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CAPITOLO 1

Introduzione
Lo scopo dell’antropologia culturale è osservare il mondo nella sua realtà quotidiana e scoprirne i significati e i
modelli. Possiamo affermare che il “mondo” è fatto da una realtà oggettiva e da una realtà immaginata, ed
entrambe contribuiscono alla formazione della nostra struttura culturale. La realtà immaginata, per quanto sia
astratta, è un insieme di strutture simboliche che hanno una valenza fortissima all’interno del nostro immaginario.
Lo spiega molto bene con un esempio Harari, nel suo libro “Da animali a dèi” con l’esempio del paradosso della
Peugeot. Per tutta una serie di motivi, noi possiamo affermare che la Peugeot non esiste veramente, ma è solo
un’invenzione della nostra mente (molto banalmente, perché non ha una e una sola entità fisica, non si può
“indicare”, e cioè è una “finzione giuridica”). Un simbolo, dunque, astratto e immateriale, appartenente alla realtà
immaginata. Ma anche la realtà oggettiva è piena di simboli e significati: ogni cosa, infatti, possiede una faccia
nascosta che ci permette, attraverso lo studio antropologico, di ricavare una grande comprensione e conoscenza
della società che usa quella determinata cosa.
Un esempio molto banale sono le sedie e i banchi di scuola: non in tutto il mondo si usano, e il fatto che si siano
iniziate ad usare nel mondo occidentale ha un importante significato. Le sedie infatti rimandano all’obiettivo che
si voleva raggiungere con esse: tenere il corpo eretto e focalizzare l’attenzione sull’insegnante. Il banco di scuola
è di fatto lo specchio della società: lo studioso secentesco La Salle proponeva un modello di scuola che rifletteva
il modello rigido e gerarchico della società, ossia una scuola in cui le postazioni nei banchi venivano assegnate
sulla base della bravura, della pulizia, del reddito, del carattere, ecc. Da tutto questo capiamo come siano
sempre state effettuate delle “tecniche del corpo”, ossia delle tecniche per modellare e manipolare il corpo al fine
di rendere il soggetto un oggetto economico e politico. Di questo ne parla ampiamente il filosofo novecentesco
Foucault.
Dunque l’antropologia si interroga sui significati che stanno dietro ad ogni aspetto delle varie società, ma va da
sé che la materia antropologica si porta con sé una serie di domande, ossia: perché le diverse società hanno
culture diverse? come giudichiamo le culture altrui? è possibile riuscire a vedere il mondo come lo vedono culture
diverse dalla nostra? in che modo possiamo interpretare le culture altrui? Cosa può dirci su noi stessi ciò che
impariamo sugli altri?

domanda 1: perché gli esseri umani pensano e si comportano in modo diverso?


Secondo la prospettiva antropologica, le varie culture hanno modi diversi di vedere il mondo. Il motivo alla base
di questo fatto è, molto semplicemente, che gli individui hanno visioni diverse del mondo perché le loro culture
sono diverse, e da una società all’altra cambiano le regole e il significato che le persone attribuiscono agli eventi
diversi della vita. Concentriamoci per esempio su due fatti fondamentali della vita, che sono interpretati molto
diversamente da cultura a cultura:

La morte
Lo studio della morte è al centro dell’attenzione degli antropologi: l’hanno studiata ad esempio Louis Vincent
Thomas e Alfonso Maria di Nola. Le varie culture hanno idee diverse su vari aspetti della morte, come la visione
della morte stessa, l’atteggiamento rispetto ai morti, e l’atteggiamento rispetto al dolore della morte.
Per quanto riguarda il primo aspetto, per alcuni la morte è l’inizio di un’altra vita, per altri la fine di tutti, per altri
ancora un passaggio ad un’altra fase di uno stesso ciclo infinito di reincarnazioni in altri esseri viventi. In
Columbia Britannica, per esempio, una popolazione ritiene che dopo la morte l’anima va in un salmone, e solo
una volta che questo viene pescato e mangiato, l’anima si libera e può andare ad incarnare altri esseri viventi.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, alcuni hanno paura dei morti mentre altri sono estremamente rispettosi:
nella Cina tradizionale ad esempio si tenevano altari per il defunto a cui si chiedeva consiglio per fatti importanti.
Infine, molto interessanti sono le differenze nel modo in cui i popoli affrontano il dolore per la morte, e per
maggiore semplicità stiliamo il seguente elenco:
1) in Nuova Guinea chiedevano a una persona cara del defunto di tagliarsi una falange
2) i Wari lasciavano che i membri della tribù che non erano in stretti rapporti col defunto ne mangiassero le
carni. Questa pratica si chiama “cannibalismo compassionevole”, perché i Wari ritenevano che essa
avrebbe potuto permettere ai parenti di soffrire meno. La terra infatti era considerata infetta e sporca
(tanto che si faceva attenzione che alcuni oggetti sacri non cadessero o non venissero appoggiati a
terra), e quando gli occidentali costrinsero i Wari a seppellire i loro morti, essi vissero questo fatto
soffrendo infinitamente, come se qualcuno avesse costretto gli occidentali a far mangiare i loro morti.
Inoltre, va anche detto che la condanna del cannibalismo da parte degli Europei non teneva conto che
nel medioevo, spesso per ragioni mediche, anch’essi praticavano il cannibalismo, ed era una pratica
completamente accettata.
L’esempio del cannibalismo dei Wari rientra nella vasta pratica antropopoietica di costruzione culturale
del corpo: ossia una serie di interventi eseguiti sul corpo e che hanno una forte valenza culturale. La
loro tassonomia ha una gradualità da reversibile/irreversibile, non doloroso/doloroso.
3) gli Italiani praticavano il pianto funebre, addirittura in meridione le donne si strappavano i capelli. La
pratica del pianto rituale (praticato anche in Piemonte ma poi abbandonato) viene studiata molto da
Ernesto de Martino, che concorda sul fatto che esso corrisponde ad un modello rituale che aiuta i cari a
superare il cordoglio.
4) gli Americani vivevano e vivono il dolore con grande riservatezza
5) gli Indiani bruciavano con la pira la moglie del defunto

Il cibo
Noi di fatto crediamo di essere onnivori, ma non lo siamo. Marvin Harris, antropologo statunitense molto
prolifico, ha scritto il libro “buono da mangiare - enigmi del gusto e consuetudini alimentari”, spiegando molto
bene che noi non mangiamo ciò che è commestibile, ma ciò che la nostra cultura ci permette di mangiare.
Il mondo si divide infatti tra lattofili e lattofobi (sia per base genetica, poiché i livelli di lattasi sono differenti nei vari
gruppi etnici, sia per base culturale), tra popoli che mangiano insetti e non, tra popoli che mangiano funghi e non,
trippa e non. Interessante anche la questione dell’ippofagia: il cavallo è mangiato in europa e non in america.
Perché? In Europa all'inizio non si mangiava perché era qualcosa di proibito dalla chiesa e dalla legge. Il tabù
alimentare del cavallo in Europa cresce con il crescere dell’importanza della cavalleria. Ma in concomitanza con
la rivoluzione francese i limiti imposti al consumo di carne equina diventarono presto uno dei numerosi
antagonismi in termini di interesse di classe. Gli aristocratici non volevano che il cavallo si mangiasse perché
temevano che i cavalli si sarebbero allevati a scopo alimentare, che il costo dell’avena sarebbe aumentato e che
molti più cavalli sarebbero stati rubati per portarli al macello. Di fatto però, con la rivoluzione, si iniziò a mangiare
la carne equina a volontà. In america invece si finì per non mangiare la carne equina principalmente perché
erano più abbondanti le altre fonti di carne.
Marino Niola, nel suo testo “Homo dieteticus - viaggio nelle tribù alimentari” ci dice che siamo arrivati oggi ad un
tribalismo alimentare contemporaneo, che ha fatto del cibo un’ossessione, nonché uno strumento di unione e
contrapposizione. Le diete e i regimi alimentari sono i nuovi classificatori dell’umanità.

Vediamo dunque quanto sono diversi i modi delle varie culture di vedere il mondo. Ancora prima di chiederci
come noi dobbiamo approcciarci a tale diversità, dobbiamo domandarci perché l’uomo sia l’unico animale
culturale, ossia perché sia stato l’unico ad aver dato un significato a cose, animali, eventi, eccetera.
Risponde a questa domanda Clifford Geertz: per lui, l’essere umano è un animale incompleto, che deve attribuire
un significato alla propria esistenza perché altrimenti tutto gli apparirebbe assurdo, un caos insensato. Egli è
imperfetto (in quanto incompleto) e si perfeziona con la cultura.

domanda 2: quali criteri seguiamo per giudicare credenze e pratiche altrui?


Se ogni cultura è diversa, come dobbiamo porci davanti a pratiche a nostri occhi orripilanti, come:
1) gli Ilingot delle Filippine che tagliano la testa ai nemici per la rabbia di aver perso qualcuno
2) gli aztechi che sacrificano il cuore dei nemici agli dei per evitare che il mondo si distrugga (essi credono
che ciclicamente il mondo debba distruggersi)
3) le tribù dell’Africa centrale che praticano l’infibulazione
4) i Wari che praticano il cannibalismo
5) alcune donne delle baraccopoli brasiliane che lasciano morire i figli di fame pensando che tanto
sarebbero comunque morti.
Innanzitutto, ricordiamo che anche la cultura europea è stata vista male da altri popoli: celebre è il caso dei
discorsi del Capo Tuiavii di Tiavea, che raccontano l’uomo “Papalagi”, ossia l’uomo bianco, e tutte le sue
stranezze. Inoltre, proviamo a rispondere alla domanda avvicinandoci ai concetti antropologici di:

Etnocentrismo
Con il termine etnocentrismo si indica la tendenza a considerare la propria cultura di appartenenza come
superiore e ad applicare i propri valori culturali nel giudicare il comportamento e le credenze di individui cresciuti
in seno ad altre culture. Esso però è atteggiamento valutativo e classificatorio asimmetrico, fondato su
un’auto-attribuzione, spesso esclusiva, di umanità, relega l’altro in un numero ristretto di categorie marginali, e in
cui si riconoscono gli attributi ascritti al proprio gruppo e, in ultima analisi, alla vera umanità.
Possiamo tuttavia considerare l’etnocentrismo un universale sociale, alla base del senso di appartenenza
comunitaria di un individuo a un gruppo, poiché come ci dice Kottak, “ovunque gli individui ritengono che le
proprie consuete spiegazioni, opinioni e tradizioni siano giuste, vere, appropriate e morali, e qualificano i
comportamenti diversi come strani, immorali o selvaggi”. Stessa cosa la pensa Leach, che oltre a ritenere
l’etnocentrismo in qualche modo “innato”, sostiene che esso rappresenterebbe un’estensione dell’egocentrismo
che si troverebbe alle radici della coscienza umana.
Anche Michel de Montaigne (vissuto nel 1500), riconosceva questo aspetto, dicendo che “ognuno chiama
barbarie quello che non è nei suoi usi”, e allo stesso modo la pensa Levi Strauss, dicendo che l’uomo fa fatica a
riconoscere la diversità delle culture, e cerca anzi di sopprimere queste diversità. Abbiamo poi Kroeber, che
analizzerà l'etnocentrismo leggendovi un atteggiamento di sopravvalutazione o sacralizzazione della cultura
d'appartenenza da parte dell'individuo.
Ci sono vari esempi di etnocentrismo, che si vanno ad elencare qui di seguito:
1) il giudizio sui matacos di Rafael Gobelli, vissuto tra Otto e Novecento: egli, dopo uno studio di tre
anni presso questa tribù indigena sudamericana, ritenne che quella dei matacos era la più arretrata, la
più degradata e la più refrattaria alla civiltà, giudicandola negativamente perché la metteva a confronto
con la propria cultura occidentale.
2) l’opera del sociologo statunitense Banfield, “The moral basis of a Backward Society”, scritta negli
anni Cinquanta del 900. Banfield studiò i problemi economici, politici e culturali dell’Italia del
Mezzogiorno, attraverso uno studio di comunità, collegandoli alla loro “base morale”. Banfield mise a
confronto Chiaromonte e una cittadina di analoghe dimensioni dell’ovest rurale degli Stati Uniti, St
George nello Utah. Mentre St. George era un alveare di attività di varie associazioni, che spaziavano
dalla camera di commercio al comitato locale della Croce rossa, attività che andavano oltre gli interessi
dei singoli o dei nuclei familiari, a Chiaromonte tutti gli interessi erano subordinati a quelli dei nuclei
familiari. Tale comparazione muoveva dall’aver assunto a quadro di riferimento il pensiero del filosofo
francese Alexis de Tocqueville (1805-1859) secondo il quale «Nei paesi democratici la scienza
dell’associazione è la scienza madre, quella dalla quale dipende il progresso di tutte le altre», frase che
significativamente Banfield pone in esergo al suo libro. L’ipotesi di Banfield è che i montegranesi
agiscono come se seguissero questa regola generale: massimizzare i vantaggi materiali e immediati
della famiglia nucleare; supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Colui che agisce in
questo modo è detto “familista amorale”. Il “familismo amorale” è letto dallo studioso americano come
profonda caratteristica antropologica del mezzogiorno, poiché per il montegranese qualsiasi vantaggio
dato ad altri risulta necessariamente a spese della sua famiglia, e tutti coloro che sono fuori dalla stretta
cerchia familiare sono per lo meno competitori potenziali, tanto che “avere amici è un lusso che i
montegranesi ritengono di non potersi permettere”, e “l’uomo migliore è quello che compie l’azione
migliore, e l’azione migliore è quella che reca maggior vantaggio”. Ora, alcuni sociologi italiani come
Gilberto Marselli sostennero che la ricerca di Banfield portava con sé una visione del mondo che non
coincideva con quella degli italiani. In altre parole Banfield ha una visione etnocentrica: vede il mondo
con i suoi occhi e lo misura con i saperi che si porta appresso; non usa il relativismo culturale. Banfield
non conosce le norme, il folklore giuridico, che regolano il vivere comunitario della gente del sud, come:
- il legame del comparatico, una specie di parentela spirituale per cui due persone, attraverso una
pratica rituale, stabiliscono un rapporto di sussidiarietà e di aiuto reciproco per tutta la vita. Il legame
può essere tra uomini e donne, o tra donne, o tra uomini. Viene ritualizzato solitamente il 24 giugno, san
Giovanni Battista. Questa pratica deriva dal fatto che in società prive di assistenza pubblica, l’individuo
sente la necessità di legare il proprio destino ad altre persone (non parenti biologici);
- la ponidura, istituto solidaristico ancora diffuso presso le comunità agopastorali della sardegna.
Consiste nella reintegrazione del gregge da parte di altri pastori. Il pastore che ha subito furti o perdita di
animali per cause naturali viene aiutato a ricomporre il gregge.
Ci sono anche altre pratiche del genere nel corso della storia umana, come allattare figli non propri,
cosa che crea i cosiddetti “fratelli di latte”.
L’antropologo Michael Herzfeld tiene che «Il familismo è di per sé un sistema etico. Perché la voglia di
difendere la propria famiglia dall'ostilità e dalla concorrenza degli altri è più che legittima. Il troppo
fortunato libro di Banfield, “Basi morali di una società arretrata”, aveva un approccio da missionario
protestante. E giudicava le società meridionali con i criteri della sua. Insomma guardava il Sud italiano
dall'alto in basso. Ma per un antropologo non è corretto considerare aprioristicamente superiore la
propria etica».
Va detto, per completezza del nostro percorso, che vi sono studiosi che tuttora ritengono corretta
l’analisi di Banfield. Ad es. il linguista Raffaele Simone nel libro Il paese del pressappoco (Garzanti,
2005) afferma: «a distanza di mezzo secolo bisogna riconoscere invece che lo spietato appellativo di
Banfield era perfettamente a fuoco, anzi profetico. (…) aveva colto con straordinaria lucidità uno dei
tratti essenziali, ancora vivo, dell’ethos italiano». Al di là delle differenti valutazioni che si possono dare
sul metodo e i risultati del lavoro di Banfield, va comunque riconosciuto che il suo lavoro è ormai un
classico dell’etnografia sull’Italia, un’«opera intramontabile» (S. Huntington), che ha alimentato e
alimenta un costante dibattito sul carattere nazionale degli Italiani. In particolare negli Stati Uniti questo
libro continua a venir considerato un libro standard sulla società italiana. Oggi siamo in grado quindi di
ridimensionare e forse persino invertire le critiche di Banfield. Tornando a riflettere retrospettivamente
sulla storia novecentesca, la famiglia sembra semmai aver rappresentato un momento di difesa e
resistenza rispetto all’invadenza degli Stati totalitari, delle violenze di massa, dei progetti di distruzione
della società civile e di creazione di inquietanti forme di ‘uomo nuovo’. Gli Stati hanno apertamente
tentato di invadere lo spazio della famiglia o persino di distruggerlo, creando un rapporto diretto tra
individui e potere e pretendendo di anteporre alle relazioni primarie l’ideologia e la fedeltà al partito o al
leader. La resistenza a queste forme di coercizione pubblica nella vita quotidiana sono state messe in
luce dallo storico Paul Ginsborg nel libro Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature
(1900-1950). La famiglia ha «costituito un nucleo di relazioni, di legami, di valori e fedeltà di lunga
durata, mai interamente riducibili ai progetti totalitari e capace di produrre nei loro confronti una vera e
propria resistenza». La famiglia è stata quindi «tutt’altro che amorale, giocando piuttosto un ruolo
virtuoso nella promozione di valori civici ed esperienze cooperative». In particolare nel Mezzogiorno non
è stato tanto il familismo in sé «il fattore regressivo e la radice dei sistemi clientelari e mafiosi, quanto
piuttosto il colonialismo interno e i rapporti tra Stato centrale e gruppi dirigenti locali». È in questa
prospettiva che si può ad es. interpretare il ruolo che, a partire dalla fine degli anni ’70, direttamente
dalla società civile, nell’inerzia dei partiti e fuori dagli schieramenti ideologici, «nacque una forma di
mobilitazione che proprio nelle famiglie aveva il suo perno».
Famiglie spinte da motivazioni affettive, ma con un’azione collettiva fondata su valori piuttosto che su
interessi utilitaristici e con lo scopo di mostrare a tutta la collettività che chiedere giustizia per i loro cari
non era solo una faccenda privata», come dimostra il ruolo e l’impegno sociale e pubblico svolto dalle
associazioni dei familiari delle vittime delle stragi.
Il pregiudizio etnocentrico viene considerato intellettualmente intollerabile, poiché chiunque, in qualsiasi luogo,
pensi di essere nel giusto e ritenga invece che gli altri abbiano torto, percorre una strada intellettualmente e
socialmente senza uscita. Inoltre, se presumiamo di possedere tutte le risposte giuste, lo studio delle altre culture
diventa semplicemente lo studio degli errori di un altro popolo.

Esclusivismo culturale
Si tratta di una particolare forma di etnocentrismo che agisce nei rapporti interni alle società “superiori”. Esempio
di esclusivismo culturale è stato l’atteggiamento di parte delle popolazioni dell’Italia del nord nei confronti delle
migrazioni interne degli anni Cinquanta e Sessanta.

Relativismo culturale
Contrapposto all'etnocentrismo figura il relativismo culturale ovvero la convinzione che non si debba giudicare il
comportamento in seno a una cultura, in base agli standard di un'altra. Nessuna credenza e pratica può essere
giudicata strana o errata semplicemente perché è diversa dalla nostra. Al contrario, ogni cultura deve essere
studiata dall'interno, poiché, per comprendere credenze e pratiche, occorre far riferimento allo scopo, alla
funzione o al significato che esse hanno all'interno di ogni singola società. In altre parole, secondo il relativismo,
una particolare credenza e pratica può essere compresa solo prendendo in esame la cultura - il sistema dei
significati - in cui è collocata. Portato agli estremi, il relativismo culturale sostiene che non esiste una moralità
superiore, internazionale o universale e che le regole morali ed etiche di tutte le culture meritino uguale rispetto.

Pregiudizio relativistico
Il relativismo, tuttavia, pone uno spinoso interrogativo etico: ammettiamo che sia lecito strappare il cuore a esseri
umani vivi [es. Atzechi], se si ritiene che questo serva a salvare il mondo, e che sia possibile sottoporre le
ragazze a dolorose mutilazioni sessuali per proteggere la reputazione della famiglia o controllare la crescita della
popolazione? Il pregiudizio relativistico è cioè «l'idea che sia impossibile emettere dei giudizi morali su credenze
e pratiche altrui. Questa affermazione, ovviamente, sembra moralmente intollerabile poiché implica che nessuna
credenza o pratica possa essere condannata in quanto errata». Per capirci, volendo fare un ragionamento in
astratto, un manuale di antropologia fa il seguente, provocatorio, esempio: «In tale ottica la Germania nazista
verrebbe valutata alla stessa stregua di uno Stato tollerante democratico, senza alcun giudizio morale». Gli
attivisti dei diritti umani considerano con particolare scetticismo il principio della relatività culturale, ponendosi
questo interrogativo: se le credenze e le pratiche di altre culture devono essere tollerate per non essere accusati
di etnocentrismo, come è possibile criticare quei comportamenti che sembrano violare i diritti umani fondamentali
[…]. Se ci si proclama a favore del relativismo culturale, sostengono i difensori dei diritti umani, allora le
discussioni sui diritti umani diventano prive di significato e diventa giustificabile pressoché qualunque tipo di
comportamento.
Ecco che il relativismo culturale viene considerato moralmente insoddisfacente.
Alcuni sostengono che i problemi del relativismo si possano risolvere distinguendo tra relativismo metodologico e
relativismo morale. In campo antropologico, il relativismo culturale non è una posizione di tipo morale, bensì di
tipo metodologico, in cui si dichiara che per comprendere pienamente un'altra cultura è necessario cercare di
capire il modo in cui le persone appartenenti a tale cultura vedono, concettualizzano e attribuiscono significati
alla realtà, al corpo, alle relazioni interpersonali. Un simile approccio non preclude il fatto di esprimere giudizi
morali o di agire, prendendo posizione. Tutto questo è stato sperimentato dall’antropologa Nancy
Scheper-Huges, quando fece ritorno in veste di antropologa in una baraccopoli brasiliana dove aveva già
lavorato come operatrice sociale. Le donne con le quali aveva in precedenza collaborato si sentirono offese
perché ora che lei lavorava come antropologa non lottava per i loro diritti sociali e si mostrava del tutto
indifferente alla situazione critica che la circondava. La studiosa cercò di spiegare che il suo lavoro da
antropologa era diverso e che doveva limitarsi ad osservare. Le donne erano contrariate e ribadivano che
avrebbero collaborato solo se la studiosa si fosse battuta con loro per una vita migliore, dicendo:"a cosa ci serve
l’antropologia?,". A seguito di questa esperienza Nancy si dichiara a favore di un'antropologia più vicina agli
esseri umani. Il relativismo morale, sostiene la studiosa, non è più adeguato al mondo in cui viviamo, e
l'antropologia, se vuole essere utile, deve essere criticamente fondata.

Ernesto de Martino e l’etnocentrismo critico


Ernesto de Martino rifiutava ogni forma di etnocentrismo dogmatico, ma al tempo stesso respingeva il relativismo
culturale. De Martino affermava e proponeva la validità di una posizione che egli stesso aveva assunto nei
confronti della cultura contadina meridionale nel corso delle sue precedenti indagini: posizione definita da lui
“etnocentrismo critico”. Questo è da intendersi come sforzo supremo di allargamento della propria coscienza
culturale, come presa di coscienza critica anche dei limiti della propria storia culturale. L’etnologo occidentale (o
occidentalizzato) assume la storia della propria cultura come unità di misura delle storie culturali aliene, ma allo
stesso tempo, nell'atto di misurare guadagna coscienza della prigione storica e dei limiti di impiego del proprio
sistema di misura e si apre al compito di una riforma delle stesse categorie di osservazione di cui dispone
all'inizio della ricerca. Tutto questo senza rinunciare all'idea del primato della civiltà occidentale, più avanzata sul
piano del sapere scientifico, della tecnologia, dello sviluppo culturale.

domanda 3: è possibile vedere il mondo attraverso lo sguardo altrui?


