -40°C un campione di acqua gassosa mantenendo costante
la pressione, si distinguono i seguenti stadi esotermici:
- L’acqua gassosa si raffredda: da 130 a 100°C, l’energia cinetica media delle molecole
gassose diminuisce e le attrazioni diventano sempre più importanti.
- L’acqua gassosa condensa: a 100°C, le molecole più lente rimangono l’una vicina all’altra
tanto a lungo quanto basta affinché le attrazioni intermolecolari formino gruppi di molecole,
che si aggregano in microgocce e poi in un liquido macroscopico. Durante questo
passaggio, la temperatura rimane costante (e quindi anche l’energia cinetica media).
Pertanto, la continua sottrazione di calore sta facendo diminuire solo l’energia potenziale
per via del fatto che le molecole si stanno avvicinando e attraendo più fortemente.

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- L’acqua liquida si raffredda: da 100°C a 0°C, la continua cessione di calore si manifesta
come una diminuzione della temperatura, e quindi dell’energia cinetica media.
- L’acqua liquida solidifica: a 0°C, le attrazioni intermolecolari vincono il moto delle molecole
l’una rispetto all’altra. Le molecole perdono energia potenziale e si dispongono nella
struttura cristallina del ghiaccio. Il moto molecolare prosegue, m soltanto come vibrazione
degli atomi attorno alle loro posizioni fisse. La temperatura rimane costante durante questa
transizione di fase.
- L’acqua solida si raffredda: da 0 a -40°C, essendo il moto molecolare già limitato alla
vibrazione attorno alle posizioni fisse, l’ulteriore raffreddamento riduce semplicemente la
velocità media di queste vibrazioni.
Secondo la legge di Hess, la quantità di calore rilasciata nell’intero processo è la somma delle
quantità di calore rilasciate nei singoli stadi. In qualsiasi processo esotermico/endotermica a
pressione costante si evidenziano due punti fondamentali:
- In una fase: una variazione di calore è accompagnata da una variazione della temperatura,
che è associata alla variazione dell’energia cinetica media e quindi alla velocità più
probabile delle molecole.
- In una transizione di fase: avviene una variazione di calore a temperatura costante,
associata alla variazione dell’energia potenziale, mentre varia la distanza intermolecolare
media. Entrambi gli stati fisici sono presenti durante una transizione di fase. La quantità di
calore ceduta/acquistata dipende dalla quantità di sostanza e dell’entalpia della transizione
di fase.
Si consideri un pallone aperto contenente un liquido pura a temperatura costante. Le molecole
sulla superficie del liquido e in possesso di sufficiente velocità riescono a vincere le attrazioni
intermolecolari ed evaporano. Le molecole vicine prendono il loro posto sulla superficie del liquido
e, mentre l’ambiente continua a fornire energia al sistema, il processo prosegue finché non
scompare l’intera fase liquida. Invece, in un recipiente chiuso e in condizioni controllate, le
transizioni di fase di molte sostanze sono reversibili e raggiungono un equilibrio.
Si consideri un pallone chiuso, a temperatura costante e in cui sia stato fatto il vuoto nel volume
soprastante il liquido. Il processo di evaporazione avviene anche qui, e col tempo la pressione di
questo vapore aumenta. Stati fisici e transizioni di fase Simultaneamente, avviene che alcune
molecole di vapore urtino contro la superficie del liquido e abbiano un’energia cinetica così bassa
da condensare. Dopo un po’ di tempo si nota che la velocità di evaporazione e di condensazione si
eguagliano, e ciò porta all’ottenimento di una pressione di vapore costante (alla temperatura in cui
è posto il sistema).
TENSIONE DI VAPORE
A livello macroscopico, la situazione sembra statica, ma a livello molecolare si ha un equilibrio
dinamico (equilibrio liquido/gas): le molecole continuano ad evaporare e a condensare alla stessa
velocità e senza fermarsi.
La pressione esercitata dal vapore all’equilibrio è detta tensione di vapore (o pressione di vapore),
e per un liquido puro dipende solo dalla temperatura (e non dalle dimensioni del recipiente).
All’aumentare della temperatura cresce il numero di molecole che evaporano e diminuisce il
numero di quelle che condensano. Un altro fattore che influenza la tensione di vapore è la
presenza e il tipo di forze intermolecolari: più sono deboli, maggiore è la tensione di vapore.

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La relazione tra pressione di vapore e temperatura non è lineare, ma può comunque essere
espressa mediante una retta utilizzando il reciproco della
temperatura.
Si ottiene l’equazione di Clausius-Clapeyron:
𝑝2 ∆𝐻𝑣𝑎𝑝 1 1
𝑙𝑛 = − ∙( − )
𝑝1 𝑅 𝑇2 𝑇1
Qualora si conoscano tre dei quattro termini di pressione e
temperatura, è possibile calcolare quello mancante. Va sottolineato
che in questa equazione le temperatura vanno espresse in K e la
costante R vale 8,31 J mol-1 K-1 (essa deve infatti essere concorde
con ∆Hvap, espressa in J mol-1).

EBOLLIZIONE
In un recipiente aperto l’atmosfera esercita la sua pressione sulla superficie del liquido.
All’aumentare della temperatura, aumenta il numero di molecole che abbandonano la superficie
del liquido e , inoltre, aumenta la velocità con cui le molecole si muovono in tutto il liquido. Ad una
certa temperatura, l’energia cinetica media delle molecole nel liquido è tanto alta quanto basta
affinché si formino bolle di vapore all’interno del liquido (e non sulla superficie) e questo entra in
ebollizione.
A qualsiasi temperatura inferiore, le bolle si infrangono non appena cominciano a formarsi perché
la pressione esterna (quella atmosferica) è maggio della pressione di vapore all’interno delle bolle.
Pertanto, la temperatura di ebollizione è la temperatura a cui la pressione di vapore è uguale alla
pressione esterna.
La temperatura di ebollizione diminuisce con l’altitudine perché la pressione atmosferica
diminuisce con la quota.
All’ebollizione tutto il calore fornito al sistema dall’esterno viene usato dalle molecole per
l’evaporazione.
Esperimento dell’ebollizione dell’acqua in un bicchiere di carta: un bicchiere di carta vuoto,
riscaldato da una fiamma brucia rapidamente. Se invece il bicchiere viene riempito di
acqua, può essere riscaldato (cautamente) per un lungo tempo senza bruciare. Questo è
possibile per 3 motivi:
1. A causa dell’elevata capacità termica dell’acqua, il calore proveniente dalla fiamma viene
utilizzato soprattutto per riscaldare l’acqua e non il bicchiere di carta.
2. Finché l’acqua bolle occorrono grande quantità di calore (∆Hvap) per convertire il liquido
in vapore.
3. La temperatura del bicchiere non aumenta sopra il punto di ebollizione dell’acqua finché
nel bicchiere rimane dell’acqua liquida.

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EQUILIBRIO SOLIDO-LIQUIDO
Consideriamo il caso dell’equilibrio solido-liquido. A livello molecolare, le particelle di un cristallo
vibrano attorno alle loro posizioni fisse
All’aumentare della temperatura, la vibrazione diventa più energetica, finché alcune particelle non
acquistano energia sufficiente per spostarsi dalle loro posizioni, iniziando la fusione.
Allo stesso modo, se una particelle del liquido perde energia cinetica, andrà a fissarsi nel solido.
Se la velocità dei due processi (fusione e solidificazione) è uguale, si instaura un equilibrio
dinamico.
La temperatura della transizione solido-liquido è detta temperatura di fusione, e rimane costante
finché sono presenti entrambe le fasi.
A differenza della temperatura di ebollizione, essa non è influenzata dalla pressione (infatti, liquidi
e solidi sono quasi incomprimibili).
EQUILIBRIO SOLIDO-GAS
Nel caso dell’equilibrio solido-gas, occorre far riferimento a quei solidi che hanno pressioni di
vapore sufficientemente alte per sublimare in condizioni ordinarie (es: I2, CO2, …). Una sostanza
sublima (invece di fondere) perché la combinazione di attrazioni intermolecolari e pressione
atmosferica non è grande a sufficienza per mantenere le particelle l’una vicina all’altra quando
esse abbandonano lo stato solido. In altre parole, le tensione di vapore della sostanza eguaglia il
valore della pressione atmosferica prima di raggiungere la temperatura di fusione.
Per descrivere le transizioni di fase di una sostanza in varie condizioni di temperatura e pressione
si fa usi dei diagrammi di stato (o diagrammi di fase).
Essi combinano le curve liquido/gas, solido/liquido e
solido/gas. Si evidenziano le seguenti caratteristiche:
- Regioni del diagramma di fase: ciascuna regione
corrisponde a una fase della sostanza. In
generale, il solido è stabile a bassa temperatura e
alta pressione, il gas ad alta temperatura e bassa
pressione, il liquido nelle condizioni intermedie.
- Curve tra le regioni: le linee che separano le
regioni sono le curve di transizione di fase. Ogni
punto lungo una curva rappresenta la temperatura
e la pressione a cui le due fasi coesistono in
equilibrio. La curva solido/liquido ha pendenza
positiva perché il solido è più denso del liquido: un
aumento della pressione favorisce quindi la fase
solida.
- Punto critico: è il punto in cui finisce la curva liquido/gas. Scaldando di molto un liquido in
un sistema chiuso, la sua densità diminuisce e al contempo si forma un vapore in quantità
sempre maggiore. Si arriva alla temperatura critica, dove
liquido e vapore assumono la stessa densità e scompare
la separazione di fase (si ha un fluido supercritico). A
questa temperatura corrisponde una pressione critica:
l’energia cinetica media delle molecole è così alta che il
vapore non può essere condensato indipendentemente
dalla pressione applicata. I fluidi nello stato supercritico
trovano applicazione come solventi industriali, in
sostituzione di quelli organici (in particolare, la CO2
supercritica è largamente utilizzata).
- Punto triplo: è il punto in cui si incontrano le tre curve di transizione di fase, pertanto
coesistono tre fasi contemporaneamente in equilibrio fra loro. Nel caso del diagramma di

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fase della CO2 , si nota che il punto triplo è a 5,1 atm:
questo spiega perché la CO2 a pressione atmosferica
non possa esistere allo stato liquido, e ciò ne giustifica
il suo uso come ‘’ghiaccio secco’’. Si usa molto
spesso sia in campo medico dato che è capace di
mantenere bassa la temperatura molto a lungo, sia in
campo alimentare, per esempio per trasportare cibi da
un luogo a un altro. A volte il ghiaccio secco è
utilizzato per raffreddare CPU e GPU sottoposte a
overlock molto spinti.

Il diagramma di stato dell’acqua differisce sotto un aspetto fondamentale rispetto al caso


comune alle altre sostanze: siccome l’acqua solida (ghiaccio) è meno densa dell’acqua liquida, la
curva solido/liquido ha pendenza negativa.
Infatti, un aumento di pressione favorisce sempre la fase che occupa meno spazio, e per l’acqua
questa fase è quella liquida.
REGOLA DELLE FASE
La regola delle fasi di Gibbs per sistemi all’equilibrio:
𝒗 = 𝒏 + 𝒎– 𝒇
In questa equazione:
- n è il numero di componenti chimici indipendenti del sistema;
- m è il numero dei fattori fisici attivi (la temperatura in ogni caso, la pressione quando il
processo va a equilibrio con una variazione del numero di moli delle specie gassose);
- f è il numero delle fasi contemporaneamente presenti;
- v è la varianza, o grado di libertà, del sistema, cioè il massimo numero di variabili i cui
valori possono essere impostati arbitrariamente (entro un certo intervallo) e fissati i quali, le
rimanenti variabili sono automaticamente determinate. Ossia il numero di variabili
necessario a definire il sistema univocamente.

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Lo stato solido
Lo stato solido è caratterizzato da particelle ad energia (cinetica) minore dei gas e dei liquidi.
Queste particelle sono accostate le une alle altre il più vicino possibile e la forze di legame fra esse
è superiore che nei gas e nei liquidi.
È possibile suddividere i solidi in due categorie sulla base del grado d’ordine delle loro forme, che
a sua volta si basa sul grado d’ordine delle loro particelle:
- Solidi cristallini: hanno una forma ben definita perché le loro particelle (atomi, ioni o
molecole) sono disposte in una struttura ordinata e periodica.
- Solidi amorfi: hanno forme mal definite perché sono privi di un vasto ordine delle loro
particelle a livello molecolare.
SOLIDI CRISTALLINI
Un solido cristallino (o cristallo) è una struttura solida costituita da particelle aventi una
disposizione geometricamente regolare, che si ripete indefinitamente nelle tre dimensioni spaziali,
detta reticolo cristallino (o reticolo di
Bravais).
Si definisce cella elementare la più piccola
parte del reticolo che, ripetuta nello
spazio, forma il cristallo.
Il numero di particelle prime vicine che
circondano una particella di un cristallo è
detto numero di coordinazione (N.C.).
In natura esistono 7 sistemi cristallini (cubico, esagonale, trigonale, tetragonale, rombico,
monoclino e triclino) e 14 tipi di celle elementare.
Tuttavia, la maggior parte dei metalli, dei composti
covalenti e ionici si presentano come reticoli cubici.
I cristalli sono generati dalla traslazione lungo tre assi,
non necessariamente ortogonali tra di loro, di una unità
strutturale (es: un atomo, una molecola, uno ione, ma
anche un gruppo di atomi o un gruppo di ioni) tale che
ognuna di queste unità è circondata dallo stesso intorno.
La cella elementare può essere scelta arbitrariamente,
ma si cerca di scegliere una cella che abbia volume
minimo ed angoli vicini a 90°. Inoltre, si cerca di
scegliere una cella che abbia le stesse proprietà di
simmetria del cristallo macroscopico.
Il sistema cubico è costituito da tre tipi di celle elementari:
- Cella cubica semplice: i centri di 8 particelle definiscono i vertici di un cubo. Le attrazioni
uniscono le particelle, quindi esse si toccano lungo gli spigoli del cubo, ma non si toccano
diagonalmente lungo le facce o attraverso il suo centro. Il N.C. di ciascun particelle è 6: 4
nel suo stesso strato, una nello strato superiore e una nella strato inferiore.
- Cella cubica a corpo centrato: si ha una particella in ciascun vertice e una al centro del
cubo. Le particelle situate nei vertici non si toccano, ma tutte toccano quella situata in
centro. Ciascuna particella è circondata da 8 particelle prime vicine, 4 al di sopra e 4 al di
sotto: il N.C. è 8.
- Cella cubica a facce centrale: si ha una particella situata in ciascun vertice e una
particella al centro di ciascuna faccia del cubo, ma non nel centro del cubo. Le particelle

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situate nei vertici toccano quelle situate nelle facce, ma non si toccano tra loro. Il N.C.

Una celle elementare è adiacente ad altre in tutto il reticolo, quindi una particella in un vertice o su
una faccia è condivisa da celle elementari adiacenti. Nelle tre celle elementari cubiche, la particella
in ciascun vertice fa parte di 8 celle adiacenti, quindi 1/8 di ciascuna di queste particelle appartiene
a ciascuna cella elementare.
Un cubo ha 8 vertici, quindi ogni cella cubica semplice contiene 8∙ 1/8 di particella cioè 1 particella.
La cella cubica a corpo centrato contiene, in aggiunta, una particella nel centro, per un totale di 2
particelle.
La cella cubica a facce centrate contiene 8∙ 1/8 di particella ai vertici e 6∙ 1/2 di particella sulle 6
facce, quindi 4 particelle in tutto.
Le celle elementari presenti in natura si originano dai vari modi in cui gli atomi sono impaccati. Nel
caso di particelle con lo stesso raggio, maggiore è il N.C. del cristallo, maggiore è il numero di
particelle in un dato volume. Pertanto, una struttura cristallina basata sulla cella a facce centrate
contiene più particelle impaccate in un dato volume rispetto a una cubica a corpo centrato, che a
sua volta ne contiene di più rispetto alla cella cubica semplice.
La struttura di molti solidi costituiti da particelle della stessa dimensione può essere facilmente
derivata dal modello di impaccamento degli atomi, considerandoli come sfere rigide che sono
poste a contatto.
- Cella cubica semplice: si immagini di disporre un primo strato di sfere contigue e di
collocare il secondo strato direttamente sopra il primo. Il calcolo dell’efficienza di
impaccamento di questa
disposizione indica la
percentuale del volume totale
occupato dalle sfere, e vale
52%. Questo modo di
disporre le sfere è molto
inefficiente.

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- Cella cubica a corpo centrato: invece di collocare il secondo strato direttamente sul
primo, si può sfruttare più
efficientemente lo spazio
collocando le sfere sugli spazi
rombici vuoti nel primo strato. Il
terzo strato verrà posto sugli
spazi vuoti del secondo, e sarà
così allineato verticalmente al
primo. L’efficienza di
impaccamento è del 68%, ed è
tipica di molti metalli.
- Cella esagonale: per aumentare l’efficienza di impaccamento, il primo strato può essere
costruito ponendo le file di sfere leggermente sfalsate tra loro. In questo modo si ottengono
spazi vuoti triangolari anziché rombici. In uno strato compatto, ogni sfera è in contatto con
altre sei. Il secondo strato si forma poggiando le sfere nelle cavità create dal primo.
Le sfere del terzo strato vengono poste in corrispondenza del primo strato. Si ottiene una
configurazione ABAB…degli strati, che prende il nome di impacchettamento esagonale
compatto (HCP, Hexagonal Closest Packing), basato sulla cella elementare esagonale.
- Cella cubica a facce centrate: diversamente dal caso della cella esagonale, le sfere del
terzo strato vengono poste in corrispondenza delle cavità del primo strato (quelle cavità che
il secondo strato non è riuscito a coprire). Si ottiene una configurazione ABCABC…degli
strati, che prende il nome di impacchettamento cubico compatto (CCP).
PROPRIETÀ DELLO STATO SOLIDO
L’efficienza di impaccamento di tipo HCP e CCP è uguale e vale 74%,
con un N.C. pari a 12. è impossibile impaccare sfere dello stesso raggio in
un modo più efficiente di questo. La maggior parte degli elementi metallici
cristallizzano in queste due disposizioni. Alcuni composti non metallici (es:
CO2, CH4 e i gas nobili) cristallizzano nella struttura CCP.
La comprensione dei solidi si basa sulla capacità di ‘’vedere’’ le loro
strutture cristalline. Una delle tecniche usate a tal scopo è l’analisi per
diffrazione di raggi X (XRD: X-Ray Diffraction). Basandoci sul fatto che
le lunghezze d’onda dei raggi X sono dell’ordine di grandezza degli spazzi
fra strati di particelle in molti solidi, è possibile sfruttare il fenomeno di
diffrazione dei raggi X per determinare la struttura d un solido.
Nell’esperimento, le onde incidono su un cristallo con un’inclinazione θ e vengono diffratte con lo
stesso angolo da strati adiacenti. Quando la prima onda
incide sullo strato superiore e la seconda incide sullo
strato successivo, le onde sono in accordo di fase. Se
esse sono ancora in accordo di fase dopo essere state
diffratte, su una lastra fotografica vicina compare una
macchia. Ciò avverrà soltanto se il cammino addizionale
percorso dalla seconda onda è pari a un multiplo della
lunghezza d’onda secondo un numero nλ, dove n è un
numero intero.
La trigonometria porta all’ottenimento dell’equazione di
Bragg: 𝐧 ∙ 𝛌 = 𝟐 ∙ 𝐝 ∙ 𝐬𝐢𝐧 𝛉, dove d è la distanza tra strati
nel cristallo. Ruotando il cristallo si varia l’inclinazione
della radiazione incidente e si produce un differente
insieme di macchie, finendo per generare una figura di
diffrazione completa che si può usare per determinare le

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distanze e gli angoli nel reticolo. La figura di diffrazione non è un’immagine effettiva della struttura
cristallina, bensì deve essere analizzata matematicamente per ottenere le dimensioni del cristallo.
CLASSIFICAZIONE DEI SOLIDI
I solidi cristallini possono essere distinti in base al tipo di particella nel cristallo, che determina le
forze interparticellari, e se ne possono elencare cinque:
- Solidi atomici: i singoli atomi soni tenuti uniti da forze di dispersione. I gas nobili sono gli
unici esempi di questa categoria e le loro proprietà fisiche rispecchiano le debolissime forze
che si esercitano tra i loro atomi. Le temperature di fusione ed ebollizione, i calori di
evaporazione e fusione sono tutti bassissimi e aumentano con andamento regolare
all’aumentare della massa molare. L’impaccamento è cubico compatto (es: Ar solido).
- Solidi molecolari: i punti reticolari sono occupati da molecole individuali. Ad esempio, CH4
cristallizza in una struttura cubica compatta con l’atomo di C di ogni molecola centrato su
ciascun punto reticolare.
• Nei solidi molecolari operano varie combinazioni di forze dipolo-dipolo, di dispersione e
legami a idrogeno, il che spiega la loro vasta gamma di proprietà fisiche.
• Le forze di dispersione sono le principali forze agenti nelle sostanze apolari, quindi le
temperature di fusione aumentano con la massa molare.
• Tra le molecole polari, dominano le interazioni dipolo-dipolo e, quando possibile, i legami
a idrogeno.
• Eccettuate le sostanze costituite dalle molecole più semplici, i solidi molecolari hanno
temperature di fusione più alte di quelle dei solidi atomici. Ciononostante, le forze
intermolecolari sono ancora relativamente deboli, quindi le temperature di fusione sono
molto più basse di quelle dei solidi ionici, covalenti reticolari e metallici.
- Solidi ionici: la cella elementare contiene particelle con cariche intere. Di conseguenza, le
forze interparticellari sono molto più forti di quelle di Van der Waals (presenti nei solidi
atomici e molecolari). Per massimizzare le attrazioni, i cationi sono circondati dal massimo
numero possibile di anioni, e viceversa, con il più piccolo dei due ioni giacente negli spazi
formati dall’impaccamento di quello più grande.
• La cella elementare ha lo stesso rapporto cationi/anioni della formula empirica.
• I composti ionici adottano parecchie strutture cristalline. Molti usano l’impaccamento
cubico compatto; ad esempio, la struttura di NaCl è presente in molti composti (alogenuri e
idruro dei metalli del gruppo 1 tranne CsCl, solfuri e ossidi dei metalli del gruppo 2, molti
ossidi e solfuri dei metalli di transizione). Questa struttura può essere immaginata tramite la
compenetrazione di due celle cubiche a facce centrate, ciascuna costituita solo da ioni
dello stesso tipo, in modo che i cationi (più piccoli) finiscano negli spazi vuoti tra gli anioni
(più grandi). Ciascun catione sarà circondato da sei anioni, e viceversa.
Le proprietà dei solidi ionici sono una conseguenza diretta delle posizioni fisse degli ioni e
delle forze inter-ioniche molto intense, che creano un’alta energia reticolare.
Ne conseguono temperature di fusione alte e conducibilità elettriche basse. Se si fornisce
una grande quantità di calore, gli ioni acquistano energia cinetica sufficiente per
abbandonare le loro posizioni: il solido fonderà e gli ioni mobili condurranno la corrente
elettrica.
I composti ionici sono duri perché soltanto una forza esterna forte è in grado di variare le
posizioni relative di moltissimi ioni interagenti; se si applica una forza sufficiente per variare
le posizioni degli ioni, quelli di carica uguale vengono avvicinati e le loro repulsioni rompono
il cristallo
- Solidi metallici: sono tenuti assieme dal legame metallico. La maggior parte degli elementi
metallici cristallizza in una delle due strutture a impaccamento compatto (es: Cu in CCP,
Mg in HCP). Le proprietà dei metalli (elevata conducibilità elettrica e termica, lucentezza,
duttilità e malleabilità) sono dovute alla presenza di elettroni delocalizzati.
I metalli hanno un ampio intervallo di temperature di fusione e di durezze che sono
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relazione con l’efficienza di impaccamento della struttura cristallina e col numero di elettroni
di valenza disponibili per la formazione dei legami.
Ad esempio, i metalli del 2° gruppo sono più duri e altofondenti rispetto a quelli del 1°
gruppo perché hanno il doppio di elettroni di valenza delocalizzati.
- Solidi covalenti reticolari: non sono presenti particelle separate, ma forti legami covalenti
legano tra loro gli atomi.
• Queste sostanze hanno temperature di fusione ed ebollizione estremamente alte, ma le
loro conducibilità elettrica, termica e durezza dipendono dalle specifiche caratteristiche dei
loro legami.
• Ad esempio, i silicati sono la classe di minerali caratterizzati dalla presenza del gruppo
tetraedrico (SiO4)4- . Utilizzano un’ampia varietà di schemi di legame, ma quasi tutti sono
costituiti da estese diposizioni di atomi di Si e O legati covalentemente. Il quarzo (SiO2) ne
è un esempio comune. Essendo il N.O. del Si +4, e quello dell’O -2, complessivamente
ogni tetraedro presenta un eccesso di carica negativa (-4). Si nota che la forza di ogni
singolo legame Si-O è uguale alla metà dell’energia totale di legame disponibile nello ione
ossigeno. Ciascuno di questi ioni ha perciò la potenzialità di legarsi ad un altro atomo di Si
e partecipare ad un altro tetraedro collegando quindi i tetraedri tramite ossigeni condivisi (o
ossigeni ponte).
Tra i solidi covalenti reticolari più noti ci sono gli allotropi del carbonio.
L’allotropia è la proprietà presentata da alcune sostanze semplici (cioè sostanze con atomi
dello stesso elemento) di esistere in diverse forme. Ne sono esempi il P (Pn : rosso amorfo;
P4 : bianco,…), l’O (O2 e O3 ) e il C. L’allotropia si riferisce specificamente alla struttura del
legame chimico esistente fra atomi dello stesso tipo e non deve essere confusa con
l’esistenza di differenti stati fisici. Il fenomeno analogo all’allotropia, ma riguardante i
compositi, si chiama polimorfismo; invece il fenomeno per il quale due o più sostanze
diverse cristallizzano separatamente per dare cristalli con caratteri geometrici molto simili
viene detto isomorfismo.
Relativamente a C, si distinguono i seguenti allotropi:
- Grafite: gli atomi di C formano un reticolo esagonale a strati, con legami σ e legami π
all’interno di ogni strato, mentre diversi strati sono tenuti insieme tramite forze di Van der
Waals. Ha la più alta temperatura di fusione (3500°C) tra gli allotropi del C e conduce bene
l’elettricità lungo i piani (gli elettroni sono delocalizzati su ogni strato, ma non tra piani
diversi. La grafite viene utilizzata per produrre matite, materiale refrattario, lubrificanti (le
impurità comuni, come O2 , permettono ai piani discorrere tra loro), coloranti ed elettrodi.
- Diamante: è un cristallo trasparente composto da atomi di C a struttura tetraedrica, che
cristallizza in una cella cubica a facce centrate. Termodinamicamente è una forma instabile
del C e, in teoria, dovrebbe trasformarsi interamente in grafite. Ciò non avviene perché c’è
bisogno di una traslazione degli atomi di C che, essendo legati gli uni agli altri in una
struttura a tetraedro, è impedita cineticamente.
Quindi il diamante è instabile dal punto di vista termodinamico, ma stabile dal punto di vista
cinetico. Le sue proprietà sono l’estrema durezza (è usato per la fabbricazione di punte da
trapano, seghe, polveri abrasive, per il taglio e per la lucidatura di pietre, vetro, marmo e
granito), l’elevato indice di dispersione ottica, l’altissima conducibilità termica, la grande
resistenza agli agenti chimici e il bassissimo coefficiente di dilatazione termica.
I diamanti sono altamente idrorepellenti: l’acqua non aderisce alla loro superficie, formando
gocce che scivolano via facilmente. Al contrario, i grassi, tra cui ogni tipo di olio, aderiscono
molto bene alla loro superficie, senza intaccarli. Alcuni diamanti sono semiconduttori
naturali, tutti gli altri invece sono eccellenti isolanti elettrici. Grazie alla sua durezza (dovuta
a legami covalenti localizzati), il diamante può essere graffiato soltanto da altri diamanti.
- Fullereni: sono molecole, costituite interamente di C, che assumono una forma simile a
una sfera cava o a un ellissoide. Detti anche buckyball, sono strutturalmente simili alla

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grafite (costituita da anelli esagonali collegati tra loro su un piano), ma si differenziano per
alcuni anelli di forma pentagonale o a volte ettagonale, che impediscono una struttura
planare.
Il più piccolo e il più diffuso fullerene, in cui nessuna coppia di pentagoni condivide un
bordo, è il buckminsterfullerene (C60), icosaedro troncato costituito da esagoni (20) e
pentagoni (12), come un pallone da calcio, ai cui vertici (60) si trova un atomo di C e i cui
bordi (90) rappresentano i legami. La resistenza termica e la superconduttività dei fullereni
sono alcune delle proprietà più studiate; i possibili utilizzi sono per transistor, LED, laser e
ultravioletti, …
- Grafene: è un materiale costituito da uno strato monoatomico di atomi di C (avente cioè
uno spessore equivalente alle dimensioni di un solo atomo). Ha la resistenza meccanica
del diamante e la flessibilità della plastica. Gli atomi sono ibridati sp2 , e formano esagoni
con angoli di 120°. Il grafene è il miglior conduttore termico noto, superiore anche al
diamante.
- Nanotubi di carbonio: sono molecole, costituite interamente di C, che assumono una
forma tubolare. Detti anche buckytube, possono essere immaginati come derivanti dal
processo di arrotolamento su se stesso di un piano di grafite (grafene), chiuso alle
estremità da calotte emisferiche di tipo fullerenico. La parte centrale del tubo è formata da
atomi di C ad ibridazione sp2 strutturati ad anelli esagonali, mentre le estremità sono
formate da una particolare distribuzione di anelli pentagonali ed esagonali che, impartendo
la giusta curvatura, permettono la chiusura del cilindro grafitico.
I nanotubi di C possono essere utilizzati per applicazioni biomediche (ad esempio come
carriers di farmaci o come agenti di contrasto ecografici), adsorbitori di gas, sensori,…
I solidi amorfi non sono cristallini, e sono caratterizzati da regioni prive di ordine reticolare.
Ad esempio, il vetro è un solido amorfo. Si ottiene per fusione del quarzo e il liquido risultante
viene raffreddato rapidamente per impedire che ricristallizzi. Le catene di atomi di Si e O non sono
così in grado di orientarsi abbastanza velocemente per dare origine a una struttura ordinata, ma si
ottiene un sistema distorto contenente molti spazi vuoti e molti filari disallineati. L’assenza di
regolarità, tipica dello stato liquido, porta a considerare molti solidi amorfi come liquidi
sottoraffreddati.
MATERIALI
Col termine materiale si definisce un oggetto destinato ad un particolare uso: con riferimento alla
natura chimico-fisica di un corpo, si può associare a livello macroscopico un insieme di proprietà
fisiche e tecnologiche.
- Ciascun materiale può essere costituito da una o più sostanze, da una miscela di sostanze
o da più materiali (materiale composito).
- Oltre alla composizione chimica, ciascun materiale è caratterizzato da una specifica
morfologia, che corrisponde al modo in cui è organizzata la struttura del materiale a livello
microscopico.
- I materiali sintetici sono normalmente ottenuti o raccolti allo stato grezzo come materie
prime che vengono elaborate in materiali più raffinati e utilizzabili, dai quali vengono spesso
ottenuti materiali semilavorati o vengono realizzati direttamente i prodotti finiti.
- La disciplina che si occupa dello studio dei materiali delle loro proprietà è la scienza dei
materiali.
Una lega è una combinazione in soluzione di due o più elementi di cui almeno uno è un metallo, e
il cui materiale risultante ha proprietà metalliche differenti da quelle dei relativi componenti.
Una lega con due componenti è denominata binaria; una con tre è una lega ternaria e una con
quattro è una lega quaternaria.
Le leghe sono ideate solitamente per avere proprietà più desiderabili di quelle dei loro componenti.
Per esempio l’acciaio (lega Fe-C) ha una resistenza meccanica maggiore del Fe, il suo
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componente principale; l’ottone (lega Cu-Zn) è più duro del Cu e più lucente del Zn; il bronzo (lega
Cu-Sn) sfrutta una piccola aliquota di Sn per incrementare le caratteristiche meccaniche e la
resistenza alla corrosione.
Diversamente dai metalli puri, molte leghe non hanno un singolo punto di fusione, ma attraversano
un intervallo di fusione in cui il materiale è una miscela di fase liquida e solida; tuttavia, leghe
speciali possono essere progettate con un singolo punto di fusione e sono definite leghe
eutettiche.
Le leghe sono generalmente ottenute per fusione, e gli atomi degli elementi di lega (soluto) si
dispongono nel reticolo cristallino dell’elemento base (solvente secondo modalità diverse.
- Soluzione solida disordinata: gli atomi degli elementi di lega hanno dimensioni circa
eguali e sono legati a quelli del metallo base con forze pari a quelle che legano fra loro gli
atomi della stessa specie. Essi vanno a sostituirsi nel reticolo cristallino ad altrettanti atomi
del metallo base con una distribuzione in genere casuale.
- Soluzione solida ordinata: si ha quando le forze di attrazione fra atomi di natura diversa
sono maggiori di quelle fra atomi della stessa specie. Si formano soluzioni solide n cui gli
atomi di una specie risultano circondati da atomi dell’altra specie.
- Composto intermetallico: atomi diversi hanno elettronegatività marcatamente differente e
la struttura acquista alcune caratteristiche proprie di un composto chimico.
- Lega eutettica: atomi diversi si attraggono molto meno che atomi uguali e quindi nascono
alternanze di cristalli dell’una e dell’altra composizione, in quanto non esiste solubilità allo
stato solido. La struttura cristallina sarà eterogenea.
- Soluzione solida interstiziale: si ha quando gli atomi degli elementi di lega hanno
dimensioni molto piccole (es: H, N, C e B). Questi possono allora inserirsi negli spazi vuoti
(interstizi) della struttura cristallina del metallo di base. Ne è un esempio l’acciaio. Le altre
soluzioni solide precedentemente citate sono invece di tipo sostituzionale.
L’ideale di un cristallo perfettamente ordinato è raggiungibile solo se è fatto crescere molto
lentamente in condizioni accuratamente controllate. Quando i cristalli si formano più rapidamente,
si creano difetti cristallini.
In base alla loro natura (zero-, mono-, bi- o tridimensionale), i difetti cristallini vengono suddivisi in:
- Difetti di
punto:

