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Marie-Claire Bergére
La vittoria dei comunisti cinesi comporta un'integrazione rapida della nuova Cina nell'orbita sovietica.
Il movimento comunista nazionale si è sviluppato in modo quasi autonomo nel corso dei parecchi decenni e ha trionfato senza l'aiuto
del grande fratello sovietico.
La caduta dell’impero, il periodo dei signori della guerra, l’avvento della repubbica, la guerra civile e l’invasione giapponese, avevano
dato la possibilità alle periferie della Cina, abitate da minoranze etniche e linguistiche, di emanciparsi e trovare un’indipendenza de
facto dal governo centrale. Dunque, una delle prime preoccupazioni della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 era proprio quella di
riaffermare la sua autorità nelle periferie. Pechino, ricorrendo anche alla forza militare, ma favorevole della non opposizione
dell’URSS, riesce a:
. riconquista Canton e l’isola Hainan
. ottiene il Tibet dall’India a patto di riconoscerne l’autonomia regionale
. si impone nello Xinjiang (non riuscendo però ad eliminare del tutto l’influenza sovietica)
. recupera gran parte dei diritti in Manciuria
Al contrario, la Cina è costretta a riconoscere l’indipendenza della Repubblica popolare di Mongolia.
La Repubblica Popolare Cinese adotta fin dalla sua nascita il modello sovietico di organizzazione e sviluppo della società (pianificazione
centralizzata), in quanto vede l’URSS come stato modello che è riuscito a conciliare modernizzazione e rivoluzione. Mao afferma la
propria fede nel pensiero di Marx secondo cui “lo stato crollerà e il comunistmo si realizzerà”, anche se riconosce che ci vorrà tempo,
in quanto il socialismo non può essere costruito su un’economia antiquata e senza una base minima di industrializzazione; è necessaria
prima una ricostruzione nazionale che renda la Cina ricca e forte, al livello delle altre potenze internazionali.
Mentre la maggior parte delle vittorie rivoluzionarie danno luogo a un lungo periodo di instabilità politica e di guerre civili, la
rivoluzione cinese mette invece fine alle violenze e al caos persistenti; il PCC si impone e domina le scelte di governo.
5. L’Apparato di Stato
6. Professionalizzazione dell’esercito
L’esercito della neo-Repubblica Popolare Cinese, l’APL (esercito popolare di liberazione) è un esercito di guerriglia e di guerra civile:
molto mobile, flessibile e compatto. Esso recluta su base volontaria e, accanto a compiti militari, svolge di mobilitazione, di
propaganda e anche attività economiche.
Durante la Guerra di Corea la Cina si confronta con gli eserciti moderni e si rende conto che è necessaria una modernizzazione
dell’APL, dotarla di artiglieria e aviazione, unificare e centralizzare il suo comando. Tale trasformazione viene attuata grazie all’aiuto
dell’URSS che offre alla Cina un modello di esercito professionale, tecnino e gerarchizzato; l’esercito si fa moderno e potente.
L’APL riesce a rendersi indipendente dai controlli politici, anche se certamente Mao detiene il comando supremo delle forze armate.
La politica applicata al nuovo regime definisce uno Stato nazionalista, autoritario e insieme fautore della modernizzazione.
Il monopolio che il PCC mantiene nel campo dell’ideologia gli permette di mantenere vivo nella società l’ideale di una società
egualitaria. I movimenti di massa svolgono un ruolo essenziale nella vita politica cinese fin dal 1949, a differenza degli altri paesi con a
capo un partito comunista dove non viene dato spazio all’intervento diretto delle masse.
Questo pone la domanda se il socialismo cinese possa essere considerato democratico o per lo meno populista (atteggiamento
culturale e politico che esalta il popolo) e se questa società resa rivoluzionaria dall’alto possa essere considerata una società
rivoluzionaria.
Le istituzioni di mobilitazione di massa permanenti (Yundong) come i sindacati operai, le associazioni di donne, la lega della gioventù,
determinano un inquadramento stretto della popolazione. Essi si basano sul principio della “linea di massa” formulato
da Mao, il quale consiste nel dirigere il movimento delle masse popolari sviluppando le loro iniziative dall’interno.
Tali movimenti, pur seguendo gli stessi meccanismi, hanno diversi obbiettivi: educazione del popolo, mobilitazione per la ricostruzione
economica, controllo delle classi sociali pericolose per il regime.
2. Riforma agraria del 1950 e distruzione della classe dei proprietari terrieri
Mao, circa il rapporto tra lavoratore e la terra che sfrutta, distingue in quattro classi: proprietari terrieri (assenteisti, vivono di rendita),
contadini ricchi (sfruttano parte della loro proprietà e affittano il resto), contadini “medi” (hanno sufficiente terra per soddisfare le loro
necessità), contadini poveri (costretti a vendere la loro forza lavoro per sopravvivere).
La riforma agraria del 1950 prevede provvedimenti abbastanza moderati: le terre e i materiali di lavoro che appartengono ai
proprietari terrieri vengono confiscati dal governo e ridistribuite ai contadini (in URSS invece furono i contadini che se ne
appropriarono direttamente). Tale riforma, oltre che obbiettivi economici, attua anche gli obbiettivi politici e sociali di eliminare la
classe dei proprietari terrieri (contro cui i contadini sfogano il loro odio represso) – attuata anche con la forza/uccisione - e stipulare
un’alleanza fra i contadini e il nuovo regime rivoluzionario.
La Guerra di Corea provoca un brutale irrigidimento nella campagna di riforma agraria; gli espropri si allargano ai contadini ricci e
medi.
Nel 1950 venne emanata una legge sul matrimonio, la quale ruppe le tradizioni antiche, derivanti per lo più dal pensiero confuciano.
Fino ad allora la famiglia cinese si fondava su gerarchie e diritti ineguali; la terra veniva ereditata dai figli maschi, la sposa non sceglieva
il marito ed era ad esso sottomesso, le bambine delle famiglie povere spesso venivano uccise sperando nell’arrivo di un maschio o
rischiavano di essere vendute come schiave. La nuova legge emancipa il ruolo della donna: vieta l'unione tra bambini, fissa il
matrimonio a 20 anni per gli uomini e 18 anni per le donne, condanna il concubinato e l'infanticidio, stabilisce il divorzio per semplice
reciproco consenso e privilegia gli interessi della donna in caso di separazione.
Tuttavia la legge non stabilisce l’uguaglianza dei sessi.
4. I movimenti dei «Tre e Cinque Contro» e l'assoggettamento della borghesia degli affari
Nel 1949 nelle grandi città costiere si concentrarono molti capitalisti (borghesi di affari), i quali, decidendo di non rifugiarsi ad Hong
Kong e Taiwan come fecero molti altri spaventati dall’avvento del comunismo, aderirono al nuovo regime. I comunisti ancora non si
sentivano si prendere in mano la direzioni di imprese e si affidarono dunque alle competenze di questi imprenditori.
Mao distingue due categorie di capitalisti: capitalisti patriottici e capitalisti corrotti, legati al Guomindang (Taiwan) e al Giappone.
Solo i primi dunque vengono trattati bene e incoraggiati nelle loro imprese. La fine della guerra civile fa tornare in patria altri
imprenditori scappati all’estero; questo provoca una crescita del settore privato e una stabilità economica sociale.
Con il tempo il governo estendo il suo controllo sulle imprese capitalistiche (prelievo fiscale, assegnazione di materie prime)
provocando malcontenti fra gli imprenditori che oppongono resistenza tramite frode fiscale e corruzione.
In reazione il governo attuò una forte repressione dei quadri corrotti (molti scelsero il suicidio); nel 1955 si procede alla
nazionalizzazione delle imprese industriali commerciali tramite le campagne “Tre contro” e “Cinque Contro”, non incontrando alcuna
seria resistenza, e dunque all’eliminazione della borghesia d’affari cinese.
Nel 1951 Mao attua una campagna di riforma di pensiero per costringere tutti gli intellettuali a una stretta ortodossia al regime e
indirizzare la loro attività all’attuazione dei suoi obbiettivi. Alcuni intellettuali però vogliono resistere all’influenza del PCC; si assiste
dunque all’esodo di molti giornalisti, scienziati, economisti e tecnici.
Il governo, avendo bisogno di loro per la ricostruzione nazionale, ricorre ora alla seduzione, ora all'intimidazione. Ma alla fine gli
intellettuali si devono piegare alla campagna di riforma del pensiero, denunciata successivamente come imperialismo culturale e
termnata nel 1952 con il PCC che controllava tutti i messi di espressione dell'opinione pubblica (stampa) e le attività letterarie e
artistiche.
Il modello culturale che viene imposto, si ispira al modello sovietico e pone l'accento sulla formazione scientifica e tecnica degli
studiosi; occorre produrre tanti diplomati necessari per l'economia nazionale.
Il numero degli studenti delle superiori si quadruplica.