Questa domanda costituisce il nodo centrale della ricerca antropologica, e il metodo etnografico è la chiave di
volta attraverso cui comprendere l’alterità. Gli antropologi, come altri studiosi di scienze sociali, si servono di
indagini, documentazione scritta, racconti storici e questionari, ma la caratteristica fondamentale dell'antropologia
culturale è l’applicazione del metodo etnografico, ossia l'immersione dei ricercatori nella vita delle persone che
sono oggetto dell'osservazione: gli studiosi, attraverso quest'esperienza, cercano di raggiungere una certa
comprensione dei significati che quei popoli attribuiscono alla loro esistenza. Questo processo di immersione fa
uso delle tecniche di ricerca sul campo dell'antropologia, che richiede un'osservazione partecipante [cfr.
approfondimento su Malinowski], ossia l'attiva partecipazione degli osservatori alla vita di coloro che sono
oggetto di indagine.
Le scienze etnoantropologiche iniziarono a separarsi dalla sociologia agli inizi del XX secolo. Studiosi come
Durkeim si muovevano a cavallo delle due aree disciplinari. La principale differenza era che la sociologia
studiava le società complesse, mentre l’antropologia le società semplici. I primi studi di “società semplici” furono
effettuati da Boas (1911) e da Malinowski (1922), che avviarono ricerche di prima mano su insediamenti locali.
Prima di allora la ricerca etnoantropologica si nutriva soprattutto dei resoconti di viaggi, esplorazioni,
evangelizzazione e commercio (scritti da geografi, esploratori, missionari, mercanti ed ufficiali coloniali). Da
queste prime ricerche nasce dunque l’etnografia, che come abbiamo detto richiede l’esperienza dirette della
società analizzata da parte del ricercatore. Per raggiungere tale scopo gli etnografi adottano una strategia libera
per la raccolta di informazioni. Le tecniche da utilizzarsi sono in base a ciò che si troverà sul terreno. In una data
società o comunità, l’etnografo si muove da insediamento a insediamento, da luogo a luogo e da soggetto a
soggetto per scoprire la totalità e l’interconnettività degli aspetti della vita sociale. L’obiettivo del processo
etnografico è quello di mettere in luce il punto di vista del nativo, l’“emic”, parola contrapposta a “etic”, che
indica il punto di vista dell’osservatore esterno ad un contesto sociale (parole coniate dal linguista Kenneth L.
Pike nel 1954).

A livello delle tecniche etnografiche, ve ne sono varie: osservazione partecipante , intervista, informatori
privilegiati, storie di vita, metodo genealogico, ricerche longitudinali, ricerche di gruppo/focus group, ricerche
problem-oriented, indagine statistica.
Osservazione partecipante
Questo metodo primo e fondamentale implica la partecipazione totale del ricercatore nella comunità studiata,
nella vita sociale e produttiva del gruppo. In questo modo si vuole ridurre la distanza culturale tra il ricercatore e
l’oggetto della ricerca. Bronislaw Malinowski è il primo studioso a formulare questo metodo di indagine nel suo
libro “Gli Argonauti del Pacifico Occidentale”.

Intervista
Un’intervista è uno scambio di domande e risposte tra intervistatore (chi fa le domande) ed intervistato (chi dà le
risposte). Le interviste possono essere strutturate (domande prefissate nell’ordine e nella formulazione) o non
strutturate (discussioni libere, nel numero e nella formulazione delle domande).
Nell’intervista strutturata l’intervistatore propone una serie di domande fisse nel numero e nella forma
all’intervistato che potrà rispondere liberamente alle domande. Questo modello si addice a ricerche di carattere
qualitativo. I risultati verranno elaborati su base non-numerica ed è richiesto un significativo numero di intervistati
che permetta la comparabilità dei risultati al fine di verificare particolari ipotesi formulate.
Nell’intervista non strutturata/semistrutturata l’intervistatore propone una serie di domande variabili nel
numero e nella forma all’intervistato. Queste domande sono formulate partendo da una scaletta, da un elenco di
argomenti, che il ricercatore definisce prima dell’intervista sulla base delle informazioni che più gli interessano.
Questo modello di intervista si addice a ricerche di carattere qualitativo in cui non è primaria la comparabilità dei
risultati raccolti dai vari intervistati. È particolarmente utile quando si vuole far emergere il ‘punto di vista del
nativo’, permettendo al ricercatore di modulare le proprie domande liberamente in modo da approfondire
particolarmente punti ritenuti da lui/lei particolarmente interessanti ed utile alla comprensione di una cultura
locale o di un’esperienza personale.

Informatori privilegiati
Durante la ricerca, un ricercatore può trovare alcuni suoi “informatori privilegiati”. Questi sono un numero ristretto
di persone che il ricercatore stima particolarmente significative, rappresentative della società studiata. Gli
informatori privilegiati possono essere scelti arbitrariamente dal ricercatore oppure attraverso la campionatura
della popolazione oggetto di indagine così ottenendo un piccolo e gestibile gruppo individuato all’interno di una
più vasta popolazione. Ogni comunità ha al suo interno persone che per caso, esperienza, talento o esercizio
possono conoscere (e saper riferire) le informazioni più complete o utili che riguardano particolari aspetti della
vita: costoro sono gli informatori privilegiati, detti anche informatori chiave.

Storie di vita
Si può trattare di biografie o autobiografie. Sono racconti usati generalmente per far luce, per spiegare, per
raccontare i dettagli della vita di una comunità e della sua cultura. Una storia di vita fornisce un ritratto culturale
più intimo e personale che non sarebbe possibile ottenere in altro modo (esempi: Giovanni Bussi “Senza colpa in
questo inferno”, Giuseppe Anice - trovatello biellese, “Ero di nessuno”).
Una comparazione fra più storie di vita raccolte all’interno di una stessa comunità consente di mostrare le
differenze o le somiglianze interne alla comunità stessa.

Metodo genealogico
Il metodo genealogico mira a ricostruire i sistemi di parentela di un dato gruppo sociale. Gli antropologi hanno
bisogno di raccogliere dati genealogici per comprendere le relazioni sociali e ricostruirne la storia. In molte
società, anche industrializzate, i legami di sangue (parentela, discendenza, matrimonio,…) rappresentano la
base della vita sociale. Inoltre lo studio delle genealogie di una data società consente di individuare le strategie
famigliari (alleanze politiche tra villaggi, tribù e clan, ecc.) e i tabù matrimoniali (incesto ecc.). Un esempio di
ricerca antropologica realizzata attraverso il metodo della ricostruzione delle genealogie e lo studio delle strutture
della parentela è quella condotta da Claude Lévi-Strauss fra i Nambikwara – popolazione indigena del Brasile
(Mato Grosso) – nel corso del 1938, i cui esiti furono pubblicati nel volume La vita familiare e sociale degli indiani
Nambikwara (1948).

Ricerca longitudinale
La ricerca longitudinale (antropologia “del tempo lungo”) è lo studio a lungo termine di una comunità, regione,
società, cultura o altra unità di ricerca, solitamente basata su visite ripetute nel tempo, a distanza di anni. Un
esempio di questo tipo di ricerca è lo studio condotto da Elizabeth Colson e Thayer Scudder nel distretto di
Gwembe, in Zambia a partire dal 1956. Per cinquant’anni sono stati seguiti quattro villaggi in aree diverse (quindi
è anche una ricerca multisituata). Visite periodiche al villaggio offrono dati basilari sulla popolazione,
sull’economia, sulla parentela, e sul comportamento religioso. Le persone censite che si sono spostate vengono
rintracciate e intervistate per vedere come funzionano le loro vite paragonate a quelle di chi è rimasto nel
villaggio. Di fatto, la ricerca longitudinale è una ricerca di gruppo, ossia coordinata da diversi etnografi.
Paragonato al lavoro dell’etnografo solitario, il lavoro di gruppo nel tempo e nello spazio produce maggiori
conoscenze sul cambiamento culturale e sulla complessità sociale (esempio: la discesa sul campo effettuata
dall’Uniupo a Sampeyre in occasione della Baìo, carnevale alpino).

Focus group
Si tratta di una tecnica qualitativa utilizzata nelle ricerche delle scienze umane e sociali, in cui un gruppo di
persone è invitato a parlare, discutere e confrontarsi riguardo all'atteggiamento personale nei confronti di un
tema, di un prodotto, di un progetto, di un concetto, di una pubblicità, di un'idea o di un personaggio. Le domande
sono fatte in modo interattivo, infatti, i partecipanti al gruppo sono liberi di comunicare con gli altri membri, seguiti
dalla supervisione di un conduttore.

L’etnografia problem-oriented
Un tipo di etnografia che non si propone un resoconto olistico, ossia orientato a documentare l’intero contesto del
comportamento umano, ma di muoversi verso etnografie più orientate al problema. Oggi la maggior parte degli
etnografi arriva sul campo con un preciso problema da investigare e raccogliere informazioni su variabili ritenute
rilevanti in rapporto a quel dato problema.

L’indagine statistica
Nel momento in cui gli antropologi si trovano a lavorare maggiormente su società di grandi dimensioni,
sviluppano metodi innovativi. Uno di questi è l’indagine, che comprende la campionatura, la raccolta di dati
impersonali (ad es. raccolti attraverso questionari telefonici) e l’analisi statistica. Un esempio di indagine è quella
della ricerca sui tratti identitari della popolazione novarese: “Tratti identitari, linguistici e memoria della tradizione
del Novarese”.

DOMANDA 1.4: In che modo possiamo interpretare e descrivere i significati che gli altri attribuiscono
all'esperienza?
La cultura può essere vista in questo modo, come un testo costituito di simboli con un significato: parole, gesti,
disegni, oggetti naturali eccetera. Per capire un'altra cultura, bisogna essere in grado, di decifrare il significato dei
simboli di cui risulta costituito un testo culturale, cioè occorre avere la capacità di interpretare il significato insito
in parole, oggetti, gesti e attività che sono condivisi dai membri di una società. Il nostro compito nel comprendere
un'altra cultura è ampliare le abilità che ci hanno resi capaci di abitare la nostra cultura e usarli per comprendere
le culture degli altri.
Gilbert Ryle spiega bene questo processo nella thick description. Consideriamo, dice, due ragazzi che
contraggono rapidamente la palpebra dell'occhio destro. In un primo caso il gesto può significare un tic nervoso,
in un secondo caso un ammiccamento, in un terzo caso ancora la presa in giro di quello che ammicca, in un
quarto caso le prove di un uomo davanti allo specchio che si assicuri di essere capace ad ammiccare.
Interpretare e comprendere i significati di un'altra cultura è la stessa cosa che trovare i significati plurimi che
stanno dietro a un semplice ammiccamento. Significa venire a patti col fatto che ci possono essere stratificazioni
di significati dietro ad ogni cosa.

DOMANDA 1.5: cosa può dirci su noi stessi ciò che impariamo sugli altri?
Gli antropologi non si limitano a studiare le culture diverse dalle proprie. Spesso applicano allo studio del proprio
universo culturale concetti e tecniche utilizzati per comprendere e interpretare altre culture, poiché uno degli
obiettivi è riuscire a meglio interpretare i significati che attribuiamo alla nostra esperienza.
Quando Renato Rosaldo chiese agli Ilongot di spiegargli perché tagliavano la testa ai nemici, quelli rispondevano
che era la rabbia scatenata dal dolore a spingerli a uccidere i nemici. Rosaldo trovò difficile accettare l'idea che la
morte di una persona cara potesse causare rabbia o furore. Solo il dolore e la rabbia che egli provò a causa della
morte accidentale della moglie, lo aiutarono a capire che una perdita può generare il furore.
Immaginiamo che un antropologo balinese, senza aver nessun tipo di conoscenza al riguardo, assista una partita
di football, uno spettacolo tanto importante per un americano quanto lo è il combattimento dei Galli per un
balinese. Attraverso lo studio del football, l'antropologo balinese potrà comprendere meglio le caratteristiche e gli
elementi fondamentali delle lotte tra i galli della sua patria. Potrà anche capire che ci sono degli aspetti simili tra
le lotte dei Galli e il football americano. Per un approfondimento sul combattimento dei Galli a Bali, si legga
pagina 24.
CAPITOLO 3: LA COSTRUZIONE CULTURALE DELL’IDENTITA’

INTRODUZIONE: l’importanza del sé


L'identità personale è uno dei concetti della nostra cultura che più di altri viene dato per scontato. Tuttavia,
nessuno nasce sapendo chi è. Gli individui si sforzano di pervenire a una determinata identità, grazie alla quale
entrare in rapporto con altre identità sociali e, allo stesso tempo, cercano conferma dagli altri di occupare la
posizione che affermano o ambiscono di occupare. Le persone vengono raggruppate in categorie basate su
criteri quali: il genere, l'appartenenza etnica, le caratteristiche fisiche, e così via. In altre parole, ognuno è
qualcuno solo in rapporto a qualcun altro. Per analizzare come le persone, stabiliscono la propria identità e
comunicano comunicano agli altri chi pensano di essere, studieremo in che modo diverse società definiscono la
persona, come gli individui scoprono chi sono e in che modo lo comunicano, e le conseguenze del disaccordo
sull'identità.

Sebbene “accademicamente parlando” sia quasi lapalissiano dire che l’identità è qualcosa di fluido, di fatto una
mera costruzione culturale in cui non c’è nulla di radicato e di assoluto, fuori dalle aule accademiche la pratica
sembra correre su un binario parallelo a quello della teoria. Per esempio, la politica fa ampio uso nelle sue
retoriche dei concetti di «identità» (fissa e immutabile) e «tradizione» (come se fosse una cosa statica), mentre
l’antropologia ha ampiamente dimostrato il loro carattere processuale e in divenire. Anche il dibattito sulla
presenza dei simboli religiosi in pubblico (sull’uso del velo, sulla presenza del crocifisso nelle scuole,
sull’opportunità o meno di allestire un presepe nei luoghi pubblici, ecc.) è strettamente connesso con il concetto
di identità. A proposito di questa vana pretesa di difendere una qualche “identità nazionale” l’antropologo
statunitense Ralph Linton nel 1936 pubblicò nel libro The Study of Man un apologo dell’identità, che mette
efficacemente in luce come non sia possibile sostenere una «purezza delle culture.

Una comunità può essere: microlocale, comunale, provinciale, regionale, nazionale, ecc…
Tra i tratti identitari di una comunità possiamo rilevare, a titolo esemplificativo e non esaustivo, aspetti quali: la
lingua, il cibo (patrimonio gastronomico), i luoghi della memoria, i riti e le feste.
Elemento considerabile vero e proprio tratto identitario sono le piante di civiltà, piante che hanno organizzato la
vita materiale e talvolta psichica degli uomini, a grande profondità, fino a diventare strutture quasi irreversibili.
Braudel identifica piante di civiltà il grano, il riso, il mais, la vite e l’ulivo. Stessa cosa vale per i condimenti e i
fondi di cottura, individuati come un “luogo strategico della continuità (identitaria)”, in quanto definiscono un
sistema alimentare. L’utilizzo preferenziale di questo o quel grasso, spesso derivato da condizioni climatiche,
presenta una notevole fissità, ripetitività, staticità, abitudine.
L’antropologo francese Jean Cuisenier (1988) ha individuato una serie di sistemi oppositivi di lunga durata che
caratterizzano le culture alimentari. Essi sono: 1. abbondanza vs carenza 2. cibi proibiti vs cibi permessi (tabù
religiosi): in questa categoria si inserisce la dicotomia grasso vs magro 3. pasto di tutti i giorni vs pasto del giorno
di festa 4. salato/speziato vs dolce/zuccherato.
Altri interessanti simboli dell’identità nazionale sono i “luoghi della memoria” (vedi Slide 48), e anche le rivalità
municipali, entro cui inseriamo anche i blasoni popolari e le processioni delle rogazioni, fatte da secoli per
contendere i confini delle comunità, per rocche e precipizi.

DOMANDA 3.1: in che modo varia il concetto di persona da una società all'altra?
In tutte le società il nome proprio è un intimo contrassegno della persona. Per gli americani i nomi sono forse
l'aspetto più durevole dell'identità. Vengono assegnati alla nascita e mantenuti per tutta la vita. Ma quanta parte
del sé sia rivelata dal nome varia a seconda della cultura e della situazione. Gli studenti, quando si incontrano
per la prima volta, si presentano con il nome proprio: la loro è un'identità indipendente da qualunque gruppo o
passato. Quando degli uomini d'affari americani si incontrano, si presentano con il nome, il cognome e la
mansione all'interno dell'azienda; infatti gli uomini d'affari sono collegati alle proprie aziende. Quando si
incontrano dei marocchini di città diverse si presentano non solo con il cognome, ma anche con il nome della
città di provenienza: l'identità marocchina è quindi radicata nella famiglia e nel luogo di origine. Presso i Gitksan
della Columbia Britannica i nomi usati dalle persone dipendono dalla posizione sociale, perciò, quando si diventa
adulti, ci si sposa o si occupa una posizione di rilievo nella società, si cambia nome: l'identità è indistinguibile
dalla posizione sociale di ciascuno.
Le differenze nel modo di dare il nome nelle varie società sono rivelatrici dei diversi modi in cui le società stesse
concettualizzano l'identità di una persona e in che modo essa si relaziona con il gruppo. La maggior parte degli
americani ritiene che gli individui siano entità fisse e autonome. Quando gli americani modificano la propria
condizione o posizione, -da studente a marito o moglie, a impiegato, a padre o madre- ritengono comunque di
essere le stesse persone. Da questo punto di vista, gli Americani sono fortemente individualisti. Non è così in
altre società. Nella società Gitksan la relazione tra la persona e il gruppo, o tra la persona e la sua posizione
sociale è olistica: la persona non può quindi essere considerata come un’entità separata dalla società o dal
proprio ruolo o condizione.

Il Sé egocentrico e il Sé sociocentrico
Tali differenze tra concezione individualistica e olistica del sé hanno condotto Richard Shweder e Edmund
Bourne a distinguere tra due concetti della persona in società diverse: il se egocentrico e il se sociocentrico.
Nella visione egocentrica, ogni persona è definita come una replica dell'umanità intera, il locus delle motivazioni
e delle spinte, capace di agire indipendentemente dagli altri. Per gli occidentali l'individuo è il centro della
consapevolezza, un insieme distinto e contrapposto ad altri insiemi. Gli individui sono liberi di negoziare il proprio
posto nella società e l'idea prevalente è che ognuno sia responsabile di ciò che è. Nella concezione egocentrica
della persona si attribuisce grande importanza soprattutto agli individualismo e alla fiducia in se stessi. Nel
saggio Le abitudini del cuore, alcuni studiosi hanno analizzato le idee americane relative all'individuo. Il se
americano, sostengono gli autori, cerca di elaborare il proprio progetto di vita inseguendo individualmente la
felicità e appagando i propri desideri. Essi cercano di separarsi dal passato e in particolare dai genitori. Questa
fiducia in se stessi è alla base del credo americano nel successo come risultato della libera e leale competizione
tra gli individui in un libero mercato. Gli americani che hanno avuto successo affermano di avercela fatta grazie al
proprio duro lavoro e di rado riconoscono il contributo della propria famiglia. È come se gli americani credessero
di aver messo al mondo se stessi.
In antitesi con la visione egocentrica della persona, vi è la visione socio-centrica del sé fondata sul suo contesto.
Un esempio di questa concezione la troviamo presso i Gitksan , i cui nomi sono legati alla loro posizione nella
società e non a qualche sé separato e autonomo. Da questo punto di vista non vi è un se intrinseco che possa
avere qualità durature, come la generosità, l'onestà o la bellezza, che invece possono valere solo in situazioni
sociali concrete.

A questo proposito, Claudia Mattalucci scrive a proposito della nozione di persona. Essere una persona è un
processo che può avere inizio o molto tempo dopo la nascita, realizzarsi nel corso dell'esistenza o soltanto dopo
la morte, che tutti possano compiere o a cui soltanto alcuni possono aspirare. Lo studio antropologico della
persona è stato inaugurato da Marcell Mauss, chi si proponeva di tracciare l'evoluzione di questo concetto,
distinguendo la nozione di io da quella di persona. Lo studioso definisce l'io "la personalità cosciente come tale".
La persona, di contro, è il concetto storicamente culturalmente costruito di tale individualità. Buona parte della
letteratura antropologica sulla persona ha enfatizzato una contrapposizione tra società o sistemi di pensiero
socio centrati, dove la persona è definita dalla collettività e subordinata essa, e società egocentrate, dove la
nozione di persona coincide con quella di individuo. Così, per esempio, Marylin Strathern ha evidenziato la
distanza che separa la concezione occidentale della persona come individuo da quella melanesiana della
persona come "dividuo". In melanesia le persone sono fatte di relazioni: dipendono dalle interazioni, dagli scambi
e dalle azioni degli altri. Eventi e relazioni entrano a far parte dei loro corpi e dei loro sé. Questa opposizione è
stata ulteriormente articolata da Beth Conklin e Lynn Morgan, le quali hanno suggerito che esistono due tipi di
relazionalità: una relazionalità strutturale, in cui un essere umano diventa persona realizzando i ruoli sociali cui
può accedere per nascita, e una relazionalità processuale in cui essere una persona è qualche cosa che si
realizza gradualmente, nel corso della vita, secondo un processo che subisce accelerazioni, arresti o inversioni a
seconda degli eventi. La distanza che separa questi due modelli non è assoluta: all'interno delle concezioni
individualiste della persona sono presenti tratti relazionali, e viceversa.

La personalità in Giappone e in America


Alcuni antropologi attribuiscono una concezione sociocentrica del sé ai giapponesi. Robert Smith rileva che il
concetto giapponese del sé è espresso anche nella lingua. Nella lingua giapponese mancano degli elementi
linguistici assimilabili ai nostri pronomi personali. Il pronome personale usato in Giappone dipende dal rapporto
del parlante con l'interlocutore ed esprime in che modo il sé varia in rapporto a una specifica interazione sociale.
La lingua giapponese è priva di un lessico che esprima uno status neutrale ed è invece caratterizzata da quello
che in giapponese si chiama keigo, o 'parlare educato'. Esso ha l'effetto di stabilire la rispettiva posizione sociale
e il grado di intimità del parlante e dell'interlocutore. L'uso del "parlare educato" può essere un problema per i
pubblicitari in Giappone, perché i messaggi non possono contenere inviti espliciti (come "bevete cocacola") che
risulterebbero offensivi. Per risolvere il problema, gli ordini vengono dati da personaggi con uno status sociale
inferiore che risultano perciò non minacciosi, come clown, ragazze svampite o bambini.I sociocentrici giapponesi
differiscono dagli egocentrici americani anche per il loro modo di affrontare l'interazione sociale. I giapponesi
ritengono che l'interazione sociale dovrebbe essere caratterizzata dalla riservatezza o dalla ritrosia.
Eppure i giapponesi hanno un'idea di sé come entità individuale e sono molto attaccati al proprio nome, come gli
americani, se non di più. Inoltre si credono nello sviluppo individuale della persona. Nella cultura giapponese
tuttavia l'autonomia dell'individuo non viene stabilita nelle situazioni sociali in cui l'uno si distingue attivamente
dall'altro, ma in solitudine. Attraverso l'introspezione i giapponesi trovano il proprio vero cuore ed entrano in
contatto con la propria vera natura.

Nell'approfondimento di Marco Traversari si legge di Louis Dumont che si è occupato delle ideologie che fondano
il concetto di persona nelle civiltà indiana ed europea. Egli ha studiato come nella società indiana prevalgono
ideologia di tipo olistico, definendo olistica un'ideologia che subordini l'individuo umano al gruppo sociale, fino a
sussumerlo completamente nel caso del totalitarismo, negando il concetto di singolarità della persona. Sul piano
dello sviluppo storico e antropologico comparativo, lo studioso colloca in Occidente la nascita della concezione di
individuo, declinata poi nel concetto di persona nei primi secoli della storia della Chiesa. L'idea di individuo che
emerge nei primi secoli del Cristianesimo è accostata da Dumont alla figura Indù del rinunciante e di quelle
persone che vivono ai margini della struttura sociale. Così come il rinunciante diventa indipendente e autonomo
in quanto abbandona la società, allo stesso modo, nell'individualismo, il concetto di persona presuppone la
separazione del soggetto dal tutto, fondandosi su tale separazione. Più In generale, sul piano metodologico, una
sociologia o un discorso antropologico vengono considerati olistici quando l'analisi interpretativa si focalizza sulla
società globale, mentre vengono considerati individualistici quando valorizza l'individuo subordinando adesso la
totalità sociale.

DOMANDA 3.2: In che modo le società distinguono gli individui gli uni dagli altri?
Le differenze e le somiglianze tra gli individui sono i materiali con i quali si costruiscono i panorami sociali che ci
consentono di distinguere una persona da un'altra punto non tutte le società utilizzano le stesse somiglianze e
differenze per costruire un codice sociale. Alcune caratteristiche, o strumenti identitari, sono utilizzate
pressoché universalmente per differenziare le persone o radunarle in gruppi. L'appartenenza è una famiglia, il
sesso e l'età, per esempio, sono utilizzati in tutte le società come categorie di un codice sociale. Altre
caratteristiche, come l'appartenenza a un gruppo etnico, il colore della pelle e il grado di benessere, sono
considerate importanti solo in alcune società. Forse l'insieme più importante di caratteristiche usato è connesso
alla parentela e alla appartenenza a una famiglia. Gli antropologi che lavorano all'interno di società tradizionali
vengono non di rado adottati da una famiglia, un atto che oltre a essere un segnale di accettazione, ha lo scopo
pratico di assegnare a un estraneo un'identità sociale. Non avere alcuna etichetta di parentela né una
designazione, in queste società, equivale a non avere un posto significativo nel panorama sociale. La lingua è un
altro importante marcatore identitario. Essa è spesso fortemente legata all'identità Nazionale, tanto che diversi
paesi hanno creato istituzioni con la funzione di salvaguardare e mantenere la purezza delle bioma nazionale. La
conservazione dell'identità del gruppo è un fattore importante anche nell'Irlanda del Nord, dove la caratteristica
principale è utilizzata per riconoscere gli altri è l'affiliazione religiosa alla credenza Cattolica o protestante.
L'Irlanda del nord è anche un esempio dell'importanza di avere una identità positiva o negativa. I membri di
ciascun gruppo cercano di costruirsi un'identità positiva e allo stesso tempo di costruirne una negativa per gli
altri, attribuendo loro caratteristiche indesiderabili. in Irlanda del Nord per esempio i cattolici ritengono di essere
gli unici veri irlandesi, mentre le protestanti si ritengono più ordinati e più puliti dei cattolici.