- Difetti di linea: dislocazione lineare, - Difetti di superficie: strutture a


elica,… policristalline,…

- Difetti di volume: porosità, cricche, inclusioni,…


I materiali ceramici sono generalmente composti inorganici solidi, prodotti da cottura e vengono
classificati in due gruppi:

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- Ceramici tradizionali: sono a base di argilla, silice, generalmente sotto forma di sabbia, di
quarzo e feldspati, cioè alluminosilicati, che possono contenere Na, K o Ca. sono poco
resistenti e facilmente formati prima della cottura. I prodotti a base di argilla vengono
utilizzati soprattutto in edilizia, come le terrecotte, ma possono trovare largo impiego anche
nei sanitari e nelle protesi dentarie, come le ceramiche bianche, nelle stoviglie e nei formi
industriali, come materiali ceramici refrattari. Infine, sono usati anche nell’industria
automobilistica e aerospaziale, come materiali ceramici abrasivi.
- Ceramici avanzati: sono costruiti da composti puri o quasi puri, ottenuti per sintesi
chimica. Presentano meno impurità e hanno proprietà superiori rispetto ai materiali
ceramici tradizionali, ad esempio l’elevata resistenza alle alte temperature e alla
corrosione. Sono particolarmente adatti in ambienti corrosivi e trovano grande utilizzo in
campo automobilistico, aerospaziale e aeronautico, come turbine a gas, barriere termiche,
anelli di tenuta e forni ad alta temperatura.
La nanotecnologia è un rame della scienza applicata e della tecnologia che si occupa del
controllo della materia su scala dimensionale nell’ordine del nanometro e della progettazione e
realizzazione di dispositivi in tale scale. Con la nanotecnologia, una grande serie di materiali e
prodotti perfezionati fanno affidamento alla variazione delle proprietà fisiche che si osserva quando
si riducono le dimensioni su scala nanometrica.
Ad esempio, le nanoparticelle traggono vantaggio dal drastico aumento dell’area superficiale in
rapporto al volume. Le loro proprietà ottiche, ad esempio la fluorescenza, diventano una funzione
del diametro della particella. Portate in un materiale grossolano, le nanoparticelle possono
influenzarne fortemente le proprietà meccaniche, come le rigidità o l’elasticità. Per esempio, i
polimeri tradizionali possono essere rinforzati con nanoparticelle, usando i nuovi materiali come
ricambi leggeri (in peso) per metalli.

60
Soluzioni e colloidi
Quasi tutti i gas, i liquidi e i solidi che costituiscono il mondo sono miscele, cioè un insieme di due
o più sostanze mescolate tra loro ma non combinate chimicamente. Una miscela ha una
composizione variabile e conserva alcune proprietà dei suoi componenti. Due tipi comuni di
miscele sono:
- Soluzione: è una miscela omogenea in cui non esistono interfacce tra i componenti. Esiste
quindi in un’unica fase.
- Colloide: è una miscela eterogenea, quindi caratterizzata da due o più fasi. Un
componente è disperso sotto forma di particelle di piccolissimo diametro in un altro
componente, e quindi non è facile distinguere fasi distinte a occhio nudo. Ne sono esempi il
latte e il fumo. La differenza principale sta nel fatto che in una soluzione le particelle sono
singoli atomi, ioni o piccole molecole, mentre nei colloidi le particelle sono tipicamente
macromolecole o aggregati di piccole molecole (che non sono grandi a sufficienza per
sedimentare).
Miscele di gas: le miscele gassose sono sempre omogenee e quindi formano sempre una
soluzione: i gas sono miscibili in tutte le proporzioni. (Gas perfetti; legge di Dalton delle pressioni
parziali)
Soluzioni liquide: si possono formare sciogliendo in un liquido, il solvente, uno o più gas, solidi o
altri liquidi. Ad esempio: O2 disciolto in H2O (processi biologici); CO2 disciolta in H2O; NaCl in H2O;
alcool in H2O.
Soluzioni solide: sono abbastanza comuni; per esempio le leghe metalliche sono una miscela (più
o meno) omogenea solida di più metalli (ottoni: lega Zn/Cu; acciai al C: lega Fe/C; acciaio inox:
lega Fe/Cr).
Si descrivono spesso le soluzioni facendo riferimento alla dissoluzione di una sostanza in un’altra:
il soluto si scioglie nel solvente, che è il componente più abbondante della soluzione.
La solubilità di un soluto è la quantità massima di soluto che si scioglie in una quantità fissa di un
particolare solvente a una temperatura specificata. Anche se la solubilità ha un significato
quantitativo, i termini ‘’diluito’’ e ‘’concentrato’’ sono termini qualitativi per designare quantità
relative di soluto: una soluzione diluita contiene molto meno soluto disciolto rispetto a una
soluzione concentrata.
Si dice satura una soluzione in cui parte del soluto resta indisciolto, come corpo di fondo. Il corpo
di fondo e la soluzione si trovano in equilibrio dinamico tra loro.
Un fattore importante che determina il formarsi di una soluzione è l’intensità relativa delle forze
intermolecolari entro e tra il soluto e il solvente. Conoscendo queste forze, si è spesso in grado di
prevedere quali soluti si scioglieranno in determinati solventi (es: il burro non si scioglie in acqua,
ma in olio da cucina si). Si dice che il simile scioglie il simile, cioè le sostanze la cui coesione nel
solido o nel liquido è dovuta a forze dello stesso tipo tendono più facilmente a mescolarsi tra loro in
soluzione.
Ad esempio, consideriamo la solubilità di una serie di alcoli (molecole organiche contenenti una
catena apolare di atomi di C e un gruppo –OH polare) in 2 solventi diversi: acqua (solvente
fortemente polare) e esano (un solvente fortemente apolare, costituito da una catena di atomi di
C).
All’aumentare della catena idrocarburica (aumenta il numero di atomi di C) aumenta il carattere
apolare degli alcoli quindi aumenta la solubilità in esano e diminuisce la solubilità in acqua.
Sperimentalmente, quando la catena supera i tre atomi di C, la solubilità in acqua diminuisce
drasticamente, fino ad annullarsi oltre al 6° atomo di C.
Si dice anche che la catena di atomi di C rappresenta la porzione idrofoba mentre il gruppo –OH
rappresenta la porzione idrofila della molecola.

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La temperatura influenza la solubilità della maggior
parte delle sostanze. In particolare, la solubilità della
maggior parte dei solidi aumenta all’aumentare della
temperatura. Ci sono alcune eccezioni, come Ce2(SO4)3
e diversi altri solfati in generale, o ancora il calcare
(CaCO3), per questo motivo si deposita ad alte
temperature. La solubilità dei gas in acqua invece
diminuisce sempre all’aumentare della temperatura. In
effetti, l’aumento dell’energia cinetica delle particelle
gassose le fa ‘’sfuggire’’ alla soluzione perché le forze
intermolecolari gas-solvente sono più deboli rispetto a
quelle ione-solvente, per esempio.
Se liquidi e solidi sono quasi incomprimibili e la pressione ha uno scarso effetto sulla loro solubilità,
al contrario, la solubilità dei gas nei liquidi ne viene influenzata. Immaginando un sistema
stantuffocilindro in cui sia contenuto un certo volume di acqua e un certo numero di particelle
gassose nello spazio di testa, un abbassamento dello stantuffo comporta la diminuzione del
volume gassoso, l’aumento della sua pressione sulla superficie del liquido e l’incremento del
numero di particelle che passa in acqua.
La relazione quantitativa tra pressione (parziale) del gas e sua solubilità è data dalla legge di
Henry: Sgas = kH ∙ pgas, dove kH è detta costante di Henry ed è definita per una precisa coppia gas-
solvente ad una data temperatura.
Si chiama solvatazione il meccanismo attraverso il quale
avviene la dissoluzione di diverse sostanze (soprattutto
ioniche).
Ogni ione di soluto è circondato da molecole di solvente
opportunamente orientate nei confronti della carica dello
ione. Quando gli ioni del soluto vengono circondati dalle
molecole del solvente, si dice che tali ioni sono solvatati.
La concentrazione è la quantità relativa di una sostanza presente in una miscela, quindi è una
proprietà intensiva (non dipende dalla quantità di miscela presente). Indicando con i il componente
della soluzione di cui si vuole esprimere la concentrazione, si può ricorrere alle seguenti
espressioni quantitative della concentrazione:
𝑛
- MOLARITÀ: 𝑀𝑖 = 𝑉 𝑖 , con analisi dimensionale [M o mol L -1 ]
𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
𝑛𝑖
- MOLARITÀ: 𝑚𝑖 = 𝑉𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒
, con analisi dimensionale [M o mol Kg-1 ]
𝑛
- FRAZIONE MOLARE: 𝜒𝑖 = 𝑛 𝑖 , dove ntot è la sommatoria delle moli di tutti i componenti
𝑡𝑜𝑡
(soluti e solventi) della soluzione.
𝑚𝑖
- PERCETUALE IN MASSA: %𝑤𝑡𝑖 = 𝑚 100, , con le masse espresse nella stessa
𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
unità di misura.
𝑉𝑖
- PERCETUALE IN VOLUME: %𝑉𝑖 = 𝑉 100, , con i volumi espressi nella stessa unità
𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
di misura.
𝑤 𝑚𝑖
- PERCETUALE IN MASSA/VOLUME: % 𝑉 (𝑖) = 𝑉 100, valida scegliendo come unità
𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒
di misura [g mL-1 o kg L-1]
È utile effettuare le seguenti precisazione: -> per soluzioni acquose diluite, molarità e molalità sono
quasi coincidenti (siccome 1 L d’acqua ha una massa di 1 kg).
Tutte le unità di concentrazione sono interconvertibili:

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- Per convertire un’unità basata sulle moli in un’unità basata sulla massa, si deve conoscere
la massa molare.
- Per convertire un’unità basata sulla massa in un’unità basata sul volume, si deve
conoscere la densità della soluzione.
- Quando la conversione coinvolge la molalità, si ricordi che essa implica la quantità di
solvente, mentre tutte le altre unità di concentrazione fanno riferimento a denominatore alla
quantità di soluzione.
Attenzione: le masse sono sempre additive ma i volumi a volte no (per colpa delle forze
intermolecolari).
PROPRIETÀ COLLIGATIVE
A causa della presenza di particelle di soluto, le proprietà fisiche della soluzione risultano essere
diverse da quelle del solvente puro. Inoltre, quattro proprietà particolari sono influenzate dal
numero di particelle di soluto, e non dalla loro identità chimica. Queste proprietà sono dette
proprietà colligative, e sono:
- abbassamento della tensione di vapore;
- innalzamento del punto di ebollizione
- abbassamento del punto di congelamento
- osmosi (pressione osmotica)
TENSIONE DI VAPORE
La tensione di vapore di una soluzione è sempre più bassa della tensione di vapore del solvente
puro. In effetti, François-Marie Raoult dimostrò che la tensione di vapore di una soluzione è
direttamente proporzionale alla frazione molare del solvente χi .
Il termine di proporzionalità è la tensione di vapore del solvente puro 𝒑𝒊𝒐.
Legge di Raoult (generale): 𝒑𝒊 = 𝒑𝒊𝒐 ∙ 𝝌𝒊
Questa espressione vale solo per soluzioni ideali (anche dette di Raoult) per le quali:
- la soluzione è diluita
- la tensione di vapore del soluto è trascurabile rispetto a quella del solvente
- il soluto non presenta fenomeni associativi o dissociativi
- il soluto non reagisce con il solvente
La legge di Raoult può anche essere scritta come:
𝑜
𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 = (1 − 𝜒𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 ) ∙ 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒
Quindi, svolgendo i conti:
𝑜 𝑜
𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 = 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 − (𝜒𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 ∙ 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 )
𝑜
Ponendo ∆𝑝 = 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 − 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 , cioè il concetto di abbassamento della tensione di vapore, si
ha:
𝑜
∆𝑝 = 𝜒𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 ∙ 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒
Per la risoluzione dei problemi di calcolo, questa equazione è spesso esplicitabile come:
𝑜
𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 − 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑛𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜
𝑜 =
𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑛𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 + 𝑛𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒

63
La variazione della tensione di vapore può essere spiegata dal
fatto che l’aggiunta di un soluto porta alla formazione di
interazione soluto-solvente, che rallentano l’evaporazione delle
molecole di solvente, abbassando così la tensione di vapore.
In presenza di un soluto vengono alterati i confini di fase (la
tensione di vapore si abbassa).
Questo comporta, a parità di pressione, un innalzamento della
temperatura di ebollizione e un abbassamento della temperatura
di congelamento.

EFFETTI SU EBOLLIZIONE E CONGELAMENTO


- Innalzamento ebullioscopico: la temperatura di ebollizione di una soluzione è più alta di
quella del solvente puro. Ricordando che la temperatura di ebollizione di un liquido è la
temperatura a cui la sua pressione di vapore eguaglia la pressione esterna, e considerando
che la tensione di vapore di una soluzione è inferiore a quella del solvente puro, ne
consegue che alla temperatura di ebollizione del solvente puro la soluzione non bolle
ancora.
In termini quantitativi, si ha che: ∆𝐓𝐞𝐛 = 𝐊𝐞𝐛 ∙ 𝐦, dove ∆Teb > 0 è l’innalzamento
ebullioscopico, Keb è la costante ebullioscopica riferita al solvente e m è la molalità della
soluzione.
Nei problemi di calcolo, la temperatura di ebollizione di una soluzione sarà quindi data da:
𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑇𝑒𝑏 = 𝑇𝑒𝑏 + ∆𝑇𝑒𝑏
- Abbassamento crioscopico: la temperatura di solidificazione di una soluzione è più bassa
di quella del solvente puro. Si ricordi, inoltre, che soltanto le molecole di solvente sono in
grado di solidificare. Anche questa proprietà delle soluzioni è una diretta conseguenza
dell’abbassamento della tensione di vapore della soluzione rispetto a quella del solvente
puro. In soluzione, le molecole di soluto interferiscono con le forze attrattive tre le molecole
di solvente, ostacolando la solidificazione di quest’ultime alla loro normale temperatura di
congelamento.
In termini quantitativi, si ha che: ∆𝐓𝐜𝐫 = 𝐊𝐜𝐫 ∙ 𝐦, dove ∆Tcr > 0 è l’abbassamento crioscopico,
Kcr è la costante crioscopica riferita al solvente e m è la molalità della soluzione.
Nei problemi di calcolo, la temperatura di ebollizione di una soluzione sarà quindi data da:
𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑇𝑐𝑜𝑛𝑔 = 𝑇𝑐𝑜𝑛𝑔 + ∆𝑇𝑐𝑟
soluzione
È importante ricordare che il valore di ∆Tcr è privo di segno, mentre il valore di 𝑇cong
deve essere sempre riportato con il segno corretto (che è – nel caso di soluzioni acquose).

PRESSIONE OMEOSTATICA
Pressione osmotica: è una proprietà colligativa che si applica solo
alle soluzioni acquose. Quando due soluzioni a differente
concentrazione (oppure una soluzione e il solvente puro) sono
separate da una membrana semipermeabile (cioè che lascia
passare il solvente ma non il soluto), si ha
il processo di osmosi: consiste in un flusso
di solvente attraverso la membrana finché
le due soluzioni non avranno la stessa
concentrazione.

Se questo esperimento è condotto in un tubo a forma di U, ne risulta che


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l’altezza del liquido dal lato della soluzione inizialmente più concentrata sale, mentre quella della
soluzione meno concentrata scende.
La differenza di pressione all’equilibrio è detta pressione osmotica (π): è la pressione applicata
necessaria per impedire il movimento netto di acqua tra due soluzioni a diversa concentrazione. Lo
stesso esperimento può essere condotto ponendo una soluzione contro il solvente puro.
In termini quantitativi si ha che:
𝜋 ∙ 𝑉𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 = 𝑛𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 ∙ 𝑅 ∙ 𝑇
oppure
𝜋 =𝑀∙𝑅∙𝑇
Dove M è la molarità della soluzione.
SOLUZIONE DI ELETROLITI
I soluti che possono essere presenti nelle soluzioni possono, nella realtà, essere divisi in 3
categorie:
- Non elettroliti: i soluti non danno dissociazione ionica, e le soluzioni risultanti non
conducono corrente elettrica. Ne sono esempi molti composti organici.
- Elettroliti forti: il soluto si dissocia completamente in cationi ed anioni, e la soluzione
risultante conduce corrente elettrica di grande intensità. Ne sono esempi i sali solubili in
acqua, gli acidi forti e le basi forti.
- Elettroliti deboli: il soluto si dissocia solo parzialmente in cationi ed anioni, e la soluzione
risultante conduce corrente elettrica di piccola intensità. Ne sono esempi acidi deboli e basi
deboli.
Consideriamo le proprietà colligative dei soluti elettroliti:
La formula del soluto fornisce intrinsecamente il numero di particelle. Ad esempio, ci si aspetta
che, a parità di concentrazione, una soluzione di NaCl abbia un innalzamento ebullioscopico
doppio rispetto ad una di glucosio; infatti, NaCl si dissocia in 2 particelle, il glucosio rimane
indissociato.
Occorre quindi introdurre, nel caso di soluzioni di elettroliti, un fattore moltiplicativo all’interno delle
equazioni che descrivono le proprietà colligative.
Jacobus Hendricus Van’t Hoff propose un’equazione per calcolare il numero di particelle che si
liberano a partire da un soluto: i = 1 + α∙(z – 1), definendo:
- i: coefficiente di Van’t Hoff, cioè il numero di particelle che si liberano da un’unità di
soluto.
- α: grado di dissociazione, definito come il rapporto tra le moli di soluto dissociate e quelle
𝑛
iniziali, ossia 𝛼 = 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑡𝑒 .
𝑛𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑖
Talvolta può essere espresso in %, ma nei calcoli va sempre utilizzato come numero da 0 a
1. Serve a distinguere elettroliti forti e deboli.
- z: il numero massimo di particelle che un soluto può liberare.
Ad esempio, da CaCl2 si liberano uno ione Ca2+ e due ioni Cl- , quindi z = 3
Le equazioni relative alle proprietà colligative diventano quindi:
𝑜
- Abbassamento della tensione di vapore: ∆𝑝 = 𝑖 ∙ 𝜒𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 ∙ 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 , esplicitabile negli
esercizi come
𝑜
𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 − 𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑛𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜
𝑜 =
𝑝𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑛𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑜 + 𝑛𝑠𝑜𝑙𝑣𝑒𝑛𝑡𝑒

- Innalzamento ebullioscopico: ∆𝐓𝐞𝐛 = 𝐢 ∙ 𝐊𝐞𝐛 ∙ 𝐦.


- Abbassamento crioscopico: ∆𝑻𝐜𝐫 = 𝐢 ∙ 𝑲𝐜𝐫 ∙ 𝐦
- Pressione osmotica: 𝛑 ∙ 𝐕𝐬𝐨𝐥𝐮𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 = 𝐢 ∙ 𝐧𝐬𝐨𝐥𝐮𝐭𝐨 ∙ 𝐑 ∙ 𝐓

65
A meno che non sia indicato diversamente, la dissociazione è completa (α = 1) per: sali, acidi forti
e basi forti.
COLLOIDI
Se si versa lentamente della sabbia fine in un bicchiere d’acqua, le particelle di sabbia restano
dapprima sospese nell’acqua, e poi si depositano lentamente sul fondo. Questo è un esempio di
sospensione, cioè una miscela eterogenea contenente particelle grandi a sufficienza per essere
visibili a occhio nudo e distinte dal liquido circostante.
È molto diversa rispetto alla soluzione (es: zucchero in acqua), dove la miscela è omogenea e le
particelle sono molecole individuali distribuite uniformemente in tutto il liquido.
Tra i due estremi (sospensioni e soluzioni) si situa un grande gruppo di miscele dette dispersioni
colloidali (o colloidi), in cui una sostanza dispersa (simile a un soluto) è distribuita in un mezzo
disperdente (simile a un solvente). Le particelle colloidali sono più grandi delle molecole prese
singolarmente, ma sufficientemente piccole per rimanere distribuite e non depositarsi
(sedimentare). Il loro diametro è di 1 nm – 1 µm, e possono essere macromolecole (es: proteine,
polimeri di sintesi,…) oppure aggregati di atomi, ioni o molecole.
Le particelle colloidali hanno un’enorme area superficiale totale in conseguenza delle loro piccole
dimensioni. Ciò comporta l’instaurarsi di un numero molto maggiore di interazioni, in grado di
esercitare una grande forza adesiva totale, che attrae altre particelle e da origine ad alcuni degli
impieghi pratici dei colloidi. I colloidi sono classificati secondo lo stato d’aggregazione della
sostanza dispersa (detta anche fase dispersa) e del mezzo disperdente (detto anche fase
continua):

La maggior parte dei colloidi è opalescente o opaca, ma alcuni sono trasparenti a occhio nudo.
Quando la luce attraversa un colloide, viene diffusa casualmente dalle particelle disperse perché le
loro dimensioni sono dell’ordine di grandezza della lunghezza d’onda della luce. Se osservato
lateralmente, il fascio di luce diffusa è visibilmente più largo di quello che attraversa ed esce da
una soluzione. Questo fenomeno di diffusione ( o scattering) della luce è noto come effetto
Tyndall.
Le particelle colloidali, osservate a un basso ingrandimento, presentano il fenomeno del moto
browniano, un movimento continuo in cui le particelle in sospensione in un fluido variano in modo
rapido e irregolare la loro velocità e direzione. Il moto browniano è causato dal fatto che le
particelle colloidali vengono spinte in varie direzioni dalle molecole del mezzo disperdente. Sono
questi urti il principale motivo che impedisce alle particelle colloidali di sedimentare.
In condizioni ordinarie, le particelle colloidali non si aggregano per sedimentare. Infatti, la loro
superficie ha una carica netta complessiva, di segno opposto rispetto a quella del mezzo
disperdente (es: le proteine in acqua espongono una carica + o – verso l’esterno, che è in grado di
interagire solo con l’acqua e non con altre proteine). Nonostante ciò, è comunque possibile
distruggere un colloide, ad esempio riscaldando: ciò fa sì che le particelle aumentino la loro
velocità e frequenza degli urti, con forza sufficiente per aggregarsi in particelle più pesanti che
sedimentano.
Alternativamente, si può procedere con l’aggiunta di un elettrolita, che introduce nel sistema ioni di
66
carica opposta in grado di neutralizzare le cariche superficiali delle particelle (che
sedimenteranno).
Tra gli esempi più noti di sistemi colloidali ci sono le micelle. Si tratta di aggregati colloidali di
molecole formati da un tensioattivo in soluzione, che esistono in equilibrio con le molecole o ioni
che concorrono a formare la micella stessa. Gli aggregati micellari si formano quando la
concentrazione del tensioattivo raggiunge un certo livello critico, denominato concentrazione
micellare critica (CMC).
Le strutture delle micelle possono avere diverse forme: sferiche, cilindriche, lamellari e discoidali.
Nei solventi polari in genere la parte idrofobica si orienta all’interno di una sfera, mentre la parte
idrofilica si orienta all’esterno. In solventi apolari l’orientamento è inverso ( si parla di micella
inversa). Ad esempio le micelle formate dai detersivi o dai saponi in soluzione acquosa inglobano
al loro interno lo sporco (grasso) favorendone la rimozione. Prodotti commerciali basati su acqua
micellare sono utilizzati in alcuni marchi dermatologici come detergenti per occhi e viso. Altro
importante uso riguarda il recupero terziario del petrolio.

67
La cinetica
LA VELOCITÀ DI REAZIONE
La cinetica chimica si occupa dello studio della velocità di una reazione e del suo meccanismo,
considera non solo lo stato iniziale e finale (reagenti e prodotti), ma anche gli stadi intermedi
(intermedi di reazione).
Dato un insieme di condizioni, ogni reazione ha la proprio velocità caratteristica:
H2(g) + F2(g) → 2HF (g) reazione molto veloce
3H2(g) + N2(g) → 2NH3(g) reazione molto lenta
Per poter reagire le particelle devono urtarsi.
Diversi fattori influenzano la velocità di reazione:
- Maggiore è la concentrazione dei reagenti, maggiore sarà la velocità di reazione:
• Una maggiore concentrazione di particelle permette un maggior numero di collisioni
• Velocità di reazione ∝ Frequenza urti ∝ Concentrazione
- Lo stato fisico dei reagenti influenza la velocità di reazione:
• Le molecole devono mescolarsi per urtarsi.
- Maggiore è la temperatura, maggiore sarà la velocità di reazione:
• A temperature più elevate le particelle hanno più energia e collidono più frequentemente
ed efficacemente
• Velocità di reazione ∝ Energia urti ∝ Temperatura
Avvicinamento all’equilibrio nel sistema N2O4–NO2
La pressione parziale di N2O4 parte da 1,00 atm, inizialmente scende bruscamente e alla fine si
livella al valore di equilibrio che è 0,22 atm.
Nel frattempo, la pressione parziale di NO2 sale da zero al suo valore di equilibrio, 1,56 atm.
La velocità di una reazione è riferita al tempo che i reagenti impiegano per trasformarsi e
raggiungere lo stato di equilibrio:
𝑣𝑎𝑟𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑉𝑒𝑙𝑜𝑐𝑖𝑡à =
𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑣𝑎𝑙𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜
La velocità di una reazione è riferita alla
variazione nel tempo della concentrazione di
una qualunque specie del sistema chimico.
La velocità media della reazione in un certo
intervallo di tempo può essere espressa in
termini di variazione di concentrazione in
quell’intervallo di tempo.
∆[𝑁2 𝑂4 ]
𝑣=−
∆𝑡
Le parentesi quadre indicano la concentrazione
molare (mol/L).
Si usa il segno negativo perché la
concentrazione di N2O4 diminuisce ma la
velocità deve essere positiva.

