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Didattica Pedagogica
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna (UNIBO)
94 pag.
Sommario
1. Premessa
2. La scuola e la progettazione didattica
2.1 Progettazione didattica e progettazione formativa
2.2 Progettazione come insieme dinamico e coerente di attività
2.3 Dai programmi alla progettazione attraverso la programmazione e i progetti.
2.4 I vari approcci alla progettazione: dalla progettazione tradizionale alla progettazione
per competenze
2.5 Le Indicazioni Nazionali e la progettazione curricolare
2.6 Dal Progetto Educativo d’Istituto al Piano Triennale dell’Offerta Formativa
3. Il raggiungimento del successo scolastico attraverso la sinergia dei diversi ordini di
scuola: la continuità educativa
3.1 Gli organi collegiali e territoriali
3.2 Il lavoro di team
4. La classe come gruppo: dinamiche e apprendimento
4.1 Cos’è il gruppo
4.2 Le dinamiche di gruppo
4.2.1 Caratteristiche strutturali dei gruppi
4.2.2 La dinamica dei ruoli e la leadership
4.2.3 Altre dinamiche di gruppo
4.3 Il gruppo-classe: le norme che lo regolano e le sue finalità educative, di
socializzazione e di formazione
4.4 Come si costruisce un buon gruppo di lavoro
4.5 Metodi e tecniche che utilizza il gruppo per migliorare l’apprendimento
5. La didattica e le nuove tecnologie
5.1 Insegnare con le tecnologie, insegnare le tecnologie
5.2 Gli obiettivi dell’uso delle TIC
5.3 Il ruolo dell’insegnante
5.4 Il digital divide tra insegnanti e alunni
5.5 L’utilizzo delle TIC nella scuola secondo la normativa recente
5.6 La Lavagna Interattiva Multimediale (LIM)
Per approfondire…
Bibliografia e sitografia
Il modulo offre un’approfondita panoramica sulle strategie educative e didattiche che possono
agevolare il processo di apprendimento a partire da un’attenta analisi dei vari approcci alla
progettazione. La prima parte, infatti, vuole chiarire le varie differenze tra programmazione e
progettazione didattica, soffermandosi in special modo sull’orientamento attuale della progettazione
per competenze. Quanto esposto è puntualmente agganciato alla normativa di riferimento, in
particolar modo le Indicazioni Nazionali del 2012 che sono un riferimento obbligato per la
progettazione curricolare e la L. 107/2015 che prevede una progettazione di respiro triennale da
parte degli istituti scolastici, proprio per sottolineare l’importanza dell’azione progettuale.
Si sottolinea, poi, l’importanza strategica della continuità, che non bisogna perdere di vista nella
progettazione dell’agire didattico né in senso orizzontale né verticale.
Il processo di apprendimento viene analizzato, anche, in rapporto al contesto della classe, vista
come gruppo, le cui dinamiche, se ben gestite, possono influenzare positivamente l’efficacia
dell’insegnamento. L’insegnante deve possedere le competenze di conduzione del gruppo, deve
saper riconoscerne le dinamiche e valorizzare il gruppo come strumento di lavoro. Non solo, quindi,
il docente rappresenta il leader che, dentro l’aula, è responsabile di integrare i bisogni individuali e
collettivi, ma è anche membro del gruppo di colleghi che formano il team docente e che, per
diventare un buon gruppo di lavoro, deve attraversare diverse fasi in maniera consapevole e
intenzionale.
L’azione didattica viene potenziata e arricchita dall’utilizzo delle nuove tecnologie. Il tema è
analizzato nel sesto paragrafo, attraverso la disamina dei cambiamenti che le TIC stimolano a
livello di metodologie didattiche, in particolare mettendo in crisi il modello tradizionale e
prospettando la figura dell’insegnante-regista, che guida i processi pedagogici e orienta gli
apprendimenti.
Un’attenzione particolare è riservata alla Lavagna Interattiva Multimediale, il cui utilizzo presenta
innumerevoli vantaggi, ma anche alcuni rischi. Anche in questo caso, viene fatto puntuale
riferimento alla normativa, in particolare alla L.107/2015 e al Piano Nazionale della Scuola
Digitale.
Infine, l’ultima parte è la descrizione dettagliata delle più importanti metodologie e tecniche attive
di cui l’insegnante deve dotarsi, affinché raggiunga i risultati progettati motivando gli alunni, ma
anche variando la didattica e aumentando la sua stessa soddisfazione lavorativa.
Il bambino apprende continuamente, non solo dentro e durante il tempo trascorso a scuola, ma
anche fuori, prima e dopo la scuola. L’apprendimento scolastico, però, ha una sua caratteristica
peculiare: esso è non solo voluto e perseguito, ma soprattutto è organizzato in maniera sistematica,
non può essere lasciato al caso, alla sola intuizione dell’insegnante o alla sua buona volontà, ma
deve essere progettato in fasi e ne devono essere definiti gli obiettivi, in modo da poterne valutare
l’efficacia.
Le attività devono essere programmate, i materiali devono essere scelti, così come le metodologie e
gli strumenti, in maniera coerente con gli obiettivi e adeguata agli alunni e alla loro formazione di
partenza; si devono stabilire, inoltre, le modalità di verifica più opportuna e i criteri di valutazione,
per poter appurare gli esiti in maniera più obiettiva possibile.
Numerosi sono, quindi, gli aspetti da stabilire prima di realizzare l’intervento educativo e didattico:
la progettazione, infatti, si fonda sulla capacità di pensare strategicamente e si prefigura come
un’azione del gruppo docenti, non del singolo insegnante.
Per molto tempo gli insegnanti hanno definito e organizzato la loro attività didattica seguendo i
programmi definiti dal Ministero per ogni singola disciplina e per ogni classe. I programmi erano
appunto un elenco di obiettivi da raggiungere e/o azioni da svolgere per ogni materia in
corrispondenza delle varie classi. Il programma era universale e uniforme: viene stabilito dai
responsabili delle politiche formative ed è prescrittivo per tutti coloro che frequentano un
determinato indirizzo di studi.
In seguito al D.P.R. n. 416/1974, è diventata centrale l’attività della programmazione da parte
degli insegnanti che, in riferimento a quanto stabilito dal livello centrale, dovevano adattare l’azione
didattica e i contenuti alla specifica realtà e alle concrete esigenze della loro comunità scolastica. La
programmazione consiste nel determinare gli standard generali dell’istruzione, analizzare la realtà
socio-economica e culturale entro cui si collocano gli interventi scolastici e, infine, commisurare la
pertinenza tra gli standard formativi generali e le caratteristiche specifiche dell’utenza a cui è diretto
il programma di formazione. La programmazione rimane, tuttavia, un’azione rivolta alla singola
classe (e non alla scuola nel suo insieme) e riguardante molto spesso una singola disciplina, senza
2.4 I vari approcci alla progettazione: dalla progettazione tradizionale alla progettazione
“(…) diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di
realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione
sociale”.
Al successivo Consiglio europeo di Stoccolma del 2001 viene approvata la relazione sugli obiettivi
strategici per l’istruzione e la formazione, che chiede in maniera più concreta agli Stati dell’Unione,
di:
migliorare la qualità e l’efficacia;
agevolare l’accesso di tutti;
aprire al resto del mondo.
Con la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio del 18 dicembre 2006, l’Unione Europea
ha invitato gli Stati membri a sviluppare, nell’ambito delle politiche educative, strategie per
incrementare le otto competenze chiave necessarie per la realizzazione personale, la cittadinanza
attiva, la coesione sociale, l’occupabilità in una società della conoscenza. Le competenze chiave
sono le seguenti: comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue straniere,
competenza matematica, competenza in campo scientifico e tecnologico, competenza digitale,
imparare ad imparare, competenze sociali e civiche, senso di iniziativa e imprenditorialità,
consapevolezza ed espressione culturale.
La comunicazione nella madrelingua è la capacità di esprimere e interpretare concetti,
pensieri, sentimenti, fatti e opinioni in forma sia orale sia scritta (comprensione orale,
espressione orale, comprensione scritta ed espressione scritta) e di interagire adeguatamente
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Le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione
(2012) sono il quadro di riferimento per la progettazione curricolare d’istituto, “nel rispetto e nella
valorizzazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche”. Esse sono “un testo aperto, che la
comunità professionale è chiamata ad assumere e a contestualizzare, elaborando specifiche scelte
relative a contenuti, metodi, organizzazione e valutazione coerenti con i traguardi formativi previsti
dal documento nazionale”.