Costruire il maschile e il femminile


Sebbene in quasi tutte le società si usino certi attributi personali per costruire le identità, il modo in cui vengono
utilizzati non è univoco. Il genere è un buon esempio di una caratteristica dell'identità che si dà per scontata,
nella convinzione che si tratti di un dato biologico. Il genere è invece una creazione culturale. L'assegnazione a
un genere inizia fin dalla nascita. Una volta annunciata l'appartenenza a un genere, al neonato viene dato un
nome consono al genere, vestito con abitini di diverso colore di diversa foggia, e gli si parla con un linguaggio
anch'esso adeguato al genere. Per esempio ai bambini si insegna che devono sopportare il dolore, essere forti e
duri; alle bambine si insegna a essere altruiste e gentili. Le scuole negli Stati Uniti rafforzano i ruoli di genere, ad
esempio nella pratica sportiva. Douglas Foley evidenzia il ruolo particolare che hanno gli allenatori nello sviluppo
dell'identità di genere. Diversamente da quanto accade con gli altri insegnanti, è meno probabile che gli allenatori
vengano considerati effemminati, è molto probabile che siano riconosciuti e rispettati nella comunità, e non di
rado diventano amministratori scolastici con il carisma dei leader. I ruoli di genere vengono rafforzati anche dalle
cheerleader, o dagli studenti giocatori. Questi ruoli di genere sono stati ulteriormente rafforzati attraverso il rituale
del powderpuff football game. In questo rituale i maschi si vestivano da cheerleader e facevano la caricatura del
comportamento femminile, mentre le ragazze indossavano la divisa dei giocatori e si impegnavano in una partita
di football. I maschi usavano questi momenti di rovesciamento simbolico per parodiare le femmine. Il potere di
questi giovani maschi di appropriarsi e far mostra dei simboli femminili della sessualità, era un'affermazione del
dominio maschile. Viceversa le femmine, si prendevano meno libertà e cercavano anzi di giocare la partita di
football molto seriamente, perché il loro era un serio tentativo di dimostrare la loro parità e la loro mancanza di
brio era una netta testimonianza del loro stato di subordinazione in questa piccola città.

Anche il numero delle categorie di genere è riconosciuto nelle diverse società è variabile. Numerose società di
nativi americani riconoscevano tradizionalmente un terzo genere, ossia un individuo che non viene considerato
un uomo Ma che non è neppure definito donna. I bambini potevano così scegliere tra due categorie di genere
piuttosto che apprendere che i ruoli di genere sono definiti dalla fisiologia. Nella società americana attuale,
invece, coloro che non assumono i ruoli di genere associati con la loro anatomia vengono definiti pervertiti,
anormali o anticonvenzionali. L'antropologa Harriet Whitehead ipotizza che gli americani abbiano qualche
difficoltà a riconoscere un terzo genere perché ragionano in modo etnocentrico sulle caratteristiche considerate
importanti nella definizione dei ruoli di genere. Essi definiscono il genere soprattutto in base alle preferenze
sessuali. Tradizionalmente invece, i nativi nordamericani attribuivano una diversa importanza a questa
caratteristica: definivano il genere soprattutto in base alla scelta dell'occupazione, mentre il genere del partner
sessuale aveva minore importanza.

Linguaggio, genere e appartenenza "etnica"


Le società definiscono un panorama sociale con simboli o codici attraverso i quali viene comunicato agli altri il
posto di una persona all’interno di esso. Il linguaggio è uno degli strumenti di cui le persone dispongono per
segnalare come vogliono essere collocate nella società. Il tono di voce è in genere diverso, perché le corde
vocali nei maschi sono più lunghe e perciò i maschi parlano con voce più profonda. Ma i bambini, il cui apparato
fonatorio non è ancora differenziato, tendono inconsciamente ad alzare o abbassare il tono di voce a seconda
delle aspettative di genere nei loro confronti. Gli individui usano il linguaggio anche per comunicare un
atteggiamento o uno stile. Una diversa articolazione dei suoni di una lingua, studiata dalla fonologia, può
comunicare il genere. Per esempio, se in inglese il suono /s/ viene prodotto premendo la lingua contro i denti,
viene certamente riconosciuto come /s/, ma ne risulta un suono bleso associato negli Stati Uniti alla femminilità
nelle donne e all’essere gay negli uomini.
Anche la grammatica può segnalare il genere. Nel giapponese esistono particelle poste alla fine della frase che
rafforzano o attenuano la forza di un enunciato, per cui la cosiddetta lingua delle donne è caratterizzata come più
cortese. Anche ciò che si dice può comunicare il genere. Le espressioni irriverenti sono permesse ai maschi, ma
vietate alle donne e ai bambini.
Il genere viene comunicato anche dalla scelta di parlare o non parlare. Tra gli indigeni dell’Araucania, in Cile, gli
uomini sono incoraggiati a parlare in quanto segno di intelligenza virile e capacità di comando, mentre la donna
ideale è sottomessa e silenziosa in presenza del marito. Anche gli stili della conversazione possono essere
indicativi del genere. Le donne, afferma lo studioso, sono costrette ad attenuare l’espressione delle loro opinioni
con diversi dispositivi linguistici; nell’inglese, ad esempio, con le tag question, l’uso di attenuativi, forme di
amplificazione o enfatiche o forme indirette. Parlare da donna implica evitare d’impegnarsi direttamente o di
esprimere opinioni decise.
Alcuni studiosi sostengono che questi elementi linguistici siano anche un segnale di disponibilità ad ascoltare
punti di vista diversi; altri invece affermano che essi non sono tanto una questione di genere, quanto di potere,
poiché gli uomini che hanno poco potere parlano in questo modo.
Per comunicare un’identità diversa si possono poi usare di propria sponte alcuni meccanismi linguistici
semplicissimi, ad esempio, un determinato slang, o l’uso o il rifiuto di un linguaggio scurrile.
Il linguaggio può altresì essere usato per costruire gli altri. In un articolo divenuto ormai un classico, Racism in
the English Language, Robert B. Moore esamina come i pregiudizi sulla razza siano codificati nel modo di
parlare. La lingua inglese è piena di riferimenti al colore nero, in genere con accezione negativa: avere una
giornata nera, mettere qualcuno nella lista nera, essere una pecora nera. La parola tribale viene spesso utilizzata
nelle discussioni sulla politica africana, ma non riguardo all’Europa (non si sente mai parlare di conflitti tribali per
parlare dei conflitti tra Serbi e Croati.

DOMANDA 3.3: in che modo gli individui apprendono chi sono?


Nessuno di noi nasce con un’identità, l’apprendiamo in seguito. Le identità non sono fenomeni statici. Devono
esistere pertanto modalità attraverso cui i cambiamenti di identità vengono dichiarati. In uno studio del 1906,
Arnold Van Gennep introduceva il concetto di riti di riti di passaggio. Egli individua tre fasi nei riti di passaggio:
nella prima, il rituale separa la persona dall’identità attuale; nella seconda, la persona entra in una fase di
transizione; e nella terza i cambiamenti vengono integrati in una nuova identità.

Il passaggio all’età adulta


Fondamentali, nella maggior parte delle società in ogni parte del mondo, sono le cerimonie che segnalano il
passaggio di un maschio dall'infanzia all'età adulta, le quali molto spesso contemplano una prova di coraggio di
qualche tipo. Vi sono prove di virilità e complessi rituali di iniziazione per i giovani maschi, perché l'identità
maschile è più problematica rispetto a quella femminile. All'inizio della vita ogni individuo stabilisce
un'identificazione subliminale con la madre, cosicché per i maschi è molto difficile spezzare il legame con lei. Per
questo, le società prevedono rituali che simbolicamente separano il ragazzo dalla madre. Lo studioso Gilmore
cita l'esempio dei Masai, dove perché un maschio possa acquisire l'identità di uomo di valore, deve possedere
dei capi di bestiame, essere generoso con gli altri, autonomo e indipendente, essere in grado di difendere la sua
casa e il suo onore. La caratteristica principale dell’iniziazione masai è la circoncisione: un intervento
decisamente doloroso, dato che viene eseguito senza alcuna anestesia e può durare fino a quattro minuti. Il
ragazzo, sotto gli occhi dei maschi, parenti e potenziali congiunti, deve rimanere assolutamente zitto e fermo
immobile, senza muovere nemmeno gli occhi, altrimenti viene visto come un debole e un vigliacco, indegno di
essere un uomo masai.

DOMANDA 3.4: in che modo gli individui comunicano la propria identità agli altri?
Gli abiti indossati, il modo in cui parliamo, gli oggetti posseduti, le nostre frequentazioni: tutto viene utilizzato per
ostentare un’identità che crediamo di avere o che desideriamo. Per esempio, se il sesso o il genere viene usato
come criterio per distinguere gli individui, devono esistere dei modi per dimostrare le differenze di genere. In
alcune tribù della Nuova Guinea, ad esempio, gli uomini indossano l’astuccio penico, mentre nell’Europa del
Seicento per gli uomini era in voga la braghetta che metteva in evidenza i genitali.
Una delle opere più importanti nella storia dell’antropologia è il testo di Marcel Mauss, intitolato Saggio sul dono:
forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche. Mauss, alla base del dare e ricevere doni, individua il
principio di reciprocità. Egli sostiene che i doni, in teoria volontari, disinteressati e spontanei, in realtà sono
vincolanti. L’atto del donare crea un legame con la persona che riceve il dono, la quale, in qualche occasione
futura, sarà obbligata a farne uno a sua volta. Gli oggetti regalati e ricevuti segnalano l’identità dei partecipanti
allo scambio e il tipo di rapporto esistente tra loro. Se i doni sono più o meno di uguale valore, il rapporto è
paritario; ma se i doni sono di valore molto diverso, la persona che dona l’oggetto più costoso è generalmente di
condizione sociale superiore rispetto all’altra. Un esempio molto noto nella letteratura antropologica è il kula delle
isole Trobriand, ossia lo scambio di doni tra i partner commerciali delle diverse isole studiato da Malinowski. I
trobriandesi partono dalla costa orientale della Nuova Guinea e si spostano da un'isola all'altra allo scopo di visita
e di commercio. Molto particolare, nei loro viaggi, è il modello dello scambio. Ognuno ha partner commerciali
sulle varie isole e questo legame è segnalato dallo scambio di collane di conchiglie rosse e braccialetti di
conchiglie bianche. Nel corso del viaggio e dei commerci, ogni uomo dona collane e riceve collane e braccialetti.
Questi oggetti non possono restare a lungo nelle mani del possessore, ma devono essere scambiati nel corso di
altre visite a scopo commerciale. Il modello di scambio è fisso: le collane viaggiano da un'isola all'altra in senso
orario, mentre i braccialetti si spostano in senso antiorario. Le distanze tra le isole sono talmente grandi che
occorrono dai due ai dieci anni perché collane e braccialetti compiano il giro completo.
Il kula ha quindi la funzione di rappresentazione concreta dei legami tra gli individui e ogni cambiamento nel
modello dello scambio riflette un mutamento nella natura dei legami sociali. Inoltre i doni particolari, che sono di
proprietà personale, vengono anch'essi in circolazione, e lo status e la notorietà del possessore aumentano con
la circolazione dei suoi beni lungo percorsi prestabiliti. Un bravo partecipante al kula effettua molti scambi rituali e
può trarne profitto trattenendoli il più a lungo possibile, prima di scambiarli di nuovo. Ovviamente se li trattiene
troppo a lungo gli altri saranno meno disposti a scambiare doni con lui, pertanto per gestire il kula con successo
è necessario avere anche una certa competenza sociale.
Altro esempio molto noto dello scambio rituale è la cerimonia del potlatch dei nativi Americani sulla costa
nord-occidentale. Tra i Gitksan il potlatch è una cerimonia celebrata in occasione di un funerale: chi muore lascia
un vuoto nel panorama sociale, un nome privo di referente. Il nome che un uomo ha al momento della morte
resta vacante fino a quando non viene reclamato o attribuito a qualcun altro. Se questo nome appartiene a un
capo o a qualche persona di rango elevato, può essere reclamato da tutti coloro che mirano a ottenere gli onori e
i privilegi associati ad esso. Nella gara che segue, la persona che avrà distribuito più oggetti di valore nel potlatch
o nella cerimonia funebre, sarà quella che otterrà il nome. Più è alto il rango del nome maggiori sono le ricchezze
che vengono distribuite. Circa trent'anni fa il costo di un nome si aggirava su una cifra compresa fra i 100 e i 500
dollari, e certi capi hanno avuto da otto a dieci nomi in una volta. Più sono i nomi, maggiore è il carico per
sostenere il potere e l'onore di ogni nome, comportandosi in modo generoso, leale e onesto. Chiunque disonori il
proprio nome con un cattivo comportamento deve poi offrire un banchetto per pulire il nome, ossia per restituirgli
dignità. La cerimonia del potlatch ha anche lo scopo di riordinare e convalidare simbolicamente i nomi, e quindi le
posizioni sociali.
Gli scambi che veicolano il riconoscimento dell'identità non devono per forza essere limitati ai beni materiali.
Possono consistere anche in emozioni e sentimenti. Gli hawaiani esprimono in parte l'ambizione a un'identità con
espressioni di ospitalità e socievolezza. Nelle Hawaii accettare un'offerta di ospitalità segnala il riconoscimento
della natura generosa dell'offerta e il desiderio di mantenere il legame sociale. Rifiutare l'offerta di ospitalità viene
considerato un segno offensivo.

Doni e merci
Una caratteristica importante dei beni scambiati nel kula e nel potlatch è il fatto che possiedono una storia: un
trobriandese che ha ricevuto una collana o un braccialetto potrebbe facilmente ripercorrere la storia dell'oggetto.
Nella nostra società gli oggetti di questo tipo erano considerati dei cimeli di famiglia. La storia di questo tipo di
oggetti, specie quando vengono dati in dono, costituisce una parte fondamentale della loro identità e, di
conseguenza, dell'identità del donatore. Lo stesso si può dire, ma in misura minore, dei doni realizzati dal
donatore stesso: e si veicolano un significato speciale, al di là dell'oggetto in sé. Carrier scrive che sin dal XVI
secolo la produzione e la distribuzione di merci si è personalizzata e che la diffusione del capitalismo industriale
e commerciale si è tramutata nella diffusione di oggetti e rapporti alienati. In tempi precedenti gli oggetti erano
personalizzati in diversi modi: si conosceva il produttore e/o il venditore e l'acquirente sapeva che aveva
realizzato e venduto l'oggetto. Oggigiorno chi compra non conosce né il produttore né il venditore.
I prodotti che non hanno alcun significato sono definiti da Carrier merci, per distinguerli da quelli che chiama beni.
I doni, afferma l’autore, devono essere beni prima di poter avere un significato per lo scambio. E’ facile restituire,
distruggere o cedere una merce, mentre è problematico fare una cosa del genere con un dono. La differenza tra
merci e doni pone dunque un problema specifico, che per Carrier è: in un mondo pieno di merci spersonalizzate
e alienate, come trasformare queste cose in oggetti personali, con un significato e una storia? La risposta è che
noi trasformiamo le merci in beni personali e doni tramite un processo di appropriazione. Per esempio, quando
compriamo un’automobile, completamente uguale a milioni di altre in commercio dello stesso modello e colore,
noi la consideriamo espressione della nostra identità in quanto “nostra”. Produttori e rivenditori cercano di
favorire questo processo di conversione delle merci in oggetti di proprietà attribuendo ai prodotti un’identità
particolare. La pubblicità da parte di campioni sportivi o personaggi dello spettacolo induce i consumatori a
considerare le merci degli oggetti personali.

DOMANDA 3.5: in che modo gli individui difendono la propria identità quando sono minacciati?
Nel definire se stessi e gli altri, talvolta le persone non accettano la propria posizione sulla mappa sociale, ossia
non riconoscono le rispettive identità. Anthony F.C. Wallace e Raymond Fogelson definiscono queste situazioni
come lotte per l'identità, ossia interazioni in cui si ha una discrepanza tra l'identità che si afferma di possedere e
quella attribuita dagli altri. Prendiamo ad esempio la medicine fight, degli indiani Beaver. I Beaver credono che
l'identità di un uomo rispetto agli altri sia determinata dalla quantità di potere soprannaturale posseduto.
Qualunque disgrazia possa colpirlo, come una malattia o una caccia andata male, viene interpretata dagli altri
come una perdita di potere soprannaturale e quindi come una perdita di prestigio. L'uomo colpito dalla sfortuna
non interpreta l'evento allo stesso modo; per lui la disgrazia è causata da qualcuno che sta usando il proprio
potere contro di lui. Questa persona vedrà quindi in sogno l'identità di chi lo attacca e lo accuserà pubblicamente.
L'accusato può però respingere l'accusa, replicando che l'accusatore è colpito dalla sfortuna perché ha
commesso qualcosa di sbagliato. Così ha inizio la medicine fight, una serie di accuse e controaccuse che talora
può sfociare nella violenza.

Lo scambio moka in Papua Nuova Guinea


Per affermare o difendere la propria identità sociale è più frequente la manipolazione di beni materiali, rispetto ai
mezzi spirituali. Un valido esempio è quello dei Melpa, che vivono nell’area di Mount Hagen, negli Altopiani
Centrali di Papua Nuova Guinea. Essi vivono coltivando patate dolci e allevando maiali. Questi non sono solo
cibo, ma anche segni di ricchezza necessari per lo scambio di doni. L’identità più importante nel panorama
sociale degli Altopiani è quella dei Big Man. Per diventare un Big Man occorre dimostrare coraggio nella guerra,
ma l'abilità maggiore che viene richiesta a un Big Man è tuttavia la capacità di condurre il moka. Esso è una
forma di scambio cerimoniale di doni, in cui qualcuno all'inizio fa un regalo a un partner commerciale e in cambio
riceve più di quanto ha dato. Gli scambi cerimoniali di doni hanno due scopi: stabilire e mantenere legami tra
individui e gruppi, e costituire un sistema gerarchico. L'idea di fondo dello scambio moka è che si deve dare a un
partner commerciale più di quanto si è ricevuto nell'ultimo scambio. Il risultato dell'interazione è che ciascuno dei
due è sempre debitore nei confronti dell'altro. Infatti i due partecipanti non giungono mai a una situazione di
parità. È proprio lo scambio incrementale del debito che permette a un uomo di dire che ha fatto moka. Il moka
non è mai una questione isolata: se un uomo vuole fare moka con un rivale a cui deve sei maiali o dieci bracciali
di conchiglie e non li possiede in quel momento, è tenuto a richiedere crediti moka in sospeso da altri punto per
queste ragioni ciascuno scambio può implicare una moltitudine di persone o gruppi. Questi scambi hanno la
funzione di affermazione pubblica di un'identità sociale in ogni momento. È come se tutti gli abitanti di una
cittadina americana annunciassero pubblicamente la situazione delle loro relazioni sociali in quel momento con
ogni singola persona e gruppo di cittadini.
Lo scambio moka avviene contemporaneamente per tutti, all'interno di una determinata cerimonia. Coloro che
non possiedono ricchezze sufficienti da dare possono cercare di posticipare il momento della cerimonia, ma
rischiano anche di essere scherniti in quanto temporeggiatori o uomini spazzatura. Ad ogni riunione i Big Man
cercano di contrattare altri regali, incitando gli altri membri del rispettivo clan a moltiplicare la quota di maiali da
donare ai partner commerciali per accrescere lo spirito competitivo. Durante la cerimonia i donatori irrompono
correndo lungo la fila degli astanti gridando e ballando una danza di guerra. Le loro parole sono proclami in cui
affermano che essi hanno vinto. Coloro che non ricevono nel corso della cerimonia tutto quello che si aspettano
si lamentano energicamente e ad alta voce. Perciò la cerimonia è un evento colmo di ansia e a volte la tensione
sfocia in vere e proprie risse. Se un uomo non onora i suoi impegni nei confronti di un partner, il partner non può
fare altro che insultarlo pesantemente o attaccarlo fisicamente. Al termine della cerimonia, un arringatore conta i
doni mentre il ricevente ringrazia in modo formale. Coloro che hanno ricevuto regali raccolgono quindi le loro
conchiglie e i maiali per poi abbattere al suolo i pali a cui erano legati, tranne uno, che viene lasciato come prova
che il donatore ha compiuto il moka nella loro area delle cerimonie.

CAPITOLO 4: MODELLI DI RELAZIONI PARENTALI

Parentela, matrimonio e famiglia sono probabilmente i temi più studiati nell’intera storia dell’antropologia. Infatti,
come afferma Robin Fox, «la parentela è per l’antropologia ciò che la logica è per la filosofia o il nudo per l’arte.
È la disciplina di base della materia». La parentela intesa dunque come capacità di identificazione e condivisione
profonda con una cerchia più o meno estesa di parenti è universale, ma la definizione di chi ne fa parte è oggetto
di scelte culturali e non ha a che fare con fatti di natura biologica. Alla parentela, in quanto «fatto» culturale,
possiamo attribuire il significato di «ordinare la natura». I sistemi di classificazione della parentela sono culturali,
ma questo non viene percepito. Noi infatti spesso consideriamo la famiglia come “naturale” e diamo per scontato
che la sua composizione sia così ovunque, perché il sistema di parentela vigente nella propria cultura è appreso
sin dall’infanzia.

Ora, vi è un rapporto diretto tra famiglia, parentela e sistemi di sussistenza. Con l’espressione «sistema/strategie
di sussistenza» si intende il modo prevalente attuato da un data cultura per provvedere al proprio sostentamento.
I principali sistemi di sussistenza sono: caccia e raccolta, agricoltura, pastorizia, agricoltura, industrializzazione e
informatizzazione. Oltre alla funzione di provvedere al sostentamento, la parentela ha il compito di assicurare la
continuità del gruppo, combinando il matrimonio, mantenere l’ordine sociale e punendo chi lo trasgredisce.

Terminologie della parentela: non tutte le culture usano lo stesse terminologia della parentela. Già solamente
dall’analisi delle denominazioni della parentela si possono ricavare preziose indicazioni sull’importanza che una
data cultura attribuisce a determinate figure, differenziandole dalle altre.
Ad esempio i sistemi di discendenza bilineari (es. quello euroamericano, società industrializzate/informat izzate,
…) utilizzano gli stessi termini sia per riferirsi ai parenti per parte di madre che a quelli per parte di padre. Nel
caso delle Trobriand, una persona usa lo stesso termine per parlare di tutte le donne del proprio matrilignaggio
della stessa generazione, per esempio, un uomo designa la madre e le sorelle della madre con il termine “ina”.
Una donna designa il proprio fratello e tutti i maschi del suo matrilignaggio e della sua generazione con il termine
“luta”. Perciò un uomo ha molte "sorelle" e una donna ha molti "fratelli.
La lingua latina non conosce un termine unico per "zio" e "zia", ma ben quattro termini: patruus, matertera, amita
e avunculus. Patruus e matertera sono il fratello del padre e la sorella della madre, cioè gli zii paralleli [paralleli in
quanto dello stesso sesso], indicati con due termini che sono, rispettivamente, l'allargamento di pater e di mater:
nel sistema classificatorio, infatti, il fratello del padre è padre anch'egli, e la sorella della madre è madre
anch'ella. Amita e avunculus sono invece la sorella del padre e il fratello della madre, cioè gli zii incrociati
[incrociati in quanto di sessi opposti]. Ma i termini con cui essi vengono indicati non sono (come nel caso degli zii
paralleli) allargamenti di mater e pater. Essi derivano, rispettivamente, dalla radice infantile ama (amita, infatti, è
termine della parlata infantile) e da awos (avus) che indica il nonno. E questo ha un ben preciso significato. Nel
sistema classificatorio, il fratello della madre della madre (cioè il nonno) e il nonno sono indicati con lo stesso
termine. E quindi, se il fratello della madre della madre è avus, il fratello della madre (in mancanza di altro
termine di parentela) può essere chiamato avunculus.
Come tutte le forme di classificazione, anche quella relativa alla parentela nasce dalla codificazione del mondo
che ogni società mette in atto. In questo caso definendo le distanze sociali e il tipo di relazione che intercorre tra
gli individui. Sono stati due antropologi americani, fra Otto e Novecento, a sistematizzare due differenti sistemi di
classificazione della parentela: Lewis Morgan e Alfred Kroeber. Uno dei criteri espressi è quello
dell’appartenenza a una determinata generazione. Un esempio: se dico cugino, intendo un individuo che
appartiene alla mia generazione. Un altro criterio è il sesso, ma non sempre viene espresso; per esempio, gli
anglofoni distinguono gli zii (aunt e uncle). I parenti collaterali, cioè legati a noi in linea diretta, possono essere
definiti con termini specifici che li distinguono dai parenti affini: madre e suocera appartengono alla stessa
generazione, ma la prima è collaterale, la seconda affine.
In alcuni casi si riscontra un criterio di biforcazione, che distingue, con termini diversi, il lato paterno da quello
materno della famiglia (ad. es. nella Roma antica). Questo criterio è particolarmente importante nelle società
matrilineari. Un altro criterio di classificazione può essere quello del parente che fa da tramite, come nel caso
dei cugini paralleli e incrociati. I cugini paralleli sono i figli di fratelli dello stesso sesso, cioè i figli del fratello del
padre e della sorella della madre. Quelli incrociati sono i figli di fratelli di sesso opposto: del fratello della madre o
della sorella del padre. Il matrimonio fra cugini incrociati viene considerato preferenziale da molte società del
passato e del presente.