La velocità di reazione diminuisce nel corso della reazione perché diminuisce il numero di molecole
di reagenti e quindi diminuisce il numero di urti.
Il calcolo della velocità media di reazione non fornisce la variazione della concentrazione ad ogni
istante.
Si può calcolare la velocità di reazione su intervalli più piccoli, si parla allora di velocità istantanea
di reazione.
In questo caso la variazione istantanea di [NO2] ad un certo tempo t è positiva (aumento della

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concentrazione):
𝑑[𝑁𝑂2 ]
𝑣𝑁𝑂2 (𝑡) =
𝑑𝑡
In questa reazione però [NO2] aumenta a una velocità doppia rispetto alla diminuzione di N2O4 .
In effetti, data la stechiometria della reazione, si ha:
1
∆[𝑁2 𝑂4 ] = [𝑁𝑂2 ]
2
La velocità di reazione v deve essere uguale sia espressa come trasformazione dei reagenti o dei
prodotti, quindi:
1 ∆[𝑁𝑂2 ] ∆[𝑁2 𝑂4 ]
𝑣= =−
2 ∆𝑡 ∆𝑡
Consideriamo ora la reazione C2H4(g) + O3(g) ⇋
C2H4O(g) + O2(g)
Si può monitorare l’evoluzione della concentrazione
di O3 nel tempo e tracciare il relativo grafico della
concentrazione in funzione del tempo.
La pendenza della retta che congiunge due punti dà
la velocità media di reazione in quell’intervallo di
tempo.
La pendenza della retta tangente in un punto da la
velocità istantanea in quell’istante.
La velocità iniziale di reazione, corrispondente
all’istante in cui i reagenti vengono
mescolati, corrisponde alla
pendenza della tangente alla curva
in t=0.
Se ora invece monitoriamo l’evoluzione delle concentrazioni di un reagente (C2H4)
e un prodotto (O2) nel tempo, osserviamo che:
- [O2] aumenta alla stessa velocità con cui diminuisce [C2H4].
- La velocità di reazione in funzione della concentrazione dei prodotti è
l’opposto di quella in funzione della concentrazione dei reagenti:

∆[𝐶2 𝐻4 ] ∆[𝑂3 ] ∆[𝐶2 𝐻4 𝑂] ∆[𝑂2 ]


𝑣=− =− = =
∆𝑡 ∆𝑡 ∆𝑡 ∆𝑡
Equilibrio dinamico: ogni reagente o prodotto si trasforma e si riforma alla stessa velocità: v = 0.
Quando la reazione non è all’equilibrio uno dei due processi predomina: v≠ 0.
In generale, per la reazione: aA + bB ⇋ cC + dD, in cui a, b, c e d sono i coefficienti stechiometrici
dell’equazione bilanciata, la velocità è espressa come:
1 ∆[𝐴] 1 ∆[𝐵] 1 ∆[𝐶] 1 ∆[𝐷]
𝑣=− =− = =
𝑎 ∆𝑡 𝑏 ∆𝑡 𝑐 ∆𝑡 𝑑 ∆𝑡
-1 -1
La velocità (mol L s ) è espressa dalla variazione della concentrazione rispetto al tempo di una
qualunque delle specie che partecipano alla reazione.
Si osserva sperimentalmente che la velocità istantanea iniziale (t=0) di una reazione è funzione
della concentrazione dei reagenti.
LEGGE CINETICA
Data una reazione:
𝑎𝐴 + 𝑏𝐵 ⇌ 𝑐𝐶
a temperatura costante si ha che:
𝑣 = 𝑘 ∙ [𝐴]𝑥 ∙ [𝐵] 𝑦 𝒍𝒆𝒈𝒈𝒆 𝒄𝒊𝒏𝒆𝒕𝒊𝒄𝒂 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒓𝒆𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆

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k: costante di velocità (25°C, reagenti 1M), dimensioni, per una reazione di ordine n: (tempo)-1
(concentrazione)n-1;
x, y: ordine della reazione rispetto ad A e B, rispettivamente;
x+y: ordine complessivo della reazione
k, x e y vanno dedotti sperimentalmente per ogni reazione
Notiamo che se nell'equazione precedente si ha [A]=[B]=1 risulta v=k quindi k rappresenta la
velocità di reazione nel caso in cui le specie reagenti siano a concentrazione unitaria (1M) per
questo k viene anche chiamata velocità specifica di reazione.
ORDINE DI REAZIONE
Ogni reazione ha un ordine parziale ‘’rispetto a’’ o ‘’in’’ ogni reagente.
Per la semplice reazione: A → prodotti:
- Se la velocità raddoppia quando [A] raddoppia, la velocità dipende da [A]1 e la reazione
è del primo ordine rispetto ad (in) A.
- Se la velocità quadruplica quando [A] raddoppia, la velocità dipende da [A]2 e la
reazione è di secondo ordine rispetto ad (in) A.
- Se la velocità non cambia quando [A] raddoppia, la velocità non dipende da [A] (o
meglio dipende da [A]0), e la reazione è di ordine zero rispetto ad (in) A.
Consideriamo la reazione: 2NO(g) + 2H2(g) → N2(g) + 2H2O(g)
La legge cinetica di questa reazione è determinata sperimentalmente come : v = k∙[NO]2 ∙[H2]
Quindi questa reazione è del secondo ordine (x=2) rispetto a NO, del primo ordine rispetto a H2
(y=1) e del terzo ordine complessivo (x+y=3).
Notare che la reazione è del primo ordine rispetto ad H2 anche se il coefficiente stechiometrico per
H2 nell’equazione bilanciata è 2.
Gli ordini di reazione devono essere determinati sperimentalmente e non possono essere dedotti
dall’equazione di reazione.
REAZIONE DI PRIMO ORDINE:
Una legge cinetica integrata include il tempo come variabile. Si ottiene integrando l’espressione
della velocità di reazione rispetto al tempo.
Nelle reazioni del primo ordine la velocità di reazione dipende solo da un reagente:
𝐴→𝐵
𝑑[𝐴] 𝑑[𝐴]
𝑣=− = 𝑘 ∙ [𝐴] 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 = −𝑘 ∙ 𝑑𝑡
𝑑𝑡 [𝐴]
𝑡 𝑡
𝑑[𝐴]
∫ = −𝑘 ∫ 𝑑𝑡
0 [𝐴] 0

[ln[𝐴]]𝑡0 = 𝑘 ∙ [𝑡]𝑡0

ln[𝐴]𝑡 − ln[𝐴]0 = −𝑘 ∙ (𝑡 − 0)
[𝐴]
ln ( ) = −𝑘 ∙ 𝑡 𝑜𝑝𝑝𝑢𝑟𝑒 ln[𝐴] =
[𝐴]0
= −𝑘 ∙ 𝑡 + ln[𝐴]0 𝑐𝑜𝑛 𝑘 𝑖𝑛 𝑠 −1

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REAZIONE DEL SECONDO ORDINE CON UN SOLO REAGENTE:
Nelle reazioni del secondo ordine la velocità di reazione dipende dal quadrato della concentrazione
di un singolo reagente:
𝐴→𝐵
𝑑[𝐴] 𝑑[𝐴]
𝑣=− = 𝑘 ∙ [𝐴] 2 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 = −𝑘 ∙ 𝑑𝑡
𝑑𝑡 [𝐴] 2
𝑡 𝑡
𝑑[𝐴]
∫ = −𝑘 ∫ 𝑑𝑡
0 [𝐴] 2 0

1 1
− = −𝑘 ∙ 𝑡
[𝐴]0 [𝐴]
1 1
=𝑘∙𝑡+ 𝑐𝑜𝑛 𝑘 𝑖𝑛 𝑀−1 𝑠 −1
[𝐴] [𝐴]0

REAZIONE DI ORDINE ZERO:


La velocità di reazione per una reazione di ordine zero risulta essere indipendente dalla
concentrazione dei reagenti:
𝐴→𝐵
𝑑[𝐴]
𝑣=− = 𝑘 ∙ [𝐴] 0 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑑[𝐴] = −𝑘 ∙ 𝑑𝑡
𝑑𝑡
𝑡 𝑡
∫ 𝑑[𝐴] = −𝑘 ∫ 𝑑𝑡
0 0

[𝐴] − [𝐴]0 = −𝑘 ∙ 𝑡
[𝐴] = [𝐴]0 − 𝑘 ∙ 𝑡 𝑐𝑜𝑛 𝑘 𝑖𝑛 𝑀𝑠 −1

TEMPO DI DIMEZZAMENTO
Il tempo di dimezzamento (t1/2) di una reazione è il tempo necessario affinché la concentrazione
di un reagente diventi la metà del suo valore iniziale.
Si può dimostrare che t1/2 non dipende dalla concentrazione iniziale per una reazione del primo
ordine:
[𝐴] 1 𝒍𝒏𝟐 𝟎, 𝟔𝟗𝟑
ln ( ) = −𝑘 ∙ 𝑡 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑙𝑛 ( ) = −𝑘 ∙ 𝑡1 𝑒 𝒕𝟏 = =
[𝐴]0 2 2 𝟐 𝒌 𝒌

Il tempo di dimezzamento di una reazione del primo ordine è una


costante.
Il decadimento radioattivo è un processo di primo ordine. Il tempo di
dimezzamento di un nucleo radioattivo è un utile indicatore della sua
stabilita.

71
EQUAZIONE DI ARRHENIUS
La dipendenza tra la costante di velocità k, l’energia di attivazione Ea e la temperatura T è
espressa dall’equazione di Arrhenius:
𝐸𝑎
𝑘 = 𝐴 ∙ 𝑒 −𝑅𝑇
A: fattore di frequenza dell’urto (numero di urti efficaci rispetto a quelli totali nell’unità di tempo)
caratteristico per ogni reazione;
R: costante universale dei gas (8,314 J/mol K);
T: temperatura assoluta in K.
Essendo T all’esponente, la velocità di una reazione è fortemente influenzata dalla temperatura. In
generale, la velocità delle reazioni aumenta con la temperatura.
In soluzione acquosa, la velocità di reazione è determinata dalla velocità con cui i soluti possono
muoversi per poter dare luogo a collisioni efficaci con altre molecole di soluto.
CINETICA DI UNA REAZIONE
Una trasformazione chimica si produce di seguito a
collisioni tra molecole (teoria delle collisioni), quindi per
l'attuarsi della reazione è necessario che le molecole di
reagenti si urtino e che l'urto sia efficace.
La velocità dipende dalla concentrazione: maggiore è la
concentrazione, maggiore è il numero di urti.
La velocità dipende dalla temperatura.
Le molecole devono collidere con energia opportuna:
solo alcuni urti sono efficaci.
Le molecole devono collider secondo orientazione
adeguata: solo alcuni urti sono efficaci.
Il numero di collisioni dipende dal prodotto del numero di
particelle reagenti, non dalla loro somma.
Nella legge cinetica in effetti compare il prodotto delle concentrazioni, non la loro somma.
Condizione I:
Effetti sterici: affinché la collisione possa dar luogo a un prodotto (urto efficace) è
necessario che le particelle collidenti abbiano una giusta orientazione. Solo una frazione
molto piccola di collisioni origina una reazione.
Nella reazione NO (g) + NO3 (g) → 2 NO2 (g) soltanto uno dei cinque orientamenti indicati
per l’urto tra molecole di NO e NO3 ha l’orientamento corretto per formare il prodotto.
Condizione II:
Energia di attivazione (o formazione del complesso di attivazione): Affinché un urto sia
efficace, non basta che le molecole reagenti abbiano la corretta orientazione relativa, ma
deve anche avvenire con un’energia adeguata, detta energia di attivazione (Ea).
ENERGIA DI ATTIVAZIONE:
Affinché le collisioni tra le particelle siano efficaci (portino a un atto reattivo), deve essere superato
un valore soglia dell’energia:
Ea: barriera di energia da superare per avere una trasformazione chimica
Tanto più elevato è il valore dell’energia di attivazione, tanto minore è la velocità di reazione.
Minore è l’energia di attivazione, più veloce è la reazione
Minore Ea -> Maggiore f -> Maggiore k -> Maggiore velocità
f: frazione di urti efficaci
La barriera energetica di attivazione Ea è un ostacolo al cammino della reazione, che non influisce
sulle quantità trasformate, ma solo sul tempo della trasformazione.
La velocità di reazione aumenta all’aumentare della temperatura in modo esponenziale.
72
Un aumento della temperatura causa un aumento
dell’energia cinetica delle particelle. Le collisioni diventano
più frequenti e la velocità di reazione aumenta.
A temperatura maggiore, la frazione di collisioni con
energia uguale o maggiore di Ea aumenta e la velocità di
reazione aumenta.
𝐸𝑎
𝑓 = 𝑒 −𝑅𝑇
I valori di Ea e T influenzano la frazione di urti che sono
abbastanza energetici per far avvenire la reazione.
STATO DI TRANSIZIONE
Un urto efficace tra particelle porta alla formazione di uno stato di transizione o complesso
attivato.
Lo stato di transizione è una specie instabile con legami parziali. È una specie transiente tra
reagente e prodotti (lo stato di transizione non è un prodotto isolabile).
Lo stato di transizione si trova ad un massimo di energia potenziale.
L’energia di attivazione è l’energia necessaria per
formare lo stato di transizione.
L’Ea dipende dalla particolare reazione considerata.
CO(g) + NO2(g) → CO2(g) + NO(g)
O=N-O + C≡O → O=N-O-C≡O → O=N + O-C=O
- Stato iniziale (a)
- Formazione di legami deboli (Van Der Waals) (b)
- Complesso attivato (c): Stato intermedio, la
reazione può procedere sia verso destra (prodotti)
che verso sinistra (reagenti)
- Stato finale (d)
Il cammino di reazione rappresenta le distanze interatomiche (N-O e C-O). L’Ea è la differenza tra
l’Epot del complesso attivato (energia critica) e l’energia molecolare media dei reagenti.
NB: Al complesso attivato NON può essere associato una specie chimica.
URTI E STADIO LIMITANTE
Affinché una reazione avvenga è necessario che i reagenti si urtino.
Un urto tra due particelle è probabile, mentre uno tra tre o più particelle molto meno.
Quindi le reazioni in cui compaiono più di tre reagenti devono potersi ‘’scomporre’’ in una
sequenza di stadi elementari, in cui al massimo sono coinvolte tre particelle.
Infatti, dobbiamo pensare alla formazione di prodotti intermedi che hanno vita molto breve e si
trasformano immediatamente in altri prodotti.
𝐼𝐶𝑙 + 𝐻2 → 𝐻𝐼 + 𝐻𝐶𝑙
2𝐼𝐶𝑙 + 𝐻2 → 2𝐻𝐶𝑙 + 𝐼2 {
𝐼𝐶𝑙 + 𝐻𝐼 → 𝐻𝐶𝑙 + 𝐼2
Quindi la reazione iniziale può essere vista come la somma dei due stadi.
Ogni stadio avrà una certa velocità: lo stadio più lento determina la velocità della reazione globale.
È detto stadio determinante (o stadio limitante).

73
MECCANISMI DI REAZIONE
Il meccanismo di una reazione è la sequenza di singoli stadi di reazione la cui somma da la
reazione complessiva.
I singoli stadi del meccanismo di reazione si chiamano stadi (o reazioni) elementari: ognuno di
essi descrive un singolo evento molecolare.
Ogni stadio elementare è caratterizzato dalla sua molecolarità, il numero di particelle di reagente
coinvolto in quello stadio.
La legge cinetica per uno stadio elementare può essere dedotta dalla stechiometria della reazione:
per uno stadio elementare l’ordine di reazione è uguale alla stechiometria.

Un meccanismo valido deve soddisfare tre criteri:


- La somma degli stadi elementari deve dare l’equazione complessiva;
- Gli stadi elementari devono essere fisicamente e chimicamente
- Il meccanismo deve essere correlato con la legge cinetica sperimentale.
Ordine di reazione dell’equazione globale = Ordine di reazione stadio limitante
H2(g) + 2ICl(g) ⇋ I2(g) + 2HCl(g) (o.r. = 2)
2
𝑣 = 𝑘 ∙ [𝐻2 ] ∙ [𝐼𝐶𝑙] sperimentalmente 𝑣 = 𝑘 ∙ [𝐻2 ] ∙ [𝐼𝐶𝑙]
Meccanismo di reazione:
I) H2 + ICl ⇋ HI + HCl stadio lento (o.r. = 2)
II) HI + ICl ⇋ I2 + HCl stadio veloce
H2(g) + 2ICl(g) ⇋ I2(g) + 2HCl(g)
INCREMENTARE LA VELOCITÀ DI REAZIONE:
Per aumentare la velocità di reazione si può:
- aumentare la temperatura
- aumentare la concentrazione dei reagenti (se o.r. ≠ 0)
- abbassare la barriera di attivazione (Ea) → uso di catalizzatori
Berzelius per primo definì un catalizzatore come una sostanza capace di ridurre l’energia di
attivazione aumentando la velocità di reazione; è presente all’inizio del processo e si presenta
inalterato alla fine di esso. Un catalizzatore non modifica le condizioni di equilibrio.
CATALIZZATORI:
I catalizzatori sono detti:
- Omogenei se sono presenti nella stessa fase dei reagenti e dei prodotti
- Eterogenei se sono presenti in fase differente da reagenti e prodotti

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CATALISI OMOGENEA

CATALISI ETEROGENEA

GLI ENZIMI:
L’enzima è un catalizzatore biologico eterogeneo formato da proteine. Al suo interno contiene
un sito attivo con una geometria adeguata ad ospitare solo le molecole che devono reagire.
Orienta i reagenti in modo da favorire la reazione e l’ottenimento dei prodotti desiderati.

75
L’equilibrio chimico
È opportuno distinguere tra:
- Equilibrio chimico: si riferisce all’entità di una reazione, cioè la concentrazione di un
reagente/prodotto dopo un tempo illimitato o quando non avvengono ulteriori variazioni
quantitative.
- Cinetica chimica: si applica alla velocità di una reazione, ovvero la variazione della
concentrazione di una specie nell’unità di tempo.
La maggior parte delle reazioni si arresta prima di giungere a compimento (conversione del 100%
del reagente limitante): si tratta di reazioni reversibili, e sono caratterizzate dal fatto che non è
possibile solo la reazione diretta (dai reagenti ai prodotti), ma è possibile anche la reazione
inversa. La reversibilità di una reazione chimica è indicata con il simbolo ⇋ posto tra primo e
secondo membro dell’equazione.
L’equilibrio chimico permette di valutare quali saranno le concentrazioni di reagenti e prodotti
all’equilibrio.
Innumerevoli esperimenti con sistemi chimici hanno mostrato che, in uno stato di equilibrio, le
concentrazioni dei reagenti e dei prodotti non variano più nel tempo. La reazione però sta
continuando ad avvenire nei due sensi e la velocità della reazione diretta è uguale a quella della
reazione inversa. velocitàdiretta = velocitàinversa.

Quando, nel corso di una reazione chimica, la concentrazione dei reagenti e quella dei prodotti
rimangono costanti nel tempo, si è stabilito un equilibrio chimico.
All’equilibrio, le concentrazioni dei reagenti e dei prodotti non variano più nel tempo:
Reagenti ⇋ Prodotti (dove ⇋ è il simbolo di una reazione reversibile)

Ad esempio consideriamo la reazione N2O4 (g; incolore) ⇋ 2NO2 (g; colorato) e la osserviamo dal
punto di vista:
- Macroscopico: se si introduce N2O4 liquido in una bottiglia, la si tappa e si scalda a 100°C il
sistema, avviene immediatamente una reazione perché il gas che si forma (Teb = 21°C)

76
comincia ad assumere un colore che diventa sempre più scuro; dopo un po’ di tempo, non
si osserva più alcuna variazione cromatica.
- Molecolare: dopo essere diventate gassose, le molecole di N2O4 si muovono ad alta
velocità nel recipiente ed alcune di esse si decompongono a NO2. Dopo un po’ di tempo il
numero di molecole di NO2 è aumentato notevolmente, tanto che i loro urti portano alla
formazione di N2O4 . Si giunge ad un punto in cui la decomposizione delle molecole di N2O4
avviene alla stessa velocità alla quale le molecole di NO2 si combinano per formare N2O4.
Qui, il sistema ha raggiunto l’equilibrio.
All’equilibrio, le concentrazioni dei reagenti e dei prodotti non variano più nel tempo perché le
velocità delle reazioni diretta e inversa sono uguali.
Non si osserva una trasformazione netta (macroscopica) perché le trasformazioni in un senso
sono bilanciate da quelle nel verso opposto.
L’equilibrio chimico è un equilibrio dinamico (le reazioni continuano ad avvenire!!).
Le concentrazioni di reagenti e prodotti non variano più, quindi il rapporto delle concentrazioni
(elevate ai rispettivi coefficienti stechiometrici) cessa di variare.
LA COSTANTE DI EQUILIBRIO
Consideriamo la reazione N2O4(g) ⇋ 2NO2(g)
Si tratta di una reazione elementare, quindi seguendo la teoria cinetica possiamo scrivere:
vdir = kdir [N2O4] per la reazione diretta
vinv = kinv [NO2]2 per la reazione inversa
Ad equilibrio raggiunto abbiamo, per definizione dell’equilibrio dinamico, vdir = vinv e quindi:
kdir [N2O4]eq = kinv [NO2]eq 2
𝑘𝑑𝑖𝑟 [𝑁𝑂2 ]2𝑒𝑞
=
𝑘𝑖𝑛𝑣 [𝑁2 𝑂4 ]𝑒𝑞

Il rapporto delle costanti cinetiche genera una nuova costante, detta costante di equilibrio
(definita ad una certa T):
𝑘𝑑𝑖𝑟 [𝑁𝑂2 ]2𝑒𝑞
𝐾𝑐 = =
𝑘𝑖𝑛𝑣 [𝑁2 𝑂4 ]𝑒𝑞

La costante di equilibrio Kc è il rapporto tra la concentrazione del prodotto e la concentrazione del


reagente all’equilibrio, elevate ai rispettivi coefficienti
stechiometrici, ed è definita ad una certa T.
Il valore di K è un indice di quanto avanza una
reazione verso il prodotto a una data temperatura.
- Kc piccola (<<1): se la costante di equilibrio è
piccola, allora significa che la reazione è spostata a
sinistra (o verso il reagente), cioè ci sono
pochissimi prodotti.
- Kc grande (>>1): reazione spostata a destra (o
verso il prodotto), cioè forma prodotti quasi fino a
esaurimento dei reagenti (per K→ ∞ la reazione può
essere considerata come completa).
- Kc intermedia: all’equilibrio sono presenti sia i
reagenti sia i prodotti in quantità non trascurabili.

77
LEGGE DI AZIONE DI MASSA
Ad una certa T, un sistema chiuso raggiunge uno stato in cui un particolare rapporto tra
concentrazioni dei reagenti e dei prodotti è costante (legge di azione di massa).
Si definisce quoziente di reazione (Q) il rapporto tra le concentrazioni di reagenti e prodotti elevati
ai rispettivi coefficienti stechiometrici in qualsiasi momenti della reazione.
All’equilibrio Q = K
Per un particolare sistema e una particolare temperatura, si raggiunge lo stesso stato di equilibrio
indipendentemente da come è fatta svolgere la reazione.
Il valore di Q indica se il sistema ha raggiunto l’equilibrio, quanto dista da esso se non l’ha
raggiunto, e in quale verso sta variando per raggiungere l’equilibrio.
I valori di Q e Kc possono essere espressi sia con che senza unità di misura. Tuttavia, si tende
generalmente ad omettere la loro unità di misura per due ragioni. La prima è che questa dipende
esclusivamente dai coefficienti stechiometrici della reazione (es: la Kc di A ⇋ 3B sarà espressa in
M2, mentre quella di 2A ⇋ B sarà espressa in M-1). Il secondo motivo è che la rigorosa definizione
termodinamica di costante di equilibrio prevede l’uso dei termini di attività anziché di quelli di
concentrazione.
Le attività sono le concentrazioni efficaci rispetto ad una concentrazione standard; ne consegue
che il termine a numeratore e a denominatore della Kc è già intrinsecamente adimensionale. Le
attività scaturiscono dal fatto che, in un sistema complesso, le forze intermolecolari impediscono a
un numero più o meno elevato di particelle di essere indipendenti tra loro e, pertanto, non tutte le
particelle possono partecipare a un dato fenomeno (es: un equilibrio); ne consegue che la
concentrazione attiva (attività) delle particelle è minore della concentrazione iniziale.
QUOZIENTE DI REAZIONE
Per un particolare sistema e una particolare temperatura, è raggiunto lo stesso stato di equilibrio
indipendentemente da come è fatta svolgere la reazione.
[𝑁𝑂2 ]2
𝑄=
[𝑁2 𝑂4 ]
Anche se i termini di concentrazione dei reagenti e dei prodotti in Q
rimangono gli stessi, i valori numerici di questi termini variano durante la
reazione quindi il valore numerico di Q cambia.
All’equilibrio le concentrazioni non variano più, quindi Q non varia più, ha
raggiunto il valore di equilibrio (Q = K).
Diversi svolgimenti della reazione (reagente puro, prodotto puro o miscela):
- Il valore di Q varia ampiamente, ma il valore di K è sempre lo stesso;
- Le concentrazioni di equilibrio individuali sono diverse, ma il loro rapporto è costante.
Per la generica reazione aA + bB ⇋ cC + dD
- Q è un rapporto tra i termini di concentrazione dei prodotti moltiplicati tra loro e i termini di
concentrazione dei reagenti moltiplicati tra loro, ciascuno elevato a una potenza pari al suo
coefficiente stechiometrico.
- Se si usano le concentrazioni molari:
[𝐶]𝑐 [𝐷]𝑑
𝑄𝑐 =
[𝐴]𝑎 [𝐵]𝑏
- Analogamente per la Kc (costante di equilibrio basata sulle concentrazioni), utilizzando
le concentrazioni in condizioni di equilibrio.
- Per scrivere il quoziente di reazione per qualsiasi reazione si parte dall’equazione
bilanciata (esattamente com’è scritta).
- Se una reazione complessiva è la somma di due o più reazioni si ha:
𝑄𝑐 (𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑜) = 𝑄1 ∙ 𝑄2 ∙ 𝑄3 …

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𝐾𝑐 (𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑜) = 𝐾1 ∙ 𝐾2 ∙ 𝐾3 …
(Questo dimostra perché l’espressione del quoziente di reazione si basa direttamente
sull’equazione bilanciata, anche se la reazione complessiva avviene in più stadi)
- La relazione di Q e K rispetto alle reazioni diretta ed inversa è la seguente (conoscendo
l’una possiamo ricavare l’altra:
1 1
𝑄𝑐 = 𝑒 𝐾𝑐 =
𝑄𝑐 (𝑖𝑛𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎) 𝐾𝑐 (𝑖𝑛𝑣𝑒𝑟𝑠𝑎)
- Se i coefficiente di una reazione bilanciata sono moltiplicati per un fattore comune, n:
𝑛

[𝐶]𝑐 [𝐷]𝑑
𝑄 = 𝑄𝑐 = ( 𝑎 𝑏 )
[𝐴] [𝐵]

EQUILIBRIO ETEROGENEO
Quanto visto finora vale per equilibri omogenei, cioè quando reagenti e prodotti sono presenti in
un’unica fase.
Quando invece reagenti e prodotti si trovano in fasi diverse, l’equilibrio si dice eterogeneo.
Un solido o un liquido puro hanno sempre la stessa concentrazione, lo stesso numero di moli per
litro di solido o liquido.
Le espressioni di Q e K includono solo le specie la cui concentrazione cambia mentre la reazione
procede verso l’equilibrio.
Quindi per gli equilibri eterogenei, la costante di equilibrio dipende solo dalle specie presenti in
fase gassosa.

Kc E Kp
Per una reazione tra reagenti gassosi, K può essere espressa in termini di pressioni parziali
anziché di molarità (la pressione parziale è direttamente proporzionale alla concentrazione molare)
Per un equilibrio generico: aA + bB ⇋ cC + dD
𝑝𝐶 𝑐 𝑝𝐷 𝑑
[𝐶]𝑐 [𝐷]𝑑 (𝑅𝑇) (𝑅𝑇) 𝑝𝐶𝑐 ∙ 𝑝𝐷𝑑 1 (𝑐+𝑑)−(𝑎+𝑏)
𝐾𝑐 = = = ∙ ( )
[𝐴]𝑎 [𝐵]𝑏 𝑝𝐴 𝑎 𝑝𝐵 𝑏 𝑝𝐴𝑎 ∙ 𝑝𝐵𝑏 𝑅𝑇
(𝑅𝑇) (𝑅𝑇)

𝐾𝑐 = 𝐾𝑃 ∙ (𝑅𝑇)(𝑐+𝑑)−(𝑎+𝑏)

𝑲𝒄 = 𝑲𝑷 ∙ (𝑹𝑻)−∆𝒗

𝑐𝑜𝑛 ∆𝑣 = (𝑐 + 𝑑) − (𝑎 + 𝑏) = ∑ 𝑛𝑝𝑟𝑜𝑑 − ∑ 𝑛𝑟𝑒𝑎𝑔

𝑝𝐶𝑐 ∙ 𝑝𝐷𝑑
𝐾𝑝 =
𝑝𝐴𝑎 ∙ 𝑝𝐵𝑏

79
DIREZIONE DI UNA REAZIONE
Si supponga di iniziare una reazione in presenza di reagenti e prodotti e di conoscere la costante
di equilibrio alla temperatura della reazione. Occorre determinare, in qualsiasi istante, se
l’equilibrio è stato raggiunto o, in caso contrario, conoscere in quale verso sta procedendo la
reazione. A tal proposito, diventa utile confrontare Q (che può variare) e K (che invece è costante):
- Q < K: significa che denominatore (i reagenti) di Q è grande rispetto al numeratore (i
prodotti). Ne consegue che, per raggiungere
l’equilibrio, la reazione procederà verso destra
(verso i prodotti).
- Q > K: significa che il denominatore (i reagenti)
di Q è piccolo rispetto al numeratore (i prodotti).
Ne consegue che , per raggiungere l’equilibrio,
la reazione procederà verso sinistra (verso i
reagenti).
- Q = K: questa situazione esiste soltanto quando
le concentrazioni (o le pressioni) di reagenti e prodotti hanno raggiunto i loro valori di
equilibrio. La reazione continua ad avvenire in entrambi i sensi e alla stessa velocità.
PROBLEMI SULL’EQUILIBRIO
Se le quantità di sostanze all’equilibrio sono note, si sostituiscono nell’espressione di Kc e se ne
calcola il valore.
Se solo alcune quantità di sostanze all’equilibrio sono note, si usa una tabella di reazione (o
schema IVE, Inizio-Variazione-Equilibrio) per calcolare le altre che poi si sostituiscono
nell’espressione di Kc.
Una tabella di reazione mostra:
- l’equazione bilanciata;
- le quantità iniziali di reagenti e prodotti;
- le variazioni di queste quantità durante la reazione;
- le quantità all’equilibrio.
Nella risoluzione dei problemi di equilibrio, occorre tenere presente questi punti:
- È importante la scelta iniziale circa l’operare mediante termini di molarità oppure di
pressione parziale.
- La percentuale in volume, per un gas perfetto, coincide numericamente con una
percentuale in moli.
- Lo schema IVE può essere costruito anche coi numeri di moli, ma al termine occorre
trasformarli o in pressioni parziali o in molarità per poter procedere con Kp o Kc. Se il
volume non è dato e non è ricavabile tramite calcolo, si è sicuramente nella situazione in
cui si ha lo stesso numero di molecole gassose nei reagenti e nei prodotti: in tal caso in
effetti, il calcolo della Kc avrebbe numeratore e denominatore divisi entrambi per la stessa
potenza di V (che quindi si semplificherebbe).
- Nei problemi in cui sono presenti, in partenza, sia reagenti che prodotti occorre considerare
che la reazione potrebbe anche procedere da destra verso sinistra. Si può procedere in
due modi: i) se è nota K, la si confronta con Q e si porranno i termini +x e –x nello schema
IVE per reagenti e prodotti, rispettivamente; ii) Si procede ad una risoluzione standard con
le schema IVE, ma l’esercizio potrà essere risolto solo con un valore negativo di x.
- Molti problemi non danno lo stato di aggregazione delle sostanze: ciò presuppone che lo
studente legga la temperatura a cui avviene la reazione e sappia identificare quali specie
siano gassose ( e vadano quindi considerate in un problema sugli equilibri).

80
PRINCIPIO DI LE CHATELIER
La caratteristica di un sistema in equilibrio è la sua capacità di ritornare all’equilibrio dopo che un
cambiamento delle condizioni lo ha fatto allontanare da quell’equilibrio.
Il principio di Le Chatelier afferma: quando un sistema chimico in equilibrio viene perturbato,
esso ritorna all’equilibrio viene perturbato, esso ritorna all’equilibrio subendo una reazione netta
che riduce l’effetto della perturbazione.
Col termine ‘’perturbare’’ si indica che è stata condotta un’azione sul sistema avente come effetto il
passaggio da Q = K a Q ≠ K. Tre perturbazioni comuni sono la variazione della concentrazione di
un reagente o prodotto, una variazione della pressione (o volume), una variazione della
temperatura.
Col termine ‘’reazione netta’’ si indica la direzione che il sistema reattivo assume verso destra o
verso sinistra al fine di ristabilire una nuova situazione di equilibrio. Le concentrazioni (o le
pressioni) variano in un verso che porta il sistema da Q ≠ K a Q = K..
1. Consideriamo l’effetto di una variazione della concentrazione: se, all’equilibrio, la
concentrazione di un reagente/prodotto aumenta, il sistema reagisce in modo da
consumarne una certa quantità, e viceversa.
In altre parole, il sistema reagisce in modo da consumare una certa quantità della sostanza
aggiunta o da produrre una certa quantità della sostanza rimossa.
Il sistema si adatta quindi variando le concentrazioni, pervenendo ad un nuovo stato di
equilibrio in cui il valore di Qc è uguale a quello del sistema in equilibrio da cui si era partiti.
Si tenga sempre presente che, a una data temperatura, Kc non varia mai.
Ovviamente, il reagente/prodotto considerato deve comparire in Q, quindi sono esclusi
dall’equilibrio liquidi e solidi puri (le loro concentrazioni sono costanti).

2. Consideriamo l’effetto di una variazione della pressione. Ad esempio, se il volume del


recipiente viene ridotto, la pressione delle specie gassose aumenta immediatamente.
Come risposta, il sistema reagisce riducendo il numero di molecole gassose, spostando la
reazione verso il membro con meno moli di gas.
Se la reazione è PCl3(g) + Cl2(g) ⇋ PCl5(g), un aumento della pressione comporta uno
spostamento dell’equilibrio verso destra.
Se reagenti e prodotti contengono lo stesso numero di molecole gassose, una variazione di
pressione del sistema non causa alcuna variazione dell’equilibrio.

Quando si aggiunge Cl2


(curva gialla, la sua
concentrazione aumenta
istantaneamente (parte
verticale della curva
gialla) e poi diminuisce
gradualmente man mano
che reagisce con PCl3 per
formare altro PCl5.
L’equilibrio si ristabilisce con nuovi valori di concentrazioni ma con lo stesso
valore di K.

