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Metodologie didattiche

Didattica Pedagogica
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna (UNIBO)
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Modulo 7
Metodologie didattiche

Sommario
1. Premessa
2. La scuola e la progettazione didattica
2.1 Progettazione didattica e progettazione formativa
2.2 Progettazione come insieme dinamico e coerente di attività
2.3 Dai programmi alla progettazione attraverso la programmazione e i progetti.
2.4 I vari approcci alla progettazione: dalla progettazione tradizionale alla progettazione
per competenze
2.5 Le Indicazioni Nazionali e la progettazione curricolare
2.6 Dal Progetto Educativo d’Istituto al Piano Triennale dell’Offerta Formativa
3. Il raggiungimento del successo scolastico attraverso la sinergia dei diversi ordini di
scuola: la continuità educativa
3.1 Gli organi collegiali e territoriali
3.2 Il lavoro di team
4. La classe come gruppo: dinamiche e apprendimento
4.1 Cos’è il gruppo
4.2 Le dinamiche di gruppo
4.2.1 Caratteristiche strutturali dei gruppi
4.2.2 La dinamica dei ruoli e la leadership
4.2.3 Altre dinamiche di gruppo
4.3 Il gruppo-classe: le norme che lo regolano e le sue finalità educative, di
socializzazione e di formazione
4.4 Come si costruisce un buon gruppo di lavoro
4.5 Metodi e tecniche che utilizza il gruppo per migliorare l’apprendimento
5. La didattica e le nuove tecnologie
5.1 Insegnare con le tecnologie, insegnare le tecnologie
5.2 Gli obiettivi dell’uso delle TIC
5.3 Il ruolo dell’insegnante
5.4 Il digital divide tra insegnanti e alunni
5.5 L’utilizzo delle TIC nella scuola secondo la normativa recente
5.6 La Lavagna Interattiva Multimediale (LIM)

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6. Le principali metodologie didattiche
6.1 Il brainstorming
6.2 Il cooperative learning
6.3 Il tutoring
6.4 La didattica metacognitiva
6.5 Il metodo operativo: il laboratorio
6.6 Il metodo individualizzato: il mastery learning
6.7 Il metodo euristico-partecipativo: la ricerca-azione
6.8 La tecnica simulativa del role playing
6.9 Il problem solving

Per approfondire…
Bibliografia e sitografia

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1. Premessa

Il modulo offre un’approfondita panoramica sulle strategie educative e didattiche che possono
agevolare il processo di apprendimento a partire da un’attenta analisi dei vari approcci alla
progettazione. La prima parte, infatti, vuole chiarire le varie differenze tra programmazione e
progettazione didattica, soffermandosi in special modo sull’orientamento attuale della progettazione
per competenze. Quanto esposto è puntualmente agganciato alla normativa di riferimento, in
particolar modo le Indicazioni Nazionali del 2012 che sono un riferimento obbligato per la
progettazione curricolare e la L. 107/2015 che prevede una progettazione di respiro triennale da
parte degli istituti scolastici, proprio per sottolineare l’importanza dell’azione progettuale.
Si sottolinea, poi, l’importanza strategica della continuità, che non bisogna perdere di vista nella
progettazione dell’agire didattico né in senso orizzontale né verticale.
Il processo di apprendimento viene analizzato, anche, in rapporto al contesto della classe, vista
come gruppo, le cui dinamiche, se ben gestite, possono influenzare positivamente l’efficacia
dell’insegnamento. L’insegnante deve possedere le competenze di conduzione del gruppo, deve
saper riconoscerne le dinamiche e valorizzare il gruppo come strumento di lavoro. Non solo, quindi,
il docente rappresenta il leader che, dentro l’aula, è responsabile di integrare i bisogni individuali e
collettivi, ma è anche membro del gruppo di colleghi che formano il team docente e che, per
diventare un buon gruppo di lavoro, deve attraversare diverse fasi in maniera consapevole e
intenzionale.
L’azione didattica viene potenziata e arricchita dall’utilizzo delle nuove tecnologie. Il tema è
analizzato nel sesto paragrafo, attraverso la disamina dei cambiamenti che le TIC stimolano a
livello di metodologie didattiche, in particolare mettendo in crisi il modello tradizionale e
prospettando la figura dell’insegnante-regista, che guida i processi pedagogici e orienta gli
apprendimenti.
Un’attenzione particolare è riservata alla Lavagna Interattiva Multimediale, il cui utilizzo presenta
innumerevoli vantaggi, ma anche alcuni rischi. Anche in questo caso, viene fatto puntuale
riferimento alla normativa, in particolare alla L.107/2015 e al Piano Nazionale della Scuola
Digitale.
Infine, l’ultima parte è la descrizione dettagliata delle più importanti metodologie e tecniche attive
di cui l’insegnante deve dotarsi, affinché raggiunga i risultati progettati motivando gli alunni, ma
anche variando la didattica e aumentando la sua stessa soddisfazione lavorativa.

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2. La scuola e la progettazione didattica

Il bambino apprende continuamente, non solo dentro e durante il tempo trascorso a scuola, ma
anche fuori, prima e dopo la scuola. L’apprendimento scolastico, però, ha una sua caratteristica
peculiare: esso è non solo voluto e perseguito, ma soprattutto è organizzato in maniera sistematica,
non può essere lasciato al caso, alla sola intuizione dell’insegnante o alla sua buona volontà, ma
deve essere progettato in fasi e ne devono essere definiti gli obiettivi, in modo da poterne valutare
l’efficacia.
Le attività devono essere programmate, i materiali devono essere scelti, così come le metodologie e
gli strumenti, in maniera coerente con gli obiettivi e adeguata agli alunni e alla loro formazione di
partenza; si devono stabilire, inoltre, le modalità di verifica più opportuna e i criteri di valutazione,
per poter appurare gli esiti in maniera più obiettiva possibile.
Numerosi sono, quindi, gli aspetti da stabilire prima di realizzare l’intervento educativo e didattico:
la progettazione, infatti, si fonda sulla capacità di pensare strategicamente e si prefigura come
un’azione del gruppo docenti, non del singolo insegnante.

2.1 Progettazione didattica e progettazione formativa

La progettazione didattica e la progettazione formativa sono due processi distinti ma


complementari. La progettazione didattica riguarda il modo di insegnare, la didattica, appunto,
intesa come insieme di tecniche e di strumenti utili al docente in classe per rendere più efficiente
l’insegnamento e più efficace l’apprendimento. La progettazione formativa, invece, è più centrata
sull’allievo e sul profilo formativo che si vuole raggiungere, non riguarda soltanto ciò che fa
l’insegnante in classe, ma investe tutta l’organizzazione delle strategie di intervento.
La progettazione, da un punto di vista metodologico, è un modo di pensare e di affrontare la realtà
per trasformarla, è un processo universale, solo in parte vincolato dal suo oggetto. Possiamo, quindi,
affermare che essa è una forma mentis, che implica l’individuazione di elementi di realtà per
trasformare un’idea (o un desiderio) in progetto e poi un progetto in intervento.

2.2 Progettazione come insieme dinamico e coerente di attività

La progettazione, dunque, è una serie complessa e dinamica di attività che vanno:

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 dall’analisi del contesto e dei bisogni all’ideazione degli interventi che possono soddisfarli;
 dall’analisi delle risorse e dei vincoli alla definizione degli obiettivi;
 dalla scelta dei metodi e delle tecniche alla definizione dei tempi e degli spazi;
 dall’individuazione della popolazione-target (a chi è destinato l’intervento progettato) alla
previsione dei risultati attesi e, infine, alla modalità di valutazione, intesa come riscontro di
quanto previsto e prefigurato con la rilevazione della realtà attraverso strumenti e criteri ben
precisi, oltre che definiti nei tempi (valutazione ex ante o iniziale, in itinere, ex post o
finale).
Lo schema generale di ogni attività di progettazione può essere così semplificato:
1. analisi del contesto o della situazione (globale e specifica) di partenza;
2. definizione delle finalità generali e degli obiettivi specifici;
3. individuazione delle metodologie di insegnamento e delle tecniche didattiche e conseguente
articolazione delle attività in fasi, moduli o unità e scelta dei materiali, delle tecnologie di
comunicazione, dei media;
4. definizione dei criteri di verifica, degli indicatori di monitoraggio e degli standard di
valutazione.
L’analisi del contesto o della situazione di partenza consiste nell’analisi preliminare dei vari
elementi che vanno dalla conoscenza del territorio e dell’ambiente extrascolastico in cui vive
l’alunno alla rilevazione delle sue caratteristiche cognitive ed affettive di partenza, definiti
prerequisiti. Da un livello più ampio ad uno più ristretto, per realizzare una progettazione adeguata,
è importante rilevare:
- le caratteristiche, le risorse e i vincoli dell’ambiente sociale in cui vive l’alunno;
- l’ambiente familiare dell’alunno: la partecipazione o meno della famiglia, gli atteggiamenti
dei genitori nei confronti della scuola e degli insegnanti, l’interesse verso il processo di
apprendimento del figlio, gli stili educativi predominanti (autoritario, autorevole,
permissivo), i livelli di scolarità e le caratteristiche socio-culturali della famiglia;
- l’ambiente educativo e l’organizzazione scolastica: l’adeguatezza delle aule e dei
laboratori, presenza di biblioteche, cineteche e altre strutture e percorsi possibili;
- a livello individuale, bisogna conoscere i prerequisiti cognitivi degli alunni: consistono
nelle conoscenze già in possesso, nelle abilità comunicative e negli stili di apprendimento
(cioè nelle modalità di acquisire conoscenze).
- sempre a livello individuale, i prerequisiti socio-affettivi: l’interesse degli alunni verso ciò
che accade in classe, la motivazione all’apprendimento, le aspirazioni e la capacità di
instaurare relazioni empatiche con l’insegnante e con gli altri compagni.

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I dati necessari all’analisi della situazione di partenza si possono rilevare tramite test di ingresso,
osservazione sistematica, cioè supportata da schede di osservazione e questionari.
Alla rilevazione segue sempre la lettura e interpretazione dei dati, meglio se attuata in gruppo,
attraverso il confronto e la condivisione dei vari punti di vista. Iniziando sin dalla prima fase della
progettazione a lavorare in gruppo, vengono poste le basi per le successive azioni: anch’esse
risulteranno più efficaci se si realizzeranno con la partecipazione del team docenti.
Dopo la prima fase di valutazione diagnostica, si può passare alla seconda fase di definizione di
finalità generali e di obiettivi specifici, questi ultimi declinano in senso più operativo le finalità più
generali e strategiche. Gli obiettivi devono descrivere delle performance, corrispondenti a
competenze, devono quindi essere concreti e misurabili. La definizione degli obiettivi riguarda il
perché dell’azione didattica progettata, la direzione verso cui orientare l’intervento educativo.
Il come è invece definito nella terza fase, che riguarda le metodologie e le tecniche didattiche, le
attività e i contenuti, i tempi, i materiali, le tecnologie da utilizzare. Tutti gli elementi della terza
fase devono essere coerenti tra loro e con gli elementi definiti nella prima fase (situazione di
partenza) e nella seconda fase (obiettivi).
Per quanto riguarda, infine, la quarta fase, si rimanda al modulo specifico sulla valutazione.

2.3 Dai programmi alla progettazione attraverso la programmazione e i progetti

Per molto tempo gli insegnanti hanno definito e organizzato la loro attività didattica seguendo i
programmi definiti dal Ministero per ogni singola disciplina e per ogni classe. I programmi erano
appunto un elenco di obiettivi da raggiungere e/o azioni da svolgere per ogni materia in
corrispondenza delle varie classi. Il programma era universale e uniforme: viene stabilito dai
responsabili delle politiche formative ed è prescrittivo per tutti coloro che frequentano un
determinato indirizzo di studi.
In seguito al D.P.R. n. 416/1974, è diventata centrale l’attività della programmazione da parte
degli insegnanti che, in riferimento a quanto stabilito dal livello centrale, dovevano adattare l’azione
didattica e i contenuti alla specifica realtà e alle concrete esigenze della loro comunità scolastica. La
programmazione consiste nel determinare gli standard generali dell’istruzione, analizzare la realtà
socio-economica e culturale entro cui si collocano gli interventi scolastici e, infine, commisurare la
pertinenza tra gli standard formativi generali e le caratteristiche specifiche dell’utenza a cui è diretto
il programma di formazione. La programmazione rimane, tuttavia, un’azione rivolta alla singola
classe (e non alla scuola nel suo insieme) e riguardante molto spesso una singola disciplina, senza

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una differenziazione per singoli alunni. Il processo di programmazione, dunque, conserva una certa
rigidità.
Successivamente, negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, la parola d’ordine divenne
lavorare per progetti. Il progetto, infatti, garantisce una certa flessibilità e adattabilità alle esigenze
specifiche di quel contesto. Soprattutto negli anni Novanta, sono stati proposti numerosi progetti sia
dal Ministero (realizzati dalle singole scuole aderenti) sia dal basso (elaborati dalle scuole e
autorizzati dal centro). I progetti, inizialmente, si sviluppavano a latere dell’attività didattica
quotidiana; in seguito, ma gradualmente, in un processo in atto ancora oggi, i progetti sono stati
integrati nell’attività curricolare e la progettazione è diventata una modalità costante di ciascun
docente e del team dei docenti.
Vi sono vari livelli di responsabilità della programmazione e della progettazione; essi possono
essere considerati di tipo concentrico, dal più ampio al più ristretto, o specifico:
- un livello europeo, dove si fissano le finalità universali della scuola, si determinano gli
standard che tutti gli stati dell’Unione si impegnano a raggiungere e si stabiliscono i
protocolli di comunicazione tra le diverse politiche e pratiche scolastiche nazionali;
- un livello nazionale, dove ogni Stato, attraverso i programmi (o Indicazioni), indica gli
scopi, gli obiettivi e le competenze per ogni indirizzo di studi, presenta un’articolazione di
massima dei contenuti ed alcune indicazioni metodologiche e valutative comuni;
- un livello locale, su base territoriale regionale o sub-regionale, dove si mediano le
indicazioni generali con le realtà sociali, culturali, economiche, ecc. del territorio di
riferimento;
- un livello scolastico, del singolo istituto, dove i docenti adeguano le indicazioni generali e
locali alle caratteristiche specifiche dell’utenza del proprio istituto, riferendosi
esplicitamente all’ambiente culturale e sociale da cui provengono gli studenti, e ai loro
prerequisiti cognitivi e socio-affettivi;
- un livello di classe, dove tutti i docenti che insegnano in una classe (o ad uno specifico
gruppo di allievi) fissano le competenze comuni e trasversali che impegnano l’intero
consiglio di classe o parte di esso;
- un livello disciplinare del singolo docente, o dei docenti che afferiscono ad un’area
disciplinare, che stabilisce le priorità nello sviluppo delle competenze, le sequenze
concettuali e gli standard di accettabilità relativamente alle produzioni degli studenti.

2.4 I vari approcci alla progettazione: dalla progettazione tradizionale alla progettazione

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per competenze

Esistono molteplici approcci alla progettazione didattica.


L’approccio più tradizionale, ma anche quello più consolidato, è la progettazione per obiettivi.
Questa più che progettazione sarebbe più esatto definirla programmazione per obiettivi, in quanto si
tratta dell’attività di programmazione, come descritta nel paragrafo precedente, al cui centro vi sono
gli obiettivi didattici, intesi come precisi traguardi relativi a conoscenze e abilità, acquisiti
nell’ambito di specifiche unità didattiche. L’approccio è focalizzato sul controllo della
programmazione dell’insegnamento e sulla verifica dei risultati.
La progettazione per concetti, come la precedente, è un tipo di progettazione che si svolge “a
tavolino” e tenta di anticipare l’attività in aula; la differenza con la programmazione per obiettivi è
che la progettazione per concetti (detta anche didattica per concetti), anziché partire dagli obiettivi,
pone al centro l’apparato concettuale di una disciplina e prevede un’elaborazione progressiva dalle
credenze spontanee e ingenue dei bambini ai concetti sistematici della disciplina. L’insegnante di
solito procede dalla scelta del/i concetto/i da sviluppare, dando una definizione rappresentata
graficamente attraverso una mappa concettuale, che lega il concetto centrale con altri concetti
tramite connessioni logiche o procedurali. Il docente inoltre attua una “conversazione clinica” con
gli alunni, al fine di rilevare: le conoscenze pregresse, quali esperienze hanno avuto in relazione ai
concetti introdotti e come organizzano le rappresentazioni, in funzione della mappa concettuale
proposta in precedenza. A questo punto, viene fornita una rete concettuale, che illustra le future fasi
di lavoro, che amplieranno le conoscenze degli alunni attraverso attività ed esperienze in aula. La
progettazione (illustrata in parte agli alunni, con la presentazione della mappa e della rete
concettuale) viene in seguito realizzata attraverso le attività in aula e con l’utilizzo di numerosi
mediatori didattici (grafici, immagini, diagrammi e schemi).
La post-programmazione è stata introdotta da Boselli (1991), a partire dall’analisi del modello
classico e istituzionalizzato di programmazione, criticato per l’eccessivo tecnicismo, per la
segmentazione della cultura e per la conseguente burocratizzazione della pratica educativa. La post-
programmazione prevede un’attenzione particolare al processo dell’insegnamento/apprendimento,
piuttosto che al prodotto finale con la definizione rigida di obiettivi gerarchicamente e
sequenzialmente organizzati, il progetto viene concepito come una connessione aperta del passato e
del presente al futuro, attraverso l’immaginazione. Così, mentre la programmazione tradizionale
viene paragonata da Boselli (1991) ad un’autostrada o a un binario, che procede in maniera lineare,
la post-programmazione è come un sentiero fatto da tracce e contiene orientamenti non prescrizioni.
Infine, senza la pretesa di avere esaurito i vari approcci alla progettazione, la progettazione per

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competenze rappresenta l’approccio più attuale e verso il quale l’Europa ci orienta. La competenza
viene definita nella Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 2006 come la
capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di
lavoro o di studio o nello sviluppo professionale e/o personale. Le competenze sono descritte in
termini di responsabilità ed autonomia.
Le conoscenze, invece, indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso
l’apprendimento. Esse sono l’insieme di fatti, principi, teorie e pratiche, relative ad un settore di
studio o di lavoro e sono descritte come teoriche e/o pratiche.
Le abilità indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per portare a termine
compiti o risolvere problemi; esse sono descritte come cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo
e creativo) e pratiche (che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti).
Già a partire dal Consiglio europeo del 2000 a Lisbona è stato concordato per l’Unione l’obiettivo
strategico di questa:

“(…) diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di
realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione
sociale”.

Al successivo Consiglio europeo di Stoccolma del 2001 viene approvata la relazione sugli obiettivi
strategici per l’istruzione e la formazione, che chiede in maniera più concreta agli Stati dell’Unione,
di:
 migliorare la qualità e l’efficacia;
 agevolare l’accesso di tutti;
 aprire al resto del mondo.
Con la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio del 18 dicembre 2006, l’Unione Europea
ha invitato gli Stati membri a sviluppare, nell’ambito delle politiche educative, strategie per
incrementare le otto competenze chiave necessarie per la realizzazione personale, la cittadinanza
attiva, la coesione sociale, l’occupabilità in una società della conoscenza. Le competenze chiave
sono le seguenti: comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue straniere,
competenza matematica, competenza in campo scientifico e tecnologico, competenza digitale,
imparare ad imparare, competenze sociali e civiche, senso di iniziativa e imprenditorialità,
consapevolezza ed espressione culturale.
 La comunicazione nella madrelingua è la capacità di esprimere e interpretare concetti,
pensieri, sentimenti, fatti e opinioni in forma sia orale sia scritta (comprensione orale,
espressione orale, comprensione scritta ed espressione scritta) e di interagire adeguatamente

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e in modo creativo sul piano linguistico in un’intera gamma di contesti culturali e sociali,
quali istruzione e formazione, lavoro, vita domestica e tempo libero.
 La comunicazione nelle lingue straniere condivide essenzialmente le principali abilità
richieste per la comunicazione nella madrelingua. La comunicazione nelle lingue straniere
richiede anche abilità quali la mediazione e la comprensione interculturale. Il livello di
padronanza di un individuo varia inevitabilmente tra le quattro dimensioni (comprensione
orale, espressione orale, comprensione scritta ed espressione scritta) e tra le diverse lingue e
a seconda del suo retroterra sociale e culturale, del suo ambiente e delle sue esigenze ed
interessi.
 La competenza matematica è l’abilità di sviluppare e applicare il pensiero matematico per
risolvere una serie di problemi in situazioni quotidiane. Partendo da una solida padronanza
delle competenze aritmetico-matematiche, l’accento è posto sugli aspetti del processo e
dell’attività oltre che su quelli della conoscenza. La competenza matematica comporta, in
misura variabile, la capacità e la disponibilità a usare modelli matematici di pensiero
(pensiero logico e spaziale) e di presentazione (formule, modelli, schemi, grafici,
rappresentazioni).
 La competenza in campo scientifico si riferisce alla capacità e alla disponibilità a usare
l’insieme delle conoscenze e delle metodologie possedute per spiegare il mondo che ci
circonda sapendo identificare le problematiche e traendo le conclusioni che siano basate su
fatti comprovati. La competenza in campo tecnologico è considerata l’applicazione di tale
conoscenza e metodologia per dare risposta ai desideri o bisogni avvertiti dagli esseri umani.
La competenza in campo scientifico e tecnologico comporta la comprensione dei
cambiamenti determinati dall’attività umana e la consapevolezza della responsabilità di
ciascun cittadino.
 La competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le
tecnologie della società dell’informazione per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione.
Essa implica abilità di base nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC):
l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare
informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet.
 Imparare a imparare è l’abilità di perseverare nell’apprendimento, di organizzare il proprio
apprendimento anche mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni, sia a
livello individuale che in gruppo. Questa competenza comprende la consapevolezza del
proprio processo di apprendimento e dei propri bisogni, l’identificazione delle opportunità
disponibili e la capacità di sormontare gli ostacoli per apprendere in modo efficace. Questa

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competenza comporta l’acquisizione, l’elaborazione e l’assimilazione di nuove conoscenze e
abilità come anche la ricerca e l’uso delle opportunità di orientamento. Il fatto di imparare a
imparare fa sì che i discenti prendano le mosse da quanto hanno appreso in precedenza e
dalle loro esperienze di vita per usare e applicare conoscenze e abilità in tutta una serie di
contesti: a casa, sul lavoro, nell’istruzione e nella formazione. La motivazione e la fiducia
sono elementi essenziali perché una persona possa acquisire tale competenza.
 Le competenze sociali e civiche includono competenze personali, interpersonali e
interculturali e riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di
partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa, in particolare alla
vita in società sempre più diversificate, come anche a risolvere i conflitti ove ciò sia
necessario. La competenza civica dota le persone degli strumenti per partecipare appieno
alla vita civile grazie alla conoscenza dei concetti e delle strutture sociopolitiche e
all’impegno a una partecipazione attiva e democratica.
 Lo spirito di iniziativa e l’imprenditorialità concernono la capacità di una persona di tradurre
le idee in azione. In ciò rientrano la creatività, l’innovazione e l’assunzione di rischi, come
anche la capacità di pianificare e di gestire progetti per raggiungere obiettivi. È una
competenza che aiuta gli individui, non solo nella loro vita quotidiana, nella sfera domestica
e nella società, ma anche nel posto di lavoro, ad avere consapevolezza del contesto in cui
operano e a poter cogliere le opportunità che si offrono ed è un punto di partenza per le
abilità e le conoscenze più specifiche di cui hanno bisogno coloro che avviano o
contribuiscono ad un’attività sociale o commerciale. Essa dovrebbe includere la
consapevolezza dei valori etici e promuovere il buon governo.
 Consapevolezza ed espressione culturale riguarda l’importanza dell’espressione creativa di
idee, esperienze ed emozioni in un’ampia varietà di mezzi di comunicazione, compresi la
musica, le arti dello spettacolo, la letteratura e le arti visive.
L’impegno a far conseguire tali competenze a tutti i cittadini europei di qualsiasi età (come
riportano le Indicazioni nazionali), indipendentemente dalle caratteristiche proprie di ogni sistema
scolastico nazionale, non implica da parte degli Stati aderenti all’Unione europea l’adozione di
ordinamenti e curricoli scolastici conformi ad uno stesso modello. Al contrario, la diversità di
obiettivi specifici, di contenuti e di metodi di insegnamento, così come le differenze storiche e
culturali di ogni paese, pur orientati verso le stesse competenze generali, favoriscono l’espressione
di una pluralità di modi di sviluppare e realizzare tali competenze. Tale processo non si esaurisce al
termine del primo ciclo di istruzione, ma prosegue con l’estensione dell’obbligo di istruzione nel
ciclo secondario e oltre, in una prospettiva di educazione permanente, per tutto l’arco della vita.

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L’attenzione posta negli ultimi anni sulle competenze ha portato a sviluppare l’approccio della
progettazione per competenze. Tale approccio parte dagli esiti attesi di apprendimento in termini di
competenze, poi, con un percorso a ritroso, formula le prove di accertamento delle stesse e, infine,
individua metodi e soluzioni organizzative necessarie per realizzare l’attività.

2.5 Le Indicazioni Nazionali e la progettazione curricolare

Le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione
(2012) sono il quadro di riferimento per la progettazione curricolare d’istituto, “nel rispetto e nella
valorizzazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche”. Esse sono “un testo aperto, che la
comunità professionale è chiamata ad assumere e a contestualizzare, elaborando specifiche scelte
relative a contenuti, metodi, organizzazione e valutazione coerenti con i traguardi formativi previsti
dal documento nazionale”.
Esse forniscono le finalità generali da perseguire, legandole alle specifiche caratteristiche della
società odierna, che negli ultimi decenni ha subito significativi e rapidi mutamenti e oggi presenta
modi di vivere centrati sul consumismo, sull’individualismo, sull’omologazione e sul decadimento
valoriale, che inducono le agenzie educative a interrogarsi su quali siano oggi i presupposti teorici e
metodologici su cui basare il proprio operato per svolgere al meglio il proprio compito. Oggi siamo
anche di fronte ad un relativismo morale pervasivo, dal quale deriva un modo più elastico e
flessibile di far rispettare le regole da parte del mondo adulto e ciò rende più difficili i processi di
identificazione e differenziazione da parte di chi cresce. La scuola si trova a dover districarsi tra un
passato di tradizione, di valori, come il rispetto dell’altro (in particolare dell’adulto), di stabilità
socio-economica, ed un presente e un futuro densi di instabilità, insicurezza, precarietà, irriverenza.
La complessità del nuovo scenario che abbiamo davanti ci obbliga a pensare alla scuola come a una
delle entità che si occupa di formazione e, quindi, non più come alla sola che ne ha titolo: i nuovi
mezzi di informazione e comunicazione inducono ad introdurre il concetto di pedagogia parallela.
In questo quadro, anche la formazione, come la nostra vita, rischia di essere discontinua e
frammentata: per garantire uno sviluppo armonico e una continuità educativa è molto importante
stabilire un costante dialogo tra scuola e famiglia, di questi tempi per nulla scontato, per
confrontarsi e condividere finalità educative comuni.
Dinanzi alla complessità e alla precarietà che caratterizza il mondo di oggi, la scuola non può e non
deve rinunciare al suo ruolo di garante della trasmissione di saperi, ma può e deve ambire ad
ampliare il suo raggio d’azione, insegnando a “stare al mondo”, con metodi che tengano conto delle

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differenze culturali, sociali ed economiche dei contesti familiari da cui si proviene e della specificità
e originalità di ognuno. In particolare, le appartenenze multiculturali rappresentano un’occasione di
arricchimento se, a partire dal fecondo e proficuo confronto con chi è diverso, si lavora per
sviluppare un’identità aperta e consapevole.
Per gli alunni di tutte le scuole di ogni ordine e grado le Indicazioni del 2012 pongono, dunque, le
seguenti finalità educative:
 offrire agli studenti occasioni di apprendimento dei saperi e dei linguaggi culturali di base;
 far sì che gli studenti acquisiscano gli strumenti di pensiero necessari per apprendere a
selezionare le informazioni;
 promuovere negli studenti la capacità di elaborare metodi e categorie che siano in grado di
fare da bussola negli itinerari personali;
 favorire l’autonomia di pensiero negli studenti, orientando la propria didattica alla
costruzione di saperi a partire da concreti bisogni formativi.
È quanto mai indispensabile, oggi, elaborare un’offerta formativa rispondente ai bisogni dei singoli
allievi e più che mai attenta alle peculiarità di ognuno. La scuola si impegna a promuovere il
successo formativo per tutti gli studenti, ponendo particolare attenzione a chi è in condizione di
diversità, di disabilità e di svantaggio e a garantire a tutti gli studenti italiani pari opportunità
educative, facendo in modo che in ogni parte del Paese si raggiungano standard di qualità
omogenei.
L’offerta formativa della scuola deve tenere conto della specificità dei bisogni della singola persona
in evoluzione, della sua originalità, calibrare gli strumenti e le attività didattiche in base alle sue
capacità e ai suoi punti deboli. Per questo occorre che il docente si sintonizzi costantemente con i
bisogni e i desideri dei bambini che si trova davanti e valorizzi i momenti di passaggio evolutivo
che segnano la loro crescita. Lo studente è dunque al centro dell’azione formativa in tutti i suoi
aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali e religiosi. I metodi
didattici devono privilegiare il protagonismo di ogni singolo alunno e incoraggiarlo a
problematizzare, ipotizzare e verificare in autonomia, piuttosto che attendere passivamente di
apprendere contenuti.
Le Indicazioni Nazionali sottolineano che l’apprendimento in gruppo potenzia i suoi effetti; quindi,
i docenti devono sviluppare competenze di gestione del gruppo classe, fornendo stimoli alla
cooperazione di gruppo, favorendo un’efficace gestione di inevitabili conflitti, in modo tale che la
classe sia un luogo dove tutti vengano accolti e valorizzati per le proprie caratteristiche e in cui
siano contrastate eventuali dinamiche di esclusione o stigmatizzazione. Il principio della centralità
della persona non contraddice quello della promozione di importanti legami di gruppo, anzi nella

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classe l’alunno, nel costante confronto e a volte scontro con gli altri, può meglio conoscersi,
differenziarsi, sviluppare le proprie inclinazioni e affinare le capacità.
Ponendo la necessaria attenzione al singolo e al gruppo, la scuola fornisce agli studenti quella
capacità di apprendere ad apprendere, cioè quella competenza a dotarsi delle conoscenze adatte a
leggere e interpretare la realtà naturale, sociale e antropologica in continua evoluzione, con la quale
dovranno misurarsi divenendo adulti.
Il curricolo di istituto, allora, come riportano le Indicazioni nazionali, sarà

“(…) espressione della libertà d’insegnamento e dell’autonomia scolastica e, al tempo stesso, espliciterà le
scelte della comunità scolastica e l’identità dell’istituto. La costruzione del curricolo è il processo attraverso
il quale si sviluppano e organizzano la ricerca e l’innovazione educativa”.