L’antropologo americano Lewis H. Morgan (1818-1881), precursore ottocentesco di questi studi, aveva distinto
due tipi di terminologia:
1) descrittiva, in cui ogni rapporto di parentela viene indicato da una parola specifica;
2) classificatoria, che ripartisce i parenti in classi di individui contrassegnati da un unico termine (ad
esempio chiamando padre anche gli zii, «confondendo» dunque le relazioni lineari con quelle
collaterali).
Morgan ipotizzava uno sviluppo evolutivo dalla imprecisione dei sistemi classificatori verso l'esattezza di quelli
descrittivi; ma […] sistemi descrittivi puri non esistono e le stesse culture occidentali moderne usano termini
(nipote, cugino ecc.) che non distinguono tra relazioni lineari, collaterali e di affinità, magari di grado e di genere
diverso.

Gli studi novecenteschi hanno finito per accordarsi su una più complessa classificazione, basata sulla
combinazione di otto diversi criteri distintivi (i cosiddetti criteri di Alfred Kroeber (1876-1860), dal nome
dell'antropologo americano che ne ha proposto la sistematizzazione):
1. la generazione (cioè la differenza tra persone della stessa generazione e di generazione diverse);
2. il sesso o genere;
3. la distinzione tra consanguinei e affini;
4. la distinzione tra consanguinei in linea diretta o collaterale;
5. la biforcazione (cioè la distinzione tra parenti del lato materno e paterno);
6. l'età relativa (dove vi siano nomi diversi, ad esempio, tra fratello maggiore e minore);
7. la distinzione parallelo/incrociato (si parla di cugini paralleli per indicare i figli del fratello del padre o della
sorella della madre; incrociati sono invece i figli del fratello della madre o della sorella della padre);
8. la condizione (vivo o defunto) del parente in questione.

Diversamente combinati, questi criteri darebbero vita a sei tipi fondamentali di terminologie (una
classificazione, questa, senza implicazioni evolutive o valutative), che sono state identificate con il nome di
gruppi etnici nei quali il modello si presenta con particolare chiarezza.
PRIMO GRUPPO - Sistemi detti bilaterali: non distinguono terminologicamente tra parentela di lato
materno e paterno:
a) Eschimese, che corrisponde anche alle terminologie diffuse nei moderni paesi occidentali; ha la
caratteristica di distinguere i fratelli da tutti gli altri collaterali riuniti in un'unica categoria (quelli che noi
chiamiamo «cugini», indifferentemente paterni e materni), e il padre e la madre dagli «zii»;
b) Hawaiano: che non distingue gradi di parentela all'interno di una stessa generazione, dunque chiama
con lo stesso termine padre e zii (paterni e materni), madre e zie (paterne e materne), fratelli e cugini,
sorelle e cugine.
SECONDO GRUPPO - Sistemi detti unilineari, che applicano il principio della biforcazione:
c) Irochese: che accomuna linguisticamente i genitori e gli zii (distinguendo per genere), ma all'interno
della generazione di ego usa termini diversi per i cugini incrociati e quelli paralleli. In altre parole, i figli
del fratello della madre e della sorella del padre sono distinti da quelli delle sorelle della madre e dei
fratelli del padre;
d) Croio: che è tipico di società matrilineari, biforca fondendo la madre e le sue sorelle, il padre e i suoi
fratelli, e accomuna nello stesso termine tutti gli individui maschi del matrilignaggio della madre di ego
(indipendentemente dalla generazione);
e) Omaha: che è tipico di società patrilineari e speculare al precedente, nel senso che fonde gli individui
del patrilignaggio della madre di ego senza distinguere per generazione;
f) Sudanese: che è un sistema «a massima distinzione terminologica», poiché usa termini diversi per ogni
parente di ego, biforcando ma distinguendo anche per sesso, generazione e per tutti gli altri criteri di
Kroeber (eccetto l’ultimo: vivo/defunto).

Esogamia/endogamia: se nella società occidentale attuale la scelta del coniuge è piuttosto libera e legata a
fattori personali, presso molte altre culture sono in vigore norme che regolano o condizionano le possibilità di
matrimonio, vincolandolo a certi contesti. In alcuni casi vige l'obbligo o la preferenza di sposarsi con una donna
esterna al proprio gruppo di appartenenza, sia esso sociale (lignaggio, clan, eccetera) o territoriale (gruppo di
residenza, villaggio, etnia, eccetera). Questa pratica viene definita esogamia. Al contrario l'endogamia, meno
diffusa, indica la preferenza nel contrarre matrimonio con donne appartenenti al proprio gruppo.
Molte razze tracciano fra cugini una distinzione che a noi europei può sembrare superflua e stravagante. Esse
ritengono che i cugini nati da due fratelli maschi o da due sorelle vadano posti su un piano completamente
diverso dai cugini nati da un fratello e una sorella. A questa netta distinzione fra due classi di cugini, le razze di
cui parliamo fanno generalmente corrispondere un’analoga distinzione che ha per oggetto la possibilità di
contrarre matrimonio: esse infatti proibiscono severamente il matrimonio fra cugini che siano figli di due fratelli o
di due sorelle, mentre permettono o in certi casi addirittura prescrivono il matrimonio fra cugini che siano figli
rispettivamente di un fratello e di una sorella.

Un esempio di esogamia: il matrimonio kariera


Un esempio classico di matrimonio preferenziale è il matrimonio kariera, dal nome degli aborigeni australiani
della regione nord-occidentale. Erano cacciatori-raccoglitori suddivisi in orde locali. L’organizzazione sociale si
basava sulla patrilinearità e l’esogamia. Assursero a notorietà nella letteratura antropologica dopo gli studi
compiuti da A.R. RadcliffeBrown sul loro particolare sistema di parentela e sul sistema di scambio matrimoniale
diretto delle donne tra due gruppi di discendenza.

Un esempio di endogamia
Un esempio più evidente di endogamia è rappresentato dalle caste indiane. La società dell'India è suddivisa in
caste gerarchicamente ordinate (jati), determinate dalla nascita. Pertanto nessun individuo potrà accedere a una
casta diversa dalla propria e neppure sposare una donna o un uomo appartenente a un'altra casta. Il concetto di
endogamia viene esteso alle sottocaste (upajati), gruppi nei quali ogni casta è suddivisa, spesso caratterizzati da
una professione comune o da un particolare credo politico.
Altro esempio di endogamia, in Piemonte, è quello dei pastori di Roaschia (Cuneo). Fino agli anni Sessanta del
’900 la popolazione (circa 2.000 ab.) era divisa in due gruppi: pastori di pecore e contadini, fra loro rivali. Questa
rivalità si esprimeva a vari livelli: uno dei più evidenti era lo scarsissimo numero di matrimoni tra pastori e
contadini. L’endogamia «professionale» superava l’80%.

Il tabù dell’incesto
Il tabù dell’incesto è la regola che proibisce le relazioni matrimoniali tra persone che intrattengono dei legami di
parentela. Esistono molteplici tentativi di spiegazione di questo tabù (cfr. Robbins, 2015, pp. 116-117).
Lévi-Strauss, individua nella p.d.i. – definita come una regola che permette agli uomini di scambiarsi le donne e
di stabilire le alleanze, dando il via alla possibilità della vita sociale – la prima fase del passaggio dallo stato di
natura a quello di cultura.
L’incesto, seppur vietato, viene talvolta tollerato. Tra i Tonga del Sudafrica un cacciatore d’ippopotami può avere
rapporti sessuali con la figlia, per ottenere potere sulla preda: «questo atto incestuoso, che è un tabù nella vita
ordinaria, ha reso quest’uomo un assassino: egli ha ucciso qualcosa a casa sua; in questo modo ha acquisito il
coraggio necessario per fare ricche prede sul fiume».
Nelle isole Trobriand - scrive Malinowski – notai che la rottura dell’esogamia, per quanto riguarda i rapporti non
matrimoniali, è senza dubbio un caso raro, e l’opinione pubblica indulgente, benché decisamente ipocrita. Se
l’affare viene condotto di nascosto, con un minimo di decoro, e se nessuno è particolarmente interessato ad
agitare le acque, l’opinione pubblica farà pettegolezzi senza chiedere alcuna dura punizione. Se invece scoppia
lo scandalo, tutti si scaglieranno contro la coppia colpevole, e per l’ostracismo e gli insulti, uno dei due può
essere spinto al suicidio.
Monogamia/poligamia
Rispetto alle regole matrimoniali, la famiglia può essere:
1) Monogamica (si può avere un solo coniuge per volta)
2) Poligamica (con più coniugi, può essere di due tipi: poliginica e poliandrica)
La famiglia poliginica (un uomo con più mogli) è piuttosto diffusa ad esempio nel continente africano. È
funzionale al successo riproduttivo. Presso alcune società amazzoniche, inoltre, vige una poliginia detta sororale.
Secondo questo modello, un uomo, sposando una donna, acquisisce il diritto di sposarne anche le sorelle.
La famiglia poliandrica (ossia una donna con più mariti) può avere a volte una forma adelfica, ossia in cui i mariti
sono fratelli. E’ una forma rara, la si trova in India e in Tibet.
Un caso interessante è quello del levirato biblico, che sottintende in un qualche modo una famiglia poliandrica.
Il levirato è un’antica usanza praticata dagli ebrei e da molti altri popoli, secondo la quale, se un uomo sposato
moriva senza figli, suo fratello o il suo parente più prossimo doveva sposare la vedova, e il loro figlio primogenito
sarebbe stato considerato legalmente figlio del defunto. Tra i Nuer è detto «matrimonio con il fantasma».
Parallela e complementare al levirato, ma meno diffusa è la pratica del sororato: l’obbligo per un uomo rimasto
vedovo di sposare una sorella della moglie defunta.

Il matrimonio di gruppo è tanto raro che alcuni dubitano della sua esistenza. È attestato però dalla letteratura
etnografica nelle Isole Marchesi (Polinesia Francese, Pacifico del Sud): «La famiglia consisteva di un marito
principale, una o più mogli e una serie di mariti secondari […]. In teoria, tutti i membri della casa avevano diritti
sessuali, financo i servi potevano avere rapporti con la moglie principale, se lo desideravano: il primo marito
disponeva le cose e distribuiva favori, poiché tornava a suo vantaggio che i suoi subalterni fossero soddisfatti
sessualmente, cosicché avrebbero lavorato per la sua causa senza andare in giro con altre donne».

Sistemi di discendenza: tra le funzioni del matrimonio c'è la regolamentazione della gestione dei beni rispetto al
coniuge e ai figli. Per quanto riguarda questi ultimi, ricevono in eredità dai genitori beni materiali e uno status
sociale sulla base di una linea di discendenza stabilita. Nell'ambito di tale trasmissione le relazioni biologiche non
sempre coincidono con quelle parentali. Nonostante sia opinione condivisa che la nascita di un figlio sia dovuta
al contributo di un uomo e di una donna, non tutte le culture considerano uguale l'apporto dei due genitori nel
momento in cui occorre determinare la discendenza dei figli.

Sistemi di parentela bi/unilaterali e cognatici


I sistemi di parentela nelle diverse società possono essere:
1) bilaterali (come nella nostra società): sono parenti sia gli ascendenti del lato paterno che di quello
materno.
2) unilineari: in alcune società sono parenti a tutti gli effetti solo quelli dal lato paterno, in altre solo quelli
dal lato materno.
3) cognatici, quando possono essere (in base ad altri fattori) gli uni oppure gli altri, ma non entrambi

Discendenza patrilineare e matrilineare


I sistemi unilineari possono a loro volta essere suddivisi fra:
1) Patrilineari (o agnatici), se valorizzano solo la discendenza paterna (es. la famiglia mezzadrile).
2) Matrilineari (o uterini) se solo quella materna.
In molte società di interesse antropologico, la discendenza unilineare costruisce un «gruppo corporato» o
lignaggio, un gruppo vero e proprio che condivide beni e status. Un insieme di lignaggi che riconoscono uno
stesso antenato mitico è spesso chiamato clan.
Un esempio di società matrilineare è quella delle isole Trobriand: «le relazioni di parentela più importanti non si
instaurano […] tra marito e moglie, ma tra fratello e sorella; di conseguenza, il padre è un estraneo per i figli, un
membro appartenente a un altro gruppo familiare. Il suo principale interesse, in teoria, è nei confronti dei figli
della sorella poiché essi sono i membri del suo matrilignaggio. […] Un’altra conseguenza della parentela
matrilineare è che un uomo non eredita la proprietà dal proprio padre, ma dai fratelli della madre, ed è
idealmente nel villaggio dello zio materno che un uomo va a vivere (residenza avuncolocale)»

Residenza
Il matrimonio non crea solo relazioni sociali, ma determina anche gli spazi della vita quotidiana e di interazione
sociale degli individui. In base al luogo di residenza dei neo-sposi si riconoscono differenti tipologie di famiglia.
- Natolocale: gli sposi continuano a risiedere ognuno presso i propri genitori.
- Bilocale: i coniugi vivono alternativamente per un periodo presso il gruppo dello sposo e per un altro
presso quello della sposa (modello caratteristico delle società di cacciatori-raccoglitori).
- Virilocale: la sposa abbandona la propria famiglia e si trasferisce presso il gruppo dei parenti del
marito. È detta anche patrilocale quando la donna non solo raggiungerà il villaggio/gruppo del marito,
ma andrà a risiedere nella casa del suocero.
- Uxorilocale. Quando è l’uomo a lasciare la propria famiglia per trasferirsi presso il gruppo dei parenti
della moglie (qualora presso la casa della madre è detta residenza matrilocale). Nella società patriarcale
piemontese quando un uomo trovava una moglie benestante e andava a vivere a casa sua si diceva
tachè 'l capè tacà 'l ciò (attaccare il cappello al chiodo).
- Avuncolocale (dal lat. avunculus, il fratello della madre). «Poiché sono generalmente gli uomini a
detenere il potere, nei sistemi matrilineari e matrilocali questi non vedono di buon occhio il fatto che
siano i figli maschi ad abbandonare la casa al momento del matrimonio. Ecco perché non di rado tali
sistemi tendono a diventare patrilineari e patrilocali. Esiste però una soluzione che permette di attenuare
le tensioni dovute alla matrilocalità. Si tratta della cosiddetta residenza avunculocale, un sistema dove lo
sposo va a vivere presso lo zio materno - il fratello di sua madre - e la sposa lo raggiungerà. La coppia
risiederà dunque presso i parenti materni del coniuge. In tal modo si creano gruppi di maschi con
interessi comuni, che continueranno a governare gli affari all'interno del gruppo matrilineare»

Lo scambio matrimoniale: il prezzo della sposa


Nella maggior parte dei casi è la donna a lasciare la famiglia per trasferirsi presso il gruppo dello sposo: pertanto
in molte culture vige un sistema di compensazione nei confronti della famiglia della donna, che vede allontanarsi
una delle proprie componenti. La famiglia dello sposo, che, al contrario, acquisirà un nuovo membro, dovrà
rifonderla della perdita. Tale istituzione viene chiamata «prezzo della sposa» (brideprice) o «ricchezza della
sposa» (bridewealth), e si traduce in forme diverse. Nella maggioranza dei casi si tratta di un passaggio di beni
da un gruppo all'altro. Spesso i beni ricevuti sono utilizzati per acquisire una moglie per uno dei figli maschi della
famiglia della sposa, innescando così un meccanismo di circolazione che contribuisce a creare e rinsaldare
alleanze tra diverse famiglie. Non siamo dunque di fronte a un «pagamento» per l'acquisto della moglie, bensì a
una forma di scambio assai più complessa e raffinata all'interno della quale la donna non è concepita come una
merce. Il prezzo della sposa è legato alle sue capacità procreative. Nel caso di separazione di una coppia, se la
moglie non ha procreato, il marito potrà richiedere indietro quanto pagato. Se invece la donna ha dato alla luce
uno o più figli, il marito non avrà nessun diritto al rimborso in quanto la moglie gli ha assicurato una prole.
Percorso inverso al prezzo della sposa segue la transazione economica definita «dote», una serie di beni, status
o denaro che viene data alla sposa dalla propria famiglia. La pratica è tipica delle società più ricche ed è spesso
legata al criterio di discendenza (e quindi di trasmissione dell'eredità) bilaterale, come avviene in Europa e in
Asia, anche se la parte spettante alle donne di rado è uguale a quella destinata ai figli maschi.

Manipolare la parentela
Le tipologie di parentela e le definizioni sin qui presentate sono modelli formali utili a fine di comparazione, ma
non vanno interpretati come gabbie rigide. Ogni modello prevede infatti un certo grado di malleabilità, anche
perché «l’imponderabilità della vita quotidiana» (Malinowski) presenta imprevisti come la morte di genitori che
impongono l’adozione dei figli, o separazioni o altri eventi che spezzano la regola. Non sempre le posizioni
definite dalle classificazioni rispondono alle realtà sociali. Non è infatti detto che parenti stretti si frequentino di
più (ad. es. i c.d. «parenti da funerale») o si amino particolarmente (le espressioni «parenti serpenti» o «fratelli
coltelli» sono significative; un proverbio piemontese dice «S’i-t veule vive e sté san, daj parent stà lôntan» (Se
vuoi vivere e rimanere sano, dai parenti sta lontano; cfr. Agostino Della Sala Spada, I proverbi monferrini, Torino,
1901, p. 66). Già Tacito affermava «Ferme acerrima proximorum odia sunt» (Gli odi fra parenti sono i più
profondi).
Malinowski disprezzava quella che chiamava «l’algebra della parentela», sostenendo che bisognava spostare
l’attenzione sul comportamento e i fatti concreti piuttosto che sullo schema astratto. Ad es. i Nuer (Sudan del Sud
e Etiopia), pur essendo patrilineari, consentono che una donna particolarmente abbiente possa fondare un
lignaggio proprio. Se una donna in possesso di numerosi capi di bestiame, tali da pagare una compensazione
matrimoniale, risulta sterile, può chiedere in sposa una donna. A tale moglie sarà consentito avere un amante, e i
figli che nasceranno dall’unione saranno socialmente considerati eredi della donna sterile che avrà così dato vita
alla propria discendenza. Pratica analoga la si riscontra presso gli Yoruba della Nigeria.
Nell’Europa cattolica ad esempio erano proibite le nozze tra parenti e affini, in quanto considerate incestuose, ma
la Chiesa concedeva frequentemente dispense che, di fatto, «cancellavano» la parentela.
Secondo un verosimile modello teorico costruito dallo storico Jean-Louis Flandrin, nelle società endogamiche di
antico regime per ogni giovane in età di matrimonio vi sono mediamente almeno 43 ragazze da marito che è
proibito sposare perché parenti entro il quarto grado. In caso di seconde nozze il numero raddoppia in quanto si
sommano per affinità le 43 ragazze teoriche imparentate con la prima moglie.
Quando il diritto canonico condannava come incestuosi i matrimoni tra parenti, aveva della parentela una visione
assai complessa. «Accanto alla consanguineità, legittima o meno, che esso chiamava parentela naturale,
prendeva in considerazione anche la parentela legale che, in seguito all’adozione, si veniva a creare tra
l’adottato e tutto il resto della famiglia del padre adottivo; l’affinità legittima, che insorgeva in seguito al
matrimonio tra ciascuno dei coniugi e la famiglia dell’altro; l’affinità illegittima, che era il risultato di qualsiasi
rapporto carnale illecito; e la parentela spirituale, che legava il bambino battezzato e i suoi parenti ai padrini e alle
madrine e ai loro parenti stretti, o il confessore alla penitente e il catechista alla catechizzata»
Altre eccezioni: le nozze fra re Umberto I e la regina Margherita, celebrate a Torino nel 1868 con dispensa
papale, sancirono un matrimonio tra cugini primi, in quanto figli di due fratelli: Vittorio Emanuele lui, Ferdinando
Duca di Genova lei. Erano quindi cugini paralleli, se adottiamo lo strutturalismo di Lévi-Strauss.Sappiamo inoltre
dall’etnografia che il tabù dell’incesto «può essere infranto dalla famiglia o dal clan reale», un permesso
«connesso con i poteri magici della regalità».

La badia: una struttura gerarchica


A presidio del controritmo festivo la tradizione pone la badia, un istituto folklorico che troviamo ampiamente
attestato, con svariate denominazioni, in Europa, molto presente anche in Piemonte. Si tratta di un’istituzione
folklorica virile che, fino alla metà del Novecento, aveva il compito di organizzare e governare le feste che
scandivano il ciclo dell’anno e della vita nella tradizione contadina. Il termine badia deriva da “abbazia”: Il capo
della badia è normalmente chiamato “abate” “abbà”. Gli studiosi che si sono occupati di questo tema (tra cui
Carlo Ginzburg) concordano nello stabilire un legame tra badie e abbazie.
Queste associazioni hanno diverse denominazioni: abbazie degli stolti, dei pazzi, della gioventù, degli asini. La
badia rappresenta un importante momento di formazione. I giovani apprendono tradizioni, norme sociali,
comportamenti, controllando e intervenendo direttamente in molti dei processi culturali e sociali della collettività.
La badia assume spesso il ruolo di vera e propria milizia armata atta a salvaguardare i confini e a controllare
l'ordine comunale. Essa si caratterizza a volte come organizzazione spontanea, contestativa rispetto al potere e
alla classe dominante, a volte al servizio delle istituzioni civili e religiose. Queste organizzazioni possono
assumere all'interno della comunità sia la funzione di "rafforzare l'ordine esistente, sia suggerire direzioni
alternative".
Alla badia è riconosciuto il diritto di dare vita al rituale della scampanata o della barriera. La scampanata veniva
organizzata per condannare pubblicamente i mariti che si lasciavano picchiare dalle mogli oppure per i vedovi
che si univano in seconde nozze (le donne vedove che si risposavano erano più sanzionate dell’uomo). Di fatto
la scampanata non puniva solo i protagonisti di matrimoni anomali, ma tutti coloro che per una ragione o per
l’altra si ponevano contro la comunità, infrangendone la legge non scritta. Per superare il rumore notturno, che si
poteva protrarre nel tempo, occorreva pagare “ritualmente” (ad esempio offrendo una cena) ai giovani coinvolti
nella scampanata.
La barriera consisteva invece nel preparare degli ostacoli alla giovane che andava a sposarsi fuori dai confini
della comunità. Il pagamento di un pedaggio, molte volte rapportato alla dote che la sposa portava con sé,
rappresentava il tributo che gli sposi dovevano alla badia.
Autorevoli studiosi ritengono che il controllo esercitato sui matrimoni servisse a far sì che non si alterassero nel
villaggio i precari equilibri demografici tra maschi e femmine compresi nelle classi di età giovanili, cioè «a
preservare l’endogamia del villaggio sancendo una norma orale che regola l’attività sessuale in quanto tratto
etnico fondante della comunità».