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3. Consideriamo l’effetto di una variazione della temperatura: questa è l’unica
perturbazione che porta alla variazione di K. Per studiare la risposta del sistema, occorre
considerare l’entalpia di reazione come un componente del sistema: una reazione
endotermica avrà il calore tra i reagenti, mentre una reazione esotermica vedrà il calore tra
i prodotti.
Secondo logica , ne consegue che un aumento di temperatura (aggiunta di calore) favorirà
una reazione endotermica, mentre una diminuzione di temperatura (sottrazione di calore)
favorirà una reazione esotermica, e viceversa. Si consideri, inoltre, che l’effetto della
variazione della temperatura ha effetto anche sugli equilibri non gassosi.
Riprendiamo l’esempio della reazione: N2O4 (g; incolore) ⇋ NO2 (g; colorato)
Questa reazione è endotermica (ΔH > 0), quindi la possiamo scrivere sotto la forma:
reagenti + calore ⇋ prodotti. N2O4 + Q ⇋ 2NO2
In questa caso un aumento di temperatura fa spostare l’equilibrio verso destra.
Viceversa, una diminuzione di temperatura sposta l’equilibrio verso i reagenti.
CATALISI ED EQUILIBRIO
Un catalizzatore aumenta la velocità di una reazione diminuendone l’energia di attivazione. Perciò
un catalizzatore aumenta la velocità sia della reazione diretta sia di quella inversa.
L’aggiunta di un catalizzatore causa un più rapido raggiungimento dell’equilibrio ma non ha alcun
effetto sulla posizione dell’equilibrio.
PROCESSO DI HABER
La trasformazione di azoto e idrogeno in ammoniaca (NH3) è di grande importanza in agricoltura,
dove sono molto usati i fertilizzanti a base di ammoniaca.

Se si aggiunge H2 al sistema, N2 sarà consumato e i due


reagenti formeranno più NH3.

Questo apparato permette di spostare l’equilibrio verso


destra (formazione di NH3) in due modi diversi:
- aggiungendo di continuo reagenti (anche rimettendo
in ricircolo i reagenti non reagiti)
- sottraendo man mano l’NH3 prodotta sotto forma
liquida

82
LA SOLUBILITÀ
La solubilità di una sostanza corrisponde alla quantità massima di questa sostanza che è
possibile dissolvere nell’unità di volume di soluzione ad una data temperatura. Un’ulteriore
aggiunta di sostanza si deposita come corpo di fondo e si parla allora di soluzione satura.
Se abbiamo una soluzione satura con corpo di fondo allora siamo in presenza di un equilibrio
eterogeneo tra un solido e una soluzione satura dei suoi ioni:
𝐶𝑢𝑆𝑂4 (𝑠) ⇋ 𝐶𝑢2+ (𝑎𝑞) + 𝑆𝑂42− (𝑎𝑞)
La costante di questo equilibrio è:
[𝐶𝑢2+ ] ∙ [𝑆𝑂42− ]
𝐾=
[𝐶𝑢𝑆𝑂4 ]
Però CuSO4 essendo in largo eccesso, CuSO4 è assimilabile a una
costante, perciò abbiamo:
𝐾𝑝𝑠 = [𝐶𝑢2+ ] ∙ [𝑆𝑂42− ]
Dove Kps è detto prodotto di solubilità (costante ad una determinata
temperatura.
Nel caso di un salo generico abbiamo:
𝐴𝑚 𝐵𝑛 (𝑠) ⇌ 𝑚𝐴𝑛+ (𝑎𝑞) + 𝑛𝐵𝑚− (𝑎𝑞)
e il prodotto di solubilità viene calcolato come:
𝐾𝑝𝑠 = [𝐴𝑛+ ]𝑚 [𝐵𝑚− ]𝑛
una volta superato il prodotto di solubilità il solido precipita.
SOLUBILITÀ DEI SALI
Sono solubili:
- molti sali contenenti ioni dei metalli alcalini o lo ione ammonio;
- molti nitrati;
- molti sali degli ioni cloruro, bromuro e ioduro. Eccezioni significative sono i sali degli ioni
argenti, piombo e mercurio (I);
- molti solfati. Eccezioni significative sono i sali degli ioni bario, piombo, mercurio (II) e calcio.
Sono insolubili o quasi:
- molti idrossidi. Gli idrossidi solubili importanti sono quelli di sodio e di potassio. Quelli di
bario, stronzio e calcio sono parzialmente solubili;
- molti solfuri, carbonati, cromati e fosfati.

83
Acidi e basi
I concetti di acido e base hanno origine antica ma si sono modificati nel tempo, passando da
definizioni restrittive e fortemente empiriche ad altre sempre più generali e teoriche.
Nella quotidianità, il termine acido (dal latino acidus, acre) identifica semplicisticamente sostanze
dal sapore aspro, generalmente irritanti e corrosive, capaci di intaccare i metalli e il marmo e di far
virare al rosso una cartina al tornasole.
Al termine base si associano invece sapore amaro, proprietà caustiche e corrosive e saponosità al
tatto e la tendenza a far virare al blu una cartina al tornasole, oltre a quella di reagire con un acido
per formare un sale. Una base funge cioè da ‘’base’’ di partenza (da cui il nome) per ottenere i sali.
Una sostanza basica è anche detta alcaline (dall’arabo alqali, potassa).
ELETTROLITI
Si dicono elettroliti le sostanze che in acqua tendono a scindersi in ioni.
Sono detti forti gli elettroliti che portano a una dissociazione completa:
NaCl → Na+ + Cl-
Sono detti deboli gli elettroliti che portano a una dissociazione parziale:
CH3COOH ⇋ CH3COO- + H+
Danno dissociazione sostanze aventi atomi legati con:

Il grado di dissociazione (o ionizzazione) α, viene definito come:


numero di molecole dissociate
α = 𝑐𝑜𝑛 0 ≤ α ≤ 1
numero di molecole presenti prima della dissociazione
In particolare:
- se α = 0 non si ha dissociazione, non è un elettrolita
- se α = 1 la dissociazione è completa: elettrolita forte
- se 0 < α < 1 la dissociazione è parziale: elettrolita debole
Esistono tre teorie che definiscono il concetto di acido e base:
1. TEORIA DI ARRHENIUS:
Secondo la teoria di Arrhenius:
Un acido è una sostanza che, sciolta in acqua, libera ioni H+ o meglio ioni H3O+ (ione
idronio, catione ossonio o idrogenione, idrossonio).
Una base è una sostanza che, sciolta in acqua, libera ioni OH- (ione idrossido,
ossidrolone).
Se una acido reagisce con una base, si ha una reazione di neutralizzazione:
H + (aq) + OH − (aq) → H2 O
Acidi e basi forti: completamente dissociati. In soluzione esistono solo come ioni. La reazione di
dissociazione non è reversibile.
HCl → H+(aq)+Cl-(aq) oppure NaOH → Na+(aq)+OH-(aq)
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Acidi e basi deboli: parzialmente dissociati. In soluzione esistono in parte come ioni e in parte
come molecole indissociate. La reazione di dissociazione è reversibile, si raggiunge un equilibrio.
HF ⇋ H+(aq)+F-(aq) oppure Al(OH)3 ⇋ Al3+(aq)+3OH-(aq)
ENTITÀ DELLA DISSOCIAZIONE:
Un acido forte in acqua si dissocia completamente in ioni:
𝐻𝐴(𝑔 𝑜 𝑙) + 𝐻2 𝑂 → 𝐻3 𝑂+ (𝑎𝑞) + 𝐴− (𝑎𝑞)
Una soluzione diluita di un acido forte non contiene
molecole di HA. La reazione di dissociazione non è
reversibile.
Un acido debole in acqua di dissocia parzialmente in ioni:
𝐻𝐴(𝑎𝑞) + 𝐻2 𝑂 ⇌ 𝐻3 𝑂+ (𝑎𝑞) + 𝐴− (𝑎𝑞)
In una soluzione diluita di un acido debole, la maggior
parte delle molecole di HA è indissociata. La reazione
è reversibile e si raggiunge un equilibrio:
[𝐻3 𝑂+ ] ∙ [𝐴− ] [𝑯𝟑 𝑶+ ] ∙ [𝑨− ]
𝐾𝑐 = ⇒ 𝐾𝑐 ∙ [𝐻2 𝑂] = 𝑲𝒂 =
[𝐻𝐴] ∙ [𝐻2 𝑂] [𝑯𝑨]
L’acqua è il solvente ed è in quantità molto maggiore dei soluti. La variazione di [H2O] è
trascurabile e [H2O] è ritenuta costante.
Ka è detta costante di dissociazione acida. È una costante di equilibrio e come tale il suo valore
ci dice quanto l’equilibrio sia spostato a destra, cioè quale sia la forza dell’acido.
Acido più forte ⇒ Maggiore [H3O+] ⇒ Maggiore Ka
Acido più debole ⇒ Minore % di dissociazione di HA ⇒ Minore Ka

Sono acidi forti:


- gli acidi alogenidrici (HCl, HBr, HI);
- gli ossiacidi in cui il numero di atomi di O
supera di due o più il numero di protoni ionizzabili
(ad es. HNO3, H2SO4, HClO4).
Sono acidi deboli:
- l’acido alogenidrico HF;
- gli acidi in cui H non è legato a O o a un
alogeno (ad es. HCN)
- gli ossiacidi in cui il numero di atomi di O è
uguale a, o supera solo di uno, il numero di protoni
ionizzabili (ad es. HClO,HNO2);
- gli acidi carbossilici (formula generale R-COOH;
ad es. CH3COOH and C6H5COOH).

Una base forte in acqua si dissocia completamente in ioni:


𝐵(𝑔 𝑜 𝑙) + 𝐻2 𝑂 → 𝐻𝐵+ (𝑎𝑞) + 𝑂𝐻 − (𝑎𝑞)
Una soluzione diluita di una base forte non contiene molecole di B. La reazione non è reversibile.
Una base debole in acqua di dissocia parzialmente in ioni:
𝐵(𝑎𝑞) + 𝐻2 𝑂 ⇌ 𝐻𝐵+ (𝑎𝑞) + 𝑂𝐻 − (𝑎𝑞)

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In una soluzione diluita di una base debole, la maggior parte delle molecole di B è indissociata. La
reazione è reversibile e si raggiunge un equilibrio:
[𝐻𝐵+ ] ∙ [𝑂𝐻 − ] [𝑯𝑩+ ] ∙ [𝑶𝑯− ]
𝐾𝑐 = ⇒ 𝐾𝑐 ∙ [𝐻2 𝑂] = 𝑲𝒃 =
[𝐵] ∙ [𝐻2 𝑂] [𝑩]
L’acqua è il solvente ed è in quantità molto maggiore dei soluti. La variazione di [H2O] è
trascurabile e [H2O] è ritenuta costante.
Kb è detta costante di dissociazione basica. È una costante di equilibrio e come tale il sio valore
ci dice quanto l’equilibrio sia spostato a destra, cioè quale sia la forza della base.
Sono basi forti:
- i composti solubili contenente ioni O2- o OH- , i cationi sono di solito quelli della maggior
parte dei metalli attivi;
- M2O o MOH, in cui M = metallo del Gruppo 1 A(1) (Li, Na, K, Rb, Cs);
- MO o M(OH)2, in cui M = metallo del Gruppo 2 A(2) (Ca, Sr, Ba).
Sono basi deboli:
- l’ammoniaca (NH3);
- le ammine (formula generale RNH2, R2NH, o R3N). La caratteristica strutturale comune è un
atomo di N con un doppietto di non legame;
- Le basi coniugate di un acido medio-forte (vedi dopo).
FORZA ACIDA NEGLI OSSIACIDI
In tutti gli ossiacidi H è legato a un atomo di O.
La forza degli ossiacidi dipende da:
- l’elettronegatività del non metallo centrale
(E);
- il numero di atomi di O attorno ad E.
Per gli ossiacidi con:
- lo stesso numero di atomi di ossigeno
attorno a E, la forza acida aumenta
all’aumentare dell’elettronegatività di E.
- differenti numeri di atomi di ossigeno
attorno a un dato E, la forza acida aumenta all’aumentare del numero di atomi di O.
FORZA ACIDA DEGLI IDRURI DEI NON METALLI
La forza acida degli idruri dei non metalli (E-H) dipende
da:
- l’elettronegatività del non metallo centrale (E);
- la forza del legame E-H.
La forza acida:
- aumenta lungo un periodo perché aumenta
l’elettronegatività di E.
- aumenta lungo un gruppo perché la lunghezza
del legame aumenta e parallelamente diminuisce
la forza del legame.

2. TEORIA DI BRØNSTED – LOWRY:


Secondo Brønsted e Lowry:
un acido è una specie chimica capace di donare uno ione H+ ad un'altra specie chimica;
similmente, una base è una specie chimica capace di accettare uno ione H+ da un'altra specie
chimica.
86
Nella reazione diretta:
NH3 accetta H+ per formare NH4+

H2S dona H+ per formare HS-


Nella reazione inversa:
NH4+ dona H+ per formare NH3

HS- accetta H+ per formare H2S


H2S e HS- sono una coppia coniugata acido-base.
HS- è la base coniugata dell’acido H2S.
NH3 e NH4+ sono una coppia coniugata acido-base.
NH4+ è l’acido coniugato della base NH3.
Avviene una reazione acido-base di Brønsted – Lowry quando un acido e una base reagiscono per
formare la loro base coniugata e il loro acido coniugato rispettivamente:
acido1 + base2 ⇋ base1 + acido2
Una reazione procede in prevalenza nel verso in cui si forma la specie più debole.
La direzione netta di una reazione acido-base dipende dalle forze relative degli acidi e delle basi
che partecipano alla reazione. Una reazione procede in prevalenza nel verso in cui un acido più
forte e una base più forte formano un acido più debole e una base più debole.
La reazione è spostata a destra perché H2S è un acido più forte di NH4+ e NH3 è una base più forte
di HS-. Analogamente, si può vedere l’entità della dissociazione di un acido in acqua come una
competizione tra le basi e H2O per catturare il protone.
Pertanto, nel caso di acidi forti si ha che H2O vince la competizione per il protone, perché A- è una
base molto più debole.
In base a molte di queste reazioni è possibile classificare le coppie coniugate in termini della
capacità dell’acido di trasferire il suo protone. In generale, si tenga presente che un acido più
debole ha una base coniugata più forte, e viceversa. Infatti, l’acido debole cede il suo protone
meno facilmente, perché la sua base coniugata lo trattiene più fortemente. È possibile costruire
87
una scala delle forze delle coppie acido-base coniugate: una reazione acidobase procede verso
destra se l’acido reagisce con una base che è più in basso nella scala, perché questa
combinazione produce una base coniugata più debole e un acido coniugato più debole.
Un fatto che emerge dallo studio del comportamento degli acidi deboli in soluzione acquosa è che,
al diminuire della concentrazione dell’acido, la costante di dissociazione (α) dell’acido aumenta.
Ad esempio, un acido HA con Ka=1,3x10-5 presenta questi casi:
- se [HA]i= 0,10 M, α = 1,1 %
- se [HA]i= 0,010 M, α = 3,6 %
Chiaramente, non bisogna confondere la concentrazione di HA dissociato (maggiore nel primo
caso) con la frazione di molecole di HA dissociate (maggiore nel secondo caso).
Questo comportamento è in accordo col principio di Le Chatelier: si può infatti vedere la
soluzione di acido più diluita come una soluzione in cui sia stata aggiunta più acqua, e per risposta
il sistema descritto dalla reazione HA (aq) + H2O (l) ⇋ A- (aq) + H3O+ (aq) tende a spostarsi verso
destra.
Ulteriori concetti da evidenziare in riferimento alla teoria di Brønsted – Lowry sono i seguenti:
- un acido isolato non può cedere ioni H+ a nessuno e quindi non può manifestare le sue
proprietà; lo stesso dicasi per una base.
Gli ioni H+ non possono infatti esistere da soli, ma possono solo passare da un acido a una
base durante una reazione chimica. Difatti, se togliamo ad un atomo di H l’unico elettrone
che possiede, ciò che rimane è solo il protone presente nel nucleo. Lo ione H+ è una
particelle dotata di una carica positiva, ma con dimensioni ridottissime, in quanto il nucleo è
circa 10000 volte più piccolo dell’atomo nel suo insieme.
La presenza di una carica elettrica su di un volume così piccolo rende lo ione
estremamente instabile e reattivo. Esso cercherà pertanto di legarsi con la prima molecola
che incontra.
- La forza di un acido è spiegabile in termini di elettronegatività, numero di atomi di ossigeno
e dimensione del non metallo. Un modo alternativo è quello di valutare la stabilità della
base coniugata che si forma dalla dissociazione dell’acido: più la base coniugata è stabile,
più è forte l’acido.
Ad esempio, HI è un acido forte perché I- è uno ione molto stabile (delocalizza la carica
negativa su un volume molto grande). Al contrario, HF è un acido debole perché (oltre a
presentare legami a idrogeno che bloccano il rilascio di ioni H+) l’anione F- è instabile: esso
è molto reattivo perché c’è forte repulsione tra le coppie di elettroni libere disposte in un
volume molto piccolo. F- è quindi una base coniugata forte.
Per quanto riguarda invece gli ossiacidi, la loro forza è prevedibile anche mediante la teoria
della risonanza: HClO4 è più forte di HClO perché lo ione ClO4- è più stabile dello ione ClO-.

3. TEORIA DI LEWIS:
Ulteriore estensione alla definizione di Brønsted – Lowry che permette di applicare il concetto di
acidi e basi a reazione che non avvengono in soluzione acquosa o dove non c’è trasferimento di
ioni H+ (esempio NH3 + HCl allo stato gassoso) .
Un acido è una sostanza che
accetta una coppia di elettroni (o
doppietto), mentre una base è una
sostanza che dona una coppia di
elettroni (o doppietto).
Esempio: NH3 è una base di Lewis
BCl3 è un acido di Lewis
88
La definizione di Lewis vede una reazione acido-base come la donazione e l’accettazione di una
coppia di elettroni per formare un legame covalente coordinato in un addotto (legame covalente
dativo).
Il prodotto di qualsiasi reazione acido-base di Lewis viene detto addotto, cioè una singola specie
che contiene un nuovo legame covalente.
La caratteristica essenziale di una base di Lewis è una coppia solitaria di elettroni da donare.
Tutte le basi di Brønsted – Lowry sono anche basi di Lewis.
La caratteristica essenziale di un acido di Lewis è un orbitale vuoto (o la capacità di riorganizzare
i suoi legami per formarne uno) per accettare una coppia solitaria e formare un nuovo legame.
Molte sostanze che non sono acidi di Brønsted – Lowry sono acidi di Lewis. Quindi la definizione di
Lewis espande la classe degli acidi.
Acidi di Lewis con legami multipli polari: sono molecole con legame doppio polare.
Quando la coppia di elettroni sulla base si avvicina all’estremità parzialmente positiva del
legame doppio, uno dei legami si rompe per formare il nuovo legame nell’addotto.
Ad esempio, SO2 è un acido di Lewis quando viene a contatto con l’acqua: l’atomo di O
dell’acqua dona una coppia di
elettroni all’atomo di S di SO2
(che è parzialmente positivo).
Si rompe un legame π in SO2
e si forma un legame S-O con
l’acqua. Ciò porta alla
formazione di H2SO3.

Cationi metallici come acidi di Lewis: è alla base della formazione dei complessi, cioè i
prodotti della formazione (spesso reversibile) di un legame
tra un atomo/ione centrale e degli atomi/ioni/molecole
circostanti. In un complesso , un atomo lega un numero di
altre specie chimiche superiore al suo numero di
ossidazione.
Ciò è tipico nei sistemi biologici: ad esempio, la clorofilla
contiene uno ione Mg2+ come acido di Lewis in grado di
accettare coppie di elettroni dagli atomi di N della
macromolecola organica circostante.
ANFOTERISMO:
Un composto chimico è detto anfotero se può comportarsi sia da acido in presenza di una base
sia da base in presenza di un acido.
L’acqua è anfotera, si comporta da acido o da base in funzione delle caratteristiche delle altre
sostanze presenti:
𝐻2 𝑂 + 𝐻𝐶𝑙 ⇌ 𝐻3 𝑂+ + 𝐶𝑙 −
L’acqua accetta un protone dall’acido per formare H3O+, quindi si comporta da base (Brønsted –
Lowry).
𝑁𝐻3 + 𝐻2 𝑂 ⇌ 𝑁𝐻4+ + 𝑂𝐻 −
L’acqua dona un protone alla base per formare OH-, quindi si comporta da acido (Brønsted –
Lowry).
AUTOIONIZZAZIONE
È opportuno analizzare una proprietà cruciale dell’acqua, che permette di quantificare [H3O+].
L’acqua è un elettrolita debole: essa si dissocia lievemente in ioni mediante un processo detto
autoionizzazione (o autoprotolisi): H2O (l) + H2O (l) ⇋ H3O+(aq) + OH-(aq)
Di questo equilibrio si può scrivere l’espressione della Kc e, tenendo presente che si può inglobare

89
in questa costante il termine [H2O]2 (in quanto liquido puro), si perviene ad una nuova costante di
equilibrio, detta prodotto ionico dell’acqua:
𝐾𝑤 = [𝐻3 𝑂+ ] ∙ [𝑂𝐻 − ] = 1,0 ∙ 10−14 (𝑎 25°𝐶)
Ragioniamo su V = 1L di acqua pura a 25°C
Calcoliamo la massa di H2O corrispondente (d = 1,0 g/mL a 25°C):V m = 1000g
Ora calcoliamo le moli di H2O corrispondente (MM = 18 g/mol): n = 1000x18 = 55,55 mol
Quindi in 1L di acqua ci sono 55,55 mol di acqua.
Vediamo ora quante moli si dissociano: Kw = [H3O+]∙[OH-] = 1,0 ∙ 10-14
quindi [𝐻3 𝑂+ ] = [𝑂𝐻 − ] = √𝐾𝑤 = √ 1,0 ∙ 10−14 = 1,0 ∙ 10−7 𝑀
Perciò in 1 L di acqua 1,0 ∙ 10−7 moli su 55,55 si dissociano, ossia circa 1 molecola 555 millioni.
La dissociazione dell’acqua è un equilibrio molto spostato sulla sinistra.
L’autoionizzazione dell’acqua ha due conseguenze importanti per la chimica delle soluzioni:
- una variazione di [H3O+] determina una variazione inversa di [OH-], e viceversa.
- Entrambi gli ioni sono presenti in tutti i sistemi acquosi, ed è possibile parlare di soluzione
acida ([H3O+] > [OH-]), soluzione basica ([H3O+]<[OH-]) e soluzione neutra ([H3O+] = [OH-]).
- Relazione tra Ka, Kbe Kw:
[𝐻3 𝑂+ ][𝐹 − ]
𝐻𝐹 + 𝐻2 𝑂 ⇌ 𝐻3 𝑂+ + 𝐹 − , 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑐𝑖𝑑𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝐾𝑎 =
[𝐻𝐹]
[𝐻𝐹][𝑂𝐻 − ]
𝐹 − + 𝐻2 𝑂 ⇌ 𝐻𝐹 + 𝑂𝐻 − , 𝑑𝑖𝑠𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑏𝑎𝑠𝑖𝑐𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝐾𝑏 =
[𝐹 − ]
Ricordiamo che Kc per una reazione complessiva in due step = K1 ∙ K2
[𝐻3 𝑂+ ][𝐹 − ] [𝐻𝐹][𝑂𝐻 − ]
𝑄𝑢𝑖 𝐾𝑎 ∙ 𝐾𝑏 = ∙ = [𝐻3 𝑂+ ] ∙ [𝑂𝐻 − ] = 𝐾𝑤
[𝐻𝐹] [𝐹 − ]
Questa relazione è valida per qualsiasi coppia coniugata acido-base.
SCALA DEL PH
Nelle soluzioni acquose, [H3O+] può variare in un enorme intervallo di valori, da circa 10-5 a 10 M.
nei calcoli, per manipolare più comodamente i numeri con esponente negativo li si converte in
numeri positivi usando un sistema numerico noto come scala p, che rappresenta il logaritmo
decimale del numero, preso col segno negativo.
Applicando questo sistema numerico a [H3O+], si ottiene il pH, definito tramite la relazione:
𝒑𝑯 = −𝐥𝐨𝐠 [𝑯𝟑 𝑶+ ]
Ad esempio, una soluzione acquosa con [H3O+] = 10-3 M avrà pH = 3.
Il valore del pH è un logaritmo, un numero costituito da una parte intera (detta caratteristica) e una
parte decimale (detta mantissa). Negli esercizi si considerano significative solo le cifre della
mantissa per un dato valore di pH, in quanto sono quelle che rispecchiano la precisione con cui è
nota la concentrazione.
Nel classificare le soluzioni acquose, si parlerà di:
- soluzione acida se pH < 7 ([H3O+] > 1,00 ∙ 10-7 M);
- soluzione basica se pH > 7 ([H3O+] < 1,00 ∙ 10-7
M);
- soluzione neutra se pH = 7 ([H3O+] = 1,00 ∙ 10-7
M).
La scala p può essere usata per esprimere altre grandezze:
- Concentrazione di ioni ossidrile: pOH = -log[OH- ]
- Costante di equilibrio pK = -logK
90
Matematicamente, il pH può
essere negativo e anche > 14.
Tuttavia, a quelle
concentrazioni occorrerebbe
considerare le attività e non le
molarità. Infatti, essendo gli
ioni specie chimiche
elettricamente cariche, in
soluzione si verificano
interazioni interparticellari e
accade che una certa quantità
di ioni resti schermata
elettricamente dal solvente. Di
conseguenza, non può
prendere parte al processo
chimico (es: una reazione) o
chimico-fisico (es: conduzione
di corrente).

Applicando la scala p e le proprietà dei logaritmi alla relazione Kw = [H3O+]∙[OH- ] , si ottiene


un’utile correlazione tra pKw , pH e pOH: pKw = pH + pOH = 14,00 a 25°C.
A livello sperimentale, i valori di pH si ottengono con:
- pHmetro: misura [H3O+] mediante due elettrodi immersi nella soluzione acquosa da
studiare. Un elettrodo fornisce un potenziale di riferimento stabile, l’altro è racchiuso da una
membrane di vetro conduttrice estremamente sottile che separa una [H3O+]interna nota
dalla [H3O+] esterna incognita. La differenza di [H3O+] genera una differenza di potenziale
tra le due facce della membrana, che è misurata e visualizzata in unità di pH.
- Indicatore acido-base: è una molecola organica il cui colore dipende dall’acidità o dalla
basicità della soluzione in cui è disciolta. Ne è un esempio la cartina indicatrice di pH, cioè
una striscia di carta impregnata di un indicatore o di una miscela di indicatori. Si depone
una goccia della soluzione da saggiare sulla cartina e si confronta il colore che assume con
una tabella di colori di riferimento.
CALCOLO DEL pH:
pH di soluzioni di acidi forti (con [HA] > 10-7M):
𝐻𝐴 + 𝐻2 𝑂 → 𝐴− + 𝐻3 𝑂+
HA è un acido forte, quindi si dissocia completamente, quindi abbiamo:
[𝐻3 𝑂+ ] = [𝐻𝐴]𝑒 𝒑𝑯 = −𝐥𝐨𝐠 [𝑯𝑨]

pH di soluzioni di basi forti (con [B] > 10-7M):


𝐵 + 𝐻2 𝑂 → 𝐻𝐵+ + 𝑂𝐻 −
B è una base forte, quindi si dissocia completamente, quindi abbiamo:
[𝑂𝐻 − ] = [𝐵]

𝑝𝐻 = −𝑙𝑜𝑔[𝐻3 𝑂+ ] 𝑒 [𝐻3 𝑂+ ] ∙ [𝑂𝐻 − ] = 1,00 ∙ 10−14


1,00 ∙ 10−14 1,00 ∙ 10−14
𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑝𝐻 = −𝑙𝑜𝑔 ( ) = −𝑙𝑜𝑔 ( )
[𝑂𝐻 − ] [𝐵]

In questi due casi, [H3O+] derivante dall’autoionizzazione dell’acqua può essere considerata come
trascurabile.

91
pH di soluzioni di acidi forti (con [HA] ≤ 10-7M):
𝐻𝐴 + 𝐻2 𝑂 → 𝐴− + 𝐻3 𝑂+
HA è un acido forte, quindi si dissocia completamente, quindi abbiamo:
[𝐻3 𝑂+ ] = [𝐻𝐴]
Però questa vola l’autoionizzazione dell’acqua non può essere trascurata:

𝐾𝑤 = [𝐻3 𝑂+ ] ∙ [𝑂𝐻 − ] = ([𝐻𝐴] + 𝑥) ∙ 𝑥 = 1,00 ∙ 10−14


𝑥 2 + 𝑥 ∙ [𝐻𝐴] − 1,00 ∙ 10−14 = 0
−[𝐻𝐴] ± √[𝐻𝐴]2 + 4 ∙ 1,00 ∙ 10−14
𝑥=
2
ovviamente si considera unicamente il valore positivo di x e si ottiene pH = -log([HA]+x)
Si segue lo stesso procedimento per le basi forti con [B] ≤ 10-7M.
pH di soluzioni di acidi (o basi) deboli:
Per un acido monoprotico debole abbiamo: HA + H2O ⇋ A- + H3O+
[𝐻3 𝑂+ ] ∙ [𝐴− ]
𝐶𝑜𝑛 𝐾𝑎 =
𝐻𝐴

𝑥2
𝐾𝑎 =
𝐶−𝑥
2
𝑥 + 𝐾𝑎 ∙ 𝑥 − 𝐾𝑎 ∙ 𝐶 = 0
−𝐾𝑎 ± √𝐾𝑎2 + 4 ∙ 𝐾𝑎 ∙ 𝐶
𝑥=
2
ovviamente si considera unicamente il valore positivo di x e si ottiene pH = -log(x)
Si segue lo stesso procedimento per le basi deboli.
SEMPLIFICAZIONI!!
Nel caso in cui x <<< C, la dissociazione è molto limitata e C – x ≈ C, allora si può scrivere
direttamente
𝑥2
𝐾𝑎 =
𝐶
𝑄𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑥 = √𝐾𝑎 ∙ 𝐶
1 1 1 1 1
𝑝𝐻 = − log(𝑥) = −𝑙𝑜𝑔√𝐾𝑎 ∙ 𝐶 = −𝑙𝑜𝑔𝐾𝑎 ∙ 𝐶 2 = − log(𝐾𝑎 ) − log(𝐶) = 𝑝𝐾𝑎 − log(𝐶)
2 2 2 2
Si può considerare x <<< C quando (entrambe le condizioni devono essere rispettate):
- Ka inferiore o dell’ordine di 10-5
- C almeno 1000 volte superiore a Ka
È comunque consigliato verificare la validità dell’approssimazione in base al risultato ottenuto
(errore accettabile ≤ 5%).