→ In pochi anni la classe dei proprietari terrieri e dei borghesi urbani sono state eliminate, la famiglia patriarcale tradizionale è stata
superata, gli intellettuali sono stati rieducati. Ma sulla rovina dell'antica società non è stata edificata una nuova società: si tratta di un
potere nuovo al quale la linea di massa conferisce un carattere apparentemente meno brutale ma in realtà più vincolante di quello
dell’autoritarismo. Questo potere tuttavia non è soltanto imposto: è stato accettato più o meno volentieri, nella speranza che si
realizzasse finalmente una modernizzazione economica la cui urgenza è evidente a tutti.
Dopo un periodo di ricostruzione dal 1949 al 1952, la Cina è pronta a impegnarsi sulla via dello sviluppo, sull'esenmpio e con l’aiuto
sovietico. Il primo piano quinquennale (1953-1957) rappresenta il punto di partenza di una costruzione socialista che implica non
soltanto la trasformazione della Cina in una grande potenza industrializzata, ma anche il cambiamento radicale delle strutture di
produzione.
Il ritorno alla pace permette al nuovo regime di apprivigionare le città, riassettare la produzione nelle campagne, ripristinare i trasporti,
far riprendere l’economia. Pechino prende come modello la pianificazione sovietica per rispondere alla duplice esigenza:
modernizzazione e rivoluzione. Punto di partenza si ha con il Piano Quinquennale del 1953, di cui contenuto si sa poco, il quale si
scontrò subito con degli ostacoli:
. incertezza esito Guerra di Corea
. l’industrializzazine necessita di imprese gigantesche e costose
L’aiuto prestato dai sovietici intermini di trasferimenti tecnologici e scientifici rappresenta un grande contributo; l’attuazione del piano
esige tuttavia una complicata gestione economica. A tal fine imposta un’organizzazione verticale per cui ogni settore viene affidato ad
un ministero appositamente creato.
La collettivizzazione agraria
Nel 1953 si procede alla collettivizzazione agraria per rispondere alla difficoltà di sfruttamento delle terre, ormai troppo spezzettate in
diverse proprietà e per eliminare l’autoconsumazione che si era sviluppata.
Essa inizialmente fa leva sulla creazione di squadre di aiuto reciprico, che si riunivano stagionalmente, formato da contadini poveri e
medi, nel quale essi mettevano insieme i propri utensili. Successivamente si creano delle cooperative di tipo superiore, o socialiste,
dove l'attrezzatura, il bestiame le terre diventano beni collettivi.
Per finanziare il piano di industrializzazione, i contadini sono costretti a vendere l’eccedenza di grano allo Stato a prezzi fissi; per
placare le proteste il governo lo presenta come sistema di maggior sicurezza per cui in caso di cattivi raccolti sarà lo stesso Stato che
venderà grano a basso prezzo ai contadini.
Tali riforme, da alcuni chiamate Piccolo Balzo in Avanti, furono generalmente impopolari, e condussero a forti resistenze fra i
contadini, costretti a partecipare a riunioni di villaggio di giorni o settimane, finché "volontariamente" non aderissero alla
collettivizzazione. Nonostante le violenze e le sofferenze dalle quali è accompagnata, la collettivizzazione agraria si compie dunque in
Cina con una relativa facilità; essa sempra più vicina alla NEP (1921) che al primo piano quinquennale sovietico.
Quando nel 1956 Nikita Krusciov inizia la destalinizzazione, accusando, in un discorso, Stalin (morto nel 1953) per i crimini commessi, il
PCC viene preso di contropiede. Mao non accetta tali critiche a Stalin il quale, nonostante delle rivergenze, apprezza.
Il Congresso del PCC in reazione riafferma l’unità del PCC: il compromesso con i sovietici è ancora possibile ma ora molto fragile.
Ancora oscuri rimangono i fatti del “caso Gao-Rao”. Gao e Rao sono stati leader durante la guerra civile e dopo la fondazione della
Repubblica Popolare cinese hanno accumulato potere lavorando al comitato centrale e alla commissione di Stato; essi scompaiono
misteriosamente dalla scena politica nello stesso momento. Le dinamiche di queste prime purghe sono ancora misteriose a causa dei
pochi dati disponibili. I testi ufficiale che annunciano la loro destituzione, li accusano di essersi serviti delle strutture regionali di
potere, che controllavano, per imporre i loro punti di vista.
Negli anni ’50 compaiono nel PCC numerose fazioni, le quali non sono ancora gruppi chiusi, ma dinamici. Come mai si arriva a tale
fazionismo?
Le iniziative di Mao: dal «Problema della cooperazione agricola» (1955) ai «Dieci grandi rapporti» (1956)
Dal 1949 Mao non aveva ancora svolto un ruolo diretto nelle decisioni; nel 1955 invece, con due discorsi sul “Problema della
cooperazione agricola” e sui “10 grandi rapporti”, Mao pone l’attenzione sull’agricoltura e sull’industria leggera, più redditizie, ed
esorta a riabilitare le zone costiere, esortando il PCC a sviluppare il lavoro del fronte unito.
[Mao è radicale quando esalta l’accellerazione della collettivizzazione, utopista per il piano decennale, tirannico per l’esecuzione di
questo piano].
Schieramenti instabili
Mao “scavalca” il gioco delle fazioni aggirando l’apparato stesso, convocando sessioni straorinarie nelle quale ottiene l’approvazione
che gli verrebbe negata nelle stanze regolari del partito e dal governo.
Il gioco delle fazioni non risulta comunque ancora molto chiaro e stabile; certo è che si può già iniziare a distinguere una fazione
moderata, composta essenzialmente dai responsabili della gestione economica e di un gruppo radicale che riunisce intorno a Mao
Zadong (+Liu Shaoqi, Deng Xiaping) coloro che vigilano sulla organizzazione del Partito. Ma questi schieramenti non hanno nessuna
rigidità, lo stesso Mao Zadong poteva, occasionalmente schierarsi dalla parte dei suoi oppositori. È proprio ciò che è costretto a fare in
occasione dell'VIII congresso del Partito.
L'VIII congresso del 1956 segna una svolta importante nella storia del PCC e della Repubblica popolare.
Mao apre il Congresso con un discorso dove invita a “unire tutto il Partito, unire tutte le forze interne (anche le elitè non comuniste)
per costruire insieme una grande Cina socialista”, anche in reazione alla paura scaturita dagli eventi del 1956 in Ungheria e Polonia.
Argomenti del congresso:
. si riconosce il successo del regime nei suoi primi anni nella ricostruzione politica ed economica del paese, nel progresso
dell'industrializzazione e nell’attuazione della collettivizzazione
. si riduce il ruolo di Mao nella direazione e si eliminano i suoi pensieri dagli statuti i quali, nel 1945, erano stati messi sullo stesso
livello dei principi marxisti – leninisti
. si ridefiniscono i nuovi orientamenti economici, dopo le critiche al primo piano quinquennale
. si stabilisce che la maggior contraddizione ora in Cina non era fra borghesi e contadini ma fra il bisogno del popolo, il bisogno di
uno sviluppo economico e culturale in contraddizione con le risorse attualmente disponibili
. ci si oppone al culto della personalità
. si cerca di rinsaldare il rapporto fra PCC e masse per prevenire esplosioni simili a quelle che hanno scosso la Polonia e l'Ungheria
Tali provvedimenti, se pur approvati da Mao, vengono sembrano rappresentare un “tradimento” verso di lui.
Gli attacchi di Krusciov a Stalin, la conseguente campagna scatenatasi contro il culto della personalità, la limitazione del piano
decennale di Mao e le accuse a lui rivolte di “impulsiità e avventurismo”, lo costrinsero alla difensiva; i suoi dirigenti si affrettarono a
sottolineare le differenze fra Mao e Stalin, e Mao fu costretto a fare concessioni nel VII Congresso.
Mentre per Mao il problema principale da eliminare è il burocratismo, per Liu Shaoqi la contraddizione principale attuale è la
contrapposizione tra il sistema sociale ormai avanzato e i mezzi di produzione arretrati, per cui dunque bisogna primariamente
sviluppare e modernizzare la produzione. Mao non riesce a far passare la sua idea, mentre viene approvata quella di Zhou Enlai, il
quale presenta anche un “Rapporto sul secondo piano quinquennale” nella quale rifiuta qualsiasi strategia di Balzo in Avanti e sostiene
un ritmo ragionevole di sviluppo (scacco per Mao).
Il disgelo cinese ha inizio. Viene attuata una politica di apertura che permette ai contadini ricchi, agli ex proprietari terrieri e agli ex-
borghesi urbani di unirsi alle cooperative dalle quali prima erano esclusi. Questo viene fatto tenendo conto della situazione interna;
infatti per attuare una ricostruzione interna è necessario l’aiuto e le risorse di tutti.