Esse forniscono le finalità generali da perseguire, legandole alle specifiche caratteristiche della
società odierna, che negli ultimi decenni ha subito significativi e rapidi mutamenti e oggi presenta
modi di vivere centrati sul consumismo, sull’individualismo, sull’omologazione e sul decadimento
valoriale, che inducono le agenzie educative a interrogarsi su quali siano oggi i presupposti teorici e
metodologici su cui basare il proprio operato per svolgere al meglio il proprio compito. Oggi siamo
anche di fronte ad un relativismo morale pervasivo, dal quale deriva un modo più elastico e
flessibile di far rispettare le regole da parte del mondo adulto e ciò rende più difficili i processi di
identificazione e differenziazione da parte di chi cresce. La scuola si trova a dover districarsi tra un
passato di tradizione, di valori, come il rispetto dell’altro (in particolare dell’adulto), di stabilità
socio-economica, ed un presente e un futuro densi di instabilità, insicurezza, precarietà, irriverenza.
La complessità del nuovo scenario che abbiamo davanti ci obbliga a pensare alla scuola come a una
delle entità che si occupa di formazione e, quindi, non più come alla sola che ne ha titolo: i nuovi
mezzi di informazione e comunicazione inducono ad introdurre il concetto di pedagogia parallela.
In questo quadro, anche la formazione, come la nostra vita, rischia di essere discontinua e
frammentata: per garantire uno sviluppo armonico e una continuità educativa è molto importante
stabilire un costante dialogo tra scuola e famiglia, di questi tempi per nulla scontato, per
confrontarsi e condividere finalità educative comuni.
Dinanzi alla complessità e alla precarietà che caratterizza il mondo di oggi, la scuola non può e non
deve rinunciare al suo ruolo di garante della trasmissione di saperi, ma può e deve ambire ad
ampliare il suo raggio d’azione, insegnando a “stare al mondo”, con metodi che tengano conto delle
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“(…) espressione della libertà d’insegnamento e dell’autonomia scolastica e, al tempo stesso, espliciterà le
scelte della comunità scolastica e l’identità dell’istituto. La costruzione del curricolo è il processo attraverso
il quale si sviluppano e organizzano la ricerca e l’innovazione educativa”.
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“(…) precede, accompagna e segue i percorsi curricolari: attiva le azioni da intraprendere, regola quelle
avviate, promuove il bilancio critico su quelle condotte a termine, assume una preminente funzione
formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo”.
Con il D.P.C.M. del 7 giugno 1995 viene introdotta la Carta dei Servizi in ambito scolastico e con
essa il Progetto Educativo d’Istituto (il cosiddetto PEI), che contiene le scelte educative ed
organizzative e “costituisce un impegno per l’intera comunità scolastica”. Il PEI provvede anche a
regolare “l’uso delle risorse di istituto e la pianificazione delle attività di sostegno, di recupero, di
orientamento e di formazione integrata” e definisce i criteri per la formazione delle classi, la
formulazione dell’orario, la valutazione del servizio scolastico. Il PEI ha avuto il merito di
consentire una migliore pianificazione delle attività e delle azioni didattiche e organizzative, ma il
suo punto di debolezza è rappresentato dal fatto di essere uno strumento rigido e, per questo, poco
idoneo alle attività di progettazione, programmazione e valutazione, che richiedono un sistema
flessibile. Il PEI, antesignano del POF, ha rappresentato più che altro un collage di attività
all’interno di rigidi schemi dettati dal centro.
Il POF (Piano dell’Offerta Formativa) è introdotto dal D.P.R. n. 275/1999 e rappresenta il
documento fondamentale che definisce l’identità culturale e progettuale della singola scuola,
specificandone la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa.
Il Piano dell’Offerta Formativa diventa, con la riforma della “Buona Scuola” (L. 107/2015), Piano
Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF). L’art.3 del DPR n.275 del 1999 è stato difatti novellato
dal comma 14 della legge succitata che ne ha cambiato anche le modalità di elaborazione, affidando
un ruolo preminente al dirigente scolastico, chiamato a dare al collegio dei docenti gli indirizzi per
le attività della scuola e per le scelte di gestione e di amministrazione. Se la progettazione del piano
è consegnata nelle mani del collegio, la sua approvazione avviene poi in seno al consiglio di istituto.
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Oltre alla definizione delle finalità generali, la programmazione dell’offerta formativa triennale, ai
sensi del comma 2 della legge 107 servirà per indicare gli insegnamenti e le discipline tali da
coprire il fabbisogno dei posti comuni e di sostegno dell’organico dell’autonomia e il fabbisogno
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“Ai fini della predisposizione del piano, il dirigente scolastico promuove i necessari rapporti con gli enti
locali e con le diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti nel territorio; tiene
altresì conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni dei genitori e, per le
scuole secondarie di secondo grado, degli studenti”.
Ciò significa che, nell’ambito degli obiettivi formativi ritenuti imprescindibili dall’istituzione
scolastica e nelle attività progettuali, le scuole potranno far emergere all’interno del PTOF il legame
con il territorio ossia con il contesto culturale, sociale ed economico di appartenenza. Dunque, il
piano dell’offerta formativa potrà prendere in considerazione “la valorizzazione della scuola intesa
come comunità attiva, aperta al territorio e in grado di sviluppare e aumentare l’interazione con le
famiglie e con la comunità locale, comprese le organizzazioni del terzo settore e le imprese”.
Il comma 12 della legge 107 stabilisce anche che il Piano dell’offerta formativa triennale deve
contenere “la programmazione delle attività formative rivolte al personale docente e
amministrativo, tecnico e ausiliare”. Direttamente collegato al predetto comma vi è il 124 che
stabilisce che:
“(…) nell’ambito degli adempimenti connessi alla funzione docente, la formazione in servizio dei docenti di
ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale. Le attività di formazione sono definite dalle singole
istituzioni scolastiche in coerenza con il piano triennale dell’offerta formativa e con i risultati emersi dai
piani di miglioramento delle istituzioni scolastiche previsti dal regolamento di cui al D.P.R. n.80/2013, sulla
base delle priorità nazionali indicate nel Piano nazionale di formazione, adottato ogni tre anni con decreto
del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le organizzazioni sindacali
rappresentative di categoria”.
Il Piano di formazione previsto dalla legge 107 comporterà quindi da parte del personale scolastico
delle prestazioni aggiuntive non di insegnamento, oltre all’orario di servizio.
Il PTOF potrà contenere le iniziative di formazione rivolte agli studenti, per promuovere la
conoscenza delle tecniche di primo soccorso (comma 10 della legge 107) nonché attività per
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La continuità educativa è ritenuta uno dei fattori determinanti per il raggiungimento del successo
scolastico. Essa si deve realizzare tra i vari ordini di scuola attraverso attività, progetti, laboratori
comuni, attività scolastiche ed extrascolastiche, individuate e sancite dagli organi collegiali
competenti. Ciò implica una sinergia tra scuole, organi collegiali, organismi territoriali, le famiglie
degli alunni e gli alunni stessi. Per attuare la continuità educativa è necessario conoscere le
Indicazioni Nazionali dell’ordine di scuola interessato, le quali devono essere alla base di quelle
azioni che servono a coordinare le varie offerte finalizzate alla creazione di un progetto comune di
continuità.
La continuità educativa è connotata da collegialità, lavoro di team e interazione con gli organi
istituzionali.
L’istituzione scolastica è ubicata in un territorio e, quindi, non può essere avulsa dal tessuto sociale,
economico territoriale. I cambiamenti sociali, culturali e politici hanno avuto ripercussioni nel modo
in cui veniva percepita l’istituzione scuola e la cultura stessa. Abbiamo già detto che fino agli anni
‘70 la cultura era considerata elitaria, per pochi, ma con gli sconvolgimenti sociali del periodo
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“(…) il dirigente scolastico, di concerto con gli organi collegiali, può individuare percorsi formativi ed
iniziative diretti all’orientamento e a garantire un maggiore coinvolgimento degli studenti nonché la
valorizzazione del merito scolastico e dei talenti. A tale fine, nel rispetto dell’autonomia delle scuole e di
quanto previsto dal regolamento di cui al decreto del Ministro della pubblica istruzione 1° Febbraio 2001,
n.44, possono essere utilizzati anche finanziamenti esterni”.
Il dubbio in merito al comma appena citato è che la concertazione con gli organi collegiali sia
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“Ogni istituzione scolastica predispone, con la partecipazione di tutte le sue componenti, il piano dell’offerta
formativa.”