Il conferimento dell’autonomia alle scuole, definita funzionale perché il fine è il miglioramento


dell’offerta formativa, consente di ampliare e di differenziare le proposte di formazione entro il
quadro stabilito dalle norme nazionali, dando luogo per ogni scuola ad una sua specifica fisionomia,
che si manifesta con il PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa), secondo quanto previsto
dalla L. 107/2015.
La progettazione curricolare è il processo attraverso il quale si possono sviluppare e organizzare la
ricerca e l’innovazione educativa. I docenti, a partire dal curricolo d’istituto, progettano la loro
azione didattica individuando le esperienze di apprendimento più efficaci, le scelte didattiche più
significative, le strategie più idonee, con attenzione all’integrazione fra le discipline e alla loro
possibile aggregazione in aree e facendo riferimento al profilo dello studente al termine del primo
ciclo di istruzione, ai traguardi per lo sviluppo delle competenze e agli obiettivi di apprendimento
specifici per ogni disciplina.
I docenti, inoltre, devono osservare alcuni particolari criteri, come stabilito dalle Indicazioni
Nazionali del 2012. La scuola deve essere accogliente e inclusiva, è la scuola di tutti e di ciascuno;
i docenti devono orientare l’attività didattica alla qualità dell’apprendimento di ciascun alunno, e
non ad una sequenza lineare di contenuti disciplinari.
La progettazione curricolare deve avere una continuità verticale e orizzontale. Quella verticale
consente di accompagnare la persona nelle sue fasi evolutive, impostando un apprendimento che
abbia effetti a lungo termine nell’esistenza della persona, non accompagnandola pedissequamente
nelle singole scelte quotidiane, ma preparandola ad affrontare autonomamente il mondo. Quella
orizzontale fornisce coerenza e continuità alla didattica, coordinando le proposte educative con
quelle delle altre agenzie che, a vario titolo, si occupano degli studenti, prima tra tutte la famiglia.
Uno dei compiti principali della scuola è preparare gli studenti a convivere nella collettività, in un

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periodo storico in cui pare che la famiglia abbia abdicato, in parte o in toto, a svolgere tale
importante funzione proprio in favore della scuola, che si può considerare una vera e propria
palestra di socializzazione. Il contesto scolastico allena gli studenti ad aprirsi piacevolmente a
microcosmi sociali sempre più ampi. Per ottemperare in pieno a questo mandato, paradossalmente,
la scuola ha bisogno di istituire forti alleanze proprio con le famiglie, costruendo un rapporto non
basato su sporadici incontri imbastiti sull’urgenza didattica o disciplinare, ma nutrite da ordinarie
occasioni di dialogo sui principi cardine dell’azione educativa, ben programmate nel corso
dell’anno. Per intraprendere valide e costanti iniziative che coinvolgano famiglie e territorio
d’appartenenza la scuola oggi possiede uno strumento, l’autonomia scolastica, che consente di
progettare l’offerta didattica aprendosi alla realtà che la circonda.
La scuola è il primo contesto in cui il bambino è invitato a superare il proprio egoismo ed
egocentrismo, imparando fin da subito che il rispetto delle regole di convivenza consente di
condividere con altri serenamente uno spazio e un tempo. Tale condizione si può raggiungere solo
ispirandosi a valori di cruciale importanza che costituiscono la base per una convivenza
democratica, quali la fratellanza, la solidarietà, la disponibilità, l’accettazione, la cordialità e la
simpatia per l’altro diverso da sé. L’allenamento alla convivenza oggi più che mai assume
un’importanza fondamentale, accentuata dalla presenza sempre maggiore di alunni appartenenti ad
altre culture: l’accoglienza dell’altro con la sua diversità è un principio educativo imprescindibile
per formare persone con mentalità aperta e democratica. Questo non significa ignorare gli usi, i
costumi, le tradizioni e la cultura del nostro Paese, anzi, per favorire l’incontro tra diverse culture è
indispensabile conoscere quella d’appartenenza e favorire incontri e scambi fecondi con chi
proviene da altri luoghi.
La grande sfida che l’istituzione scolastica oggi è chiamata ad affrontare è quella di coniugare
l’esigenza di favorire la maturazione di idee personali e il senso critico, con quella di guidare ad
effettuare scelte frutto di un continuo confronto tra la propria progettualità e i valori della società
cui appartiene, in particolare i principi fondanti la nostra democrazia, quelli della ragione, della
libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza. In questo modo la scuola orienta gli studenti a
partecipare in modo attivo alla vita della comunità in cui vive e alla costruzione di collettività via
via sempre più larghe, quella nazionale, europea e mondiale. Infatti, è importante che gli studenti
comprendano come i problemi che riguardano il proprio territorio sono interconnessi con ciò che
succede in Italia, in Europa e nel mondo.
Il senso di cittadinanza che oggi la scuola vuole trasmettere è quello di formare individui aperti
all’altro e consapevoli da un lato che il proprio modo di agire e ciò che accade nel mondo intorno a
loro si influenzano vicendevolmente, dall’altro che si può essere contemporaneamente cittadini

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italiani, europei e del mondo.
La scuola promuove, in modo proporzionato al livello di maturazione, il senso di responsabilità
nelle scelte, in modo da puntare sulla coscienza del singolo individuo immerso in tanti microcosmi
sociali e nel grande macrocosmo che è l’umanità per sperare in un futuro migliore.
Le Indicazioni Nazionali illustrano il “nuovo umanesimo” che stiamo vivendo oggi, in cui tutte le
arti, le scienze e le tecnologie si integrano in un sapere universale; la scuola tiene conto di questo
grande movimento di pensiero e articola la sua azione formativa tenendo conto di questi tre grandi
obiettivi:
 Insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza – l’universo, il pianeta, la natura, la
vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia – in una prospettiva complessa, volta
cioè a superare la frammentazione delle discipline, e a integrarli in nuovi quadri d’insieme;
 promuovere i saperi propri di un nuovo umanesimo: la capacità di comprendere le
implicazioni, per la condizione umana, degli inediti sviluppi delle scienze e delle tecnologie;
la capacità di valutare i limiti e le possibilità delle conoscenze; la capacità di vivere e di
agire in un mondo in continuo cambiamento;
 diffondere la consapevolezza che i grandi problemi dell’attuale condizione umana (il
degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle
risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i dilemmi
bioetici, la ricerca di una nuova qualità della vita) possono essere affrontati e risolti
attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e le
culture.
La collaborazione tra le diverse scienze naturali e quelle umane ha concorso a ricostruire con
sempre maggiore nitidezza la storia dell’universo, della terra e delle popolazioni umane, le loro
migrazioni e la loro evoluzione. Discipline prima lontane tra loro come la genetica, la linguistica,
l’archeologia, l’antropologia, la climatologia, la storia dei miti e delle religioni hanno integrato i
loro saperi l’una con l’altra, pervenendo a delineare in modo più completo la storia globale
dell’umanità. Le relazioni intercorrenti tra le scoperte in campi diversi ma confinanti come
l’embriologia, l’ecologia, la geologia, la biochimica e la biofisica ci forniscono un quadro ampio e
dettagliato della storia della vita sulla terra e mettono in luce le connessioni tra le diverse forme di
vita. Oggi ogni persona che vive, studia e lavora non può prescindere dall’integrazione dei saperi
per stare al mondo e dare il proprio originale contributo, piccolo, ma importante, al progresso
dell’umanità.
Per quanto riguarda il nostro Paese, è utile affondare le radici della conoscenza soprattutto nei
periodi storici di intensa creatività come quello della civiltà dei greci e latini e del Rinascimento per

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renderci conto dello straordinario apporto dato dai nostri artisti, scienziati, musicisti, esploratori e
artigiani a tutto il mondo e comprendere a fondo che i loro contributi sono a loro volta nati da
contaminazioni con altre culture e oggi concorrono a formare il patrimonio culturale mondiale.
Nel nuovo umanesimo c’è dunque spazio per un uomo “integrale”, cioè che mette insieme in modo
originale le diverse informazioni e le diverse culture, sintetizzando in modo unico nel microcosmo
personale i diversi aspetti del macrocosmo umano.
Per concludere, i docenti devono considerare la valutazione come quell’azione che

“(…) precede, accompagna e segue i percorsi curricolari: attiva le azioni da intraprendere, regola quelle
avviate, promuove il bilancio critico su quelle condotte a termine, assume una preminente funzione
formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo”.

2.6 Dal Progetto Educativo d’Istituto al Piano Triennale dell’Offerta Formativa

Con il D.P.C.M. del 7 giugno 1995 viene introdotta la Carta dei Servizi in ambito scolastico e con
essa il Progetto Educativo d’Istituto (il cosiddetto PEI), che contiene le scelte educative ed
organizzative e “costituisce un impegno per l’intera comunità scolastica”. Il PEI provvede anche a
regolare “l’uso delle risorse di istituto e la pianificazione delle attività di sostegno, di recupero, di
orientamento e di formazione integrata” e definisce i criteri per la formazione delle classi, la
formulazione dell’orario, la valutazione del servizio scolastico. Il PEI ha avuto il merito di
consentire una migliore pianificazione delle attività e delle azioni didattiche e organizzative, ma il
suo punto di debolezza è rappresentato dal fatto di essere uno strumento rigido e, per questo, poco
idoneo alle attività di progettazione, programmazione e valutazione, che richiedono un sistema
flessibile. Il PEI, antesignano del POF, ha rappresentato più che altro un collage di attività
all’interno di rigidi schemi dettati dal centro.
Il POF (Piano dell’Offerta Formativa) è introdotto dal D.P.R. n. 275/1999 e rappresenta il
documento fondamentale che definisce l’identità culturale e progettuale della singola scuola,
specificandone la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa.
Il Piano dell’Offerta Formativa diventa, con la riforma della “Buona Scuola” (L. 107/2015), Piano
Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF). L’art.3 del DPR n.275 del 1999 è stato difatti novellato
dal comma 14 della legge succitata che ne ha cambiato anche le modalità di elaborazione, affidando
un ruolo preminente al dirigente scolastico, chiamato a dare al collegio dei docenti gli indirizzi per
le attività della scuola e per le scelte di gestione e di amministrazione. Se la progettazione del piano
è consegnata nelle mani del collegio, la sua approvazione avviene poi in seno al consiglio di istituto.

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Il PTOF viene redatto entro il mese di ottobre, fatta eccezione per il primo anno dalla Riforma, in
cui il termine è stato posticipato al 15 gennaio 2016. A differenza del POF, il PTOF è redatto,
appunto, per un triennio, ma è rivedibile annualmente.
Il piano, coerente con gli obiettivi generali ed educativi determinati a livello nazionale, riflette le
esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale e indica le finalità generali
che la scuola intende perseguire. Il piano di ogni singola istituzione scolastica dovrà trarre le sue
finalità generali sia dal comma 1 della legge 107 sia dalle risultanze della prima fase di
autovalutazione delle scuole eseguita attraverso il RAV.
Così, ciascuna istituzione scolastica potrà impegnarsi per affermare il ruolo centrale della scuola
nella società della conoscenza, innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e
degli studenti, rispettare i tempi e gli stili di apprendimento, contrastare le disuguaglianze socio-
culturali e territoriali, recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica, realizzare una scuola
aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione ed innovazione didattica, di
partecipazione e di cittadinanza attiva, garantire il diritto allo studio, le pari opportunità di successo
formativo e di istruzione permanente dei cittadini.
Il nuovo assetto della Legge 107 propone una serie di obiettivi formativi preconfezionati, ricavabili
dal comma 7, che le scuole dovranno scegliere ai fini della determinazione della programmazione.
Per il raggiungimento di tali obiettivi formativi il legislatore indica alle istituzioni scolastiche le
forme di flessibilità dell’autonomia didattica e organizzativa, dispositivi previsti dal regolamento
275, ancora ineludibili per progettare ed attuare le azioni che la scuola intende realizzare. Pertanto,
alle scuole sono indicate tre modalità di organizzazione riferibili al tempo scuola e alla relativa
programmazione:
a. l’articolazione modulare del monte orario annuale di ciascuna disciplina, ivi compresi
attività e insegnamenti interdisciplinari;
b. il potenziamento del tempo scolastico anche oltre i modelli e i quadri orari, nei limiti della
dotazione organica dell’autonomia di cui al comma 5, tenuto conto delle scelte degli studenti
e delle famiglie;
c. la programmazione plurisettimanale e flessibile dell’orario complessivo del curricolo e di
quello destinato alle singole discipline, anche mediante l’articolazione del gruppo della
classe.
Gli obiettivi formativi di cui al comma 7 della legge 107 sono i seguenti:

a) valorizzazione e potenziamento delle competenze linguistiche, con particolare riferimento


all’italiano nonché alla lingua inglese e ad altre lingue dell’Unione europea, anche mediante
l’utilizzo della metodologia Content language integrated learning;

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b) potenziamento delle competenze matematico-logiche e scientifiche;
c) potenziamento delle competenze nella pratica e nella cultura musicali, nell’arte e nella storia
dell’arte, nel cinema, nelle tecniche e nei media di produzione e di diffusione delle immagini e dei
suoni, anche mediante il coinvolgimento dei musei e degli altri istituti pubblici e privati operanti in
tali settori;
d) sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva e democratica attraverso la
valorizzazione dell’educazione interculturale e alla pace, il rispetto delle differenze e il dialogo tra
le culture, il sostegno dell’assunzione di responsabilità nonché della solidarietà e della cura dei beni
comuni e della consapevolezza dei diritti e dei doveri; potenziamento delle conoscenze in materia
giuridica ed economico-finanziaria e di educazione all’autoimprenditorialità;
e) sviluppo di comportamenti responsabili ispirati alla conoscenza e al rispetto della legalità, della
sostenibilità ambientale, dei beni paesaggistici, del patrimonio e delle attività culturali;
f) alfabetizzazione all’arte, alle tecniche e ai media di produzione e diffusione delle immagini;
g) potenziamento delle discipline motorie e sviluppo di comportamenti ispirati a uno stile di vita sano,
con particolare riferimento all’alimentazione, all’educazione fisica e allo sport, e attenzione alla
tutela del diritto allo studio degli studenti praticanti attività sportiva agonistica;
h) sviluppo delle competenze digitali degli studenti, con particolare riguardo al pensiero
computazionale, all’utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media nonché alla
produzione e ai legami con il mondo del lavoro;
i) potenziamento delle metodologie laboratoriali e delle attività di laboratorio;
l) prevenzione e contrasto della dispersione scolastica, di ogni forma di discriminazione e del
bullismo, anche informatico; potenziamento dell’inclusione scolastica e del diritto allo studio degli
alunni con bisogni educativi speciali attraverso percorsi individualizzati e personalizzati anche con
il supporto e la collaborazione dei servizi socio-sanitari ed educativi del territorio e delle
associazioni di settore e l’applicazione delle linee di indirizzo per favorire il diritto allo studio degli
alunni adottati, emanate dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca il 18 dicembre
2014;
m) valorizzazione della scuola intesa come comunità attiva, aperta al territorio e in grado di sviluppare
e aumentare l’interazione con le famiglie e con la comunità locale, comprese le organizzazioni del
terzo settore e le imprese;
n) apertura pomeridiana delle scuole e riduzione del numero di alunni e di studenti per classe o per
articolazioni di gruppi di classi, anche con potenziamento del tempo scolastico o rimodulazione del
monte orario rispetto a quanto indicato dal regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 20 marzo 2009, n. 89;
o) incremento dell’alternanza scuola-lavoro nel secondo ciclo di istruzione;
p) valorizzazione di percorsi formativi individualizzati e coinvolgimento degli alunni e degli studenti;
q) individuazione di percorsi e di sistemi funzionali alla premialità e alla valorizzazione del merito
degli alunni e degli studenti;
r) alfabetizzazione e perfezionamento dell’italiano come lingua seconda attraverso corsi e laboratori
per studenti di cittadinanza o di lingua non italiana, da organizzare anche in collaborazione con gli
enti locali e il terzo settore, con l’apporto delle comunità di origine, delle famiglie e dei mediatori
culturali;
s) definizione di un sistema di orientamento.

Oltre alla definizione delle finalità generali, la programmazione dell’offerta formativa triennale, ai
sensi del comma 2 della legge 107 servirà per indicare gli insegnamenti e le discipline tali da
coprire il fabbisogno dei posti comuni e di sostegno dell’organico dell’autonomia e il fabbisogno

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dei posti per il potenziamento dell’offerta formativa, oltre che il fabbisogno relativo ai posti del
personale amministrativo, tecnico e ausiliare e il fabbisogno di infrastrutture e di attrezzature
materiali.
Altro campo obbligatorio all’interno del PTOF, previsto dal comma 14 della legge 107, è
l’allegato Piano di miglioramento dell’istituzione scolastica così come scaturito dal rapporto di
autovalutazione. Il PDM avrà una naturale corrispondenza con i contenuti del piano dell’offerta
formativa.
I rapporti con gli enti locali e con il territorio spettano al dirigente dell’istituzione scolastica,
difatti il comma 14 della legge 107, così dispone:

“Ai fini della predisposizione del piano, il dirigente scolastico promuove i necessari rapporti con gli enti
locali e con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti nel territorio; tiene
altresì conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni dei genitori e, per le
scuole secondarie di secondo grado, degli studenti”.

Ciò significa che, nell’ambito degli obiettivi formativi ritenuti imprescindibili dall’istituzione
scolastica e nelle attività progettuali, le scuole potranno far emergere all’interno del PTOF il legame
con il territorio ossia con il contesto culturale, sociale ed economico di appartenenza. Dunque, il
piano dell’offerta formativa potrà prendere in considerazione “la valorizzazione della scuola intesa
come comunità attiva, aperta al territorio e in grado di sviluppare e aumentare l’interazione con le
famiglie e con la comunità locale, comprese le organizzazioni del terzo settore e le imprese”.
Il comma 12 della legge 107 stabilisce anche che il Piano dell’offerta formativa triennale deve
contenere “la programmazione delle attività formative rivolte al personale docente e
amministrativo, tecnico e ausiliare”. Direttamente collegato al predetto comma vi è il 124 che
stabilisce che:

“(…) nell’ambito degli adempimenti connessi alla funzione docente, la formazione in servizio dei docenti di
ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale. Le attività di formazione sono definite dalle singole
istituzioni scolastiche in coerenza con il piano triennale dell’offerta formativa e con i risultati emersi dai
piani di miglioramento delle istituzioni scolastiche previsti dal regolamento di cui al D.P.R. n.80/2013, sulla
base delle priorità nazionali indicate nel Piano nazionale di formazione, adottato ogni tre anni con decreto
del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le organizzazioni sindacali
rappresentative di categoria”.

Il Piano di formazione previsto dalla legge 107 comporterà quindi da parte del personale scolastico
delle prestazioni aggiuntive non di insegnamento, oltre all’orario di servizio.
Il PTOF potrà contenere le iniziative di formazione rivolte agli studenti, per promuovere la
conoscenza delle tecniche di primo soccorso (comma 10 della legge 107) nonché attività per
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assicurare l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e
grado l’educazione alla parità dei sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le
discriminazioni.
A quanto sopra si aggiungono anche i percorsi formativi e iniziative diretti all’orientamento e alla
valorizzazione del merito scolastico e dei talenti (comma 29 della legge 107).
Il comma 33 della legge 107 prevede altresì che nel piano dell’offerta formativa delle scuole
secondarie di secondo grado siano inseriti percorsi di alternanza scuola-lavoro e di conseguenza
anche le attività di cui al comma 38, attività di formazione in materia di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro sempre nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali
disponibili.

3. Il raggiungimento del successo scolastico attraverso la sinergia dei diversi ordini di


scuola: la continuità educativa

La continuità educativa è ritenuta uno dei fattori determinanti per il raggiungimento del successo
scolastico. Essa si deve realizzare tra i vari ordini di scuola attraverso attività, progetti, laboratori
comuni, attività scolastiche ed extrascolastiche, individuate e sancite dagli organi collegiali
competenti. Ciò implica una sinergia tra scuole, organi collegiali, organismi territoriali, le famiglie
degli alunni e gli alunni stessi. Per attuare la continuità educativa è necessario conoscere le
Indicazioni Nazionali dell’ordine di scuola interessato, le quali devono essere alla base di quelle
azioni che servono a coordinare le varie offerte finalizzate alla creazione di un progetto comune di
continuità.
La continuità educativa è connotata da collegialità, lavoro di team e interazione con gli organi
istituzionali.

3.1 Gli organi collegiali e territoriali

L’istituzione scolastica è ubicata in un territorio e, quindi, non può essere avulsa dal tessuto sociale,
economico territoriale. I cambiamenti sociali, culturali e politici hanno avuto ripercussioni nel modo
in cui veniva percepita l’istituzione scuola e la cultura stessa. Abbiamo già detto che fino agli anni
‘70 la cultura era considerata elitaria, per pochi, ma con gli sconvolgimenti sociali del periodo

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cambiarono molte cose e si ebbe anche un cambiamento nella gestione della scuola che voleva
essere più aperta e democratica e questo si ottenne con l’istituzione degli organi collegiali che
permisero ai genitori, agli studenti e ai docenti di partecipare attivamente alla vita scolastica
attraverso i Decreti Delegati. Essi stabiliscono l’istituzione degli organi collegiali. Essi danno a tutte
le componenti scolastiche, a genitori e alunni poteri nuovi rispetto al passato e regoleranno la scuola
fino al D.L n. 297/94 e al successivo D.L. 233/99.
Altro punto nodale per gli organi collegiali e la scuola è stata l’autonomia scolastica (L. 15 Marzo
1997; D.P.R. n.275 dell’8 Marzo 1999) in quanto gli organi collegiali hanno ottenuto ancora più
importanza.
Essi sono organi di gestione e sono rappresentativi delle diverse componenti scolastiche interne ed
esterne alla scuola: docenti, studenti, e genitori. Essi sono a carattere collegiale e sono previsti per i
vari livelli della scuola (classe, istituto). I componenti vengono eletti dai membri della categoria di
appartenenza. La loro funzione è diversa secondo i livelli: è propositiva e consuntiva a livello di
base (consigli di classe, interclasse); è deliberativa ai livelli superiori (consigli di circolo/istituto,
consigli provinciali).
Gli organi collegiali a livello di circolo e d’istituto sono disciplinati dal D.lgs. 297/94 e sono:
 Consiglio d’intersezione nella scuola dell’infanzia, di interclasse nella scuola primaria e di
classe nelle scuole secondarie. È presieduto dal Dirigente scolastico o da un coordinatore e
ne fanno parte nella scuola dell’infanzia tutti i docenti delle sezioni dello stesso plesso.
Nella scuola dell’infanzia è presente un rappresentante eletto dai genitori. Ne fanno parte
nella scuola primaria, invece, tutti gli insegnanti della classe e anche i rappresentanti dei
genitori degli alunni (questo nella componente allargata) che sono eletti ogni anno. In
entrambi i cicli ne fa parte, anche, l’insegnante di sostegno se presente. Il consiglio di
interclasse ha la facoltà di predisporre la programmazione educativo-didattica attraverso
l’esercizio delle sue competenze di programmazione, valutazione e sperimentazione;
formula proposte al Collegio Docenti sull’azione educativa e didattica e agevola e rende più
efficace il rapporto tra la scuola e la famiglia; propone libri di testo e prende provvedimenti
disciplinari a carico dell’alunno.
 Collegio dei docenti. È presieduto dal Dirigente ed è formato da tutto il personale docente di
ruolo e non, compresi gli insegnanti di religione e quelli di sostegno se presenti. Deve
riunirsi almeno una volta a trimestre o quadrimestre, quando il Dirigente ritenga sia
necessario o quando ne faccia richiesta 1/3 dei componenti. Delibera su tutto ciò riguardi il
funzionamento didattico, adotta i libri di testo e adegua i programmi di insegnamento alle
esigenze territoriali; elabora il PTOF tenendo conto delle attività della scuola, delle scelte di

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gestione e amministrazione operate dal Dirigente scolastico.
 Consiglio di Istituto e Giunta esecutiva. È l’organo collegiale che si occupa della gestione
economica e finanziaria della scuola. Il numero dei componenti è determinato dall’ampiezza
della scuola e varia da quattordici a diciannove membri scelti tra i rappresentanti del
personale docente e non, i genitori, il Dirigente. Lo presiede uno dei genitori degli alunni,
dopo essere stato eletto a maggioranza, e le votazioni per eleggere i rappresentanti hanno
luogo ogni tre anni. Esprime pareri riguardo l’andamento didattico e amministrativo
dell’Istituto, decide l’orario delle lezioni, il calendario scolastico e approva il PTOF. Ha
anche il compito di votare la Giunta esecutiva di cui fanno parte un docente, un impiegato
amministrativo e il Dirigente amministrativo che ha anche la funzione di segretario.
 Comitato per la valutazione del servizio degli insegnanti. Prima dell’approvazione della
legge attuale, Legge n. 107 del 13 Luglio 2015, era composto dal Dirigente e quattro
membri eletti annualmente dal Consiglio dei docenti. A seguito dell’approvazione della
legge n.107, la nuova composizione è: il Dirigente, tre docenti dell’istituzione scolastica di
cui due sono scelti dal Collegio dei docenti e uno dal Consiglio d’Istituto, vi sono anche due
rappresentanti dei genitori. È suo compito individuare i parametri per la valorizzazione dei
docenti ed esprimere il proprio parere sul superamento del periodo di formazione dei docenti
neoassunti. Ha anche il compito di valutare il servizio qualora questo venga richiesto dal
diretto interessato. I genitori e i docenti sono sempre presenti alle attività del comitato, salvo
nel caso in cui la valutazione riguardi uno dei docenti che ne fanno parte, se si dovesse
verificare questa eventualità questo verrà sostituito dal Consiglio d’Istituto.
Dalla disamina degli organi collegiali si evince come si sia cercato di istituire e mantenere i rapporti
tra l’utenza, la famiglia, il territorio e come tutto ciò sia permeato di democrazia. Sono state anche
messe in evidenza alcune differenze introdotte dalla nuova legge (in seno al comitato di valutazione
e alcune piccole modifiche nella definizione del piano dell’offerta formativa), però nel mondo della
scuola vi sono timori che questa legge possa intaccare la collegialità. Sono state date molte deleghe
al governo per riempire i vuoti normativi ancora presenti e, anche se, fino a questo momento,
sembra che le cose non siano cambiate nella sostanza e che il paventato aumento dei poteri del
Dirigente non si sia attuato, persiste una certa ansia. Esaminando la legge comma per comma solo
una volta si parla di concertazione. Nel comma 29 della Legge 107 si legge:

“(…) il dirigente scolastico, di concerto con gli organi collegiali, può individuare percorsi formativi ed
iniziative diretti all’orientamento e a garantire un maggiore coinvolgimento degli studenti nonché la
valorizzazione del merito scolastico e dei talenti. A tale fine, nel rispetto dell’autonomia delle scuole e di
quanto previsto dal regolamento di cui al decreto del Ministro della pubblica istruzione 1° Febbraio 2001,
n.44, possono essere utilizzati anche finanziamenti esterni”.

Il dubbio in merito al comma appena citato è che la concertazione con gli organi collegiali sia

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dovuta al fatto che ci si occupa di finanziamenti esterni e le scelte operate si tradurrebbero in un atto
di trasparenza dell’azione della pubblica amministrazione. Un’altra perplessità è sulla formulazione
del piano dell’offerta formativa. Precedentemente era il Consiglio d’Istituto a formularlo, con la
legge 107 le cose cambiano. Dispone, infatti, che

“Ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il piano dell’offerta
formativa.”

Si indica chi partecipa alla sua formulazione e che questa deve seguire gli indirizzi per le attività
della scuola e le scelte di gestione ed amministrazione dettate dal Dirigente scolastico; solo dopo ci
sia la delibera da parte degli altri due organi collegiali: il collegio dei docenti e il consiglio
d’istituto. Questo cambio di prospettiva implica che a questi due organi collegiali in questo caso
siano ridotte le capacità.
Gli organi collegiali sono anche territoriali:
 Consiglio superiore della pubblica istruzione;
 Consiglio regionale dell’istruzione;
 Consiglio scolastico locale.

