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di Dario Inglese
Marcel Appenzzell non è mai esistito, egli è il frutto della penna e dell’ingegno di Georges
Perec. Benché si tratti di finzione letteraria, però, la sua vicenda personale e scientifica
testimonia bene, con la forza che solo la grande letteratura può avere, il gravoso compito
toccato agli etnografi: produrre dati scientifici partendo da esperienze del tutto personali
(Geertz 1990: 17).
In secondo luogo, la triste storia di Appenzzell rivela che l’idea di «campo» come entità
naturale e circoscritta (che esiste indipendentemente dall’arrivo e dall’azione conoscitiva
dell’antropologo) è solo il frutto di certa immaginazione antropologica. Gli indigeni Kubu si
spostano incessantemente e non hanno un centro ma l’etnografo malinowskiano di Perec è
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Data la densità del volume e l’ampiezza delle tematiche affrontate, anziché seguire
linearmente lo sviluppo dei capitoli del libro, discuterò il filo rosso che percorre il
ragionamento di Matera, almeno per come l’ho inteso, circa l’attuale stato dell’arte e il
futuro dell’antropologia. In un mondo che non è mai stato così interconnesso, sostiene
l’autore, l’antropologia non può più permettersi un ripiegamento eccessivo nella dimensione
locale rinunciando ad applicare la sua finezza interpretativa all’analisi del cambiamento
culturale nell’intero sistema-mondo. L’ecumene odierna, infatti, col movimento incessante
che la contraddistingue, pone alla disciplina una grande sfida: affinare gli strumenti per
porre tutti gli esseri umani in una dimensione di contemporaneità. Rispetto ad altri saperi (o
al senso comune) che si rifugiano ancora in concetti vetusti e reificati (Tradizione,
Modernità, Sviluppo, Sottosviluppo, Cultura, Identità etc.), essa può, in virtù dell’elasticità
epistemologica che le è propria, far valere la sua storica frequentazione dell’alterità; a patto,
però, di ridiscutere seriamente alcuni dei suoi dogmi. Per una disciplina che è sempre stata
in crisi (in passato per la paura di perdere il proprio oggetto, il nativo, oggi per il timore di
perdere l’esclusiva del metodo etnografico), si tratta davvero di una prova decisiva che
mette in gioco responsabilità scientifiche, etiche e politiche che non si possono più ignorare.
Antropologia contemporanea non è un libro di storia della disciplina. Come scrive lo stesso
autore, è piuttosto una “ricognizione” dell’antropologia odierna alla ricerca dei pregi e dei
difetti che, da una parte, la rendono particolarmente adatta a leggere le dinamiche socio-
culturali odierne e, dall’altra, la spingono verso una dimensione eccessivamente micro che,
per troppo tempo (anche dopo che la disciplina è tornata a casa e ha cessato di essere solo
lo studio dei selvaggi), ha impedito a molti dei suoi cultori di confrontarsi con la dimensione
dei macro-scenari globali (Matera 2017: 12). Da questo punto di vista, l’etnografia (la
metodologia basata sulla ricerca di campo) è croce e delizia: ecco il filo rosso che attraversa
la riflessione di Matera. Con una posizione che sicuramente farà discutere, lo studioso
individua nell’eccessivo appiattimento sul «campo» lo scarso peso pubblico rivestito oggi
dall’antropologia:
«sono convinto che uno dei punti critici dell’antropologia contemporanea sia proprio dovuto a uno
sbilanciamento tutto a favore della prima dimensione, quella etnografica, che mal si adatta alle
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esigenze dettate dai cambiamenti di portata planetaria degli ultimi decenni, che richiederebbero
una forte capacità di teorizzare i processi culturali da cui deriverebbe, a mio parere, un altrettanto
forte capacità di incidere nella sfera pubblica e nell’ambito accademico» (Ivi: 14).
Matera, infatti, critica «il fanatismo etnografico imperante» e l’idea – avanzata con forza da
Clifford Geertz (1987) – che antropologia faccia rima con etnografia. Tale posizione,
acriticamente accettata sull’onda dell’entusiasmo per il manifesto geertziano (Matera 2017:
22), ha condannato l’antropologia a una «frammentazione estrema» e a un «eccesso di
specialismo». Ha spinto, cioè, i ricercatori a cercare minuzie negli angoli di mondo
perdendosi il quadro generale e lasciando principalmente ad altri (privi, molto spesso, di
conoscenze di prima mano) la riflessione sull’interconnessione delle società umane e, di
conseguenza, la responsabilità di parlare della (e alla) sfera globale (Matera 2017: 23-24).