Si indica chi partecipa alla sua formulazione e che questa deve seguire gli indirizzi per le attività
della scuola e le scelte di gestione ed amministrazione dettate dal Dirigente scolastico; solo dopo ci
sia la delibera da parte degli altri due organi collegiali: il collegio dei docenti e il consiglio
d’istituto. Questo cambio di prospettiva implica che a questi due organi collegiali in questo caso
siano ridotte le capacità.
Gli organi collegiali sono anche territoriali:
Consiglio superiore della pubblica istruzione;
Consiglio regionale dell’istruzione;
Consiglio scolastico locale.
Da un sistema basato sulla collegialità che è un valore e che permea tutte le attività scolastiche ed
extrascolastiche si richiede, anche, che la maggior parte delle attività sia svolta in team. Il lavoro in
team è connotato dalla trasversalità e dalla progettazione.
La trasversalità è l’interazione o sinergia tra esigenze, valori, linguaggi, prospettive che si
affermano in ambiti socio-culturali diversi (famiglia, scuola, associazioni, chiese, mass media),
ponendo problemi di ristrutturazione e riconsiderazione unificante. Nella scuola si parla sempre più
di insegnamento trasversale, di trasversalità del curricolo, di competenze trasversali e questo ci fa
capire come sia indispensabile la necessità di formare nei giovani l’attitudine a porre e trattare
problemi e la possibilità di costruirsi dei principi organizzatori che permettano loro di collegare i
saperi. È necessario, quindi, che il curricolo sia trasversale perché al centro di questo c’è la persona
che apprende, di cui è necessario salvaguardare sia la varietà sia l’unitarietà. Per fare ciò non si
possono segmentare i saperi, ma creare le condizioni che possono agevolare la ricostruzione dei
legami e dei rapporti in ciò che si apprende. Da ciò deduciamo che la trasversalità del curricolo è un
aspetto irrinunciabile dell’istanza formativa. Per fare ciò, la didattica trasmissiva è inefficace e,
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Per ogni alunno la partecipazione alla vita di una classe è una fonte di “energia di scambio”, è uno
specchio per la costruzione della propria identità, ambiente privilegiato che gli consente di
instaurare relazioni e di attivare un processo di confronto, di comunicazione con gli altri, sia adulti
sia coetanei (Di Berardino, 1997). Bisogna porre molta attenzione alla classe come gruppo, avendo
un duplice obiettivo: la socializzazione e l’apprendimento.
Molto spesso si afferma che i bambini vanno a scuola semplicemente per imparare e che, mentre
fanno questo, instaurano relazioni con gli adulti e con gli altri bambini, maturando una propria
immagine di sé. In realtà, in un’ottica che pone l’accento sulle dinamiche di gruppo e su tutti gli
aspetti emotivi e relazionali, vanno ribaltati i termini: a scuola i bambini instaurano relazioni con sé
stessi e con gli altri, e, mentre fanno questo, apprendono. È un’altra prospettiva, che lega
strettamente l’apprendimento alla qualità che la dimensione socio-affettiva assume all’interno
dell’esperienza scolastica (Polito, 2000).
Se un bambino si sente integrato e valorizzato nel gruppo dei compagni, accolto e incoraggiato
dagli insegnanti, allora sarà nella miglior condizione per affrontare con fiducia e possibilità di
successo i compiti di apprendimento che gli vengono proposti e per sviluppare al meglio la propria
dimensione cognitiva.
La classe quindi va considerata come sede di continui cambiamenti e di dinamiche che, se
riconosciute e ben gestite dall’insegnante, può trasformarsi in un gruppo di lavoro in grado di
rispondere ai bisogni e di integrare le componenti cognitive e affettive degli alunni.
La nostra vita è costellata e caratterizzata dall’appartenenza ai gruppi: dal primo gruppo che è la
famiglia ai gruppi di amici, dal gruppo-classe all’équipe professionale, dalla squadra sportiva al
gruppo di preghiera, e così via.
È certamente arduo individuare una definizione completa ed esaustiva del gruppo, anche e proprio
data la vasta letteratura sull’argomento. È possibile, in primo luogo, dire cosa non è gruppo: un
insieme di persone che guardano lo stesso film al cinema o che aspettano l’autobus alla fermata. Il
gruppo è un insieme di individui legati da processi emotivi e cognitivi, da regole, ideologie, culture,
valori, ruoli, norme e complesse dinamiche.
Da un punto di vista etimologico, il termine gruppo si fa derivare dal germanico “kruppa” tradotto
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La dinamica di un gruppo è connessa a diversi aspetti (psicologici, emotivi, relazionali) tra loro
interconnessi. All’interno di un gruppo si confrontano bisogni e richieste dei singoli individui, non
sempre in accordo con i bisogni del gruppo. La pluralità propria di un gruppo può dar luogo a
scontri di interessi e opinioni, così come è possibile che le persone cooperino per raggiungere
obiettivi comuni. Tra le dinamiche tipiche di un gruppo, ci sono infatti il conflitto e la cooperazione.
Il conflitto non è negativo di per sé, infatti una gestione positiva del conflitto può portare ad una
maturazione, ad un cambiamento e a un rinnovamento del gruppo.
Un’altra dinamica di gruppo è la coesione, che fa riferimento al legame che tiene uniti i membri del
gruppo e al sentimento di appartenenza che sviluppano in quanto parte di quella che si configura
come una realtà a sé stante. L’interazione riguarda gli scambi tra persone, tra gruppi, tra persone e
gruppi; è
«l’unità di azione che si dispiega tra gli attori della relazione» (Lavanco, Novara, 2002: p. 85).
Un’altra caratteristica, il cambiamento, è legata proprio alla natura dinamica del gruppo: esso è
sempre attraversato da forze diverse che, interagendo, determinano nuove configurazioni, in una
dinamica che vede l’interazione tra spinte al cambiamento e resistenze al cambiamento.
Saper gestire le dinamiche di gruppo significa creare intenzionalmente le condizioni perché i
membri della classe possano interagire secondo strutture comunicative che facilitino la
partecipazione di tutti, il rispetto e l’accettazione reciproca. La coesione del gruppo-classe non è
perciò un punto di partenza, né una tappa naturale, costituisce invece un obiettivo che deve essere
intenzionalmente perseguito (De Varda Gori, 1997).
Ogni azione dell’insegnante dovrebbe avere, al di là del suo obiettivo specifico, un effetto positivo
sulla dinamica relazionale del gruppo, per far maturare quel clima che garantisca ai suoi
componenti il massimo di sviluppo umano possibile.
Alcune caratteristiche strutturali dei gruppi non sono propriamente dinamiche di gruppo, ma le
influenzano in maniera determinante. Tra le caratteristiche strutturali, vi sono la dimensione (cioè la
numerosità dei membri del gruppo), i rapporti spaziali e temporali fra i membri (la prossimità e la
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Strettamente legati agli aspetti strutturali menzionati sopra vi sono i ruoli all’interno di un gruppo e
la loro dinamica. Come già accennato, per ‘ruolo’ si intende un insieme di aspettative condivise
circa il modo in cui dovrebbe comportarsi un individuo che occupa una determinata posizione nel
gruppo.
In qualsiasi gruppo si strutturano dei ruoli che possono essere sia espliciti o prestabiliti sia impliciti,
anzi, a volte, i ruoli impliciti si sovrappongono e contrappongono a quelli espliciti: per esempio nei
gruppi in cui il leader formale non corrisponde con la persona che effettivamente è riconosciuta
come leader è questi che esercita realmente il suo potere di influenzamento. In un gruppo formale i
ruoli sono più statici e rischiano di cristallizzarsi; in un gruppo informale, invece, i ruoli sono
mutevoli e indefiniti.
I ruoli non attengono ai singoli, ma alle relazioni, essendo il risultato delle aspettative di tutti i
membri e derivando spesso da accoppiamenti complementari (per esempio, vittima e bullo).
Tra i vari ruoli, occupa un posto specifico il leader. La leadership intesa come funzione è la capacità
di produrre un’influenza sugli altri membri e far sì che scopi del gruppo e bisogni individuali non
confliggano ma vadano verso la stessa direzione.