3.2 Il lavoro di team

Da un sistema basato sulla collegialità che è un valore e che permea tutte le attività scolastiche ed
extrascolastiche si richiede, anche, che la maggior parte delle attività sia svolta in team. Il lavoro in
team è connotato dalla trasversalità e dalla progettazione.
La trasversalità è l’interazione o sinergia tra esigenze, valori, linguaggi, prospettive che si
affermano in ambiti socio-culturali diversi (famiglia, scuola, associazioni, chiese, mass media),
ponendo problemi di ristrutturazione e riconsiderazione unificante. Nella scuola si parla sempre più
di insegnamento trasversale, di trasversalità del curricolo, di competenze trasversali e questo ci fa
capire come sia indispensabile la necessità di formare nei giovani l’attitudine a porre e trattare
problemi e la possibilità di costruirsi dei principi organizzatori che permettano loro di collegare i
saperi. È necessario, quindi, che il curricolo sia trasversale perché al centro di questo c’è la persona
che apprende, di cui è necessario salvaguardare sia la varietà sia l’unitarietà. Per fare ciò non si
possono segmentare i saperi, ma creare le condizioni che possono agevolare la ricostruzione dei
legami e dei rapporti in ciò che si apprende. Da ciò deduciamo che la trasversalità del curricolo è un
aspetto irrinunciabile dell’istanza formativa. Per fare ciò, la didattica trasmissiva è inefficace e,

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quindi, bisogna programmare ambienti di apprendimento stimolanti finalizzati alla costruzione
autonoma della conoscenza. Le stesse competenze chiave di cittadinanza sono competenze
trasversali che si possono conseguire solo con un curricolo unitario e non con la segmentazione
della disciplina. Tutto ciò è, ovviamente valido per tutti gli ordini scolastici, ma, soprattutto, per le
scuole dell’infanzia e per la scuola primaria in quanto ogni membro del team coglierà aspetti
peculiari, quindi riverserà nella programmazione il suo punto di vista, ciò che ha acquisito e che
insieme al contributo degli altri permetterà di cogliere più aspetti della situazione, rendendo più il
proficuo il lavoro in team. Già i teorici della psicologia della Gestalt sostenevano che il tutto è più
della somma delle parti.
È necessario, oggi, un approccio multidisciplinare, trasversale e dinamico in quanto la società
contemporanea è veloce e piena di input. Il doversi relazionare con il territorio soggetto a
mutamenti e variegato per la presenza di diverse culture, etnie e istanze in cui l’utenza vive richiede
un insegnamento non più statico e relegato, quindi, a un solo aspetto del sapere. Qualsiasi
argomento di studio può essere affrontato in chiave multidisciplinare. La trasversalità può
riguardare la disciplina oggetto di studio, ma anche la formazione di gruppi trasversali alla classe. Il
desiderio di adeguare la conoscenza alla società ha condotto, verso la metà degli anni Ottanta, a
lavorare per progetti: ciò voleva essere un mezzo per superare il sapere tradizionale che era ritenuto
nozionistico e troppo tecnico. Il lavoro con i progetti richiede la collegialità sia nella fase di
progettazione che nell’esecuzione.
Il team deve essere al centro dell’attenzione, infatti, non si può né si deve pensare a nessuna attività
senza riferirsi al gruppo. Le sinergie non sono soltanto all’interno di una scuola, ma si possono
concretizzare nella formazione di reti di scuole. La collaborazione tra le varie scuole del territorio è
stata introdotta dall’articolo 7 del D.P.R. 275/1999 che prevede l’arricchimento dell’offerta
formativa tenendo conto delle necessità del territorio. Si prevedono, quindi, accordi di rete basati
anche sullo scambio temporaneo di professionalità. L’organo collegiale che delibera tali accordi è il
Consiglio d’Istituto, ma se i progetti prevedono anche attività didattiche, allora il lavoro di
formazione e l’aggiornamento devono essere approvati anche dal collegio dei docenti di ogni scuola
della rete.
La legge 107/2015 (cd. Buona scuola), al comma 70 dell’articolo 1, rafforza questa idea delle reti di
scuola, disponendo che gli uffici scolastici regionali possano promuovere entro il 30 Giugno 2016
la formazione di reti per la valorizzazione delle professionalità, la gestione comune dall’aspetto
amministrativo.

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4. La classe come gruppo: dinamiche e apprendimento

Per ogni alunno la partecipazione alla vita di una classe è una fonte di “energia di scambio”, è uno
specchio per la costruzione della propria identità, ambiente privilegiato che gli consente di
instaurare relazioni e di attivare un processo di confronto, di comunicazione con gli altri, sia adulti
sia coetanei (Di Berardino, 1997). Bisogna porre molta attenzione alla classe come gruppo, avendo
un duplice obiettivo: la socializzazione e l’apprendimento.
Molto spesso si afferma che i bambini vanno a scuola semplicemente per imparare e che, mentre
fanno questo, instaurano relazioni con gli adulti e con gli altri bambini, maturando una propria
immagine di sé. In realtà, in un’ottica che pone l’accento sulle dinamiche di gruppo e su tutti gli
aspetti emotivi e relazionali, vanno ribaltati i termini: a scuola i bambini instaurano relazioni con sé
stessi e con gli altri, e, mentre fanno questo, apprendono. È un’altra prospettiva, che lega
strettamente l’apprendimento alla qualità che la dimensione socio-affettiva assume all’interno
dell’esperienza scolastica (Polito, 2000).
Se un bambino si sente integrato e valorizzato nel gruppo dei compagni, accolto e incoraggiato
dagli insegnanti, allora sarà nella miglior condizione per affrontare con fiducia e possibilità di
successo i compiti di apprendimento che gli vengono proposti e per sviluppare al meglio la propria
dimensione cognitiva.
La classe quindi va considerata come sede di continui cambiamenti e di dinamiche che, se
riconosciute e ben gestite dall’insegnante, può trasformarsi in un gruppo di lavoro in grado di
rispondere ai bisogni e di integrare le componenti cognitive e affettive degli alunni.

4.1 Cos’è il gruppo

La nostra vita è costellata e caratterizzata dall’appartenenza ai gruppi: dal primo gruppo che è la
famiglia ai gruppi di amici, dal gruppo-classe all’équipe professionale, dalla squadra sportiva al
gruppo di preghiera, e così via.
È certamente arduo individuare una definizione completa ed esaustiva del gruppo, anche e proprio
data la vasta letteratura sull’argomento. È possibile, in primo luogo, dire cosa non è gruppo: un
insieme di persone che guardano lo stesso film al cinema o che aspettano l’autobus alla fermata. Il
gruppo è un insieme di individui legati da processi emotivi e cognitivi, da regole, ideologie, culture,
valori, ruoli, norme e complesse dinamiche.
Da un punto di vista etimologico, il termine gruppo si fa derivare dal germanico “kruppa” tradotto

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con “matassa arrotolata” e dal toscano “groppo”, ossia “nodo”; dunque, il gruppo sarebbe il risultato
di un fitto intreccio di legami, caratterizzati da una certa coesione tra i membri che ne fanno parte
(Lavanco, Novara, 2002). Già a partire dall’etimologia, emerge la dimensione ambivalente del
gruppo: da una parte la condivisione viene sentita come risorsa e il gruppo come contenitore di
aspettative e di speranze, dall’altra il gruppo può essere percepito come limite alla propria
individualità, in quanto fonte di pressioni e di richieste.
Se da un lato gli individui che compongono un gruppo non si sviluppano pienamente senza le
interazioni che sono possibili dentro il gruppo, dall’altro i gruppi non possono raggiungere scopi
collettivi senza l’impegno degli individui.
Il gruppo è quindi un fondamentale punto di snodo tra la sfera individuale e quella sociale, e la
capacità di stare in gruppo si costruisce attraverso un’esperienza lenta e faticosa, con i suoi vantaggi
e i suoi costi. Il gruppo è il luogo dell’intersezione tra la persona, con i suoi processi cognitivi ed
affettivi, e il sociale, che assume la configurazione di organizzazione, perno tra l’individuo anonimo
ed il sociale indifferenziato (Amerio, 2000).
Da un punto di vista epistemologico, il gruppo esprime un pensiero altro rispetto all’individuo, esso
può essere definito come oltrepassamento dell’individualità; il pensiero di gruppo è un nuovo e
diverso tipo di pensiero, risultato della complessa messa in comune e successiva condivisione di
pensieri individuali (Di Maria, Lavanco, 2002).
Soltanto intorno agli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso si comincia a pensare al gruppo
quale strumento di lavoro psicosociale. Le definizioni di gruppo che hanno orientato e legittimato il
suo utilizzo possono essere ricondotte a tre prospettive diverse. La prima, centrata sull’individuo,
mantiene il focus sui processi psichici individuali, quali i bisogni, i desideri, le aspettative,
cogliendo nella realtà gruppale l’accresciuta possibilità per i singoli di raggiungere le proprie mete e
di soddisfare i propri bisogni (Deutsch, 1949). La seconda prospettiva, di matrice sociologica, pone
la sua centratura sul collettivo, definendo il gruppo come una pluralità di individui che
interagiscono tenendo conto gli uni degli altri (Olmstead, 1959).
Soltanto nella convincente teoria del campo di Lewin (1951) i due versanti, soggettivo e collettivo,
sono coniugati in un approccio detto appunto psicosociale. Secondo tale prospettiva, il gruppo è
qualcosa di più della somma dei suoi membri, è una totalità dinamica dotata di una struttura propria.

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4.2 Le dinamiche di gruppo

La dinamica di un gruppo è connessa a diversi aspetti (psicologici, emotivi, relazionali) tra loro
interconnessi. All’interno di un gruppo si confrontano bisogni e richieste dei singoli individui, non
sempre in accordo con i bisogni del gruppo. La pluralità propria di un gruppo può dar luogo a
scontri di interessi e opinioni, così come è possibile che le persone cooperino per raggiungere
obiettivi comuni. Tra le dinamiche tipiche di un gruppo, ci sono infatti il conflitto e la cooperazione.
Il conflitto non è negativo di per sé, infatti una gestione positiva del conflitto può portare ad una
maturazione, ad un cambiamento e a un rinnovamento del gruppo.
Un’altra dinamica di gruppo è la coesione, che fa riferimento al legame che tiene uniti i membri del
gruppo e al sentimento di appartenenza che sviluppano in quanto parte di quella che si configura
come una realtà a sé stante. L’interazione riguarda gli scambi tra persone, tra gruppi, tra persone e
gruppi; è

«l’unità di azione che si dispiega tra gli attori della relazione» (Lavanco, Novara, 2002: p. 85).

Un’altra caratteristica, il cambiamento, è legata proprio alla natura dinamica del gruppo: esso è
sempre attraversato da forze diverse che, interagendo, determinano nuove configurazioni, in una
dinamica che vede l’interazione tra spinte al cambiamento e resistenze al cambiamento.
Saper gestire le dinamiche di gruppo significa creare intenzionalmente le condizioni perché i
membri della classe possano interagire secondo strutture comunicative che facilitino la
partecipazione di tutti, il rispetto e l’accettazione reciproca. La coesione del gruppo-classe non è
perciò un punto di partenza, né una tappa naturale, costituisce invece un obiettivo che deve essere
intenzionalmente perseguito (De Varda Gori, 1997).
Ogni azione dell’insegnante dovrebbe avere, al di là del suo obiettivo specifico, un effetto positivo
sulla dinamica relazionale del gruppo, per far maturare quel clima che garantisca ai suoi
componenti il massimo di sviluppo umano possibile.

4.2.1 Caratteristiche strutturali dei gruppi

Alcune caratteristiche strutturali dei gruppi non sono propriamente dinamiche di gruppo, ma le
influenzano in maniera determinante. Tra le caratteristiche strutturali, vi sono la dimensione (cioè la
numerosità dei membri del gruppo), i rapporti spaziali e temporali fra i membri (la prossimità e la

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vicinanza fisica tra i membri, la frequenza con cui ci si incontra, i luoghi, ecc.), il tipo di relazioni
più o meno formali, la gerarchizzazione (cioè la posizione di ciascun membro rispetto al potere), la
divisione dei ruoli (cioè la posizione ricoperta da un membro tale per cui ci si aspetta da lui un
determinato comportamento, per esempio, “il bullo” o “il primo della classe”) e il sistema di regole
esplicite e/o implicite.
Riguardo agli aspetti strutturali, riteniamo necessario fare alcune distinzioni.
Innanzitutto, a seconda del contesto in cui il gruppo interagisce, possiamo avere gruppi istituzionali
o gruppi spontanei, cioè gruppi costituiti da organizzazioni o gruppi costituiti liberamente da
individui.
A seconda del tipo di norme che regolano la vita del gruppo, possiamo distinguere gruppi formali e
gruppi informali, i primi sono provvisti di norme scritte spesso non prodotte dal gruppo, i gruppi
informali sono regolati da norme non formalizzate ed emerse dalla libera interazione.
Infine, a seconda delle finalità per le quali il gruppo esiste, abbiamo gruppi primari o gruppi
secondari, cioè gruppi che trovano il proprio fine in loro stessi o gruppi istituiti per raggiungere
uno scopo ‘esterno’. Un tipico gruppo primario è il gruppo di amici che si frequenta regolarmente
nel tempo libero per il piacere di stare insieme: lo scopo del gruppo è quindi il gruppo stesso, è stare
insieme, non vi è alcun altro scopo che sostiene l’esistenza e la permanenza del gruppo.
Un gruppo primario può nel tempo trasformarsi in secondario, cioè maturare un interesse forte e
preciso per una specifica attività, che diventa progressivamente lo scopo per cui ci si incontra, ed
allora le persone non saranno più attratte verso il gruppo dalla relazione interpersonale ma
dall’interesse per l’attività.
Può anche succedere l’inverso, cioè da un gruppo secondario (ad esempio, il gruppo-classe) si può
formare un gruppo primario (un sottogruppo di compagni che si incontrano per il piacere di fare
gruppo e di stare insieme).
Un gruppo primario è un gruppo informale, infatti non ha regole scritte. Il gruppo secondario, che
esiste per raggiungere un obiettivo e che vede quindi la presenza dei suoi individui proprio rispetto
a tale esplicita finalità, può essere sia istituzionale che spontaneo, sia formale che informale. Il
gruppo secondario istituzionale è il tipico gruppo di lavoro dentro una organizzazione, esso è
regolato da norme esplicite, è cioè anche un gruppo formale. Con l’andare del tempo questo gruppo
svilupperà anche aspetti di tipo informale, produrrà cioè norme non scritte che orienteranno il
comportamento dei suoi membri.
Il gruppo secondario spontaneo è, invece, il tipico gruppo che, in assenza di un mandato
istituzionale, ma per decisione autonoma, decide di fondarsi per occuparsi di qualcosa: una attività
sportiva, un interesse culturale, un impegno a finalità umanitaria.

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4.2.2 La dinamica dei ruoli e la leadership

Strettamente legati agli aspetti strutturali menzionati sopra vi sono i ruoli all’interno di un gruppo e
la loro dinamica. Come già accennato, per ‘ruolo’ si intende un insieme di aspettative condivise
circa il modo in cui dovrebbe comportarsi un individuo che occupa una determinata posizione nel
gruppo.
In qualsiasi gruppo si strutturano dei ruoli che possono essere sia espliciti o prestabiliti sia impliciti,
anzi, a volte, i ruoli impliciti si sovrappongono e contrappongono a quelli espliciti: per esempio nei
gruppi in cui il leader formale non corrisponde con la persona che effettivamente è riconosciuta
come leader è questi che esercita realmente il suo potere di influenzamento. In un gruppo formale i
ruoli sono più statici e rischiano di cristallizzarsi; in un gruppo informale, invece, i ruoli sono
mutevoli e indefiniti.
I ruoli non attengono ai singoli, ma alle relazioni, essendo il risultato delle aspettative di tutti i
membri e derivando spesso da accoppiamenti complementari (per esempio, vittima e bullo).
Tra i vari ruoli, occupa un posto specifico il leader. La leadership intesa come funzione è la capacità
di produrre un’influenza sugli altri membri e far sì che scopi del gruppo e bisogni individuali non
confliggano ma vadano verso la stessa direzione.
Tra le tipologie di leadership che sono state proposte, descriviamo brevemente i seguenti tre modelli
(Lavanco, Novara, 2002):
 autoritario-verticistica: il leader accentra il potere decisionale che viene attuato mediante il
comando. Gli obiettivi vengono raggiunti nei tempi previsti, ma scarsa è l’efficacia perché
non viene appieno valorizzata la risorsa umana;
 funzionale-piramidale: il leader è al vertice di una struttura gerarchica a vari livelli e si
relaziona con i referenti, i quali a loro volta si relazionano con i livelli inferiori;
 democratico-circolante: il leader stimola la partecipazione e la creazione di rapporti tra tutti
i membri, rendendo la leadership, oltre che la comunicazione, circolante. Questo modello è
efficace rispetto alla valorizzazione e al potenziamento della risorsa umana, ma poco
efficiente rispetto ai tempi.
Gli stili di leadership sono influenzati principalmente da due variabili: l’orientamento al compito
e l’orientamento alla relazione, due fattori questi che indicano il grado in cui il leader si
concentra maggiormente sullo svolgimento del compito, sul risultato e quindi sull’efficienza,
oppure sulla qualità della relazione e sul supporto da dare ai membri del gruppo.

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4.2.3. Altre dinamiche di gruppo

Tra le dinamiche di gruppo vi sono, inoltre: la creazione di capri espiatori, cioè di membri su cui far
convergere tutta l’aggressività del gruppo; la formazione in sottogruppi; la dipendenza o la
controdipendenza verso il leader; l’identificazione di nemici esterni; i meccanismi decisionali, ecc.
Tutti fenomeni che possono avere un decorso positivo nel senso di condurre al massimo livello il
processo di socializzazione, oppure possono assumere sia un aspetto negativo limitante sia un
aspetto fuorviante perché rafforzano le difese che portano alla disgregazione del gruppo.
Tenere sotto controllo questi fenomeni e in qualche modo dirigerli al positivo è compito del leader,
che nei gruppi informali è spontaneo, mentre nei gruppi formali è imposto dall’istituzione.

4.3 Il gruppo-classe: le norme che lo regolano e le sue finalità educative, di socializzazione


e di formazione

La classe è un gruppo istituzionale, formale e secondario: il gruppo-classe è infatti regolato da


norme formalizzate prestabilite dall’istituzione scolastica non decise dal gruppo ed ha precise
finalità educative, di socializzazione e di formazione. È un gruppo obbligato, nel senso che i
membri né scelgono i propri compagni né sono liberi di partecipare o meno alle attività da esso
svolte.
Partendo da tutti gli aspetti formali e prestabiliti, è anche vero, però, che all’interno del gruppo-
classe si attiveranno relazioni informali, vivaci ed intense affettivamente che faranno sì che il
gruppo abbia anche caratteristiche del gruppo primario. Si creeranno sottogruppi spontanei e
mutevoli, con proprie regole implicite di appartenenza e dai quali i bambini riceveranno un ritorno
per il loro senso di identità. Tutti questi elementi combinati tra loro rendono il gruppo-classe
particolarmente impegnativo da gestire.
Così come gli altri gruppi, anche il gruppo-classe per il suo sviluppo richiede l’esistenza di quattro
elementi fondamentali:
 un’influenza reciproca;
 la percezione di ogni individuo di essere parte di un gruppo;
 la concordanza negli obiettivi da raggiungere;
 le regole di comportamento.
Per quanto riguarda il primo punto, affinché un gruppo esista, è necessario che tra i suoi partecipanti

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ci sia un’influenza reciproca, che, cioè, i singoli individui interagiscano tra loro e che il gruppo come
tale incida, a sua volta, sul comportamento di ogni individuo.
Le interazioni tra i soggetti in relazione possono essere di tipo verbale, non verbale, cognitivo e
comportamentale e danno vita a scambi reciproci.
Per quanto riguarda il secondo punto, la percezione di ogni individuo di essere parte di un gruppo è
un elemento necessario per costruire un’unità di gruppo (detta anche groupship), in modo che ogni
individuo interagisca nell’ambiente sociale non più come singolo, ma come gruppo (Pombeni,
D’Angelo, 1997). Il singolo percepisce il gruppo non solo come mezzo per soddisfare i suoi bisogni,
ma grazie al senso del Noi, sente i bisogni del gruppo come se fossero suoi. In genere, lo sviluppo
della percezione soggettiva di far parte di un gruppo-classe è un processo lento e graduale e non
raggiunge gli stessi esiti per tutti i membri.
Per quanto riguarda l’accordo sugli obiettivi da raggiungere, è importante che i partecipanti al
gruppo-classe abbiano una meta comune, perché il raggiungimento di uno scopo dà senso
all’esistenza del gruppo (Rocchietta Tofani, Malagoli Togliatti, 1995).
In genere, le finalità che una classe tende a raggiungere sono di tre tipi:
 aspetto didattico (il buon rendimento scolastico, l’efficacia delle attività disciplinari, la
stimolazione delle capacità di ogni alunno e delle sue procedure d’intervento, l’acquisizione
di competenze tecniche e operative);
 aspetto di conoscenza (l’interiorizzazione e l’elaborazione di informazioni, lo sviluppo di
capacità di strutturazione logica e d’interpretazione dell’esperienza, l’acquisizione di campi
concettuali di conoscenza);
 aspetto psicologico (la crescita interpersonale, lo sviluppo della personalità, la capacità di
collaborazione e di relazione nel lavoro di gruppo, la competenza nella socializzazione e
nella comprensione del vissuto).
Il quarto elemento è relativo alle regole di comportamento, che hanno la funzione di regolare le
attività che si svolgono nel gruppo. È necessario che ciascun alunno le osservi affinché il gruppo
possa esistere e funzionare. Le regole possono essere più o meno formalizzate: si va dall’orario di
entrata e uscita da scuola, al silenzio e all’attenzione durante la lezione.
L’insegnante che vuole essere efficace nel far rispettare le regole, deve effettuare controlli con
ricompense o punizioni, al contrario, se non dà seguito a quanto enunciato o minacciato,
l’insegnante non sarà ritenuto credibile. Le regole concordate nell’ambito di una circolarità
democratica sono interiorizzate spontaneamente, per cui ciascun alunno le considererà come proprie
e sarà intrinsecamente motivato ad osservarle.

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4.4 Come si costruisce un buon gruppo di lavoro

Il gruppo-classe può diventare un gruppo di lavoro solo se il leader è intenzionalmente votato a tale
obiettivo e si comporta in maniera tale da far maturare gradualmente gli elementi che renderanno
una classe un buon gruppo. Perché ciò sia possibile è necessario che anche gli insegnanti vengano
percepiti come gruppo.
I bambini di una classe, infatti, non vedono solo un insegnante; pertanto anche gli insegnanti tra
loro dovrebbero funzionare come un gruppo, un buon gruppo di lavoro, appunto. A tal proposito
viene usata l’espressione team building si fa riferimento al processo di formazione e costruzione di
un gruppo di lavoro, inteso come squadra. L’espressione è utilizzata da Quaglino, Casagrande e
Castellano (1992), i quali illustrano anche il processo di formazione di un gruppo di lavoro, per
tappe successive, ciascuna delle quali è individuata da una parola-chiave.
Se il gruppo è una pluralità in interazione, con un valore di legame, che ne determina l’emergenza
psicologica, il gruppo di lavoro è, nello stesso tempo, una pluralità che tende progressivamente alla
integrazione dei suoi legami psicologici e all’armonizzazione delle uguaglianze e differenze (ivi).
Nell’interazione, un gruppo sviluppa coesione, che è il primo collante che mantiene i legami e che
sta alla base della condivisione e della percezione dei vantaggi correlati all’aggregarsi in un
collettivo. Lo sviluppo della membership (letteralmente, ‘essere membro’) permette di identificare il
gruppo di appartenenza come opportunità per soddisfare i propri bisogni personali, ma non è
sufficiente a garantire la sopravvivenza del gruppo come soggetto sociale. Nella costruzione di un
gruppo di lavoro, bisogna compiere un ulteriore passo avanti: dall’interazione all’interdipendenza,
che si fonda sulla percezione della necessità e della dipendenza reciproca, implicando la sofferta
elaborazione dei confini del gruppo e dei limiti imposti agli individui. In questo caso, si sviluppa la
groupship (letteralmente, ‘essere gruppo’), che è la rappresentazione di un soggetto diverso, nuovo,
con bisogni sovraindividuali, che riguardano il Noi piuttosto che i singoli individui.
L’interdipendenza è il tramite per la maturazione del gruppo di lavoro verso l’integrazione,
equilibrio tra la soddisfazione dei bisogni individuali e dei bisogni del gruppo, formazione di un
soggetto sociale autonomo che si attribuisce significato e che restituisce energia e risultati
all’ambiente nel quale si è costituito (ivi).
L’integrazione sviluppa la collaborazione, che definisce un’area di lavoro comune, di
partecipazione attiva di tutti i membri, fondandosi su relazioni di fiducia, sulla negoziazione
continua di obiettivi, metodi, ruoli. La negoziazione consiste nel coniugare il punto di vista degli
altri con il proprio, allargando così il campo delle possibilità e delle alternative.
Il lavoro di gruppo è, così, espressione dell’azione complessa del gruppo di lavoro e comprende la

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pianificazione del compito, il suo svolgimento e la gestione delle relazioni, considerata l’aspettativa
che il lavoro di gruppo porti a risultati non solo quantitativamente superiori rispetto al lavoro
individuale, ma anche qualitativamente migliori.
Lavorare in gruppo non è una capacità spontanea, ma anche e soprattutto una capacità acquisita.
Mucchielli (1980) sostiene che per lavorare in equipe bisogna essere addestrati a comunicare, sia
nel senso di capacità di esprimersi sia di capacità di ascoltare, ed essere addestrati a cooperare, a
organizzare il lavoro, a conoscere e a gestire le dinamiche dei gruppi.
Quaglino (1992) illustrano il processo di team building che conduce all’evoluzione di un gruppo in
un gruppo di lavoro e rintracciano sette variabili fondamentali:
1. Obiettivo. È il risultato atteso dal gruppo di lavoro ed è indispensabile che ciascun
componente del gruppo conosca con precisione quali obiettivi sono da raggiungere, cosicché
ci si possa identificare con l’obiettivo comune, riducendo al minimo lo scarto, tuttavia
ineliminabile, tra obiettivi individuali e obiettivi del gruppo.
2. Metodo. Ci si riferisce ai principi e ai criteri che guidano l’attività del gruppo, alle norme
operative e al rispetto di determinate procedure; trovare il metodo significa negoziazione di
una logica comune, e quindi produzione di un pensiero di gruppo, che talvolta può
incontrare le resistenze dei componenti ad accettare un metodo collettivo e alla
omogeneizzazione. Adottando una logica di problem solving è possibile, invece, cercare il
perché del succedersi di determinati eventi e non chi è il colpevole, dato che l’analisi di un
problema e l’individuazione delle possibili soluzioni superano il modello semplicistico
dell’attribuzione di colpa ad un singolo individuo o ente.
3. Ruoli. Un gruppo di lavoro è efficace se è capace di utilizzare e valorizzare al meglio le
differenze, di competenze, di esperienze e di conoscenze, dei suoi componenti; i ruoli
rappresentano, dunque, le parti assegnate a ciascuno, in funzione delle differenze individuali
e dell’ottimizzazione di queste, e costituiscono, per quanto detto, l’insieme dei
comportamenti che ci si aspetta da chi occupa una posizione all’interno del gruppo stesso.
4. Leadership. Rappresenta la funzione di equilibrio tra membership e groupship, muovendosi
tra le funzioni omeostatiche e di sopravvivenza degli individui e l’organizzazione e la
valorizzazione delle risorse nei momenti di confusione o di stanchezza, per la crescita del
gruppo. Definita come la capacità di produrre influenza sociale, essa può essere circolante e
rivestita dai diversi componenti del gruppo, nei vari momenti, non necessariamente da uno
solo; questa funzione può determinare un’influenza sugli aspetti tecnici (si pensi
all’esperto), sul clima relazionale e sulla qualità delle relazioni oppure sul rispetto delle
regole e sugli aspetti normativi.

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5. Comunicazione. È un processo chiave per il funzionamento del gruppo di lavoro, in quanto
garantisce il costruirsi delle interazioni, lo scambio delle informazioni e l’evoluzione di
trasformazioni.
6. Clima. È la variabile collettiva per eccellenza, derivando dalle attribuzioni soggettive sulla
qualità dell’ambiente del gruppo e sulla sua “atmosfera”. Gli indicatori di un buon clima
sono, infatti, il sostegno (avere fiducia nelle possibilità di ottenere le risorse necessarie e di
ottenere aiuto in caso di bisogno), il calore (la percezione della qualità delle relazioni e di
empatia con gli altri membri), il riconoscimento dei ruoli (che significa accettazione serena
delle differenze), l’apertura e il feedback (la possibilità di esprimere le proprie idee senza il
timore di essere giudicati, ma con la percezione che gli altri membri mostrino ascolto ed
esprimano la comprensione dei messaggi).
7. Sviluppo. È l’esito del processo di integrazione di un gruppo di lavoro e consiste nella
costruzione di un sistema di competenze del singolo, che procede di pari passo con la
costruzione e la crescita delle competenze del gruppo di lavoro.
Tale complesso processo mira a rafforzare il senso di potere (empowerment) di ciascun partecipante
al gruppo di lavoro, evitando la doppia trappola del sentirsi onnipotenti o impotenti, aiutando i
membri e il gruppo nel suo insieme a darsi obiettivi realistici il cui raggiungimento possa aumentare
il senso di competenza del singolo e del gruppo. L’empowerment è, infatti, accrescimento delle
possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita, di aumentare l’accesso
alle risorse, potenziando il proprio senso di sé e il rapporto con l’ambiente.