Secondo Matera, porre tutti gli esseri umani in una dimensione di contemporaneità richiede
un diverso modo di guardare all’etnografia e all’immagine di cultura che intorno ad essa si è
formata. Seguendo i più recenti sviluppi della riflessione disciplinare, pertanto, «campo» e
«cultura» vanno assunti non come dati naturali che si offrono allo sguardo del ricercatore,
bensì come finzioni fabbricate in un periodo storico importante per il consolidamento
dell’antropologia scientifica che si non possono più applicare dogmaticamente (Matera 2017:
41). L’autore, quindi, ne ripercorre genesi e sviluppo per argomentare la sua tesi: oggi che
la «cultura» emerge come «trama complessa e costellata di intrecci tra tradizioni
subordinate e dominanti» (Ivi: 45) è più che mai necessario andare oltre il campo. Lo
esigono considerazioni epistemologiche: la straordinaria ricchezza interpretativa
dell’antropologia, infatti, col suo corollario di continue decostruzioni di oggetti, teorie e
categorie, resta inespressa se, una volta giunti sul terreno, i ricercatori ne restituiscono
un’immagine anacronisticamente guidata dall’interesse professionale per l’autentico [1] (Ivi:
45-46). Lo reclamano motivazioni politiche: il paradigma della contemporaneità mette in
primo piano la responsabilità verso l’altro e l’etica della ricerca (Ivi: 51-52).
È noto come l’accesso diretto al campo abbia rappresentato uno spartiacque nell’evoluzione
del pensiero antropologico. Malinowski in Gran Bretagna e Boas negli Stati Uniti superarono
la divisione tra etnografi (raccoglitori) e antropologi (teorici) tipica dell’antropologia
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«Oggi che molto pensiero antropologico sulla cultura è rimasto radicato nei «siti di campo», gli
antropologi sanno molto sulle culture locali […] ma non sanno granché più, rispetto a trent’anni fa,
sulla Cultura, su come funzioni, e su come si trasformi nel mondo più esteso oltre il locale» (Ivi:
75).
Inoltre, per aver indugiato troppo sull’organicità delle culture (fino a trasformarle in isole
chiuse sorde alle reti d’interazioni tra le società e alla fluidità dei confini), i ricercatori hanno
forgiato una nozione rigidamente relativista che, nonostante le critiche cui è stata sottoposta
negli ultimi anni, è sfuggita al loro controllo (Ivi: 76). Oggi, in effetti, sembra che nessuno
possa fare a meno della «cultura» e, come ha spiegato Ugo Fabietti (2008), essa è diventata
un «concetto spiega-tutto» usato per innalzare muri e chiudersi nella propria visione del
mondo più che per produrre effettiva conoscenza. Una moneta di scambio, legittimata dal
discorso politico e mediatico, da utilizzare per avanzare richieste di riconoscimento nello
scacchiere globale [2].
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proviene dal «campo» [3 ]: decostruzione non vuol dire distruzione. Però non vi si deve
arenare, a maggior ragione dopo averne rivelato il carattere costruito e finto: «il mondo è
molto più ampio del campo» (Ivi: 56-57). Così, in un periodo in cui altre discipline
(sociologia, psicologia sociale, storia, economia) scoprono il terreno, l’antropologia non può
più legittimare se stessa solo attraverso l’etnografia; magari irrigidendosi nello stabilire
parametri in grado di distinguere una vera esperienza etnografica da una fasulla. Essa, al
contrario, dovrebbe distinguersi,più che per la metodologia (che può prevedere anche
l’etnografia vis à vis), per «il modo di delineare i problemi di ricerca e di definire dal punto di
vista concettuale i propri oggetti» (Ibidem).
Ci sono segnali che, purtroppo, non spingono in questa direzione e il monito di Matera coglie
nel segno quando l’etnografia si fa megafono di ambigue visioni antropologiche. Penso, ad
esempio, alle contemporanee declinazioni militari dell’expertise etnografica che ho già
trattato in questa sede (Inglese 2016) e all’idea che l’antropologia possa essere scienza al
servizio dellestrategie belliche. In questi casi, per riprendere le parole di Matera (2017: 28),
l’etnografia funge da metodologia pacchetto applicabile acriticamente ma ciò che manca è
una seria riflessione sull’epistemologia che la nutre; in particolare, sul concetto di cultura e
su quanto sia difficile (se non impossibile) parlare di autenticità, purezze ed essenze
culturali. Quando gli antropologi al seguito delle truppe affermano di voler «conoscere la
cultura del nemico», infatti,dimenticano che il terrorismo è un fenomeno transnazionale la
cui anima non si può certo scovare in una porzione di territorio. Ignorano, cioè, che esso
non è il prodotto atavico e primordiale di una supposta cultura o mentalità islamica avulsa
dal globale ma l’esito di complesse dinamiche scalari (Appadurai 2005; Asad 2009).
