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La Guerra Fredda economica prossima

ventura
di Alberto Forchielli e Fabio Scacciavillani
15 aprile 2021

Per comprendere il nuovo assetto economico globale bisogna districarsi in quel coacervo di
paradossi che è la storia della Cina a partire dagli anni 30.

A cominciare dalla Grande Marcia – tra il 16 ottobre del 1934 e il 22 ottobre 1935, una fuga
disperata delle milizie comuniste per sfuggire alle armate di Chiang Kai-shek, iniziata con
130mila uomini (e le loro famiglie) e conclusasi dopo 12mila chilometri e 90mila morti. Ma che
in pochi anni si trasformò in una duplice vittoria sotto la guida di Mao. Prima sui giapponesi
(che avevano invaso la Cina a partire dalla Manciuria nel 1931) e poi nella guerra civile contro i
nazionalisti del Kuomintang costretti a rifugiarsi a Taiwan nel luglio del 1949. Una vittoria
talmente strabiliante che a Yalta non la si era nemmeno ipotizzata. In quegli anni i paradossi
abbondarono.

Stalin, al termine della Seconda Guerra Mondiale, era più incline ad appoggiare i nazionalisti,
perché non era entusiasta che emergesse un poderoso rivale nel mondo comunista. Gli Stati
Uniti non erano visceralmente ostili ai maoisti, di cui si erano serviti contro il Giappone, tanto
che nel novembre 1945 il generale Marshall fu inviato a Nanchino per instaurare un negoziato
tra nazionalisti e comunisti.

Tuttavia, fallita la pacificazione, a fine 1946 gli Stati Uniti presero a sostenere strenuamente il
Kuomintang nella guerra civile, ma senza riuscire ad impedirne la disfatta. Ciononostante
(altro paradosso) tra la primavera e l’estate del 1949 la leadership maoista offrì a Washington
di instaurare relazioni diplomatiche, economiche e commerciali.

Tale realismo (l’indifferenza al colore del gatto abile ad acchiappare i topi), se assecondato con
la concessione di crediti e assistenza tecnica avrebbe potuto portare la Cina fuori dall’orbita
sovietica.

Ma in America, dove Truman era quotidianamente vilipeso per la sua ignavia verso l’Urss,
montava l’ossessione per il comunismo. La pietra angolare della politica estera dal 1946 al
1950 divenne il containment. Quando Mao, il 1° ottobre del 1949, proclamò la Repubblica
Popolare i Qanon dell’epoca diffusero la calunnia che nell’amministrazione Truman si
cospirasse in appoggio ai comunisti cinesi.

Insomma le atmosfere tossiche sulle rive del Potomac obliterarono l’opportunità di compiere
quell’audace mossa del cavallo che il pragmatismo cinese avrebbe propiziato. La firma del
trattato di amicizia,
alleanza e assistenza reciproca con l’Urss il 14 febbraio 1950 e poi lo scoppio della Guerra di
Corea nel giugno del 1950 portarono la Cina in rotta di collisione con gli Usa. Prima che
Washington riaprisse un canale con Pechino dovettero passare oltre due decenni di disastri
epocali: il genocidio dei proprietari terrieri, il Grande Balzo in Avanti, la Rivoluzione Culturale,
il Vietnam.
Nel frattempo emerse un altro paradosso. Tra le due potenze atomiche comuniste
divamparono furibonde divergenze ideologico-politiche in seguito alla destalinizzazione (che
Mao riteneva un errore) e culminarono nel 1969 in una guerra per le dispute sul confine
dell’Ussuri. Nel 1971, solo un falco anticomunista come Nixon, poteva sfruttare la situazione
senza essere accusato di appeasement verso la Cina. Mao aveva scatenato le Guardie Rosse
contro i nemici interni nel Partito Comunista, in primis Deng Xiaoping e il Presidente della
Repubblica, Liu Shaoqi, decisi a defenestrarlo. Ma le faide interne non si erano placate e
l’economia era allo stremo. Il 13 settembre 1971 moriva in un incidente aereo, tuttora avvolto
nel mistero, Lin Piao, che la Costituzione designava come erede del
Grande Timoniere. Al vertice consolidò il potere la Banda dei Quattro, capeggiata da Jiang
Qing, terza moglie di Mao.