4.5 Metodi e tecniche che utilizza il gruppo per migliorare l’apprendimento

Il gruppo può rappresentare uno strumento potente e prezioso per il raggiungimento di diversi
obiettivi educativi. L’insegnante però deve saper gestire il gruppo attraverso metodologie e tecniche
di conduzione ben precise e sviluppate nel corso degli ultimi decenni in ambito formativo, aziendale
e scolastico.
Molto spesso è necessaria una formazione specifica dell’insegnante che deve imparare a
padroneggiare le tecniche di conduzione di un gruppo per evitare che l’utilizzo improvvisato e
spontaneo delle tecniche porti ad una situazione di caos e disordine in classe.
Le tecniche principali utilizzate per la conduzione dei gruppi sono:
 i metodi di simulazione (come il role playing);
 metodi di discussione (circle time, brainstorming, problem solving);

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 il lavoro di gruppo (action learning, gruppi cooperativi di apprendimento).
Si rimanda al paragrafo 6 del presente modulo per la trattazione approfondita dei metodi e delle
tecniche enunciate.

5. La didattica e le nuove tecnologie

5.1 Insegnare con le tecnologie, insegnare le tecnologie

L’utilizzo delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (le cosiddette TIC) nella
didattica ha stimolato e continua a stimolare un graduale processo di rinnovamento delle
metodologie didattiche. Questo cambiamento incontra non poche resistenze, soprattutto da parte di
chi non ha familiarità con i nuovi mezzi tecnologici e digitali e rimane legato a tradizionali metodi
di insegnamento.
L’utilizzo delle nuove tecnologie porta ad un necessario ripensamento dell’azione didattica, che non
deve essere soppiantata da una nuova, ma neanche deve essere semplicemente affiancata da qualche
stimolo mediale; si tratta, piuttosto, di costruire nuove prospettive di insegnamento adeguate al
nuovo contesto sociale, in cui i nuovi media non sono solo qualcosa in più, bensì rappresentano
nuove opportunità per arricchire e rinnovare tecniche e metodi già sperimentati. È necessaria una
conoscenza delle nuove tecnologie tale da utilizzarle in maniera adeguata e integrata con altri
metodi, senza cadere nel tranello che il computer, o la Lavagna Interattiva Multimediale o il Web
diano soluzioni da sé, a prescindere dal modo in cui si utilizzano per essere inserite nell’azione
educativa, per come si sceglie consapevolmente di farlo.
Partendo da questa premessa, le ricadute dell’utilizzo delle nuove tecnologie nella didattica sono
positive e addirittura entusiasmanti, sia per i docenti sia per gli alunni. Il loro utilizzo, infatti, fa sì
che accanto ad una didattica di tipo trasmissivo, si sviluppi una didattica di tipo multimediale e
costruttivistica, tenendo presente che non è l’uso dei nuovi media in sé a cambiare la didattica, ma è
il modo in cui gli insegnanti integrano l’uso delle tecnologie nel loro agire educativo quotidiano.
Passiamo alla definizione sintetica delle tre tipologie di didattica summenzionate in relazione
all’utilizzo delle tecnologie.
La didattica di tipo trasmissivo intende l’apprendimento come acquisizione di informazioni e
l’insegnamento come trasferimento delle conoscenze (tutor centred); in questo caso, le tecnologie
sono quelle utilizzate semplicemente per la distribuzione delle informazioni.
La didattica multimediale vede l’apprendimento come centrato sullo studente (student centred)

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finalizzato allo sviluppo delle abilità, per cui l’insegnamento ha la funzione di agevolare e facilitare
l’accesso e l’uso delle risorse didattiche; in questo caso, si sceglieranno tecnologie di tipo
multimediale ed ipertestuale con l’uso di software didattici e LIM.
La didattica costruttivistica concepisce l’apprendimento come un’attività essenzialmente sociale,
poiché la conoscenza è il risultato dello scambio di idee e della collaborazione con gli altri (group
centred); le tecnologie, quindi, sono quelle della rete, che rendono possibili le attività di tipo
collaborativo (forum, chat, strumenti per la condivisione dei documenti, mailing list, classi virtuali,
piattaforme e-learning).
Se da un lato l’utilizzo delle tecnologie può essere integrato nella didattica migliorandola ed
innovandola, dall’altro, la scuola deve prevedere una formazione specifica sulla competenza
digitale, come dettato dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18
dicembre 2006 relativa a competenze-chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE) che
così la definisce:

“(…) la competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie
della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da
abilità di base nelle TIC: l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e
scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet”.

La competenza digitale presuppone una solida consapevolezza e conoscenza della natura, del ruolo
e delle opportunità delle TSI nel quotidiano: nella vita privata e sociale come anche al lavoro. In ciò
rientrano le principali applicazioni informatiche come trattamento di testi, fogli elettronici, banche
dati, memorizzazione e gestione delle informazioni oltre a una consapevolezza delle opportunità e
dei potenziali rischi di Internet e della comunicazione tramite i supporti elettronici (e-mail,
strumenti della rete) per il lavoro, il tempo libero, la condivisione di informazioni e le reti
collaborative, l’apprendimento e la ricerca. Le persone dovrebbero anche essere consapevoli di
come le TSI possono coadiuvare la creatività e l’innovazione e rendersi conto delle problematiche
legate alla validità e all’affidabilità delle informazioni disponibili e dei principi giuridici ed etici che
si pongono nell’uso interattivo delle TSI.
Le abilità necessarie comprendono: la capacità di cercare, raccogliere e trattare le informazioni e di
usarle in modo critico e sistematico, accertandone la pertinenza e distinguendo il reale dal virtuale
pur riconoscendone le correlazioni. Le persone dovrebbero anche essere capaci di usare strumenti
per produrre, presentare e comprendere informazioni complesse ed essere in grado di accedere ai
servizi basati su Internet, farvi ricerche e usarli. Le persone dovrebbero anche essere capaci di usare
le TSI a sostegno del pensiero critico, della creatività e dell’innovazione.
L’uso delle TSI comporta un’attitudine critica e riflessiva nei confronti delle informazioni
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disponibili e un uso responsabile dei mezzi di comunicazione interattivi. Anche un interesse a
impegnarsi in comunità e reti a fini culturali, sociali e/o professionali serve a rafforzare tale
competenza.
In questo contesto, l’insegnante guida gli alunni in percorsi didattici multimediali e, quindi, insegna
attraverso le nuove tecnologie, ma fornisce anche una formazione sulle nuove tecnologie,
stimolando i processi pedagogici: imparare a pensare, saper come e non solo cosa, imparare ad
imparare.

5.2 Gli obiettivi dell’uso delle TIC

Quali sono dunque gli obiettivi che si possono raggiungere grazie all’utilizzo delle nuove
tecnologie nella didattica?
La didattica che prevede l’utilizzo delle nuove tecnologie, in generale, offre molte opportunità per
portare una vera innovazione nella prassi educativa in quanto rende attivi i metodi di insegnamento,
dal momento che valorizza la partecipazione degli alunni e la loro autonomia nella costruzione della
conoscenza.
Inoltre, le TIC favoriscono la condivisione e la cooperazione, sia in aula che a casa, prospettandosi
come strumenti di inclusione e di coinvolgimento per tutti gli alunni.
I media, inoltre, permettono l’integrazione tra i processi cognitivi per astrazione e quelli per
immersione; i primi si fondano sul ragionamento logico, i secondi sulla partecipazione attiva e
sull’immedesimazione: il sapere trasmesso diventa così flessibile e legato all’esperienza, perciò
significativo per chi lo “vive” perché vi è “immerso”. Gli alunni, infatti, vengono coinvolti nel
processo di apprendimento non solo per quanto riguarda la dimensione cognitiva, ma anche per
quella motivazionale e relazionale, in quanto partecipano attivamente nella costruzione della
‘lezione’ interattiva, mentre viene stimolato lo sviluppo contemporaneamente delle dimensioni
percettivo-motorie, logico-razionali e affettivo-sociali.
La multimedialità, inoltre, offre l’opportunità di imparare usufruendo contemporaneamente di più
canali percettivi, dando luogo ad un coinvolgimento plurisensoriale dell’alunno. L’utilizzo del
linguaggio verbale, parlato o scritto, si arricchisce con la proiezione di immagini e video, con la
riproduzione di suoni e con molti altri codici che possono essere non solo fruiti dall’alunno, ma
anche utilizzati come mezzi espressivi. La didattica, così, può favorire l’integrazione tra codici
diversi e linguaggi differenti.
Tutti gli stili cognitivi e di apprendimento possono essere stimolati, andando così incontro a chi

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utilizza preminentemente un dato modo di organizzare le conoscenze, di memorizzarle e di
esprimerle, ma anche incoraggiando l’utilizzo di nuovi modi di apprendere, che con una didattica
frontale tradizionale non sarebbero sperimentati.
L’uso della multimedialità è, infatti, in perfetta sintonia con la molteplicità delle intelligenze
individuate da Howard Gardner, in quanto permette di presentare gli stessi contenuti attraverso
canali e modalità differenti, colmando le eventuali carenze e garantendo un’educazione
personalizzata.
La molteplicità degli stimoli offerti dai media recupera il ruolo attivo sia del docente sia del
discente, in quanto le nuove tecnologie stimolano la capacità di conoscenza del mondo da più punti
di vista, sviluppano abilità comunicative e sociali, favoriscono lo sviluppo della sicurezza e della
fiducia in sé stessi perché implicano il loro utilizzo in maniera creativa e personale (sia per
l’insegnamento sia per l’apprendimento).

5.3 Il ruolo dell’insegnante

A proposito dei ruoli, bisogna sottolineare che l’utilizzo delle nuove tecnologie cambia il ruolo
dell’insegnante il quale, non più visto come detentore del sapere, diventa una guida che progetta e
realizza percorsi didattici in cooperazione con i suoi alunni, in rispetto dei differenti stili cognitivi.
Si tratta della figura definita da Bruner docente-regista che svolge la funzione di scaffolding
(letteralmente, ‘impalcatura’), cioè di colui che fornisce agli alunni l’impalcatura di sostegno per
l’acquisizione delle nuove conoscenze. Così come gli operai costruiscono l’impalcatura per
realizzare più facilmente la loro opera, gli insegnanti sostengono l’apprendimento dell’alunno, per
poi renderlo autonomo nella gestione della competenza appresa.
L’insegnante affianca l’alunno nell’utilizzo dei nuovi media affinché impari ad utilizzarli, sviluppi
le attività necessarie alla giusta fruizione, all’orientamento e all’organizzazione delle conoscenze in
un ambito che può diventare dispersivo: lo guida all’estrapolazione di informazioni con
consapevolezza critica, alla scelta di materiali, all’utilizzo delle funzioni e alla padronanza della
gran quantità di opportunità, potenzialmente infinita, di dati, link, approfondimenti.
L’insegnante, dunque, non deve solo comunicare conoscenze, ma deve soprattutto far acquisire
capacità trasversali per un adeguato utilizzo dei nuovi media. Il docente non è più la fonte
principale delle informazioni, anche perché oggi le informazioni si possono reperire con molta
facilità, ma è colui che ha le capacità metodologiche e didattiche per insegnare agli alunni a
strutturare le conoscenze, organizzarle e riflettere su di esse in modo critico.

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Di conseguenza, lo spazio per la lezione frontale si riduce notevolmente, a favore di quello per le
discussioni interattive, i lavori di gruppo, le ricerche individuali e di gruppo e i percorsi
individualizzati.

5.4 Il digital divide tra insegnanti e alunni

Il nuovo ruolo dell’insegnante è speculare al nuovo ruolo dell’alunno, visto come protagonista
attivo del suo percorso di apprendimento; grazie a questa nuova dinamica dei ruoli, aumenta la
motivazione allo studio da parte degli alunni e la loro autostima, legata allo sviluppo della
creatività, dell’autonomia e delle varie possibilità di sperimentarsi in molti modi e attraverso
numerosi codici.
Gli alunni, inoltre, rispetto agli insegnanti hanno una maggiore facilità ad approcciarsi alle nuove
tecnologie, perché sono nati con esse e le vivono come una dimensione naturale. I bambini nati
nell’era dei tablet, degli smartphone, del touchscreen e delle app, sono stati definiti bambini
digitali. Mark Prensky nel 2001 definì, invece, ‘nativi digitali’ la prima generazione di bambini nati
e cresciuti negli anni della massiccia diffusione dei computer, delle console e dei videogame.
I bambini piccoli oggi conoscono il mondo attraverso stimoli (visivi, tattili, uditivi) che facilitano il
loro sviluppo verso determinate direzioni, diversamente da quanto avveniva fino a pochi anni fa. Ne
deriva che i bambini oggi imparano velocemente ad utilizzare touchscreen e smartphone con una
naturalezza che difficilmente può essere acquisita da un adulto. I bambini infatti imparano i modi
per rappresentarsi e codificare la realtà soprattutto nei primi 5-6 anni di vita.
Il divario tra chi ha confidenza e competenza all’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e chi
ne è escluso viene definito digital divide e si evidenzia anche a scuola, tra adulti e bambini, tra
insegnanti e alunni, evidenziando una preoccupante distanza tra modalità di insegnamento e di
apprendimento. Il risultato è che le metodologie tradizionali di insegnamento non riescono ad
attirare l’attenzione e l’interesse degli alunni, abituati a diversi generi di stimolazioni (sin dalla loro
nascita), laddove invece i bambini sono affascinati da schermi, pulsanti, touchscreen, dai quali
apprendono con facilità ed immediatezza.

5.5 L’utilizzo delle TIC nella scuola secondo la normativa recente

Di questo divario si è occupato più volte il MIUR, attraverso varie azioni e progetti. Nel 2007 si è

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discusso per la prima volta di un Piano Nazionale per la Scuola Digitale che aveva l’obiettivo
principale di modificare gli ambienti di apprendimento e promuovere l’innovazione digitale nella
Scuola.
L’Azione “LIM”, promossa nel 2008, ha previsto la diffusione capillare della Lavagna Interattiva
Multimediale (LIM) nella didattica in classe.
L’Azione “Classi 2.0”, lanciata con lo slogan “non più la classe in laboratorio, ma il laboratorio in
classe”, ha avuto l’obiettivo di stimolare l’ideazione e la realizzazione di ambienti di apprendimento
innovativi, mentre l’Azione “Scuol@ 2.0”, avviata nel 2011, ha portato a strategie che hanno
coniugato l’innovazione nella programmazione didattica con nuovi modelli di organizzazione delle
risorse umane ed infrastrutturali dell’istituzione scolastica.
L’Azione “Editoria digitale scolastica” è stata finalizzata alla produzione di contenuti digitali.
L’Azione “Wi-fi” ha stanziato 15 milioni di euro per la connettività wireless nelle scuole.
L’Azione “Poli Formativi” ha individuato alcune istituzioni scolastiche (c.d. Poli formativi) per
l’organizzazione e la gestione di corsi di formazione sul digitale rivolti ai docenti.
Il processo di digitalizzazione si è sviluppato anche attraverso risorse stanziate a livello europeo con
la Programmazione operativa nazionale (PON Istruzione) 2007-2013 che ha coinvolto le quattro
regioni obiettivo convergenza (Campania, Calabria, Sicilia, Puglia).
La L. 107/2015 prevede all’art. 7.1 che:

“Le istituzioni scolastiche […] senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, individuano il
fabbisogno di posti dell’organico dell’autonomia, in relazione all’offerta formativa che intendono realizzare
[...] per il raggiungimento degli obiettivi formativi individuati come prioritari tra i seguenti: a) [...] h)
sviluppo delle competenze digitali degli studenti, con particolare riguardo al pensiero computazionale,
all’utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media nonché alla produzione e ai legami con il
mondo del lavoro”.

Inoltre, all’art. 1.45:

“Al fine di sviluppare e di migliorare le competenze digitali degli studenti e di rendere la tecnologia digitale
uno strumento didattico di costruzione delle competenze in generale, il Ministero dell'istruzione,
dell'università e della ricerca adotta il Piano nazionale per la scuola digitale, in sinergia con la
programmazione europea e regionale e con il Progetto strategico nazionale per la banda ultralarga”.

Nell’ambito della Riforma della Buona Scuola, il 27 ottobre 2015 è stato presentato il Piano
Nazionale Scuola Digitale (PNSD), il documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca pensato per guidare le scuole in un percorso di innovazione e
digitalizzazione.
Il Piano Nazionale Scuola Digitale prevede otto aree, all’interno delle quali sono individuati
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obiettivi e corrispondenti azioni (in totale 35), da realizzare entro il 2020. Il PNSD punta
a introdurre le nuove tecnologie nelle scuole, a diffondere l’idea di apprendimento permanente (life-
long learning) ed estendere il concetto di scuola dal luogo fisico a spazi di apprendimento virtuali.
Per quanto riguarda l’ambito dell’“Accesso”, gli obiettivi sono i seguenti:
 fornire a tutte le scuole le condizioni per l’accesso alla società dell’informazione;
 fare in modo che il “Diritto a Internet” diventi una realtà, a partire dalla scuola;
 coprire l’intera filiera dell’accesso digitale della scuola, per abilitare la didattica digitale.
All’interno dell’ambito “Spazi e ambienti per l’apprendimento”, sono individuati i seguenti
obiettivi:
 potenziare l’infrastrutturazione digitale della scuola con soluzioni “leggere”, sostenibili e
inclusive;
 trasformare i laboratori scolastici in luoghi per l’incontro tra sapere e saper fare, ponendo al
centro l’innovazione;
 passare da didattica unicamente “trasmissiva” a didattica attiva, promuovendo ambienti
digitali flessibili;
 allineare l’edilizia scolastica con l’evoluzione della didattica;
 ripensare la scuola come interfaccia educativa aperta al territorio, all’interno e oltre gli
edifici scolastici.
Per quanto concerne l’are sull’“Identità digitale”, gli obiettivi individuati sono i seguenti:
 associare un profilo digitale (unico) ad ogni persona nella scuola, in coerenza con sistema
pubblico integrato per la gestione dell’identità digitale (SPID);
 ridurre la complessità nell’accesso ai servizi digitali MIUR;
 associare il profilo digitale di docenti e studenti a servizi e applicazioni semplici ed efficaci,
in coerenza con le politiche del Governo sul miglioramento dei servizi digitali al cittadino.
Gli obiettivi che ci si propone di raggiungere all’interno dell’ambito “Amministrazione digitale”
sono:
 completare la digitalizzazione dell’amministrazione scolastica e della didattica e diminuire i
processi che utilizzano solo carta;
 potenziare i servizi digitali scuola-famiglia-studente;
 aprire i dati e i servizi della scuola a cittadini e imprese.
Per quanto riguarda le “Competenze degli studenti” ci si propone di:
- definire una matrice comune di competenze digitali che ogni studente deve sviluppare;
- sostenere i docenti nel ruolo di facilitatori di percorsi didattici innovativi, definendo con loro
strategie didattiche per potenziare le competenze chiave;

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- coinvolgere gli studenti attraverso format didattici innovativi e ‘a obiettivo’;
- innovare i curricoli scolastici.
È prevista, inoltre, l’ambito denominato “Digitale, imprenditorialità e lavoro”, in relazione al
quale si vogliono perseguire i seguenti obiettivi:
 colmare il divario digitale, sia in termini di competenze che occupazioni, che caratterizza
particolarmente il nostro Paese
 promuovere carriere in ambito “STEAM” (Science, Technology, Engineering, Arts &
Maths)
 valorizzare il rapporto tra scuola e lavoro
 coinvolgere gli studenti come leva di digitalizzazione delle imprese e come traino per le
vocazioni dei territori
 promuovere la creatività, l’imprenditorialità e il protagonismo degli studenti nel quadro
della valorizzazione delle competenze chiave e per la vita all’interno dei curricoli scolastici.
Per l’ambito “Contenuti digitali”, sono stati individuati i seguenti obiettivi:
 incentivare il generale utilizzo di contenuti digitali di qualità, in tutte le loro forme, in
attuazione del Decreto ministeriale sui Libri Digitali;
 promuovere innovazione, diversità e condivisione di contenuti didattici e opere digitali;
 rilanciare qualità e apertura nella produzione di contenuti didattici, nel rispetto degli
interessi di scuole, autori e settore privato.
Per quanto riguarda, infine, la “Formazione del personale”, si perseguono gli obiettivi di:
- rafforzare la preparazione del personale in materia di competenze digitali, raggiungendo tutti
gli attori della comunità scolastica;
- promuovere il legame tra innovazione didattica e tecnologie digitali;
- sviluppare standard efficaci, sostenibili e continui nel tempo per la formazione
all’innovazione didattica;
- rafforzare la formazione all’innovazione didattica a tutti i livelli (iniziale, in ingresso, in
servizio).

5.6 La Lavagna Interattiva Multimediale (LIM)

La Lavagna Interattiva Multimediale è uno strumento tecnologico che ripropone la forma oltre che
la funzione della lavagna, ma è una lavagna speciale, su cui è possibile scrivere, proiettare filmati,
spostare immagini e altri oggetti multimediali con le mani o con apposite penne digitali, salvare la

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lezione svolta sul computer per poterla riutilizzare in seguito e metterla a disposizione della classe.
La LIM permette di mantenere il classico paradigma didattico centrato sulla lavagna, potenziandolo
con la multimedialità e la possibilità di usare software didattici in modo collettivo.
Gli orientamenti più recenti della ricerca su cognizione e apprendimento indicano proprio nella
Lavagna Interattiva Multimediale lo strumento più efficace per promuovere l’attivazione
contemporanea delle diverse intelligenze secondo la nota teorizzazione di Howard Gardner
(intelligenze multiple).
La lavagna digitale trasforma un normale personal computer nel computer di tutta la classe, la
superficie interattiva diventa, infatti, uno spazio per condividere informazioni e socializzare
interazioni.
La LIM rende possibile la didattica individualizzata e inclusiva, in quanto:
 valorizza le differenze individuali (intelligenze e stili cognitivi);
 esercita molta metacognizione, anche intersoggettiva; con la LIM, infatti, ci si confronta con
la mente dell’altro, con il modo di pensare e di operare (visivo o verbale, globale o
analitico…);
 facilita la comunicazione e la cooperazione (ognuno ha un posto importante e ciò permette
di affrontare meglio le emozioni negative).
Dal punto di vista degli insegnanti, la LIM permette di usare metodi tradizionali di insegnamento,
come la lezione frontale, in modo innovativo, in particolare il docente può utilizzare materiale
didattico multimediale direttamente sulla lavagna, e non dietro ad un computer. La LIM, inoltre,
permette di salvare i percorsi didattici proposti, per successivi utilizzi e per la distribuzione agli
studenti, diminuendo il tempo necessario alla preparazione della lezione e dei materiali di studio. La
Lavagna interattiva multimediale facilita la spiegazione di processi e l’analisi dei testi grazie alla
possibilità di visualizzarli in modo condiviso su uno schermo comune a tutti, assicurando
l’attenzione sull’oggetto corretto. Infine, facilita l’interdisciplinarietà, la comunicazione e lo
scambio tra docenti.
Dal punto di vista degli alunni, la LIM presenta alcuni importanti vantaggi:
 essi hanno familiarità con il linguaggio delle immagini e dei filmati;
 le lezioni interattive sono più coinvolgenti e permettono di comprendere più rapidamente;
 gli alunni possono sfruttare diversi canali di apprendimento che stimolano le diverse
intelligenze;
 l’introduzione della LIM favorisce attività didattiche di apprendimento collaborativo che li
pongono al centro del processo di apprendimento;
 la possibilità di videoconferenza, creazione di blog o siti di classe agevola il recupero di chi

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è assente.
Tuttavia, non si devono ignorare i rischi dell’utilizzo della LIM, che riguardano anche altre
tecnologie utilizzate nella didattica. Innanzitutto, può succedere che gli alunni abbiano curiosità ed
interesse più per gli aspetti tecnologici che per l’apprendimento dei contenuti proposti. Inoltre, il
carico cognitivo potrebbe essere eccessivo, soprattutto se con la LIM si finisce per incentivare
modalità didattiche trasmissive e nozionistiche. Se si utilizza un ritmo sostenuto, infine, si rischia di
svantaggiare anziché facilitare gli alunni con BES.

6. Le principali metodologie didattiche

6.1 Il brainstorming

Il termine brainstorming, entrato ormai a far parte del nostro vocabolario1, è dato dalla
composizione di due termini inglesi quali “brain” che significa “cervello” e “storm” che significa
“temporale, tempesta” pertanto significa letteralmente, “tempesta di cervelli”.
Il primo ad utilizzare questo termine per indicare una metodologia è stato il pubblicitario americano
Alex Faickney Osborn negli anni ‘40, il quale dopo aver sperimentato la validità della metodologia
nel suo campo di lavoro ne diffuse la conoscenza nel 1957 attraverso il volume “Applied
imagination: principles and procedures of creative thinking”.
Il brainstorming è una delle più conosciute e più usate tecniche di creatività di gruppo attraverso la
quale ci si prefigge di far emergere idee volte alla risoluzione di un problema (Osborn, 1986): posto
un problema, ciascun membro del gruppo può esprimere, senza alcuna forma di inibizione, il più
alto numero di idee e soluzioni di ogni tipo.
La paura di essere giudicati e criticati normalmente spinge gli allievi ad avere paura e ad esercitare
resistenza nel manifestare le proprie idee nel proprio gruppo classe, ma con la tecnica del
brainstorming tali difficoltà possono essere superate perché si tratta di una situazione non-direttiva
in cui tutti i partecipanti sono alla pari e in cui non ci sono idee giuste e idee sbagliate, ma tutte
hanno pari dignità euristica per la ricerca (Tessaro, 2002).
Il brainstorming (Antonietti, 1994, p. 23) insiste soprattutto su una funzione che è rapportabile ai tre
principali fattori del pensiero divergente quali la capacità di produrre molte idee, diversificate e
insolite. Non essendoci cose giuste e cose sbagliate durante il brainstorming tutti gli allievi possono
esprimersi senza restrizione e questo provoca negli altri delle associazioni mentali che fanno
1
Il Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, alla voce brain-storming lo definisce come “tecnica di ricerca di
gruppo per stimolare la produzione di idee creative; è usato specialmente nella formulazione di slogan pubblicitari”.

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nascere altre idee le quali a loro volta ne genereranno altre ancora; si sviluppano le libere azioni.
La buona riuscita di un brainstorming dipende dalla condivisione e dal rispetto di alcune
fondamentali regole da parte dei partecipanti che Tessaro (2002, p. 184) sintetizza in cinque punti:
 ciascun partecipante senza riflettere eccessivamente deve esprimere le proprie idee sul
problema posto non preoccupandosi di cosa dice e di come lo dice. L’indicazione da dare è
di “dire quello che passa per la testa in quel momento”;
 è necessario che ciascuno si astenga dal fare qualsiasi forma di critica sia nei confronti delle
proprie idee sia nei confronti delle idee degli altri, né in modo verbale né con espressioni
mimiche o gestuali;
 bisogna lasciarsi ispirare dalle idee altrui provando se è possibile a migliorarle;
 il gruppo deve riuscire a produrre un buon numero di idee;
 in funzione del tempo prestabilito per la durata del brainstorming e del numero dei
partecipanti, che dovranno poter intervenire almeno due volte, è opportuno stabilire e
comunicare inizialmente la durata di massima degli interventi;
 i partecipanti devono ascoltare attivamente pertanto non devono prendere appunti perché ciò
li distoglierebbe.
Il brainstorming ha origine da un argomento e/o problema da affrontare che può essere scelto
dall’insegnante oppure può nascere direttamente da una necessità degli studenti, e questo deve
essere circoscritto e posto al gruppo in forma “aperta” in modo da permettere ai partecipanti di
trovare idee nuove, originali e divergenti (Scataglini, Cramerotti, Ianes, 2008). Nel caso in cui
l’argomento è molto vasto è possibile suddividerlo e affrontarne un segmento per volta.
Per quanto concerne la composizione del gruppo come sottolinea Spaltro (1963, p. 62)
l’eterogeneità è un punto di forza perché minore sarà la somiglianza tra i membri maggiori saranno
gli urti dei pensieri e quindi si avranno idee originali e si apriranno strade nuove per ciascuno dei
membri del gruppo. Nel caso in cui il gruppo classe è molto numeroso è possibile suddividerlo in
sottogruppi tenendo presente che ciascun gruppo non deve essere inferiore a otto unità e superiore
alle dodici. All’interno del gruppo è possibile assegnare a due distinti studenti il ruolo di segretario
e il ruolo di coordinatore, al primo spetterà il compito di annotare (su lavagna o fogli di carta)
quanto verbalmente è espresso dai membri del gruppo mentre al secondo il compito di fare
rispettare le regole basilari; il segretario può partecipare al brainstorming esprimendo le proprie idee
mentre il coordinatore per la natura del compito no. Sicuramente il ruolo di coordinatore
inizialmente è più complesso da gestire rispetto a quello di segretario; pertanto è auspicabile che le
prime volte venga assolto dall’insegnante/educatore mentre acquisito il metodo i ruoli possono
essere assunti a ruota da tutti gli allievi. I partecipanti al brainstorming devono potersi sedere in

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modo che ciascuno possa vedere chi parla quindi mettendo i banchi o le sedie in forma ovale o
circolare.
La prima fase del brainstorming, detta divergente, è la fase i cui messo a fuoco il problema e fissato
un tempo limite per l’incontro ciascuno potrà esprimere le idee che gli vengono in mente. Per la
turnazione del parlare si può scegliere o la rotazione, quindi stabilito chi inizia a parlare si segue
l’ordine del compagno accanto, “passando” chi non ha nulla da dire in quel momento, o l’utilizzo
della tecnica libera in cui parla chi ha qualcosa da dire. Se si sceglie la rotazione dovrà essere cura
del coordinatore dare la possibilità a chi non ha detto nulla di esprimere la propria idea; mentre nel
caso in cui si sceglie la modalità libera dovrà stare attento a ripartire gli interventi dando priorità a
chi non ha detto nulla e a stimolare chi non ha mai parlato. Il segretario, che com’è stato detto si
occupa della verbalizzazione, ogni qual volta un membro del gruppo esprime una sua idee se troppo
lunga ha il compito di sintetizzarla in due/tre parole chiave e se la sintesi è corretta per chi ha
espresso il concetto potrà procedere alla registrazione sulla lavagna o su un foglio, nel caso
contrario potrà essere l’autore dell’idea stessa a suggerire le parole chiave.
In una seconda fase, detta convergente, vengono inizialmente riepilogate le idee espresse leggendo
le sintesi riportate e successivamente viene fatta una sintesi dei punti emersi articolandoli in
possibili e diversi percorsi di soluzione del problema o di sviluppo dell’argomento (Tessaro, 2002).
La sintesi espressa dal coordinatore rappresenta la chiusura del brainstorming. Nel caso in cui il
gruppo sia stato suddiviso in sottogruppi per la numerosità saranno i coordinatori e i segretari di
ciascun gruppo a riportare quanto emerso durante il brainstorming del loro gruppo e al termine dei
resoconti sarà attivata una discussione collettiva.
Mentre durante il brainstorming è assolutamente proibito emettere alcuna forma di giudizio, durante
la fase di discussione tutti possono argomentare le scelte, ad emettere dei giudizi, dei pareri, delle
opinioni e delle valutazioni.
Attraverso il brainstorming (Tessaro, 2002) è possibile:
 sviluppare la produzione creativa in un gruppo;
 facilitare la comunicazione in un gruppo;
 educare al rispetto delle posizioni e delle idee altrui;
 far prendere coscienza ai partecipanti di ciò che implica, sul piano valoriale e degli
atteggiamenti, lo scambio di idee, sensazioni ed emozioni;
 far superare le difficoltà comunicative agli allievi perché vige la regola dell’esclusione della
critica;
 far acquisire la capacità di sintesi agli allievi prolissi e loquaci;
 far acquisire le regole della comunicazione sociale agli allievi.