92
ACIDI POLIPROTICI:
Gli acidi con più di un protone ionizzabile
sono detti acidi poliprotici. In soluzione,
questi acidi dissociano un protone alla volta e
ciascuno stadio di dissociazione ha un
proprio valore di Ka.
Ad esempio, H3PO4 presenta tre
dissociazioni acide.
In generale, si nota che il primo protone si dissocia
in modo molto maggiore rispetto al secondo e così
via. Infatti, ipotizzando di avere un acido H2A, per lo
ione H3O+ è più difficile abbandonare l’anione HA-
(con una singola carica negativa) nella seconda
dissociazione che abbandonare una molecola
neutra (H2A) nella prima dissociazione. Ne
consegue che le costanti di dissociazione acido
successive alla prima sono di parecchi ordini di
grandezza inferiori, e questo semplifica
notevolmente i conti; di fatto, nella maggior parte
dei casi si può trascurare lo ione H3O+ che proviene
da dissociazioni successive alla prima.

pH DELLE SOLUZIONI SALINE


Sperimentalmente, si osserva che sciogliere un sale in acqua può portare ad una variazione del
pH: la soluzione risultante può essere acida, neutra o basica. Ciò è dovuto al fatto che i sali sono
elettroliti: dissociano in acqua (quasi sempre al 100%) e può succedere che gli ioni che liberano si
comportino da acidi o basi di Brønsted – Lowry.
Con il termini idrolisi si indica la reazione che avviene tra gli ioni liberati da un sale (derivato da un
acido e/o una base debole) e l’acqua: se questi ioni reagiscono con l’acqua, verrà generato in
parte l’elettrolita debole (acido o base) da cui derivano gli ioni, e ciò provocherà una variazione del
pH.
Siccome esistono acidi forti, acidi deboli, basi forti e basi deboli è possibile distinguere quattro tipi
di sali:
- Sali derivati da acido forte e base forte: ad esempio, NaCl deriva dalla reazione
HCl + NaOH → NaCl + H2O.
Quando NaCl è sciolto in acqua, si dissocia completamente in Na+ e Cl- : lo ione Na+ non
ha nessuna tendenza a reagire con l’acqua, in quanto deriva da una base forte; allo stesso
modo, lo ione Cl- non ha alcun interesse a reagire con l’acqua perché deriva da un acido
forte. Siccome nessuno degli ioni liberati dal sale dà ulteriori reazioni, non si ha idrolisi e il
pH della soluzione è neutro (7).
- Sali derivati da acido debole e base forte: ad esempio CH2COONa deriva dalla reazione
CH3COOH + NaOH → CH3COONa + H2O.
Quando CH3COONa è sciolto in acqua, si dissocia completamente in Na+ e CH3COO- : lo
ione Na+ non dà reazioni in acqua, mentre lo ione CH3COO- , essendo la base coniugata di
un acido debole, reagirà con l’acqua per dare l’equilibrio:
CH3COO- + H2O ⇋ CH3COOH + OH-.
Questo equilibrio viene descritto con lo schema IVE, e le concentrazioni di equilibrio
𝑲𝒘
vengono introdotte nella forma algebrica della costante di idrolisi, definita come: 𝑲𝒊 = 𝑲𝒂
.
Questo processo prende il nome di idrolisi basica, e il pH risultante sarà sempre basico.
93
Occorre spiegare la forma algebrica che si è data per Ki:
La reazione di dissociazione di un acido debole può essere scritta in modo generale come:
[𝐻3 𝑂 + ]∙[𝐴− ]
HA + H2O ⇋ A- + H3O+ ed è descritta da 𝐾𝑎 = [𝐻𝐴]
L’idrolisi della base coniugata invece può essere scritta in modo generale come:
[𝐻𝐴]∙[𝑂𝐻 − ]
A- + H2O ⇋ HA + OH- essendo un’idrolisi, è descritta da 𝐾𝑖 = [𝐴− ]
Ma in realtà questa reazione non è altro che una dissociazione basica quindi Ki = Kb Infine
se sommiamo le due reazioni otteniamo: 2H2O ⇋ H3O+ + OH- che non è altro che la
reazione di autoionizzazione dell’acqua descritta da Kw. Perciò, ricordando che la costante
di equilibrio complessiva di una reazione a più stadi è il prodotto delle costanti di equilibrio
dei singoli stadi si ha che:
𝐾𝑤
𝐾𝑎 ∙ 𝐾𝑏 = 𝐾𝑤 (𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑣𝑒𝑟𝑜)𝑜𝑝𝑝𝑢𝑟𝑒 𝐾𝑎 ∙ 𝐾𝑖 = 𝐾𝑤 𝑒 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝐾𝑖 =
𝐾𝑎
- Sali derivati da acido forte e base debole: ad esempio NH4Cl deriva dalla reazione
HCl + NH3 → NH4Cl.
Quando NH4Cl è sciolto in acqua, si dissocia completamente in NH4 + e Cl- : lo ione Cl- non
dà reazioni in acqua, mentre lo ione NH4+ , essendo l’acido coniugato di una base debole,
reagirà con l’acqua per dare l’equilibrio:
NH4+ + H2O ⇋ NH3 + H3O+.
Questo equilibrio viene descritto con lo schema IVE, e le concentrazioni di equilibrio
𝐾𝑤
vengono introdotte nella forma algebrica della costante di idrolisi, definita come: 𝐾𝑖 = .
𝐾𝑏
Questo processo prende il nome di idrolisi acida, e il pH risultante sarà sempre acido.
- Sali derivati da acido debole e base debole: ad esempio NH4NO2 deriva dalla reazione
HNO2 + NH3 → NH4NO2.
Quando NH4NO2 è sciolto in acqua, si dissocia completamente in NH4 + e NO2- : lo ione
NH4+, essendo l’acido coniugato di una base debole, reagirà con l’acqua per dare
l’equilibrio:
NH4+ + H2O ⇋ NH3 + H3O+.
Lo ione NO2-, essendo la base coniugata di un acido debole, reagirà con l’acqua per dare
l’equilibrio:
NO2- + H2O ⇋ HNO2 + OH-.
L’idrolisi risultante porterà a una soluzione acida, neutra o basica a seconda dei valori di Ka
e Kb: se Ka > Kb, la soluzione sarà acida, e viceversa; se le due costanti coincidono, il pH
risultante sarà neutro.
LEGGE DI OSTWALD:
Consideriamo la reazione:
𝐻𝐶𝑁 ⇌ 𝐶𝑁 − + 𝐻 +
Questa dissociazione acida è descritta da:
[𝐶𝑁 − ] ∙ [𝐻 + ]
𝐾𝑎 =
[𝐻𝐶𝑁]
Cerchiamo di esprimere la legge di azione di massa (Ka) in funzione del grado di dissociazione α.
Se poniamo:
ni: moli iniziali di soluti; e ci=ni/V: concentrazione iniziale di soluto, allora abbiamo:
𝑛𝑑𝑖𝑠𝑠
𝛼= ⇒ 𝑛𝑑𝑖𝑠𝑠 = 𝛼 ∙ 𝑛𝑖 ⇒ 𝑛𝑖𝑛𝑑 = 𝑛𝑖 − 𝛼 ∙ 𝑛𝑖
𝑛𝑖
𝛼 ∙ 𝑛𝑖 𝛼 ∙ 𝑛𝑖
∙ 𝑐𝑖 ∙ 𝛼 ∙ 𝑐𝑖 ∙ 𝛼 𝒄𝒊 ∙ 𝜶𝟐
𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑲𝒂 = 𝑛𝑉 − 𝛼 ∙ 𝑉𝑛 = = 𝑐𝑜𝑛 𝑎 ≪ 1 𝑎𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎 𝑲𝒂 = 𝒄𝒊 ∙ 𝜶𝟐
𝑖 𝑖 𝑐𝑖 − 𝛼 ∙ 𝑐𝑖 𝟏−𝜶
𝑉
Legge di diluizione di Ostwald: al diminuire di ci deve aumentare α per mantenere costante Ka.

94
EQUILIBRI DEI SISTEMI TAMPONE ACIDO-BASE:
Sperimentalmente è possibile osservare che alcuni sistemi non cambiano pH nonostante prendano
parte a reazioni acido-base. Ad esempio, il sangue mantiene il proprio pH costante pur essendo in
contatto con innumerevoli reazioni cellulari acido-base.
Si definisce tampone acido-base una soluzione che non subisce variazioni di pH significative a
seguito dell’aggiunta di un acido o di una base. Con riferimento alla figura seguente, nella parte
superiore una soluzione HCl a pH 5,00 viene arricchita di 1 mL di HCl 1 M (sinistra) o 1 mL di
NaOH 1 M (destra): si notano bruschi cambiamenti di pH. Invece, nella parte inferiore le stesse
aggiunte vengono fatte a una soluzione tampone a pH 5,00 e le variazioni di pH sono praticamente
trascurabili.
I tamponi funzionano attraverso un meccanismo basato sull’effetto dello ione comune. Si consideri
CH3COOH, acido debole, e la sua dissociazione. Se viene aggiunto il sale CH2COONa a questa
soluzione, lo ione acetato che si produce dalla dissociazione salina sposta la posizione
dell’equilibrio di dissociazione di CH3COOH verso sinistra:
CH3COOH + H2O ⇋ CH3COO- + H3O+.
Lo stesso avviene se si opera al contrario, cioè aggiungendo CH3COOH ad una soluzione di
CH3COONa. In questo sistema , lo ione acetato è detto ione comune (viene infatti aggiunto a un
sistema in cui è già presente).
Pertanto, quello che si nota prendendo una soluzione di CH3COOH e aggiungendoli quantità via
via crescenti di CH3COONa è che il pH aumenta progressivamente: di fatto, lo ione acetato
reprime la dissociazione dell’acido.
La caratteristica essenziale del sistema tampone costituito da CH3COOH e CH3COONa è la sua
composizione: ci sono concentrazioni elevate delle componenti acida (CH3COOH) e basica
(CH3COO-). Quando si aggiungono piccole quantità di ioni idronio o ossidrile al sistema tampone,
queste causano la trasformazione di una piccola quantità di una componente del tampone
nell’altra, cambiando le rispettive concentrazioni. Quello che succede è che lo ione CH3COO-
consumerà gli ioni idronio aggiunti, mentre CH3COOH consumerà gli ioni ossidrile aggiunti.
[𝐶𝐻3 𝐶𝑂𝑂 − ]∙[𝐻3 𝑂 + ] [𝐶𝐻 𝐶𝑂𝑂𝐻]
Dato che 𝐾𝑎 = [𝐶𝐻3 𝐶𝑂𝑂𝐻]
, si può scrivere che [𝐻3 𝑂+ ] = 𝐾𝑎 ∙ [𝐶𝐻3 𝐶𝑂𝑂−], da cui si evince che il
3
pH del sistema tampone dipende direttamente dal rapporto delle concentrazioni delle sue due
componenti. In particolare:
- se si aggiunge una piccola quantità di acido forte: lo ione idronio reagirà con CH3COO- per
produrre CH3COOH. Il numeratore aumenta e il denominatore diminuisce della stessa
quantità; globalmente, [H3O+].
- se si aggiunge una piccola quantità di base forte: lo ione ossidrile reagirà con CH3COOH
per produrre CH3COO-. Il numeratore diminuisce e il denominatore aumenta della stessa
quantità; globalmente, [H3O+] decresce di poco.
In questo modo, le componenti del tampone consumano praticamente tutta la quantità di ione
idronio o ione ossidrile aggiunta.
Riassumendo, finché la quantità di ioni idronio
o ioni ossidrile aggiunta è piccola rispetto alle
quantità delle componenti del sistema
tampone, la conversione di una componente
nell’altra produce una piccola variazione nel
rapporto tra le concentrazioni delle
componenti del tampone, conseguentemente,
una piccola variazione del pH.
Il potere tamponante dipende dalle concentrazioni assolute delle componenti: più queste sono
concentrate, maggiore è il potere tamponante.

95
A tal proposito, occorre specificare che:
- il pH di un sistema tampone è diverso dal suo potere tamponante: ad esempio, un sistema
tampone costituito da volumi uguali di CH3COOH 1M e CH3COO- 1M ha lo stesso pH
(4,74) del tampone in cui le due molalità valgono 0,1M, ma la prima soluzione ha potere
tamponante maggiore.

- Il potere tamponante è influenzato dalle concentrazioni relative delle componenti del


sistema tampone. Infatti, durante l’azione di un tampone si ha che la concentrazione di una
componente aumenta relativamente all’altra: minore è la variazione del rapporto, minore è
la variazione del pH. In generale, per una data aggiunta di acido forte o base forte, la
variazione del rapporto delle concentrazioni è minore per concentrazioni simili delle
componenti del tampone di quanto non sia per concentrazioni diverse. Un tampone ha il
massimo potere tamponante quando le concentrazioni delle sue componenti sono uguali.
- Per una data concentrazione, un tampone ha il massimo potere tamponante quando il suo
pH è vicino o uguale al valore di pKa della sua componente acida dato che
H3O+ = Ka ∙ [HA]/[A−]. Si definisce campo di tamponamento il campo di pH in cui il sistema
tampone agisce efficacemente: i tamponi hanno un campo di tamponamento utilizzabile
entro ± 1 unità di pH dal valore di pKa della componente acida.
Lo stesso vale per i sistemi tamponi in ambiente basico, costituiti da una base debole e dal suo
sale formato con un acido forte. Ne è un esempio il tampone NH3/NH4Cl. Inoltre, è sempre un
requisito di un sistema tampone che i suoi due componenti non reagiscono tra loro.
TITOLAZIONI ACIDO-BASE
I chimici studiano quantitativamente le reazioni acido-base mediante le
titolazioni. Si tratta del processo in cui si usa una soluzione a concentrazione
nota per determinare la concentrazione incognita di un’altra soluzione
mediante una reazione monitorata.
Si consideri la titolazione di un acido forte monoprotico a concentrazione
incognita. Operativamente, si versa in una beuta un volume noto della
soluzione dell’acido e si aggiungono alcune gocce di soluzione di indicatore,
cioè una sostanza il cui colore è diverso al di sopra/sotto di un valore di pH
caratteristico. Si aggiunge alla beuta una soluzione a concentrazione nota di
base, lasciandola scendere lentamente da una buretta.
Quando la titolazione si avvicina alla fine, le molecole di indicatore cambiano
colore in prossimità di una goccia di base aggiunta, per effetto di un eccesso temporaneo di ioni
ossidrile in questa regione. Però, non appena si agita la soluzione, si ripristina il colore
dell’indicatore in acido.
Si ha il punto di equivalenza della soluzione quando tutte lo moli di ioni idronio derivate dall’acido
presente nel volume iniziale di soluzione hanno reagito con un numero equivalente di moli di ioni
ossidrile aggiunte dalla buretta.
Si parla, invece, di punto finale della titolazione quando un piccolo eccesso di ioni ossidrile fa
assumere permanentemente all’indicatore il colore che ha in una base. Nei calcoli, si suppone che

96
questo piccolo eccesso sia
trascurabile, quindi la quantità
di base necessaria per
raggiungere il punto finale è
uguale alla quantità necessaria
per raggiungere il punto di
equivalenza.
Un indicatore acido-base è un acido debole organico (indicato con HIn), che ha un colore diverso
da quello della sua base coniugata (In-) e per il quale la variazione di colore avviene in un campo
specifico e ristretto di pH. Tipicamente, una o entrambe le forme sono intensamente colorante,
perciò è necessaria solo una
piccolissima quantità di indicatore,
molto inferiore a quella che
altererebbe il pH della soluzione in
esame. La selezione di un indicatore
richiede che si sappia il valore
approssimativo del pH del punto
finale della titolazione, il che a sua
volta richiede la conoscenza delle
specie ioniche presenti.
[𝐼𝑛− ]∙[𝐻3 𝑂 + ]
È possibile scrivere la reazione: HIn + H2O ⇋ In- + H3O+, da cui 𝐾𝑎 = [𝐻𝐼𝑛]
. Si ricava la
[𝐻𝐼𝑛] 𝑂+]
[𝐻3
seguente uguaglianza tra rapporti : [𝐼𝑛−] = 𝐾𝑎
. Tipicamente, il chimico vedrà il colore di HIn se
[𝐻𝐼𝑛]
[𝐼𝑛− ]
≥ 10, mentre vedrà il colore
[𝐻𝐼𝑛]
di In- se [𝐼𝑛− ]
≤ 0,1. Tra questi due
estremi, i colori delle due forme
sono mescolati in una tonalità
intermedia. Pertanto, un indicatore
ha un campo di viraggio (o
intervallo di colore) che riflette una
variazione di 100 volte il
[𝐻𝐼𝑛]
rapporto [𝐼𝑛−], il che significa che
un indicatore cambia colore in un
intervallo di 2 unità di pH.
La curva di titolazione di un acido forte monoprotico è il grafico che riporta il pH della soluzione in
funzione del volume aggiunto di soluzione titolante.
Si distinguono tre regioni:
- il pH iniziale è basso, riflettendo l’elevata [H3O+]
dell’acido forte, e aumenta gradualmente man
mano che l’acido viene neutralizzato dalla base
aggiunta.
- il pH aumenta bruscamente: l’aumento inizia
quando il numero di moli di ioni ossidrile che sono
state aggiunte è quasi uguale al numero di moli di
ione idronio inizialmente presenti nell’acido.
L’ulteriore aggiunta di una o due gocce di base

97
neutralizza il piccolo eccesso di acido e introduce una piccola quantità di base, perciò il pH
salta da 6 a 8.
- dopo questa parte ripida della curva, il pH continua a crescere lentamente man mano che
viene aggiunta altra base. Operativamente si sceglie un indicatore che garantisca un punto
finale vicino al punto di equivalenza (quest’ultimo avviene in prossimità del flesso verticale
della curva di titolazione.
Matematicamente, la titolazione di un acido forte monoprotico con una base forte monoprotica
permette il calcolo della molarità incognita dell’acido:
𝑀𝑏𝑎𝑠𝑒 ∙ 𝑉𝑏𝑎𝑠𝑒
𝑀𝑎𝑐𝑖𝑑𝑜 =
𝑉𝑎𝑐𝑖𝑑𝑜
Qualora si effettui la titolazione di un acido debole con una base forte, la curva di titolazione
mostra alcune differenze:
- il pH iniziale è più alto: infatti l’acido debole si dissocia solo parzialmente rispetto ad una
soluzione di acido forte avente la stessa concentrazione.
- prima del brusco salto in corrispondenza del punto di equivalenza, si osserva una porzione
di curva crescente in modo graduale, detta regione tampone.
Infatti, man mano che l’acido debole reagisce con la base forte, si forma una quantità
significativa della sua base coniugata e si crea
un tampone HA/A-. Si osserva inoltre che il punto
centrale della regione tampone è uguale al pKa:
questo è un modo usato per determinare la Ka
incognita di un acido.
- al punto di equivalenza, pH > 7, come ci si
aspetta per una soluzione costituita dal catione
di una base forte (Na+) e l’anione di un acido
debole. In questo caso, la scelta dell’indicatore è
più limitata rispetto al caso dell’acido forte,
poiché il salto di pH avviene in un intervallo più
ristretto.
Qualora si effettui la titolazione di un acido poliprotico, è noto che il primo protone viene perso
più facilmente di quello successivo (fa
eccezione H2SO4, che è l’unico acido
poliprotico forte). Pertanto, a causa della
grande differenza tra i due valori di Ka , si
assume che tutte le molecole di un acido H2A
perdano un protone prima che qualsiasi ione
HA- ne perda uno.
Questi due step, in effetti, danno luogo a due
regioni tampone e a due punti di equivalenza
distinti, ed è necessario lo stesso volume di
base aggiunta per rimuovere i protoni in
ognuno dei due processi.

98
pH E SOLUBILITÀ
La concentrazione di ioni idronio può avere un effetto molto rilevante sulla solubilità di un
composto ionico. Se il composto contiene l’anione di un acido debole, l’aggiunta di ioni idronio (da
un acido forte) aumenterà la solubilità del composto. Per comprendere l’effetto del pH sulla
solubilità di un composto, si consideri l’equilibrio:
𝐶𝑎𝐶𝑂3 (𝑠) ⇋ 𝐶𝑎2+ (𝑎𝑞) + 𝐶𝑂32− (𝑎𝑞)
l’aggiunta di un acido forte introduce una grande quantità di H3O+. Questi reagiscono con CO32-, la
cui protonazione porta prima a HCO3- e poi a H2CO3; quest’ultimo si decompone immediatamente
in H2O e CO2, che sfugge dalla soluzione .
L’effetto complessivo dell’aggiunta di H3O+ è quindi quella di spostare l’equilibrio di solubilità a
destra e far sciogliere altro CaCO3.
questa reazione è usata come saggio qualitativo per vedere se un minerale contiene carbonati. Al
contrario, l’aggiunta di H3O+ ad una soluzione satura di un composto contenente l’anione di un
acido forte (es. AgCl) non ha alcun effetto sulla posizione dell’equilibrio di solubilità.

99
Termodinamica
La termodinamica è lo studio dell’energia e delle sue trasformazioni da una forma all’altra.
La termochimica è la branca della termodinamica che studia l’energia scambiata nelle
trasformazioni chimiche (e fisiche).
Il trasferimento di energia si può manifestare sia come calore sia come lavoro.
L’energia si può convertire nelle sue varie forme, e trasferire da un luogo a un altro e da un corpo
ad un altro.
Il sistema è la regione in cui si trova il campione o il sistema reagente di interesse e tutto ciò che
ne sta fuori costituisce l’ambiente.
Sistema ed ambiente costituiscono l’universo.
Un sistema aperto può scambiare con l’ambiente sia materia sia energia.
Un sistema chiuso contiene una quantità determinata e costante di materia, ma può scambiare
energia con l’ambiente.
Un sistema isolato non ha alcun contratto con l’ambiente.
ENERGIA INTERNA
Ogni particella presente in un sistema ha un’energia potenziale e un’energia cinetica, e la somma
di queste energie, estesa a tutte le particelle presenti nel sistema costituisce l’energia interna (U
o E).
Quando avviene una reazione chimica in un sistema, l’energia interna varia e la variazione è data
da:
∆𝑈 = 𝑈𝑓𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒 − 𝑈𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑙𝑒 = 𝑈𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖 − 𝑈𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖
Una variazione dell’energia del sistema è sempre accompagnata da una variazione opposta
dell’energia nell’ambiente.
Un sistema chimico può variare la sua energia interna:
- Cedendo una quantità di energia all’ambiente: ΔU < 0
- Acquisendo una certa quantità di energia dall’ambiente: ΔU > 0

CALORE E LAVORO
Il trasferimento di energia tra sistema e ambiente può manifestarsi in due forme:
- Calore (q): è l’energia che si trasferisce tra sistema e ambiente in virtù di una differenza tra
le loro temperature.
- Lavoro (w): è l’energia trasferita quando un oggetto viene spostato da una forza. È quindi
possibile scrivere che ΔU = q + w. Il segno di q e w viene definito dal punto di vista del
sistema: è negativo se l’energia esce dal sistema e viceversa.
L’energia può convertirsi da una forma a un’altra, ma non può essere creata né distrutta. Il
principio di conservazione dell’energia (anche noto come primo principio della
termodinamica) afferma quindi che l’energia totale dell’Universo è costante. In altre parole,
la somma dell’energia del sistema e dell’energia dell’ambiente rimane costante: l’energia si
conserva.

100
Due unità di misura dell’energia sono:
- joule (J), la cui analisi dimensionale è J = kg∙[m2]\[s2]
- caloria (cal), definita come quantità di calore che si deve fornire ad 1 g d’acqua per
innalzarne la temperatura da 14,5 °C a 15,5 °C .
Vale la conversione: 1 cal = 4,184 J.
NB: in campo alimentare, il termine caloria è usato impropriamente (si intende, invece, kcal).
Il sistema non compie lavoro, ma trasferisce energia soltanto sotto forma di calore:
w = 0, ΔU = q
Nei grafici sottostanti E ≡ U

Il sistema trasferisce energia soltanto sotto forma di lavoro (lavoro di tipo espansivo):
q = 0, ΔU = w
Nel grafico sottostante E ≡ U
Consideriamo la reazione: Zn (s) + 2HCl (aq) → H2 (g) + ZnCl2 (aq)

FUNZIONI DI STATO
La termochimica è il ramo che si interessa dell’applicazione specifica del primo principio della
termodinamica allo studio delle reazioni chimiche e alla determinazione dei calori di reazione.
Non esiste una particolare sequenza in cui l’energia interna di un sistema deve variare.
Ciò è dovuto al fatto che essa è una funzione di stato, cioè una proprietà dipendente soltanto
dallo stato attuale del sistema (composizione, volume, pressione e temperatura), e non dal
cammino percorso dal sistema per raggiungere quello stato.
La variazione di energia di un sistema può infatti avvenire mediante innumerevoli combinazioni di
calore e lavoro, e complessivamente è indipendente da quale sia la combinazione, perché
l’energia interna non dipende da come avviene la variazione, ma solo dalla differenza tra lo stato
finale e quello iniziale.
Ad esempio, se si considera la reazione di combustione tra ottano e O2 con produzione di CO2 e
H2O, la variazione di energia interna sarà uguale sia quando il combustibile viene bruciato dall’aria
aperta per produrre calore, sia quando viene bruciato nel motore di un’automobile per produrre

101
lavoro (e un po’ di calore).
I valori di calore e lavoro saranno
diversi nei due casi, ma la loro
somma (l’energia interna) non
dipende dal percorso che c’è
stato tra lo stato iniziale e quello
finale.
Ne consegue, ovviamente, che
calore e lavoro non sono funzioni
di stato.
ENTALPIA
Per determinare l’energia interna, occorre misurare sia calore
che lavoro. I due più importanti tipi di lavoro in chimica sono
quello elettrico (spostamento di particelle cariche) e quello di
espansione di un gas.
Quest’ultimo è dato dalla relazione: w = -p∙ΔV, dove il segno
meno sta ad indicare che il lavoro è compiuto dal sistema
sull’ambiente (il sistema cede energia, di fatto il gas
espandendosi ‘’spinge’’ all’indietro l’atmosfera.
Nel caso delle reazioni che avvengono a pressione costante (ed è il caso della maggior parte delle
trasformazioni fisiche e chimiche), è possibile definire la funzione di stato entalpia (H), definita
come H = U + p∙V.
Analogamente, si avrà la variazione di entalpia (ΔH) pari a: ΔH = ΔU + p∙ΔV
Considerato che: ΔU = q + w = q + (-p∙ΔV) = q - p∙ΔV
Allora, a pressione costante, denotando q con qp, si ha che ΔU = qp - p∙ΔV ⇒ qp = ΔU + p∙ΔV.
Ne deriva che qp = ΔU + p∙ΔV = ΔH.
La variazione di entalpia è quindi uguale alla quantità di calore acquisita o ceduta a pressione
costante. ΔH è più facile da determinare rispetto a ΔU, e per farlo si misura qp.
FORZE DI LEGAME ED ENTALPIA
A 25 °C, per la reazione H2 (g) + F2 (g) → 2HF (g) vale ΔH = – 546 kJ/mol-1 ed è opportuno
chiedersi quale sia l’origine di questo calore.
Si può scomporre l’energia interna del sistema ed identificare (ad esempio per la molecola HF):
- Contributi all’energia cinetica: la molecola si muove attraverso lo spazio, la molecola
ruota, gli atomi legati vibrano, gli elettroni si muovono entro ciascun atomo. I primi tre
contributi sono direttamente proporzionali alla temperatura assoluta (che è costante), e
quindi non variano. Anche il moto degli elettroni non cambia, perché non è influenzato dalla
reazione.
- Contributi all’energia potenziale: forze tra gli atomi legati vibranti, forze tra nucleo ed
elettroni in ciascun atomo, forze tra nucleo ed elettroni in ciascun atomo, forze tra protoni e
neutroni in ciascun nucleo, forze tra i nuclei e la coppia di elettroni condivisa in ogni
legame. Il primo contributo varia leggermente (cambiano gli atomi legati), mentre secondo
e terzo sono costanti. L’unico contributo che varia notevolmente è il quarto, cioè l’energia
potenziale della forza di attrazione tra i nuclei e la coppia di elettroni condivisa che
costituisce il legame covalente.
Si può considerare una reazione come un processo in cui i legami dei reagenti assorbono energia
quando si rompono e i legami dei prodotti rilasciano energia quando si formano.
Siccome ΔH < 0 per la reazione considerata, allora l’energia rilasciata quando si formano i legami
HF è maggiore di quella assorbita per rompere i legami in H2 e F2. Bisogna infatti considerare che i
legami più deboli sono più facili da rompere rispetto ai legami più forti, perché hanno un’energia
102
più alta (sono meno stabili, più reattivi). In conclusione, l’energia rilasciata/assorbita durante una
trasformazione chimica è dovuta a differenze tra le forze dei legami dei reagenti e le forze dei
legami prodotti.
Nei composti a base carbonio, maggiore è il numero di legami che coinvolgono O, minore è la
quantità di energia rilasciata nella combustione.
CALORIMETRIA
Un problema da considerare è che l’entalpia (H) di un sistema in un dato
stato non può essere misurata perché non si ha un punto iniziale con cui
confrontarla: non si ha un entalpia zero. Tuttavia, si è in grado di misurare la
variazione di entalpia (ΔH) di un sistema.
Una strategia sperimentale è quella di costruirsi un ambiente che non
disperda calore, e misurare la variazione di temperatura su un termometro
immerso in questo ambiente. Dopodiché, si mette in relazione la quantità di
calore trasferita con la variazione di temperatura; più alta è la quantità di
calore assorbita/liberata da un corpo, maggiore/minore è la temperatura che
esso raggiunge.
Ogni corpo ha la propria particolare capacità di assorbire calore, detta
capacità termica (C), cioè la quantità di calore necessaria per variare di 1
𝑞
K la sua temperatura, ed è definita come 𝐶 = ∆𝑇 . Una proprietà correlata è
il calore specifico (c), cioè la capacità termica riferita all’unità di massa.
Esso è la quantità di calore necessaria per variare di 1K la temperatura
𝑞 [𝐽]
dell’unità di massa di una sostanza: 𝐶 = , la cui analisi dimensionale è [𝑔][𝐾].
∆𝑇 𝑚

Infine, il calore specifico molare (cm) è la quantità di calore necessaria per variare di 1K la
𝑞
temperatura di 1 mol di sostanza: 𝑐𝑚 = ∆𝑇∙𝑛 .
Il calorimetro è un dispositivo usato per misurare la quantità di calore rilasciata/assorbita da un
processo fisico o chimico.
Esistono:
- Calorimetro a pressione costante: si usa per ricavare il
valore di qp in molti processi che si svolgono in
comunicazione con l’atmosfera del laboratorio.
Si determina la massa del campione, lo si inserisce in un
campione d’acqua di massa e temperatura note, e si
lascia svolgere il processo (introduzione del campione
riscaldato, di un sale solubile, di una soluzione, ecc.).
Agitando l’acqua si distribuisce il calore rilasciato dal
campione, e poi si misura la temperatura finale
dell’acqua.
- Calorimetro a volume costante: è detta bomba
calorimetrica, spesso usata per studiare le reazioni di combustione. Il campione di
combustibile di massa nota viene posto in un recipiente con
pareti metalliche (bomba), riempito di O2 e immerso in un
bagno d’acqua termicamente isolato e provvisto di un
agitatore motorizzato e di un termometro.
Una spirale scaldante collegata a un generatore di corrente
elettrica accende il campione, e il calore sviluppato innalza
la temperatura della bomba, dell’acqua e delle altre parti del
calorimetro.
Conoscendo la capacità termica del calorimetro si può usare
la ΔT misurata per calcolare la quantità di calore rilasciata.
103
EQUAZIONI TERMODINAMICHE
Un metodo per registrare la variazione di entalpia per una particolare reazione è l’equazione
termochimica, cioè un’equazione bilanciata che indica anche il calore di reazione (ΔHr).
Un fatto da tenere bene presente è che il valore di ΔHr si riferisce alle quantità in moli di sostanze
e ai loro stati di aggregazione in quella particolare equazione.
Occorre tenere presente due aspetti:
- Segno:
• ΔHr < 0 : reazione esotermica
• ΔHr > 0 : reazione endotermica
• Il ΔHr della reazione inversa ha segno opposto rispetto a quello della reazione diretta
- Valore assoluto di ΔHr: è direttamente proporzionale alla quantità di sostanza reagente.
Nelle equazioni termochimiche si ricorre spesso a coefficienti stechiometrici frazionari
quando è necessario specificare il valore assoluto di ΔHr con riferimento ad una particolare
sostanza (alla quale va assegnato il coefficiente stechiometrico 1).
Ad esempio: se si fa riferimento al ΔHr di formazione dell’acqua liquida a partire dai suoi
elementi, si dovrà scrivere la reazione termochimica:
1
𝐻2 (𝑔) + 𝑂2 (𝑔) → 𝐻2 𝑂(𝑙)𝑒 𝑛𝑜𝑛 2𝐻2 (𝑔) + 𝑂2 (𝑔) → 2𝐻2 𝑂(𝑙)
2
La reazione, infatti, prevede che la sostanza di riferimento (H2O) abbia coefficiente
stechiometrico 1.
(esempi sulle slide.)
LEGGE DI HESS
Una delle più potenti applicazione dell’entalpia come funzione di stato permette di trovare la
variazione di entalpia di una qualsiasi reazione senza doverla svolgere in laboratorio. Ciò si basa
sulla legge di Hess: la variazione di entalpia di un processo complessivo è la somma delle
variazioni di entalpia delle sue singole tappe. Ciascuna di queste tappe viene scelta poiché se ne
conosce il valore di ΔH.
Il procedimento da seguire è il seguente:
- Scrivere l’equazione chimica obiettivo, cioè quella la cui ΔH è incognita.
- Scrivere le equazioni chimiche la cui ΔH è nota.
- Manipolare quest’ultime equazioni in modo che i loro reagenti e prodotti si trovino dalla
parte corretta (facendo riferimento all’equazione chimica obiettivo). Il segno di ΔH va
cambiato se la reazione viene invertita. Se la reazione viene moltiplicata per un numero,
anche la ΔH va moltiplicata per lo stesso numero.
- Sommare le equazioni a ΔH nota, verificando che l’equazione risultante coincida con
l’equazione obiettivo. Se ciò si verifica correttamente, la somma algebrica dei valori di ΔH
costituirà la ΔH della reazione obiettivo.
CALORI STANDARD
Molti dati termodinamici sono tabulati facendo riferimento a particolari stati standard, cioè un
insieme di condizioni e concentrazioni specifiche:
- Gas: lo stato standard è 1 atm e si assume un comportamento ideale.
- Sostanza in soluzione acquosa: lo stato standard prevede una concentrazione pari a
1molL-1.
- Sostanza pura: lo stato standard è la forma più stabile della sostanza (elemento o
composto), a 1atm e 25 °C.
Si contrassegna una grandezza espressa allo stato standard ponendo uno 0 ad apice (es: ΔH0,
che indica il calore standard di reazione misurato con tutte le sostanze nei loro stati standard).