Tra le tipologie di leadership che sono state proposte, descriviamo brevemente i seguenti tre modelli
(Lavanco, Novara, 2002):
autoritario-verticistica: il leader accentra il potere decisionale che viene attuato mediante il
comando. Gli obiettivi vengono raggiunti nei tempi previsti, ma scarsa è l’efficacia perché
non viene appieno valorizzata la risorsa umana;
funzionale-piramidale: il leader è al vertice di una struttura gerarchica a vari livelli e si
relaziona con i referenti, i quali a loro volta si relazionano con i livelli inferiori;
democratico-circolante: il leader stimola la partecipazione e la creazione di rapporti tra tutti
i membri, rendendo la leadership, oltre che la comunicazione, circolante. Questo modello è
efficace rispetto alla valorizzazione e al potenziamento della risorsa umana, ma poco
efficiente rispetto ai tempi.
Gli stili di leadership sono influenzati principalmente da due variabili: l’orientamento al compito
e l’orientamento alla relazione, due fattori questi che indicano il grado in cui il leader si
concentra maggiormente sullo svolgimento del compito, sul risultato e quindi sull’efficienza,
oppure sulla qualità della relazione e sul supporto da dare ai membri del gruppo.
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Tra le dinamiche di gruppo vi sono, inoltre: la creazione di capri espiatori, cioè di membri su cui far
convergere tutta l’aggressività del gruppo; la formazione in sottogruppi; la dipendenza o la
controdipendenza verso il leader; l’identificazione di nemici esterni; i meccanismi decisionali, ecc.
Tutti fenomeni che possono avere un decorso positivo nel senso di condurre al massimo livello il
processo di socializzazione, oppure possono assumere sia un aspetto negativo limitante sia un
aspetto fuorviante perché rafforzano le difese che portano alla disgregazione del gruppo.
Tenere sotto controllo questi fenomeni e in qualche modo dirigerli al positivo è compito del leader,
che nei gruppi informali è spontaneo, mentre nei gruppi formali è imposto dall’istituzione.
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Il gruppo-classe può diventare un gruppo di lavoro solo se il leader è intenzionalmente votato a tale
obiettivo e si comporta in maniera tale da far maturare gradualmente gli elementi che renderanno
una classe un buon gruppo. Perché ciò sia possibile è necessario che anche gli insegnanti vengano
percepiti come gruppo.
I bambini di una classe, infatti, non vedono solo un insegnante; pertanto anche gli insegnanti tra
loro dovrebbero funzionare come un gruppo, un buon gruppo di lavoro, appunto. A tal proposito
viene usata l’espressione team building si fa riferimento al processo di formazione e costruzione di
un gruppo di lavoro, inteso come squadra. L’espressione è utilizzata da Quaglino, Casagrande e
Castellano (1992), i quali illustrano anche il processo di formazione di un gruppo di lavoro, per
tappe successive, ciascuna delle quali è individuata da una parola-chiave.
Se il gruppo è una pluralità in interazione, con un valore di legame, che ne determina l’emergenza
psicologica, il gruppo di lavoro è, nello stesso tempo, una pluralità che tende progressivamente alla
integrazione dei suoi legami psicologici e all’armonizzazione delle uguaglianze e differenze (ivi).
Nell’interazione, un gruppo sviluppa coesione, che è il primo collante che mantiene i legami e che
sta alla base della condivisione e della percezione dei vantaggi correlati all’aggregarsi in un
collettivo. Lo sviluppo della membership (letteralmente, ‘essere membro’) permette di identificare il
gruppo di appartenenza come opportunità per soddisfare i propri bisogni personali, ma non è
sufficiente a garantire la sopravvivenza del gruppo come soggetto sociale. Nella costruzione di un
gruppo di lavoro, bisogna compiere un ulteriore passo avanti: dall’interazione all’interdipendenza,
che si fonda sulla percezione della necessità e della dipendenza reciproca, implicando la sofferta
elaborazione dei confini del gruppo e dei limiti imposti agli individui. In questo caso, si sviluppa la
groupship (letteralmente, ‘essere gruppo’), che è la rappresentazione di un soggetto diverso, nuovo,
con bisogni sovraindividuali, che riguardano il Noi piuttosto che i singoli individui.
L’interdipendenza è il tramite per la maturazione del gruppo di lavoro verso l’integrazione,
equilibrio tra la soddisfazione dei bisogni individuali e dei bisogni del gruppo, formazione di un
soggetto sociale autonomo che si attribuisce significato e che restituisce energia e risultati
all’ambiente nel quale si è costituito (ivi).
L’integrazione sviluppa la collaborazione, che definisce un’area di lavoro comune, di
partecipazione attiva di tutti i membri, fondandosi su relazioni di fiducia, sulla negoziazione
continua di obiettivi, metodi, ruoli. La negoziazione consiste nel coniugare il punto di vista degli
altri con il proprio, allargando così il campo delle possibilità e delle alternative.
Il lavoro di gruppo è, così, espressione dell’azione complessa del gruppo di lavoro e comprende la
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Il gruppo può rappresentare uno strumento potente e prezioso per il raggiungimento di diversi
obiettivi educativi. L’insegnante però deve saper gestire il gruppo attraverso metodologie e tecniche
di conduzione ben precise e sviluppate nel corso degli ultimi decenni in ambito formativo, aziendale
e scolastico.
Molto spesso è necessaria una formazione specifica dell’insegnante che deve imparare a
padroneggiare le tecniche di conduzione di un gruppo per evitare che l’utilizzo improvvisato e
spontaneo delle tecniche porti ad una situazione di caos e disordine in classe.
Le tecniche principali utilizzate per la conduzione dei gruppi sono:
i metodi di simulazione (come il role playing);
metodi di discussione (circle time, brainstorming, problem solving);
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L’utilizzo delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (le cosiddette TIC) nella
didattica ha stimolato e continua a stimolare un graduale processo di rinnovamento delle
metodologie didattiche. Questo cambiamento incontra non poche resistenze, soprattutto da parte di
chi non ha familiarità con i nuovi mezzi tecnologici e digitali e rimane legato a tradizionali metodi
di insegnamento.
L’utilizzo delle nuove tecnologie porta ad un necessario ripensamento dell’azione didattica, che non
deve essere soppiantata da una nuova, ma neanche deve essere semplicemente affiancata da qualche
stimolo mediale; si tratta, piuttosto, di costruire nuove prospettive di insegnamento adeguate al
nuovo contesto sociale, in cui i nuovi media non sono solo qualcosa in più, bensì rappresentano
nuove opportunità per arricchire e rinnovare tecniche e metodi già sperimentati. È necessaria una
conoscenza delle nuove tecnologie tale da utilizzarle in maniera adeguata e integrata con altri
metodi, senza cadere nel tranello che il computer, o la Lavagna Interattiva Multimediale o il Web
diano soluzioni da sé, a prescindere dal modo in cui si utilizzano per essere inserite nell’azione
educativa, per come si sceglie consapevolmente di farlo.
Partendo da questa premessa, le ricadute dell’utilizzo delle nuove tecnologie nella didattica sono
positive e addirittura entusiasmanti, sia per i docenti sia per gli alunni. Il loro utilizzo, infatti, fa sì
che accanto ad una didattica di tipo trasmissivo, si sviluppi una didattica di tipo multimediale e
costruttivistica, tenendo presente che non è l’uso dei nuovi media in sé a cambiare la didattica, ma è
il modo in cui gli insegnanti integrano l’uso delle tecnologie nel loro agire educativo quotidiano.
Passiamo alla definizione sintetica delle tre tipologie di didattica summenzionate in relazione
all’utilizzo delle tecnologie.
La didattica di tipo trasmissivo intende l’apprendimento come acquisizione di informazioni e
l’insegnamento come trasferimento delle conoscenze (tutor centred); in questo caso, le tecnologie
sono quelle utilizzate semplicemente per la distribuzione delle informazioni.
La didattica multimediale vede l’apprendimento come centrato sullo studente (student centred)
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“(…) la competenza digitale consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie
della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata da
abilità di base nelle TIC: l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e
scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet”.
La competenza digitale presuppone una solida consapevolezza e conoscenza della natura, del ruolo
e delle opportunità delle TSI nel quotidiano: nella vita privata e sociale come anche al lavoro. In ciò
rientrano le principali applicazioni informatiche come trattamento di testi, fogli elettronici, banche
dati, memorizzazione e gestione delle informazioni oltre a una consapevolezza delle opportunità e
dei potenziali rischi di Internet e della comunicazione tramite i supporti elettronici (e-mail,
strumenti della rete) per il lavoro, il tempo libero, la condivisione di informazioni e le reti
collaborative, l’apprendimento e la ricerca. Le persone dovrebbero anche essere consapevoli di
come le TSI possono coadiuvare la creatività e l’innovazione e rendersi conto delle problematiche
legate alla validità e all’affidabilità delle informazioni disponibili e dei principi giuridici ed etici che
si pongono nell’uso interattivo delle TSI.