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Il conduttore/insegnante ha un ruolo molto importante in quanto è tenuto a (Scataglini, Cramerotti,
Ianes, 2008, Tessaro, 2002):
 essere discreto in modo che l’attenzione degli allievi non sia rivolta verso di lui bensì sul
problema;
 conoscere bene gli estremi e i limiti del problema da sottoporre;
 spiegare bene le regole che il gruppo deve rispettare;
 introdurre gli opportuni stimoli per incoraggiare e rinvigorire il gruppo;
 annotare tutte le idee che vengono enunciate;
 condurre in fase conclusiva, il gruppo alla condivisione di quanto emerso nella fase
divergente.
Oggi non si può annoverare il brainstorming di certo tra le nuove metodologie didattiche parchè,
nonostante sia stata una metodologia di intervento ampiamente utilizzata sia nell’ambito scolastico
sia in quello lavorativo, oggi risulta obsoleta e oggetto di numerose critiche.

6.2 Il cooperative learning

Il cooperative learning (apprendimento cooperativo) può essere definito come un insieme di principi
e di tecniche di classe, nelle quali gli studenti lavorano in piccoli gruppi per attività di
apprendimento e ricevono una valutazione in base ai risultati conseguiti (Comoglio, 2005).
Il metodo cooperativo fa riferimento al pensiero di alcuni pedagogisti, filosofi e psicologi degli inizi
del 1900 quali John Dewey, Kurt Lewin, Jean Piaget, Lev Vygotsky e si è sviluppato negli anni
Settanta del secolo scorso. Il primo e più importante centro di studi sul cooperative learning fu il
Cooperative Learning Center dell’Università del Minnesota a cui appartengono i fratelli David
Johnson e Roger Johnson, che intorno agli anni Settanta hanno cominciato ad occuparsi di
cooperative learning; i fratelli Johnson sono considerati i pionieri di questa metodologia didattica.
In Italia il metodo cooperativo è stato introdotto da Mario Comoglio che, dopo aver trascorso
diversi anni di studio e di esperienza negli Stati Uniti, ha introdotto non soltanto una nuova
metodologia didattica, ma anche una nuova visione di scuola, ovvero una scuola non soltanto
informativa ma anche e soprattutto formativa ed educativa.
Sono numerose le definizioni che sono state pubblicate nel corso degli anni. Comoglio (1999)
definisce il cooperative learning come:

“(…) un metodo di conduzione della classe che mette in gioco, nell’apprendimento, le risorse degli studenti.
Così inteso, si distingue dai metodi tradizionali che puntano invece sulla qualità e sull’estensione delle

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conoscenze didattiche e di contenuto dell’insegnante. Infatti, diversamente da questi ultimi, che sa gestire e
organizzare esperienze di apprendimento condotte dagli stessi studenti e, insieme, sviluppare obiettivi
educativi di collaborazione, solidarietà, responsabilità e relazione, riconosciuti efficaci anche per una
migliore qualità dell’apprendimento”.

Il fondamento che sta alla base di questa metodologia è che il gruppo è un universo di risorse in
termini sia di conoscenze sia di competenze per cui l’insegnamento/apprendimento è un processo in
cui non è l’insegnante a trasmettere le conoscenze bensì gli stessi allievi apprendono dallo scambio
di conoscenze e competenze tra tutti. Gli studenti diventano protagonisti attivi del proprio
apprendimento poiché coinvolti in attività che li “incastrano” in un gioco di interdipendenza che
non permette di sottrarsi al lavoro comune.
Numerose ricerche hanno rilevato che l’utilizzo della metodologia cooperative apporta notevoli
benefici. I fratelli Johnson insieme a Holubec nel loro volume Apprendimento cooperativo in classe
(1996) raggruppano i risultati che la metodologia consente di raggiungere in tre aree:
- gli studenti ottengono migliori risultati: tutti gli studenti (anche quelli con Bisogni
Educativi Speciali), indipendentemente dalle capacità di apprendimento che possono essere
più o meno alte, lavorano di più raggiungendo risultati migliori, memorizzano meglio e più a
lungo, sviluppano una maggiore motivazione intrinseca, trascorrono più tempo sul compito
e sviluppano livelli superiori di ragionamento e capacità di pensiero critico;
- relazioni più positive tra gli studenti: si crea uno spirito di squadra e di rapporti di
amicizia e sostegno reciproco, sia personale sia scolastico; la diversità è rispettata e
apprezzata e il gruppo si affiata;
- maggiore benessere psicologico: gli allievi lavorando in gruppo sviluppano il loro senso di
auto efficacia, l’autostima e l’immagine di sé e le competenze sociali. Gli allievi imparano
ad affrontare le difficoltà e a gestire lo stress.
Gli studenti attraverso questa metodologia percepiscono in sé il locus of control dei propri risultati
(impegno, abilità, ecc.) senza attribuirli a cause esterne e non controllabili (locus of control esterno,
fortuna, facilità del compito ecc.) e quindi si sentono responsabili del loro apprendimento (Slavin,
1990).
Nello specifico degli allievi diversamente abili, l’apprendimento cooperativo è particolarmente
efficace perché il progetto personalizzato si fonda proprio su un’impostazione che vede “legati” gli
aspetti cognitivi e quelli affettivi-relazionali (Sasso, 2010). Oggi la scuola deve proporsi come
un’agenzia educativa il cui compito non deve essere solo quello di trasmettere ai propri allievi
abilità e conoscenze ma piuttosto competenze trasversali e attitudini strategiche, in questo modo, se
quanto appreso negli anni perderà di validità perché superato, resterà agli allievi la capacità di
recepire e gestire conoscenze, di organizzare lavori individuali, cooperativi e competitivi, di fare

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ipotesi e applicare strategie funzionali alla risoluzione di problemi (La Prova, 2008); occorre come
dice Sasso (2004) imparare a crescere nella scuola che insegna a crescere. Il gruppo può essere un
potentissimo strumento per orientare, nel bene e nel male, il cambiamento sia nei membri che lo
costituiscono sia nel sistema sociale in cui è inserito (Spaltro, 1999). La metodologia cooperativa è
una tecnica che consente agli allievi di sviluppare competenze e apprendere strategie che oltre ad
essere valide per il contesto scuola lo sono per la vita in generale e questo, per gli allievi
diversamente abili, è importantissimo.
Inoltre, la metodologia cooperativa favorisce lo sviluppo cognitivo negli allievi perché permettendo
a ciascuno di poter confrontare le proprie idee e i propri schemi mentali con dei pari genera il
conflitto socio-cognitivo; si crea una situazione di apprendimento in cui anche gli allievi con deficit
trovano adeguato spazio e giusta collocazione nella relazione sentendosi valorizzati e riconosciuti
(Gaspari, 2005). Il metodo cooperativo si rivela particolarmente efficace con gli allievi con
handicap perché il saper fare fa sentire questi allievi partecipi, pertanto è utile trovare uno spazio
d’azione per i soggetti con handicap nei gruppi rispettando sia le loro capacità sia i restanti membri
del gruppo in modo che non si sentano penalizzati dalla presenza dei compagni con handicap
(Canevaro, 1999, p. 64).
La scuola per decenni ha utilizzato una didattica individualista e competitiva, invece, il metodo
cooperativo introduce un nuovo modo di fare scuola basato sulla logica della rete dei sostegni in cui
a ricavare un vantaggio non è solo l’alunno che riceve l’aiuto dal compagno ma entrambi hanno un
vantaggio sia sul piano informale, come lo sviluppo di relazioni amicali e sociali, sia sul piano
formale della strategia del lavoro-studio cooperativo e di tutoring (Gaspari, 2005). Come sostiene
Gaspari (ibidem) il modello cooperativo consente di creare un ambiente di apprendimento capace di
riconoscere e di rispettare le diversità degli allievi permettendo loro di aiutarsi a vicenda per
raggiungere gli obiettivi.
Riassumendo è possibile affermare che l’apprendimento cooperativo è una metodologia operativa
che permette un autentico insegnamento differenziato e individualizzato che rispetta e tutela e dà
adeguato spazio a ogni forma di diversità. Numerosi studi condotti sugli effetti dell’utilizzo della
metodologia cooperativa hanno, infatti, dimostrato che i soggetti si sentono apprezzati dai compagni
ed efficaci in ambito scolastico e questo influisce positivamente sull’adattamento psicologico,
sull’autostima, sulla capacità di assumere prospettive diverse, sulla fiducia nelle altre persone, sulla
motivazione all’apprendimento e sulla strutturazione dell’identità personale (La Prova, 2008).
Ci sono tre tipi di gruppi di apprendimento cooperativo (Johnson, Johnson, Holubec, 1996):
- gruppi formali: gruppi mantenuti per una sola lezione o per alcune settimane di lavoro sia
allo scopo di insegnare contenuti sia allo scopo di insegnare abilità che permettono il

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coinvolgimento attivo degli studenti nel lavoro di organizzazione e di spiegazione del
materiale e di sintesi e integrazione dei nuovi contenuti nelle strutture concettuali esistenti;
- gruppi informali: che vengono creati ad hoc per alcuni minuti o per una singola lezione.
Questo tipo di gruppo è utilizzato per l’insegnamento diretto al fine di focalizzare
l’attenzione degli studenti sul materiale da imparare, per creare un clima favorevole
all’apprendimento, per indurre attese sugli argomenti che saranno trattati durante la lezione,
per assicurarsi che gli studenti elaborino cognitivamente il materiale che è insegnato e per
chiudere la lezione;
- gruppi di base: sono gruppi eterogenei che vengono mantenuti per lunghi periodi (almeno
un anno). Lavorando per un lungo periodo insieme i membri di questi gruppi si scambiano il
sostegno, l’aiuto, l’incoraggiamento e l’assistenza necessaria per apprendere; istaurano tra
loro rapporti di collaborazione durevoli e significativi.
Prima di apprendere come progettare e implementare una lezione cooperativa è necessario aprire
una riflessione sui gruppi perché non necessariamente l’assetto gruppale è efficace per
l’apprendimento e non tutti i gruppi possono essere denominati cooperativi. È possibile, infatti, che
studenti lavorino insieme ma senza alcun interesse a farlo perché hanno la consapevolezza che
saranno valutati secondo un criterio di classificazione individuale dal “migliore” al “peggiore” e
quindi la collaborazione è solo apparente. In questo caso si sarà creato uno pseudogruppo di
apprendimento in cui il potenziale complessivo del gruppo è inferiore a quello dei singoli e quindi
gli studenti imparerebbero di più se lavorassero da soli.
Più comunemente sono realizzati in classe gruppi tradizionali di apprendimento, ovvero gruppi in
cui gli studenti lavorano insieme ma i compiti sono strutturati in modo da richiedere poco lavoro da
fare insieme e hanno la consapevolezza che saranno valutati singolarmente e non come membri del
gruppo. In questi gruppi è possibile osservare momenti di interazione durante i quali i membri
cercano di carpirsi informazioni a vicenda ma non avviene uno scambio di conoscenze tra loro. Il
potenziale complessivo del gruppo è superiore a quello di alcuni membri, ma gli studenti più
diligenti otterrebbero risultati migliori lavorando da soli.
Nei gruppi di apprendimento cooperativo gli studenti sono obbligati a lavorare insieme per attività
di apprendimento perché sanno che il loro successo dipende dallo sforzo di ogni membro del
gruppo e questo li rende anche entusiasti. I gruppi di apprendimento cooperativo presentano cinque
caratteristiche specifiche (Ianes, 2005):
1) l’obiettivo comune di massimizzare l’apprendimento di tutti i membri stimola e motiva gli
studenti a impegnarsi e a raggiungere dei risultati superiori alle loro capacità individuali;
2) i membri ritengono sé stessi e gli altri ugualmente responsabili per lo svolgimento di un

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buon lavoro che permetta di raggiungere l’obiettivo comune;
3) i membri lavorano e producono insieme per il successo dei singoli e del gruppo stesso: si
scambiano aiuto, informazioni, assistenza, spiegazioni e incoraggiamenti;
4) ai membri sono insegnate le abilità sociali che devono utilizzare per coordinare i loro sforzi
e raggiungere i loro obiettivi. Sono insegnate sia abilità cognitive richieste dal compito sia
abilità sociali necessarie per far funzionare bene il lavoro di gruppo;
5) i gruppi verificano se gli obiettivi sono stati raggiunti e anche la qualità del lavoro di gruppo.
Il cooperative learning fa sì che l’efficacia complessiva del gruppo sia superiore alla somma
dell’efficacia di ogni membro del gruppo e che tutti gli studenti forniscono prestazioni
scolastiche migliori rispetto a quelle che avrebbero fornito lavorando individualmente.
Perché un gruppo di allievi lavori in modo cooperativo non basta dare loro un compito ma, come
sottolineato molti studiosi, è necessario strutturare accuratamente cinque elementi essenziali senza i
quali non ci potrà essere cooperazione. Questi elementi sono (Johnson, Johnson, Holubec, 1996):
1) interdipendenza positiva: è necessario assegnare dei compiti chiari a ciascun membro del
gruppo e un obiettivo comune in modo che tutti capiscano che il successo personale dipende
da quello del gruppo e il fallimento di un membro è il fallimento dell’intero gruppo; è una
questione di “uno per tutti e tutti per uno”. L’interdipendenza si raggiunge quando tutti i
membri comprendono che il rapporto di collaborazione che li unisce è tale per cui non può
esistere successo individuale senza successo collettivo pertanto l’impegno di ciascun
membro del gruppo non serve solo per se stesso ma per il successo dell’intero gruppo. Senza
interdipendenza positiva non può esistere cooperazione.
2) responsabilità individuale e di gruppo: occorre responsabilizzare sia l’intero gruppo al
raggiungimento degli obiettivi stabiliti sia i singoli membri per la propria parte di lavoro
affidatagli. Un gruppo è responsabilizzato individualmente attraverso la valutazione delle
singole prestazioni e la successiva discussione dei risultati raggiunti sia dal gruppo sia dal
singolo, questo permetterà di identificare gli alunni che hanno maggiore bisogno di essere
assistiti, motivati e incoraggiati nello svolgimento dei compiti. Ciò che gli allievi
impareranno a fare insieme a dei coetanei, come sostiene Vygotskij, sapranno farlo
successivamente da soli, quindi acquisiranno l’autonomia nel raggiungimento del successo
individuale.
3) interazione costruttiva diretta: gli alunni devono lavorare realmente insieme e promuovere
reciprocamente la loro riuscita condividendo le risorse, aiutandosi, sostenendosi e
incoraggiandosi a vicenda a compiere gli sforzi necessari. Si attiva un sistema sia di
sostegno scolastico che di sostegno personale.

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4) insegnare agli studenti le abilità necessarie nei rapporti interpersonali: gli alunni
lavorando in piccoli gruppi cooperativi hanno modo di apprendere sia i contenuti didattici
sia le abilità interpersonali e di piccolo gruppo necessarie per un corretto funzionamento del
gruppo stesso; ogni alunno deve quindi contemporaneamente apprendere abilità scolastiche
e abilità sociali e questo rende il lavoro cooperativo complesso. L’acquisizione delle abilità
sociali è altrettanto importanti dell’acquisizione delle abilità scolastiche.
5) valutazione del gruppo: i componenti del gruppo verificano e discutono i progressi
compiuti per il raggiungimento degli obiettivi e l’efficacia dei loro rapporti di lavoro.
Discutendo devono analizzare quali sono state le azioni che hanno permesso il
raggiungimento degli obiettivi e quali quelle che l’hanno ostacolato in modo da mantenere
le prime per migliorarsi. La valutazione deve essere il più possibile operativa e deve indicare
quali azioni o comportamenti sono giudicati dal gruppo “positivo” o “negativi” quali hanno
bisogno d’essere corretti, quali invece mantenuti, ecc.
Un insegnante che vuole utilizzare la metodologia cooperativa deve saper creare queste cinque
condizioni. Ciò presume un’esperienza nell’uso di questa metodologia, consolidata nel corso degli
anni. Tale pratica non può essere improvvisata ed è proprio questo a scoraggiarne l’utilizzo. Per
utilizzare questa metodologia è necessaria, infatti, un’accurata e dettagliata programmazione da
parte dell’insegnante, il quale dovrà prendere delle decisioni preliminari. A tal fine i fratelli Johnson
e Holubec hanno inserito nel volume Apprendimento cooperativo in classe (1996, p. 33-35) una
scheda di programmazione che passo dopo passo guida l’insegnante nella programmazione. Come
si evince dalla scheda la prima cosa che un insegnante deve stabilire sono gli obiettivi didattici
(ovvero, ciò che gli allievi devono imparare) che devono essere pensati in funzione del livello degli
allievi, e gli obiettivi sociali, ovvero, le abilità sociali che gli studenti devono apprendere e usare
durante la lezione. Questi ultimi possono essere scelti in funzione dei problemi che l’insegnante ha
riscontrato essere presenti nel gruppo classe o chiedendo direttamente agli allievi quali sono le
abilità che ritengono potrebbero influire positivamente sul lavoro di gruppo in modo da lavoraci.
Per verificare come il gruppo svolge effettivamente il lavoro assegnato e se gli allievi promuovono
reciprocamente il loro apprendimento è possibile utilizzare un diagramma di flusso che consiste in
uno strumento visivo semplice attraverso il quale è possibile mettere in evidenza tutte le fasi del
lavoro e per crearne uno occorre (Johnson, Johnson, Holubec, 1996):
 definire con chiarezza dove inizia il procedimento di apprendimento e dove finisce, e quali
sono gli input e gli output;
 identificare tutta la procedura ovvero i passi chiave, chi è coinvolto, chi fa cosa e quando;
 disegnare la sequenza delle fasi;

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 osservare cosa il gruppo fa veramente;
 confrontare la prestazione effettiva con il diagramma. Rivedere lo schema oppure pensare a
un nuovo schema.
Per quanto riguarda la dimensione del gruppo come hanno più volte sottolineato i fratelli Johnson
(1996) non esiste un numero ideale di componenti per un gruppo di apprendimento cooperativo
perché la dimensione del gruppo dipende dagli obiettivi della lezione, dall’età, dall’esperienza degli
studenti nel lavoro di gruppo, dalle materie di studio, dalle attrezzature, dal tempo a disposizione e
dalla presenza o meno di allievi con handicap. Tendenzialmente è preferibile comporre gruppi da
2/4 persone; la regola di massima è che più piccoli sono i gruppi meglio è. Occorre tenere sempre
presente che formando gruppi numerosi certamente ciascun gruppo disporrà di maggiori capacità,
conoscenze, abilità perché ci sono diverse menti disponibili per l’acquisizione e l’elaborazione delle
informazioni ma solo se i componenti sono abili a regolare i turni di parola, a coordinare il lavoro di
ciascuno, a ottenere il consenso, a spiegare e ad elaborare il materiale da apprendere, e, di
conseguenza, l’interazione diretta potrebbe essere ridotta se il tempo a disposizione è poco. È
preferibile, quindi, che il gruppo sia piccolo in modo da avere tutti il proprio spazio, anche perché in
questo modo è difficile che qualche componente si “imboschi” e non contribuisca attivamente con il
proprio segmento di lavoro; inoltre è facile individuare le difficoltà che gli studenti possono
incontrare lavorando insieme.
I gruppi possono essere omogenei o eterogenei, i primi risultano più efficaci quando si devono
insegnare abilità specifiche o raggiungere determinati obiettivi didattici, mentre i secondi
tendenzialmente sono i più vantaggiosi per una comprensione più approfondita, per la qualità del
ragionamento e per l’accuratezza della ritenzione mnemonica a lungo termine.
Per distribuire gli allievi in gruppi è possibile utilizzare diverse procedure quali: la randomizzata, la
randomizzata per livello, la selezione da parte dell’insegnante (questa procedura si utilizza per
creare i gruppi di sostegno per allievi con Bisogni Educativi Speciali) e l’auto-selezione (procedura
poco utilizzata perché gli allievi tendono a formare gruppi omogenei i cui membri tendono a
impegnarsi poco).
A questo punto occorre pensare a quali potrebbero essere i ruoli per massimizzare l’apprendimento
dello studente, ruoli che servono ai componenti del gruppo per comprendere cosa sono tenuti a fare,
cosa gli altri si aspettano e cosa ciascuno può aspettarsi dagli altri. I ruoli corrispondono a funzioni
che favoriscono la gestione e il funzionamento del gruppo e che stimolano e promuovono
l’apprendimento degli studenti.
Le funzioni e i ruoli che possono essere assegnati possono essere raggruppati in quattro gruppi
(Johnson, Johnson, Holubec, 1996):

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 funzioni e ruoli di gestione del gruppo:
 controllo dei toni di voce; chi ha questo ruolo si assicura che tutti i membri del gruppo
usino un tono di voce moderato;
 controllo dei rumori: chi ha questo ruolo si assicura che i compagni non facciano
rumore per formare i gruppi;
 controllo dei turni: chi ha questo ruolo si assicura che il compito sia svolto rispettando i
turni prestabiliti;
 funzioni e ruoli di funzionamento del gruppo:
 spiegare idee e procedure: chi ha questo ruolo espone le idee e le opinioni che
emergono;
 registrare: chi ha questo ruolo mette per iscritto le decisioni del gruppo e redige la
relazione di gruppo;
 incoraggiare la partecipazione: chi ha questo ruolo si assicura che tutti i membri del suo
gruppo diano il loro contributo;
 osservare i comportamenti: chi ha questo ruolo registra la frequenza con cui i membri si
impegnano nelle abilità da acquisire;
 fornire guida: chi ha questo ruolo supervisiona il lavoro di gruppo rivedendo le
istruzioni e ricordando al gruppo lo scopo del compito assegnato, richiamando
l’attenzione sui limiti di tempo e fornendo suggerimenti per completare il compito;
 fornire sostegno: chi ha questo ruolo fornisce sostegno verbale e non verbale e
accettazione sollecitando e lodando le idee e le conclusioni dei membri;
 chiarire e illustrare: chi ha questo ruolo riesporre ciò che i membri del gruppo hanno
detto per spiegare o chiarire messaggi.
 funzioni e ruoli per l’apprendimento:
 ricapitolare: chi ha questo ruolo riassume le conclusioni o le risposte più significative
del gruppo o ciò che è stato letto o discusso in modo completo e accurato senza far
riferimento al materiale fornito in origine;
 precisare: chi ha questo ruolo corregge gli errori nelle spiegazioni o nei riassunti degli
altri membri e aggiunge informazioni importanti eventualmente omesse;
 verificare la comprensione: chi ha questo ruolo si assicura che tutti i membri del gruppo
sappiano spiegare il processo che li ha condotti a una conclusione o a una risposta;
 fare ricerche-comunicare: chi ha questo ruolo procura i materiali necessari al gruppo e
ha funzione di staffetta tra il suo gruppo, gli altri gruppi e l’insegnante
 elaborare: l’incaricato collega i concetti e le strategie studiati in quel momento con
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quelli studiati in precedenza e con le strutture cognitive esistenti;
 approfondire: chi ha questo ruolo trae ulteriori inferenze dalla prima risposta o
conclusione evidenziandone molteplici aspetti e implicazioni.
 funzioni e ruoli di stimolo al gruppo:
 criticare le idee e non le persone: chi ha questo ruolo può sollecitare i compagni
criticando le loro idee ma avendo cura di mostrare rispetto per loro come individui;
 chiedere motivazioni: chi ha questo ruolo esorta i membri del gruppo ad avere idee e a
condividere il ragionamento che li ha spinti alla quella conclusione;
 distinguere: chi ha questo ruolo deve evidenziare le differenti idee che emergono e i
differenti ragionamenti al fine di far capire al gruppo le differenze di conclusione e
ragionamento;
 sintetizzare: chi ha questo ruolo deve riassumere le idee e il ragionamento dei membri in
un’unica affermazione che possa essere condivisa da tutti;
 sviluppare: chi ha questo ruolo sviluppa le idee e le conclusioni degli altri membri
aggiungendo ulteriori informazioni o implicazioni;
 verificare: chi ha questo ruolo deve porre ai propri compagni del gruppo altre domande
per approfondire l’analisi o la comprensione della materiale;
 sviluppare opzioni: chi ha questo ruolo espone altre possibili risposte plausibili tra le
quali scegliere;
 valutare: chi ha questo ruolo deve valutare il lavoro di gruppo in riferimento alle
istruzioni fornite dall’insegnante per svolgere il compito, il tempo di esecuzione, ecc.
L’insegnante deve sapere calibrare i ruoli in base alle abilità e agli interessi degli studenti; agli
allievi con Bisogni Educativi Speciali possono essere dati ruoli semplici ma che li facciano sentire
attivi del lavoro di gruppo. Gli allievi, come abbiamo già detto, vanno abituati a lavorare insieme
quindi è consigliabile inizialmente farli lavorare in assetto gruppale senza fare alcuna distinzione di
ruoli in modo che imparino a lavorare insieme e a poco a poco cominciare con l’assegnazione dei
ruoli di gestione. Periodicamente risulta opportuno ruotare i ruoli, in modo che ogni membro del
gruppo svolga ogni funzione più volte, e aggiungere una funzione nuova più complessa fino
all’inserimento dei ruoli di funzionamento del gruppo. Con il tempo possono essere aggiunti anche i
ruoli per l’apprendimento e successivamente i ruoli di stimolo al gruppo.
Anche la sistemazione dell’aula risulta molto importante, perché l’allestimento dell’aula incide sia
sulla resa dell’alunno sia sulla gestione della classe. A riguardo Johnson (1979) elenca dei principi
senza i quali gli alunni non possono lavorare bene in gruppo, i quali sono:
 i membri di un gruppo di apprendimento cooperativo dovranno sedere “Faccia a faccia e

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ginocchio a ginocchio” in modo da essere sufficientemente vicini per condividere i materiali
e per parlarsi senza dover alzare il tono della voce;
 gli studenti devono sedere con la faccia o il fianco rivoli verso la cattedra in modo da vedere
l’insegnate senza girare la sedia o assumere posizioni scomode;
 i gruppi devono essere abbastanza distanti in modo che non interferiscono tra di loro e che
l’insegnante possa raggiungerli e monitorarli agevolmente;
 lo spazio dev’essere flessibile in modo che gli studenti possano cambiare facilmente la
composizione e le dimensioni del gruppo.
Un’altra delle decisioni preliminari che un insegnante deve prendere è come organizzare il
materiale didattico perché pur essendo utilizzati nella lezione cooperativa gli stessi materiali che si
usano in una normale lezione questi possono essere organizzati in modo particolare in modo da
favorire la cooperazione. Esistono, infatti, sette possibili modi per organizzare i materiali (Johnson,
Johnson, Holubec, 1996):
1) si dà a ogni studente il suo set completo di materiali;
2) si dà a ogni gruppo una sola copia dei materiali: limitando le risorse fornite al gruppo si
favorisce l’interdipendenza positiva;
3) si distribuisce parte del materiale a ogni studente e parte al gruppo nel suo insieme;
4) gli studenti possono essere resi interdipendenti distribuendo le informazioni con la
procedura Jiagsaw2;
5) gli studenti possono essere resi interdipendenti distribuendo l’attrezzatura e i materiali con la
procedura Jiagsaw;
6) si chiede a ogni membro di fornire un contributo specifico al prodotto collettivo;
7) si strutturano i materiali così da creare una competizione tra i gruppi e poter confrontare il
livello di competenza raggiunto da ciascuno.
Attraverso l’organizzazione del materiale è possibile coinvolgere tutti gli studenti di un gruppo
oppure evitare che un solo alunno domini l’intero gruppo e, per esempio, per entrambi i problemi si
può scegliere la procedura del Jigsaw che permette di rendere ciascuno responsabile della propria
parte senza la quale non potrà essere terminato il lavoro di gruppo. Se invece i membri del gruppo
tendono a non interagire tra loro molto e a posizionarsi anche a distanza si può scegliere per

2
Il modello del Jigsaw, letteralmente puzzle o gioco di costruzioni, è una specifica tecnica di cooperative learning
sviluppata da Aronson (1978) e dai suoi studenti dell’Università del Texas e dell’Università di California negli anni
Settanta. Il Jigsaw si caratterizza per l’enfasi posta sulla strutturazione dell’interazione tra gruppi eterogenei formati da
3 a 6 studenti, in cui ad ogni studente viene assegnata una parte del compito sulla quale si può preparare e confrontare in
un gruppo parallelo. Ogni studente lavora in modo indipendente per diventare un esperto di una porzione della lezione
ed è responsabile dell’insegnamento di tali informazioni agli altri componenti del gruppo così come è anche
responsabile dell’approfondimento delle informazioni fornitegli dagli altri membri del gruppo. L’insegnante accerta la
competenza del gruppo sull’argomento complessivo. Vengono dati voti individuali sulla base di un esame.