Il calore standard di formazione (∆𝑯𝟎𝒇 ) è la variazione di entalpia di una reazione di formazione


quando tutte le sostanze sono nei loro stati standard (es: C(grafite) + 2H2 (g) → CH4 (g)).

104
I valori di ∆𝑯𝟎𝒇 sono tabulati per molte sostanze, e si nota che:
- A un elemento nel suo stato standard è assegnata una ∆𝑯𝟎𝒇 = 0.
Es: per Na (s) vale 0, per Na (g) invece no, perché il sodio allo stato standard non è un gas.
- La maggior parte dei composti ha ∆𝑯𝟎𝒇 < 0: ciò significa che nella maggior parte dei casi il
composto è più stabile dei suoi elementi costituenti.
Utilizzando la legge di Hess, è possibile usare i valori di ∆𝑯𝟎𝒇 per determinare la ∆𝑯𝟎𝒓 di
qualsiasi reazione. Infatti il calore standard di reazione è la somma dei calori standard di
formazione dei prodotti meno la somma dei calori standard di formazione dei reagenti:
∆𝑯𝟎𝒓 = ∑ 𝒎 ∙ ∆𝑯𝟎𝒇(𝒑𝒓𝒐𝒅𝒐𝒕𝒕𝒊) − ∑ 𝒏 ∙ ∆𝑯𝟎𝒇(𝒓𝒆𝒂𝒈𝒆𝒏𝒕𝒊)
Dove m e n sono i coefficienti stechiometrici delle specie coinvolte nella reazione.
SPONTANEITÀ DI UNA REAZIONE
L’esperienza insegna che alcune trasformazioni chimiche e fisiche sembrano avere una direzione
naturale e svolgersi spontaneamente, altre no. Ad esempio, CH4 brucia in O2 producendo CO2 e
H2O, ma questi non riformeranno mai CH4 e O2.
Le indagini sulla natura permettono quindi di definire una trasformazione spontanea come un
processo che si svolge da solo; può assorbire o cedere energia. La trasformazione spontanea
avviene da sola in condizioni specifiche, senza un continuo apporto di energia dall’esterno del
sistema. Tutti i processo chimici richiedono energia (energia di attivazione) ma una volta che un
processo spontaneo è iniziato non è necessario un ulteriore apporto di energia.
Di contro, affinché avvenga una trasformazione non spontanea, il sistema deve ricevere un
apporto continuo di energia dall’esterno. In un dato insieme di condizioni, se una trasformazione è
spontanea in una direzione, essa non è spontanea nella direzione opposta (es: un libro cade dal
tavolo a seguito di una piccola spinta, ma non si risolleva da solo).
Spontanea non significa istantanea e non ha nulla a che fare con l’intervallo di tempo che una
trasformazione impiega per svolgersi; al contrario, significa che la trasformazione si svolgerà da
sola, disponendo di tempo sufficiente.
Una reazione chimica che procede verso l’equilibrio è un esempio di trasformazione spontanea;
tuttavia, la legge di azione di massa e il principio di Le Chatelier non spiegano perché esista una
tendenza a raggiungere l’equilibrio.
Il primo principio della termodinamica afferma che l’energia totale dell’universo è costante, e
l’energia interna di un sistema è definibile secondo la relazione: ΔU = q + w.
Tuttavia, questa legge non aiuta a spiegare la direzione della trasformazione. Ad esempio, se si
considera un libro che cade, disperdendo calore sul pavimento, non si riesce a spiegare perché il
calore nel punto di contatto sul pavimento non si riconverte in energia cinetica del libro e lo riporta
sul tavolo da cui è caduto.
Alla metà del XIX secolo, alcuni studiosi di termodinamica pensavano che il segno del ΔH fosse il
criterio di spontaneità di una trasformazione: consideravano spontanee le reazioni esotermiche, e
viceversa. Tuttavia, ciò non era valido in molteplici casi. Ad esempio, l’acqua solidifica sotto 0°C,
ma il ghiaccio fonde sopra 0°C: entrambe le trasformazioni sono spontanee, ma la prima è
esotermica e la seconda è endotermica.
Uno studio dei processi mette in evidenza che le particelle che costituiscono la materia hanno
maggior libertà di movimento in seguito alla trasformazione spontanea. Questo equivale a dire che
l’energia associata al loro movimento è più dispersa. A
d esempio, la dissoluzione di NaCl in acqua è un processo endotermica spontaneo in cui ioni e
molecole di solvente si disperdono nel volume della soluzione e l’energia associata al loro moto è
dunque più dispersa rispetto allo stato iniziale. In termini termodinamici , una variazione della
libertà di movimento delle particelle costituenti un sistema e della dispersione dei valori di energia
associati al movimento è un fattore essenziale nel determinare la direzione di una trasformazione
105
spontanea.
Tutti i processi endotermici spontanei producono un aumento della libertà di movimento delle
particelle del sistema:
solido → liquido → gas
solido cristallino + liquido → ioni in soluzione
minore libertà di movimento delle particelle →maggiore libertà di movimento delle particelle
energia del movimento localizzata → energia del movimento dispersa
Una variazione della libertà di movimento delle particelle in un sistema è uno dei fattori chiave che
determina la direzione di un processo spontaneo.
ENTROPIA
Si consideri un sistema costituito da 1 mol di N2 gassoso e si focalizzi l’attenzione su una singola
molecola. In ogni istante, essa si muove attraverso lo spazio, ruota e i suoi atomi vibrano con
determinate velocità.
Nell’istante successivo, la molecola collide con un’altra e questi stati energetici associati al moto
variano.
In ogni istante, lo stato quantistico della molecola è dato dalla combinazione dei suoi particolari
stati: elettronico, traslazionale, rotazionale e vibrazionale.
È chiaro che per una singola molecola sono possibili molte combinazioni di questi stati e il numero
di stati energetici quantizzati è enorme.
Ogni stato quantizzato del sistema prende il nome di microstato, e per un determinato insieme di
condizioni ogni microstato ha la stessa energia.
Poiché ogni microstato è ugualmente possibile per il sistema, le leggi della probabilità indicano che
tutti i microstati saranno ugualmente occupati se il sistema viene osservato nel tempo.
Ludwig Boltzmann correlò il numero di microstati (W)
all’entropia (S) del sistema:
𝑆 = 𝑘𝐵 ∙ 𝑙𝑛𝑊
Perciò l’entropia descrive la distribuzione di energia di un
sistema in un certo stato.
Ne deriva che:
- un sistema che può distribuire la sua energia su un W
minore ha entropia minore.
- un sistema che può distribuire la sua energia su W
maggiore ha entropia maggiore.
Se W aumenta durante una trasformazione, ci sono più modi
in cui l’energia del sistema può essere distribuita tra essi: ciò
comporta un aumento di entropia, e viceversa.
Analogamente a energia interna ed entalpia, anche l’entropia è una funzione di stato:
ΔS = Sfinale – Siniziale.
Nel caso di reazioni chimiche, la stechiometria dell’equazione bilanciata aiuta a capire il segno di
ΔS. Ad esempio, per la reazione N2O4 (g) ⇋ 2NO2 (g) si passa da una a due molecole di gas:
queste avranno una libertà di movimento molto maggiore di una sola, pertanto la loro energia si
distribuirà in un numero di microstati maggiore (ΔS > 0).
Un metodo per calcolare ΔS è basato sugli scambi di calore che avvengono durante le
𝑞
trasformazioni. Si definisce: ∆𝑆 = 𝑇𝑟𝑒𝑣, in cui è T è la temperatura a cui avviene lo scambio di
calore e q è il calore assorbito. Il pedice ‘’rev’’ si riferisce a un processo reversibile, cioè che
avviene così lentamente che il sistema è sempre in condizioni di equilibrio e la direzione del
processo può essere invertita da una perturbazione infinitesima.
Ad esempio, studiamo l’espansione di un gas da 10 a 20 L in un cilindro sotto la pressione di un
pistone, e circondato da un serbatoio di calore mantenuto a 298 K. Procedendo con un’infinitesima
espansione del volume, si noterà che il gas espanderà di pochissimo alla volta: compirà lavoro
106
sull’ambiente e assorbirà una piccolissima quantità di calore dal serbatoio. Applicando i metodi del
calcolo differenziale per sommare tutti questi piccolissimi incrementi di calore, si ottiene qrev e da
questo ΔS.
2° PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA
Esiste una tendenza naturale verso un aumento dell’entropia. Tuttavia, per applicare correttamente
questo concetto non è sufficiente considerare solo il sistema. Infatti, alcuni sistemi diventano meno
ordinati (l’entropia aumenta) spontaneamente (es: fusione del ghiacci), mentre altri diventano più
ordinati (l’entropia diminuisce, es: solidificazione dell’acqua) sempre spontaneamente. Tuttavia, se
si considerano le trasformazioni sia del sistema che dell’ambiente, si trova che tutte le
trasformazioni avvengono spontaneamente nella direzione che aumenta l’entropia dell’universo
(sistema + ambiente). Questo è l’enunciato del secondo principio della termodinamica. Ne
consegue che per una reazione spontanea, si ha:
∆𝑆𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 = ∆𝑆𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 + ∆𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 > 0
3° PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA
Se per l’entalpia è impossibile determinare un valore assoluto (non esiste un valore di base
dell’entalpia di una sostanza), e pertanto è possibile misurare solo le variazioni di entalpia, per
contro è possibile determinare l’entropia assoluta di una sostanza.
A questo scopo si ricorre al terzo principio della termodinamica, che stabilisce che un cristallo
perfetto ha entropia zero alla temperatura dello zero assoluto. Ssistema = 0 a 0K ‘’Perfetto’’
significa che tutte le particelle sono disposte ordinatamente nella struttura cristallina senza alcun
tipo di difetto. A 0 k tutte le particelle esistenti nel cristallo hanno loro energia minima e possono
essere disposte in un solo modo. Ne consegue che W=1, quindi S = kB∙ln1 = 0.
Per ottenere il valore di entropia a una data temperatura, si raffredda un campione cristallino della
sostanza alla temperatura più vicina possibile a 0K. Dopodiché lo si riscalda fornendo calore con
piccoli incrementi, dividendo q per la temperatura più vicina possibile a 0 K. Dopodiché lo si
riscalda fornendo calore con piccoli incrementi,
dividendo q per la temperatura ed ottenendo
l’aumento di entropia corrispondente a ciascun
incremento. Sommando tutti gli incrementi di
entropia fino alla temperatura di interesse
(tipicamente 2 °C), si ricava l’entropia di una
sostanza e la si può considerare un valore
assoluto.
Come nel caso delle altre variabili
termodinamiche, di solito si confrontano i valori
dell’entropia delle sostanze nei loro stati
standard alla temperatura di interesse.
L’entropia è una proprietà estensiva, pertanto si
fa riferimento all’entropia molare standard (S0),
[𝐽]
misurata in [𝑚𝑜𝑙][𝐾].
Basandosi su eventi a livello molecolare, si è in grado di prevedere gli effetti sull’entropia causati
da:
- Variazioni di temperatura: per una data sostanza, S0 aumenta all’aumentare della
temperatura. Di fatto, cresce l’energia cinetica media delle particelle, e quindi il numero di
microstati in cui si ha la distribuzione dell’energia della sostanza.

107
- Stati fisici e transizioni di fase: per una data sostanza,
S0 aumenta quando la sostanza si trasforma da un solido
a un liquido e da un liquido a un gas.
Nel solido l’energia è meno dispersa e l’entropia è più
bassa; quando il solido fonde, le particelle si muovono
liberamente nel liquido e l’entropia aumenta
improvvisamente. Alla fine, le particelle passano in fase
gassosa, non essendo più soggette a forze intermolecolari
rilevanti, subiscono un improvviso aumento di entropia
(maggiore rispetto a quello della transizione solido-
liquido).
- Dissoluzione di un solido o di un liquido: l’entropia di un solido disciolto o di un soluto
liquido è di solito maggiore dell’entropia del soluto puro, ma il tipo di
soluto e di solvente e la natura del processo di dissoluzione influenzano
la variazione di entropia complessiva. Quando un solido ionico si
scioglie in acqua, si trasforma in ioni idrati separati e dispersi nella
soluzione. Da una parte questi ioni acquistano più liberta di movimento,
ma di contro alcune molecole d’acqua si organizzano attorno agli ioni
(agendo così in senso opposto all’aumento entropico).
Addirittura, se lo ione ha carica elevata (es: Al3+), le molecole d’acqua
sono talmente attratte che l’entropia complessiva può risultare negativa
(ed è quello che accade per la dissoluzione di AlCl3).
Per soluti di tipo molecolare o liquidi, la variazione entropica è molto
contenuta (ma positiva), ed è principalmente causata dal mescolamento
casuale dei due tipi di molecole.
- Dissoluzione di un gas: comporta sempre una diminuzione di entropia, perché le
particelle gassose disciolte in una fase condensata non avranno mai la libertà di movimento
e dispersione di energia che hanno allo stato gassoso. Invece, se un gas si scioglie in un
altro gas, l’entropia aumenta a causa del mescolamento dei due tipi di molecole.
- Raggio atomico o complessità molecolare: per gli elementi in un gruppo, il raggio
atomico riflette la massa molare, e l’entropia aumenta lungo il gruppo; lo stesso vale per gli
elementi di quel gruppo quando vengono legati ad un altro elemento fisso.
Nel caso di un elemento che presenta forme
allotropiche, l’entropia è maggiore nella forma
con legami che permettono agli atomi un
maggiore movimento.
Ad esempio, l’entropia della grafite è più del
doppio di quella del diamante, in quanto il
movimento di un piano reticolare è più facile
del movimento dei singoli atomi in una struttura
tetraedrica. Nel caso dei composti, l’entropia
aumenta con la complessità chimica, cioè col
numero di atomi nel composto; questa
tendenza si basa sul tipo di movimento
disponibile agli atomi e vale soltanto per specie
aventi lo stesso stato d’aggregazione.

Si può spesso prevedere il segno dell’entropia standard di reazione(∆𝑺𝟎𝒓 ). Un fattore decisivo è


la variazione del numero di moli di gas nel passaggio da reagenti a prodotti. Poiché i gas hanno
elevata libertà di movimento (e quindi alte S0), il valore di ∆𝑆𝑟0 è generalmente positivo se il numero
di moli di gas aumenta, e viceversa.
Il valore numerico di ∆𝑺𝟎𝒓 può essere ricavato mediante l’equazione:
108
0 0
∆𝑺𝟎𝒓 = ∑ 𝑚𝑆𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖 − ∑ 𝑛𝑆𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖
dove m e n sono i coefficienti stechiometrici dei singoli prodotti e reagenti della reazione bilanciata.

Le reazioni caratterizzate da ∆𝑺𝟎𝒓 < 0 sono comunque vincolate al secondo principio della
termodinamica: l’entropia del sistema può diminuire solo se l’entropia dell’ambiente aumenta in
misura superiore. Il ruolo dell’ambiente è quello di fornire o sottrarre calore al sistema, e può
partecipare distintamente per:
- Trasformazioni esotermiche: l’ambiente acquista calore dal sistema, e aumenta di entropia.
- Trasformazioni endotermiche: il calore acquistato dal sistema è ceduto dall’ambiente, e
quest’ultimo vede diminuire la proprio entropia.
In sostanza, la variazione entropica dell’ambiente è direttamente proporzionale alla quantità di
calore trasferita al o dal sistema e, soprattutto, a una variazione opposta di calore del sistema.
Anche la temperatura dell’ambiente prima del trasferimento di calore influenza la sua variazione
entropica. Ad esempio, una reazione esotermica che avviene a temperatura molto bassa (es: 20K)
porterà ad una variazione entropica maggiore di quando succede per la stessa reazione condotta
ad alta temperatura (es: 298K), in quanto ad alta temperatura l’energia è già distribuita su un
ampio numero di microstati. Pertanto, la variazione di entropia dell’ambiente è inversamente
proporzionale alla temperatura dell’ambiente prima del trasferimento del calore.
𝑞
Ne consegue che ∆𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 = − 𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 e, se la pressione è costante, si ha che:
𝑇
𝐴𝐻
∆𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 = − 𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 . Ciò significa che è possibile calcolare ΔSambiente misurando ΔHsistema e la
𝑇
temperatura a cui avviene la trasformazione.
È pertanto possibile giustificare perché avvengono sia reazioni esotermiche che endotermiche
spontanee. Indipendentemente da quale sia la variazione di entalpia, una reazione avviene perché
l’entropia totale (del sistema e dell’ambiente) aumenta. Ci sono due possibilità:
- Reazione esotermica (ΔHsistema < 0): il sistema cede calore, aumentando
l’entropia dell’ambiente (ΔSambiente < 0).
• Se ΔSsistema > 0: la variazione di entropia totale sarà positiva.

• Se ΔSsistema < 0: ΔSambiente deve aumentare in misura maggiore per


rendere positiva la variazione di entropia totale.
Ad esempio, nella reazione CaO (s) + CO2 (g) → CaCO3 (s) + q si ha che
il calore ceduto fa aumentare ΔSambiente più di quanto la decrescita del
numero di moli gassose faccia diminuire ΔSsistema.
- Reazione endotermica (ΔHsistema > 0): il calore ceduto dall’ambiente
porta ad una variazione ΔSambiente > 0.
Pertanto, la reazione può avvenire spontaneamente solo se ΔSsistema
>>> 0.
Ne è un esempio la dissoluzione di molti composti ionici.
ENERGIA LIBERA DI GIBBS
Eseguire due misure distinte di ΔSambiente e ΔSsistema permette di prevedere se una reazione è
spontanea a una particolare temperatura. Tuttavia, John Willard Gibbs propose che sarebbe stato
utile avere un unico criterio per la spontaneità, valevole solo per il sistema.
L’energia libera di Gibbs (G) è una funzione di stato che combina l’entalpia e l’entropia del
sistema: G=H-T∙S
La variazione di energia libera (ΔG) è una misura della spontaneità di una trasformazione e
dell’energia utile che se ne può ottenere.
Considerando le relazioni:

109
∆𝐻𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
∆𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 = − 𝑒 ∆𝑆𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 = ∆𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒 + ∆𝑆𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
𝑇
∆𝐻𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
∆𝑆𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 = − + ∆𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
𝑇
Moltiplicando entrambi i termini per -T, si ottiene che
−𝑇 ∙ ∆𝑆𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 = ∆𝐻𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 − 𝑇 ∙ ∆𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
L’energia libera di Gibbs sostituisce i termini a secondo membro
∆𝐺𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 = ∆𝐻𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 − 𝑇 ∙ ∆𝑆𝑎𝑚𝑏𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒
Si ricava quindi che:
−𝑇 ∙ ∆𝑆𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 = ∆𝐺𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
Considerando che il secondo principio della termodinamica stabilisce che una trasformazione è
spontanea se ΔSuniverso > 0 (e viceversa) e ricordando che T è misurata in [K] (quindi è sempre un
numero positivo), si può affermare che il segno di ΔG determina se una reazione è spontanea:
- ΔG < 0: trasformazione spontanea.
- ΔG > 0: trasformazione non spontanea.
- ΔG = 0: trasformazione all’equilibrio.
Ovviamente, se una reazione non è spontanea in una direzione, è spontanea nella direzione
opposta.
Come per le altre variabili termodinamiche, per confrontare le variazioni di energia libera di
differenti reazioni si può calcolare la variazione di energia libera standard (ΔG0), che si ha quanto
tutti i componenti del sistema sono allo stato standard.
Ciò si effettua mediante la relazione:
0 0 0
∆𝐺𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 = ∆𝐻𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎 − 𝑇𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑚𝑎
Alternativamente, è possibile utilizzare l’energia standard di formazione (∆𝐺𝑓0) dei componenti, cioè
la variazione di energia libera che avviene quando viene formata 1 mol di composto nello stato
standard a partire dai suoi elementi.
Essendo l’energia libera una funzione di stato, si può scrivere la relazione:
0 0
∆𝐺𝑟0 = ∑ 𝑚𝐺𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑖 ∑ 𝑛𝐺𝑟𝑒𝑎𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖
dove m e n sono i coefficienti stechiometrici dei singoli prodotti e reagenti della reazione bilanciata.
Analogamente a quanto visto per ∆𝐻𝑓0 , si ha che ∆𝐺𝑓0= 0 per un elemento nel suo stato standard.
Nella maggior parte dei casi, il contributo di ∆H è molto maggiore del contributo di T∙ΔS nel calcolo
di ΔG. Per questo motivo, la maggior parte delle reazioni esotermiche sono spontanee. Però, la
temperatura a cui avviene una reazione influenza il valore del termine T∙ΔS, pertanto si può
affermare che in molti casi la spontaneità complessiva dipende dalla temperatura.
Un esame dei segni di ΔH e ΔS permette di prevedere l’effetto della temperatura sul segno di ΔG e
quindi sulla spontaneità di una trasformazione a qualsiasi temperatura.
Si distinguono i seguenti casi:
- Reazione spontanea a qualsiasi temperatura: ΔH < 0 e ΔS > 0 porteranno sempre ad
avere ΔG < 0. rientrano in questa categoria molte reazioni di combustione.
- Reazione mai spontanea a qualsiasi temperatura: ΔH > 0 e ΔS < 0 porteranno sempre
ad avere ΔG > 0. queste reazioni avvengono solo se è fornita energia sufficiente
dall’ambiente.
- Reazione spontanea ad alte temperature: ΔH > 0 e ΔS > 0 porteranno ad avere ΔG < 0
solo se il contributo di T ∙ ΔS prevale su quello di ΔH. Ciò avviene se la temperatura è
sufficientemente alta.
- Reazione spontanea a basse temperature: ΔH < 0 e ΔS < 0 porteranno ad avere ΔG < 0
solo se il contributo di ΔH prevale su quello di T ∙ ΔS. Ciò avviene se la temperatura è
sufficientemente bassa.

110
Quando i segni di ΔH e ΔS sono uguali, esiste una temperatura a cui la
trasformazione passa da spontanea a non spontanea, o viceversa. Per
trovare questa temperatura, è sufficiente porre ΔG=0 e risolvere rispetto
∆𝐻
alla temperatura: 𝑇 = ∆𝑆
.
Il segno di ΔG permette di prevedere la spontaneità di una reazione e quindi la sua direzione,
analogamente a quanto è possibile fare confrontando Q con K. Matematicamente, è possibile
dimostrare che questi termini sono in relazione fra loro:
𝑄
∆𝐺 = 𝑅 ∙ 𝑇 ∙ ln
𝐾
Questa relazione stabilisce che la ΔG di un sistema è la differenza tra il suo valore in uno stato
iniziale (Q) e il suo valore nello stato finale (K): per un sistema all’equilibrio si ha Q=K, quindi
ΔG=0.
Se si considera il sistema allo stato standard, occorre imporre 1M o 1atm a tutte le quantità
contenute in Q, pertanto Q=1.
𝑄
Ne consegue la reazione ∆𝐺 = 𝑅 ∙ 𝑇 ∙ ln 𝐾 diventa
∆𝑮 = 𝑹 ∙ 𝑻 ∙ 𝐥𝐧 𝑲.
Si tratta di una relazione fondamentale che
evidenzia anche come una piccola variazione di
abbia un grande effetto sul valore di K.
Ovviamente, la maggior parte delle reazioni non
comincia con tutti i componenti nei loro stati
standard.
Si può quindi sostituire la relazione tra ΔG0 e K
𝑄
nell’espressione ∆𝐺 = 𝑅 ∙ 𝑇 ∙ ln 𝐾, ottenendo ∆𝐺 = ∆𝐺 0 + 𝑅 ∙ 𝑇 ∙ ln 𝐾.

LE SOLUZIONI
Quando si forma una soluzione si ha sempre ∆S > 0 in quanto il disordine del sistema aumenta.
Perciò, la soluzione si formerà spontaneamente se:
- ∆H < 0;
- ∆H = 0;
- ∆H < T∙∆S
Il processo di dissoluzione può essere
leggermente endotermico (NaCl) o esotermico
(NaOH). Fa eccezione la dissoluzione del
nitrato di ammonio (NaNO3), usato come
ghiaccio istantaneo in campo medico sportivo
per le infiammazioni locali.
Per una soluzione ideale invece ∆Hsoluzione = 0
nella dissoluzione dei sali l’energia reticolare
gioca un ruolo molto importante.

111
Elettrochimica
L’elettrochimica studia le variazioni chimiche prodotte dalla corrente elettrica e la produzione di
elettricità ottenuta tramite reazioni chimiche.
Molti metalli sono purificati o sono depositati su gioielli con metodi elettrochimici.
Orologi digitali, motorini di avviamento di automobili, calcolatori, e pacemakers sono alcuni tra i
dispositivi che dipendono dalla potenza prodotta per via elettrochimica.
Anche la corrosione dei metalli è un processo elettrochimico. Dallo studio dell’elettrochimica si può
imparare molto sulle reazioni chimiche.
La quantità di energia consumata o prodotta può essere misurata accuratamente. Tutte le reazioni
elettrochimiche implicano il trasferimento di elettroni e sono quindi reazioni di ossido-
riduzione.
I processi elettrochimici richiedono qualche metodo che permetta di introdurre un flusso di elettroni
in un sistema chimico di reazione e qualche modo per portarli via. In molte applicazioni il sistema
di reazione è contenuto in una cella, e una corrente elettrica entra o esce dagli elettrodi.
Consideriamo una reazione RedOx generica:
RED1 + OX2 ⇋ OX1 + RED2
Questa reazione può essere scomposta in due semi-reazioni:
- Reazione di ossidazione o reazione anodica: RED1 → OX1 + n e-
- Reazione di riduzione o reazione catodica: OX2 + n e- → RED2
Una reazione RedOx avviene per scambio di elettroni dalla specie che si ossida a quella che si
riduce, per contatto diretto tra le specie che prendono parte alla reazione spontanea, ad es:
2𝐴𝑔+ (𝑎𝑞) + 𝐶𝑢 (𝑠) → 2𝐴𝑔 (𝑠) + 𝐶𝑢2+ (𝑎𝑞)
Quando una striscia di zinco viene immersa in una soluzione
contenente ioni Cu2+ (a sinistra), avviene una reazione di
ossidoriduzione spontanea. Il risultato finale è mostrato a
destra. Il rame solido di deposita ed il colore blu dovuto al
Cu2+ schiarisce.
𝐶𝑢2+ (𝑎𝑞) + 2𝑒 − → 𝐶𝑢 (𝑠) [𝑟𝑖𝑑𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒]

𝑍𝑛 (𝑠) → 𝑍𝑛2+ + 2𝑒 − [𝑜𝑠𝑠𝑖𝑑𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒]

𝐶𝑢2+ (𝑎𝑞) + 𝑍𝑛(𝑠) → 𝑍𝑛2+ + 𝐶𝑢(𝑠)


Lo Zn si ossida e cede elettroni allo ione Cu2+.
Benché gli elettroni vengano trasferiti, non si ha generazione di energia elettrica perché i reagenti
sono tutti nello stesso recipiente.
Una reazione RedOx può anche avvenire se le specie sono in contenitori diversi messi in contatto
elettrico tra loro e le cui soluzioni sono unite da una membrana semipermeabile o da un ponte
salino.
Le reazioni elettrochimiche sono reazioni chimiche in cui, mediante passaggio di elettroni dalla
specie che si ossida alla specie che si riduce, attraverso un conduttore di I specie, hanno luogo
processi di ossido-riduzione.
Caratteristiche delle reazioni elettrochimiche:
- Le semireazioni avvengono in zone fisicamente diverse.
- Lo scambio di carica avviene per mezzo di un passaggio di elettroni attraverso un
conduttore di I specie.
- Il circuito è chiuso da un conduttore di II specie (l’elettrolita) che permette lo spostamento
delle specie reagenti (cariche) alle zone di reazione.

112
CELLE ELETTROCHIMICHE
Elettrochimica: studio delle relazioni tra cambiamenti chimici e lavoro elettrico.
Celle elettrochimiche: sistemi in cui una reazione RedOx viene utilizzata per produrre o utilizzare
energia elettrica.
Una cella elettrochimica che utilizza una RedOx spontanea (ΔG < 0) è detta cella galvanica o cella
voltaica o pila.
Il sistema compie lavoro sull’ambiente.
Una pila è un dispositivo in grado di trasformare l’energia
chimica in energia elettrica
Se si utilizza un generatore di corrente per fornire corrente
continua al sistema, è possibile far avvenire delle reazioni
opposte alla spontaneità (ΔG > 0). Questo dispositivo si
chiama cella elettrolitica.
L’ambiente compie lavoro sul sistema.
Entrambi i tipi di celle sono costituiti da due elettrodi posti
in una soluzione elettrolitica.
- L’anodo è l’elettrodo a cui avviene l’ossidazione.
- Il catodo è l’elettrodo a cui avviene la riduzione.
CELLA VOLTAICA/GALVANICA/PILA
La natura dell’elettricità era ignota fino alla fine del XVIIIo secolo, quando lo scienziato italiano
Luigi Galvani scoprì che i muscoli di animali morti, in particolare rane, toccati con bacchette
conduttrici di cariche elettriche, si contraevano. Egli pensò che l’elettricità fosse generata dagli
stessi muscoli. Tuttavia, alla fine di quel secolo (1799) un altro italiano, Alessandro Volta, suggerì
che l’elettricità derivasse dal fatto che, quando toccati con le bacchette, i muscoli venivano a
trovarsi tra due metalli differenti. Egli provò che l’elettricità deriva dai metalli, costruendo una torre
di dischi alternati di differenti metalli in strati separati da strisce di carta imbevute di una soluzione
di cloruro di sodio. Questo dispositivo, noto come ‘’pila di Volta’’, fu il primo dispositivo per la
produzione di corrente elettrica, una semplice batteria.
In generale, in una cella voltaica:
- Ogni semireazione ha luogo in una semicella (o semielemento) fisicamente separate.
- Ogni semicella è costituita da un elettrodo immerso in una soluzione elettrolitica.
- Le semicelle sono collegate da un circuito esterno.
- Un ponte salino completa il circuito elettrico.
- L’ossidazione (perdita di e-) avviene all’anodo, che è dunque la sorgente di e- :
X (s) → X+ (aq) + e-
La massa di X (s) all’anodo diminuisce nel tempo, man mano che aumenta la [X+] nella
soluzione elettrolitica.
- La riduzione (acquisto di e-) avviene al catodo, dove gli e- vengono usati:
Y+ (aq) + e- → Y (s)
La [Y+] in questa semicella diminuisce nel tempo e la massa del catodo di Y(s) aumenta.
LA PILA DI DANIEL
La pila Daniell è uno dei primi esempi di cella
galvanica che sfrutta l’ossidazione del rame a opera
degli ioni di zinco. La inventò nel 1836 il chimico
britannico John Daniell, nel momento in cui lo sviluppo
della telegrafia generò il bisogno urgente di sorgenti di
corrente elettrica affidabili e costanti, ma anche a
basso costo.
Nella pila Daniell i due reagenti sono separati: lo zinco
113
metallico è immerso in una soluzione di solfato di zinco e l’elettrodo di rame in una soluzione di
rame (II). Affinché possano viaggiare dagli atomi di zinco agli ioni Cu2+ e far svolgere la reazione
spontanea, gli elettroni devono passare dallo zinco metallico, attraversare il filamento che funge da
circuito esterno e poi l’elettrodo di rame immerso nella soluzione di rame (II). Gli ioni Cu2+ si
trasformano in atomi al catodo nella semireazione di riduzione Cu2+ (aq) + 2e- → Cu(s).
Contemporaneamente, gli atomi di zinco si trasformano in ioni Zn2+ all’anodo nella semireazione di
ossidazione Zn (s) → Zn2+ (aq) + 2e-. Quando gli ioni Cu2+ si riducono , la soluzione catodica si
carica negativamente, mentre la soluzione anodica inizia a sviluppare una carica positiva man
mano che gli ioni Zn2+ entrano in soluzione. Per evitare questo accumulo di carica, che
arresterebbe rapidamente il flusso degli elettroni, le due soluzioni sono in contatto attraverso una
parete porosa (o un ponte salino): gli ioni presenti nell’elettrolita passano da un compartimento
all’altro e completano, cioè chiudono, il circuito elettrico.
PONTE SALINO
Il ponte salino completa il circuito elettrico e permette il flusso degli ioni tra le due semicelle.
Per ossidazione dello Zn all’anodo, si formano Zn2+ che passano in soluzione.
Gli ioni Cu2+ abbandonano la soluzione per essere ridotti al catodo.
Il ponte salino mantiene l’elettroneutralità delle soluzioni permettendo il passaggio di ioni negativi
che bilanciano l’eccesso di ioni Zn2+ all’anodo e di ioni positivi che bilanciano il difetto di ioni Cu2+
al catodo.
Un ponte salino contiene cationi e anioni non reattivi, spesso K+ e NO3- , disciolti in un gel.
FLUSSO DI CARICA IN UNA CELLA GALVANICA
Gli elettroni fluiscono attraverso il circuito esterno dall’anodo al catodo.