Le abilità necessarie comprendono: la capacità di cercare, raccogliere e trattare le informazioni e di
usarle in modo critico e sistematico, accertandone la pertinenza e distinguendo il reale dal virtuale
pur riconoscendone le correlazioni. Le persone dovrebbero anche essere capaci di usare strumenti
per produrre, presentare e comprendere informazioni complesse ed essere in grado di accedere ai
servizi basati su Internet, farvi ricerche e usarli. Le persone dovrebbero anche essere capaci di usare
le TSI a sostegno del pensiero critico, della creatività e dell’innovazione.
L’uso delle TSI comporta un’attitudine critica e riflessiva nei confronti delle informazioni
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Quali sono dunque gli obiettivi che si possono raggiungere grazie all’utilizzo delle nuove
tecnologie nella didattica?
La didattica che prevede l’utilizzo delle nuove tecnologie, in generale, offre molte opportunità per
portare una vera innovazione nella prassi educativa in quanto rende attivi i metodi di insegnamento,
dal momento che valorizza la partecipazione degli alunni e la loro autonomia nella costruzione della
conoscenza.
Inoltre, le TIC favoriscono la condivisione e la cooperazione, sia in aula che a casa, prospettandosi
come strumenti di inclusione e di coinvolgimento per tutti gli alunni.
I media, inoltre, permettono l’integrazione tra i processi cognitivi per astrazione e quelli per
immersione; i primi si fondano sul ragionamento logico, i secondi sulla partecipazione attiva e
sull’immedesimazione: il sapere trasmesso diventa così flessibile e legato all’esperienza, perciò
significativo per chi lo “vive” perché vi è “immerso”. Gli alunni, infatti, vengono coinvolti nel
processo di apprendimento non solo per quanto riguarda la dimensione cognitiva, ma anche per
quella motivazionale e relazionale, in quanto partecipano attivamente nella costruzione della
‘lezione’ interattiva, mentre viene stimolato lo sviluppo contemporaneamente delle dimensioni
percettivo-motorie, logico-razionali e affettivo-sociali.
La multimedialità, inoltre, offre l’opportunità di imparare usufruendo contemporaneamente di più
canali percettivi, dando luogo ad un coinvolgimento plurisensoriale dell’alunno. L’utilizzo del
linguaggio verbale, parlato o scritto, si arricchisce con la proiezione di immagini e video, con la
riproduzione di suoni e con molti altri codici che possono essere non solo fruiti dall’alunno, ma
anche utilizzati come mezzi espressivi. La didattica, così, può favorire l’integrazione tra codici
diversi e linguaggi differenti.
Tutti gli stili cognitivi e di apprendimento possono essere stimolati, andando così incontro a chi
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A proposito dei ruoli, bisogna sottolineare che l’utilizzo delle nuove tecnologie cambia il ruolo
dell’insegnante il quale, non più visto come detentore del sapere, diventa una guida che progetta e
realizza percorsi didattici in cooperazione con i suoi alunni, in rispetto dei differenti stili cognitivi.
Si tratta della figura definita da Bruner docente-regista che svolge la funzione di scaffolding
(letteralmente, ‘impalcatura’), cioè di colui che fornisce agli alunni l’impalcatura di sostegno per
l’acquisizione delle nuove conoscenze. Così come gli operai costruiscono l’impalcatura per
realizzare più facilmente la loro opera, gli insegnanti sostengono l’apprendimento dell’alunno, per
poi renderlo autonomo nella gestione della competenza appresa.
L’insegnante affianca l’alunno nell’utilizzo dei nuovi media affinché impari ad utilizzarli, sviluppi
le attività necessarie alla giusta fruizione, all’orientamento e all’organizzazione delle conoscenze in
un ambito che può diventare dispersivo: lo guida all’estrapolazione di informazioni con
consapevolezza critica, alla scelta di materiali, all’utilizzo delle funzioni e alla padronanza della
gran quantità di opportunità, potenzialmente infinita, di dati, link, approfondimenti.
L’insegnante, dunque, non deve solo comunicare conoscenze, ma deve soprattutto far acquisire
capacità trasversali per un adeguato utilizzo dei nuovi media. Il docente non è più la fonte
principale delle informazioni, anche perché oggi le informazioni si possono reperire con molta
facilità, ma è colui che ha le capacità metodologiche e didattiche per insegnare agli alunni a
strutturare le conoscenze, organizzarle e riflettere su di esse in modo critico.
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Il nuovo ruolo dell’insegnante è speculare al nuovo ruolo dell’alunno, visto come protagonista
attivo del suo percorso di apprendimento; grazie a questa nuova dinamica dei ruoli, aumenta la
motivazione allo studio da parte degli alunni e la loro autostima, legata allo sviluppo della
creatività, dell’autonomia e delle varie possibilità di sperimentarsi in molti modi e attraverso
numerosi codici.
Gli alunni, inoltre, rispetto agli insegnanti hanno una maggiore facilità ad approcciarsi alle nuove
tecnologie, perché sono nati con esse e le vivono come una dimensione naturale. I bambini nati
nell’era dei tablet, degli smartphone, del touchscreen e delle app, sono stati definiti bambini
digitali. Mark Prensky nel 2001 definì, invece, ‘nativi digitali’ la prima generazione di bambini nati
e cresciuti negli anni della massiccia diffusione dei computer, delle console e dei videogame.
I bambini piccoli oggi conoscono il mondo attraverso stimoli (visivi, tattili, uditivi) che facilitano il
loro sviluppo verso determinate direzioni, diversamente da quanto avveniva fino a pochi anni fa. Ne
deriva che i bambini oggi imparano velocemente ad utilizzare touchscreen e smartphone con una
naturalezza che difficilmente può essere acquisita da un adulto. I bambini infatti imparano i modi
per rappresentarsi e codificare la realtà soprattutto nei primi 5-6 anni di vita.
Il divario tra chi ha confidenza e competenza all’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e chi
ne è escluso viene definito digital divide e si evidenzia anche a scuola, tra adulti e bambini, tra
insegnanti e alunni, evidenziando una preoccupante distanza tra modalità di insegnamento e di
apprendimento. Il risultato è che le metodologie tradizionali di insegnamento non riescono ad
attirare l’attenzione e l’interesse degli alunni, abituati a diversi generi di stimolazioni (sin dalla loro
nascita), laddove invece i bambini sono affascinati da schermi, pulsanti, touchscreen, dai quali
apprendono con facilità ed immediatezza.
Di questo divario si è occupato più volte il MIUR, attraverso varie azioni e progetti. Nel 2007 si è
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“Le istituzioni scolastiche […] senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, individuano il
fabbisogno di posti dell’organico dell’autonomia, in relazione all’offerta formativa che intendono realizzare
[...] per il raggiungimento degli obiettivi formativi individuati come prioritari tra i seguenti: a) [...] h)
sviluppo delle competenze digitali degli studenti, con particolare riguardo al pensiero computazionale,
all’utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media nonché alla produzione e ai legami con il
mondo del lavoro”.
“Al fine di sviluppare e di migliorare le competenze digitali degli studenti e di rendere la tecnologia digitale
uno strumento didattico di costruzione delle competenze in generale, il Ministero dell'istruzione,
dell'università e della ricerca adotta il Piano nazionale per la scuola digitale, in sinergia con la
programmazione europea e regionale e con il Progetto strategico nazionale per la banda ultralarga”.
Nell’ambito della Riforma della Buona Scuola, il 27 ottobre 2015 è stato presentato il Piano
Nazionale Scuola Digitale (PNSD), il documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca pensato per guidare le scuole in un percorso di innovazione e
digitalizzazione.
Il Piano Nazionale Scuola Digitale prevede otto aree, all’interno delle quali sono individuati
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La Lavagna Interattiva Multimediale è uno strumento tecnologico che ripropone la forma oltre che
la funzione della lavagna, ma è una lavagna speciale, su cui è possibile scrivere, proiettare filmati,
spostare immagini e altri oggetti multimediali con le mani o con apposite penne digitali, salvare la
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6.1 Il brainstorming
Il termine brainstorming, entrato ormai a far parte del nostro vocabolario1, è dato dalla
composizione di due termini inglesi quali “brain” che significa “cervello” e “storm” che significa
“temporale, tempesta” pertanto significa letteralmente, “tempesta di cervelli”.