La “diplomazia del ping pong” e l’incontro tra Nixon e Mao il 21 febbraio 1972, scaturì da due
debolezze. Nel cimitero economico regredito al baratto, il potere ed il prestigio di Mao
traballavano. Nixon stava perdendo il Vietnam, l’America Latina era un calderone di guerriglie
anti-yankee, il crollo del sistema di Bretton Woods aveva inferto una clamorosa batosta
all’economia e al prestigio internazionale, degli Usa. Al fine di bloccare la spirale inflazionistica
Nixon impose il blocco dei prezzi e dei salari, una misura da tempo di guerra o da economia
pianificata.

Quella normalizzazione forse determinò un ulteriore paradosso: Mao nel 1975 buttò alle
ortiche la cricca di sua moglie e appoggiò la restaurazione moderata guidata da Zhou Enlai
(prossimo alla morte) e del politicamente redivivo Deng Xiaoping. Nel 1976, appena
imbalsamato Mao, i membri della Banda dei Quattro furono arrestati e processati.

Per alleviare gli stenti di un miliardo di esseri umani che si dibattevano nell’angoscia per
procurarsi il cibo quotidiano, Deng non aveva altra strada che introdurre incentivi di mercato
nell’agricoltura e poi nel resto del sistema economico.

Fu così che iniziò quasi in sordina la Seconda Rivoluzione Cinese le cui conseguenze hanno
travolto il mondo, come vedremo nel prosieguo.

La rentrée di Deng Xiaoping al vertice del Partito comunista cinese alla fine degli anni 70 fu
accolta in Occidente come una bizzarria dei corsi e ricorsi politici del Paese, ma pochi
intravidero lo smottamento tettonico che presagiva. Infatti, Deng, nonostante l’aura di
riformatore, era e rimase sempre un fervente leninista convinto che il vertice del Partito
dovesse imporre la sua autorità su ogni aspetto della vita civile ed economica. E questa
convinzione ha pervaso, con varia intensità, le alte sfere del potere cinese fino ai giorni nostri.

Le riforme fondamentali ispirate da Deng a partire 1978 non plasmarono solo le scelte
economiche, ma anche la politica estera fondendole in un’unica visione callidamente
propagandata nel mondo. Per ristabilire le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti (1°
gennaio 1979), Deng si premurò di esibire una Cina pacifica, unicamente tesa a raggiungere i
suoi obiettivi di sviluppo in piena armonia con il resto del pianeta. Le quattro modernizzazioni
(agricoltura, industria, difesa, scienza e tecnologia), l’accettazione della proprietà privata con il
depotenziamento delle comuni maoiste e la creazione di imprese private servivano a puntellare
e perpetrare il potere del Partito. Era una concessione agli esecrati precetti capitalisti, che
Deng riteneva ideologicamente dolorosa, ma pragmaticamente inevitabile. Insomma come
Mao immediatamente dopo la vittoria sul Kuomintang anche Deng era disposto a trovare
un modus vivendi con l’Occidente in cambio di tecnologia e capitali stranieri.
Non comprendere che i mandarini rossi non intendevano affatto abiurare l’ideologia e
allentare le maglie della dittatura, ma solo dissimularla per attirare investimenti e know-how,
fu l’errore esiziale in cui rimasero intrappolati l’America e i suoi alleati per 30 anni. In realtà il
miglioramento delle condizioni di vita era considerato dalla nomenklatura il modo migliore
per sedare e respingere le aspirazioni alle riforme politiche. Il Partito comunista cinese era
disposto ad allentare la morsa sull’economia pur di mantenerla in tutti gli altri ambiti.