D’altra parte, a mio avviso, la frequentazione dell’alterità da parte degli antropologi resta
ancora una carta decisiva per comprendere meglio di altri un’ecumene mondiale in cui, a
dispetto delle paure di mcdonaldizzazione, la globalizzazione produce e riproduce nuovi
ordini di differenza [4]: i più recenti studi etnografici sulle migrazioni, sulle retoriche e le
pratiche d’accoglienza, sui movimenti sociali e le politiche identitarie, sui nuovi media o
sull’evoluzione del lavoro nel sistema neoliberista lo dimostrano. Di sguardo dal basso (Fava
2010), insomma di etnografia, continua a esserci un gran bisogno. Ovviamente di etnografia
che, come suggerisce saggiamente Matera, assuma pienamente le conseguenze della
continua opera di ripensamento e decostruzione delle categorie antropologiche.
Si tratta di una strada non semplice ma l’antropologo che vorrà percorrerla, ancorché
spaesato, non si troverà del tutto privo di appigli: al contrario, come scrive Matera, avrà a
disposizione tanta riflessione disciplinare cui richiamarsi. Pur con i loro limiti, ad esempio,
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certe intuizioni della scuola diffusionista (ovviamente depurate dall’arbitrario quadro teorico
generale) e, soprattutto, le etnografie micro-macro della scuola di Manchester (che
trascendevano l’idea di luogo) possono far parte di quello che Hannerz (2012) ha definito «il
passato che si può usare» (Matera 2017: 85-90). Inoltre, la maturità che la disciplina ha
mostrato nel rilevare il coinvolgimento ermeneutico tra soggetto conoscente e oggetto
conosciuto, la ridiscussione costante dei propri tropi e l’interesse per la restituzione testuale
delle esperienze sono altri aspetti da utilizzare nell’analisi dei panorami e dei flussi globali
attuali. Studiosi come Arjun Appadurai e Ulf Hannerz (o, aggiungo io, David Graeber), da
questo punto di vista, hanno mostrato le potenzialità dell’antropologia nell’affrontare la
polverizzazione della modernità e l’incessante movimento prodotto dalla globalizzazione
economica, politica e culturale. Sì, un tal modo di lavorare, rischia di dilatare
esponenzialmente il campo di osservazione portando l’etnografo fuori dal terreno
classicamente inteso. Tuttavia, ciò «non comporta la fine dell’osservazione della quotidianità
delle persone, dell’analisi delle microinterazioni, ma porta a considerare quei dettagli, quelle
microinterazioni come parte dei molteplici mondi che li attraversano, li oltrepassano e li
ricostituiscono continuamente» (Ivi: 93).
Note
[1] E poi, si chiede Matera riprendendo le amare considerazioni di Lévi-Strauss in Tristi tropici, qual
è il grado di autenticità da ricercare (Matera 2017: 20)? Quanto indietro bisogna andare per trovare
la «vera Lahore»? (Lévi-Strauss (1960: 40-41)
[2] Ciò, per l’appunto, è il risultato del progressivo scivolamento dell’antropologia verso il
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particolarismo etnografico e la conseguente attenzione rivolta alle culture rispetto alla Cultura.
Tuttavia, pur recando con sé una buona dose di ambiguità, secondo Matera il concetto di «cultura»
non va liquidato (come molti propongono) semmai puntellato. «Abbiamo molte ottime ragioni» –
scrive l’autore – «per accettare che a) una tale «cosa» che chiamiamo «Cultura» è socialmente
acquisita e organizzata […]. Possiamo anche accettare che b) è in una qualche maniera integrata,
anche se il passaggio della Cultura verso l’integrità (o integrazione, in senso sistemico) è un
passaggio «morbido». […] Tuttavia, non siamo (non più) tenuti ad accettare l’assunzione che è
uniformemente distribuita entro le comunità, che è qualcosa di impacchettato, strettamente legato
ai differenti gruppi umani, e che questi sono, normalmente, localizzati entro territori delimitati»
(Matera 2017: 77). Così, «per reinserire la cultura nella teoria antropologica» (Ivi: 80), Matera si
serve del concetto di creolizzazione elaborato in linguistica: «la dimensione culturale globale è […]
un continuum creolo, fatto di flussi di significati culturali che sono disposti in modo molto complessi
da attori molto diversi lungo scale molto variabili e gradi variabili di reificazione e di fluidità» (Ivi:
82).
[3] Per l’antropologia, scrive Matera, si pone sempre il problema della referenza. Rispetto al
discorso filosofico, ad esempio, il patto con il lettore sottoscritto da ogni antropologo si basa
necessariamente su una «conoscenza empirica che trae dall’esperienza (sociale) il suo
fondamento» (Matera 2017: 50-51).
[4] Come sostenuto da Appadurai in un incontro tenuto a Milano lo scorso 27 Luglio, con la
modernità anche l’identità si è polverizzata e siamo passati «dal concetto di individuale a quello di
dividuale». Ciò può portare a disorientamento e nostalgia per tempi in cui i confini culturali
apparivano più definiti: fenomeni che alimentano rivendicazioni identitarie e rigurgiti xenofobi e
populisti cui l’antropologia deve prestare attenzione. Per guardare l’intervento completo
dell’antropologo indiano si veda il sito: http://www.meetthemediaguru.org/lecture/lecture-arjun-
appadurai/
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