INTRODUZIONE: Soap Opera e rapporti parentali


In questo capitolo 4 si circoscriverà l'analisi alla vita familiare di tre società: gli Ju/wasi, i Trobriandesi del
Pacifico e la Cina tradizionale. Queste società sono state scelte per tre ragioni: in primo luogo perché sono
caratterizzate da livelli molto diversi di complessità sociale, culturale e tecnologica: gli Ju/wasi erano raccoglitori
e cacciatori, e vivevano in gruppi nomadi numericamente contenuti; i trobriandesi erano orticultori e vivevano in
villaggi che raggiungevano anche le 400 unità; la società tradizionale cinese era di tipo agricolo, ed era costituita
da gruppi alquanto numerosi. In secondo luogo, la struttura e i rapporti familiari nei tre gruppi variano in modo
significativo, ma nell'insieme sono rappresentativi di tipi e relazioni familiari di molte, se non di tutte, le società del
mondo. Discuteremo di queste società secondo ciò che gli antropologi definiscono presente etnografico, uno
stile narrativo che consiste nel descrivere situazioni del passato trattandole come se esistessero ancora. In
realtà, le società che andiamo analizzando, a livelli diversi, sono molto cambiate oggi rispetto a come erano ai
tempi degli studi antropologici su cui ci fondiamo.

GLI JU/WASI
Per la maggior parte dell'anno, gli ju/wasi vivono in gruppi che variano da 10 a 40 persone legate da relazioni
bilaterali, in un territorio in cui è presente una riserva d'acqua. I gruppi di un accampamento sono spesso
organizzati intorno alla coppia fratello-sorella che rivendica il possesso del pozzo, e che conduce tutti i parenti
nell’accampamento. L'accampamento ha una struttura fluida: i membri si spostano liberamente da un campo a
un altro in virtù di alleanze fondate sulla caccia o a causa di conflitti che esplodono all'interno del gruppo. Nel
campo, il gruppo familiare di base è rappresentato dalla famiglia nucleare costituita da marito, moglie e figli, che
passano la maggior parte del tempo con la madre. Essi sono consapevoli, e non tutte le società lo sono, che la
gravidanza è il risultato di un rapporto sessuale. Ritengono inoltre che il concepimento abbia luogo alla fine del
ciclo mestruale, quando il seme dell'uomo si unisce all'ultimo sangue mestruale.
Un aspetto che appare preminente nella dinamica della vita familiare è il costume del brideservice: quando una
coppia si sposa, lo sposo va a vivere nell'accampamento dei genitori della sposa e lavora per i suoi genitori
almeno per dieci anni.

Gli Ju/Wasi apprendono cose sul sesso molto presto perché negli accampamenti la vita privata è inesistente.
I maschi si sposano attorno ai 18 e 25 anni. Il matrimonio è importante per un uomo per una serie di ragioni: lo
segnala come persona adulta in grado partecipare alla vita pubblica, gli consente di avere una partner sessuale
e una compagna per procurarsi il cibo. Infatti, mentre gli uomini sono costretti a condividere con tutti i membri
dell’accampamento la carne che si procurano con la caccia e a distribuirla secondo le norme, le donne non sono
tenute a dividere quello che raccolgono con persone che non appartengono al loro nucleo familiare. Le ragazze
si sposano ad appena 12-14 anni, in genere prima di avere il ciclo mestruale, che compare intorno ai 17 anni. Le
ragazze hanno meno ragioni di sposarsi rispetto ai maschi; infatti possono comunque avere dei partner sessuali
scegliendo tra gli uomini celibi o sposati, e inoltre non devono necessariamente avere un marito per godere del
frutto della caccia. Le ragazze infatti spesso non vogliono sposarsi e si ribellano incredibilmente prima del
matrimonio.
Ci sono ovviamente dei criteri per scegliere con chi far unire la propria figlia o il proprio figlio (infatti il matrimonio
è combinato): in particolare si escludono i parenti prossimo e le persone con lo stesso nome.

La ricchezza non ha alcun ruolo tra gli Ju/wasi. Lo ha molto la sessualità e la bellezza. La sessualità ha molto
valore soprattutto per le donne. Se una ragazza cresce e non impara ad amare il sesso, la sua mente non ha
uno sviluppo normale, e se una donna adulta non ha rapporti sessuali, i suoi pensieri sono negativi ed è sempre
arrabbiata. Prendendosi degli amanti inoltre si ritiene che la donna salvi l’uomo perché si pensa che il seme
possa uccidere l’uomo se lasciato al suo interno. Per il resto gli Ju/wasi sono molto indipendenti.

La minaccia fondamentale in questa società è il conflitto tra marito e moglie per l'infedeltà o i tentativi del marito
di procurarsi una seconda moglie. Sebbene gli ju/wasi ammettano la poligamia, questa è più un'eccezione che
una regola. Una delle ragioni della rarità della poligamia consiste nelle difficoltà che crea in famiglia. Infatti, non
c'è mai tranquillità se in una casa ci sono due donne. Se la poligamia è rara, non lo è altrettanto l’infedeltà
coniugale. Essi riconoscono che vi sono alcuni vantaggi ad avere degli amanti, e per una donna le relazioni
extraconiugali garantiscono la varietà oltre alla sicurezza economica. Gli uomini ju/wasi dicono che l'emozione e
la passione nelle relazioni extraconiugali sono meravigliose: il cuore è in fiamme e la passione è grande. Le
relazioni extraconiugali sono probabilmente una minaccia per il marito, perché le mogli sono importanti per gli
uomini perché, finché hanno una moglie, non dipendono da nessuno.

I TROBRIANDESI

Gli abitanti delle isole Trobriand vivono in villaggi ulteriormente divisi in villaggi più piccoli, ossia in gruppi di
uomini uniti per linea femminile (matrilignaggi = dala). Ogni villaggio ha un capo, che è il maschio più anziano del
“dala” più importante del villaggio stesso.
Ma perché i trobriandesi seguono una via matrilineare? l’elemento matrilineare deriva da tanti miti e leggende
presenti nella loro cultura. Addirittura, essi non credono nemmeno che ci sia un ruolo fondamentale del seme
maschile per la procreazione, e anzi ritengono che sia solo la madre che accoglie nell’utero lo spirito di un
defunto che rinasce come bambino (spirito del bambino → “baloma”), dopo essersi rigenerato nella “tuma”.
Credono però che il seme abbia una funzione di nutrimento per il seme e che unirsi con l’uomo serva per aprire
l’utero per far uscire il bambino.
Le loro idee sulla procreazione riflettono aspetti rilevanti della composizione delle loro famiglie: infatti, le relazioni
di parentela più importanti non si instaurano tra marito e moglie, ma tra fratello e sorella. Di conseguenza il padre
è un estraneo per i figli, anche se poi ha un ruolo nella loro crescita e soprattutto nella cura della loro bellezza (fa
orecchini e collane per i figli), tanto che si può instaurare un legame tra padre e figli e il padre addirittura può
chiedere ai figli di rimanere nel suo villaggio dopo il matrimonio.
Per quanto riguarda la composizione e la concezione delle famiglie, va detto che poiché il gruppo familiare
esteso matrilineare, ossia il "dala", è più importante della famiglia nucleare, gli abitanti delle Trobriand designano
determinate persone con lo stesso termine di parentela. Per esempio, un uomo designa con lo stesso nome “ina”
tutte le sorelle della madre (appartenenti allo stesso matrilignaggio).
Infine, un’altra conseguenza della parentela matrilineare è che un uomo non eredita la proprietà dal proprio
padre, ma dai fratelli della madre, ed è idealmente nel villaggio dello zio materno che un uomo va a vivere
(residenza avuncolocale).

Il corteggiamento inizia presto nelle Trobriand ed è vissuto in modo libero. Le ragazzine per esprimere la loro
attrazione graffiano e picchiano i loro innamorati, che vivono queste violenze come segno di amore e le
espongono come segno di virilità.
L’attività sessuale prematrimoniale è prevista. Il matrimonio, quindi, è solo la formalizzazione di un legame già
preesistente. Per quanto riguarda il rapporto tra moglie e marito, essi non possono più perdersi in effusioni,
soprattutto in pubblico. Entrambi, poi, devono occuparsi degli affari del proprio matrilignaggio, che in ogni caso
rimane diverso. Sono i due sposi a scegliersi ma i genitori hanno voce in capitolo, anche perché ci sono delle
categorie di persone che non si possono sposare come in particolare tutti coloro che appartengono allo stesso
dala e che sono della stessa generazione (ossia tutti i fratelli e le sorelle) e tutti coloro che appartengono allo
stesso clan, ossia gruppi i cui membri si considerano discendenti da un antenato comune.
Anche le relazioni tra padre e figlia sono proibite, anche se di fatto non appartengono allo stesso dala.
I genitori manifestano l’approvazione al matrimonio inviando cibo, in particolare igname cotto e crudo, che per
l’anno successivo al matrimonio andrà ad essere depositato sotto la struttura di sostegno della capanna della
coppia, assieme a quello che viene donato alla donna dal fratello in una cerimonia rituale (l’igname è, di fatto,
una delle ragioni più forti che spingono gli uomini a prendere moglie, perché tale ricchezza li rende più
indipendenti). Anche i fratelli ci tengono che le sorelle si sposino perché vogliono contare sull’aiuto del marito
della sorella per procurarsi i mazzi di foglie di banano, necessari durante i funerali perché vengono donati alle
persone importanti nella vita del defunto. Anche il valore delle donne dopo il matrimonio viene valutato sulla sua
capacità di raccogliere igname, avere figli e procurarsi i mazzi di foglie di banano. La sessualità e la bellezza di
una donna sono importanti solo prima del matrimonio. La ricchezza è infatti un aspetto importante per i
trobriandesi e deriva proprio dalle foglie di banano e dall’igname.
Il divorzio, sebbene difficile da ottenere, in genere avviene per iniziativa della moglie. La maggior parte dei divorzi
si verifica nel primo anno di matrimonio, e sono rari dopo che la coppia è stata insieme alcuni anni.

Le minacce per l’ordine sociale dei trobriandesi derivano soprattutto da una possibile perdita dell’onore del
proprio lignaggio. Ogni lignaggio deve essere in grado di conservare il suo status soprattutto attraverso la
presentazione cerimoniale di oggetti di valore, soprattutto igname e mazzi di foglie di banano.Altri elementi di
conflitto potrebbero essere amore non corrisposto, i tentativi di un padre di convincere i figli a rimanere nel
villaggio paterno e perfino l'incesto. Inoltre altro fatto problematico potrebbe essere la stregoneria. I trobriandesi
sostengono di conoscere formule magiche in grado di uccidere. Questo crea grossi conflitti perché una persona
che fa ricorso alla stregoneria contro qualcun altro, si mette contro tutto il matrilignaggio.

LA CINA TRADIZIONALE

Nella Cina tradizionale il gruppo domestico, su base patrilineare, è costituito da moglie, marito, figli maschi
sposati, le nuore, i nipoti e le figlie nubili. Il patrilignaggio si estende anche nel tempo, perché gli avi continuando
ad avere una grande importanza anche dopo morti, perché si continua ad onorarli. Infatti gli uomini cinesi
sperando di avere dei discendenti maschi che si preoccupino del suo benessere e che si prendano cura di lui
anche dopo la morte. La preferenza per i figli maschi ha fatto sì che tantissime bambine venissero uccise. Molto
importante è infatti la relazione tra padre e figlio. Addirittura il matrimonio non è l’unione di un uomo con una
donna ma solo l'ampliamento della famiglia tramite una persona che assicuri la discendenza. I matrimoni sono
per questo combinati, già quando il bambino ha solo 6 o 7 anni. I genitori scelgono la ragazza anche sulla base
di calcoli astrologici per capire quale sia quella giusta. Altro modo per trovare moglie al figlio è adottando una
bambina che in futuro sposerà il figlio (che essendo adottata sicuramente si mostrerà obbediente e per cui non si
dovrà pagare la dote), o adottare un ragazzo per far sposare la figlia, cosa che capita solo non si hanno figli
maschi. Questo tipo di unione non gode della stessa considerazione degli altri, perché su un uomo adottato c’è il
marchio di infamia per aver abbandonato i propri antenati (ma per i bambini poveri o orfani è comunque meglio
che la loro condizione originaria).
La donna non viene considerata positivamente nella famiglia dello sposo fino a che non partorisce, e i rapporti
col marito sono sempre e comunque legati alla moglie solo in virtù dei figli.
Il divorzio non esiste. Un marito può avere amanti senza nessun problema, mentre la moglie rischia di essere
uccisa se infedele. Gli unici modi di uscire dalla sua condizione per una donna sono suicidarsi, prostituirsi,
scappare.

In Cina gli adolescenti non sono così liberi di usare la propria sessualità per attrarre e conquistare gli altri. La
verginità ha molta importanza ed è considerata indispensabile per una sposa cinese. L'amore romantico e il
sesso non rivestono alcun valore nel relazione tra moglie e marito l'unica funzione della donna è generare figli.
L'uomo, se può permetterselo, può avere delle concubine. Una donna invece può stabilire relazioni significative
solo in quanto madre. Il figlio maschio è costretto a prendersi cura della madre quando invecchia, ma questo
obbligo non è pressante come quello di prendersi cura del padre punto per cercare di assicurarsi queste
attenzioni, una donna deve stabilire dei legami emotivi e affettivi con i figli. Questo può farlo quando dopo che un
bambino ha raggiunto i 6 o 7 anni, il padre si mostra riservato e distante. Una madre può allora utilizzare la
distanza del padre dal bambino per rafforzare i propri legami con il figlio, ma fare in modo che il figlio conserva il
rispetto nei confronti del padre.
L'unico modo per una donna di poter dare nella sua vita un ruolo importante alla sessualità, è fare la prostituta. I
cinesi non condannano le donne che scelgono la prostituzione, Perché ritengono che siano più interessanti delle
altre donne, e poiché molte ragazze dei villaggi praticano questo lavoro per aiutare a mantenere la famiglia.

La minaccia più grande per la famiglia tradizionale cinese è l'assenza di un figlio maschio. Un uomo senza figli
sarà uno spirito senza discendenti, ossia senza nessuno che posso accendere l'incenso per lui, e nessun altare
in cui il suo spirito possa trovare rifugio ed essere onorato. Ma neppure la presenza di un figlio assicura sempre
una vita familiare tranquilla. Infatti spesso i padri sono estremamente violenti rispetto ai figli, perché vogliono
assicurarsi il loro rispetto e la loro obbedienza. Nonostante questo raramente i figli si allontanano dal padre,
perché allontanarsi dal padre viene considerato un atto estremo.
Se nella Cina tradizionale sono rari gli scontri esasperati tra padre e figli, invece sono più frequenti conflitti tra
fratelli per la divisione e l'assegnazione dei beni della famiglia alla morte del capofamiglia.

CAPITOLO 5 - LA COSTRUZIONE CULTURALE DELLA GERARCHIA SOCIALE

Introduzione: le cause della disuguaglianza sociale


La distribuzione iniqua della ricchezza è un grosso problema nel mondo, e sappiamo che il divario tra ricchi e
poveri si sta allargando sempre di più, e lo si vede guardando la redistribuzione del reddito. Un modo molto
efficace per valutarla è il coefficiente di Gini, che è influenzato da diversi fattori: il livello di industrializzazione
dei paesi, la natura dei loro sistemi economici.
Ora, la disuguaglianza sociale ci mostra di fatto come il nostro mondo sia strutturato sulla base di una gerarchia.
Alcuni ritengono che l’appartenenza a una gerarchia è inevitabile, mentre altri ritengono che essa sia contraria
alla natura umana. Infatti, alcuni antropologi ritengono che ci siano certe società in cui non ci sono poveri e ricchi,
e nemmeno ceti. Ma la domanda è: perché le società moderne sono caratterizzate da un estrema polarizzazione
di povertà e ricchezza?

Domanda 1.5: in che modo le società costruiscono le gerarchie sociali?


Ci sono vari modi in cui variano le gerarchie sociali di una certa società. Per esempio, nella società americana
l’appartenenza a una determinata classe si basa sul reddito, sulle origini culturali o familiari, sul gruppo etnico,
sull’aspetto fisico, ma anche sul sesso, sull’età o sul livello di istruzione.
Differentemente, in India esisteva un sistema di caste. Esistono anche situazioni in cui gruppi sociali sono ben
strutturati ma assolutamente illegali, come i gruppi mafiosi. Ovviamente, in ogni società stratificata la classe
sociale a cui si appartiene determina l’accesso delle persone al lavoro, alla ricchezza, ai privilegi.
L’adeguamento alla società strutturata in classi avviene fin dalla giovane età: i giovani sono infatti ossessionati
dalle strutture sociali, tanto che nelle scuole ci sono dei veri e propri status symbol come i vestiti che si
indossano, le persone che si frequentano, i posti in cui ci si siede. Interessante è il fatto che nell’affermazione
della propria classe, ha un grande valore la discriminazione degli altri, perché l’unico modo per migliorare o
mantenere la propria posizione è abbassare lo status degli altri.

Domanda 5.2: perché le disuguaglianze economiche e sociali continuano ad esistere?


Questa domanda ci porta a mettere in luce la grande contraddizione dell’Occidente, ossia il fatto che esaltiamo
l’uguaglianza, ma enormi differenze continuano ad esistere. Ciò che fa sopravvivere le disuguaglianza è un’idea
che si è radicata nella mente degli occidentali, ossia il fatto che la società non ponga più nessun ostacolo per
arrivare alla ricchezza e al benessere, e che chi è povero scelga di essere povero, o semplicemente manca di
intraprendenza per riuscire. A riprova di quest’idea, viene richiamato l’esempio di chi “nato in povertà, è diventato
milionario”. In realtà ci sono ancora tanti ostacoli: il debito, la svalutazione del lavoro, il nuovo razzismo.
1) debito: alla base del nostro sistema economico, divide le persone in due categorie, ossia debitori e
creditori. E’ una specie di tassa regressiva che redistribuisce il denaro verso l’alto, in favore dei più
ricchi.
2) svalutazione del lavoro: negli ultimi decenni c’è stata una tendenza diffusa alla diminuzione dei salari,
per due motivi principalmente, ossia la delocalizzazione delle industrie e la distruzione dei sindacati (con
tendenze associate al neoliberismo). Di fatto questi sono gli aspetti su cui ragionavano anche Marx ed
Engels.
3) nuovo razzismo: il razzismo non è affatto morto. E’ molto più probabile che gli stranieri vivano in ghetti,
perché è difficile che gli venga dato il mutuo, e i neri spesso pagano di più per avere le stesse cose dei
bianchi. Anche nel sistema sanitario i neri pagano l’appartenenza al loro gruppo sociale, perché
muoiono molto di più.

Riferendoci al razzismo, vediamo tutto ciò che abbiamo affrontato a lezione.


Come nasce il razzismo? Nasce dalla non volontà di conoscere e dall'ansia di classificare, di incasellare, ma nel
modo più semplice e rassicurante, così come classifichiamo piante, animali, rocce. Il razzismo si basa per
esempio sugli stereotipi: insieme coerente e abbastanza rigido di credenze negative che un certo gruppo
condivide rispetto ad un altro gruppo o categoria sociale. La frammentazione culturale del nostro paese ha fatto
sì che gli stereotipi fiorissero anche al suo interno: sono i blasoni popolari.
Il riconoscimento della diversità, sebbene in accezione negativa, non porta sempre e automaticamente a un atto
violento. Un esempio ci viene dall'Africa: tra alcuni gruppi etnici intercorre un tipo di rapporto definito "parentela
scherzosa". Quando due membri dei rispettivi gruppi s'incontrano, si scambiano una serie di prese in giro e di
insulti, generalmente basati sullo stereotipo che uno ha dell'altro, dopodiché si salutano cordialmente. Tale
atteggiamento sancisce di fatto la differenza, ma la traduce in forma ironica, depotenziando così ogni
espressione violenta.
Ora, lo stereotipo nasce sempre da un atteggiamento etnocentrico, e non è esclusivo dell’occidente. Per
esempio, la maggior parte dei nomi che ogni popolazione si attribuisce (etnonomi) esprime una superiorità
intrinseca. Per esempio, “inuit” significa “uomini”, come a dire che tutti gli altri sono meno uomini. L’etnolinguista
Giorgio Raimondo Cardona spiega che «per una sorta di priorità conoscitiva ogni gruppo sente il bisogno di
stringere le sue fila, identificare se stesso come raccogliendosi in uno spazio aperto e illuminato e poi proiettando
intorno il raggio di luce della ‘vis denominandi’; il dare dei nomi porterà a conoscere o riconoscere lo spazio
intorno, popolato da esseri non completamente noti». Addirittura, una tribù ugandese arrivava a definire gli
uomini che vivevano al massimo grado di lontananza da loro “uomini capovolti” (completa disumanizzazione
dell’altro).

L’essere umano ha un’ossessione catalogatrice. La catalogazione delle “razze umane” ha una storia
plurisecolare. Ma la specie umana non presenta una distinzione netta di razze in quanto le popolazioni umane
non sono state isolate reciprocamente l'una dall'altra per un tempo sufficiente a dare vita a gruppi distinti.
Tuttavia, che all’interno della specie umana esistano vistose differenze percepibili anche a occhio nudo è un fatto
scontato. Ambiente e storia hanno modificato il nostro aspetto esteriore (e non solo): per esempio, il colore della
pelle è determinato da una maggiore o minore necessità di difendersi dai raggi solari e la perdita di melanina tra i
"bianchi" è il frutto di un processo evolutivo basato sulla selezione; così come la forma del corpo è il risultato di
un adattamento al clima: gli inuit che vivono in climi freddi hanno corpi tozzi e tondeggianti, in quanto la sfera è la
forma che presenta il massimo di massa corporea e il minimo di superficie, cosa che implica la massima
produzione di calore e la minima dispersione. Si tratta piuttosto di processi adattivi dettati dall'ambiente e in
particolare dal clima.
Il termine “razza” ha una storia relativamente recente. Lo si trova usato a partire dal Cinquecento per indicare
una discendenza, un lignaggio o gruppo di parentela. Forse deriva dal francese antico haraz, che indicava un
allevamento di cavalli. Solo nel XIX secolo il termine ha assunto l'attuale significato: un gruppo umano
caratterizzato da specificità sia somatiche sia intellettuali e comportamentali che si suppongono fondate
biologicamente e trasmesse per via ereditaria.
I primi sintomi del razzismo sono stati individuati nell’istituzione spagnola del XV-XVI secolo, la “limpieza de
sangre”. Essa prevedeva che solo chi era spagnolo e cristiano poteva accedere alle cariche pubbliche. Venivano
esclusi ebrei, musulmani e gli zingari. Si stabiliva così un rapporto deterministico tra la biologia, rappresentata
dalla metafora del sangue, e la cultura, in virtù della quale le qualità morali venivano trasmesse con il sangue.
Esempio di un lento processo di tipizzazioni culturale su base geografica sono i Re Magi, la cui leggenda ha
segnato in profondità l’immaginario popolare europeo. Nel Medioevo prevalse per lungo tempo il mito classico
dei tre continenti, Europa, Asia e Africa. Melchiorre è un re tipicamente bianco e non a caso porta l'oro, il dono
più prezioso; Gaspare, rappresentato con un turbante, è un asiatico e porta incenso, dono di valore, ma inferiore
all'oro; infine Baldassarre, il cui volto nero tradisce le origini africane, porta la mirra, dono amaro, che
simboleggia la durezza della vita. Quei tre personaggi rappresentano la visione dell'epoca e mettono in evidenza
una gerarchia fondata sull'etnocentrismo.
Siamo anche pieni di esemplificazioni del razzismo sulle carte geografiche, che mostrano i quattro continenti
conosciuti rappresentati da quattro figure umane: l’Europa in alto, l’Asia in basso, Africa e America ai lati, quasi a
sorreggere il peso dell’Europa.
Grazie all’attività di ricerca, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, nel pieno dell’Illuminismo, molti di quelli
che prima erano solo pregiudizi assumeranno uno statuto ‘scientifico’ e quindi un’autorevolezza ben diversa da
prima: il pregiudizio diventa ‘verità’. È in questo contesto storico culturale che si collocano le tassonomie di
Linneo, Kant, Blumenbach…Purtroppo, lo sguardo degli scienziati oggettivo nell’indagine su minerali, vegetali,
animali, lo era molto meno rispetto all’uomo.
Linneo: medico, botanico, naturalista svedese, aprì la strada alla prima vera e propria classificazione di carattere
scientifico sull’uomo. E’ considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi. Nel
suo Systema naturae, dopo aver classificato piante e minerali, Linneo passa al genere umano e lo divide in
"uomo diurno" (Homo sapiens) e "uomo notturno" (Homo troglodytus o Homo silvestris) cioè l'orangutan, l'uomo
delle foreste. Rilevando poi le tipologie regionali, Linneo individua quattro varietà a cui attribuisce caratteristiche
particolari:
1) Europeus albus: acutissimo, ricco di inventiva, governato da leggi;
2) Americanus rubescens: collerico, ilari, liberi e governati dalle tradizioni
3) Asiaticus fuscus: governati dalle opinioni.
4) Africanus niger: privi di pudore, governati dall’arbitrio.
Interessante il fatto che a queste tipizzazioni aggiunge due nuove categorie: infatti l’homo sapiens viene diviso in
homo ferus (muto, quadrupede, villoso) e in homo monstruosus (persone deformi, malati mentali).
Immanuel Kant:
Nemmeno una mente raffinata come Immanuel Kant sfuggirà alla tentazione di dire la sua sulla questione
razziale, se nel 1775 il grande filosofo sosterrà che l'umanità si divide in quattro razze:
1) bianchi
2) neri
3) calmucchi
4) industani
Abbiamo anche le classificazioni di White, Meiners (brutti e belli, intendendo la bellezza come segno di elezione
e di civilizzazione), Cuvier (bianchi, neri e gialli).
Blumenbach, antropologo e naturalista tedesco, divide in:
1) razza caucasica, o razza bianca
2) razza americana, o razza rossa
3) razza malese, o razza olivastra
4) razza mongola, o razza gialla
5) razza africana, o razza negra
Questa è una tassonomia che è ancora in uso nella medicina legale.
Ulteriori tentativi di catalogazione delle razze, verranno ipotizzati ancora per tutto l'Ottocento e il Novecento e
vedranno l'elaborazione di schemi che vanno da due a sessantatre varietà, il che fa riflettere su quanto arbitrario
fosse ogni catalogo ipotizzato. Queste classificazioni si rafforzarono, nel corso dell’Ottocento grazie alle
misurazioni – o, meglio, alle «falsificazioni delle misurazioni» – di crani, ossa, corpi che fornivano una sorta di
statuto scientifico ai risultati ottenuti. E’ in questo ambito che si collocano gli studi di Morton e quelli di
antropologia criminale del medico torinese Lombroso.
L'idea stessa di razza contiene già i germi del razzismo. Infatti, la classificazione su base razziale di fatto è
un'applicazione sistematica dell'etnocentrismo a tutta la specie umana. Tzvetan Todorov definisce questo
atteggiamento "razzialismo", una visione dell'umanità che non coincide necessariamente col razzismo come
comportamento di disprezzo, esclusione, espulsione e che si fonda su cinque principi fondamentali:
1) l’esistenza delle razze
2) la relazione causale tra le differenze fisiche e quelle culturali.
3) il comportamento dell'individuo dipende dal gruppo razziale-culturale (o etnico) di cui fa parte
4) esistenza di una gerarchia unica di valori, sulla base della quale si ordinano le culture in gerarchia
5) una volta stabilita la gerarchia, se ne ricava giudizio morale e politico
Il razzialismo, quindi, si distingue dal razzismo solo perché non prevede azioni conseguenti alla classificazione
razziale, mentre il secondo diventa la linea guida di una politica applicata, che si traduce in rapporti di potere. Le
moderne forme di razzismo sono un fenomeno europeo sviluppatosi tra il XVII e il XVIII secolo per giustificare
l’espansione economica europea, la schiavitù, l’uccisione e la sottomissione di centinaia di milioni di persone.
Negli Stati Uniti, il razzismo assunse una forma peculiare con la schiavitù e, più tardi, con la legalizzazione della
discriminazione e della segregazione, legittimate da teorie «scientifiche» sulla razza. Inoltre esisteva anche
l’orrore per la mescolanza delle razze (razzismo biologico di Arthur de Gobineau e Lapouge, che del resto
divenne una delle letture preferite di Hitler). Nonostante i vari movimenti di liberazione, affermare che il razzismo
sia morto significa ignorare gli effetti che esso ha accumulato nel corso della storia e in che misura esso sia
istituzionalizzato nei quartieri, nei servizi di assistenza sanitaria, nel sistema giudiziario penale e come esso sia
stato convogliato nel dibattito sull’immigrazione.