Per convenzione, nella rappresentazione di una cella galvanica, si scrive l’anodo a sinistra e il
catodo a destra.
PILA Cu-Ag
a pila è divisa in due semicelle dove avvengono:
- La reazione di ossidazione: Cu →Cu2+ + 2e- ANODO ⨺
- La reazione di riduzione: Ag+ + e- → Ag CATODO ⨹
La pila può essere schematizzata come segue:

ELETRODI ATTIVI E INERTI


Un elettrodo attivo è un componente attivo della semicella e partecipa
alla reazione complessiva.
Un elettrodo inerte fornisce una superficie alla reazione, conduce
elettroni entro e fuori la cella ma non prende parte
attivamente alla reazione. In effetti, per molte reazioni
RedOx non esistono reagenti o prodotti che possano
funzionare da elettrodi perciò
vengono utilizzati elettrodi inerti.

114
Gli elettrodi inerti più comuni sono barrette di grafite o platino: conducono elettroni entro e fuori
la cella ma non prendono parte alle semireazioni.
Esiste un’utile notazione abbreviata per descrivere i componenti di una cella voltaica.
Ad esempio, nel caso della pila Daniell si ha:
Zn (s) | Zn2+ (aq) || Cu2+ (aq) | Cu (s)
Questa rappresentazione si basa sulle seguenti regole:
- I componenti del comportimento anodico sono scritti a sinistra.
- Una linea verticale rappresenta una separazione di fase, mentre una virgola rappresenta i
componenti di cella che sono presenti nella stessa fase.
Ad esempio:
Grafite | I- (aq)|I2 (s) || H+ (aq), MnO4- (aq), Mn2+ (aq) | Grafite
Spesso si indica la molarità degli ioni subito dopo la loro formula.
- Gli elettrodi sono posti come primo e ultimo termine della rappresentazione.
- Una doppia linea verticale separa le semicelle e rappresenta la separazione di fase ad
entrambe le estremità del ponte salino.
POTENZIALE DELLA CELLA
L’energia elettrica prodotta da una cella voltaica è proporzionale alla differenza di potenziale
elettrico tra i due elettrodi. Tale differenza è detta potenziale di cella (ΔE) o differenza di
potenziale (d.d.p.) o forza elettromotrice (fem).
Gli elettroni sono carichi negativamente, perciò fluiscono spontaneamente dal polo negativo a
quello positivo, cioè verso l’elettrodo col potenziale elettrico positivo. Quando la cella funziona
spontaneamente, la differenza tra i potenziali elettrici è positiva, cioè ΔE > 0. Più ΔE è positivo,
maggiore è il lavoro che la cella può compiere ( e più la reazione redox bilanciata procede verso
destra).
L’unità di misura del potenziale elettrico è il volt (V) e quella della carica elettrica è il coulomb (C).
Per definizione, per due elettrodi il cui potenziale differisce di 1 V, viene rilasciato1 J di energia per
ogni coulomb di carica che si muove tra gli elettrodi. Pertanto, V = [J]/[C] , e ciò evidenzia la
correlazione tra potenziale di cella ed energia disponibile per compiere lavoro.
La misura del potenziale di una cella voltaica è influenzata dalle variazioni in concentrazione che
avvengono man mano che la reazione procede e dalle perdite di energia dovute al riscaldamento
della cella e del circuito esterno. Pertanto, per poter confrontare diverse celle si utilizza il
potenziale standard di cella (ΔE0 ), cioè il potenziale misurato a 25 °C e in cui tutti i componenti
sono nel loro stato standard. Nel caso della pila Daniell si ha ΔE 0 = 1,1 V.
Se, invece, si fa riferimento ad una singola semicella, è possibile definire il potenziale elettrodico
standard (E0 ), tipico per una data semireazione in cui tutti i componenti si trovano allo stato
standard. Per convenzione, E0 si riferisce sempre alla semireazione scritta nel verso della
riduzione (cioè con gli elettroni posti a primo membro dell’equazione).
Per ogni cella galvanica si a che :
∆𝑬𝟎 = 𝑬𝟎𝒄𝒂𝒕𝒐𝒅𝒐 − 𝑬𝟎𝒂𝒏𝒐𝒅𝒐
Mentre è immediato misurare ΔE0
per una cella galvanica, i singoli
valori di E0 non sono assoluti, ma
relativi a quello di uno standard. I
chimici hanno scelto una semicella
di riferimento e definito il
0
suo 𝐸𝑟𝑖𝑓 = 0 𝑉. questa semicella di
riferimento è un elettrodo
standard ad idrogeno, costituito
da un elettrodo di Pt immerso in

115
una soluzione a 1M di un acido forte, attraverso la quale gorgoglia H2 gassoso alla pressione di 1
atm.
La semireazione dell’elettrodo di riferimento è :
2𝐻 + (𝑎𝑞) + 2𝑒 − ⇋ 𝐻2 (𝑔)
È quindi possibile costruire celle galvaniche costituite da un elettrodo di riferimentoe da una
semicella di cui si vuole determinare E0 : il valore di ΔE0 della cella voltaica, assumendo che
0
𝐸𝑟𝑖𝑓 =0 V, permetterà di ottenere il valore di E0 incognito.
0 0
Operando in questo modo, per la pila Daniell si trova che: 𝐸𝑟𝑎𝑚𝑒 = 0,34 𝑉 𝑒 𝐸𝑧𝑖𝑛𝑐𝑜 = −0,76 𝑉.

Attraverso la misura del potenziale di celle galvaniche si può determinare la forza relativa di
agenti ossidanti e riducenti. Più è positivo il valore di E0 , più facilmente la semireazione avviene
nel senso in cui è scritta (cioè nel senso della riduzione).
Si ottiene in questo modo la tabella dei potenziali elettrodici standard, che riporta coppie
RedOx in ordine di E0 decrescenti.
Si deve tenere presente che:
- tutti i valori sono relativi all’elettrodo standard ad idrogeno;
- le semireazioni sono scritte come riduzioni;
- più positivo è E0 , più facilmente avviene la semireazione;
- le semireazioni sono scritte con la freccia di equilibrio, in quanto possono avvenire in una
direzione o nell’altra a seconda di quale semireazione avvenga nell’altra semicella della
cella voltaica;
- la forza degli agenti ossidanti (reagenti) aumenta dal basso verso l’alto e la forza degli
agenti riducenti (prodotti) aumenta dall’alto verso il basso. Ad esempio, F2 è il più forte
agente ossidante e F- è il più debole agente riducente; Li+ è il più debole agente ossidante
e Li è il più forte agente riducente.
Conoscere le proprietà periodiche degli elementi e l’elettronegatività aiuta a capire se una
specie è un agente ossidante o riducente.
Ogni reazione RedOx è la somma di due semireazioni, perciò c’è un agente ossidante e un agente
riducente in entrambi i membri dell’equazione. Per scrivere la reazione RedOx nel verso in cui
avviene spontaneamente, occorre ricordare che la semireazione con E 0 maggiore avverrà nel
senso della riduzione, mentre quella a E0 minore avverrà nel senso dell’ossidazione.
Sapendo che per la coppia Ag+/Ag si ha E0 = 0,80 V e per la coppia Sn2+/Sn si ha E0 = -0,14V,
scrivere la reazione RedOx bilanciata e calcolare ΔE0
𝐴𝑔+ + 𝑒 − → 𝐴𝑔
{ 2+
𝑆𝑛 + 2𝑒 − → 𝑆𝑛
+ 0
La coppia Ag /Ag ha E maggiore, quindi la semireazione avverrà nel senso della riduzione;
viceversa per la coppia Sn2+/Sn. In altre parole, Ag è il catodo e Sn è l’anodo.
𝐴𝑔+ + 𝑒 − → 𝐴𝑔 𝐴𝑔+ + 2𝑒 − → 𝐴𝑔
{ {
𝑆𝑛 → 𝑆𝑛2+ + 2𝑒 − 𝑆𝑛 → 𝑆𝑛2+ + 2𝑒 −
0 0
2𝐴𝑔+ + 𝑆𝑛 → 2𝐴𝑔 + 𝑆𝑛2+ 𝑒 ∆𝐸 0 = 𝐸𝑐𝑎𝑡𝑜𝑑𝑜 − 𝐸𝑎𝑛𝑜𝑑𝑜 = 0,80 − (−0,14) = 0,94 𝑉
Quando si bilanciano le reazioni col metodo delle semireazioni, i valori di E0 non vengono mai
moltiplicati per un numero, in quanto E0 è una grandezza intensiva.
La serie di attività dei metalli ordina questi elementi in base a due proprietà:
- Capacità di spostare lo ione di un altro metallo dalla soluzione (riducendolo allo stato
elementare).
- Capacità di spostare H2 dall’acqua o da un acido.
Tutte queste variazioni della reattività dei metalli diventano chiare se si esaminano i valori
di E0.
È possibile distinguere:
- Metalli che spostano H2 da acidi: sono tutti quelli aventi E0 negativo (es: Fe).
116
Spontaneamente, il metallo si ossida e il protone si riduce a H2.

- Metalli che non spostano H2 da acidi: sono tutti quelli aventi E0 positivo (es: Ag).
Se si pone una barretta di Ag in una soluzione di protoni, non avverrà alcuna reazione
spontanea.

Maggiore (più positivo) è il valore di E0 di un metallo, meno questo sarà attivo e quindi più
debole sarà il potere riducente.

- Metalli che spostano H2 dall’acqua: sono tutti quelli aventi E0 < 0,42 V, cioè il valore di
E (non E0) per la riduzione di H2O neutra (pH 7).
Ad esempio, Na si ossida e H2O si riduce a H2 e OH-, e ciò è tipico di metalli alcalini e
alcalino-terrosi.

- Metalli che spostano altri metalli dalla soluzione: ogni metallo sposta dalla soluzione
un altro metallo avente E0 superiore.
Ad esempio, Zn sposta Fe2+ da una soluzione.

A una reazione spontaneo è associato un valore di ΔG < 0, mentre ad una reazione elettrochimica
spontanea è associato un valore di ΔE > 0. Quindi, ΔG e ΔE hanno segno
opposto: ΔG ∝- ΔE.
Si può dimostrare che ΔG = -n∙F∙ ΔE, dove F è la costante di Faraday,
cioè la carica elettrica di 1 mol di elettroni (F = 9,65∙104 J V-1 mole-1) e n è
il numero di moli di elettroni. Analogamente, allo stato standard, si ha che
ΔG0= -n∙F∙ ΔE0.
Mediante questa relazione, è possibile correlare ΔE0 alla costante di
equilibrio di una reazione RedOx. Infatti, ricordando che ΔG0= -R∙T∙lnK,
𝑹∙𝑻
sostituendo a primo membro ΔG0= -n∙F∙ ΔE0, si ottiene ∆𝑬𝟎 = 𝒏∙𝑭 ∙ 𝒍𝒏𝑲.
Ciò significa che una semplice misura ΔE0 di consente l’ottenimento di K e
ΔG0 per una reazione RedOx.
La maggior parte delle celle voltaiche non opera in condizioni standard e, anche se lo facesse, i
valori di molarità varierebbero (da 1 M) dopo pochi istanti di operazione della cella. Occorre quindi
essere in grado di calcolare ΔE in condizioni non standard.
Walther Hermann Nernst riprese la relazione ΔG = ΔG0 + R∙T∙lnK, e sostituendo i termini di
117
energia libera ottenne -n∙F∙ ΔE= -n∙F∙ ΔE0 + R∙T∙lnQ. Ne risulta l’equazione di Nernst:
𝑹∙𝑻
∆𝑬 = ∆𝑬𝟎 − ∙ 𝒍𝒏𝑸. In questa relazione, il termine n (che indica il numero di moli di elettroni
𝒏∙𝑭
trasferiti), corrisponde al coefficiente stechiometrico di e- nella reazione RedOx bilanciata col
metodo delle semireazioni.
Sostituendo i valori delle costanti R e F, operando a 25 °C e convertendo i logaritmi in base 10 si
ottiene:
𝟎𝟓𝟗𝟐
∆𝑬 = ∆𝑬𝟎 − 𝟎, 𝒍𝒐𝒈𝑸
𝒏
Si ricordi che l’espressione di Q include solo le molarità delle specie con concentrazioni o pressioni
parziali che possono variare nel corso della reazione (quindi i solidi non appaiono, anche se
possono costituire gli elettrodi di cella).
Qualora si riferisca ad una singola semicella (di cui si vuole calcolare E), l’equazione di Nernst
semplificata è spesso riportata così:
𝟎𝟓𝟗𝟐 [𝒔𝒑𝒆𝒄𝒊𝒆 𝒓𝒊𝒅𝒐𝒕𝒕𝒂]𝒙
∆𝑬 = ∆𝑬𝟎 − 𝟎, 𝒍𝒐𝒈
𝒏 [𝒔𝒑𝒆𝒄𝒊𝒆 𝒐𝒔𝒔𝒊𝒅𝒂𝒕𝒂]𝒚
Con riferimento alla pila Daniell, per la reazione RedOx
[𝑍𝑛2+ ]
Cu2+ (aq) + Zn (s) → Cu (s) + Zn2+ (aq) si ha 𝑄 = [𝐶𝑢2+ ] . Il
valore di ∆E0=1,1 V indica che la reazione procede
spontaneamente da una situazione in cui Q = 1 (ipotizzando di
partire da condizioni standard) a un’altra in cui Q > 1. È
possibile identificare questi momenti durante il funzionamento
della cella:
- ΔE = ΔE0 quando Q = 1.
- ΔE < ΔE0 quando Q < 1.
- ΔE = 0 quando Q = K. Ciò avviene quando il termine
0,0592
𝑙𝑜𝑔𝑄 diventa così grande nell’equazione di Nernst
𝑛
che eguaglia ΔE0, portando a ΔE = 0. Ciò si ha quando
il sistema raggiunge l’equilibrio: non viene più rilasciata
energia libera e la cella non può più compiere lavoro. Si
dice che ‘’la cella voltaica è scarica’’.
Se una soluzione concentrata di un sale viene posta in contatto con una soluzione diluita si ha
mescolamento spontaneo e la concentrazione finale delle due soluzioni diventa uguale e con un
valore intermedio.
Una cella voltaica a concentrazione utilizza questa tendenza spontanea per generare energia
elettrica. Le due soluzioni sono poste in semicelle separate, perciò non si mescolano fisicamente:
le loro concentrazioni diventano uguali tramite il funzionamento della cella.
Ad esempio, si ipotizzi una cella voltaica con entrambe le semicelle ospitanti la semireazione
Cu2+/Cu. La reazione complessiva è la somma di due reazioni scritte in direzioni opposte, pertanti i
valori di E 0 si annullano vicendevolmente.
Tuttavia, in una cella voltaica a concentrazione si ha che le molarità di Cu2+ sono diverse nelle due
semicelle: perciò, anche se ΔE0=0, si ha ΔE ≠ 0 e dipende dal rapporto tra le molarità degli ioni.

118
pHmetro
Le celle voltaiche a concentrazione hanno grande rilievo commerciale. Ne è un esempio il
pHmetro, costituito da un elettrodo a vetro e da un elettrodo di riferimento. L’elettrodo a vetro è un
elettrodo a membrana e deve il nome al fatto che la sua parte sensibile al pH è una sottile
membrana di vetro (sensibile ai protoni).
Il potenziale elettrico che si viene a creare sui due lati, interno ed esterno, della membrana è
funzione del pH della soluzione in cui la sonda viene immersa. Di fatto, il singolo elettrodo di vetro
è una pila a concentrazione di H+, poiché il suo potenziale dipende dalla differenza della
concentrazione protonica fra la soluzione tampone contenuta all’interno e quella incognita esterna.
Invece, l’elettrodo di riferimento ha un potenziale costante. Per questioni di praticità, questo
elettrodo è contenuto all’interno di quello a vetro. In questo modo, si ha un unico
corpo, l’elettrodo di vetro da immergere nella soluzione a pH incognito e l’elettrodo
di riferimento al suo interno. Un elettrodo a vetro di questo genere viene detto
elettrodo combinato. Lo strumento converte la differenza di potenziale in una misura
di pH secondo la relazione ΔE = 0,0592∙pH.
L’elettrodo a vetro combinato si compone di un tubo di vetro incamiciato da un tubo
esterno, in cui sono contenuti un filo di Ag [5], AgCl e un elettrolita (generalmente
una soluzione di KCl) [6], che fungono da elettrodo di riferimento. Anche nel tubo
interno si trovano un filo di Ag [4], AgCl e un elettrolita [2]; all’elettrolita è aggiunta
una soluzione tampone, e questo assemblaggio costituisce l’elettrodo di misura. Il
tubo interno è in contatto con la soluzione del campione da misurare attraverso una
membrane di vetro sottile posta alla sua estremità [8]; il tubo esterno è in contatto
con la soluzione del campione da misurare attravero un diaframma poroso che
funge da ponte salino [7]. Sul tubo esterno è inoltre presente un tappo rimovibile [3]
per operazioni di manutenzione, quali il sostituire o riportare a livello l’elettrolita di
riferimento.
La parte sensibile al pH è il bulbo, che è ricoperto internamente ed esternamente da uno strato di
gel idratato. La struttura cristallina del bulbo è progettata in modo da permettere la mobilità di ioni
Na+. Questi ioni possono diffondere dal vetro ai due strati di gel, mentre allo stesso tempo, ioni H+
della soluzione possono permeare lo strato esterno di gel. Gli ioni H+ non attraversano il bulbo, ma
causano il movimento a causa di gradienti di carica, degli ioni Na+.
Quando la soluzione in cui viene immerso il pHmetro è acida si avrà un accumulo di H+ sulla
superficie esterna del bulbo, con migrazione di ioni Na+ all’interno. Al contrario, se la soluzione è
basica, si avrà un impoverimento di ioni H+ sulla superficie, con migrazione di Na+ verso l’esterno.
Il pHmetro misura proprio queste variazioni di potenziale elettrochimico, che vengono amplificate e
visualizzate in unità pH corrispondenti.
Si tenga presente che la faccia interna del bulbo è a contatto
con una soluzione tamponata a pH noto e fisicamente isolata
dall’ambiente esterno, mentre la faccia esterna è a contatto
della soluzione sottoposta a misura. Il potenziale elettrico
registrato dall’elettrodo è dovuto a questo squilibrio tra gli ioni
H+ presenti sugli strati superficiali interno ed esterno della
membrana. La misura di questo potenziale elettrico è
effettuata mediante i due fili di Pt (o Ag) , i quali sono in
contatto con entrambi i lati della membrana. Infatti, il filo
contenuto nel tubo esterno è in contatto elettrico con la
soluzione sottoposta a misura grazie al ponte salino (il
diaframma poroso). Il potenziale misurato viene quindi
inviato al pHmetro tramite il cavo coassiale per venire
amplificato e visualizzato in unità di pH corrispondenti.

119
L’elettrodo di riferimento Ag/AgCl si basa sulla semireazione AgCl (s) + e- ⇋ Ag (s) + Cl- (aq) e il
suo potenziale è determinato solo dalla concentrazione di ioni Cl-; non cambia quindi in funzione
della soluzione analizzara, è costante nel tempo ed è reversibile.
Gli elettrodi di riferimento disponibili sono diversi, e sicuramente – per un’applicazione come quella
del pHmetro – l’elettrodo Ag/AgCl è più comodo e più compatto rispetto ad un elettrodo di
riferimento ad idrogeno.
L’elettrodo a vetro per la misura del pH è un esempio di elettrodo ione-selettivo. Sono stati
progettati altri elettrodi con membrane selettive per misurare le concentrazioni di particolari ioni in
campioni di varia provenienza. Quelli di più recente sviluppo permettono di misurare
concentrazioni dell’ordine di 10-12 M.
BATTERIE
Una batteria è un insieme di celle voltaiche poste in serie, on modo che le loro differenze di
potenziale si sommino.
Le batterie primarie non sono ricaricabili e vengono quindi smaltite dopo il primo (e unico) utilizzo.
Tra le principali ci sono:
- Batteria a secco (o di Leclanché): è formata da un anodo di Zn e un catodo inerte di
grafite, con funzione di conduttore. Tra lo Zn e la barretta di grafite si trova una pasta di
MnO2, NH4Cl e ZnCl2.
All’anodo avviene la semireazione Zn → Zn2+
+ 2e-, mentre al catodo si ha
2NH4+ + 2e- → H2 + 2NH3.
I prodotti della riduzione sono due gas, le cui
pressioni porterebbero alla rottura della pila;
ciò è contrastato dall’azione di Zn2+ e MnO2,
che reagiscono coi due gas, stabilizzandoli in
fase condensata. Il potenziale di cella è di 1,5
V, ma a causa dell’accumulo di NH3 attorno al
catodo questo valore tende a ridursi.
- Batteria alcalina: rappresenta lo sviluppo della batteria a secco, ed utilizza una pasta di
KOH e H2O come elettrolita (al posto NH4Cl). L’elettrolita è dunque basico ed evita
l’accumulo di gas. È una batteria economica, sicura e disponibile in diverse dimensioni,
usata per torce elettriche, giocattoli e dispositivi elettronici vari. Non ha cadute di tensione e
ha lunghi tempi di vita.

- Batteria a bottone: può essere a Hg (1,3 V) o Ag (1,6 V). In entrambi i casi si usa un
anodo di Zn in un mezzo basico. Entrambe hanno un catodo di acciaio, ma una utilizza
HgO e l’altra Ag2O come sostanza ossidante. I reagenti solidi sono compattati
separatamente con KOH, mentre della carta umida costituisce il ponte salino. Entrambe
sono costruite a forma di un piccolo bottone, e sono utilizzate nelle calcolatrici, orologi e
120
apparecchi acustici. I loro principali svantaggi sono la tossicità di Hg (rilasciato dalle pile
gettate via) e l’elevato costo di Ag.

- Batteria primaria al litio: ampiamente utilizzata in orologi e impianti medici, è


caratterizzata da un elevata rapporto energia/massa. Produce infatti 1 F da meno di 7g di
Li; il potenziale di cella è di 3 V. L’anodo è una lamina di Li, il catodo è un ossido in cui lo
ione Li+ può intercalarsi tra i piani cristallini (es: AgV2O5,5). Queste batterie hanno alta
affidabilità, tempo di vita molto lungo (10-15 anni), basso valore di scarica a riposo (circa
2% all’anno), sono sigilabili in quanto non liberano H2 gassoso. Glu unici difetti sono i costi
elevati, la bassa capacità e l’infiammabilità data dalla presenza di un solvente organico
piuttosto che di uno acquoso.

Le batterie secondarie (o accumulatori) sono ricaricabili fornendo energia elettrica per invertire la
reazione di cella e riformare i reagenti. Tra le principali si citano:
- Batteria piombo-acida: una tipica batteria da automobile da 12 V è costituita da 6 celle
voltaiche collegate in serie, ognuna delle quali produce circa 2,1 V. Ogni cella contiene due
griglie di Pb, nelle quali vengono compressi i materiali elettrodici: l’anodo è polvere di Pb
spugnosa (elevata area superficiale), il catodo è PbO2. Le
griglie sono immerse in una soluzione elettrolitica di H2SO4
concentrato.
Fogli di fibra di vetro tra le griglie impediscono cortocircuiti
dovuti a possibili contatti fisici. Entrambe le semireazioni
producono ioni Pb2+, che formano PbSO4 a entrambi gli
elettrodi per reazione con HSO4-.
Queste batterie presentano alcuni svantaggi, tra i quali la
perdita di capacità (dovuta alla corrosione della griglia di
Pb e stress meccanici) e problemi di sicurezza (le vecchie
batterie permettevano l’apertura e
l’introduzione di H2O per compensare quella
persa nel tempo, ma nel processo di scarica

121
H2O poteva essere elettrolizzata ad H2 e O2, miscela esplosiva in presenza di una scintilla).
- Batteria Ni-metallo idruro: all’anodo si ha l’ossidazione dell’idrogeno assorbito su leghe
metalliche (es: LaNi5) in un elettrolita basico (KOH), mentre al catodo si ha la riduzione del
Ni3+ (in forma di NiOOH). Questa batteria viene usata in apparecchi cordless e flash
fotografici, è leggera, fornisce elevata potenza, ma si scarica anche quando non utilizzata.

- Batteria litio-ione: ha un anodo di atomi di Li intercalati tra piani di grafite (notazione


LixC6), mentre il catodo è un ossido misto di Li e un altro metalli (es: LiMn2O4). Il tipico
elettrolita è un sale di Li disciolto in solvente organico. Gli elettroni fluiscono attraverso il
circuito esterno, mentre gli ioni Li+ solvatati fluiscono
dall’anodo al catodo. Queste batterie hanno una tensione
nominale di 3,6-3,7 V, che è il valore medio fra la tensione a
piena carica (4,2 V) e quella oltre la quale non deve
scendere (3,0-3,2 V). Poiché in condizioni anormali di
ricarica potrebbe essere prodotto Li metallico, che è molto
reattivo, e può sviluppare H2 se a contatto con umidità,
queste batterie solitamente hanno incorporati circuiti
elettronici protettivi per evitare l’inversione di polarità,
sovratensioni e surriscaldamento. Questa batteria viene
usata in dispositivi portatili e veicoli elettrici. I suoi principali
difetti sono il costo elevato e
l’infiammabilità dei solventi
organici presenti nell’elettrolita.
CELLE A COMBUSIONE
Contrariamente a batterie primarie e secondarie, le celle a combustibile
(o fuel cell) sono batterie a flusso, cioè non racchiuse in un singolo
contenitore. I reagenti entrano nella cella e i prodotti ne escono,
generando elettricità attraverso l’ossidazione controllata di un
combustibile. La più comune fuel cell utilizza H2 come combustibile e ha
una temperatura di funzionamento attorno a 80 °C.
Le reazioni che avvengono in una cella a combustibile hanno velocità
molto inferiori rispetto a quelle che avvengono nelle batterie, e pertanto è
necessario un catalizzatore elettrodico, tipicamente Pt depositato su
grafite. L’elettrolita è una membrana polimerica a scambio protonico in
grado di trasferire gli ioni idronio dall’anodo
al catodo. All’anodo, due molecole di H2
vengono scisse sullo strato catalitico e
ossidate. Gli elettroni entrano nel circuito e
migrano verso il catodo, mentre i due ioni H+ formati si idratano, formando ioni idronio, che
migrano attraverso l’elettrolita. Al catodo, O2 in ingresso reagisce con gli ioni idronio su un letto
catalitico e produce H2O.
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Le celle a combustibile sono state utilizzate per anni per produrre energia e acqua pura durante le
missioni spaziali, e nella civiltà odierna iniziano ad essere utilizzate per fornire energia per
l’autotrazione e la produzione di elettricità. Queste celle, infatti, non producono inquinanti e
convertono circa il 75% dell’energia del legame (combustibile) in elettricità, contro il 40% di una
centrale elettrica e il 25% del motore di un automobile. Tuttavia il loro impatto ambientale va
valutato considerando il metodo adottato per produrre H2 ; questo può, ad esempio, essere
ottenuto dall’elettrolisi dell’acqua, e va pesata la fonte di elettricità che si usa per condurre la
reazione.