Altro passo in questo disgelo si ha da parte di Zhou Enlai il quale decide di lasciare maggiore libertà, creatività e tempo lavorativo agli
studiosi, scrittori e scienzati. Sulla stessa onda, anche in come conseguenza alla destalinizzazione, Mao, nello stesso anno (1956),
annuncia la Campagna dei Cento Fiori (“lasciate che 100 fiori sboccino, che 100 scuole gareggino”) - campagna di liberalizzazione -
volta a promuovere lo sviluppo dell’arte, del progresso delle scienze e per dare stimolo allo sviluppo di una cultura socialista in Cina
ma che il realtà aveva come scopo principale quello di garantirsi una maggior legittimazione chiamando tutti i cinesi a partecipare allo
sviluppo economico.
Tuttavia, soltanto nel 1957 la Campagna di liberalizzazione dei Cento Fiori annunciata nel 1956, assume il carattere di un vero proprio
movimento di massa.
Il lancio della campagna e «La giusta soluzione alle contraddizioni all'interno del popolo»
Non tutti i quadri sono d’accordo con la politica di liberalizzazione (a scopo di migliorare la relazione tra il potere e le masse in reazione
agli scontri in Ungheria e Polonia) lanciata dal Partito perché, costringendo quest’ulitmo a maggiore flessibilità e moderazione del
potere, temevano un indebolimento della sua autorità.
È allora che Mao Zedong interviene per giustificare questa liberalizzazione, tramite un discorso “sulla giusta soluzione alle
contraddizioni all'interno del popolo”; qui Mao sottolinea che le contraddizioni presenti all’interno del popolo sono secondarie rispetto
a quelle proletariato-borghesia / socialismo-capitalismo / popoli colonizzati-imperialismo. Queste contraddizioni principali devono
essere risolte con la forza; le contraddizioni nate invece fra il Partito e le masse devono invece essere risolte con la concentrazione, la
critica e l’autocritica, senza rcorrere alla forza. Tali contraddizioni secondarie non nascono da imperfezioni nei rapporti di produzione
ma dalle variazioni (soggettivismo, dogmatismo e burocratismo) dell’apparato digerente. Per superare queste contraddizioni, è
opportuno rettificare lo stile di lavoro del Partito.
Inoltre, nello stesso anno, viene lanciata la “Campagna di rettifica liberista” contro il burocratismo, il settarismo e il soggettivismo,
basata sugli ultimi discorsi di Mao Tse-tung; essa afferma che il paese è entrato in un nuovo periodo, nel quale si presentano nuove
situazioni e nuovi compiti. Per dirigere la trasformazione della società e la costruzione di un grande paese socialista, il partito
comunista e la classe operaia devono trasformare anche se stessi. Anche i non comunisti sono inviati a partecipare.
La campagna dei “Centro fiori” ha avuto principalmente ripercussioni politiche: lotta funzonale all’interno del PCC, scontro ideologico e
strategia burocratica. In quel periodo la Cina soffriva anche di molte difficoltà economiche (contadini che non consegnano le
obbligatorie derrate dei propri raccolti) le quali fanno aumentare i disordini fra il 1956 e il 1957.
La crisi sociale apparve tuttavia come una conseguenza, piuttosto che come una causa, della crisi politica. Per alcuni studiosi queste
crisi periodiche sono legate agli scontri continui fra tentativi utopistici di trasformazione accelerata della società e del sistema di
produzione, con i vincoli strutturali presenti nel paese. Anche se l'episodio dei “Cento Fiori” assomiglierà alle crisi successive, conserva
comunque una sua particolarità; la sua conclusione tragica ha dissipato le illusioni di tutti coloro che avevano creduto all'unione
nazionale e che si erano costruiti l'immagine di un Mao Zadong liberale.
Nel 1958-1959 la Cina adotta una nuova politica economica, in reazione al conflitto che la vede contrapporsi all’URSS circa la
destalinizzazione, il rifiuto della coesistenza pacfica, la direzione in campo socialista. Con la nuova strategia di sviluppo, il Grande Balzo
in avanti, la Cina spera di recuperare le difficoltà economiche apparse alla fine della transizione del regime verso il socialismo e di
trovare la via per impiantare una società comunista. Tali ambizioni però aggraveranno la rottura cino-sovietica, in quanto la Cina,
intraprendendo una via diversa verso il socialismo, attacca il monopolio sovietico (anche se di fatto rimandno attuati molti elementi
del modello sovietico). In reazione l’URSS interrompe gli aiuti ecoomici, ritira i suoi tecnici e denuncia gli accordi di assistenza. Questa
rottura pesa tutt’oggi sulle relazioni internazionali; essa infatti, al di la dell’aspetto ideologico, è legata a divergenze legate a fattori
geopolitici permanenti.
[*Il Grande balzo in avanti fu il piano economico e sociale praticato dalla Repubblica Popolare Cinesedal 1958 al 1960, che si propose
di mobilitare la vasta popolazione cinese per riformare rapidamente il paese, trasformando il sistema economico rurale, fino ad allora
basato sull'agricoltura, in una moderna e industrializzata società comunista caratterizzata anche dalla collettivizzazione.
Il Grande balzo si rivelò tuttavia un disastro economico tale da condizionare la crescita del paese per diversi anni. Storicamente, è
considerato dalla maggior parte degli autori come la principale causa della gravissima carestia del 1960 in cui morirono da 14 a 43
milioni di persone.]
Utopia e pragmatismo
Il secondo piano quinquennale non viene mai attuato (1958-1962). In compenso, nel 1958 viene preparato Grande Balzo in Avanti
(riprendendo alcune caratteristiche del piano dodecennale del 1956), il quale presenza obbiettivi ambiziosi: una raccolta di 450 milioni
di tonnellate di cereali, l'aumento di produzione e della qualità in tutti i settori. Si sperava così di poter superare l'Inghilterra in 15 anni,
facendo appello allo sforzo della massa. Oltre a obbiettivi economici, ne prevedeva anche altri di tipo sociale.
Molti lo condanneranno, dopo il suo fallimento, come un’utopia omicida.
In un plenum del comitato centrale nel 1958, il suo primo viceministro, critica gli effetti del decentramento mal controllato sullo
sviluppo industriale, denuncia il particolarismo provinciale e lo spreco degli investimenti extrabilancio; sottolinea la necessità delle
priorità nazionali, delle azioni coordinate e di una direzione unificata. Mao Zadong aderisce a queste posizioni conservatrici.
Nel 1959 Liu Shaoqi sostituisce Mao Zedong come presidente della Repubblica; questo sembra dover scongiurare gli ultimi demoni
dell'avventurismo. Liu Shaoqi si mette capo di una Cina in via di pacificazione e della costruzione socialista; nessuno allora sembra
prevedere il rapido deterioramento dei rapporti cino-sovietici.
Sono i fattori geo-politici che rendono grave e duraturo il conflitto cino-sovietico, iniziato nel 1949 e ravvivato nel 1956.
Cause: . volontà sovietica di integrare le zone circostanti nel suo impero di sviluppo economico
. difficoltà di collocare la Cina in rapporto con l’URSS: è una nazione-continente, troppo vasta per essere un satellite; troppo
povera, troppo debole e arrivata troppo tardi alla rivoluzione per essere riconosciuta come partner di uguale rango
!!!!!!!!!
La morte di Stalin (1953), che disprezzava e temeva i cinesi, apre un breve periodo di buone relazioni URSS e Cina. Paradossalmente
però, proprio la destalinizzazione nascono però le prime difficoltà, specialmente dopo le iniziative di Kruscev che sfociano nel 1959,
nella rotura, apertamente consulmata nel 1960.
La fioritura dell'alleanza
La morte di Stalin, nel 1953, fa migliorare i rapporti fra l’URSS e la Cina. Vengono eliminati gli ultimi elementi dei trattati ineguali:
. la base di Port Arthur ritorna alla Cina
. una ferrovia collega il Turchestan cinese e il Turchestan russo
. accordo di cooperazione per l'utilizzazione pacifica dell'energia nucleare
La solidarietà cino-sovietica si consolida durante la Guerra di Corea e si mantiene dopo l’armistizio di Panmunjon. Questa solidarietà
tuttavia non impedisce alla Cina di perseguire una sua politica estera originale; essa riesce a dare di sé l’immagine di una potenza
insieme rivoluzionaria e ragionevole, pacifica (accetta “non ingerenza” verso i paesi dell’Asia Meridionale). Il ritorno spettacolare della
Cina sulla scena internazionale si ha nella Conferenza di Ginevra del 1954, dove Zhou Enlai si propone come difensore della pace in
Asia. Nella Conferenza di Bandung del 1955 il ruolo di Zhou Enlai fu rilevante, poiché la Cina dettò l'agenda di questi incontri. Gli
obiettivi prioritari furono: fine del colonialismo, tutela della pace, volontà di sottrarsi dalla politica dei blocchi.
Sempre nel 1955 la Cina non aderisce al Patto di Varsavia, per garantire la difesa dell'est europeo, volendo conservare una certa
autonomia nella politica estera derivata dall'esperienza dell'umiliazione coloniale.