La costruzione sociale dell’intelligenza


Tornando a noi, anche l’intelligenza ha un ruolo importante nella costruzione delle gerarchie sociali. Infatti, è
necessario dimostrare che le persone meritano la posizione sociale che occupano, altrimenti tutto il sistema
crolla. Il concetto di intelligenza risolve questa questione: se si accetta che per intelligenza si intende tutto ciò che
un essere umano riesce a fare, e che se non riesce a fare qualcosa questo dipende dalla mancanza di
intelligenza, allora è tutto apposto. In realtà bisogna precisare che il concetto di intelligenza si fonda su una serie
di riassunti discutibili: soprattutto il fatto che la quantità di intelligenza possa spiegare il grado di successi nella
vita. Altro fatto importante che determina una certa idea dell’intelligenza, è che essa viene definita dal sistema
scolastico, da insegnanti, dirigenti.

La costruzione della stratificazione attraverso il genere


Si può costruire una gerarchia sociale anche attraverso il genere. Molti ritenevano che a partire dal fisico si
potesse intuire la funzione sociale degli individui, e in particolare le donne avevano una funzione riproduttiva,
mentre gli uomini dirigenziale, di controllo e di difesa. Inoltre, come ci dimostrano gli studi di Emily Martin, l’idea
che dalla biologia femminile si deduca una posizione di inferiorità delle donne rispetto agli uomini è molto
radicata nella mentalità americana, tanto che processi naturali come il ciclo o la menopausa vengono descritti nei
libri di biologia con una connotazione negativa. Per esempio, negli attuali manuali di medicina, la menopausa
viene descritta non solo come un invecchiamento del corpo della donna, ma come un processo che determina la
vera e propria rottura della macchina-corpo, con la conseguente inutilità. Le funzioni riproduttive del maschio,
invece, non sono mai descritte in questi termini.

Domanda 5.4: quali strategie adottano i poveri per adattarsi alle loro condizioni di vita?
I poveri utilizzano particolari strategie adattive. Oscar Lewis, antropologo, ha coniato per queste strategie
l’espressione di “cultura della povertà”, ma alcuni non sono d’accordo perché ritengono che questa espressione
significherebbe che se quei poveri non fossero poveri, allora non avrebbero alcun tipo di cultura.
Un’interessante strategia adattiva, studiata da Carol Stack, durante un’analisi di una comunità di poveri facente
parte di una piccola città del Midwest (“The Flats”), è il rafforzamento dei legami di parentela, connesso alla
creazione di rapporti parentali fittizi, allo scopo di garantirsi aiuto economico e sociale nei momenti del bisogno
(come tenere i bambini, nutrirli, educarli). Gli antropologi definiscono questo tipo di scambio reciprocità
generalizzata, distinta dalla reciprocità equilibrata, in cui beni sono scambiati simultaneamente. Di fatto, a causa
delle loro condizioni di povertà, i poveri di The Flats preferivano stringere reti di parentela e amicizia invece di
optare per il modello della famiglia nucleare.
Ma la resilienza alla povertà non porta solo a situazioni di solidarietà: essa può infatti condurre ad un
comportamento autodistruttivo. Philippe Bourgois, nel suo studio sull’Upper East Side di New York, ritrae una
cultura incentrata sul consumo di droga, sulla violenza e sulla rabbia interiorizzata. La domanda principale che ci
si deve porre è: perché si sviluppano luoghi come il ghetto di El Barrio, studiato da Bourgois? El Barrio è abitato
principalmente da portoricani. Essi si dovettero trasferire da Puerto Rico perché fu occupata dalle multinazionali
americane e migliaia di agricoltori rimasti senza terra emigrarono negli Stati Uniti, dove prima riuscirono
effettivamente a migliorare la propria condizione, ma poi -sempre a causa della globalizzazione- restarono di
nuovo senza lavoro. Quindi si può dire che, al contrario di quello che si pensa, non è colpa dei poveri se sono
poveri, ma spesso ci si mettono delle concomitanze globali a peggiorare la vita degli individui. Ciononostante, la
maggior parte delle persone a El Barrio considera la violenza e il peggioramento delle proprie condizioni di vita
come il risultato delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Approfondimento: gli antropologi e lo studio delle realtà urbane
Gli antropologi hanno iniziato a studiare le città a partire dagli anni Cinquanta, di molto in ritardo rispetto ai
sociologi. Si deve distinguere tra antropologia nelle città e antropologia della città. La prima ha cercato di trovare
nella città il corrispettivo del villaggio rurale, individuato nei quartieri. La seconda ha preso come oggetto di
analisi tutta la città, con lo scopo di analizzare, per esempio, gli effetti del capitalismo industriale sulle relazioni
sociali. Inoltre, alla fine del XX secolo, è venuto a crearsi un nuovo campo di ricerca, gli “studi urbani”, dove gli
antropologi hanno iniziato a collaborare con i geografi e con i pianificatori urbani.

Domanda 5.5: una com. priva di stratificazione può esistere all’interno di una soc. gerarch. più ampia?
Se molti ritengono che la stratificazione sia inevitabile, altri hanno cercato di studiare i tanti tentativi di costruire
delle società egualitarie. In particolare, Charles Erasmus ha cercato di capire perché i tentativi nella maggior
parte dei casi abbiano avuto un esito negativo. Concluse che il problema principale di quelle comunità era di
motivare i membri a lavorare e a contribuire al bene comune senza la promessa di un compenso individuale
materiale, di uno status o del prestigio. Ad oggi, esiste una comunità, quella degli Hutteriti, nata durante la
riforma protestante, basata su principi quasi completamente egualitari (in realtà, esiste comunque una minima
classificazione in base al sesso e all’età). Essi sono riusciti, con uno sforzo collettivo, a creare una comunità in
cui sono assenti povertà e classi economiche, in cui il crimine è quasi sconosciuto, e in cui ogni persona, senza
la promessa di un compenso materiale, lavora per il bene comune. Tuttavia, ci sono degli aspetti negativi, tipo
che è una società essenzialmente maschilista e che nega la libertà individuale.

CAPITOLO 7: GLOBALIZZAZIONE, NEOLIBERISMO E STATO-NAZIONE

Di solito l’oggetto dell’antropologia non sono categorie sociali definite da caratteristiche comuni ai loro membri,
ma gruppi di persone che vivono negli stessi luoghi. Sul piano della ricerca empirica, l’etnografia, specialmente
quella classica, è una «strategia localizzante», caratterizzata dal viaggio dello studioso verso un «campo» più o
meno lontano. In tutto questo, può esserci il rischio di ricadere in una visione «divisionista», che trasforma le
culture in spazi chiusi, determinati, immobili e dai confini netti e rigidi, come le nazioni in un planisfero. Negli
spazi abitati dall’uomo, la distinzione fra elementi naturali ed elementi antropici (sia le costruzioni che le
trasformazioni dovute all’attività dell’uomo) è solo orientativa: un ambiente naturale puro praticamente non
esiste. Mentre il determinismo ambientale cerca di spiegare il comportamento e le usanze in base alle
caratteristiche di base del territorio (innanzitutto il clima), l’antropologia mette in luce come gli abitanti
costruiscano il significato che i luoghi che abitano hanno per loro.
Lo spazio viene categorizzato, ordinato, compreso in modi peculiari. Per esempio si individuano i confini (interni
ed esterni), si stabilisce un centro, si individuano i territori, li si inserisce in un quadro generale di riferimento, un
mondo, e si evidenziano dei percorsi al loro interno.
Secondo l’antropologo francese Marc Augé esistono però anche i non-luoghi: la differenza fondamentale tra
luoghi e non luoghi è che i luoghi sono la sede di relazioni sociali, della memoria, delle tradizioni; i non-luoghi,
creati dalla nostra modernità avanzata, sono invece posti che non suscitano sentimenti di appartenenza e che
hanno solo utenti, come aeroporti, stazioni, banche. Il problema è se a identificare i non-luoghi sia solo la
funzione alla quale sono destinati, o piuttosto il modo in cui sono usati. Inoltre, ci si potrebbe chiedere se i non
luoghi sono non luoghi per tutti, o se sia possibile un’antropologia di utenti abituali che si incontrano lì per
passare il tempo.

Se l’etnografia all’inizio studiava le culture primitive come isolate, oggi questo approccio è stato superato per due
motivi: per sviluppi interni alla disciplina, e per il rapido sviluppo della globalizzazione, che è diventata uno dei
temi prevalenti dell’antropologia contemporanea. Le culture oggi sono quindi intese non più come entità statiche,
ma come configurazioni provvisorie in continuo mutamento. E’ importante il concetto di “continuo mutamento” in
quanto non si può parlare di globalizzazione come di “omogeneizzazione culturale”, ma come creazione costante
di nuove culture che si mescolano tra di loro.
Col termine «globalizzazione» si fa riferimento a flussi ad ampio raggio di persone, idee, finanza, merci,
informazioni, ed è una caratteristica propria di tutta la modernità capitalistica. Inoltre, la globalizzazione va a
minare anche le istituzioni classiche, come il ruolo di Stato-nazione. Essa ha a che fare con tanti aspetti della vita
e della società umana: economico, politico, demografico, culturale e sociale. Questa divisione di campi di
interesse della globalizzazione può variare a seconda dell’approccio. Infatti, l’antropologo indiano Appadurai
analizza la globalizzazione scomponendola in cinque grandi scenari:
1. etnorami: i gruppi umani in movimento
2. tecnorami: la globalizzazione delle tecnologie
3. finanziorami: le dinamiche del capitale globale
4. mediorami: repertori di immagini mediatiche
5. ideorami: circolazione di modelli politici e ideologie
All’interno della globalizzazione si possono individuare diversi fenomeni. Abbiamo per esempio i fenomeni
diasporici, per i quali si intende la migrazione di gruppi che, nel luogo di destinazione, sono capaci di mantenere
stretti rapporti coi luoghi d’origine. Il transnazionalismo è un passo più in là sulla stessa strada: i progressi dei
trasporti e delle comunicazioni permettono un rapporto quasi quotidiano con i contesti di provenienza. Questi
cambiamenti nei fenomeni migratori mettono in crisi sia i modelli basati sull’assimilazione che quelli che mirano al
riconoscimento di un certo grado di diversità all’interno di un’unica cittadinanza. Ai fenomeni diasporici si
aggiungono fenomeni di territorializzazione, causati dal turismo su scala globale, dove le mete sembrano
«deterritorializzarsi», diventando spazi ibridi fra la cultura locale e quella dei visitatori; fenomeni di crisi della
cittadinanza, come nei casi dei campi profughi, della situazione dei rifugiati politici e dei richiedenti asilo, o
nell’ambiguo status dei migranti in condizione di clandestinità.
Abbiamo anche il transnazionalismo d’élite, ossia sfere professionali trasversali ai confini statali, come le ONG.

Come abbiamo detto, la globalizzazione non è un’omogeneizzazione del mondo: pur essendo plasmata da forze
egemoniche e centralizzate, esse interagiscono con i contesti locali, modificandoli e venendone a loro volta
modificate. Si parla infatti di glocalizzazione, concetto per cui dal contatto tra i grandi flussi e le culture locali si
formano ibridazioni, determinando forme di indigenizzazione della stessa cultura di massa. E, d’altro canto, non
è infrequente che i tratti culturali locali, proprio per reazione, vengano rivalorizzati in un'ottica di «resistenza» o di
patrimonializzazione. Si pensi al modello italiano dello slow-food, che è potuto diventare uno stile e persino una
forma di patrimonializzazione della cucina solo per contrasto con la diffusione del «fast».

Con l’avvento della globalizzazione l’antropologia ha dovuto cambiare approccio: da che si studiavano fenomeni
del tutto lontani tra loro per scoprire una nascosta essenza comune, ora si studia il modo in cui flussi globali
standardizzati impattano su contesti locali, per analizzare le modalità contemporanee di costruzione delle
differenze. Valorizzare i processi di ibridazione e creatività culturale innescati dai processi globalizzanti non
significa rinunciare a un approccio critico alla globalizzazione. La globalizzazione ha avuto infatti delle gravi
conseguenze: sul piano economico, il progressivo decentramento delle produzioni industriali, prima nell'Europa
dell'Est e poi in Asia, e in particolare in Cina, ha ridotto di molto le opportunità di lavoro in tutto il continente,
generando insicurezze e incertezza verso il futuro. Un senso di perdita le cui cause vengono spesso attribuite a
un elemento esterno, in modo da alimentare una rivalità sempre più forte contro l'Altro, lo straniero, il diverso. A
causa della globalizzazione ci troviamo ora in quella società liquida di cui parlava Zygmunt Bauman. Sul piano
culturale la globalizzazione ha innescato processi ansiogeni, provocando una frammentazione identitaria. Di
colpo ci si è sentiti tutti molto più attaccati a una nostra presunta cultura, che la globalizzazione minaccerebbe
con la sua azione omogeneizzante.

Cap 7 → concetti:
- non tutte le società hanno la stessa concezione del denaro e della ricchezza
- la nostra società si basa sul denaro e sul mercato
- breve storia del denaro
- per far sì che ci sia una costante crescita economica, bisogna che aumentino costantemente le merci
comprabili sul mercato
- esse possono aumentare con la conversione dei capitali
PROFILI ANTROPOLOGICI

MARGARET MEAD e “l’adolescenza in Samoa”


Margaret Mead è stata un’antropologa statunitense, allieva di Franz Boas, antropologo tedesco naturalizzato
statunitense, tra i pionieri dell'antropologia moderna. Fu molto legata a Ruth Benedict, pure allieva di Boes, con
cui condivise viaggi e ricerche. Mead inaugura lo studio delle culture non americane: fino alla metà degli anni ’20
del Novecento gli antropologi americani si concentrarono essenzialmente sulle culture indiane degli Stati Uniti. Lo
stesso Boas era uno studioso specializzato nella cultura degli Inuit. La prima «uscita» dell’antropologia
statunitense dal continente americano la si deve a Margaret Mead alle isole Samoa (in questo gli italiani
arrivarono prima, poiché le esplorazioni etnografiche di Lamberto Loria nei ‘Mari del sud’ risalgono alla fine
dell’Ottocento). Interessante è il sottotitolo del libro della Mead, ossia: uno studio psicologico sulla gioventù
primitiva per la civiltà occidentale. Il libro, come spiega M.M. nella presentazione per la riedizione del 1973, era
scritto per un pubblico non accademico, pensando a insegnanti, genitori, futuri genitori (primo libro con
un’impostazione del genere!). Si tratta di un libro che sarebbe diventato famosissimo, perché era un punto di
contatto tra l’antropologia e lo studio sull’individuo, in un periodo in cui nella cultura occidentale si cominciava a
discutere seriamente sulla rivoluzione sessuale.
La Mead va a studiare le adolescenti in Samoa perché così voleva Boas. Infatti, egli riteneva che gli
scienziati-fondatori, i quali tracciano l'intero corso di una disciplina. Sentiva che si era già lavorato abbastanza
per dimostrare che i popoli prendevano a prestito qualcosa l'uno dall'altro, e sentiva che era arrivato il momento
di affrontare la serie di problemi che mettevano in rapporto lo sviluppo degli individui con ciò che era distintivo
della cultura in cui erano cresciuti. Boas voleva dunque che la Mead studiasse l’adolescenza, per sperimentare,
da un lato, la misura in cui i turbamenti dell'adolescenza dipendessero dagli atteggiamenti di una particolare
cultura e, dall'altro, in che misura essi fossero inerenti allo stadio adolescenziale dello sviluppo psicobiologico.
Mead in questo libro sostiene che alle Samoa gli adolescenti non fossero turbati come gli americani, perché
vivevano con spensieratezza le loro prime esperienze sessuali.

La struttura del libro


La Mead si reca nelle Samoa Americane nel 1925-26. La sua ricerca dura 9 mesi, e il libro è dedicato alle
ragazze di Tau, l’isola in cui conduce le sue ricerche. Lo studio ha coinvolto 68 bambine e ragazze,
approfondendo in particolare lo studio delle adolescenti e delle ragazze già puberi. La Mead, come dice nel I
capitolo, sceglie di occuparsi di ragazze perché lei, come donna, poteva contare su una maggiore intimità
lavorando con femmine piuttosto che con maschi, e perché essendo ancora poche le donne etnologhe, la
conoscenza che si aveva delle ragazze di civiltà preletterate era minore.
Nel capitolo II viene spiegato un po’ come funziona la vita in Samoa; nel capitolo III si passa al parlare
dell’educazione del bambino samoano. Essa è molto semplice: terminato lo svezzamento il bambino viene
affidato a bambinaie di sei o sette anni, che non vogliono solo essere lasciate in pace, e quando il bambino
piange lo trascinano semplicemente dove gli adulti non lo sentono. Nell’adolescenza, le ragazze concentrano
tutte il loro interesse ad avventure sessuali clandestine. Ella deve essere piuttosto mediocre e non superare i
maschi, ai quali invece è richiesto di perfezionarsi sempre di più. La ragazza adolescente non desidera ancora il
matrimonio e vive con spensieratezza e libertà. Anche raggiunti i 20 anni, se non si sposava non era un dramma.
Viene lasciata in pace prevalentemente e addirittura se una casa diventava troppo affollata per la presenza dei
bambini, cambiava residenza e andava a vivere in un posto più tranquillo. La mente delle ragazze non era
confusa da conflitti, non era turbata da dubbi filosofici, non era dominata da ambizioni lontane dalla realtà. Vivere
da ragazza con molti amanti finché era possibile, poi sposarsi con qualcuno del proprio villaggio, abitare vicino ai
propri parenti e avere molti bambini - questa era un’ambizione che appagava tutti». Le esperienze sessuali
frequenti e libere erano frequenti perché quello era per loro ancora un momento di sterilità. La Mead, quindi,
mette in evidenza notevoli differenze rispetto al contesto culturale statunitense, in cui l’adolescenza era vissuta in
modo molto conflittuale, piena di divieti e di turbamenti. Le differenze dei due modi di vivere l’adolescenze era
dovute, secondo la Mead, alla diversità dei modelli culturali relativi all’educazione e, dunque, ai differenti processi
di inculturazione. La Mead sottolinea come all’origine della differenza tra samoani e americani stavano due
importanti fattori: la mancanza di messaggi concorrenziali e produttivistici, e l’assenza di alternative nella scelta
che si para davanti al giovane giunto nell’età dell’adolescenza. Tutto questo serviva per dare un’esperienza di
vita diversa, potendo ipotizzare nuovi modelli di educazione anche per gli adolescenti americani. Il libro della
Mead produsse negli ambienti colti degli Stati Uniti la stessa impressione e lo stesso interesse che l'anno prima
in Gran Bretagna aveva suscitato la pubblicazione del libro di Malinowski sulla "vita sessuale dei selvaggi". Il
libro è completato da tabelle, note, appendici, mappe, dati etnografici, osservazioni metodologiche e
considerazioni specifiche sui disturbi mentali.

Le critiche e le influenze
La scarsa consistenza teorica dei concetti descrittivi utilizzati da Mead fu oggetto di una severa critica, già nei
decenni immediatamente successivi alla pubblicazione di questi suoi testi. Sulla base dei propri dati etnografici e
dello spoglio di fonti storiche, Freeman, che aveva condotto tra gli anni Quaranta e Sessanta una lunga ricerca a
Samoa, sostenne infatti che l’antropologa aveva realizzato una ricerca superficiale e, a partire dalle proprie
proiezioni immaginarie, una rappresentazione idilliaca della società locale in gran parte contraria alla realtà: a
Samoa l’adolescenza e la stessa sessualità prematrimoniale erano, anche all’epoca in cui Mead vi aveva
soggiornato, un campo di accesi conflitti e, lungi dall’essere caratterizzate da una libertà spensierata, erano
sottoposte a costrizioni e a regole severe.
Altri però lo apprezzarono molto e anche e la pediatria contemporanea è stata fortemente influenzata da
Margaret Mead, attraverso la stretta collaborazione con il pediatra americano Benjamin Spock.

Le altre opere di Margaret Mead


La Mead scrisse più di 44 libri. Abbiamo per esempio:
- Diventare adulti in Nuova Guinea, non tradotto in italiano, libro dedicato allo studio dell’età prepuberale a
Manus, in Nuova Guinea. In esso Mead indaga come i bambini apprendono la cultura. La ricerca venne condotta
a Pere, un villaggio di palafitte insieme al secondo marito, l’antropologo neozelandese Reo Fortune.
- Sesso e temperamento in tre società primitive, considerato una pietra miliare all’interno della letteratura
relativa agli studi di genere, perché sottolineava che in molti popoli primitivi non esisteva alcuna differenza tra
uomini e donne, come tra gli Arapesh e i Mundugumor. Mead però dimostrava anche che i ruoli di maschio e
femmina potevano anche essere diversi tra di loro in queste società primitive, ma diversi anche dal modello
americano. Mead intese mostrare che le indoli femminile e maschile non derivavano semplicemente dalla
«natura» della differenza sessuale; lungi dall’essere invariabilmente determinate da un dato biologico, esse
erano un prodotto della «cultura» particolare di ogni gruppo.
- Balinese Character: A Photographic Analysis, saggio fotografico. Margaret Mead è pertanto considerata
anche una pioniera dell’uso documentaristico della fotografia nell’inchiesta etnografica.
- Maschio e femmina: presenta materiali e riflessioni basati su diverse campagne etnografiche, condotte tra il
1925 e il 1939 presso sette popolazioni del Pacifico meridionale e occidentale, con impianto comparativo. Mead
studiava i processi culturali della costruzione del maschile e del femminile, ovvero cosa siano mascolinità e
femminilità, quelli che definiva ruoli sessuali. Si tratta di un classico dell’antropologia, che ebbe un grande
successo di pubblico, e in particolare di un testo di riferimento per quella che sarà la futura antropologia di
genere. Mead dimostra come, sin dalla primissima infanzia, uomini e donne sono socializzati in base a un
modello maschile e femminile previsto dalla propria società, a cui gli individui si devono adeguare. Quello che in
una società può essere considerato un comportamento tipicamente femminile, in un’altra può essere ritenuto
maschile. Comunque, secondo Mead i ruoli hanno comunque un fondamento naturale e sono complementari.
Mead non mette in discussione la divisione sociale tra maschile e femminile, ma afferma che ci sono delle
variazioni culturali nei comportamenti maschili e femminili.
- Studi sul carattere nazionale, di paesi come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
- L’inverno delle more, storia dei suoi primi anni di vita, mossa dall’idea che l’educazione ricevuta da genitori
intellettuali e progressisti l’avesse posta "in anticipo sui tempi", cosicché guardare alla sua esperienza sarebbe
stato utile anche alle nuove generazioni.
- e altre opere.