CELLE ELETTROLITICHE
Le celle elettrolitiche utilizzano l’energia elettrica proveniente da una sorgente esterna per far
avvenire una reazione non spontanea. Si definisce elettrolisi la scissione di una sostanza per
effetto dell’energia elettrica ed è spesso utilizzata per decomporre un composto nei suoi elementi.
Ciò è utile alla produzione industriale di molte sostanze elementari (Cl2, Al, Cu, H2, …); in
particolare, l’elettrolisi è un processo molto utile per la preparazione di alcuni elementi fortemente
riducenti e, di conseguenza, difficilmente ottenibili per via chimica. L’elettrolita può essere un
composto puro (es: H2O o sale fuso), una miscela di sali fusi o una soluzione acquosa di sali.
Una cella elettrolitica è costituita da un recipiente contenente una soluzione di elettrolita nella
quale sono immersi due elettrodi metallici. Se si collegano i due elettrodi ad un generatore di
corrente continua (alimentatore, applicando un’opportuna
differenza di potenziale si ha passaggio di corrente
attraverso la soluzione.
La corrente è dovuta ad un flusso di elettroni nel circuito
esterno e di ioni positivi e negativi all’interno della soluzione
elettrolitica.
L’elettrodo collegato con il polo positivo del generatore è
chiamato anodo (verso cui migrano gli anioni), mentre quello
connesso col polo negativo è chiamato catodo (verso cui
migrano i cationi).
Come conseguenza del passaggio di corrente, ai due
elettrodi avvengono processi RedOx (riduzione al catodo,
ossidazione all’anodo).
Una cella elettrolitica è generalmente più semplice di una
cella voltaica, in quanto non è necessario far avvenire separatamente le due semireazioni e,
inoltre, la polarità degli elettrodi è imposta dalla sorgente esterna di corrente elettrica. Le definizioni
di anodo e catodo sono le stesse della cella voltaica, ma in una cella elettrolitica le polarità sono
invertite.
La natura dei prodotti che si ottengono dipende da numerosi fattori e si possono distinguere questi
casi:
- Elettrolisi di sali fusi: l’elettrolita separa
metallo e non metallo presenti in un sale. Il
catione verrà ridotto, l’anione verrà
ossidato, e lo stesso sale fuso costituisce

123
l’elettrolita della cella. Gli ioni si muoveranno nel sale fuso, attratti dall’elettrodo di segno
opposto.
- Elettrolisi di miscele di sali fusi: se sono presenti più sali fusi nell’elettrolita, la specie che
si ossida più facilmente reagisce all’anodo e la specie che si riduce più facimente reagisce
al catodo.
Si noti che questa attribuzione non si può fare guardando la tabella dei E 0 (in quanto quei
valori riguardano ioni in ambiente acquoso e allo stato standard). Occorre invece basarsi
sulle proprietà periodiche degli elementi per predire quale degli ioni presenti acquisti o ceda
più facilmente elettroni.
Ad esempio, l’elettrolisi di una miscela NaBr/MgCl2 comporta la presenza di due agenti
ossidanti (Na+, Mg2+) e due agenti riducenti (Br-, Cl-). Mg2+ ha energia di ionizzazione
maggiore di Na+, quindi ha una maggiore attrazione per gli elettroni: sarà la specie a ridursi
più facilmente. Br ha elettronegatività inferiore a Cl, pertanto tenderà a perdere i suoi
elettroni più facilmente e sarà la specie che si ossida all’anodo.
- Elettrolisi dell’acqua: all’anodo si ha l’ossidazione di H2O con variazione di N.O. di O,
secondo la reazione
2H2O (l) → O2 (g) + 4H+ (l) + 4e- (E = 0,82 V)
Al catodo si ha la riduzione di H2O con variazione del N.O. di H, secondo la reazione
2H2O (l) + 2e- → H2 (g) + 2OH- (aq) ( E = -0,42 V)
La reazione RedOx complessiva è
2H2O (l) → 2H2 + O2 (g) (ΔE = -1,24 V)
Si noti che questi potenziali non sono indicati come standard, in quanto le molarità di
protoni e ioni ossidrile nell’acqua pura non sono unitarie.
- Elettrolisi di soluzioni acquose di elettroliti: occorre studiare se il fenomeno di elettrolisi
riguarderà l’acqua o gli ioni del sale, e ciò rientra in uno studio denominato precedenza di
scarica. Quando due semireazioni sono possibili ad un elettrodo, avviene la riduzione della
specie col potenziale elettrodico più positivo e l’ossidazione della specie col potenziale
elettrodico più negativo.
Ad esempio, elettrolizzando una soluzione di KI/H2O si avrà la riduzione dell’acqua (e non
di K+) e varia in funzione della concentrazione delle specie interessate, quindi nel caso più
generale è necessario fare ricorso all’equazione di Nernst per valutare quale specie
effettivamente si ossidi e quale si riduca, piuttosto che fare affidamento solamente ai
potenziali RedOx tabulati.

Tuttavia, i prodotti predetti col confronto dei potenziali non sono sempre quelli che effettivamente si
formano. Infatti, è necessaria un’ulteriore tensione affinché agli elettrodi possano svilupparsi
sostanze gassose. Questo incremento della differenza di potenziale, al di sopra di quello teorico, è
chiamato sovratensione, e va da 0,4 a 0,6 V per lo sviluppo di H2 e O2. Essa è il risultato di fattori
cinetici, quale l’elevata energia di attivazione necessaria per la formazione di gas agli elettrodi. La
sovratensione ha una notevole importanza pratica. Ad esempio, si consideri la produzione di Cl2
da soluzioni acquose di NaCl. L’acqua è molto più facile da ridurre rispetto a Na+, perciò al catodo
si forma H2 nonostante una sovratensione di 0,6 V. Invece, all’anodo si forma Cl2 anche se i
potenziali elettrodici porterebbero a predire la formazione di O2.

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È possibile riassumere le seguenti regole generali per l’elettrolisi di sali in acqua:
- I cationi dei metalli meno attivi vengono ridotti: Au, Ag, Cu, Cr, Pt, Cd;
- I cationi dei metalli più attivi non vengono ridotti: elementi dei gruppi 1, 2, 3, Al;
- Tra gli anioni che vengono ossidati ci sono gli alogeni (tranne F - )
- Tra gli anioni che non vengono ossidati ci sono F- e gli ossoanioni più comuni (solfato,
nitrato, …) in quanto il loro non metallo si trova già nel suo stato di ossidazione più elevato.
La stechiometria del processo di elettrolisi è stata studiata da Michael Faraday, che ha enunciato:
- Prima legge di Faraday: la quantità di sostanza prodotta da un processo di elettrolisi è
direttamente proporzionale alla quantità di corrente che ha attraversato la cella.
La quantità di carica che attraversa la cella è Q(C) = I ∙ Δt, dove I è l’intensità della corrente
(misurata in A, dove 𝐴 = [𝐶]/[𝑠] ) e Δt è la durata del processo (misurata in s).
- Seconda legge di Faraday: a parità di elettroni che fluiscono attraverso la cella, si
ottengono quantità di sostanze diverse a seconda della variazione del N.O. delle specie.
Occorre quindi bilanciare la semireazione, attribuendo i coefficiente stechiometrici sia alle
specie del processo di riduzione (o ossidazione), sia all’elettrone.
Il numero di moli di elettroni si indica con Q(F). La relazione tra Q(C) e Q(F) si ricava
mediante la costante di Faraday, F = 9,65 ∙104 JV-1 mole-1 (unità di misura equivalente a C
mol-1 ). Pertanto:
𝑄(𝐶) = 𝑄(𝐹) ∙ 9,65 ∙ 104
CORROSIONE
La corrosione è il processo in cui i metalli vengono ossidati ai loro ossidi e solfuri.
La formazione della ruggine del ferro è un esempio diffuso di un fenomeno di corrosione.
La ruggine non è prodotta direttamente dalla
reazione tra Fe e O2, ma deriva da un
complesso processo elettrochimico.
La formazione di ruggine richiede umidità,
avviene più rapidamente a pH basso, in
soluzioni ioniche e quando il ferro è a contatto
con un metallo meno attivo.

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PRODUZIONE DI ALLUMINIO PRIMARIO
Il processo Bayer: tra i metalli, l’alluminio è il secondo dopo il ferro nell’uso commerciale. Il
minerale grezzo di alluminio più utile è la bauxite, in cui Al è presente sotto forma di ossido idrato,
Al2O3 ∙xH2O. Il valore di x varia a seconda del particolare minerale presente.
Le maggiori impurezze che si trovano nella bauxite sono SiO2 e Fe2O3. È essenziale separare
Al2O3 da tali impurità prima che il metallo vengo recuperato per riduzione elettrochimica. Il
processo utilizzato per purificare la bauxite, detto processo Bayer, è una procedura
idrometallurgica.
Il minerale grezzo viene prima sminuzzato e macinato, poi digerito in una soluzione acquosa
concentrata di NaOH (all incirca 30% in peso di NaOH), ad una temperatura tra 150°C e 230°C.
una pressione sufficiente, fino a 30 atm, viene mantenuta per evitare l’ebollizione. L’Al2O3 si
scioglie i questa soluzione, formando il complesso dello ione alluminato Al(OH)4-:
𝐴𝑙2 𝑂3 ∙ 𝑥𝐻2 𝑂(𝑠) + 2𝐻2 𝑂(𝑙) + 2𝑂𝐻 − (𝑎𝑞) → 2𝐴𝑙(𝑂𝐻)− 4 (𝑎𝑞)

Gli ossidi di ferro (III) non si sciolgono in soluzione molto basica. Tale diverso comportamento dei
composti di alluminio e ferro deriva dal fatto che Al3+ è un anfotero, mentre Fe3+ non lo è.
In questo modo, la soluzione di alluminato si può separare dai solidi contenenti il ferro per
filtrazione.
Il processo Hall: quando questo concentrato viene calcinato a temperature maggiori di 1000°C, si
forma l’ossido di alluminio anidro (Al2O3). L’ossido si alluminio anidro fonde ad oltre 2000°C.
questa temperatura è troppo elevata per consentire il suo uso come mezzo fuso per la formazione
elettrolitica di alluminio elementare. Il processo elettrolitico utilizzato commercialmente per
produrre alluminio è noto come processo Hall, dal suo inventore, Charles M. Hall.
L’Al2O3 purificato viene sciolto in criolite fusa (Na3AlF6), che ha un punto di fusione di 1012°C ed è
un conduttore effettivo di corrente elettrica.
Delle barre di grafite vengono utilizzate come
anodi e vengono consumate durante il processo
elettrolitico.
Le reazione agli elettrodi sono le seguenti:
Anodo: C (s) + 2O2- (l) → CO2 (g) + 4e-
Catodo: Al3+ (l) + 3e- → Al (l)

126
Chimica organica
In passato, i composti chimici erano suddivisi nettamente in due gruppi, inorganici e organici, in
base alla loro origine.
Con il termine organico si indicavano le sostanze prodotte dagli organismi viventi, mentre si
classificavano come inorganiche tutte le altre sostanze, come specificato nel 1807 dal grande
chimico svedese Berzelius.
Già dalla fine del Settecento, le tecniche analitiche avevano mostrato che le sostanze definite
organiche contenevano costantemente carbonio e idrogeno e spesso anche ossigeno, azoto e
fosforo; tutte erano caratterizzate da una discreta complessità di composizione e da particolari
proprietà, quale ad esempio la combustibilità. Si riteneva inoltre che i composti organici
obbedissero a leggi diverse da quelle della chimica inorganica e, soprattutto, che fossero prodotti
esclusivamente sotto l’influenza della cosiddetta forza vitale e non potessero quindi essere
preparati artificialmente.
Nella prima metà dell’Ottocento, il susseguirsi delle prime sintesi artificiali di composti considerati
di esclusiva origine animale (la prima di esse fu storicamente quella dell’urea da Wolher nel 1828)
fece cadere la distinzione fra le due classi, che fu tuttavia mantenuta pur perdendo il significato
originale.
La chimica organica diventava così la chimica dei composti del carbonio, definizione che è
tuttora valida. I composti organici contengono tutti C, H ed eventualmente N, O, P, X (X = alogeni).
Il mantenimento della distinzione era ed è giustificato dal fatto che tutti i cosiddetti composti
organici contengono il carbonio, che i composti del carbonio sono molto più numerosi (alcuni
milioni) dei composti di tutti gli altri elementi messi insieme e che il carbonio ha reattività e
caratteristiche del tutto particolari, in virtù della proprio configurazione elettronica.
Tranne rarissime eccezioni (CO), il carbonio forma sempre 4 legami.
Confronto tra composti organici e inorganici:
Inorganici: Organici:
- legame ionico o covalente polare - legame covalente poco polare
- solubili in solventi polari, danno - solubili in solventi apolari, non si
dissociazione dissociano
- molti sono solidi ionici - sono solidi molecolari
- elevate T fusione e T ebollizione - basse T fusione e T ebollizione
- in genere densità > 1 - in genere densità < 1
- alta stabilità termica - si decompongono a bassa T
- sono poco combustibili - sono quasi tutti combustibili

TIPI DI REAZIONI ORGANICHE:


Le reazioni della chimica organica implicano normalmente la rottura di legami e la formazione di
nuovi. Poiché il legame è sempre formato da una coppia di elettroni condivisa di due atomi
(A:B), esso può scindersi essenzialmente in due modi:
- Omolitico o radicalico: in questo caso, ciascun atomo si ‘’prende’’ un elettrone
(A:B → A∙ + B∙) e si formano dei radicali.
Le reazioni che comportano questo tipo di scissione si dicono radicaliche; sono piuttosto
violente, esplosive, e spesso procedono con un meccanismo ‘’a catena’’, poiché i radicali,
per la presenza dell’elettrone spaiato, sono molto reattivi ed hanno un tempo di vita molto
breve. La formazione di radicali è un processo che richiede una certa energia: è favorita dal
calore e dai raggi U.V. Molto difficile in solventi polari, avviene più rapidamente in solventi
apolari. La rottura omolitica è tipica del legame σ (covalente apolare).

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- Eterolitico o ionico: in questo caso il doppietto è preso interamente da uno dei due atomi
e si formano quindi un anione e un catione (A:B → A: - + B + ).
La rottura eterolitica è frequente nei legami π oppure quando vi sia una certa differenza di
elettronegatività tra i due atomi legati. Gli ioni che si formano sono anch’essi molto reattivi,
ma hanno una vita media più lunga dei radicali.
La maggioranza delle reazioni organiche procede attraverso meccanismi ‘’ionici’’; le reazioni
radicaliche sono per lo più limitate ai legami covalenti apolari (o quasi) o a reazioni di
polimerizzazione.
IDROCARBURI (C, H)

PROPRIETÀ DEL CARBONIO:


• Ha valenza 4.
• Forma legami covalenti in tutte le sue forme elementari e nei suoi composti.
• La configurazione elettronica dello stato fondamentale del C è [He]2s22p2; la formazione di
ioni carbonio è energeticamente sfavorita.
• Il C ha un’elettronegatività (2,5) intermedia tra quella della maggior parte dei metalli e dei
non metalli. C condivide elettroni per formare un ottetto.
• Forma legami doppi e tripli.
• Il numero e la forza dei legami del carbonio danno origine alla sua considerevole capacità
di catenazione (o concatenazione), ossia di legarsi con altro carbonio e di formare
composti lineari, ciclici e ramificati.
• Essendo piccolo, il carbonio forma legami forti, relativamente corti.
IBRIDAZIONE:
Configurazione elettronica del carbonio allo stato fondamentale

Configurazione elettronica del carbonio allo stato eccitato

Orbitali ibridi sp3: tetraedro con angoli di 109,5°.

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Orbitali ibridi sp2: triangolare con angoli di 120°

Orbitali ibridi sp: lineare con angoli di 180°

Un atomo di C è detto:
- primario se è legato ad 1 solo atomo di C;
- secondario se è legato a 2 atomi di C;
- terziario se è legato a 3 atomi di C;

Molti composti organici contengono eteroatomi, atomi diversi da C e H.


I più comuni eteroatomi sono O, N e gli alogeni.
I legami C-C e C-H sono poco reattivi.
I legami tra C e un eteroatomo sono, nella maggior parte dei casi, polari e generano uno
sbilanciamento di densità elettronica, dunque un sito reattivo.

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Ogni atomo di C può formare al massimo 4 legami.
Si possono avere quattro legami semplici, o un doppio legame e due semplici, o due doppi legami,
o un triplo legame e uno semplice.
La disposizione degli atomi di C determina lo scheletro, quindi sia una catena lineare sia una
catena piegata rappresentano comunque lo scheletro della molecola organica.
I gruppi legati da legami singoli possono ruotare liberamente, quindi un ramo orientato all’ingiù è
invertibile con un rame orientato all’insù.

In chimica organica generalmente l’ossigeno forma in totale 2 legami che possono essere di varia
natura:

Generalmente, l’azoto forma in totale 3 legami che possono essere di varia natura:

L’idrogeno forma 1 legame:

In chimica organica, generalmente, lo zolfo forma in totale 2 legami che possono essere di varia
natura:

In chimica organica gli alogeni (F, Cl, Br, I) formano 1 legame:

Nei composti organici il carbonio ha sempre valenza 4 (forma 4 legami) ma il suo numero di
ossidazione (N.O.) può variare da + 4 a – 4. Per calcolare il numero di ossidazione (per ciascun C)
si valuta l’elettronegatività degli atomi ai quali è legato:
• per ogni coppia di legame con atomo con χ maggiore → + 1
• per ogni coppia di legame con atomo con χ minore → -1
Ogni carbonio avrà quindi un suo numero di ossidazione. Esempi:
• CH4 (Metano): ogni legame con H → -1 ⇒ N.O.C = - 4
• CH3-OH (Metanolo): ogni legame con H → -1; legame con O → +1 ⇒ N.O.C= -2
• H2C=O (Aldeide formica): ogni legame con H → -1; 2 legami con O → +2 ⇒
N.O.C=0
• (Acido acetico): 1 legame con C → 0; 3 legami con O → +3 ⇒
N.O.C=+3

130
REAZIONI PRINCIPALI:
- Reazione di sostituzione: un gruppo funzionale è sostituito da un altro (sostituente)
- Reazione di addizione o eliminazione: aggiunta di due gruppi con rottura di un legame
multiplo o eliminazione di due gruppi con formazione di un legame multiplo.
• I legami C=C, C≡C, e C=O subiscono comunemente reazioni di addizione.
• In tutti i casi, si rompe il legame π mantenendo intatto il legame σ.
• La reazione inversa è l’eliminazione (un reagente saturo si trasforma in un prodotto
insaturo).
- Reazione di ossidoriduzione: reazione in cui il C legato ad un gruppo funzionale cambia
stato di ossidazione in seguito ad una modificazione del gruppo.
FAMIGLIE DI IDROCARBURI:

NOMENCLATURA:
Il primo passo per dare un nome ad un composto organico è capire quali siano i suoi gruppi
funzionali.
Il gruppo funzionale è una piccola parte di molecola organica ed è caratterizzato da una
reattività specifica che risulta abbastanza simile in tutte le molecole in cui si trova. La
presenza o meno di particolari gruppi funzionali in una molecola permette di classificare gli
oltre 8 milioni di composto organici dividendoli in poche dozzine di classi. I doppi e i tripli
legami tra due atomi di carbonio sono esempi di gruppi funzionali.
Nei composti organici, il carbonio forma con sé stesso delle catene che possono essere
lineari, ramificate o cicliche. In genere, il secondo passo per dare un nome a un composto
organico è, conoscendone la formula di struttura, individuare la catena di C più lunga e
ricavare così la radice del nome in accordo al numero nc di atomi di C che la compone.

131
ALCANI
Composto di formula generale CnH2n+2, il più semplice è il metano. Poiché gli stessi composti
possono avere diverse strutture, si chiamavano normal- (n-) le molecole a catena lineare e iso- le
molecole a catena ramificata.
Per la normativa IUPAC, si denota l’alcano della catena più lunga e si numerano i gruppi
sostituenti in relazione alla posizione.
- Composti di C e H
- C ibrido sp3
- Legami semplici tipo sigma
Per gli alcani lineari il nome è: radice-ano.
Gli alcani sono gli unici composti organici a non avere un gruppo funzionale.
Sono degli idrocarburi saturi perché contengono C e la massima quantità di H (si dice che non
possiedono doppi o tripli legami perché tutti i legami sono saturati dall’idrogeno).
Gli alcani sono poco solubili in acqua.
Comunemente gli alcani possono essere chiamati paraffine, termine legato all’osservazione di
una scarsa reattività di questa classe di composti (parum affinis poco affine) oppure composti
alifatici (dal greco aleiphas, grasso) perché i grassi animali hanno lunghe catene carboniose che li
ricordano.
Un alcano privato di un H forma un radicale detto gruppo alchilico, il cui nome è: radiceile.

In caso di numerazioni uguali, si prende la catena che permette di assegnare il numero più basso
alla prima ramificazione che precede in ordine alfabetico:

132
ISOMERIA
L’isomeria e un fenomeno caratteristico dei composti organici.
Si definiscono isomeri i composti chimici che presentano identica formula grezza (e quindi
medesima massa molecolare), ma diverse caratteristiche chimiche e/o fisiche.

Molecole con un unico isomero (1, 2 o 3 atomici di C):


- Metano
- Etano
- Propano
Molecole con 2 isomeri (4 atomi di C):
n-butano
Temperatura di ebollizione -0,4°C

Isobutano
Temperatura di ebollizione -11,7°C

133
Gli alcani non ciclici possono
presentare solo isomeria
costituzionale. Ricordiamo
che due molecole che si
possono sovrapporre tramite
traslazione, rotazione
completa o rotazione attorno
ad un legame singolo non
sono dei veri isomeri ma
isomeri conformazionali.
I seguenti due composti
differiscono solo per
rotazione attorno al legame
C-C segnato in rosso, non
sono isomeri ma sono la
stesso molecola C5H12.
I punti di ebollizione dei 3 isomeri del pentano sono : 9.5°C, 27.9°C e 36.1°C. e rispettivamente n-
pentano ha il punto di ebollizione a
36.1 °C, isopentano a 27.9°C e il
neopentano a 9.5°C.
Gli idrocarburi a catena non ramificata
si impacchettano più efficacemente dei
rispettivi isomeri a catena ramificata
per cui la separazione delle loro
molecole richiede un maggior
contributo energetico.
PROPRIETÀ FISICHE DEGLI ALCANI

Il petrolio è una miscela di vari idrocarburi, in


prevalenza alcani, che si trova in giacimenti
negli strati superiori della crosta terrestre. È
una fonte energetica primaria dell’umanità.
È un liquido viscoso, infiammabile, di colore
che può andare dal nero al marrone scuro,
passando dal verdognolo fino all’arancione. È
detto greggio il petrolio come viene estratto
dai giacimenti, prima di subire qualsiasi
trattamento per trasformarlo in prodotto
lavorato.

REAZIONI DEGLI ALCANI


Gli alcani sono composti saturi e i legami C-C e C-H sono piuttosto forti per cui non reagiscono
con acidi, basi e agenti ossidanti. Per la loro inerzia chimica vengono usati come lubrificanti o
come ‘’scheletro’’ delle materie plastiche.
Gli alcani sono inerti verso la maggior parte dei reagenti e danno solo poche reazioni che
avvengono in condizioni drastiche.
La combustione degli alcani con l’ossigeno è una delle reazioni più importanti della chimica
organica:
𝟑𝒏 + 𝟏
𝑪𝒏 𝑯𝟐𝒏+𝒔 + 𝑶𝟐 → 𝒏𝑪𝑶𝟐 + (𝒏 + 𝟏)𝑯𝟐 𝑶
𝟐
134
Esempio: combustione del metano:
𝐶𝐻4 + 2𝑂2 → 𝑛𝐶𝑂2 + (𝑛 + 1)𝐻2 𝑂 ∆𝐻 0 = −192 𝑘𝑐𝑎𝑙/𝑚𝑜𝑙
Per avere una combustione completa, la reazione deve avvenire in eccesso di O2. Negli alcani il
C si trova nella sua forma più ridotta (numero di ossidazione più basso), mentre nel CO2 nella sua
forma più ossidata (n.o. più alto, + 4), però il C può esistere anche in stati di ossidazione intermedi
(per esempio in CO n.o. = + 2).
Perciò, la reazione avviene in più stadi e, quindi, se la quantità di ossigeno non è sufficiente,
l’ossidazione è parziale e la combustione avviene con formazione del pericolosissimo gas
monossido di carbonio.
Reazione di alogenazione: si tratta di una reazione di sostituzione radicalica in cui uno o più
atomi di H sono sostituiti da atomi di alogeni, principalmente cloro e bromo. La reazione avviene
solo in presenza di luce (o calore) e presenta un meccanismo:
1) radicalico: in quanto si ha formazione di radicali liberi, cioè atomi o gruppi con elettroni
singoli non accoppiati e quindi altamente reattivi;
2) a catena: perché ogni reazione genera una particella reattiva che, a sua volta, provoca, il
passaggio successivo.
Se l’atomo sostituente è il cloro, si parla di “clorurazione”, se è il bromo di “bromurazione”.

135
Reazione di deidrogenazione: questa reazione comporta la rimozione di idrogeno dal composto.
Nel caso della deidrogenazione degli alcani il prodotto di reazione è un’olefina secondo la reazione
generale:
𝑪𝒏 𝑯𝟐𝒏+𝟐 → 𝑪𝒏 𝑯𝟐𝒏−𝟐𝒎 + 𝒎𝑯𝟐
La deidrogenazione è una reazione di ossidazione: si consideri, ad esempio, la deidrogenazione
dell’etano che dà, come prodotto di reazione, l’etene.
Nell’etano il carbonio, legato a tre atomi di idrogeno ha numero di ossidazione – 3, mentre
nell’etene il carbonio legato a due atomi di idrogeno ha numero di ossidazione -2.
𝐶𝑟2 𝑂3
𝐶𝐻3 𝐶𝐻3 → 𝐶𝐻2 = 𝐶𝐻2 + 𝐻2
La deidrogenazione viene pertanto detta ossidativa. La reazione avviene grazie a un catalizzatore
che in genere è di tipo bimetallico.
CICLOALCANI
Un idrocarburo ciclico contiene uno o più anelli
nella sua struttura. Quando un alcano a catena
lineare forma un anello, due atomi di H vanno
perduti quando si forma il legame CC per unire
le due estremità della catena.
Questi composti sono detti cicloalcani e hanno
la formula generale CnH2n.
- Sono dei composti di C e H.
- Il C è ibridato sp3.
- Sono costituiti da legami semplici di
tipo σ.
Nomenclatura: come radice si utilizza il nome
del cicloalcano progenitore, tranne nei rari casi
in cui si ha una catena carboniosa che contiene più atomi di C dell’anello stesso (es: 1-
ciclopropilbutano). Si comincia a numerare da un carbonio sostituito facendo in modo che la
somma dei numeri di tutti i sostituenti sia la più bassa possibile. Se sono presenti più gruppi diversi
si ordina secondo l’ordine alfabetico.
Gli idrocarburi ciclici vengono spesso disegnati con un metodo abbreviato che mostra solo le linee
rappresentative dei legami C-C.
I cicloalcani presentano il fenomeno di tensione di anello. Per un atomo di C ibridato sp3, ogni
deviazione da un angolo tetraedrico (109,5°) è accompagnata da una tensione angolare. Ogni
coppia di atomi di C sp3 tende a disporre e mantenere i propri legami sfalsati l’uno rispetto all’altro;
qualsiasi deviazione da una tale disposizione
comporta una tensione torsionale. A queste
tensioni si aggiunge anche una tensione sterica,
dovuta all’ingombro sterico tra gruppi vicini.
Ad esempio, se osserviamo la conformazione del
ciclopentano, vediamo che gli atomi di carbonio
1, 2, 3 e 4 sono pressoché su un piano, mentre il
carbonio 5 è fuori dal piano.
Il cicloesano è il cicloalcano il cui scheletro conta 6
atomi di C chiusi ad anello, ciascuno dei quali lega a sé
due atomi di H. Benché, per comodità, sia
rappresentata da un esagono regolare, la molecola del
cicloesano non è planare ma tende ad assumere due
conformazioni piegate: la conformazione a sedia e la
conformazione a barca.
136
La conformazione a barca è ottenuta per rotazione di 2 legami C-C, ma è meno stabile per via
della tensione torsionale e sterica (due H si respingono). In effetti, a 25°C, più del 99% del
cicloesano si trova nella conformazione a sedia.
Proprietà chimico-fisiche: i cicloalcani presentano proprietà simili agli alcani, ma hanno
temperature di ebollizione, di fusione e densità più alte rispetto agli alcani. Ciò è dovuto alle forze
di London (forze di dispersione) più intense, in quanto la forma dell’anello consente una più ampia
area di contatto tra le molecole.
Reattività: alcani e cicloalcani fanno parte della classe delle paraffine, composti caratterizzati da
scarsa reattività chimica. Analogamente agli alcani, anche i cicloalcani sono infiammabili (reazione
di combustione) e subiscono facilmente reazioni di sostituzione radicalica catalizzata dalla luce o
dal calore. Inoltre, per via della tensione d’anello, il ciclopropano reagisce con H2 o HX attraverso
apertura dell’anello, trasformandosi in un alcano lineare: si tratta di una reazione di addizione.

I gruppi alchilici derivati dai primi 4 cicloalcani sono:

ALCHENI
Gli alcheni sono idrocarburi che contengono almeno un legame C=C (quindi sono idrocarburi
insaturi), e hanno formula generale CnH2n.
Nomenclatura: la nomenclatura degli alcheni differisce da quella degli alcani sotto questi aspetti:
- Quando si individua la catena principale della molecola, questa deve includere il legame
C=C.
- Il nome che viene dato alla catena principale è simile a quanto previsto per gli alcani, ma il
suffisso utilizzato è –ene.
- Nel numerare la catena principale, il numero più basso possibile dovrà essere assegnato ai
due atomi di C coinvolti nel legame C=C.
- Ad etene e propene sono spesso affidati i nomi comuni di etilene e propilene.

4-etil-5-metil-2-propil-1-esene
Il doppio legame ha precedenza sui sostituenti della catena e va assegnato il numero più basso
possibile.
137
I residui che si formano togliendo un idrogeno agli alcheni,
conservano la stessa radice, ma cambiano la desinenza da –ene
in –enile e saranno pertanto, etenile, propenile, butenile,
pentenile, etc.
Etenile: CH2=CH
1-propenile: CH3 -CH=CH
2-propenile CH2=CH-CH2
1-butenile CH3 -CH2 -CH=CH

Struttura: gli atomi di C legati da un legame doppio sono ibridati sp2; questi atomi di C legano
meno del massimo di 4 atomi, quindi gli alcheni sono considerati idrocarburi insaturi.
Gli alcheni fanno parte della classe delle olefine, alla quale appartengono anche:
- Cicloalcheni: idrocarburi ciclici contenenti un legame C=C.
- Polieni: idrocarburi che contengono più legami C=C nella loro struttura.
Esistono due differenze strutturali principali tra alcheni e alcani. Gli alcani hanno geometria
tetraedrica attorno a ciascun atomo di C, mentre gli atomi di C legati da legame doppio negli
alcheni hanno una geometria trigonale planare.
Mentre il legame semplice (σ) C-C permette la rotazione dei gruppi legati, la componente π del
legame C=C limita la rotazione, il che fissa le posizioni relative degli atomi legati a esso. Questa
limitazione della rotazione dà origine ad un secondo tipo di isomeria: l’isomeria geometrica.
Essa riguarda alcheni che presentano due coppie di gruppi sostituenti attorno al doppio
legame.
L’isomero cis è quello avente due gruppi uguali posizionati dalla stessa parte (sopra o sotto) del
legame C=C, mentre l’isomero trans è quello che presenta gruppi uguali in parti opposte (sopra e
sotto) del legame C=C.
Gli isomeri cis-trans presentano diverse proprietà fisiche, in quanto hanno polarità molecolare
diversa, che comporta diverse intensità della attrazioni intermolecolari.
Proprietà chimico-fisiche: le proprietà degli alcheni (temperature di fusione e di ebollizione,
solubilità) sono molto simili a quelle dei corrispondenti alcani. I composti che contengono meno di
5 atomi di C sono gas incolori, al di sopra invece si hanno liquidi incolori.
Reattività: per il fatto di contenere un legame C=C, gli alcheni sono molto reattivi e danno reazioni
tipiche che impegnano il doppio legame. Una reazione caratteristica del gruppo funzionale C=C è
la reazione di addizione, che porta alla formazione di composti saturi. Essa provoca rottura del
legame π.
ALCHINI
Gli alchini sono idrocarburi che contengono almeno un legame C≡C, e hanno formula generale
CnH2n-2.
Nomenclatura: la nomenclatura degli alchimi segue le stesse regole di quella degli alcheni, tranne
per il suffisso (-ino). Al primo composto della serie (C2H2) si assegna spesso il nome comune
(acetilene), invece di quello sistematico (etino).

Struttura: poiché un atomo di C in un legame C≡C può legarsi solo a un altro atomo, la geometria
attorno a ciascun atomo di C è lineare: ciascun atomo di C è ibridato sp.

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Proprietà chimico-fisiche: temperature di fusione ed ebollizione degli alchini sono di norma un po’
più alte di quelle dei corrispondenti alcani e alcheni. Ciò è dovuto al fatto che gli alchini sono
molecole compatte e lineari, a causa della presenza del legame C≡C. essi possono essere
impaccati vicini tra loro sua allo stato solido che allo stato liquido, e ciò determina, maggiori forze
di Van der Waals tra molecole. Gli alchini hanno basse polarità e sono insolubili in acqua mentre
sono altamente solubili in solventi apolari.
Reattività: Come per gli alcheni, anche la maggior parte della reattività degli alchimi si esplica
attraverso reazioni di addizione al triplo legame. Le reazioni di addizione possono essere lasciate
procedere fino all’ottenimento di composti saturi oppure essere condotte in condizioni tali da
favorire un’addizione parziale, trasformando quindi il triplo legame in un legame doppio.
Particolarità chimica degli alchini è l’acidità degli atomi H legati a quelli di C coinvolti nel triplo
legame.

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