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esempio di dare una sola copia del materiale.
Stabilito ciò l’insegnante deve sviluppare la terza area della scheda di programmazione relativa alla
“descrizione del compito e dell’approccio cooperativo”, in altre parole, come spiegare alla classe i
compiti assegnatogli. L’insegnante in modo chiaro per tutti deve (Johnson, Johnson, Holubec,
1996):
 spiegare le caratteristiche del compito che deve essere chiaro e ben definito;
 spiegare gli obiettivi della lezione in modo che gli studenti li comprendano e li
memorizzino;
 spiegare i concetti, i principi e le strategie che gli studenti devono usare durante la lezione e
collegare i concetti e le informazioni da studiare con l’esperienza e le conoscenze che gli
studenti già hanno acquisito;
 spiegare le procedure che gli studenti devono seguire per svolgere il compito e quelle per
regolare il lavoro di gruppo;
 verificare se gli studenti abbiano capito come svolgere il compito assegnato rivolgendo
domande specifiche;
 chiedere ai gruppi di realizzare dei lavori scritti che ogni membro dovrà poi firmare.
Per facilitare la spiegazione e l’apprendimento del compito da eseguire è possibile utilizzare degli
strumenti visivi quali: ruote radiali e mappe mentali, elenchi, diagrammi a catena, diagrammi di
flusso, diagramma a ragnatela e tabelle.
Così come si spiega il compito da svolgere è necessario spiegare agli allievi, anche, il livello di
rendimento che ci si aspetta da loro. L’insegnante dovrà esplicitare prima dell’inizio dell’attività i
criteri di valutazione.
In precedenza, è stato detto che affinché un gruppo di allievi lavori in modo cooperativo sono
necessari cinque elementi senza i quali non ci potrà essere cooperazione e tra questi vi è
l’interdipendenza positiva che in concreto consiste nello stabilire tra gli studenti dei rapporti tali per
cui nessuno possa pensare di raggiungere gli obiettivi individualmente. Man mano che gli allievi
impareranno a lavorare in modo cooperativo saranno in grado di capire che gli sforzi di ogni
membro del gruppo sono utili e indispensabili al successo del gruppo e che ogni membro deve
contribuire allo sforzo comune con le risorse che possiede, con il ruolo che riveste e con la sua
responsabilità.
Come sostiene Comoglio (1996):

“(…) l’interdipendenza positiva fra i membri del gruppo non si raggiunge né riunendo semplicemente i
membri, né limitandosi a stimolarli alla cooperazione, né richiedendo loro di produrre insieme un qualche
prodotto finale. (…) l’interdipendenza positiva può essere raggiunta attraverso obiettivi comuni

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(interdipendenza di obiettivo), la divisione del compito (interdipendenza di compito), la condivisione di
materiali, risorse, informazioni (interdipendenza di risorse), l’assegnazione di ruoli diversi (interdipendenza
di ruolo), e ricompense di gruppo (interdipendenza di ricompensa)”.

A questo scopo un insegnante può scegliere di utilizzare vari tipi di interdipendenza positiva tra cui
(La Prova, 2008; Johnson, Johnson, Holubec, 1996):
 interdipendenza di obiettivo: gli studenti capiscono che possono raggiungere i loro
obiettivi solo se tutti i membri del gruppo raggiungono i loro; hanno una serie di mete
comuni (ad es. produrre un disegno, un diagramma, raggiungere una migliore comprensione
di un concetto, ecc.) che tutti si sforzano di raggiungere;
 interdipendenza di compito: il lavoro è ripartito in una sequenza di fasi in modo che uno
studente debba fare la sua parte perché il compagno possa svolgere la propria;
 interdipendenza di materiale: gli studenti dipendono gli uni dagli altri per l’utilizzo dei
materiali necessari allo svolgimento del compito;
 interdipendenza di ruolo: l’insegnante assegna agli studenti ruoli complementari e
interconnessi che specificano le responsabilità che si devono assumere per svolgere il
compito;
 interdipendenza di informazioni e risorse: ogni membro riceve solo una parte delle
informazioni o dei materiali per lo svolgimento del compito; perché sia raggiunto l’obiettivo
le parti devono essere combinate;
 interdipendenza di identità: il gruppo si dà un’identità collettiva scegliendosi un nome,
uno slogan, ecc.;
 interdipendenza di fantasia: ai membri del gruppo si assegna un compito che richiede loro
di immaginare di trovarsi in una situazione di pericolo e in cui, per sopravvivere, devono
collaborare;
 interdipendenza di contesto spaziale: si favorisce la coesione del gruppo attraverso la
strutturazione dell’ambiente, per esempio, al gruppo si assegna un punto particolare
dell’aula in cui lavorare;
 interdipendenza di sequenza temporale: ogni membro del gruppo è responsabile di un
passo di un percorso. (Uno studente cerca una parola nel vocabolario, il secondo scrive la
definizione, il terzo usa la parola in una frase);
 interdipendenza di valutazione: il gruppo riceve una valutazione ponderata sulla base dei
risultati ottenuti da ciascun membro;
 interdipendenza di incentivi e di celebrazione: Incentivi: si condivide un riconoscimento
(se eccessivi, diminuiscono la motivazione intrinseca). Celebrazione: si condivide e si

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esprime apertamente la soddisfazione di aver raggiunto l’obiettivo (rafforza il senso di
appartenenza).
Altro elemento essenziale per un buon funzionamento dei gruppi di apprendimento cooperativo è
l’uso appropriato delle abilità sociali (Johnson, Johnson, Holubec, 1996), ovvero, è necessario che i
membri del gruppo sappiano mettere in atto comportamenti interpersonali utili ed appropriati al
raggiungimento dei risultati desiderati. Affinché gli allievi imparino le competenze sociali
l’insegnante deve (ibidem, 1996):
 far capire agli allievi che le abilità sociali sono necessarie per lavorare insieme in modo
efficacia;
 assicurarsi che gli studenti distinguano il tipo di abilità richiesta, come e quando applicarla;
 creare situazioni pratiche per far allenare gli studenti ad utilizzare le abilità in modo da
acquisire padronanza;
 dare dei feedback sul loro uso dell’abilità e nell’incoraggiare a riflettere su come migliorare
l’applicazione;
 assicurarsi che gli allievi si esercitino ad applicare le abilità in modo che col tempo le
applichino con naturalezza.
Gli alunni che già possiedono delle competenze sociali sanno cogliere sia i propri vissuti e i propri
bisogni sia quelli dei compagni, e sanno anche discernere i comportamenti che possono favorire o al
contrario ostacolare il lavoro di gruppo e sanno adeguarsi alle situazioni mutando i loro
comportamenti (La Prova, 2008). Per tradurre le abilità generali in comportamenti verbali e non
verbali specifici è possibile utilizzare con gli allievi la CARTA T (Comoglio, Cardoso, 1996)
denominata così perché utilizza una tabella costruita a partire dal tracciato di una grande T su un
foglio o su un cartellone, in cui nella parte alta del foglio, sopra la T, è indicata l’abilità sociale sulla
quale si vuole lavorare, mentre sotto, nelle due colonne create sono indicati i comportamenti verbali
e i comportamenti non verbali attraverso cui l’abilità è messa in atto. Costruita con la classe e la
guida dell’insegnante la carta T ha lo scopo di definire, in modo il più possibile univoco e
oggettivo, l’abilità sulla quale la classe ritiene importante focalizzare l’attenzione.
Individuati e spiegati quali sono i comportamenti verbali e non verbali dei comportamenti sociali
l’insegnate può decidere di osservare e registrare, attraverso apposite griglie di osservazione, gli
allievi mentre lavorano in gruppo per vedere se ciascuno di loro utilizza o meno il comportamento
in questione; questo monitoraggio potrà essere fatto inizialmente dall’insegnante mentre quando il
gruppo classe sarà più autonomo e avrà familiarizzato con la metodologia lo potrà fare un membro
del gruppo stesso. Quest’osservazione potrà poi tradursi in una valutazione da far confluire nella
valutazione finale (La Prova, 2008).

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Un altro aspetto che va programmato della lezione cooperativa è la valutazione che è molto
importante perché incide sull’interdipendenza che si crea all’interno del gruppo. Al fine di rendere
la verifica e la valutazione dei momenti significativi e fondamentali del lavoro occorre (Scataglini,
Cramerotti, Ianes, 2008):
 svolgere nel contesto gruppo anche le verifiche e le valutazioni degli apprendimenti
individuali;
 svolgere verifiche in modo sistematico e frequente;
 fare in modo che il gruppo organizzi gli aiuti necessari per i compagni in difficoltà: è
indispensabile che tutti gli studenti che ne fanno parte siano coinvolti direttamente nella
verifica del loro livello di apprendimento e di quello dei propri compagni;
 utilizzare metodi oggettivi per verificare e valutare;
 utilizzare metodi di verifica differenti al fine di accertare i miglioramenti a livello di rapporti
e modalità di aiuto al gruppo, l’apprendimento dell’informazioni e l’acquisizione delle
conoscenze riferite all’argomento di studio e l’acquisizione della capacità di utilizzare
l’abilità espressa in contesto reale.
In letteratura è possibile incontrare modalità di valutazione differenti (La Prova, 2008) tra queste:
 il punteggio di miglioramento: la valutazione ottenuta da ciascun allievo è paragonata con
le sue precedenti valutazioni e non con quelle dei compagni per evitare paragoni;
 media individuale e di gruppo: è una delle modalità di valutazione maggiormente
utilizzata in quanto consente di conciliare l’esigenza di dare una valutazione individuale con
quella di valorizzare allo stesso modo il lavoro di gruppo. Somministrata una prova
l’insegnante attribuisce dei punteggi individuali e può calcolare il punteggio medio ottenuto
dal gruppo, a questo punto l’insegnante che avrà precedente stabilito quanto debba pesare il
punteggio di gruppo (per esempio 30%) rispetto a quello individuale (per esempio 70%)
potrà calcolare il punteggio di ciascun allievo sommando media del gruppo e punteggio
individuale3.
È possibile anche decidere, com’è stato detto precedentemente, di valutare in percentuale magari
ridotta anche le abilità sociali quindi si potrebbe decidere che la valutazione individuale è data dalla
media del gruppo per il 20% + dal punteggio individuale per il 60% + dal punteggio individuale
nelle abilità sociali per il 20%.

3
Un esempio. Marco è stato valutato 7, Maria 6, Giuseppe 5 e Laura 8, il voto medio del gruppo è 6,5 perché
(7+6+5+8)/4=6,5, per cui se si è deciso che il voto medio del gruppo pesa per il 30% e quello individuale per il 70% nel
punteggio individuale finale potremmo calcolare il punteggio di ogni singolo allievo. Per esempio per l’allievo Marco
moltiplicando 6,5 (media del gruppo) per 30 e dividendo per 100 avremo il peso del punteggio di gruppo che sarà 1,95,
mentre moltiplicando 7 (punteggio individuale) per 70 e dividendo per 100 avremo il peso del punteggio individuale
che sarà 4,90, sommati i due punteggi (1,95 + 4,90) avremo che il punteggio finale di Marco è 6,85.

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In alternativa possono anche essere usate prove di verifica di gruppo.
Come abbiamo visto sono molte le decisioni preliminari che vanno prese prima di entrare in aula e
decidere di applicare la metodologia cooperativa in quanto se queste non sono programmate bene si
rischia di fallire sin dalla prima applicazione. Il diverso modo con cui è possibile strutturare
l’interdipendenza, i ruoli che si possono attribuire o ancora i modi dell’interazione hanno dato
origine nel corso degli anni a diverse modalità di cooperative learning che prendono nomi diversi
quali (Johnson, Johnson, Holubec, 1996):
- Student Team Learning di Robert Slavin che si caratterizza soprattutto per l’attenzione
rivolta alla motivazione estrinseca;
- Group Investigation di Rachel Hert-Lazarowitz, Shlomo Sharan e Yael Sharan che
sottolinea come l’elemento che stimola l’apprendimento sia soprattutto il desiderio di
conoscere, così che un gruppo si muove alla ricerca di una conoscenza se è adeguatamente
stimolato da un problema;
- Structural Approach di Miguel e Spencer Kagan che è una modalità che si sviluppa dalla
necessità di predisporre delle strutture di lavoro che garantiscano un’interdipendenza
positiva effettiva, il ruolo dell’insegnante è quello di impadronirsi di queste strutture, di
trasformarle in attività e di coordinarle nello sviluppo di una lezione;
- Complex Instruction di Elisabeth Cohen che è una modalità di cooperative learning che
avendo l’obiettivo di controllare l’effetto di status dei membri del gruppo, organizza
l’interdipendenza positiva come un’interdipendenza di abilità tra i membri;
- Collaborative Approach di Reid, Forrestal e Cook che ha contorni di organizzazione più
generici e la cooperazione è più una struttura funzionale a obiettivi sociali;
- Learning Together di D.W. Johnson e R.T. Johnson che è certamente la modalità più
diffusa e che è stata oggetto del maggior numero di ricerche sperimentali.

6.3 Il tutoring

I primi studi scientifici sul peer tutoring risalgono al 1979 quando cominciarono delle indagini sui
programmi di tutoring per alunni con difficoltà di apprendimento e sullo studio degli effetti a livello
di cambiamento comportamentale che la metodologia genera. Nel 1986 Hedin pubblicò un rapporto
per la Canergie Commission in cui consigliava l’utilizzo del tutoring per l’educazione di tutti gli
alunni. Le prime applicazioni del tutoring in classe negli Stati Uniti risalgono a molto prima e,
infatti, diversi documenti degli anni Sessanta testimoniano l’utilizzo di programmi di tutoring per
affrontare le numerose difficoltà degli allievi “problematici”. Con il termine “problematico” si

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intendeva solo il deficit fisico ma anche l’isolamento sociale per differenza di razza, per povertà,
ecc.; a metà degli anni Sessanta fu persino attuato un programma di tutoring in cui a fare da tutor
erano alunni disabili.
Da un’indagine condotta negli Stati Uniti risultò che nelle scuole di 41 Stati erano applicati
programmi di tutoring interni alle singole scuole mentre in 8 Stati esisteva una politica scolastica
statale di tutoring (Ianes, 2005).
Il peer tutoring si ispira al concetto di mutuo aiuto elaborato da Don Giovanni Bosco ed è un
processo attraverso il quale un compagno, a seguito di un training e sotto la supervisione
dell’insegnante, aiuta uno o più compagni della sua stessa classe, o di classi differenti nel caso in
cui la programmazione preveda un lavoro a “classi aperte”, a sviluppare un’abilità o a comprendere
un concetto (Sasso, 2003).
Il tutoring permette un’istruzione individualizzata e il perseguimento dello sviluppo sia cognitivo
sia socio-affettivo così come accade per il metodo cooperativo. Inoltre, il tutoring è una tecnica
vantaggiosa quando si lavora con classi numerose i cui membri hanno livelli di competenza molto
differenti tra loro ed è un intervento sul sostegno economicamente conveniente.
Quando si pensa al tutoring non bisogna immaginarlo come un modello educativo rivolto
esclusivamente ai soggetti diversamente abili o svantaggiati, ma anche per soggetti con attitudini
diverse, quindi tutti gli allievi possono diventare tutor e, anzi, facendo in modo che tutti a giro
assumano il ruolo di tutor si favorisce lo sviluppo di un’atmosfera favorevole all’apprendimento
cooperativo e integrante (Ianes, 2005); ogni allievo si contraddistingue per le competenze che
possiede in una o più materie e può diventare tutor di un compagno o più giovane o di un compagno
con livello di competenza inferiore e questo gli permetterà di capire che ciascuno possiede repertori
di abilità che rappresentano una ricchezza e una risorsa utile ai propri compagni.
I benefici che questa metodologia apporta nell’attività didattica sono indubbi e riprendendo Bernard
(1990, in Sasso, 2003) è possibile sintetizzarli come segue:
 sviluppo di abilità, attitudini e valori positivi;
 sviluppo di modalità di condivisione, di aiuto sia ad allievi con handicap sia ad allievi
normodotati, di conforto e di empatia con gli altri;
 individuazione di strategie per il raggiungimento del successo;
 sviluppo dell’identità e dell’autonomia.
Applicare il tutoring non significa chiedere a un alunno bravo di sedersi accanto a un compagno
meno bravo o con handicap e chiedergli di aiutarlo; i programmi di tutoring vanno organizzati sotto
forma di progetti e quindi non possono essere improvvisati. Prima di tutto occorre comprendere le
competenze della risorsa “tutor” e le rispondenze psicologiche del “tutee” e solo successivamente è

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possibile pianificare gli obiettivi, programmare il training dei tutor e selezionare le abilità e le
attività (Sasso, 2003).
I vantaggi cognitivi e più in generale formativi dell’applicazione di questa metodologia non li hanno
solo gli allievi che ricevono l’aiuto bensì anche gli allievi che assumono il ruolo di tutor, perché
hanno la possibilità di imparare sia sviluppando nella spiegazione l’argomento che insegnano sia
rivedendone la presentazione e ripetendo alcuni punti. Imparano anche dall’osservazione di come il
compagno sta apprendendo quanto da lui detto. Benefici che si riscontrano anche sul piano
affettivo-emotivo in quanto l’essere tutor fa sviluppare la sicurezza, l’autostima e sentimenti
positivi nei confronti della scuola. Featherston (in Ianes, 2005) sostiene che il tutoring insegna agli
allievi a essere capaci di aiutare gli altri e permette di sviluppare una coscienza sociale e politica.
Hedin (1986) a tal proposito afferma che “l’esperienza di essere utile, di essere valutato e rispettato
dagli altri, contribuisce a formare un’immagine di sé come di una persona valida”.
Per svolgere il ruolo di tutor secondo Topping (1998) l’allievo deve possedere delle abilità, quali:
 saper preparare accuratamente l’esecuzione di un’azione o la spiegazione di un argomento
già conosciuto;
 eseguire l’azione o spiegare l’argomento con la massima accuratezza;
 saper prestare attenzione ai feedback forniti dal tutee;
 saper incoraggiare il tutee evidenziando i suoi progressi;
 saper modificare, semplificare o integrare quanto eseguito o spiegato se ci si rende conto che
quanto programmato non va bene;
 saper riflettere sull’azione o sull’argomento ponendosi sia dal punto di vista di chi apprende
sia dal punto di vista di chi insegna;
 saper verificare l’avvenuto apprendimento del tutee ed eventualmente saper integrare la
propria spiegazione;
 saper rinforzare adeguatamente con lodi e incoraggiamenti il tutee quando mostra di aver
fatto progressi o di aver imparato ciò che gli è stato insegnato.
I vantaggi di questa metodologia producono effetti positivi anche sugli insegnanti i quali possono
investire maggior tempo nelle attività didattiche, nella programmazione, nell’organizzazione del
lavoro e nella valutazione (ibidem, 2005).
Ogni qual volta si attua un progetto di tutoring è bene tenere a mente che gli studenti devono
(Sasso, 2003):
 interagire l’un l’altro per il raggiungimento di obiettivi comuni;
 essere personalmente responsabili sia del materiale datogli come supporto sia dell’aiuto
offerto al tutee;

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 sapere che assumendo il ruolo di tutor hanno essi stessi dei vantaggi;
 apprendere come costruire e mantenere le relazioni di collaborazione;
 poter essere tutti dei tutor;
 poter essere il leader di un gruppo dove si effettua l’apprendimento cooperativo;
 essere il più possibile eterogenei, per quanto riguarda le abilità degli studenti e dei loro
possibili deficit a livello fisico e mentale.
Alcuni esempi di tutoring:
 Tutoring in gruppi della stessa classe: utilizzabile nelle scuole di ogni grado (elementare,
secondaria di primo grado e secondaria di secondo grado) si contraddistingue per l’utilizzo
di gruppi di apprendimento piccoli ed eterogenei in modo da rispecchiare la realtà della
classe dal punto di vista etnico e dei livelli scolatici; è rispettata l’eterogeneità all’interno dei
gruppi e l’omogeneità tra i gruppi di una classe. Un gruppo viene mantenuto da una a otto
settimane, gli incontri durano circa trenta minuti al giorno e si svolgono da due a quattro
volte a settimana. All’interno di ogni gruppo, inoltre, tutti gli alunni a turno assumono il
ruolo di tutor pertanto ci saranno momenti in cui assumono il ruolo di tutor e momenti in cui
assumono il ruolo di discente. Come per tutte i programmi è necessario preparare gli allievi
ad attuare una simile metodologia spiegando loro le abilità necessarie e gli scopi
dell’attività.
 Tutoring tra alunni di età diversa a favore del discente: è un programma di tutoring in cui
alunni più grandi e più preparati su una materia fanno da tutor ad alunni più giovani in cui a
trarre un vantaggio sono proprio i più giovani. I tutor devono essere preparati sulle
responsabilità che il ruolo di tutor gli dà, sui programmi scolastici, su come organizzare una
lezione, sulle tecniche di insegnamento.
 Tutoring tra alunni di età diversa a favore dell’insegnante: è un programma di tutoring in
cui il tutor è sempre un alunno più grande e più preparato su un argomento ma a trarne un
vantaggio è il tutor che impara insegnando. In questo caso gli insegnanti nello scegliere i
tutor non terranno conto di ciò che sanno ma di ciò hanno bisogno di imparare. Se per
esempio il tutor deve sviluppare l’abilità di lettura l’insegnante deve scegliere come tutee un
alunno più giovane con un livello ancora inferiore nella stessa abilità. Affinché il tutor possa
acquisire dei vantaggi duraturi nel tempo da tale metodo è necessario che almeno una volta a
settimana si incontri con l’insegnante per fare il punto su come procede il lavoro.
Scegliere di utilizzare alunni più grandi comporta delle difficoltà maggiori per l’organizzazione del
tempo e dello spazio in cui si devono realizzare gli incontri, ma risulta maggiormente vantaggioso
per la maggior parte degli alunni con Bisogni Educativi Speciali.

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Affinché l’applicazione della tecnica del tutoring abbia successo è bene tenere presenti alcune
fondamentali condizioni tra cui (Milito, 2002):
 abbinare oculatamente il tutor con il “tutee”;
 determinare gli orari, le frequenze e le regolarità delle attività da svolgere in collaborazione;
 informare adeguatamente il tutor sulle tecniche di tutoring, comprese le procedure di
correzione;
 definire in modo chiaro i contenuti del lavoro;
 scegliere i materiali che si ritengono più utili per svolgere le attività;
 adottare procedure, metodi e strumenti per le verifiche periodiche dell’andamento e dei
risultati del lavoro ed effettuare la valutazione con l’adozione di criteri trasparenti;
 ritenere indispensabile la supervisione attenta e puntuale dell’insegnante;
 fare assumere agli allievi tutor la funzione di agenti di cambiamento evitando che diventino
invece precettori.
Quando parliamo di tutoring siamo generalmente abituati a pensare che il ruolo di tutor sia svolto da
un allievo che non presenta alcuna forma di difficoltà/handicap mentre il ruolo di tutee sia svolto
per esempio da un allievo che presenta uno sviluppo non sufficiente in un’abilità o addirittura da un
allievo affetto da handicap, ma in realtà non è sempre così scontato, perché anche gli allievi con
handicap possono essere dei tutor.
Negli anni ‘80 fu condotto uno studio triennale dal titolo Handicapped Children as Tutors presso la
Brigham Young University basato su quattro formule diverse di tutoring (Ianes, 2005):
 allievi disabili con ritardo mentale o disturbi dell’apprendimento insegnavano a compagni
normali un linguaggio visivo con immagini;
 allievi disabili aiutavano allievi normali più giovani a leggere;
 allievi disabili aiutavano compagni con gli stessi deficit a leggere;
 allievi disabili aiutavano allievi più giovani con disabilità simili a leggere.
Dalla ricerca emersero i seguenti risultati (Ianes, 2005):
 l’alunno disabile dopo una preparazione adeguata e il controllo dell’insegnante può operare
in modo efficace come tutor;
 l’alunno disabile è in grado di controllare l’attività del compagno assistito, di trasmettergli
contenuti didattici e di dare un riscontro tramite feedback;
 la conoscenza della materia trattata aumenta sia per l’assistente che per l’assistito;
 gli alunni disabili e socialmente isolati se assistono compagni non disabili si sentono
maggiormente accettati e integrati;
 genitori, insegnanti e alunni assistiti riconoscono nel tutoring con ruoli invertiti un’efficace

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strategia operativa valida nel processo educativo degli alunni disabili.

6.4 La didattica metacognitiva

Un’altra metodologia didattica nata da ricerche nel campo della psicologia cognitiva è la didattica
metacognitiva che non utilizza materiali o metodi inediti bensì punta a far sviluppare negli allievi le
abilità mentali superiori che vanno al di là dei semplici processi cognitivi primari come leggere,
calcolare e ricordare.
Il termine metacognizione significa letteralmente “oltre la cognizione” e sta ad indicare la capacità
di “pensare sul pensiero” o meglio di poter riflettere sulle proprie capacità cognitive. Una
metodologia attraverso la quale far acquisire agli allievi la consapevolezza in ordine a ciò che sta
facendo, al perché lo fa, a quando è opportuno farlo e in quali condizioni. Attraverso l’approccio
metacognitivo l’allievo impara ad essere “gestore” diretto dei propri processi cognitivi dirigendoli
attivamente con proprie valutazioni e indicazioni operative. L’allievo acquisirebbe quella che
Flavell nel 1971 ha denominato “Metamemoria”, ovvero:

“(…) la conoscenza che l’individuo possiede circa sé stesso e gli altri in quanto organismi memorizzatori”
(Flavell, 1971, p. 272).

Occorrerà aspettare gli anni Ottanta per vedere le teorizzazioni di Flavell diventare una strategia di
intervento educativo specifica nei casi di difficoltà di apprendimento e di ritardo mentale medio e
lieve, e, solo dopo qualche anno, anche nei casi cosiddetti “normodotati” dando inizio a quella che
oggi è chiamata prospettiva metacognitiva, ossia la capacità di un individuo di saper osservare e
riflettere su ambiti specifici del proprio funzionamento psicologico. L’approccio metacognitivo,
infatti, è inserito nel quadro metodologico della “speciale normalità” perché è rivolto sia agli allievi
che hanno bisogno di interventi di recupero e sostegno individualizzato sia alla restante parte degli
allievi che non hanno bisogno di una didattica individualizzata, questo perché utilizza un comune
riferimento metodologico e una serie di collegamenti operativi tra insegnamento normale e speciale
e fra gli alunni stessi (Scataglini, Cramerotti, Ianes, 2008).
La didattica metacognitiva è una metodologia didattica che utilizza deliberatamente e
sistematicamente i vari concetti e le metodologie derivanti dagli studi sulla metacognizione che
hanno portato importanti novità anche a livello di contenuti, di obiettivi e di abilità che l’alunno
deve apprendere perché utili ai fini dell’apprendimento.
La particolarità di questa metodologia sta proprio nel concepire il processo educativo finalizzato

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alla comprensione e all’utilizzazione delle abilità stesse; l’allievo impara a interpretare, a
organizzare e a strutturare le informazioni ricevute dall’ambiente e a riflettere su questi processi per
divenire sempre più autonomo nell’affrontare nuove situazioni di apprendimento. Come hanno
sostenuto molti studiosi, attraverso l’approccio metacognitivo l’allievo acquisisce le capacità per
diventare “gestore” diretto dei propri processi cognitivi, dirigendoli attivamente con proprie
valutazioni e indicazioni operative.
L’insegnante che opera in modo metacognitivo interviene su quattro livelli diversi, che
rappresentano altrettante dimensioni ben distinte della metacognizione strettamente interconnesse
(Ashman, Conway, 1989, p.10), una vera e propria “teoria della mente”.