BRONISLAW MALINOWSKI
E’ stato un antropologo polacco naturalizzato britannico. Egli studiò il territorio della Melanesia, nel Pacifico
occidentale. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si trovava in Australia, dove si era recato per seguire i
lavori di un congresso. Essendo suddito austroungarico, divenne straniero nemico, ma non n fu internato, ma
lasciato libero di compiere ricerche, dapprima in Nuova Guinea, poi alle isole Trobriand, in Melanesia, dove
rimase per circa per quattro anni. Malinowski conduce le proprie ricerche nelle isole Trobriand, un arcipelago di
atolli corallini ubicato al largo della costa orientale della Nuova Guinea. Il suo libro più importante è Argonauti
del pacifico occidentale, scritto nel 1922. Egli inaugura l’osservazione partecipante, che implica l'immersione
nelle attività quotidiane della comunità da studiare, attraverso prolungati periodi di lavoro sul campo e la
padronanza della lingua, finalizzata a ricercare il punto di vista del nativo. Questa dimensione «immersiva»
all’interno di una data società consente all’antropologo di cogliere alcuni tra gli aspetti basilari della diversità
culturale degli uomini. Si tratta di fattori talmente basilari da sembrare banali: si tratta di quelli che Malinowski
chiamò “le cose imponderabili della vita nativa e del comportamento tipico”. Sono cose davvero banali, ossia
come guardano gli altri, come gesticolano…
Fino al XIX secolo si parlava di “antropologia da tavolino”, poiché i primi antropologi portavano avanti i propri
studi avvalendosi di resoconti di viaggiatori ed esploratori. Dall’inizio del XX secolo si sviluppo la cosiddetta
“antropologia da veranda”, poiché l’antropologo, pur avvicinandosi alle popolazioni, non viveva insieme a loro
ma chiedeva ai nativi di “raggiungerlo nella veranda della sua abitazione”. Con l’osservazione partecipante ideata
da Malinowski il punto di osservazione dello studioso muta ulteriormente, si avvicina alla comunità oggetto di
studio, l’etno-antropologo entra nel «cerchio magico», si immerge e amalgama al vissuto quotidiano degli uomini
soggetto della sua ricerca.
Questo metodo di indagine viene dunque usato per la prima volta da M., e si sostanzia di interviste formali ed
informali, osservazione diretta, partecipazione alla vita del gruppo, discussioni collettive, analisi di documenti
personali, autoanalisi. L’organizzazione scritta dei materiali raccolti è chiamata etnografia.

La pubblicazione postuma dei diari di Malinowski


Nel 1967, quasi quarant’anni dopo la sua morte, la moglie di Malinowski pubblicò il diario privato, tenuto
dall’antropologo nel periodo della sua ricerca sul campo alle Trobriand. Il diario fu letto come una smentita
dell’immagine di sé e del «metodo etnografico» presentata in Argonauti. In molti passi, Malinowski vi manifestava
infatti dei sentimenti di disagio e insofferenza verso gli indigeni fortemente dissonanti rispetto alla disposizione di
«empatia» con la quale si era auto rappresentato nelle sue pubblicazioni scientifiche. Inoltre, i diversi riferimenti
ai suoi rapporti con gli altri europei allora residenti nelle Isole smentivano una delle «prescrizioni» del suo
«metodo etnografico». Nei decenni più recenti è divenuto chiaro che lo «scandalo» che la pubblicazione del
diario di Malinowski suscitò tra gli antropologi non abbia riguardato tanto il suo «caso personale », ma si sia
legato a una più generale messa in discussione, già in corso negli anni Sessanta, dei limiti analitici sia del
«metodo etnografico» sia dell’analisi «sincronica» dei processi sociali e delle «culture»: il primo si rivelava in
effetti inassimilabile a un vero e proprio «metodo sperimentale» del genere di quelli impiegati nelle scienze
naturali, essendo più prossimo a qualcosa che restava dipendente in maniera rilevante dalla «soggettività »
dell’esperienza di ricerca; la seconda si basava su un’astrazione dalle vicende storiche, passate e presenti, delle
popolazioni studiate, la quale ormai appariva ingiustificabile sia teoricamente sia politicamente anche per una
comprensione del loro «presente». In particolare, le monografie «funzionaliste» si caratterizzavano per un
pressoché totale occultamento dell’impatto del colonialismo europeo sulla «vita tribale» delle popolazioni
descritte.

Il funzionalismo di Malinowski
Malinowski è considerato, nella storia dell’antropologia, uno dei padri fondatori dell’approccio funzionalistico, che
emerge all’interno dell’antropologia britannica nel secondo decennio del Novecento, in concomitanza con il
progressivo indebolimento delle prospettive teoriche che avevano dominato in precedenza: l’evoluzionismo e il
diffusionismo. Il funzionalismo posticipava e metteva in secondo piano la ricerca delle origini (attraverso
l'evoluzione e il processo di diffusione), concentrandosi invece sul ruolo dei tratti e delle pratiche culturali nella
società contemporanea.
Malinowski fu un funzionalista in due sensi: in primo luogo, fermamente convinto del valore del proprio metodo
etnografico, riteneva che tutti gli usi, le tradizioni e le istituzioni di una società fossero integrati e correlati. In tal
senso lo studio delle attività di pesca nelle Trobriand alla fine avrebbe condotto l'etnografo a studiare l'intero
sistema economico, la magia, la religione, i miti, il commercio e i sistemi di parentela.
In secondo luogo, Malinowski pensava che gli esseri umani avessero un insieme di bisogni biologici universali e
che usi e tradizioni venissero sviluppati proprio allo scopo di soddisfare tali bisogni.

ARNOLD VAN GENNEP


E’ stato un etnologo e folklorista francese. È considerato il fondatore dello studio del folklore come disciplina
scientifica. La Savoia è stata il suo terreno prediletto di ricerca. Le sue indagini si concentrano anzitutto sui
problemi dell’etnologia del suo tempo: totemismo, tabù, forme primitive della religione e rapporti che intercorrono
fra mito e rito.
Egli vive ai margini del sistema universitario. Tra il 1912 ed il 1915 è titolare della cattedra di Etnografia
all'Università di Neuchâtel, in Svizzera. Perde la cattedra per le sue posizioni politiche contrarie alla neutralità
della Svizzera durante la Prima guerra mondiale. Trascorre la maggior parte della vita nei pressi di Parigi.
È autore di un monumentale Manuel de folklore français contemporain.
I riti di passaggio (1909) è invece l’opera, tradotta in tutte le principali lingue europee, per cui van Gennep è
maggiormente famoso tra gli antropologi. Esempi di riti di passaggio sono: battesimo, matrimonio, funerale, leva
militare obbligatoria, esame di maturità, graduation day…
I riti di passaggio sono «i momenti collettivi che segnano la transizione di un individuo da uno status all’altro».
Van Gennep ha avuto il merito di porre per primo in evidenza la struttura costante dei riti di passaggio:
1. Fase di separazione
2. Fase di transizione (fase liminale)
3. Fase di reintegrazione (o riaggregazione).
Nella prima fase, il rituale separa la persona dall’identità attuale; nella seconda entra in una fase di transizione e
nella terza i cambiamenti vengono integrati in una nuova identità. Esempio tipico di rito di passaggio è il
matrimonio cattolico. «I futuri sposi entrano in chiesa, ciascuno a braccetto di un genitore, come a segnare
l’appartenenza alla famiglia di origine. Poi si staccano dai genitori (separazione) per partecipare, insieme, al rito
vero e proprio (liminalità). Poi gli sposi lasciano l’altare a braccetto, per rientrare nel gruppo di amici e parenti
(riaggregazione) con uno status nuovo, quello di individui sposati. Oggigiorno nella «società liquida» i riti di
passaggio sono stati depotenziati. Una società può essere definita ‘liquido-moderna’ se le situazioni in cui
agiscono gli uomini si moltiplicano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure.
Uno degli effetti del venir meno di riti di passaggio è il diffondersi di quella che lo psicanalista Massimo Ammaniti
ha definito come adultescenza, la situazione cioè di «giovani che permangono nella fase adolescenziale
nonostante si avvicinino all’età adulta. È un modo di essere che può prolungarsi oltre i 30 anni: si è concentrati
su se stessi, incapaci di assumersi responsabilità nei confronti di un partner con cui convivere e, soprattutto, di
avere figli, che implicherebbero un impegno, oltre che rinunce e sacrifici». Nel mondo contemporaneo hanno
perso importanza, quali riti di passaggio, il servizio militare, in quanto abolito, e il matrimonio, sovente celebrato
dopo una lunga convivenza (il distacco dalla famiglia d’origine avviene quindi in forma privatizzata). In questo
contesto «liquido» grande importanza rivestono dunque le agenzie educative (Scuola e Università).
Infine, possiamo dire che esiste uno stretto rapporto fra riti di passaggio e le pratiche antropopoietiche di
costruzione del corpo.

ERNESTO DE MARTINO
Ernesto de Martino (1908-1965) è stato uno storico delle religioni ed etnologo, professore all’Università di
Cagliari e poi all’Università di Roma. Si occupò di magismo, di fenomeni sciamanici, di manifestazioni religiose
nelle società occidentali. Tra le sue opere principali:
- Il mondo magico (1948), considerata la sua opera più complessa e ricca di intuizioni feconde. Affronta qui un
tema classico dell’antropologia, ossia quello della natura della magia.
- Morte e pianto rituale (1958), primo libro di una trilogia sul meridione italiano, di cui fanno parte anche Sud e
magia e La terra del rimorso. In queste tre opere, considerate altrettante tappe di una ricerca sulla "storia
religiosa del Meridione d’Italia", De Martino analizza – rispettivamente – il lamento funebre, le credenze e le
pratiche magiche associate al malocchio, le credenze e i procedimenti magico-terapeutici, servendosi di
storiografia d’archivio, comparazione etnografica e ricerca sul campo. In Morte e pianto rituale ci spiega come
l’uomo reagisce alla morte attraverso un dispositivo simbolico molto complesso denominato pianto funebre,
dispositivo atto a superare il cordoglio. In La terra del rimorso, sua opera più nota, rappresenta forse l’esito
della più nota ricerca sul campo d’équipe nella storia dell’antropologia italiana. De Martino si reca in Salento con
un medico psichiatra, una psicologa, un etnomusicologo, un’assistente sociale e un documentarista fotografo.
L’oggetto di studio era un rito di guarigione che, attraverso la musica e la danza, si supponeva risolvesse disturbi
che nelle rappresentazioni popolari venivano attribuiti al morso di un ragno, la taranta (o tarantola). Nel rituale il
tarantato/a si identifica con il ragno simulandone i movimenti attraverso una danza che ha la funzione di
indirizzare il disagio e la crisi verso un esito positivo. A essere colpite da questo disturbo erano soprattutto le
donne, appartenenti al ceto contadino. Primo scopo della ricerca era di appurare se il tarantismo fosse o meno
una malattia e, se così fosse stato, verificare se si trattava di una forma di aracnidismo o un disordine psichico.
Entrambe le ipotesi vennero smentite: “immunità locale, ripetizione stagionale e calendariale, schiacciante
prevalenza della partecipazione femminile, distribuzione familiare ed elettività del primo morso per l’età compresa
fra l’inizio della pubertà e il termine dell’età evolutiva” orientarono la ricerca verso un’interpretazione simbolica del
tarantismo. Morso, veleno, guarigione sono quindi simboli mitico-rituali culturalmente condizionati. De Martino ha
interpretato il tarantismo come una risposta storica e culturale a momenti di crisi esistenziale provocati dalla
condizione di marginalità sociale, economica e culturale vissuti dai ceti subalterni del Meridione.

Nel 1948 Pavese e De Martino danno vita alla collana viola, ossia alla collezione di studi religiosi, etnologici e
psicologici. La collana proseguì fino al 55 e accolse le prime traduzioni di Malinowski, Frazer, Propp e altri.
A De Martino spettò il compito di certificare scientificamente tutti i titoli, di firmare la maggior parte delle
prefazioni, di tenere i rapporti con alcuni autori e curatori, nonché di inaugurarla con Il mondo magico, un saggio
pionieristico in cui riconosceva al magismo la funzione storica di aver oggettivato le forze inconsce della natura e
dell’anima.
FABIO DEI - “CULTURA, SCUOLA, EDUCAZIONE: LA PROSPETTIVA ANTROPOLOGICA”

Capitolo 1: cultura, scuola, educazione: a cosa serve un approccio antropologico?


A partire dagli anni ’80 del ’900 al concetto di pedagogia si è andato sostituendo quello di scienze
dell’educazione. La pedagogia era originariamente pensata come una disciplina prevalentemente filosofica, in
grado di enunciare i principi fondamentali del processo educativo, da cui poi derivavano tecniche e applicazioni
didattiche specifiche. Le scienze dell’educazione rimandano a una concezione più articolata e multidisciplinare:
saperi diversi e con diverse basi epistemologiche che concorrono da molteplici angolature a ragionare sui
percorsi formativi e a collocarli in più vaste dinamiche psicologiche, sociali, culturali, politiche.
Fra le scienze dell’educazione, soprattutto nel mondo anglosassone, l’antropologia culturale ha da sempre
giocato un ruolo importante. Esito di questo processo di inclusione dell’antropologia culturale fra le «scienze
dell’educazione» è anche il Decreto Ministeriale che ha deciso di inserire l’ambito di antropologia in quelli per
ottenere i cfu per l’insegnamento. Ma perchè l’antropologia c’entra con l’educazione?
- perché l’antropologia ha a che fare col concetto di cultura, intesa non soltanto come l’insieme dei più alti
prodotti dell’intelletto, ma anche dei saperi e delle pratiche della vita quotidiana.
- perché le scienze dell’educazione devono basarsi primariamente sulla conoscenza della soggettività dei
discenti.
La cultura è dunque costitutiva del soggetto umano non meno di quanto lo siano le strutture e le competenze
psicologiche. Nel corso del Novecento l’antropologia ha lottato a lungo contro il determinismo naturalistico, ossia
il dibattito tra nature e nurture. La domanda di fondo dietro a questo dibattito è: cosa determina di più il destino e
il carattere di un uomo, i geni o l’educazione?
Vi è quindi un interesse verso i bambini che hanno sperimentato forme di isolamento o separazione:
1) Victor dell’Aveyron, un bambino di circa dodici anni ritrovato in Francia nel 1798 nei boschi, dopo
essere vissuto molti anni in isolamento, nello stato più selvaggio e per questa ragione del tutto incapace
di comunicare e relazionarsi a qualsiasi livello con i suoi simili. Il ragazzo venne raccolto in casa di un
certo Itard, che gli diede il nome di Victor e per ben cinque anni cercò di farlo diventare un «normale
ragazzo di Parigi». Tutti i suoi sforzi però furono vani. Victor non imparò mai a parlare, né a connettere
in sequenze logiche gli elementi che venivano sottoposti alla sua attenzione. Qualcuno ritenne che ciò
era conseguenza del fatto che il ragazzo era deficiente dalla nascita, ma l'ipotesi più probabile è che
egli non avesse ricevuto assistenza dai propri simili adulti proprio nei primi tre anni di vita, quando le
potenzialità del cervello umano si sviluppano grazie allo stimolo esercitato dall'apprendimento dei primi
modelli culturali. Victor morì, «selvaggio», nel 1828.
2) Tarzan, personaggio immaginario inventato da E.R. Burroughs. Rappresenta l’archetipo del bambino
selvaggio allevato nella giungla dalle scimmie (1912).
3) Gemelli separati dalla nascita (es. la vicenda di 3 gemelli americani, separati a fini sperimentali e
affidati a tre famiglie di ceti sociali diversi, narrata nel documentario Three Identical Strangers, 2018).
Ancora oggi è acceso il dissidio fra le ragioni di una comprensione storico antropologica del comportamento
umano e le pretese di una sua spiegazione scientifica a partire da fatti naturali e universali. La tendenza
prevalente è attualmente quella di studiare gli inestricabili intrecci tra le due dimensioni. Cosicché l’approccio
psicologico e antropologico non sono alternativi e concorrenti: propongono piuttosto differenti angolature su uno
stesso problema.

Invece, per comprendere la «soggettività dei discenti» come «fatta di cultura» occorre tener presenti 2
caratteristiche cruciali della cultura: la socialità, poiché a cultura non sta nella mente della singola persona, ma
negli spazi di relazione che la legano agli altri, in specifici ambienti e contesti di vita; e la diversità.
Proprio lo studio e la comprensione delle differenze culturali è il secondo motivo che include l’antropologia tra le
scienze dell’educazione. A maggior ragione questo è vero e attuale oggi, in una scuola che ha visto esplodere il
fenomeno delle differenze a fronte di accentuati fenomeni di migrazione e circolazione su scala globale. A questo
proposito, Fabio Dei sottolinea 4 punti importanti:
1) il fatto che le migrazioni non sono un fenomeno nuovo e che oltre ai migranti la scuola ha da sempre
incluso al suo interno altre forme di diversità, in particolare quella di genere e quella di classe sociale.
Le differenze ci sono sempre state, e con esse l’integrazione di studenti che partono da diversi
presupposti cognitivi e culturali e vengono da storie e ambienti di vita eterogenei. Del resto, le difficoltà
di affrontare pregiudizi e stereotipi sono problemi da sempre presenti nella scuola.
2) le differenze culturali non si presentano in insiemi conchiusi, ben definiti e permanenti. Oggigiorno
bisogna avere una visione caleidoscopica dei rapporti tra le culture, anche perché la globalizzazione
non omologa il mondo in un’unica cultura, ma produce sistemi sempre nuovi di differenze locali.
3) bisogna avere la consapevolezza che la diversità è molto spesso anche una disuguaglianza. Quasi mai
ci si trova di fronte a sistemi culturali simmetrici e paritari, piuttosto a coacervi frammentari di differenze
che si accompagnano a disparità di condizione sociale, di capitale economico e di capitale culturale.
4) La consapevolezza del carattere socialmente compromesso (3°) della diversità culturale non deve farci
cadere in un contrapposto determinismo economico-politico, non bisogna cioè interpretare le differenze
culturali come un superficiale rivestimento di più reali e profonde differenze di classe. Secondo tale
lettura le differenze culturali sarebbero utilizzate dal potere – sul modello del marxiano ‘oppio dei popoli’
– per dividere le classi subalterne e deviarne la consapevolezza lontano dai ‘veri’ problemi.

Approccio comparativo ai processi di socializzazione: non tutte le società hanno istituzioni scolastiche
formalizzate. In tutte le società si possono però rintracciare processi di inculturazione tramite i quali i bambini
apprendono progressivamente la cultura del gruppo: il linguaggio, le tecniche del corpo, le abilità tecnologiche, le
norme relazionali e rituali, le forme espressive e artistiche…
Dal momento che l’antropologia studia le differenze, si è proposto un approccio comparativo ai problemi
dell’educazione, dell’apprendimento, del ruolo dei bambini. Tanti studiosi, a partire dagli anni 20, si sono
cimentati con l’obiettivo di relativizzare concetti ritenuti validi in assoluto (come il complesso di edipo e i
turbamenti adolescenziali).
Franz Boas nel suo libro “Antropologia e vita moderna” (1928) ha dedicato un intero capitolo a criticare
fortemente le istituzioni scolastiche, accusate di incoraggiare l’individualismo invece che valorizzare le diverse
culture presenti sul suolo americano. Boas rifiutava inoltre le idee razziali, ritenendo che ogni essere umano è
unico e che il sistema scolastico americano doveva essere adattato alle risorse culturali degli alunni.
Si veda anche il lavoro della Mead, sulle adolescenti in Samoa.
Malinowski, invece, da attento lettore di Freud, era colpito dal complesso edipico, ma tramite i suoi studi capisce
che si trattava semplicemente di un sistema familiare specifico della Vienna freudiana: una famiglia nucleare,
monogamica e patriarcale, in una società basata sulla discendenza patrilineare e su modelli autoritari accentrati
sulle figure maschili. Nelle isole Trobriand, invece, dove vige un modello di discendenza matrilineare, in cui
l’autorità maschile sui bambini non è esercitata dal padre ma dal fratello della madre, mentre il rapporto col padre
resta di semplice affetto e non di controllo o repressione, succede che quella che nella Vienna di fine Ottocento
era un’unica figura con caratteristiche ambivalenti, alle Trobriand si sdoppia in due figure distinte e non produce
gli stessi conflitti e gli stessi esiti nevrotici. L'idea è che non è in gioco una natura umana universale ma la
variabilità delle strutture sociali, le quali determinano in buona parte la costituzione psichica degli individui.
Ruth Benedict, ha lavorato a lungo sull'ipotesi che le esperienze dei primi anni dell'infanzia, differenziate a
seconda degli usi culturali, possano condurre alla formazione di soggettività umane molto diverse. Nel suo libro
“Modelli di cultura” (1934), sostiene la tesi che all'interno delle vaste possibilità del comportamento e dei tratti
caratteriali degli esseri umani, ne sceglie e privilegia alcuni scartandone altri. Nel libro Benedict prende in
considerazione gli Zuni del nuovo messico, i Dubu, fra la Nuova Guinea e le Trobriand e i Kwakiutl, indiani della
costa nord-occidentale del Canada. Le personalità di base di queste società primitive sono contrapposte e
collegate a caratteristiche culturali distintive. Usa in particolar modo la contrapposizione tra “apollineo” e
“dionisiaco”. Una personalità "apollinea" contraddistinguerebbe gli indios Zuni del New Mexico, tutti volti al
controllo delle emozioni, alla cerimonialità delle relazioni pubbliche e alla condanna degli eccessi; mentre una
personalità "dionisiaca" è tipica di altri gruppi amerindi, come i Kwakiutl della costa americana nord-occidentale,
che valorizzano invece le esperienze violente ed estatiche e la trasgressione dei limiti usuali della quotidianità. Le
pratiche di allevamento dei bambini e le forme dell'inculturazione stanno dunque per Benedict, come per molti
altri studiosi di quegli anni, alla base di particolari "stili" culturali e psicologici.