La Cina, pur comprendendole rivendicazioni dei partiti comunisti europei che reclamano l’indipendenza naizonale, da precedenza alla
difesa e all’unità del blocco comunista. Dunque, quando nel 1956 Naghy annuncia che l’Ungheria vuole ritirarsi dal Patto di Varsavia, la
Cina appoggia l’intervento sovietico di repressione. Allo stesso modo, la Cina sostiene l’URSS quando essa si schiera contro lo jugoslavo
Tito.
Il fallimento della Cina nella sua politica di apertura in direzione di Taiwan con gli Usa, la mette in contrapposizione con l’URSS circa
l’atteggiamento da tenere verso l’imperialismo, ovvero contro gli Stati Uniti. I sovietici sono spaventati dalla leggerezza con cui Mao
immagina la scomparsa della metà del genere umano in seguito ad una guerra nucleare; per loro l’avvento delle armi nucleari,
contando la loro potenza distruttiva, deve portare ad una distensione est-ovest, dove gli Usa e l’URSS cooperano per il mantenimento
della pace mondiale. Dunque, il punto che più la Cina mette in discussione, è della coesistenza pacifica; questo sembra paradossale in
quanto, da dopo la Conferenza di Bandung, la Cina stessa la persegue.
Nonostante le diverse ideologie, il compromesso è ancora possibile durante la Conferenza di Mosca del 1957 (fra i vari partiti
comunisti), quando viene stipulato un accordo segreto per la difesa in cui l'URSS si impegna ad aiutare la Cina ad acquistare le
conoscenze scientifiche e tecnologiche necessarie alla creazione di un armamento nucleare.
Nel 1959 si tiene un plenum del Comitato Centrale a Lushan, nel quale Mao abbatte coloro che cercano di critcarlo, imponendo il
silenzio degli alti dirigenti. Da questo momento in poi, nessuno riuscirà ad impedire che gli eccessi di Mao si trasformino in catastrofi
sempre più gravi. Mao infatti rilancia una poltica di Grande Balzo, i cui pericoli erano già stati denunciati da tutti e da lui stesso. La crisi
di Lushan sfocia con la rottura con l’URSS e l’isolamento diplomatico cinese.
La rottura cino-sovietica
Tra il 1959 e il 1960, il confronto fra la Cina e l’URSS conduce alla rottura aperta. Il nazionalismo cinese si scontra con la volontà
sovietia di rimanere la guida incontrastata nel campo socialista. I cinesi rimproverano all’URSS di non averli appoggiati durante gli
incidenti di frontiera cino-indiani e durante la crisi di Taiwan. Le esortazioni di Kruscev rivolte ai cinesi di ricercare una soluzione
pacifica per la questione di Taiwan aderendo allo spirito di Camp David, suscita irritazione in Cina.
L’URSS ritira i suoi esperti dalla Cina e interrompono le attività di cooperazione tecnica e scientifica in corso (iniziate soprattto da dopo
la Conferenza di Mosca del 1957), intralciando lo sviluppo dell’economia cinese. I due ex-alleati si sentono entrambi offesi; ognuno ha
la sensazione di essere tradito dall’altro.
Il nuovo Grande Balzo in avanti e la rottura cino-sovietica introducono nella vita politica cinese temi nuovi e strategie inedite, che
conosceranno il loro pieno sviluppo nel corso della rivoluzione culturale.
Il nuovo Grande Balzo in avanti si conclude nel 1960 con una catastrofe, che costa la vita a 13milioni di uomini e ritarda di un
decennio lo sviluppo della Cina. Il PCC tuttavia non riconosce pubblicamente i suoi errori; il bilancio da esso redatto nel 1961 pubblica
addirittura i successi riportati nel campo industriale e Mao non è oggetto ad alcuna critica.
Tuttavia, Mao nel 1959 si ritra dalla scena politica, lasciando il posto di presidente a Liu Shaoqui. È quest’ultimo, insieme a Deng
Xiaping, Zhou Enlai e Chen Yun, che dovranno rimediare alla situazione; essi adotteranno una politica pragmatica e relativamente
liberale. La ripresa della produzione viene accompagnata da un ritorno alle antiche pratiche: imprese private, speculazione e
corruzione, che la rivoluzione aveva cercato di eliminare.
Mao Zedong si dedicherà dunque a lanciare il movimento di educazione socialista – rivoluzione culturale.
La crisi industriale
La produzione industriale è di certo aumentata (industria pesante aumenta del 230%), ma i suoi progressi sono costati moltissimo al
paese. Essi infatti non dipendono da un aumento della produttività ma da una forte concentrazone di capitali e manodopera.
Gli economisti oggi dipingono il Grande Balzo come un grande balzo indietro.
Molti sono coloro fra dirigenti, scrittori, intellettuali e pubblicisti (molti appartenenti al PCC) che condannano Mao per il suo abuso di
potere, le ingiustizie commesse verso Peng e la politica omicida del nuovo Grande Balzo. Essi criticano in modo indiretto, ricorrendo ad
allusioni storiche. Nel 1961 viene creata una Commissione di indagine con lo scopo di informarsi sulla politica applicata durante il
Grande Balzo e mettere in evidenza le responsabilità di Mao (Piccola Primavera di Pechino).
L’imminenza di una catastrofe è chiara e i responsabili dell’economia convincono Mao che è necessario un ripiegamento generale. Nel
1960 viene dunque applicata una politica di liberalizzazione, ovvero le “Dodici misure urgenti”, la quale mira a rilanciare la
produzione agricola per tirare fuori il paese dalla crisi. L’agricoltura (a differenza del Grande Balzo dove aveva priorità) diviene la base
dell’economia, riacquistando priorità rispetto all’industria; si restituisce ai contadini libertà e incentivi per mobilitare il loro entusiasmo
e si tenta di tornare al centralismo burocratico. La ripresa si avvia dal 1962. Il governo moltiplica gli investimenti agricoli; ettrificazione
rurale e pompe per l'irrigazione. I settori industriali più favoriti sono quelli che agevolano l'agricoltura: costruzione delle macchine
agricole e fabbricazione di concimi chimici.
Nelle campagne, il ripristino delle libertà - possibilità di coltivare campicelli privati - viene interpretato in modo molto più ampio di
quanto non sia autorizzato dai testi ufficiali; i contadini si disinteressano dunque delle terre collettive per dedicarsi al prorio campicello
e in molte province si ritorna alla produzione familiare.
Tuttavia l’aumento della produzione non è ancora sufficiente per coprire tutti i bisogni della Cina la quale è costretta ad aumentare gli
scambi con l’estero; principali partner sono il Giappone e l’Europa Occidentale (calo del 70% con l’URSS).
Il matrimonio torna ad essere oggetto di transizione finanziaria. La classe dei dirigenti tende a trasformarsi in casta privilegiata.
La difficoltà degli esami universitari non permette ai ragazzi cresciuti in ambienti popolari di accedere all’istruzione; la gioventù
contadina disoccupata bazzica nei parchi pubblici e si compiace di adottare i modi di vestire occidentali. Per molti dirigenti, queste
pratiche devianti rappresentano un grave fattore negativo non tollerabile. Rassicurato dal miglioramento economico e irritato dalle
“pratihe perverse” sul piano sociale e ideologico, Mao lancia un ammonimento a non dimenticare la lotta di classe, a respingere le
influenze capitalistiche e borghesi. Dopo manifestate critiche, le soluzioni di Mao vengono adottate senza modifica; questo consenso,
dato solo per evitare un conflitto aperto con Mao, sorprende ma non provoca illusioni.
Il Movimento per l’educazione socialista lanciato nel 1962 precede e prepara la rivoluzione culturale. In esso si ripresentano tutti i
temi maoisti:
. controllo del partito da parte delle masse
. soppressione delle gerarchie
. connessione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale
. riaccendere l’ardore rivoluzionario delle masse.
I dirigenti del PCC temono nuovi conflitti sociali nelle campagne; Mao si sforza inutilmente di raddrizzare l’iniziativa emanando nel
1964 una direttiva di cui punti sono: conta dei punti-lavoro in funzione dell’attivismo politico e non del lavoro fornito, e avvio di lavori
d’irrigazione e miglioramento del terreno mobilitando le proprie risorse senza richiedere contributi statali.
Un “movimento di rettifica” tentato dai suoi avversari, fallisce e spinge Mao ad allargare la propria offensiva.
Mao non se la prende più con i soli quadri locali, ma con persone inserite nel Partito, che invocano la via del capitalismo. Primo segno
di questa lotta di idee e di influenza è la riforma dell’Opera di Pechino; le opere tradizionali di contenuto storico vengono sostituite con
opere rivoluzionarie.
I busti e i ritratti del presidente Mao diventano onnipresenti come un tempo quelli di Stalin nell'Urss. Ma i semi fallimenti del
movimento per l'educazione socialista (concluso nel 1965) mette in risalto l'isolamento di Mao Zadong e la sua relativa debolezza. Egli
decide allora di passare alla guerra aperta e di lanciare la Rivoluzione culturale nel 1966.