Il primo ad utilizzare questo termine per indicare una metodologia è stato il pubblicitario americano
Alex Faickney Osborn negli anni ‘40, il quale dopo aver sperimentato la validità della metodologia
nel suo campo di lavoro ne diffuse la conoscenza nel 1957 attraverso il volume “Applied
imagination: principles and procedures of creative thinking”.
Il brainstorming è una delle più conosciute e più usate tecniche di creatività di gruppo attraverso la
quale ci si prefigge di far emergere idee volte alla risoluzione di un problema (Osborn, 1986): posto
un problema, ciascun membro del gruppo può esprimere, senza alcuna forma di inibizione, il più
alto numero di idee e soluzioni di ogni tipo.
La paura di essere giudicati e criticati normalmente spinge gli allievi ad avere paura e ad esercitare
resistenza nel manifestare le proprie idee nel proprio gruppo classe, ma con la tecnica del
brainstorming tali difficoltà possono essere superate perché si tratta di una situazione non-direttiva
in cui tutti i partecipanti sono alla pari e in cui non ci sono idee giuste e idee sbagliate, ma tutte
hanno pari dignità euristica per la ricerca (Tessaro, 2002).
Il brainstorming (Antonietti, 1994, p. 23) insiste soprattutto su una funzione che è rapportabile ai tre
principali fattori del pensiero divergente quali la capacità di produrre molte idee, diversificate e
insolite. Non essendoci cose giuste e cose sbagliate durante il brainstorming tutti gli allievi possono
esprimersi senza restrizione e questo provoca negli altri delle associazioni mentali che fanno
1
Il Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, alla voce brain-storming lo definisce come “tecnica di ricerca di
gruppo per stimolare la produzione di idee creative; è usato specialmente nella formulazione di slogan pubblicitari”.
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Il cooperative learning (apprendimento cooperativo) può essere definito come un insieme di principi
e di tecniche di classe, nelle quali gli studenti lavorano in piccoli gruppi per attività di
apprendimento e ricevono una valutazione in base ai risultati conseguiti (Comoglio, 2005).
Il metodo cooperativo fa riferimento al pensiero di alcuni pedagogisti, filosofi e psicologi degli inizi
del 1900 quali John Dewey, Kurt Lewin, Jean Piaget, Lev Vygotsky e si è sviluppato negli anni
Settanta del secolo scorso. Il primo e più importante centro di studi sul cooperative learning fu il
Cooperative Learning Center dell’Università del Minnesota a cui appartengono i fratelli David
Johnson e Roger Johnson, che intorno agli anni Settanta hanno cominciato ad occuparsi di
cooperative learning; i fratelli Johnson sono considerati i pionieri di questa metodologia didattica.
In Italia il metodo cooperativo è stato introdotto da Mario Comoglio che, dopo aver trascorso
diversi anni di studio e di esperienza negli Stati Uniti, ha introdotto non soltanto una nuova
metodologia didattica, ma anche una nuova visione di scuola, ovvero una scuola non soltanto
informativa ma anche e soprattutto formativa ed educativa.
Sono numerose le definizioni che sono state pubblicate nel corso degli anni. Comoglio (1999)
definisce il cooperative learning come:
“(…) un metodo di conduzione della classe che mette in gioco, nell’apprendimento, le risorse degli studenti.
Così inteso, si distingue dai metodi tradizionali che puntano invece sulla qualità e sull’estensione delle
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Il fondamento che sta alla base di questa metodologia è che il gruppo è un universo di risorse in
termini sia di conoscenze sia di competenze per cui l’insegnamento/apprendimento è un processo in
cui non è l’insegnante a trasmettere le conoscenze bensì gli stessi allievi apprendono dallo scambio
di conoscenze e competenze tra tutti. Gli studenti diventano protagonisti attivi del proprio
apprendimento poiché coinvolti in attività che li “incastrano” in un gioco di interdipendenza che
non permette di sottrarsi al lavoro comune.
Numerose ricerche hanno rilevato che l’utilizzo della metodologia cooperative apporta notevoli
benefici. I fratelli Johnson insieme a Holubec nel loro volume Apprendimento cooperativo in classe
(1996) raggruppano i risultati che la metodologia consente di raggiungere in tre aree:
- gli studenti ottengono migliori risultati: tutti gli studenti (anche quelli con Bisogni
Educativi Speciali), indipendentemente dalle capacità di apprendimento che possono essere
più o meno alte, lavorano di più raggiungendo risultati migliori, memorizzano meglio e più a
lungo, sviluppano una maggiore motivazione intrinseca, trascorrono più tempo sul compito
e sviluppano livelli superiori di ragionamento e capacità di pensiero critico;
- relazioni più positive tra gli studenti: si crea uno spirito di squadra e di rapporti di
amicizia e sostegno reciproco, sia personale sia scolastico; la diversità è rispettata e
apprezzata e il gruppo si affiata;
- maggiore benessere psicologico: gli allievi lavorando in gruppo sviluppano il loro senso di
auto efficacia, l’autostima e l’immagine di sé e le competenze sociali. Gli allievi imparano
ad affrontare le difficoltà e a gestire lo stress.
Gli studenti attraverso questa metodologia percepiscono in sé il locus of control dei propri risultati
(impegno, abilità, ecc.) senza attribuirli a cause esterne e non controllabili (locus of control esterno,
fortuna, facilità del compito ecc.) e quindi si sentono responsabili del loro apprendimento (Slavin,
1990).
Nello specifico degli allievi diversamente abili, l’apprendimento cooperativo è particolarmente
efficace perché il progetto personalizzato si fonda proprio su un’impostazione che vede “legati” gli
aspetti cognitivi e quelli affettivi-relazionali (Sasso, 2010). Oggi la scuola deve proporsi come
un’agenzia educativa il cui compito non deve essere solo quello di trasmettere ai propri allievi
abilità e conoscenze ma piuttosto competenze trasversali e attitudini strategiche, in questo modo, se
quanto appreso negli anni perderà di validità perché superato, resterà agli allievi la capacità di
recepire e gestire conoscenze, di organizzare lavori individuali, cooperativi e competitivi, di fare
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Il modello del Jigsaw, letteralmente puzzle o gioco di costruzioni, è una specifica tecnica di cooperative learning
sviluppata da Aronson (1978) e dai suoi studenti dell’Università del Texas e dell’Università di California negli anni
Settanta. Il Jigsaw si caratterizza per l’enfasi posta sulla strutturazione dell’interazione tra gruppi eterogenei formati da
3 a 6 studenti, in cui ad ogni studente viene assegnata una parte del compito sulla quale si può preparare e confrontare in
un gruppo parallelo. Ogni studente lavora in modo indipendente per diventare un esperto di una porzione della lezione
ed è responsabile dell’insegnamento di tali informazioni agli altri componenti del gruppo così come è anche
responsabile dell’approfondimento delle informazioni fornitegli dagli altri membri del gruppo. L’insegnante accerta la
competenza del gruppo sull’argomento complessivo. Vengono dati voti individuali sulla base di un esame.