Verso un’etnografia della scuola: pionieri dell’antropologia dell’educazione sono George e Louise Spindler, che
dopo aver lavorato con i nativi americani si sono occupati del sistema scolastico. Essi hanno utilizzato anche
riprese video delle attività in classe, interviste agli studenti, agli insegnanti e alle famiglie.
Le loro ricerche si sono sviluppate in tre direzioni:
1) le modalità per mezzo delle quali i valori conflittuali dell’insegnante influenzano la sua percezione del
comportamento dell’allievo;
2) l’ambiguità e la contraddittorietà della trasmissione dei valori, che determina spesso la sconfitta di
obiettivi affermati a livello esplicito dall’insegnante, quali, per esempio, l’offerta di pari opportunità a tutti
gli allievi e a tutte le allieve;
3) il ruolo degli amministratori scolastici quale diretta proiezione dei più profondi e radicati valori culturali
degli Stati Uniti.
Interessanti i risultati di una ricerca comparata degli Spindler su una scuola tedesca e una americana, in cui il
metodo principale consisteva nel filmare le interazioni tra studenti e insegnanti e discuterle poi con questi ultimi.
Gli insegnanti esprimevano impressioni che non erano mai stati capaci di enunciare nelle interviste, e alla luce
dei pregiudizi degli altri, arrivavano a rendersi conto anche dei propri.
Quella operata dagli Spindler è una buona formulazione dell’etnografia della scuola, o dello schooling, ponendo
l’accento più sui processi o le pratiche del fare scuola o della “scolarizzazione” che non sulla istituzione
scolastica in sé. Infatti, l’attenzione si concentra sulle forme di comunicazione non verbale, sui comportamenti
routinari e ritualizzati e su altri aspetti che stanno di solito sotto la soglia della consapevolezza dei vari soggetti
che interagiscono nel contesto scolastico. Il tempo della scuola è infatti fatto di:
- strategia: il momento ufficiale
- tattiche: momenti in cui si districa tra le regole ufficiali
Lo studio delle «tattiche» è ad es. al centro del lavoro di ricerca dell’antropologo Alessandro Simonicca
Antropologia dei mondi della scuola. Questioni di metodo ed esperienze etnografiche, in cui sono presentati i
risultati di un'osservazione condotta negli anni 2004/2005 presso la Scuola Elementare “Gaetano Pieraccini” del
comune di Poggibonsi. La ricerca condotta da Simonicca mostra la scuola al microscopio, con tutte le dinamiche
sociali che ne fanno parte. I comportamenti confusionari e indisciplinati degli studenti non sono sfoghi di una
istintività incontrollata che sfugge alle regole, ma atti di routine che gli individui compiono perché il gruppo si
aspetta che siano da loro compiuti. Comprendere questo punto sembra essenziale per gli insegnanti che
vogliano riflettere sul concetto di “disciplina”.
Esiste una vita sotterranea della classe, fatta di riti e doni.
Il dono (nel caso dei bambini anche prestare una gomma equivale a donare, a instaurare rapporti) serve a
costruire rapporti sociali e corrisponde, usando la terminologia di Bourdieu, al capitale simbolico, ossia «la
somma delle risorse, materiali o meno, che ciascun individuo o gruppo sociale ottiene grazie alla partecipazione
a una rete di relazioni interpersonali basate su principi di reciprocità e mutuo riconoscimento».
Per quanto riguarda il dono, si faccia riferimento al “Saggio sul dono” di Marcel Mauss, dedicato all’analisi di varie
forme di scambio di beni di prestigio (kula - potlatch - hau).
Lo hau è «lo “spirito della cosa donata” presente nella cosmologia maori che, secondo Marcel Mauss, sarebbe
alla base dell’obbligo di ricambiare ciò che si è ricevuto. Una parte del donatore o della sua “anima” accompagna
l’oggetto ceduto; in altre parole, donando si cede sempre una componente di noi stessi, che vuole tornare da
dove è venuta attraverso la continuità di un legame.

Scuola ed egemonia dominante: Fabio Dei ripropone una rilettura di Antonio Gramsci, perché la scuola è
anche un’istituzione statale rappresentativa della cultura dominante e portatrice di pregiudizi. Secondo Gramsci
la scuola è il luogo in cui lo stato esercita un dominio sui ceti più bassi, ma al tempo stesso può essere il luogo in
cui può maturare una contro-egemonia popolare. La stessa scuola che forma “sudditi” può anche formare
soggetti liberi. Gli insegnanti (e gli intellettuali in generale) sono storicamente i mediatori del consenso,
l’interfaccia di cui le classi egemoniche hanno bisogno per mantenere il loro controllo: ma proprio questa
posizione cruciale li rende potenziali vettori del mutamento sociale e culturale. Oggi i rapporti tra potere e masse
hanno sempre meno bisogno di apparati culturali di mediazione. Il consenso si forma attraverso un rapporto
diretto tra leader politici e ceti popolari, grazie alle comunicazioni di massa. Inoltre, a sostituire gli intellettuali
sono arrivati i personaggi dello spettacolo, i giornalisti. Cultura e scuola restano dunque ai margini del sistema
politico e della produzione e diffusione di valori, stili di vita, schemi di comportamento.

Capitolo 2: antropologia, educazione e multiculturalismo

Il multiculturalismo è il centro di una contrapposizione di idee: chi vede la diversità culturale un rischio per le
proprie radici e tradizioni a causa di conflitti contemporanei, chi la esalta come una forma di arricchimento. Molti
insegnanti hanno adottato soluzioni per i rispetto reciproco delle differenze, come non festeggiare Natale a
scuola, periodo Ramadan e togliere il crocifisso. Ma è efficace tutto ciò?
Due modelli multiculturali, che offrono percorsi opposti sono:
- Modello assimilazionista francese: la scuola francese è fatta di un universalismo intransigente, che
non dà spazio alle diversità culturali. Si tratta di una “laicità negativa”, cieca alle differenze, con il rischio
di non offrire un’effettiva uguaglianza.
- Modello del multiculturalismo britannico: la scuola britannica si fonda sulla tutela delle differenze
culturali, perseguendo una politica di riconoscimento. Si tratta di una “discriminazione positiva” cioè
l’istituzionalizzazione di un trattamento differenziale per ciascun gruppo con l’obiettivo di bilanciare
situazioni d’iniziale svantaggio. Questo modello pone limiti alla possibilità di stabilire principi condivisi,
contribuendo a produrre cittadini integrati nelle loro enclaves etniche ma non nella comunità nazionale.
Il contrasto di questi due sistemi viene definito enigma multiculturale (eguaglianza delle regole vs attenzione
singole culture).
Altri modelli:
- Germania: si basa sul principio dello ius sanguinis: la cittadinanza è attribuita in base alla linea di
discendenza, indipendentemente dal luogo dove si è nati e cresciuti. Lo scopo è quello di creare una
comunità unita per valori culturali e religiosi;
- Italia: D’Orsi individua un non modello per l’Italia, in quanto la richiesta di assimilazione si associa alla
difficoltà di accesso alla cittadinanza. Non vengono riconosciute positivamente le varie diversità e quindi
gli immigrati non sviluppano un senso d’appartenenza nazionale. Nel tempo si è quindi sviluppato un
sistema di segregazione sociale.
Il multiculturalismo è strettamente collegato alla rappresentazione identitaria, attraverso cui i soggetti si
definiscono e si distinguono, e dipende anche dal modo in cui l’individuo, in un gruppo, viene riconosciuto,
misconosciuto o non riconosciuto. Charles Taylor ha posto una riflessione sul multiculturalismo ritenendo che
una condizione di non-discriminazione non si raggiunge attraverso politiche dell’uguaglianza, ma della differenza;
dunque la questione del multiculturalismo può essere intesa come un problema di riconoscimento. Un esempio di
problema di riconoscimento è l’Italia, dove nelle scuole vi sono progetti di integrazione culturale per la cultura
rom, ma non progetti inversi per imparare qualcosa della loro cultura. Taylor propone una funzione degli orizzonti,
ossia un’apertura alla comprensione reciproca che cerchi di modificare gli orizzonti del sé e quelli dell’altro.
Al tempo stesso però, come è già stato detto, le politiche di multiculturalismo rischiano di ridurre comunità e
persone nelle etichette di appartenenza, guardando solo al particolare e non al comune. Non si può parlare con
precisione di scontri o incontri tra culture perché i confini culturali non sono così ben definiti.
Per rendere conto di questa pluralità di fattori e codici nella costruzione della diversità, l’antropologo Stefen
Vertovec ha proposto il concetto di super-diversity. Prendendo in esame il tessuto urbano di Londra, una città
che ospita persone provenienti da 179 Paesi differenti, Vertovec sostiene che il modello multiculturale delle
scuole e dei servizi sanitari risulta inadeguato a gestire le dinamiche d’inclusione ed esclusione. Queste non
possono essere analizzate solo in termini di etnicità: gli assi di differenziazione etnica (il Paese di origine,
l’appartenenza culturale, la lingua, la religione) dovrebbero essere posti in relazione a altri fattori, come il genere
e l’età, i canali di accesso al mercato del lavoro, il livello educativo e il capitale culturale, la stratificazione
economica, le connessioni transnazionali e diasporiche, gli status legali, i network famigliari e comunitari, la
distribuzione spaziale sul territorio. Il limite delle spiegazioni culturaliste dei conflitti contemporanei è dunque
duplice: da una parte, identificano i soggetti solo in quanto portatori di una diversità culturale, senza considerare
la pluralità di posizioni sociali, economiche e politiche che essi occupano, dall’altra parte, ignorano i meccanismi
di produzione del discorso identitario, naturalizzando rivendicazioni e sensi di appartenenza.
Il rischio di abbandonare interamente la nozione di “differenza”, che ha dominato l’antropologia della prima metà
del Novecento, in favore di quella di “disuguaglianza”, che contraddistingue gli orientamenti più recenti, è infatti
quello di ridurre una realtà cognitivamente ed emotivamente investita a “falsa coscienza” da smascherare o
decostruire.

Dal modello alla pratica:


Sciogliere l’enigma multiculturale significa spostare l’attenzione dai modelli astratti ai fatti concreti con cui ci si
approccia alle diverse culture. Nel fare questo ci sono una serie di problematiche:
- il modello del politicamente corretto, su cui si fondano le politiche americane di rispetto della diversità, in alcune
occasioni risulta efficace contro la discriminazione e in altre rende le persone e le comunità incomincianti; rischia
di ridurre la cultura a una categoria amministrativa da gestire e regolamentare;
- nel ’79 uscì una guida per insegnanti e funzionari pubblici britannici che lavoravano a contatto con persone
musulmane. In questa guida la cultura, la religione e l’etnia sono considerate come oggetti finiti che le persone
possiedono. Questa rappresentazione è esemplificativa di come possono agire le politiche multiculturali dentro
istituzioni pubbliche. In questa guida si riscontra solo la preoccupazione di regolamentare e burocratizzare
l’identità di chi non appartiene al noi maggioritario;
- le politiche pubbliche del mondo dell’accoglienza sono guidate non da una visione processuale delle
appartenenze ma da una definizione essenzializzata e amministrativa. Esemplificativa è la figura del cosiddetto
mediatore culturale, linguistico o religioso, che negli ultimi anni si è istituzionalizzata come il perno del dialogo
interculturale. Il prototipo del buon mediatore è stato spesso inteso come un soggetto “autentico”, testimone della
sua cultura e rappresentate degli interessi di chi a questa cultura “appartiene”, secondo una rigida equazione tra
lingua, cultura e appartenenza di sangue. Tuttavia, essere madrelingua e venire dallo stesso Paese delle
persone per cui si media non è sufficiente, poiché le esigenze che i soggetti manifestano dipendono, come
abbiamo visto attraverso il concetto di super-diversity, da una molteplicità di fattori, come il genere, la posizione
politica, la classe, il background rurale o urbano, la religione, e così via. Se i mediatori riescono ad avere
successo, dunque, non è per la loro abilità di far dialogare culture distinte o per il loro essere rigorosi interpreti
dell’autenticità identitaria ma, al contrario, per la capacità di muoversi pragmaticamente tra le immagini reificate
che orientano discorsi istituzionali.
- Nella scuola accade che gli insegnanti veicolino gli studenti stranieri a un percorso di visibilità obbligata, in
quanto portabandiera del loro paese, quando questi potrebbero preferire una strategia meno appariscente;
- Spesso si presenta un’asimmetria nei processi interreligiosi o interculturali: occasioni di incontro caratterizzate
sempre dalla scarsa partecipazione dei soggetti stranieri che sono coloro che più ne dovrebbero beneficiare;
- Incapacità di gestire il multiculturalismo si trova anche nei servizi di accoglienza rivolti a utenti migranti; anche
gli operatori sociali, assistenti sanitari e psicologi, assumono un atteggiamento compassionevole verso i
bisognosi, ma allo stesso tempo li percepiscono come inaffidabili e manipolatori.

Alla luce di quanto visto possiamo pertanto affermare che i modelli sono importanti, poiché tracciano l’orizzonte
simbolico e concettuale di riferimento e indicano quali sono i problemi e come andrebbero affrontati. Tuttavia,
essi non possono fornire una ricetta preventiva applicabile in ogni situazione. Il crinale sottile che rende le
politiche del multiculturalismo (il riconoscere ed enfatizzare le differenze o il loro sminuirle) pratiche di inclusione
o di esclusione non si decide a priori, ma attraverso la traduzione quotidiana delle politiche pubbliche in relazioni
concrete.

Capitolo 3: Riproduzione, negoziazione, resistenza. Prospettive etnografiche sui processi di


scolarizzazione

L’etnografia rappresenta un cardine dell’antropologia e l’etnografo è colui che si occupa della cosiddetta
descrizione densa dei fenomeni, ossia la descrizione attenta al contesto e ai significati condivisi. Ma tale
descrizione è insufficiente; infatti è compito dell’etnografo la ricerca sul posto, un’osservazione partecipante, che
cerca il giusto coinvolgimento e distacco sul luogo dello studio. La soggettività dell’etnografo deve rimanere al di
fuori del prodotto, caratterizzato solo da oggettività e scientificità. Clifford Geertz sottolinea come anche la
soggettività dell’etnografo sia importante, in quanto ci parla di come conosciamo l’altro, dei processi di traduzione
ed interpretazione attraverso i quali restituiamo questa conoscenza dell’etnografia. Per questo bisogna osservare
cosa fanno gli antropologi (che fanno due cose: scrivere e fare etnografia). In interpretazione di culture egli
illustra l’obiettivo che ogni etnografo si dovrebbe porre in una ricerca: descrizione dei fatti sociali nella loro
meccanicità, attenzione a contesti e significati condivisi, percepire le minuzie di gesti, espressioni e iterazioni tra
soggetti.

All’inizio della disciplina il lavoro dell’antropologo era fondato su testimonianze di seconda mano (come diari di
viaggio e descrizioni di marinai) di persone che descrivevano le popolazioni con cui venivano a contatto.
Malinowski e altri studiosi degli anni ’ apportarono una trasformazione recandosi personalmente presso la società
che dovevano studiare, da ciò ne deriva l’osservazione partecipante. Negli Argonauti restituisce l’immagine delle
popolazioni Trobriand, delle loro pratiche sociali, della loro cultura, in maniera impersonale. Ma la pubblicazione
postuma dei suoi diari cambia lo scenario, in quanto rivela tutte le sue frustrazioni personali, sociali e la nostalgia
per l’Europa e Inghilterra e il disprezzo per le popolazioni trobriandesi. Non bisogna dimenticare la complessità
dei rapporti tra antropologo e i nativi, lo sforzo di rimanere invisibili, camaleonti sociali, rispetto al contesto che
viene studiato. L’antropologo deve avere il punto di vista del nativo.

L’etnografia della scuola: nel corso della seconda metà del Novecento l’antropologia entra nella scuola.
Riflettendo su di una ricerca compiuta nell’anno scolastico 2004/2005 da un gruppo di sei giovani ricercatrici
dell’Università di Roma “La Sapienza”, Fasulo nota la presenza di significativi scarti fra l’immagine che abbiamo
comunemente presente dell’insegnamento e della vita scolastica e le osservazioni emerse da questa etnografia.
Uno fra tutti che colpisce particolarmente è un paradossale rapporto tra oralità e scrittura, che vede la seconda in
posizione di netta subordinazione. A scuola si legge poco, e quel poco che si legge sono testi tendenzialmente
non originali. Dall’altra parte, l’uso dell’oralità rimane strettamente legato a forme e registri rigidi, ad una “lingua di
legno” vicina a quella burocratica, poco tollerante per l’errore e ancora meno per la contaminazione linguistica.
Fare antropologia nella scuola quindi può servire per notare tutte quelle dinamiche nascoste e sotterranee di cui
altrimenti non ci renderemmo conto.
Detto questo, fare etnologia nella scuola porta con sé determinate problematiche:
- presenza di altre figure professionali che potrebbero sentirsi giudicate dall’antropologo
- presenza di gatekeeper, che detengono l’autorità di garantire l’accesso alla struttura
- diffidenza da parte degli insegnanti, e messa in crisi dell’equilibrio della classe
- genitori preoccupati dell’uso dei materiali raccolti
Per fare etnografia nelle scuole, inoltre, non si dovrebbe rimanere solo a scuola, ma guardare ai rapporti della
scuola con gli altri contesti.
Sono stati attuati degli studi sulla scuola come strumento riproduzione della cultura dominante:
Henry: se la scuola è rappresentata come un luogo “neutro”, in cui imparare a pensare, a “ragionare con la
propria testa”, allora è evidente come essa possa diventare il luogo in cui con maggiore facilità si può intervenire
per plasmare gli strumenti interpretativi e le visioni del mondo tanto delle future classi dominanti quanto delle
future classi subalterne. La scuola è un’istituzione che plasma la soggettività degli alunni in qualcosa che può
controllare, li trasforma nei “perni di cui la cultura ha bisogno”; in una parola, li determina. E questo vale tanto per
il mondo sociale della scuola, quanto per quello esterno che la circonda. Nella prospettiva di Henry, la scuola non
fa che rafforzare le divisioni e le segmentazioni sociali, “insegnando” agli alunni delle diverse classi a “rimanere al
proprio posto”, a temperare le proprie aspirazioni, in particolare in fatto di mobilità sociale. Anche al di fuori degli
stretti contesti accademici, l’organizzazione sociale incoraggiata dalla scuola è inerentemente discriminante, che
riproduce quella stessa discriminazione classista presente a tutti gli altri livelli della società.
Barbagli e Dei: entrambi insegnanti di scuola media all’epoca della ricerca (1965-69), si interrogano sugli effetti
del processo di riforma della scuola iniziato nella prima metà degli anni Sessanta, con la riforma della scuola
media del 1962, una riforma che cerca di spingere il processo di formazione verso un incoraggiamento ed un
orientamento dello studente alla prosecuzione degli studi; e, in particolare, Barbagli e Dei indagano sulle reazioni
degli insegnanti ad un cambiamento strutturale così significativo, partendo da un’impressione di silenziosa
opposizione di molti agli obiettivi della riforma. La scuola appare nella sua veste più conservatrice, veste che
condivide con gli insegnanti che la abitano, che nello studio di Barbagli e Dei si rivelano come strenui oppositori
di ogni tipo di cambiamento, e sostenitori di una forte rigidità del processo pedagogico (gli insegnanti continuano
a mostrarsi discriminatori rispetto agli studenti delle classi inferiori, bocciandoli con più frequenza laddove
volessero continuare gli studi).

Si usa il termine riproduzione per indicare questa specifica funzione della scuola, il suo ruolo nel mantenimento
del consenso generale nei confronti dell’ordine sociale, politico ed economico.
Volendo approfondire questo concetto parliamo di:
Bourdieu: la scuola è il luogo in cui il dominio simbolico dello Stato, la sua azione di auto legittimazione
ideologica, si esercita con maggior forza ed efficacia. La scuola è il luogo per eccellenza della riproduzione
sociale, il luogo in cui la struttura (di classe) della società riceve la sua legittimazione, la sua “consacrazione”.
Il capitale culturale che la scuola vuole insegnare non è, per Bourdieu, un qualcosa di condiviso all’interno
dell’intera società; al contrario, è un insieme di contenuti arbitrariamente scelti per imporre dei significati, delle
narrazioni, delle classificazioni, come “legittimi”, e quindi non problematici.
In un’altra opera l’autore prende in considerazione le le scuole d’eccellenza presso le quali si formano i figli delle
classi dirigenti. In questo testo, Bourdieu prende in analisi la “consacrazione” di questa “nobiltà di stato” (come
recita il titolo) come i più “dotati”, e quindi i più “meritevoli”. In questi ritratti bourdieusiani, la scuola dunque
appare coerentemente come uno strumento di riproduzione delle disuguaglianze, della struttura di classe della
società. La scuola, nella prospettiva di Bourdieu, è lo spazio in cui più chiaramente si esercita la violenza
simbolica: il potere di imporre prospettive e significati dissimulando i rapporti di forza su cui si fonda tale
imposizione.
Willis: affronta il problema dell’orientamento degli studenti da parte del sistema scolastico. Willis ha seguito un
gruppo di dodici ragazzi al loro penultimo anno in una scuola “popolare” maschile per l’avviamento professionale
nelle Midlands britanniche. Questi studenti, tutti provenienti dalla working class, hanno tuttavia atteggiamenti
differenti nei confronti della scuola: una parte i “conformisti”, accettano le regole che l’istituzione e soprattutto gli
insegnanti impongono, e mostrano un certo investimento nella propria formazione scolastica; un’altra parte,
quella dei lads, i “non conformisti”, i ribelli, rigetta invece con forza l’autorità della scuola e dei docenti, e si pone
in netta opposizione nei confronti del primo gruppo, che ritiene inerte e al quale si considera superiore
socialmente. Willis concentra la sua attenzione sulla “cultura” dei lads, sulle loro modalità di socializzazione, di
costruzione di discorsi e pratiche che delegittimano la scuola ed i suoi insegnamenti, e alla quale oppongono la
cultura operaia dalla quale provengono, ed entro la quale scelgono di rimanere. I lads, sostiene Willis, sono infatti
portatori di una sorta di “controcultura” scolastica, nella perfetta consapevolezza di posizionarsi in questo modo
in contrasto con le autorità scolastiche e con quelle socio politiche più generali di cui esse sono un riflesso nello
spazio specifico della scuola. Dunque egli si concentra sulla cultura dei lads, sulle loro modalità di
socializzazione e la grande importanza che riversano sulla cultura operaia, nella quale vogliono rimanere,
rifiutando la scuola e la società capitalistica e borghese, in quanto considerano superiore il lavoro manuale.

Vite sotterranee e spazi d’autonomia:


Nell’ambiente scolastico le possibilità innovatrici del singolo non ci sono, ma la creatività dei soggetti riesce
spesso a sopravvivere. I bambino sono perfettamente consapevoli delle regole e ne comprendono le implicazioni
e conseguenze, ma soprattutto i limiti oltre ai quali i bambini possono intervenire con le loro tattiche e crearsi
spazi in cui fingere di rispettare le regole mentre in realtà le stanno sovvertendo, questo accade quando gli
insegnanti li lasciano incustoditi. La vita sotterranea è quella serie di micro interazioni e tattiche che i bambini
mettono in atto per sfuggire al controllo di chi detiene il potere, vite sotterranee volte all’individuazione di spazi di
autonomia.
Anche gli insegnanti hanno i propri codici di comportamento e le proprie tattiche che non sempre corrispondono
alle strategie istituzionali:
- Esempio di un insegnante che deve sostenere due corsi: uno in una classe ordinaria e uno in una di
recupero che deve sostenere un test. Nella prima utilizzerà un metodo child-centered (che le permette
di accantonare le stringenti necessità dei programmi scolastici e dei parametri di valutazione), nella
seconda test-centered (incentrata sull’obiettivo) classe in cui si riscontra però un atteggiamento di
passiva ricezione.
- Scuola media di Marshall dove vi è una forte multiculturalità: le modalità di insegnamento, per evitare
auto ghettizzazioni da parte degli studenti, prevedono molti lavori di gruppo (gruppi eterogenei)

Conclusioni: possibili intersezioni?


Le microetnografie della scuola ci possono dunque aiutare a vedere quella “fiammella di coscienza” degli studenti
(e degli insegnanti) di cui parla Simonicca, che invece gli studi di stampo marxista tendono a considerare
largamente inesistente. Per concludere, vorrei menzionare un approccio all’etnografia della scuola che in
maniera esplicita cerca di porsi l’obiettivo di coniugare le molteplici dimensioni che si intrecciano all’interno dei
percorsi di scolarizzazione e delle scuole come spazi sociali: il cosiddetto “approccio multilivello” teorizzato da
John Ogbu. Egli lamenta la perdita della dimensione strutturale nelle microetnografie della scuola, troppo
selettive, che studiano specifiche attività piuttosto che il contesto più ampio. Dall’altra parte, le “macroetnografie”
riescono ad inserire la scuola e il processo di scolarizzazione nel loro contesto più ampio, rilevano le
corrispondenze con l’ordine politico, economico e sociale, e in generale studiano le scuole come parte di una più
complessa rete di significati culturali; tuttavia, non sono in grado di mostrarci le pratiche quotidiane di
insegnamento e di apprendimento, perdono quella granularità della vita scolastica che le microetnografie
restituiscono con efficacia.
L’approccio che Ogbu suggerisce è un approccio che chiama culturale-ecologico, e in cui risulta importante non
studiare solo gli eventi legati alla scuola, ma anche le rilevanti forze storiche e sociali. In particolare, Ogbu mette
alla prova questa sua cornice teorica nello studio sull’insuccesso scolastico delle minoranze. Ogbu fa entrare
nella sua analisi una dimensione storica, e riesce a far emergere non soltanto le strategie e le tattiche
dell’istituzione scolastica, ma anche i diversi modelli attraverso i quali le varie minoranze interpretano e si
relazionano con la società (e la scuola) statunitense.
A questo è necessario aggiungere che le tesi di Ogbu mostrano significative debolezze, ossia il fatto di peccare
di determinismo, di considerare solo certi aspetti per considerare il successo e l’insuccesso scolastico di certi
elementi, di fossilizzare le varie minoranze all’interno di classificazioni dalle quali non hanno scampo. Detto
questo, l’intenzione di fondo, quella di prestare maggiore attenzione alla complessità del campo della scuola in
tutte le direzioni, rimane valida e utile. Egli infatti mette a fuoco la necessità di considerare il campo scolastico
nella sua intersezione di una pluralità di dinamiche e processi culturali, storici, sociali che vanno ben oltre i confini
spaziali e temporali della scuola stessa.

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