La Rivoluzione culturale dura dal 1966 al 1976 e si conclude solo con la morte di Mao. Essa è un fenomeno così complesso e
discontinuo che è molto difficile ricostruirne la storia. Dopo essere esaltata dai maoisti come fonte di legittimità, essa viene
condannata dai successori di Mao come causa di tutti i fallimenti e mali del regime.
Apparentemente la Rivoluzione culturale appare una lotta al potere; Mao vuole eliminare ogni opposizione alla sua politica e lo fa
distruggendo il partito stesso (veterani del PCC imprigionati o uccisi).
[* La Grande rivoluzione culturale ploretaria è una campagna politica cinese, lanciata da Mao il quale voleva rafforzare la sua
autorità all’interno PCC, indebolitasi in seguito al fallimento della politica del Grande balzo in avanti, e frenare il riformismo promosso
dai pragmatici Deng Xiaoping e Liu Shaoqi. Personaggi importanti del PCC furono accusati di minare lo spirito della rivoluzione
proletaria, costretti alle dimissioni e a trasferirsi – soprattutto gli intellettuali – nelle campagne più remote per essere rieducati. Le
distruzioni delle Guardie rosse incitarono i rivali di Mao a organizzare propri eserciti per proteggersi. Lo scoppio di una guerra civile fu
evitato grazie allo sviluppo di Comitati rivoluzionari (1968), al ridimensionamento delle Guardie rosse, costrette a rientrare nelle
scuole. La fine della fase attiva della rivoluzione fu sancita nel 1969, quando Lin Biao viene eletto come successore di Mao. In realtà, la
fine della Rivoluzione avviene secondo molti critici solo dopo la morte di Mao e l’arresto della «Banda dei quattro» nel 1976.]
Mao scatena un’offensiva contro gli ambienti letterari di Pechino che si estende poi a strati sempre più vasti della società. Nel 1966
aumentano le violenze nelle università, le quali culminano con la mobilitazione di milioni di guardie rosse che, impugnando il libretto
rosso della rivoluzione di Mao, si impossessano delle città e si accaniscono contro persone o cose vecchie che testimoniano i tempi
passati.
È in questi mesi che si ha un ribaltamento di forza fra Mao e i suoi avversari; quest’ultimi oppongono stranamente (era in gioco il
paese e il loro ruolo) solo una flebile resistenza e Mao prevale.
Nel 1966 si apre un nuovo periodo della Rivoluzione Culturale; la lotta diviene più violenta e confusa, estendensi a strati più ampi di
popolazione.
L'appello all'esercito
Mao dunque conta sull’esercito per completare l’opera di distruzione/rinnovamento che le guardie rosse hanno iniziato, ma che la
loro mancanza di disciplina, ha impedito di completare. Tramite una direttiva Mao incarica l’APL di: proteggere i servizi vitali
prendendo il controllo degli edifici pubblici, delle unità di amministrazione e produzione, “sostenere la sinistra” ovvero identificare tra
le fazioni rivali i rivoluzionari veri e aiutarli a prendere il potere eliminando i nemici.
Tuttavia l’esercito si dimostra incapace di svolgere tali compiti a causa delle divisioni interne (coloro che vogliono il rafforzamento del
ruolo specificamente militare e coloro che vogliono uno sviluppo rivoluzionario dell’APL) e alla difficoltà nel riconoscere le fazioni da
appoggiare e quelle da contrastare.
I rivoluzionari però riprendono le loro attvià schierandosi contro il partito e l'esercito, assalendo le unità di produzione o di
amministrazione poste sotto il loro controllo. Mao divulga direttive contraddittorie, facendo aumentare i disordini: inizialmente
impedisce all’esercito di reagire, sostenendo che la rivoluzione spontanea delle masse non debba essere soffocata, ma
successivamente incarica l’esercito di appoggiare le fazioni di sinistra. La situazione peggiora quando i rivoluzionari riescono a rubare
le armi da fuoco; una Commissione d'inchiesta viene così inviata per risolvere i conflitti più gravi.
I gravi disordini in Cina però spaventano; mentre la forza militare si sta indebolendo per distendere i conflitti interni, la minaccia
sovietica alle frontiere Nord-Est si fa sempre più pressante. L’unità nazionale non può venir meno prorio ora.
Ultimi fuochi della Rivoluzione culturale (1968) e riduzione all'obbedienza delle guardie rosse
I nuovi comitati rivoluzionari vengono visti dai giovani ribelli come una nuova dittatura borghese, in quanto i vecchi quadri continuano
a svolgere una funzione dirigente. Per indebolire le loro organizzazioni di protesta, si obbliga il ritorno degli studenti nelle università e
la ripresa dell'insegnamento. Ma presto (1968) una nuova oscillazione gauchista restituisce speranze ai ribelli rivoluzionari e riaccende
la Guerra civile a Pechino e nelle province (soprattutto nel sud della Cina).
Inizi dunque una campagna di repressione contro le guardie rosse le quali, indebolite, scomparvero; coloro che sfuggono agli arresti e
i massacri sono arruolati nell'APL.
La Rivoluzione Cuturale lascia un sentimento di odio e rivalsa fra i diversi gruppi che si sono fronteggiati, ora ancor più distanti e
irrigiditi. La società rimana agitata. La Rivoluzione non è riuscita a dar potere alle masse, tuttavia non viene ufficialmente ripudiata: ne
rimette il prestigio di Mao. Solo dopo la morte di Mao, si sbloccherà la situazione ora senza via d’uscita.
Fino al X congresso, nonostante le forti divergenze interne, si riesce ancora a mobilitarsi per affrontare i grandi problemi nazionali:
ricostruzione degli organismi politici e amministrativi, sviluppo economico, riorientamento della politica estera verso occidente.
Ma i provvedimenti adottati sono spesso contraddittori.
In campo economico, viene attuato il “Movimento di imitazione di Dazhai” il quale incoraggia i contadini a fare sacrifici e praticare
attivismo politico seguendo l’esempio degli agricoltori di Danzhai, i quali hanno distribuito in modo egualitario il razionamento e la
rotazione dei campicelli privati. Questa riorganizzazione provoca però malcontento in alcune zone; di conseguenza nel 1971 questo
sistema viene abbandonato e si pensa di tornare alla collettivizzazione di 3/4 famiglie.
Il sistema educativo viene riesaminato. Nel campo ideologico si critica la pigrizia delle masse le quali si sono accontentate della lettura
del Libretto Rosso. Viene così lanciato il “Movimento di studio del marxismo” che redige un elenco di opere di Marx, Engels, Lenin,
Mao la cui lettura è raccomandata ai membri del Partito.
L’eliminazione di Lin Biao, il ritorno ai vecchi quadri, l’intervento degli elementi militari più moderati, non bastano per imporre la
politica di riaggiustamento, né a prevenire le insorgenze del radicalismo ereditato dalla Rivoluzione Culturale.
2. La crisi di regime
Mao, debole per l’anzianità, è sempre più soggetto dall’influenza della sua cerchia. Zhou Enali (primo ministro 1949-1976) cerca di
preservare la produzione economica, l’attività di governo, di impedire il ritorno al disordine e di trionfare nella campagna anti-
confuciana scagliata contro di lui. Anche lui ormai anziano, affida nel 1975 a Deng Xiaoping (vice primo ministro 1975-1983) la
realizzazione del programma delle Quattro Modernizzazioni. Alla morte di Zhou Enlai nel 1976, aumenta il potere la fazione radicale,
capeggiata da Jiang Quing (quarta moglie di Mao) e i suoi tre associati della “Banda dei 4”. Ma il potere, nascendo esclusivamente
dall’accetazione di un capo carismatico, non sopravvive alla morte di Mao Zedong dello stesso 1976.
I disordini operai
Gli operai rivendicano migliori condizioni di vita e di lavoro, salari più elevati, un maggior diritto di controllo sulla gestione delle
imprese. In protesta attuano una resistenza passiva: assenteismo, sciopero bianco, abbandono del posto del lavoro.
Le autorità cercano di ristabilire l'ordine nelle imprese, attuando misure che si rivelano efficaci, anche se gli attivisti locali continuano la
lotta agendo con la mediazione di sindacati, approfittano anche delle campagne di mobilitazione politica come la Campagna di
Confucio. Si cerca di arginarle.
La storia del post-maoismo comincia non con la morte di Mao Zadong, ma con la vittoria di Deng Xiaoping nel 1978. Dopo un periodo
di transizione durato poco più di 2 anni, durante il quale Hua Guofeng, aveva cercato invano di affermare la propria autorità, Deng
Xiaoping prende il potere. Viene lanciata la de-maoizzazione, la quale prende tratti simili alla destalinizzazione:
. abolire il culto del dittatore defunto
. cancellare gli errori e i crimini del loro regno
La deomaizzazione risulta essere però più profonda e radiale; è più controllata e più ideologicamente prudente. Essa ha successo
anche perché condotta da Deng Xiaoping, uomo di alta levatura politica (uno dei fondatori della Repubblica Popolare ed ha
partecipato a tutte le lotte rivoluzionarie) il quale però non si è mai reso complice degli orrori di Mao, rimanendo saldo sulla sua linea
pragmatica, né autore di politiche di repressione. La sua denuncia della Rivoluzione e degli eccessi maoisti è priva di ambiguità. Ciò è
accompagnato da una serie di riforme di grande portata, le quali hanno l’obbiettivo di ripristinare l'economia e della modernizzazione.