1° LIVELLO: CONOSCENZE SUL FUNZIONAMENTO COGNITIVO IN GENERALE.


In questo primo livello metacognitivo l’insegnante si occupa di far comprendere agli allievi come
funziona la mente umana, rispetto ai vari processi cognitivi e affettivo-emozionali, ai meccanismi
che li rendono possibili, ai limiti che necessariamente condizionano le prestazioni mentali e ai
fenomeni tipici più frequenti (Ianes, 2005).
Scopo di questa fase è far conoscere all’allievo tutta la varietà di attività differenti ma interconnesse
che sussistono nella mente umana, come: le strategie di elaborazione e immagazzinamento delle
informazioni, ma anche la loro successiva ricerca e recupero; i vari tipi di apprendimento; i vari tipi
di memoria; l’auto-osservazione delle proprie prestazioni e il confronto di queste osservazioni con
standard più o meno elevati che sono stati in parte fissati anche in base al senso di autoefficacia e al
livello di autostima; le emozioni (la paura, l’ansia, la collera e la gioia) ma anche il sogno,
l’immaginazione, il desiderio, il dubbio e il sospetto; il fare piani e progetti concreti con valutazioni
razionali dei costi e dei benefici; la presa di decisione attiva ma anche il vivere in senso
emotivamente depressivo la convinzione che “non ci si possa fare niente” e che tutto sfugga alle
nostre capacità di controllo (Ianes, 2005). Tutto questo va naturalmente spiegato adattando quanto
detto, sia dal punto di vista contenutistico sia dal punto di vista terminologico, alle capacità di
comprensione del soggetto.
Di ognuno di questi processi vanno considerati tre aspetti particolari (Ianes, 2001; Scataglini,
Cramerotti, Ianes, 2008):
 il funzionamento generale tipico (“normale”);
 il limite del processo, la sua entità, le caratteristiche e la variabilità interindividuale;
 la possibilità di influenzare attivamente lo svolgimento del processo cognitivo con strategie
di autoregolazione (ad esempio: rendersi conto che con l’uso della strategia del
raggruppamento di oggetti secondo caratteristiche comuni, aumenta in maniera significativa
la qualità del ricordo).
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In questa fase l’alunno impara tutto quello che è alla sua portata per quanto riguarda la memoria e le
strategie di elaborazione e immagazzinamento delle informazioni, viene a conoscenza dei diversi
tipi di memoria, delle rispettive caratteristiche e di quali strategie l’essere umano dispone per
migliorare le sue prestazioni mnestiche. Questo però può risultare particolarmente difficile con gli
allievi che presentano un ritardo mentale perché non sono in grado di sganciarsi da una visione del
mondo reale e concreta ed entrare nel mondo delle conoscenze astratte. Si potrebbe ovviare a questo
problema provando a spiegare agli allievi che la nostra mente è in grado di cogliere sia notizie
“vere” sia notizie “false” non giustificabili oggettivamente e razionalmente (come per esempio i
sogni, gli eventi temuti) e che la mente ha la possibilità di migliorare e funzionare meglio
cognitivamente.

1 LIVELLO 2 LIVELLO
Conoscenze sul funzionamento Autoconsapevolezza del proprio
cognitivo in generale funzionamento cognitivo
(teoria della mente). (consapevolezza personale).

4 LIVELLO 3 LIVELLO
Variabili psicologiche Uso generalizzato di strategie di
“sottostanti”: autoregolazione cognitiva
- locus of control (autodirezione).
- senso di autoefficacia
- attribuzione e credenze
generali e specifiche
- autostima
- motivazione

Facilitazione/ostacolo

Effetti a livello di rendimento


nell’apprendimento, nel problem
solving, nell’esecuzione, ecc.

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2° LIVELLO: AUTOCONSAPEVOLEZZA DEL PROPRIO FUNZIONAMENTO
COGNITIVO.
Apprese le teorie sul funzionamento della mente umana in generale l’allievo deve apprendere come
funziona la propria mente. In questa fase l’allievo deve essere aiutato a fare un lavoro di
introspezione, di autoanalisi e di autoconsapevolezza affinché possa prendere coscienza del
funzionamento dei propri processi cognitivi e comportamentali sapendone cogliere punti di forza e
punti di debolezza.
Naturalmente, fare un lavoro di autoanalisi non è semplice soprattutto per gli allievi con ritardo
mentale o con disturbi di apprendimento. Pertanto, l’insegnante, in questa fase, gioca un ruolo
molto importante poiché deve fornire dei feedback sulle prestazioni dell’allievo e deve stimolarlo a
indagare sugli aspetti connessi al proprio modo di compiere i compiti e sui processi che attiva. I
feedback, soprattutto nei casi in cui l’allievo sbaglia, al fine di salvaguardare l’autostima e la
motivazione dell’allievo non devono mai intaccare e svilire il valore della persona, ma devono
limitarsi a stimolare un’autoanalisi sui processi cognitivi implicati (Ianes, 2005). L’informazione di
ritorno (feedback sociale positivo) deve essere articolata su due livelli: una base continua di
conferme del valore essenziale della persona e un’oggettiva informazione sulle reali caratteristiche
delle varie prestazioni del soggetto. Offrendosi da guida per un’accurata analisi degli errori
commessi e delle prove superate positivamente si favorisce nell’allievo la consapevolezza di cosa
non ha funzionato correttamente in lui, o viceversa cosa ha funzionato e queste informazioni gli
saranno utili per i successivi apprendimenti.
L’insegnante deve guidare l’allievo a fare un’analisi sistematica degli errori commessi, delle
situazioni affrontate e risolte in modo tale che l’alunno possa comprendere cosa non ha funzionato
o, al contrario, ha funzionato. Per far ciò è possibile far pensare ad alta voce l’allievo e registrare le
sue verbalizzazioni in modo da poter riascoltare in un secondo momento il flusso di valutazioni,
ipotesi e decisioni che lo hanno condotto a una soluzione piuttosto che ad un’altra. Per far prendere
coscienza agli allievi che non c’è solo un unico modo per risolvere un problema e che ci sono
processi comuni è possibile anche far ascoltare le verbalizzazioni di altri compagni e fare dei
paragoni con le proprie; questo gli permetterà di capire che è possibile dare risposte diverse in
funzione di diverse variabili contestuali (Scataglini, Cramerotti, Ianes, 2008).
Con gli allievi che presentano significative limitazioni cognitive si lavora per il raggiungimento di
obiettivi minimi di autoconsapevolezza. L’insegnante con questi allievi può cominciare con
l’osservazione guidata e sistematica di caratteristiche di sé, del proprio corpo e delle sue funzioni,
gradualmente introdurre operazioni di auto osservazione e automonitoraggio delle azioni di vita
quotidiana e successivamente, se l’allievo risponde bene, sarà in grado di fare un automonitoraggio

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delle sue prestazioni e di fare autoanalisi come per esempio quanta attenzione è riuscito a prestare
nelle differenti ore di lezione, di quanto tempo ha bisogno per indossare i differenti indumenti,
quale lode gli piace maggiormente ricevere; l’importante è che pur non essendo sempre semplice
farlo si lavori affinché l’alunno impari a guardare dentro di sé (Ianes, 2005).

3° LIVELLO: USO GENERALIZZATO DI STRATEGIE DI AUTOREGOLAZIONE


COGNITIVA.
Superati i livelli precedenti l’allievo diviene capace, durante tutto lo svolgimento di un compito
concreto d’apprendimento, di applicare le conoscenze acquisite sui propri processi cognitivi, in
modo da dirigere consapevolmente e attivamente lo svolgersi dei propri processi cognitivi; deve
sapersi autoregolare ovvero gestire autonomamente i processi di memorizzazione e problem
solving.
Autoregolare un qualsiasi processo cognitivo significa (Ianes, 2005):
 fissarsi un chiaro obiettivo di funzionalità ottimale del processo stesso, in termini di risultati
che esso deve produrre, oltre che rispetto al “come” dovrebbe svolgersi;
 darsi delle istruzioni, dei suggerimenti o aiuti per svolgere concretamente le operazioni
tipiche del processo stesso;
 osservare l’andamento del processo stesso, raccogliere dati sui risultati prodotti e renderli
disponibili per una successiva valutazione;
 confrontare questi dati prodotti con gli obiettivi e gli standard che precedentemente si erano
fissati;
 valutare come positivo lo svolgimento delle varie operazioni richieste se il confronto ha dato
esiti positivi e dunque perseverare nelle operazioni intraprese oppure nel caso contrario
valutare come negativo e insoddisfacente il proprio operato e attivare correzioni appropriate
e modifiche alle strategie in corso.
Sintetizzando è possibile affermare che l’allievo deve essere in grado di gestire processi di
autosservazione, di autodirezione e di autovalutazione. Attraverso la didattica metacognitiva sia gli
allievi per così dire normodotati sia gli allievi con Bisogni Educativi Speciali, riescono ad attivare e
ad acquisire la consapevolezza del processo di autoregolazione nello svolgimento di operazioni di
apprendimento, memorizzazione o problem solving.
Ashman e Conway (1989) hanno messo in evidenza che l’approccio metacognitivo risulta
particolarmente efficace con i soggetti con disturbi dell’apprendimento perché uno dei fattori
causali alla base delle loro difficoltà è proprio l’incapacità di usare strategie adeguate alla soluzione
del compito. L’allievo quando utilizza un approccio metacognitivo per risolvere un problem solving

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attraversa una serie di step che Ianes (2001) individua in:
 riconoscere il compito (problem solving);
 ricordare quali funzioni cognitive sono coinvolte nel problem solving e quali operazioni
sono richieste (derivando ciò dalla conoscenza metacognitiva del funzionamento della mente
umana);
 ricordare quale metodo e sequenza di operazioni sono richieste dal problem solving;
 essere consapevole delle proprie debolezze nel problem solving (conoscenza derivata
dall’autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo);
 elaborare strategie di auto-aiuto per lo svolgimento corretto del problem solving;
 osservare e valutare i propri progressi.
Gli studi sui processi e sulle strategie di controllo cognitivo che nel corso degli anni si sono
susseguiti sono numerosi e tutti hanno evidenziato modalità metacognitive di autoregolazione che si
sono dimostrate utili sul piano didattico. Cornoldi (1990) ad esempio presenta dei processi
metacognitivi di controllo, che possono essere insegnati direttamente come abilità di studio, oppure
inseriti all’interno del lavoro didattico in una specifica disciplina, essi sono:
 problematizzazione (riconoscimento del fatto che esiste un problema);
 comprensione e definizione del problema-compito (valutarne la difficoltà);
 collegamento di quel particolare compito ad altri simili;
 attivazione delle conoscenze precedenti implicate in quel tipo di compito;
 integrazione delle varie informazioni provenienti da fonti diverse;
 definizione del livello di performance atteso;
 generazione delle alternative per la soluzione del problema;
 esame delle alternative e decisione rispetto alle azioni da compiere;
 applicazione del piano strategico di soluzione che è stato scelto;
 inibizione delle alternative che per il momento non si vogliono attivare;
 raccolta e valutazione dei feedback (automonitoraggio);
 valutazione della distanza dalla soluzione;
 aggiustamenti del piano che si sta seguendo;
 decisione di quando è opportuno sospendere l’esecuzione del piano;
 valutazione dei risultati finali;
 autovalutazione e autorinforzamento;
 spiegazione di un eventuale insuccesso;
 decisione di riprovare o predisporre un piano strategico alternativo.

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Anche Nisbet e Shucksmith (1986, in Ianes, 2005) hanno individuato delle strategie, quali per
esempio il rivolgersi delle domande (formulare ipotesi, definire obiettivi, mettere questo compito in
relazione con altri, ecc.), il planning-programmazione (decidere tattiche specifiche e scadenze,
ridurre il problema in sottoproblemi più accessibili, definire quali abilità mentali e fisiche sono
necessarie, ecc.), il monitoraggio (continuo sforzo per mettere in relazione gli sforzi compiuti e i
risultati con le domande iniziali e i relativi obiettivi), la verifica (valutazione in itinere della
performance e dei risultati), la revisione delle strategie usate o degli obiettivi e l’autovalutazione
(valutazione finale sia dei risultati sia della performance). Essi, inoltre, ritengono che queste
strategie possano essere organizzate in modo gerarchico su tre livelli, da quelle più generali a quelle
più specifiche, nel modo seguente: un primo livello di strategia centrale, un secondo livello di
macrostrategie, e infine un terzo livello di microstrategie.
Uno degli studi più recenti sulle strategie di controllo metacognitivo è quello di Derry (1990, in
Ianes, 2005) il quale classifica le strategie che secondo lui sono utili nello studio e
nell’apprendimento autogestito in tre grandi categorie:
1 Strategie per l’acquisizione di conoscenze di base legate ai contenuti:
 focalizzazione dell’attenzione e cioè uso strategico dell’attenzione selettiva per contrastare
la tendenza alla distrazione (ad esempio, sottolineare le informazioni importanti);
 costruzione di schemi che organizzano l’informazione (ad esempio grafici, mappe, ecc.) a
beneficio sia della comprensione concettuale sia del successivo ricordo;
 monitoraggio continuo dell’avvenuta comprensione, con immediata consapevolezza della
perdita di significato e relativa richiesta di chiarificazione o aiuto (ad esempio, rivolgersi
frequentemente delle domande di verifica sulla comprensione oppure fermarsi ogni tanto
nella lettura, prendere appunti e fare dei piccoli riassunti);
 strategie di elaborazione delle nuove informazioni attraverso le quali esse siano messe in
relazione significativa con conoscenze precedentemente apprese e ben ricordate, anche
attraverso immagini, collegamenti logici o qualsiasi altra tattica che riesca a connettere in
modo sicuro il nuovo materiale ad altre informazioni già stabilmente immagazzinate nella
memoria a lungo termine e di facile accesso e recupero.
2 Strategie per il perfezionamento dei livelli di competenza raggiunti.
Di questa categoria fanno parte le strategie che consentono di perfezionare le abilità acquisite,
ad esempio attraverso un’analisi approfondita degli schemi concettuali che costituiscono
l’essenza interna di un’abilità, ovvero, fare ipotesi e chiedersi il perché su strategie di base
apprese in modo meccanico. Oppure un’altra strategia utilizzabile è quella del confronto
continuo delle proprie prestazioni con quelle di un modello più abile, per migliorare

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progressivamente le proprie capacità.
3 Strategie per potenziare la motivazione.
A questa categoria appartengono le strategie che consentono di semplificare un compito
suddividendolo in parti più accessibili e di auto rinforzarsi sistematicamente anche per piccoli
passi compiuti in direzione della meta finale. Altre strategie, a carattere psicologo, che possono
essere utilizzate sono quelle dell’autocontrollo dell’umore e degli stati emotivi, che possono
influenzare in modo determinante la prestazione cognitiva.
Quando si utilizza la metodologia metacognitiva con gli allievi che presentano gravi limitazioni
cognitive è molto più proficuo, come sostiene Ianes (2005), insegnare una strategia sistematica e
paziente di problem solving che si svolga secondo le seguenti fasi:
1. Definire il problema, in cosa consiste cioè l’ostacolo all’azione abituale e quale sarà
l’obiettivo da raggiungere.
2. Pensare una gamma di ipotesi di soluzione il più possibile ampia, attivando al massimo la
creatività (brainstorming).
3. Valutare razionalmente i pro e i contro di ogni ipotesi pensata e definirne la fattibilità e la
probabilità di successo.
4. Scegliere l’ipotesi di soluzione probabilmente più efficace, sulla base delle valutazioni
svolte nel punto precedente.
5. Applicare concretamente questo tentativo di soluzione.
6. Verificarne gli esiti; in caso positivo continuare l’applicazione, in caso negativo
ricominciare da capo il processo di problem solving.

4° LIVELLO: VARIABILI PSICOLOGICHE “SOTTOSTANTI”.


Il potere di intervento, di autoregolazione e il problem solving di ciascun soggetto sono fortemente
influenzati da alcune variabili psicologiche legate all’immagine di sé sviluppate dall’alunno quali
per esempio gli stili di attribuzione (locus of control), l’autostima, la percezione di autoefficacia4 e
la motivazione. Questi condizionano la capacità dell’allievo di adottare un atteggiamento
metacognitivo e di attivare processi metacognitivi di controllo. Risulta, quindi, di fondamentale
importanza che l’insegnante adotti linee d’azione che tengano in considerazione queste variabili al
fine di aiutare l’allievo a sviluppare una percezione positiva di sé, come persona capace di ottenere
successo nei processi d’apprendimento e a sfatare l’idea che il successo è legato alla fortuna o
all’aiuto che si può ricevere e quindi a fattori attribuibili all’esterno di sé. Un alunno, infatti, in
funzione dello stile attribuzionale può caratterizzarsi (Sasso, 2003):
4
Il concetto applicato all’apprendimento sta ad indicare la convinzione che ogni allievo possiede sulla propria capacità
di raggiungere i livelli desiderati nell’esecuzione dei compiti.

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 con un’alta attribuzione verso l’impegno (questo è lo stile più funzionale
all’apprendimento);
 con un’alta attribuzione all’abilità (“riesco perché sono bravo, quindi non occorre che mi
impegni”);
 con una bassa attribuzione all’abilità (“non diventerò mai capace, quindi sono un fallito!”);
 con un’alta attribuzione fatalista (“le cose vanno come vanno e non si possono
controllare!”).

stili di attribuzione o locus of control


Il concetto di locus of control è stato introdotto da Rotter nel 1966 e fa riferimento alla tendenza
dell’allievo ad attribuire le cause dei propri successi ed insuccessi a fattori interni, come il proprio
impegno, o a fattori esterni, come la fortuna o l’eventuale aiuto fornito da un educatore. Se un
allievo tende ad attribuire la responsabilità dei suoi successi o insuccessi a eventi esterni e quindi
non controllabili da lui, ha un locus control distorto che si manifesterà in un evidente atteggiamento
di passività; “non posso farcela, perché non dipende da me” è l’espressione più comune. In questi
casi occorre far riflettere gli allievi sul rapporto tra la propria attività svolta, gli effetti prodotti da
questa e quelli invece attribuiti a fattori esterni e dargli il giusto sostegno psicologico affinché
accettino i propri limiti e le proprie capacità (Ianes, 2005).

Senso di auto efficacia


Secondo i cognitivisti il senso di auto efficacia è una variabile che gioca un ruolo di cruciale
importanza nell’influenzare positivamente o negativamente la capacità di autoregolare il proprio
apprendimento e la propria motivazione (Bandura, 2000) e consiste nella convinzione delle proprie
capacità di raggiungere il successo nell’esecuzione di un compito e quindi la convinzione di essere
capace a svolgerlo. Il senso di autoefficacia è costituito da un’infinità di fattori, ma risente
fortemente, come sostiene Schunk (1990), dell’atteggiamento ottimistico dell’insegnante. Un
insegnante che mostra fiducia all’allievo e lo aiuta a rimodellare le proprie percezioni individuali
trasmette, usando un termine caro alla psicologia di comunità, empowerment psicologico; pertanto
la programmazione deve prevedere delle attività che possano far vivere all’allievo concrete
esperienze di efficacia (Scataglini, Cramerotti, Ianes, 2008).
Se l’allievo, a causa anche di una programmazione scorretta, è esposto in modo prolungato e
ripetuto a situazioni negative e reputate come incontrollabili svilupperà, invece dell’autoefficacia,
l’impotenza appresa (Abramson et al., 1978), che si riferisce ad un atteggiamento rinunciatario,
poco propenso a cercare di modificare il corso degli eventi; una condizione molto pericolosa e

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molto penalizzante per l’apprendimento e l’integrazione sociale dell’alunno.

Autostima
L’autostima è stata definita da William James come il rapporto tra il Sé percepito, che equivale al
concetto di sé, alla conoscenza delle abilità, delle caratteristiche e delle qualità che sono presenti o
assenti in un soggetto, e il suo Sé ideale che equivale all’immagine della persona che ci piacerebbe
essere. La discrepanza tra come un soggetto si vede e come vorrebbe essere indica il grado in cui
siamo soddisfatti di noi stessi; se la discrepanza è piccola l’autostima sarà alta. L’autostima è,
quindi, un’altra importantissima variabile psicologica che si collega a una fitta rete di rimandi e che
è quotidianamente alimentata dagli insegnanti. Graham e Baker (Scataglini, Cramerotti, Ianes,
2008) hanno, per esempio, dimostrato che ogni qual volta è dato un aiuto a un allievo senza che
questo ne faccia esplicita richiesta l’allievo si percepisce diverso e inferiore rispetto ai compagni e,
quindi, questo genera una sofferenza psicologica a livello di autostima. Per tale ragione occorre
programmare secondo il principio della “speciale normalità” utilizzando materiali il più possibile
uguali a quelli dei compagni e porsi nei loro confronti con lo stesso atteggiamento. Altrettanto
importante per l’autostima è il vivere relazioni interpersonali significative in grado di confermare il
valore dell’alunno; un alunno che si sente stimato seguirà con maggiore interesse e impegno le
indicazioni di un insegnante.

Motivazione
Un’altra variabile psicologica molto importante che influisce sul processo d’apprendimento è la
motivazione la quale è strettamente interconnessa con il complesso sistema di attribuzioni e con la
percezione di autoefficacia. Una buona autostima e una’spettativa di successo contribuiscono allo
sviluppo di una maggiore motivazione e di una condizione di competenza e autoefficacia ottimali
per affrontare i compiti proposti.
La motivazione è

“(…) un processo di attivazione dell’organismo finalizzato alla realizzazione di un determinato scopo in


relazione alle condizioni ambientali” (Anolli e Legrenzi, 2001)

e va distinta in intrinseca ed estrinseca. La prima consiste nello svolgere un’attività perché è


gratificante per se stessi, mentre la seconda porta ad impegnarsi in particolari compiti in relazione
alla possibilità di conseguire gratificazioni o rinforzi esterni (come lodi, approvazioni pubbliche,
doni, ecc.). Come sostengono Anolli e Legrenzi (2001), la motivazione intrinseca è più duratura ed
efficace, ma stimolarla in allievi con disabilità cognitiva o con difficoltà d’apprendimento risulta

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più complesso. Una strategia può essere quella di utilizzare materiali didattici che possono suscitare
interesse negli alunni o che comunque gli permettono di ottenere dei successi; in questo modo si
rende l’impegno nell’apprendimento gratificante e si sviluppa la motivazione intrinseca.
L’acquisizione di un buon livello di motivazione porta l’allievo a resistere maggiormente alla
frustrazione e alla dilazione della gratificazione che si connettono sempre al tentativo di perseguire
apprendimenti complessi; il soggetto riesce, in altre parole, a tollerare vari tentativi andati a vuoto
senza abbandonare la situazione (Ianes, 2005).
L’alunno si trova costantemente a dover fare i conti con i messaggi verbali ricevuti dal mondo
adulto e le autogratificazioni che spontaneamente si dà, ciò fa scaturire quello che gli esperti
chiamano dialogo interno motivazionale.
L’allievo deve sviluppare una “immagine di sé come persona che apprende”, che entra in rapporto
con le caratteristiche più profonde della sua generale immagine e valutazione di sé.
I quattro livelli metacognitivi fin qui discussi costituiscono altrettante dimensioni di analisi e di
lavoro didattico-educativo con una propria identità e caratterizzazione che devono essere ben
distinte ma che si attivano e funzionano in modo integrato e interconnesso.
Fornendo a un allievo delle informazioni generali sul funzionamento della mente (1° livello) questo
potrà osservarsi in modo nuovo e capire cose interessanti su di sé (2° livello) e da questa riflessione
pianificare una strategia di autoregolazione cognitiva (3° livello). Di conseguenza utilizzando la
strategia di autoregolazione cognitiva avrà modo di verificare la bontà dell’utilizzo stesso della
strategia e si convincerà della sua utilità e questi risultati daranno all’alunno fiducia nelle proprie
capacità di controllare una parte della sua vita mentale che riteneva “non gestibile” (4° livello).
È facile intuire quindi l’importanza di avere un approccio integrato che affronti tutti e quattro i
livelli metacognitivi, ovvero, conoscenza generale, introspettivo personale, strategico autoregolatore
e psicologico più profondo (Scataglini, Cramerotti, Ianes, 2008).
L’approccio metacognitivo risulta efficace sia per l’affinamento di competenze trasversali, come
l’attenzione, la memoria, il metodo di studio, sia per l’apprendimento di abilità più prettamente
curricolari, come la lettura e comprensione del testo, la matematica e la scrittura. L’efficacia della
metodologia è stata, inoltre, riscontrata anche con gli allievi con Bisogni Educativi Speciali, e in
particolare con gli allievi con deficit d’attenzione e iperattività, difficoltà di apprendimento, ritardo
mentale e autismo.
In letteratura è possibile trovare numerosi studi che testimoniano l’efficacia della metodologia
metacognitiva con allievi con disabilità cognitiva e con i soggetti autistici in quanto presentano un
deficit o un ritardo nello sviluppo di una corretta teoria della mente.
Ad occuparsi dell’ideazione di programmi di intervento ispirato ai principi della teoria della mente

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sono stati Howlin, Baron-Cohen e Hadwin (1999). Secondo gli autori occorre far apprendere ai
soggetti autistici come leggere la mente e per farlo hanno previsto l’insegnamento progressivo degli
stati mentali in tre aree:
 le emozioni: aiutare i soggetti autistici a discriminare e riconoscere le diverse emozioni su di
sé e sugli altri;
 il sistema delle credenze e delle false credenze; insegnare gli “stati informativi”, che
descrivono la capacità di comprendere come e che cosa le altre persone possono percepire,
conoscere e credere in relazione ad una determinata situazione;
 il gioco simbolico, con particolare riferimento al gioco di finzione.
Le proposte di intervento per ciascuna delle tre fasi proposte sono organizzate in cinque livelli. Per
quanto riguarda la prima fase delle emozioni i livelli sono:
 riconoscimento delle espressioni del viso nelle fotografie;
 riconoscimento delle emozioni in disegni schematici;
 identificazione delle emozioni causate da situazioni;
 identificazione delle emozioni causate dal desiderio;
 identificazione delle emozioni causate da opinioni.
Il secondo livello del programma di Howlin (1999) si indirizza all’insegnamento dei cosiddetti
“stati informativi”, che descrivono la capacità di comprendere come e che cosa le altre persone
possono percepire, conoscere e credere in relazione ad una determinata situazione, e anche in questo
caso il programma è articolato in cinque livelli:
 capacità di comprendere cosa vedono le altre persone (prospettiva visiva semplice);
 capacità di comprendere come la realtà percepita appare alle altre persone (prospettiva
visiva complessa);
 capacità di comprensione del principio “vedere porta a sapere”;
 capacità di prevedere azioni sulla base di ciò che una persona sa;
 capacità di comprendere le false credenze.
L’ultimo livello del programma Howlin, Baron-Cohen e Hadwin (Cottini, 2012, p. 174) riguarda
uno degli aspetti più problematici nei soggetti autistici, ovvero, il gioco simbolico e anche in questo
caso il programma è articolato in cinque livelli:
 gioco senso-motorio;
 gioco funzionale emergente;
 gioco funzionale acquisito;
 gioco del far finta emergente e distinzione fra realtà e finzione;
 gioco del far finta acquisito.
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6.5 Il metodo operativo: il laboratorio

Il termine laboratorio deriva da laborare e il laboratorium era essenzialmente un luogo fisico nel
quale si svolgevano attività di tipo artigianale. Oggi questo termine è utilizzato sia per indicare un
luogo fisico a sé stante, approssimativamente attrezzato (come per esempio il laboratorio
informatico, il laboratorio linguistico, il laboratorio chimico, ecc.), sia per indicare un modo di fare
scuola di tipo euristico, ovvero che promuove un insegnamento basato sulla ricerca e sul fare non
esclusivamente speso nello spazio e nel tempo dedicato al laboratorio, ma altrettanto diffuso nel
gruppo classe, all’interno della quota obbligatoria (Tessaro, 2002).
I primi riferimenti al laboratorio come luogo/modalità del fare e dell’apprendere in cui l’alunno è
protagonista del suo apprendimento sono leggibili nell’opera Didactica Magna, scritta fra il 1627 e
il 1657 da Jan Amos Komenski e nell’opera Come Gertrude istruisce i suoi figli scritta nel 1801 da
Enrico Pestalozzi, ma il vero sviluppo si ebbe nel 1896 con la fondazione a Chicago, da parte di
John Dewey, della Scuola Laboratorio in cui l’esperienza fu alla base di ogni sviluppo di pensiero.
Alla Scuola Laboratorio appartennero due importanti esponenti della scuola attiva quali Ovide
Decroly e Maria Montessori. Entrambi usavano il metodo laboratoriale per le materie scientifiche e
per la matematica e per favorire il passaggio dal concreto all’astratto la Montessori si avvaleva di
materiale mentre il Decroly dell’osservazione della natura.
Con l’introduzione del metodo laboratoriale il metodo deduttivo, secondo cui si apprende prima
studiando e poi, eventualmente, verificando nella pratica, non è più il solo metodo per imparare, ma
si può apprendere facendo. Come afferma Moscato (1999) il “fare” che genera apprendimento non
è mai separato dal sapere e le due intelligenze, quella della mano e quella della mente, si muovono
integrandosi, interagendo e potenziandosi a vicenda.
Come si legge in La didattica laboratoriale di Boscarino (2004):

“(…) non c’è auditorium senza laboratorium, non esiste pensare teoretico senza fare tecnico e senza agire
pratico, non c’è astratto senza concreto, non esiste esercizio che non abbia la possibilità di essere vissuto e
pensato come problema, né discipline «forti» senza quelle «deboli», né scienze taumaturgiche e
autosufficienti che educhino qualcuno di per sé senza che questo qualcuno le capisca e le ami, così come
non esiste disciplinarietà che sia pura e non abbia filtrazioni impure: e ovviamente non esiste neanche il
reciproco di queste affermazioni”.