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“(…) l’interdipendenza positiva fra i membri del gruppo non si raggiunge né riunendo semplicemente i
membri, né limitandosi a stimolarli alla cooperazione, né richiedendo loro di produrre insieme un qualche
prodotto finale. (…) l’interdipendenza positiva può essere raggiunta attraverso obiettivi comuni
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A questo scopo un insegnante può scegliere di utilizzare vari tipi di interdipendenza positiva tra cui
(La Prova, 2008; Johnson, Johnson, Holubec, 1996):
interdipendenza di obiettivo: gli studenti capiscono che possono raggiungere i loro
obiettivi solo se tutti i membri del gruppo raggiungono i loro; hanno una serie di mete
comuni (ad es. produrre un disegno, un diagramma, raggiungere una migliore comprensione
di un concetto, ecc.) che tutti si sforzano di raggiungere;
interdipendenza di compito: il lavoro è ripartito in una sequenza di fasi in modo che uno
studente debba fare la sua parte perché il compagno possa svolgere la propria;
interdipendenza di materiale: gli studenti dipendono gli uni dagli altri per l’utilizzo dei
materiali necessari allo svolgimento del compito;
interdipendenza di ruolo: l’insegnante assegna agli studenti ruoli complementari e
interconnessi che specificano le responsabilità che si devono assumere per svolgere il
compito;
interdipendenza di informazioni e risorse: ogni membro riceve solo una parte delle
informazioni o dei materiali per lo svolgimento del compito; perché sia raggiunto l’obiettivo
le parti devono essere combinate;
interdipendenza di identità: il gruppo si dà un’identità collettiva scegliendosi un nome,
uno slogan, ecc.;
interdipendenza di fantasia: ai membri del gruppo si assegna un compito che richiede loro
di immaginare di trovarsi in una situazione di pericolo e in cui, per sopravvivere, devono
collaborare;
interdipendenza di contesto spaziale: si favorisce la coesione del gruppo attraverso la
strutturazione dell’ambiente, per esempio, al gruppo si assegna un punto particolare
dell’aula in cui lavorare;
interdipendenza di sequenza temporale: ogni membro del gruppo è responsabile di un
passo di un percorso. (Uno studente cerca una parola nel vocabolario, il secondo scrive la
definizione, il terzo usa la parola in una frase);
interdipendenza di valutazione: il gruppo riceve una valutazione ponderata sulla base dei
risultati ottenuti da ciascun membro;
interdipendenza di incentivi e di celebrazione: Incentivi: si condivide un riconoscimento
(se eccessivi, diminuiscono la motivazione intrinseca). Celebrazione: si condivide e si
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Un esempio. Marco è stato valutato 7, Maria 6, Giuseppe 5 e Laura 8, il voto medio del gruppo è 6,5 perché
(7+6+5+8)/4=6,5, per cui se si è deciso che il voto medio del gruppo pesa per il 30% e quello individuale per il 70% nel
punteggio individuale finale potremmo calcolare il punteggio di ogni singolo allievo. Per esempio per l’allievo Marco
moltiplicando 6,5 (media del gruppo) per 30 e dividendo per 100 avremo il peso del punteggio di gruppo che sarà 1,95,
mentre moltiplicando 7 (punteggio individuale) per 70 e dividendo per 100 avremo il peso del punteggio individuale
che sarà 4,90, sommati i due punteggi (1,95 + 4,90) avremo che il punteggio finale di Marco è 6,85.
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6.3 Il tutoring
I primi studi scientifici sul peer tutoring risalgono al 1979 quando cominciarono delle indagini sui
programmi di tutoring per alunni con difficoltà di apprendimento e sullo studio degli effetti a livello
di cambiamento comportamentale che la metodologia genera. Nel 1986 Hedin pubblicò un rapporto
per la Canergie Commission in cui consigliava l’utilizzo del tutoring per l’educazione di tutti gli
alunni. Le prime applicazioni del tutoring in classe negli Stati Uniti risalgono a molto prima e,
infatti, diversi documenti degli anni Sessanta testimoniano l’utilizzo di programmi di tutoring per
affrontare le numerose difficoltà degli allievi “problematici”. Con il termine “problematico” si
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Un’altra metodologia didattica nata da ricerche nel campo della psicologia cognitiva è la didattica
metacognitiva che non utilizza materiali o metodi inediti bensì punta a far sviluppare negli allievi le
abilità mentali superiori che vanno al di là dei semplici processi cognitivi primari come leggere,
calcolare e ricordare.
Il termine metacognizione significa letteralmente “oltre la cognizione” e sta ad indicare la capacità
di “pensare sul pensiero” o meglio di poter riflettere sulle proprie capacità cognitive. Una
metodologia attraverso la quale far acquisire agli allievi la consapevolezza in ordine a ciò che sta
facendo, al perché lo fa, a quando è opportuno farlo e in quali condizioni. Attraverso l’approccio
metacognitivo l’allievo impara ad essere “gestore” diretto dei propri processi cognitivi dirigendoli
attivamente con proprie valutazioni e indicazioni operative. L’allievo acquisirebbe quella che
Flavell nel 1971 ha denominato “Metamemoria”, ovvero:
“(…) la conoscenza che l’individuo possiede circa sé stesso e gli altri in quanto organismi memorizzatori”
(Flavell, 1971, p. 272).
Occorrerà aspettare gli anni Ottanta per vedere le teorizzazioni di Flavell diventare una strategia di
intervento educativo specifica nei casi di difficoltà di apprendimento e di ritardo mentale medio e
lieve, e, solo dopo qualche anno, anche nei casi cosiddetti “normodotati” dando inizio a quella che
oggi è chiamata prospettiva metacognitiva, ossia la capacità di un individuo di saper osservare e
riflettere su ambiti specifici del proprio funzionamento psicologico. L’approccio metacognitivo,
infatti, è inserito nel quadro metodologico della “speciale normalità” perché è rivolto sia agli allievi
che hanno bisogno di interventi di recupero e sostegno individualizzato sia alla restante parte degli
allievi che non hanno bisogno di una didattica individualizzata, questo perché utilizza un comune
riferimento metodologico e una serie di collegamenti operativi tra insegnamento normale e speciale
e fra gli alunni stessi (Scataglini, Cramerotti, Ianes, 2008).
La didattica metacognitiva è una metodologia didattica che utilizza deliberatamente e
sistematicamente i vari concetti e le metodologie derivanti dagli studi sulla metacognizione che
hanno portato importanti novità anche a livello di contenuti, di obiettivi e di abilità che l’alunno
deve apprendere perché utili ai fini dell’apprendimento.
La particolarità di questa metodologia sta proprio nel concepire il processo educativo finalizzato
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1 LIVELLO 2 LIVELLO
Conoscenze sul funzionamento Autoconsapevolezza del proprio
cognitivo in generale funzionamento cognitivo
(teoria della mente). (consapevolezza personale).
4 LIVELLO 3 LIVELLO
Variabili psicologiche Uso generalizzato di strategie di
“sottostanti”: autoregolazione cognitiva
- locus of control (autodirezione).
- senso di autoefficacia
- attribuzione e credenze
generali e specifiche
- autostima
- motivazione
Facilitazione/ostacolo
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Autostima
L’autostima è stata definita da William James come il rapporto tra il Sé percepito, che equivale al
concetto di sé, alla conoscenza delle abilità, delle caratteristiche e delle qualità che sono presenti o
assenti in un soggetto, e il suo Sé ideale che equivale all’immagine della persona che ci piacerebbe
essere. La discrepanza tra come un soggetto si vede e come vorrebbe essere indica il grado in cui
siamo soddisfatti di noi stessi; se la discrepanza è piccola l’autostima sarà alta. L’autostima è,
quindi, un’altra importantissima variabile psicologica che si collega a una fitta rete di rimandi e che
è quotidianamente alimentata dagli insegnanti. Graham e Baker (Scataglini, Cramerotti, Ianes,
2008) hanno, per esempio, dimostrato che ogni qual volta è dato un aiuto a un allievo senza che
questo ne faccia esplicita richiesta l’allievo si percepisce diverso e inferiore rispetto ai compagni e,
quindi, questo genera una sofferenza psicologica a livello di autostima. Per tale ragione occorre
programmare secondo il principio della “speciale normalità” utilizzando materiali il più possibile
uguali a quelli dei compagni e porsi nei loro confronti con lo stesso atteggiamento. Altrettanto
importante per l’autostima è il vivere relazioni interpersonali significative in grado di confermare il
valore dell’alunno; un alunno che si sente stimato seguirà con maggiore interesse e impegno le
indicazioni di un insegnante.
Motivazione
Un’altra variabile psicologica molto importante che influisce sul processo d’apprendimento è la
motivazione la quale è strettamente interconnessa con il complesso sistema di attribuzioni e con la
percezione di autoefficacia. Una buona autostima e una’spettativa di successo contribuiscono allo
sviluppo di una maggiore motivazione e di una condizione di competenza e autoefficacia ottimali
per affrontare i compiti proposti.
La motivazione è
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Il termine laboratorio deriva da laborare e il laboratorium era essenzialmente un luogo fisico nel
quale si svolgevano attività di tipo artigianale. Oggi questo termine è utilizzato sia per indicare un
luogo fisico a sé stante, approssimativamente attrezzato (come per esempio il laboratorio
informatico, il laboratorio linguistico, il laboratorio chimico, ecc.), sia per indicare un modo di fare
scuola di tipo euristico, ovvero che promuove un insegnamento basato sulla ricerca e sul fare non
esclusivamente speso nello spazio e nel tempo dedicato al laboratorio, ma altrettanto diffuso nel
gruppo classe, all’interno della quota obbligatoria (Tessaro, 2002).