Nonostante i suoi tentativi (prende distanze dall’estrema sinistra e prova a suscitare il culto della sua personalità), Hua Guofend non
riesce a conservare il potere lasciato in eredità da Mao Zedong e nel terzo plenum del 1978 deve lasciare il potere a Deng Xiaoping.
2. Demaoizzazione e liberalizzazione
Deng Xiaoping, forte della sua vittoria, impone la demaoizzazione (apertura all’Occidente, modernizzazione, rilancio economico) ma le
opposizioni lo costringono ad adottare una strategia duttile. I suoi obbiettivi chiave saranno: accelerare la modernizzazione e
preservare un quadro tecnologico e politico solido.
Tuttavia, nel 1979, Deng Xiaoping reprime il movimento democratico, incontrollato e pericolo per l’egemonia del partito e annunciò
che la base ideologica del suo regime si sarebbe basata su “Quattro principi cardinali” ovvero:
. seguire la via socialista
. sostenere la dittatura del proletariato
. sostenere la supremazia del PCC
. aderire al marxismo-leninismo e al pensiero di Mao
Tuttavia, la de-maoizzazione non viene abbandonata, anche se assume forme più moderate. Viene approvata una risoluzione che
riconosce l’arroganza di Mao che lo portò a disprezzare le regole della direzione collegiale la democrazia all’interno del PCC; si
distingue però fra gli errori che Mao commise a causa di un’applicazione frettolosa e dei suoi principi, e il suo pensiero che invece non
viene condannato.
Nel 1983 i primi tentativi di liberalizzazione sono presto contraddetti dalla brutale campagna contro la criminalità. Viene poi attuata la
censura delle idee e quella dei costumi; viene condannato il modo di vestirsi, pettinarsi, svaghi e musiche dell’Occidente corrotto.
Successivamente i controlli di stringono ancora sulla stampa e sugli intellettuali, i quali sono “liberi all’interno del socialismo” e devono
essere portavoce del Partito.
3. La modernizzazione economica
Nel 1978 Deng Xiaoping impone la propria politica di modernizzazione; negli anni seguenti si assiste a riaggiustamenti e riforme.
Occorre aspettare il 1984 per avere un bilancio di tale politica.
La politica delle Quattro Modernizzazioni è stata pianificata per rispondere alle esigenze della Cina, importando conoscenze sviluppate
nei paesi sviluppati, i quali sono i principali fornitori della Cina. Nel 1985 il deficit con l’estero si è accentuato e il governo ha reagito
adottando tendenze protezionistiche (aumento tassi doganali), nella speranza di aumentare la propria capacità di esportazione.
Vengono istituite zone economiche speciali pronte ad accogliere investimenti stranieri grazie a incentivi: oneri fiscali, esenzioni
doganali.
L’integrazione della Cina nelle relazioni economiche internazionali avviene in seguito alla sua adesione alle grandi organizzzazioni,
come FMI e Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. Questa apertura avvenne non senza critica da parte di coloro che
avevano ancora un forte odio verso l’Occidente a causa del passato coloniale.
Per mobilitare l'opinione pubblica si fa leva sul nazionalismo o sulla xenofobia piuttosto che sugli incentivi ideologici e sulla
pianificazione. Nonostante i rischi ai quali è esposto, il processo di riforma continua.
La riforma, con lo scopo di accelerare lo sviluppo in seguito alla crescita demografica incontrollata, è pragmatica e risponde ad
un’urgenza economica piuttosto che ideologica. L’attuazione delle “Quattro Modernizzazioni” apporta grandi modifiche al
funzionamento della società e alla gerarchia dei suoi valori. Questi provvedimenti prendono il nome di “Socialismo alla cinese”; si fa
appello alla società e alle sue capacità per accelerare la modernizzazione.
Per lasciare libero corso alle iniziative degli agenti sociali, vengono eliminati vari obblighi, che comportano un ritorno al sociale;
ricompaiono molte forze sociali che si erano credute distrutte dall’azione centralizzatrice e pianificatrice della burocrazia.
La decollettvizzazione della produzione agricola ha provocato una triplicazione della redita contadina dal 1979; il reddito individuale è
aumentato, insieme al potere di acquisto per beni di consumo e nuove abitazioni.
Anche se in tempi più lunghi, anche la società urbana ha beneficiato delle “Quattro modernizzazioni”, grazie all’aumento dei salari,
diminuzione della disoccupazione e aumento dei prodotti di consumo che hanno migliorato la vita dei cittadini cinesi.
Pragmatismo e legittimità
Per Deng Xiaoping non contano quali sono i valori della società, conta che essi siano utili alla riforma. Questa flessibilità della riforma
contribuisce alla sua efficacia ma, al contempo, fa nascere una certa confusione, nociva ai fondamenti ideologici del potere e
fortemente denunciata come tale dagli avversari di Deng.
Per restaurare una legittimità, già scossa dalla de-maoizzazione, Deng cerca di radicarla in nuovoi miti fondatori, di creare un passato
più lontano di tradizione per rivendicarne l’eredità. La battaglia per la legittimità si basa su: unità, modernizzazione e sovranità.
L’introduzione di pene per reati economici si rivela di applicazione arbitraria; questo fa si che l’opinione pubblica diffidi dell’apparato
giudiziario e consideri la corruzione dei quadri come un problema interno al Partito. Per Deng Xiaoping, non basta rendere il partito
degno di fiducia ma esso deve anche diventare idoneo per assicurare i compiti della modernizzazione.
Cap. XI – FINE DI REGNO O FINE DI REGIME? L’EVOLUZIONE DELLA POLITICA INTERNA DAL 1986 AL 1989
Dal 1986 il ritmo della riforma economica si accelera. Questo rende necessario un passaggio ad un’economia mista e nel frattempo
provoca numerosi fenomeni di destabilizzazione economica: inflazione, indebitamento con l’estero, squilibri settoriali. Ora dunque la
riforma fatica a compiersi. Urta con la natura del regime e con l’importanza delle tradizioni; le resistenze della burocrazia e della
società divengono ostacolo per i progressi auspicati dai dirigenti riformisti.
Dunque nel 1988 si assiste ad un’alta inflazione, un potere impotente, una politica austera irrisa, un malcontento sociale e una
contestazione intellettuale sempre più radicale.
L’imminente successione di Deng Xiaoping (rimasto dirigente nonostante il suo semiritiro ufficiale) accresce le tensioni e incertezze.
1. L'emergenza di un'economia mista e le turbolenze della riforma (1985-87)
Nel 1985 vengono introdotti meccanismi di mercato nel vecchio sistema di economia pianificata; emerge dunque una struttura
dualistica. Questo è reso possibile da arretramento dello Stato, il quale rinuncia a controllare molte attività. Nelle campagne viene
meno il monopolio statale dei prodotti agricoli.
Le cooperative specializzate vengono sostituite da mercati locali; la Banca Popolare cinese abbandona il monopolio e lasciando campo
d’azione alle banche di stato; nel campo industriale la produzione statale diminuisce – la maggior parte della produzione dipende ora
dall’industria rurale e urbana. La liberalizzazione però genera caos sia in campagna che in città.
Gli effetti benefici della riforma agraria del 1978-1980 si sono esauriti. Sintono più grave è il malessere del settore agricolo dove si ha
una grave stagnazione della produzione cerealicola; l’impresa familiare ha raggiunto i suoi limiti e gli impianti di irrigazione sono difficili
da mantenere e sviluppare. I quadri locali, incaricati della spartizione di tali prodotti, speculano sui loro prezzi e i contadini sono
costretti ad acquistare concimi ad alto prezzo o a farne a meno.
La rapida crescita del settore industriale è accompagnata da squilibri e inflazione; il governo centrale ha perso il controllo del ritmo
degli investimenti, così come non ha più potere sulle transazioni e attività economiche.
Tutte queste difficoltà si ripercuotono sulle relazioni economiche cinesi con l’estero; le importazioni crescono ma la Cina è costretta a
chiedere prestiti stranieri, triplicando il debito con l’estero. Di conseguenza, gli imprenditori stranieri si fanno più prudenti; Pechino
allora crea una “Commissione per gli investimenti stranieri” che semplifichi le procedure amministrative, riuscendo a permettere un
rilancio delle firme dei contratti.
2. Le incertezze del potere: dalla liberalizzazione del «Doppio Cento» (estate 1986) al XIII congresso del PCC (ottobre 1987)
Dal 1978 lo sviluppo della riforma ha compiuto passi indietro; con l’accelerazione dell’attività riformatrice del 1986, si hanno problemi
sempre più difficili da superare per la classe politica. La riforma diviene dunque fonte di scontro fra la fazione liberale e conservatrice,
le quali entrambi aspirano al controllo del potere.