Deng raramente formulò in pubblico una coerente dottrina riformatrice. Volendo traslare lo
slogan di Marshall McLuhan «il mezzo è il messaggio» nella politica cinese potremmo dire che
«Deng era le riforme»: la personalità di Deng e la sua autorità in seno al Partito costituivano
l’essenza della condotta politica, adattabile alle circostanze, e delle aperture al mercato
modulabili secondo le convenienze.
Gli anni dell’apertura economica furono una manna per aziende occidentali che
delocalizzarono o si insediarono in Cina. La combinazione di basso costo del lavoro e di un
mercato vergine con decine di milioni di consumatori con redditi crescenti gonfiò i profitti
delle corporation. Molte di queste si installarono nelle Zone economiche speciali nel
Guandong dove non vigeva un regime molto più favorevole per le imprese private.

Lo schianto dell’Urss corroborò l’aspettativa che anche la Cina, potesse affrancarsi dal regime
comunista sotto l’egida di un Gorbaciov orientale. A nulla valse la rivolta di Tiananmen e
l’orrendo massacro che ne seguì. Dopo la scomparsa di Deng nel 1997 i successori, avevano
impresso alla politica economica una spinta riformatrice da cui scaturì un impulso
straordinario alla crescita. Nonostante la nomenklatura del Pcc non rinnegasse il dogma del
partito unico la gran parte dei conglomerati statali venne privatizzata e le loro maestranze
vennero decimate. Tra il 2001 e il 2004, il numero di imprese statali si dimezzò, il settore
bancario (rimasto pubblico) fu riconfigurato, i dazi e le barriere commerciali caddero e il
sistema di protezione sociale subì un ridimensionamento. L’economia privata superò per la
prima volta il 50% del Pil una percentuale non dissimile da quella di molti Paesi europei
avanzati.
L’ascesa economica della Cina che procedeva a tassi di crescita medi annui del 10% veniva
esaltata come un potente motore che trainava il Pil globale. L’ingresso nel Wto venne salutato
come il sigillo di una globalizzazione inarrestabile, di fronte alla quale qualche migliaio di
studenti rieducati dai carri armati costituivano solo un prurito della coscienza. Ma ormai era
l’11 dicembre del 2001, tre mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle. La Fine della Storia
preconizzata da Francis Fukuyama era durata una manciata di anni. All’inizio del secolo le
dimensioni dell’economia cinese e la sua influenza iniziarono ad apparire sul radar della
politica in Europa e in Usa. Ci si accorse che la globalizzazione, presentata come la marcia
trionfale del capitalismo anglosassone, aveva beneficiato soprattutto i Paesi emergenti. Le
comparse erano assurte al ruolo di protagonisti. I castelli di sabbia degli abbagli iniziarono a
essere lambiti da ondate di dubbi.

Un’America tronfia del ruolo di unica superpotenza poteva permettersi di chiudere gli occhi di
fronte ai metodi adottati dai cinesi per dare impulso alla loro economia: pratiche commerciali
discriminatorie verso gli stranieri; mancanza di reciprocità nell’accesso ai mercati; disprezzo
per la tutela della proprietà intellettuale; manipolazione del cambio; furti di know-how e
tecnologia. Si fantasticava che effimere concessioni sarebbero state ripagate da enormi benefici
ottenuti dalle corporation Usain un mercato di oltre un miliardo di consumatori. A
Washington erano persuasi che lo sviluppo economico di una nazione procedesse in simbiosi
con il processo di occidentalizzazione, come era avvenuto in Giappone. E pertanto l’America
avrebbe esercitato una primazia economica, finanziaria, militare e culturale nel mondo
globalizzato.
Invece gli anni passavano e l’atteggiamento cinese diventava sempre meno remissivo, man
mano che il Pil cresceva.

Il colpo di maglio alla convinzione della supremazia americana lo inferse la Grande recessione
del 2008-09. La Cina si dimostrò più resiliente dei Paesi occidentali e il suo Pil, calcolato a
parità di potere d’acquisto, si avviò a superare quello degli Stati Uniti (come avvenuto nel
2014).