I primi riferimenti al laboratorio come luogo/modalità del fare e dell’apprendere in cui l’alunno è
protagonista del suo apprendimento sono leggibili nell’opera Didactica Magna, scritta fra il 1627 e
il 1657 da Jan Amos Komenski e nell’opera Come Gertrude istruisce i suoi figli scritta nel 1801 da
Enrico Pestalozzi, ma il vero sviluppo si ebbe nel 1896 con la fondazione a Chicago, da parte di
John Dewey, della Scuola Laboratorio in cui l’esperienza fu alla base di ogni sviluppo di pensiero.
Alla Scuola Laboratorio appartennero due importanti esponenti della scuola attiva quali Ovide
Decroly e Maria Montessori. Entrambi usavano il metodo laboratoriale per le materie scientifiche e
per la matematica e per favorire il passaggio dal concreto all’astratto la Montessori si avvaleva di
materiale mentre il Decroly dell’osservazione della natura.
Con l’introduzione del metodo laboratoriale il metodo deduttivo, secondo cui si apprende prima
studiando e poi, eventualmente, verificando nella pratica, non è più il solo metodo per imparare, ma
si può apprendere facendo. Come afferma Moscato (1999) il “fare” che genera apprendimento non
è mai separato dal sapere e le due intelligenze, quella della mano e quella della mente, si muovono
integrandosi, interagendo e potenziandosi a vicenda.
Come si legge in La didattica laboratoriale di Boscarino (2004):
“(…) non c’è auditorium senza laboratorium, non esiste pensare teoretico senza fare tecnico e senza agire
pratico, non c’è astratto senza concreto, non esiste esercizio che non abbia la possibilità di essere vissuto e
pensato come problema, né discipline «forti» senza quelle «deboli», né scienze taumaturgiche e
autosufficienti che educhino qualcuno di per sé senza che questo qualcuno le capisca e le ami, così come
non esiste disciplinarietà che sia pura e non abbia filtrazioni impure: e ovviamente non esiste neanche il
reciproco di queste affermazioni”.
L’obiettivo primario e trasversale a tutti i laboratori è quello di coniugare il sapere (la conoscenza),
il sapere essere (le abilità) e il saper fare (l’agire intenzionale e consapevole) (Polito, 2000). Il fare
che viene attivato attraverso la didattica laboratoriale è un fare oltre che manuale anche cognitivo,
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“(…) trasforma in un animatore. In promotore di creatività. Non è più colui che trasmette un sapere bell’e
confezionato, un boccone al giorno; un domatore di puledri; un ammaestratore di foche. È un adulto che sta
con i ragazzi per esprimere il meglio di se stesso, per sviluppare anche in se stesso gli abiti della creazione,
dell’immaginazione, dell’impegno costruttivo in una serie di attività che vanno ormai considerate alla pari”.
L’insegnante deve essere per i propri allievi un accompagnatore, un tutor e un consulente che
costantemente deve stimolare e incoraggiare ciascun alunno ad esprimersi. Egli deve, inoltre,
indirizzare gli alunni verso la ricerca di soluzioni, valorizzare le abilità dei singoli, indirizzare gli
alunni verso la scoperta, fornire “sostegno tecnico” e motivare. Per quanto concerne le scelte
didattiche ed educative l’insegnante deve programmarle preventivamente e dichiarare
esplicitamente agli allievi questo.
Negli anni Sessanta ad opera di un gruppo di psicologi e pedagogisti statunitensi, fra i quali Bloom,
Carroll, Airasian e Block, è nato il mastery learning traducibile come “apprendimento per la
maestria o per la padronanza” che consiste in una metodologia di azione didattica: esso parte dal
presupposto che l’esistenza o meno di differenze nelle capacità o nel profitto degli allievi è “un
falso problema” e mira a un apprendimento efficace per il più alto numero di allievi (Tessaro,
2002).
L’idea di fondo del mastery learning è legata alla possibilità di ognuno di dedicare allo sviluppo
delle conoscenze e delle competenze una particolare lunghezza del tempo riservato al
raggiungimento di un’abilità (Sasso, 2003); pertanto differenti soggetti hanno bisogno di differenti
quantità di tempo per apprendere e in condizioni favorevoli vi può essere uguaglianza di
apprendimento. Carroll (in Tessaro, 2002, p. 162) sosteneva a riguardo che il livello di
apprendimento dipende da almeno cinque fattori quali:
1. il tempo concesso;
2. la perseveranza;
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A C
Elementi costanti delle due fasi: U O
i vari feedback; T N
la valutazione formativa; O T
la partecipazione attiva degli alunni. V R
A O
L L
Analisi Individuazione di segnali U L
componenziale per focalizzare T O
del compito l’attenzione e sviluppare A
la motivazione Z P
I E
O R
- Chiarezza degli obiettivi di N
apprendimento (contenuti); E L
Progettazione di - Descrizione dettagliata
una lezione A
degli obiettivi di Modalità multiple di
apprendimento; apprendimento (MMA): C
- Verifica dei prerequisiti- metodi, strategie, O
abilità possedute e materiali, tempi. M
difficoltà in condizione di P
essere superate R
(valutazione diagnostica). E
N
S
I
Individuazione di un nuovo Accertamento O
Curriculum sistemico di tipo
traguardo formativo. N
formativo. E
Ulteriore traguardo
formativo
Riorganizzazione
Accertamento di
tipo formativo
del percorso di
apprendimento.
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La scuola negli ultimi anni ha preso in prestito dalla psicologia sociale una metodologia denominata
action-research, che in italiano significa ricerca-azione.
La ricerca-azione è stata introdotta da Lewin negli anni Quaranta come metodologia di intervento
nel sociale e può essere definita come un metodo che
“(…) ingloba i diversi attori di un sistema in un medesimo progetto d’azione” (Pourtois, 1984, in Becchi,
Vertecchi, 1984).
Tale metodologia ha trovato applicazione in differenti settori dando origine a diversi modelli di
intervento, alcuni dei quali sono, per esempio, la ricerca-intervento, l’action learning (Cartoccio,
Forti, Varchetta, 1988) la formazione-intervento (Di Gregorio, 1994), la ricerca d’aula
(Bruscaglioni, 1992) e il laboratorio di epistemologia operativa (Munari, 1993). Questi modelli di
ricerca sono accomunati da una concezione di intervento che considera l’apprendimento come un
processo ciclico di riflessione e prassi (Colangelo, 1997).
La ricerca-azione, quindi, è una forma di ricerca partecipativa, compiuta da persone direttamente
impegnate nell’azione all’interno di una struttura o istituzione, il cui scopo è quello di risolvere una
specifica difficoltà. In essa il momento conoscitivo della ricerca, finalizzato alla conoscenza di una
data realtà educativa, e il momento dell’azione, durante il quale si attua un piano d’azione, sono
contemporanei e inscindibili (Trinchero, 2004). La ricerca-azione si contraddistingue per essere un
processo di raccolta sistematica di dati, provenienti dall’interazione tra i diversi attori coinvolti
(insegnanti e studenti), e di attività di valutazione collettiva, funzionali allo sviluppo del sistema
stesso (Tessaro, 2002).
Un elemento che contraddistingue la ricerca-azione è il potere decisionale dei partecipanti, in
quanto hanno la possibilità di mettere in atto interventi concreti sulla situazione in oggetto, in
funzione dei risultati che man mano emergono dalla ricerca da loro stessi condotta. La ricerca-
azione, quindi, non segue un disegno rigidamente predefinito; ogni nuovo elemento di evidenza
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Il role playing è una metodologia oggi molto utilizzata nel campo formativo che ha origine dallo
psicodramma di Moreno. Lo psicodramma è una tecnica terapeutica nata negli anni Venti che si
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“(…) si recita un ruolo per dar vita ad un personaggio in una realtà. La realtà sotto forma di dramma è
innanzitutto soggettiva, esprime la percezione degli attori. Questa tecnica può essere utilizzata durante la
formazione per dare al gruppo un’immagine della complessità di una situazione i cui differenti aspetti
vengono così meglio visualizzati”
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Il termine inglese problem solving, traducibile in italiano come “risoluzione di un problema”, indica
una metodologia didattica attiva in cui agli allievi è posto, sotto forma di domanda o situazione
stimolo, un problema da risolvere a partire dal quale devono ricercare strategie per una risoluzione
corretta. La situazione posta agli allievi è generalmente nuova e non gestibile con le strategie che
essi già conoscono: pertanto gli studenti devono sforzarsi di cercarne delle nuove e questa ricerca
può avvenire o attraverso un processo di “prove ed errori” oppure per insight (intuizione
illuminante). Questa tecnica permette lo sviluppo di strategie e abilità di soluzione di problemi sul
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Bibliografia e sitografia
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