L'effimera campagna contro la «liberalizzazione borghese» e il XIII congresso nazionale del Partito (ottobre 1987)
Nel 1987 i conservatori lanciano una Campagna contro la liberalizzazione borghese contro l’allora segretario generale del PCC Hu
Yaobang e contro chi sosteneva che la riforma politica dovesse accompagnare quella economica. Si torna a parlare di unità, stabilità,
centralismo democratico e ruolo dirigente del PCC; si attuano purghe, si torna all’ortodossia ideologica, si rafforza il controllo sulle
pubblicazioni, la riforma economica viene rallentata e la liberalizzazione dei prezzi soppressa.
Nel 1987 Zhao Ziyang diviene il nuovo segretario generale del PCC al posto di Hu Yaobang; egli esalta i progressi compiuti fino al 1978
e esorta al rispetto della disciplina ideologica e alla continuazione della riforma di apertura.
Nel compromesso con i conservatori, Zhao bilancia il nuovo impulso dato al cambiamento economico con un’estrema prudenza in
materia di riforma politica. Egli introduce il concetto di “stadio iniziale del socialismo”: dal momento che la Cina ha compiuto la
propria rivoluzione prima che si completassero i processi di industrializzazione, commercializzazione e trasformazione tecnologica,
realizzati altrove nel quadro del capitalismo, è necessario ora recuperare il ritardo e compiere il percorso di modernizzazione, preludio
per l’instaurazioe di un vero e proprio sistema socialista. Respinge la separazione dei poteri e il pluralismo e riafferma il ruolo dirigente
del PCC. Ripartisce dunque tra le funzioni del PCC e tra quelle del governo: al Partito spetta la formulazione di principi e di linea
generale mentre al governo spetta selezionare gli amministratori professionisti incaricati dell’esecuzione.
Nel Congresso si ha una ritirata dei veterani, tra cui Deng Xiaoping, e si ha un ringiovanimento del personale.
Nonostante il successo di Zhao Ziyang al XIII Congresso, molte rimangono le inertezze sul futuro della riforma, date anche dalla
mancanza di norme sulla successione di Deng Xiaoping; Zhao Ziyang viene considerato l'erede presunto, ma rimane comunque
subordinato all'autorità di Deng. Come primo ministro, sempre nel 1987, viene eletto Li Peng, molto diverso da Zhao per esperienze
passate, temperamento ed idee.
Dopo poco più di un anno, la linea tenuta dal regime innesca una crisi più grave; il tentativo di combinare la liberalizzazione economica
(liberali) con l’autoritarismo politico (conservatori), era probabilmente contraddittoria nei suoi stessi termini (anche se tale
combinazione è un fenomeno frequente nei paesi dell’Asia Centrale).
Questo fallimento è dato sia dalla mancanza di competenza della burocrazia reclutata solo su fervore ideologico e zelo attivistico, e
dall’indignazione suscitata dal lusso e corruzione dei quadri che ha eroso la fiducia popolare nel regime e nelle sue riforme.
L'esplosione nel 1989 è proceduta da una lunga crisi, che riguarda nello stesso tempo l'economia, lo Stato e la società; il 1988 è l’anno
in cui crescono tutti i pericoli.
Ripercussioni immediate della tragedia di piazza Tien-an Men si hanno nelle relazioni della Cina con il mondo esterno; il mondo
occidentale ha visto tale crisi come una soffocazione di un tentativo cinese di emancipazione e liberazione.
Il potere di Deng Xiaoping e il PCC sopravvivono tuttavia alla crisi di Maggio/Giugno 1989.
La restaurazione conservatrice è all’opera, ma i problemi alla base della crisi (successione di Deng Xiaoping, direzione della riforma)
non sono ancora stati risolti.
Dal 1960 la politica estera cinese cambia nettamente, ha conosciuto una rivoluzione completa: dall’alleanza con l’URSS si passa
all’avvicinamento con gli Usa, prima di assumere un corso più indipendente.
I fattori che hanno portato all’approfondimento del conflitto cino-sovietico sono:
la divergenza negli interessi nazionali e le ambizioni rivali fra i due paesi socialisti (entrambi volevano erigersi a modello rivoluzionario
di riferimento).
Le esigenze di sicurezza nazionale combinate con quelle di modernizzazione economica spingevano invece la Cina verso gli Usa.
L’alleanza cino-sovietica degli anni 1950-60 rappresenta l’ultima fase della subordinazione della Cina ad una potenza straniera; dopo la
rottura, la Cina cerca di definire il proprio ruolo, in quanto nazione indipendente, nel mondo moderno. La diplomazia cinese
contemporanea rimane subordinata e opportunista: essa reagisce a situazioni create da altre potenze, cercando di trarne vantaggio. Il
divario che separa discorso e pratica indica la distanza tra ciò che è la Cina e ciò che vorrebbe essere.
Dopo la rottura dell’alleanza cino-sovietica a fine anni ’50 e la Rivoluzione Culturale, la Cina si trova per un decennio in un relativo
isolamento, non essendo ancora pronta ad avvicinarsi agli Usa (che considera ancora come minaccia imperialistica) e non incontrando
l’interesse da parte dell’occidente (Francia e Giappone escluse) ad un simile riavvicinamento.
Inasprimento del conflitto con l'URSS e persistenza dell'antagonismo con gli Stati Uniti
Alla fine degli anni ’50 le posizioni cinese e sovietica circa la destalinizzazione (iniziata nel 1956), sui problemi di sviluppo economico e
sulla politica di distensione, erano diventate sempre più divergenti. Nel luglio 1959 l’Urss denuncia il “Trattato di cooperazione
atomica” in materia di difesa nazionale, interrompe gli accordi economici e ritira i tecnici sovietici, nel luglio 1960. Questa escalation
porta gli ex-alleati ad un confronto armato sulla comune frontiera del fiume Ussuri, nella primavera del 1969.
Il conflitto è già scoppiato nel campo socialista in occasione della Conferenza dei partiti comunisti a Mosca nel 1960 e del XXII
congresso del partito comunista dell’URSS nell’ottobre 1961, due crisi internazionali sanciscono la definitiva rottura:
la guerra di frontiera cino-indiana del settembre-novembre 1962 e la Crisi di Cuba dell’ottobre dello stesso anno.
Circa quest’ultima, l’Urss, per salvaguardare la distensione, accetta di ritirare i suoi missili dall’isola il 26 ottobre, mentre la propaganda
cinese incita i cubani alla resistenza e alla lotta contro l’imperialismo americano. La Conferenza cino-sovietica riunita a Mosca nel luglio
1963 intento di ridurre le divergenze tra le due potenze, si conclude però con la rottura del dialogo. La firma del Trattato di Mosca
del 1970 sulla cessazione degli esperimenti nucleari nell’atmosfera rende palese la politica di distensione russo-americana, che la Cina
condanna violentemente. Pechino, dall’autunno 1963, incoraggia la creazione di partiti marxisti-leninisti (scissionisti) in diversi paesi
europei, asiatici e latino-americani.
Nel 1963 la Cina denuncia i trattati ineguali dell’epoca zarista e chiede una revisione del tracciato delle frontiere. Le manifestazioni
xenofobe dei primi anni della Rivoluzione culturale (1966-1967) assumono spesso un tono antisovietico.
Dopo l’invazione sovietica della Cecoslovacchia del 1968 la crisi cino-sovietica entra nella fase più acuta; Pechino denuncia l’invasione
come crimine abominevole del <<social-imperialismo>> e attacca il Patto di Varsavia, visto come strumento di espansionismo
sovietico. La tensione cresce, il conflitto ideologico degenera in fermento nazionalista, ed esplode nel marzo 1969 con l’incidente sul
fiume Ussuri. La Cina, rispetto all’Urss, è però in una situazione di inferiorità; Zhou Enlai cede alle pressioni sovietiche accettando di
incontrare Aleksei Kosygin (premier dell’URSS), invece Lin Biao e i radicali si oppongono alla politica di pacificazione col social-
imperialismo nonostante ciò il 20 ottobre 1969 a Pechino si aprono dei negoziati tra i viceministri degli affari esteri, per tentare di
regolare il problema delle frontiere.
Per quanto riguarda il rapporto con gli USA, alla fine del 1968 Zhou Enlai fa un primo tentativo per stabilire contatti con gli Stati Uniti
approcio che trova l’opposizione di Lin Biao e i radicali.
Dunque gli Usa, ad inizio anni ’70, rimangono il principale avversario cinese, in quanto si oppongono alla riunificazione nazionale
(integrazione di Taiwan nella RPC, riconoscendo il principio dell’unica Cina) e impediscono al governo di Pechino di svolgere un ruolo
internazionale degno di lui – escludendola dall’Onu.