Nella Washington bipartisan che conta, il dubbio che sulla Cina fosse stata presa una svista
madornale si fece certezza dopo l’avvento al potere di Xi Jinping nel 2012. Ma nonostante la
consapevolezza che la Cina era diventata un concorrente, una reazione efficace, o almeno una
strategia di contenimento, stentava a profilarsi. La rituale minaccia del Tesoro americano di
includere la Cina nella lista dei “manipolatori” del cambio aveva assunto il carattere di una
pantomima. Il Trans-Pacific Partnership (Tpp), approntato per riattrarre nell’orbita economica
Usa i Paesi del Pacifico, non vide mai la luce.

Mentre Xi, sin dal Congresso di investitura, aveva riportato in auge parole d’ordine che
evocavano nemmeno troppo velatamente il maoismo; dal primato del partito nell’economia e
nella società; al disdegno per i diritti umani e il dissenso. Addirittura i valori che identificano
l’Occidente – pluralismo politico, democrazia costituzionale, tripartizione dei poteri, tutela
delle minoranze – venivano dichiarati estranei alla “millenaria cultura cinese”. Il tutto condito
da una crescente aspirazione all’influenza nel mondo, prima con la Belt and Road Initiative e
poi nel 2015 col piano Made in China 2025 che esplicitava l’ambizione di assurgere, entro il
2049, a prima potenza mondiale, eclissando 500 anni di predominio occidentale. Oggi la Cina
intende primeggiare nelle principali tecnologie: intelligenza artificiale, veicoli elettrici a guida
autonoma, energie rinnovabili, robotica, biomedicina e, con il piano China Standards 2035,
punta a stabilire gli standard globali nei settori dell’industria e dei servizi hi-tech.

In Occidente la reazione inconscia a questa sfida si produsse dal basso con l’irruzione nel
dibattito politico dei temi no-global dimenticati dai tempi degli scontri di Seattle nel 1999. Il
protezionismo venne alimentato dalle frustrazioni di chi si sentiva vittima dello spostamento
del baricentro economico verso Est e dall’ostilità verso la finanza in stile Occupy Wall Street.
L’aggiunta dell’astio verso gli immigrati produsse prima la Brexit e poi l’elezione di Donald
Trump. L’indulgenza della classe politica Usa verso la Cina evaporò all’istante. Per quanto la
rotta di collisione con Pechino fosse segnata e sarebbe stata imboccata anche senza The
Donald, la sua elezione, sulla scia di un messaggio grondante populismo e nazionalismo
anticinese, cambiò le regole del gioco.

Fin dal secondo dopoguerra le relazioni diplomatiche e la politica di difesa erano state tenute
separate dalla politica commerciale. I due piani raramente si intersecavano (in occasione di
sanzioni a Stati canaglia) in quanto il libero scambio era considerato un valore superiore
incontaminato dalle diatribe geopolitiche.

Al contrario Trump nelle relazioni internazionali prese a usare i dazi come una clava. Ma
l’escalation non si limitò alle importazioni. S’iniziò a mettere in agenda l’inversione della
globalizzazione (con il decoupling delle catene del valore) e l’isolamento della Cina in
un’angusta, quasi autarchica, sfera economica. Alle aziende occidentali veniva intimato di
rimpatriare le fabbriche o trovarsi nuovi fornitori lontano da Pechino.
L’attacco contro le reti 5G di Huawei esteso ai Paesi alleati, ha sublimato la percezione della
Cina come nemico e minaccia esistenziale per gli Stati Uniti ed è ormai sfociato in una seconda
Guerra fredda che, al contrario della prima, abbraccia commercio ed economia oltre alla sfera
militare. Ora tocca a Joe Biden raccogliere il guanto della sfida. Al momento la linea di
continuità con il predecessore non sembra in dubbio. Ma il duello è appena agli inizi. Senza
padrini o arbitri.

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