L’obiettivo primario e trasversale a tutti i laboratori è quello di coniugare il sapere (la conoscenza),
il sapere essere (le abilità) e il saper fare (l’agire intenzionale e consapevole) (Polito, 2000). Il fare
che viene attivato attraverso la didattica laboratoriale è un fare oltre che manuale anche cognitivo,

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perché stimola un sapere molto più complesso che abbraccia sia il sapere della mano sia il sapere
della mente.
Nel laboratorio sono generalmente utilizzate tecniche attive che, insieme ai mezzi e agli strumenti,
servono a promuovere la partecipazione diretta degli studenti e a creare un ambiente armonico e
positivo ed anche ludico e ricreativo. In un laboratorio, inoltre, è applicata la metacognizione
perché il processo di apprendimento che si attiva non incide solo sulle abilità di base acquisite ma
anche su come vengono comprese ed utilizzate e, inoltre, il laboratorio è anche l’ambiente in cui
l’insegnamento/apprendimento si fonda sulle interazioni fra i soggetti coinvolti così come accade
nell’approccio cooperativo.
Così come per la didattica cooperativa nella didattica laboratoriale è importante far lavorare tutti gli
allievi del gruppo classe, nessuno escluso, pertanto occorre trovare progetti, problemi, compiti,
scenari narrativi, lezioni e spiegazioni che permettano la partecipazione di tutti. Ciò è importante
perché gli allievi, portando il proprio contributo, si sentono parte attiva del gruppo e questo genera
dei successi sul piano cognitivo, sul piano affettivo e sul piano sociale (Boscarino, 2004).
Secondo Munari (1993) un processo di conoscenza attraverso l’azione (epistemologia operativa)
deve possedere alcune importanti caratteristiche quali:
 l’attività proposta nel laboratorio deve poter essere manipolata concretamente: non è
sufficiente un’attività puramente verbale senza il passaggio all’esperienza reale;
 l’attività proposta deve prevedere delle operazioni cruciali: devono essere chiare le
operazioni che devono essere fatte per cui l’insegnante deve avere molto chiara la
procedura che intende svolgere;
 l’attività proposta non deve avere una soluzione unica: l’azione proposta deve dare la
possibilità agli allievi di vagliare più risposte e più soluzioni. Al contrario, qualora ci fosse
un’unica soluzione, il laboratorio si ridurrebbe ad un algoritmo applicativo;
 l’attività proposta deve provocare uno “spiazzamento” cognitivo: attraverso l’esperienza
laboratoriale l’allievo deve scoprire qualcosa di nuovo e creare dissonanza tra le vecchie
conoscenze e le nuove;
 l’attività proposta si deve situare ad una giusta distanza dalle conoscenze possedute: le
competenze necessarie per lo svolgimento delle attività del laboratorio non possono essere
molto distanti da quelle che l’allievo già possiede, altrimenti si rischia che l’allievo proceda
per prove ed errori;
 le attività devono comportare diversi livelli di interpretazione: attraverso il laboratorio gli
allievi devono imparare metodi che possono applicare in altre situazioni e per far ciò è
necessario stimolarli a prendere in considerazione prospettive differenti;

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 le attività devono possedere valenze metaforiche: attraverso le attività laboratoriali gli
allievi devono fare riferimento ad esperienze lontane ed eterogenee;
 le attività devono coinvolgere il rapporto dello studente con il sapere: nel laboratorio
l’azione e le riflessioni si intersecano con il sapere individuale attraverso processi retroattivi
e proattivi.
Nel laboratorio l’insegnante come si legge in Rodari (1972, p.182-183) si:

“(…) trasforma in un animatore. In promotore di creatività. Non è più colui che trasmette un sapere bell’e
confezionato, un boccone al giorno; un domatore di puledri; un ammaestratore di foche. È un adulto che sta
con i ragazzi per esprimere il meglio di se stesso, per sviluppare anche in se stesso gli abiti della creazione,
dell’immaginazione, dell’impegno costruttivo in una serie di attività che vanno ormai considerate alla pari”.

L’insegnante deve essere per i propri allievi un accompagnatore, un tutor e un consulente che
costantemente deve stimolare e incoraggiare ciascun alunno ad esprimersi. Egli deve, inoltre,
indirizzare gli alunni verso la ricerca di soluzioni, valorizzare le abilità dei singoli, indirizzare gli
alunni verso la scoperta, fornire “sostegno tecnico” e motivare. Per quanto concerne le scelte
didattiche ed educative l’insegnante deve programmarle preventivamente e dichiarare
esplicitamente agli allievi questo.

6.6 Il metodo individualizzato: il Mastery Learning

Negli anni Sessanta ad opera di un gruppo di psicologi e pedagogisti statunitensi, fra i quali Bloom,
Carroll, Airasian e Block, è nato il mastery learning traducibile come “apprendimento per la
maestria o per la padronanza” che consiste in una metodologia di azione didattica: esso parte dal
presupposto che l’esistenza o meno di differenze nelle capacità o nel profitto degli allievi è “un
falso problema” e mira a un apprendimento efficace per il più alto numero di allievi (Tessaro,
2002).
L’idea di fondo del mastery learning è legata alla possibilità di ognuno di dedicare allo sviluppo
delle conoscenze e delle competenze una particolare lunghezza del tempo riservato al
raggiungimento di un’abilità (Sasso, 2003); pertanto differenti soggetti hanno bisogno di differenti
quantità di tempo per apprendere e in condizioni favorevoli vi può essere uguaglianza di
apprendimento. Carroll (in Tessaro, 2002, p. 162) sosteneva a riguardo che il livello di
apprendimento dipende da almeno cinque fattori quali:
1. il tempo concesso;
2. la perseveranza;

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3. le attitudini individuali;
4. la qualità dell’azione didattica;
5. la capacità di comprensione.
Ogni allievo, sia esso diversamente abile o per così dire normodotato, presenta delle differenze di
capacità, di attitudini, di ritmi di apprendimento, di motivazioni, determinate dall’ambiente di
apprendimento (familiare, scolastico, sociale) e quindi non irreversibili; come sostiene Bloom “(…)
non bisogna accontentarsi della selezione dei talenti ma bisogna riuscire a sviluppare i talenti”.
Il mastery learnig è una metodologia didattica che consente di variare la qualità, la quantità e il
tempo d’istruzione per rispettare le diversità individuali nei ritmi e nei tempi di apprendimento degli
allievi.
Block (1972) determinò cinque modalità per insegnare per padronanza (Sasso, 2003):
 definizione operativa degli obiettivi: l’insegnante deve individuare obiettivi chiari e analitici
che devono rappresentare gli scopi di una materia o di una macro unità e che definiscono la
padronanza delle abilità che il soggetto dovrà raggiungere al termine dell’intervento
didattico;
 frazionamento dell’argomento in micro unità di apprendimento (MUA): l’insegnante deve
stabilire una successione di micro unità e per ognuna di esse gli obiettivi e le prove di
valutazione;
 identificazione del materiale didattico di apprendimento e delle strategie di insegnamento;
 verifica dell’apprendimento dell’alunno prima di intraprendere ogni unità di apprendimento
individuata; gli allievi che non hanno conquistato il minimo indispensabile di dominio delle
conoscenze e delle competenze previste dall’unità non affrontano l’unità successiva;
 strutturazione di attività integrative e di recupero da proporre a quegli allievi che dalla
verifica degli apprendimenti risultano non aver raggiunto ancora i livelli intermedi di abilità
nelle singole unità didattiche.
Ogni allievo ha quindi un tempo personale per passare da una sotto-unità d’apprendimento alla
successiva sotto-unità finché non diviene padrone del materiale di apprendimento precedente che
rappresenta il prerequisito per apprendere quella successiva. Una macro-unità dura circa due
settimane e al termine l’insegnante sottopone gli allievi alla valutazione per accertarsi
dell’apprendimento per eventualmente dare istruzioni correttive per gli errori comuni.
Il mastery learning si articola in due fasi, la fase di progettazione durante la quale l’insegnante
identifica gli apprendimenti attraverso l’analisi componenziale del compito (task analysis), i
prerequisiti per lo sviluppo delle abilità e lo sviluppo di argomenti, strategie e materiali efficaci, e la
fase dell’insegnamento vero e proprio. La figura 1, tratta da Progettare e sostenere l’integrazione di

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Sasso (2003), presenta graficamente il processo psico-didattico del mastery learning.
Utilizzando la metodologia del mastery learning l’insegnante durante lo svolgimento della lezione
deve, attraverso dei “segnali”, focalizzare l’attenzione degli alunni sulla lezione, creare una struttura
organizzativa per le idee e i principi o l’informazione che segue, e sviluppare la motivazione per i
compiti di apprendimento.

A C
Elementi costanti delle due fasi: U O
 i vari feedback; T N
 la valutazione formativa; O T
 la partecipazione attiva degli alunni. V R
A O
L L
Analisi Individuazione di segnali U L
componenziale per focalizzare T O
del compito l’attenzione e sviluppare A
la motivazione Z P
I E
O R
- Chiarezza degli obiettivi di N
apprendimento (contenuti); E L
Progettazione di - Descrizione dettagliata
una lezione A
degli obiettivi di Modalità multiple di
apprendimento; apprendimento (MMA): C
- Verifica dei prerequisiti- metodi, strategie, O
abilità possedute e materiali, tempi. M
difficoltà in condizione di P
essere superate R
(valutazione diagnostica). E
N
S
I
Individuazione di un nuovo Accertamento O
Curriculum sistemico di tipo
traguardo formativo. N
formativo. E

Ulteriore traguardo
formativo

Riorganizzazione
Accertamento di
tipo formativo
del percorso di
apprendimento.

FASE DELLA FASE DELL’INSEGNAMENTO


Figura 1: Il processo psicodidattico del Mastery Learning tratto da Sasso (2003).

Il processo di istruzione può essere condotto utilizzando modalità multiple di apprendimento


(MMA) (Sasso, 2003):
 gli input: sono delle informazioni che l’insegnante può dare per favorire lo sviluppo di
conoscenze e abilità. A livello metodologico sono usate le lezioni frontali, i film, le figure e
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le registrazioni video e audio;
 il modeling: l’insegnante dopo aver presentato il materiale esegue concretamente l’azione
che l’alunno dovrà fare e poi gli chiede di imitare l’azione che ha osservato. A livello
metodologico è usato il problem solving, la comparazione e la categorizzazione;
 il work together: l’insegnante esorta l’allievo ad aiutarlo e a fare il lavoro insieme;
 la guided practice: l’insegnante guida l’allievo nell’esecuzione del lavoro;
 l’indipendent practice: sono attività in cui gli studenti hanno l’opportunità di partecipare
attivamente, di applicare l’apprendimento e sperimentare il successo in modo indipendente.
Durante il processo di insegnamento-apprendimento l’insegnante deve sempre effettuare il controllo
della comprensione (Checking for understanding), ovvero deve verificare gli apprendimenti
posseduti dagli studenti. Ogni volta che l’insegnante deve proporre un esercizio, prima deve
conoscere il grado di comprensione degli studenti e qualora l’allievo risultasse non possedere il
concetto o l’abilità indagata dovrà riproporre un altro “test” compensativo prima di passare alla
parte pratica (Sasso, 2003). Effettuando un accertamento sistematico durante il percorso formativo
l’insegnante potrà monitorare l’apprendimento dell’allievo e adattare l’azione didattica alle sue
esigenze individuali ed eventualmente ricorrere a procedure didattiche compensative.
Durante la fase successiva l’apprendimento è integrato con le attività e le aspettative in un tutto
significativo. L’insegnante in questa fase deve aiutare l’alunno a riorganizzare quanto appreso e ad
integrarlo alle conoscenze già apprese; pertanto l’insegnante può sintetizzare quanto hanno appreso,
aiutare gli allievi a organizzare l’apprendimento o ancora costruire una mappa cognitiva per togliere
ogni dubbio.
Successivamente è possibile fare la valutazione sommativa, che si trova nel campo della
progettazione perché, secondo Tartarotti (1989, p.188) effettuata la valutazione del processo
didattico “temporalmente definito o un suo significativo segmento, è possibile tener conto degli
apprendimenti specifici prodotti dall’alunno, cioè il grado di conseguimento di quegli obiettivi
finali o intermedi per i quali l’intero progetto didattico è stato progettato e realizzato”.
I risultati che l’allievo ha raggiunto possono essere considerati, a questo punto del processo, come
un traguardo del curriculum, ovvero dell’intervento educativo organizzato dall’insegnante. Avendo
raggiunto un traguardo si potrà procedere all’individuazione di un nuovo traguardo a partire dal
curriculum e alla progettazione delle lezioni per far raggiungere all’allievo il traguardo.
Gli insegnanti che adottano la strategia del mastery learning procedono per unità didattiche e questo
rende possibile l’articolazione di percorsi differenziati che risultano funzionali a garantire agli
allievi in difficoltà o diversamente abili il raggiungimento di traguardi formativi ritenuti obbligatori
e indispensabili a tutti (Milito, 2002). Ciò che è certo è che una didattica organizzata in moduli e

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unità didattiche è una didattica attenta agli allievi che presentano difficoltà: essa richiede
all’insegnante un’analisi disciplinare per individuare i nuclei fondanti e i legami.
L’utilizzo di questa metodologia didattica può essere molto efficace con gli allievi in situazione di
handicap, con gli allievi con disturbi d’apprendimento più o meno gravi o anche temporanei, o
anche per l’addestramento per specifiche abilità operative.

6.7 Il metodo euristico-partecipativo: la ricerca-azione

La scuola negli ultimi anni ha preso in prestito dalla psicologia sociale una metodologia denominata
action-research, che in italiano significa ricerca-azione.
La ricerca-azione è stata introdotta da Lewin negli anni Quaranta come metodologia di intervento
nel sociale e può essere definita come un metodo che

“(…) ingloba i diversi attori di un sistema in un medesimo progetto d’azione” (Pourtois, 1984, in Becchi,
Vertecchi, 1984).

Tale metodologia ha trovato applicazione in differenti settori dando origine a diversi modelli di
intervento, alcuni dei quali sono, per esempio, la ricerca-intervento, l’action learning (Cartoccio,
Forti, Varchetta, 1988) la formazione-intervento (Di Gregorio, 1994), la ricerca d’aula
(Bruscaglioni, 1992) e il laboratorio di epistemologia operativa (Munari, 1993). Questi modelli di
ricerca sono accomunati da una concezione di intervento che considera l’apprendimento come un
processo ciclico di riflessione e prassi (Colangelo, 1997).
La ricerca-azione, quindi, è una forma di ricerca partecipativa, compiuta da persone direttamente
impegnate nell’azione all’interno di una struttura o istituzione, il cui scopo è quello di risolvere una
specifica difficoltà. In essa il momento conoscitivo della ricerca, finalizzato alla conoscenza di una
data realtà educativa, e il momento dell’azione, durante il quale si attua un piano d’azione, sono
contemporanei e inscindibili (Trinchero, 2004). La ricerca-azione si contraddistingue per essere un
processo di raccolta sistematica di dati, provenienti dall’interazione tra i diversi attori coinvolti
(insegnanti e studenti), e di attività di valutazione collettiva, funzionali allo sviluppo del sistema
stesso (Tessaro, 2002).
Un elemento che contraddistingue la ricerca-azione è il potere decisionale dei partecipanti, in
quanto hanno la possibilità di mettere in atto interventi concreti sulla situazione in oggetto, in
funzione dei risultati che man mano emergono dalla ricerca da loro stessi condotta. La ricerca-
azione, quindi, non segue un disegno rigidamente predefinito; ogni nuovo elemento di evidenza

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empirica emerso può servire da base per costruire nuove ipotesi (Trinchero, 2004). La verifica, la
valutazione e il controllo, di conseguenza, sono delle azioni molto importanti nella ricerca-azione
perché consentono di fare gli opportuni aggiustamenti negli interventi.
Metodologicamente il ciclo della ricerca-azione comprende una serie di fasi valide per tutte le sue
elaborazioni (Tessaro, 2002):
a) identificazione dei problemi da risolvere, dei fattori causali esistenti, delle limitazioni
ambientali presenti e delle risorse umane e professionali di cui ci si può avvalere;
b) formulazione delle ipotesi di cambiamento e dei piani di implementazione;
c) applicazione delle ipotesi nei contesti-obiettivo dei piani formulati;
d) valutazione dei cambiamenti intervenuti ed implementazione dei metodi applicativi;
e) approfondimento, istituzionalizzazione e diffusione capillare delle applicazioni con
valutazione positiva.
La ricerca-azione ha lo scopo di attuare il cambiamento. Pertanto, a partire da un problema che non
ha mai un’unica soluzione ma più soluzioni, gli attori coinvolti agiscono e riflettono sull’azione per
delineare la soluzione migliore. Con la ricerca-azione non ci si prefigge di trovare leggi generali
bensì modelli tematici validi per contesti simili a quello per cui è stato elaborato.
Le motivazioni per le quali la ricerca-azione deve essere applicata nel contesto scuola sono state
cercate e argomentate da diversi esponenti del settore. Qui ci limitiamo a riportare quelle esposte da
Tessaro (2002) in riferimento all’insegnamento nelle scuole secondarie.
La prima motivazione per la quale la ricerca-azione è funzionale alla dimensione classe è legata
all’ammutinamento delle variabili, ovvero, all’impossibilità nella classe di controllare tutte le
variabili e di applicare i paradigmi del metodo sperimentale. All’interno della classe inoltre è
impossibile mantenere l’imparzialità del ricercatore, ovvero, non è possibile conservare le
tradizionali separazioni tra il ricercatore e gli strumenti di ricerca e tra il ricercatore e l’oggetto della
ricerca.
La ricerca-azione è funzionale alla scuola anche perché permette agli allievi di calarsi nella
situazione studiata facendo interventi che sono di rilevazione, di cambiamento, di lettura della
situazione e di eventuale ristrutturazione della stessa. Infine, essa è funzionale alla dimensione
classe perché la soluzione ai problemi reali richiede processi euristici con logiche aperte.

6.8 La tecnica simulativa del role playing

Il role playing è una metodologia oggi molto utilizzata nel campo formativo che ha origine dallo
psicodramma di Moreno. Lo psicodramma è una tecnica terapeutica nata negli anni Venti che si

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fonda sull’emersione attraverso la messa in scena. La recitazione, infatti, permetterebbe
all’individuo di far vivere-rivivere stati d’animo, atteggiamenti e comportamenti che se raccontati
rischierebbero di essere dimenticati, celati da censure individuali e sociali o addirittura falsati
dall’intellettualizzazione (Capranico, 1997). Fu lo stesso Moreno a capire che la drammatizzazione
poteva essere utile in ambito formativo e per fare una distinzione tra lo psicodramma terapeutico e
quello formativo chiamò quest’ultimo role-playing.
Le prime sperimentazioni della tecnica del role playing in Italia risalgono alla seconda metà degli
anni ‘60 ad opera di Elvira Pancheri e Sergio Capranico.
Come sostiene Fernandez (1992) nel role playing:

“(…) si recita un ruolo per dar vita ad un personaggio in una realtà. La realtà sotto forma di dramma è
innanzitutto soggettiva, esprime la percezione degli attori. Questa tecnica può essere utilizzata durante la
formazione per dare al gruppo un’immagine della complessità di una situazione i cui differenti aspetti
vengono così meglio visualizzati”

Il role playing e lo psicodramma a volte erroneamente vengono sovrapposti perché entrambe le


tecniche utilizzano la rappresentazione/azione scenica ma si differenziano per il livello di
implicazione dei partecipanti. Lo psicodramma è terapeutico perché permette la catarsi del vissuto
affettivo intenso, mentre il role playing produce risonanze affettive con un fine di formazione o di
presa di coscienza dei problemi (Demetrio, 1988).
Attraverso il role-playing si riproduce in aula una situazione protetta in cui due o più studenti,
davanti ai compagni che fungono da osservatori, drammatizzano i comportamenti di ruolo assegnati
dall’insegnante. Da questa messa in scena si attiva un processo di apprendimento finalizzato a
migliorare l’adattamento dei partecipanti a sé stessi e di conseguenza alle situazioni della vita reale
e ad una maggiore sensibilizzazione a certi aspetti pedagogici e relazionali posti dalle interazioni
umane (Tessaro, 2002); si pensi, per esempio, a quanto possa essere utile tale tecnica per
l’integrazione degli allievi diversamente abili. La funzione di mimesi della realtà riduce l’ansia che
caratterizza i contesti e facilita l’apprendimento.
Il role playing si articola in tre fasi. La prima fase consiste nella presentazione da parte del trainer
del problema con pochi cenni di carattere generale, la seconda fase consiste nella messa in scena dei
ruoli che sono stati assegnati e descritti attraverso per esempio del materiale. Durante questa
seconda fase, gli allievi che non giocano ruoli hanno il compito di osservare con molta attenzione
quanto avviene sulla scena. Infine, al termine dell’interpretazione delle parti ha inizio una
discussione generale a cui partecipano sia coloro che hanno agito i ruoli sia coloro che hanno
osservato. In questa terza fase vengono analizzati gli atteggiamenti, i problemi emersi, i modi di
relazionarsi degli attori, provando a identificare i principi generali emersi nella discussione.

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È possibile distinguere due tipologie di role playing in base al grado di strutturazione (Marzella,
2010):
1. quando l’apprendimento riguarda un ruolo interattivo per il quale sono previste linee guida
abbastanza predefinite e rigide si usa un role playing strutturato di tipo prescrittivo (si
danno delle regole precise circa i ruoli, i contenuti e lo svolgimento delle discussioni);
2. quando, invece, si è interessati a sondare gli aspetti più personali e soggettivi delle
interpretazioni dei ruoli, a facilitare l’emergenza di dimensioni simboliche e affettive, si usa
un role playing non strutturato.
L’insegnante nel role playing ha il compito di mantenere la situazione scenica e di fare in modo che
i partecipanti giochino i loro ruoli; i docenti possono dare dei suggerimenti, fare dei solleciti o
avvalersi di collaboratori incaricati a sollecitare la recitazione recitando loro stessi (Tessaro, 2002).
Gli attori del role playing che assumono il ruolo di collaboratori possono utilizzare due tecniche
quali quella dello specchio, che consiste nel rinviare gli atteggiamenti di un soggetto al soggetto
stesso in modo che possa vedere se stesso riflesso e ritrarre un utile feedback per il suo
comportamento, o la tecnica del doppio che consiste nel cogliere gli atteggiamenti tipici del
soggetto prolungandone l’espressione e rendendo esplicito ciò che rimarrebbe latente (ibidem,
2002).
Per favorire lo svolgimento del role playing è possibile utilizzare alcune tecniche quali (Tessaro,
2002):
- Inversione dei ruoli. Ogni partecipante gioca tutti i ruoli, per cui dopo aver giocato un
ruolo lo abbandona per giocare il ruolo che prima era di un altro compagno e così via fino a
quando tutti hanno giocato tutti i ruoli. In questo modo gli attori hanno la possibilità di
comprendere i punti di vista degli altri, di rafforzare la flessibilità e la spontaneità dei
comportamenti, di aumentare la capacità di guardarsi dentro e di accrescere la loro
sensibilità verso gli altri.
- Soliloquio. Il trainer può interrompere uno degli attori e attraverso un’intervista spingerlo a
esprimere ad alta voce pensieri ed impressioni fino a quel momento non espressi in modo
chiaro.
- Role-playing multiplo. I soggetti vengono suddivisi in sottogruppi e ciascuno
separatamente gioca i ruoli assegnati; al termine i due gruppi si riuniscono per discutere
insieme il comportamento di ogni gruppo. Ciò permetterà di attivare una produttiva
discussione.
- Autopresentazione. Il partecipante gioca nel role playing non un ruolo stabilito dal trainer
bensì una delle tante parti di sé stesso. Quando si utilizza questa tecnica in classe gli allievi

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giocano la loro “parte studentesca”, ovvero ciò che sono a scuola e ciò che della loro vita
personale “può” essere portato a scuola. L’insegnante quando applica questa tecnica deve
prestare molta attenzione alla parte che il soggetto gioca di sé, perché il role playing giocato
in classe non ha valenza terapeutica e gli insegnanti non hanno le competenze per supportare
il disagio psichico; i problemi dei singoli possono essere accolti, ma solo per essere elaborati
concettualmente e se rientrano in un disegno formativo (Tessaro, 2002).
- Monologo. Il partecipante interrompe la recitazione del ruolo assegnatogli e con un tono di
voce più basso esprime proprie riflessioni e i sentimenti che prova nei confronti degli altri i
quali fingeranno di non sentire nulla.
La tecnica del role playing applicata nel contesto classe favorisce lo sviluppo delle competenze
relazionali. Il trainer, facendo emergere le potenzialità dei soggetti coinvolti e sfruttando le
dinamiche che emergono durante la messa in scena dei ruoli, insegna in modo maieutico e permette
a ciascun soggetto di sviluppare e acquisire competenze relazionali. Favorisce, inoltre, la
maturazione sociale degli allievi: questi ultimi imparano a lavorare con gli altri, acquisiscono o
sviluppano la capacità di ascoltare attivamente, acquisiscono o perfezionano la capacità di
identificarsi con l’altro diverso da sé e comprendono che i giudizi sono relativi e collocabili a
diversi livelli. A livello didattico, invece, la tecnica del role playing diventa attiva in quanto i
soggetti sviluppano la creatività, acquisiscono un pensiero critico e fanno metacognizione.
La tecnica del role playing può essere applicata a tutte le discipline, sta alla fantasia dell’insegnante
trovare la situazione e i ruoli da far vivere agli allievi; l’importante, però, è che abbia una sequenza
strutturata e che si concluda con verifica degli apprendimenti. Si pensi a quanto potrebbe essere
utile per l’apprendimento della lingua inglese recitare delle situazioni di vita reale oppure studiare
un autore della letteratura italiana simulando un’intervista.

6.9 Il problem solving

Il termine inglese problem solving, traducibile in italiano come “risoluzione di un problema”, indica
una metodologia didattica attiva in cui agli allievi è posto, sotto forma di domanda o situazione
stimolo, un problema da risolvere a partire dal quale devono ricercare strategie per una risoluzione
corretta. La situazione posta agli allievi è generalmente nuova e non gestibile con le strategie che
essi già conoscono: pertanto gli studenti devono sforzarsi di cercarne delle nuove e questa ricerca
può avvenire o attraverso un processo di “prove ed errori” oppure per insight (intuizione
illuminante). Questa tecnica permette lo sviluppo di strategie e abilità di soluzione di problemi sul

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piano psicologico, sul piano comportamentale e sul piano operativo (Scataglini, Cramerotti, Ianes,
2008).
L’applicazione della tecnica del problem solving si snoda in una precisa sequenzialità di fasi, quali:
1) Problem finding. Il primo step consiste nel “riconoscimento” di un problema da risolvere,
un ostacolo da superare o ancora di una situazione che crea disagio per la quale è necessario
trovare una soluzione.
2) Problem setting. Nel secondo step si definisce il problema e l’obiettivo da raggiungere;
3) Problem analysis. In questo step il problema da affrontare è scomposto in tanti problemi
secondari, più piccoli e più facilmente affrontabili e risolvibili. Per scomporre il problema
può essere utilizzato o un algoritmo ad albero o altri strumenti di scomposizione e
raggruppamento logico.
4) Problem solving. Nel quarto step, che prende il nome della tecnica, si lavora per riuscire a
rimuovere le cause che hanno originato il problema in modo che non possa essere più un
problema.
5) Decision making. Durante questa fase sono valutati i punti di forza e di debolezza, la
possibilità di successo e la realizzabilità di ciascuna idea proposta e alla luce di quest’analisi
si sceglie l’ipotesi di soluzione che si ritiene più efficace.
6) Decision taking. L’ultima fase è quella in cui bisogna passare all’azione, ovvero
all’applicazione concreta e precisa dell’ipotesi di soluzione prescelta. Si verificano, inoltre,
attentamente e in modo obiettivo gli esiti; nel caso in cui saranno positivi si continuerà ad
applicare questa strategia di soluzione, al contrario si ricomincerà tutto il processo di
problem solving per trovare una strategia migliore.
Come si evince da queste fasi, il problem solving comporta un’attività cognitiva che implica
processi di pensiero divergente e creativo e anche convergente.
La tecnica del Problem Solving può essere utilizzata in ogni ordine di scuola e per tutte le
discipline, l’importante è porre problemi adeguati al grado di comprensione degli allievi.
La tecnica, inoltre, risulta particolarmente efficace con gli allievi con disabilità intellettive piuttosto
gravi per insegnare loro modalità di soluzione di problemi corrette e adeguate alle diverse
situazioni. Per far sì che si raggiunga l’obiettivo appena citato, si possono impiegare strategie
facilitanti, come per esempio riorganizzare e ristrutturare in maniera diversa il materiale o i dati, o
“impedire” l’utilizzo di soluzioni corrette e già attivate in precedente per evitare che vengano
sempre adoperate le stesse (Scataglini, Cramerotti, Ianes, 2008).
Oggi ci sono a disposizione anche dei software didattici, come Ari Lab, Sviluppo di strategie di
Problem Solving in campo aritmetico che permettono agli allievi di costruire le proprie soluzioni,

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