Tuttavia la Cina adotta la prudenza nelle relazioni con gli Usa; nonostante la condanna dell’<<aggressione americana>> a Cuba e
l’intervento degli USA nella guerra in Vietnam, quando nel 1964 avvengono gli Incidenti del golfo del Tonchino fra navi americane e
nord-vietnamite, la Cina evita il confronto diretto con gli Usa in Vietnam – così come fece anche nello stretto di Taiwan.
I soli segni di distensione della Cina con l’Occidente si hanno nei rapporti commericiali con il Giappone (diviene il suo partner ufficiale,
in conseguenza alla rottura cino-sovietica) e nei rapporti diplomatici con la Francia. Solo nel decennio successivo questa distensione
avviata con l'Occidente genererà un avvicinamento agli Stati Uniti.
Questo “isolamento” cinese è provocato dagli eccessi della rivoluzione culturale, la quale ha fatto apparire la Cina come una potenza
debole e pericolosa. Zhou Enlai capisce allora che la politica estera della Cina deve essere ricostruita, su basi nuove.
2. Avvicinamento all'Occidente e politica d'apertura (1970-80)
Tra il 1970 e il 1980, la Cina si avvicina progressivamente all’Occidente: “apertura con le nazioni al di là dei mari”. Tale apertura
rimane comuque selettiva, in quanto esclude l’Urss, con la quale continua il confronto.
Tuttavia, i negoziati strategici russo-americani, espressione della Massima Distensione iniziata nel 1973, che portano alla stipulazione
del SALT I nel 1972 e all’accordo di massima firmato a Vladivostok nel 1974, preoccupano e irritano i cinesi. Questo fa bloccare il
riavvicinamento cino-americano.
Solo il ritorno in politica cinese di Deng Xiaoping nel 1977 e l’elezione di Carter, porteranno al rilancio dei negoziati che porteranno al
Comunicato Comune del 1978, tramite il quale gli Usa riconoscono la Repubblica Popolare come il solo governo legale della Cina e
accettano di denunciare il Trattato di sicurezza reciproca con Taiwan. Nel 1979 Deng Xiaoping fa un viaggio in Usa e stipula accordi
complementari: scientifici, tecnologici, culturali e commerciali (Cina ottiene clausola di “nazione favorita”).
Restano tuttavia dei problemi irrisolti; il Congresso americano firma il Taiwan Act per risolvere il problema di Taiwan con mezzi pacifici,
ma la Cina protesta. Questo però non ostacola l’intensificazione delle relazioni anche su altri piani: economici (Usa disposta anche a
vendere armi a Cina) politico, culturale e strategico.
La distensione porta ad un riavvicinamento anche con i paesi occidentali e il Giappone. Cina e Giappone ripristinano le relazioni
diplomatiche. Il Giappone riconsoce la Repubblica Popolare come il solo governo legale e l'unico a dover esercitare la sovranità su
Taiwan, e si rammarica per i danni causati durante l'occupazione del 1937-45. Dal canto suo, la Cina si impegna a non chiedere
risarcimenti di guerra. I due stati provano a raggiungere addirittura un Trattato di pace e amicizia, ma i negoziati incontrano ostacoli: i
stretti legami economici fra Giappone e Taiwan, la disputa circa la sovranità sulle isole Senkaku, disputa sulla delimitazione delle acque
territoriali nelle zone ricche di petrolio, la richiesta cinese di introdurre nel trattato una “clausola anti-egemonica” che condanni il
tentativo di qualunque stato di stabilire il proprio predominio in Asia (rivolta di fatto all’Urss).
Il riavvicinamento con gli stati dell’Europa Occidentale segue un’evoluzione analoga. Nel 1972 la Cina (ri)stabilisce relazioni
diplomatiche con gran parte di essi; nel 1975 stringe relazioni con la Comunità Europea, la quale nel 1978 le concede la clausola di
“nazione più favorita”.
La Cina chiede un rafforzamento della NATO e condanna la Conferenza di Helsinki del 1975, considerata un cavallo di troia per
l’espansione sovietica.
Confronto con l'Unione Sovietica e rivalità cino-sovietica in Asia del Sud e del Sud-Est
Negli anni ’70-’80 il confronto cino-sovietico perdura ancora. I negoziati del1969 per risolvere il problema delle frontiere sono
inconcludenti; l’URSS vorrebbe una regolamentazione della politica generale mentre la Cina vuole il “cessate il fuoco” e il ritiro
simultaneo delle truppe nelle zone contestate. Dopo gli incidenti dell’Ussuri del 1969, l’Urss continua a migliorare gli armamenti
militari; i bombardamenti strategici hanno ottimo raggio d'azione e la flotta del Pacifico viene rafforzata in quantità e qualità. La Cina
reagisce cercando di sviluppare la propria forza militare dalla frontiera coreana alla Mongolia, disponendo un milione e mezzo di
uomini. Tuttavia il confronto non si limitava alle zone di frontiera; la Cina allora mobilita tutte le risorse diplomatiche per ostacolare
l’espansione sovietica. L’India si lega all’Urss e il Pakistan alla Cina. Quest’ultimo legame però si incrima quando il Pakistan costituisce
nel 1971 il Bangladesh come stato indipendente e la Cina lo disconosce; i rapporti miglieraranno solo nel 1979 dopo l’invasione
sovietica dell’Afganistan. Tale invasione dell’Afganistan provocherà anche un avvicinamento (ma non un vero miglioramento) fra Cina
e l’India che la percepiscono come preoccupazione comune.
È nella penisola indocinese che il confronto cino-sovietico assume caratteri più acuti; la Cina inizia a provare antagonismo verso il
Vietnam del Nord che accusa di voler imporre la propria egemonia sulla penisola e di servire le ambizioni strategiche dell’Urss.
La Cina rimane soddisfatta degli Accordi di Parigi che, nel 1973, hanno posto fine alla guerra in Vietnan affermando l’esistenza di due
stati vietnamiti del nord e del Sud, e confermando la neutralità di Cambogia e Laos. Ma questo equilibrio non dura molto; il Vietnam
del Nord rimane minaccioso in quanto rafforza i legami con l’Urss. Nel 1978 Hanoi aderiesce al “Consiglio per l'aiuto economico
reciproco – COMECON” e firma con l’Urss un Trattato di cooperazione ed amicizia, che la Cina considera orientato contro di sé.
Dunque, nel 1979 la Cina interviene militarmente in Vietnam del Nord; azione molto pericolosa, in quanto avrebbe potuto scatenare
un attacco sovetico. I dirigenti cinesi pensarono ad una guerra lampo ma la resistenza vietnamita costringe ad un prolungamento delle
operazioni, rischiando davvero un intervento sovietico. Il Consiglio dell’ONU esorta il ritiro delle truppe; le perdite sono alte e il costo
della guerra compromette la realizzazione delle “Quattro modernizzazioni”. Quella che avrebbe dovuto essere un’operazione di rivalsa,
mostra alla Cina che il suo esercito non era in grado di condurre una guerra offensiva moderna. La scelta cinese è ora fra:
modernizzazione militare e modernizzazione economica. Deng Xiaoping sceglie la seconda. Tuttavia la Cina non rinuncia ad una
strategia antivietnamita e antisovietica nella regione; si avvicina ai paesi dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) e,
appunto, all’America.
La politica cinese del Terzo Mondo (Medio Oriente, Africa, America latina)
Nel 1974 la Cina sottoscrive una dichiarazione scritta da un gruppo di paesi in via di sviluppo, i quali reclamavano l’instaurazione di un
nuovo ordine economico internazionale, più favorevole ai prodotti di materie prime e che tenesse più in considerazione gli interessi
del Terzo Mondo. Infatti, la Cina, seppur strinse legami economici con l’occidente, rifiutò sempre la politica americana ed europea nei
confronti del terzo mondo (contro l’imperialismo che continua a denunciare).
Nel 1976 la Cina si avvicina all’Egitto, dopo che Sadat ebbe denunciato il Trattato di amicizia e cooperazione con l’Urss.
In Africa, la Cina instaura varie relazioni bilaterali e prende posizione sui vari conflitti regionali (sia tramite la stampa che nell’ONU).
Nella crisi angolana del 1974 essa appoggia i movimenti nazionalisti, in opposizione al movimento popolare di liberazione influenzato
dall’Urss; si avvicina a Zaire ed Etiopia; critica la politica libica in Ciad.
In America Latina la diplomazia cinese mantiene un profilo basso, benché abbia stretto relazioni ufficiali con Cile, Perù, Argentina,
Messico, Venezuela e Brasile. Riguardo a Cuba, la Cina denunciò con vigore l’imperialismo americano.
Sembra dunque che la Cina sia riuscita ora a conciliare un duplice approccio ai problemi internazionali:
-verso le superpotenze → basato sulle questioni di sicurezza
-verso il terzo mondo → basato sul sostegno di valori di uguaglianza e giustizia
A fine anni ‘70, la Cina è impegnato come mai in passato nel funzionamento del sistema internazionale; è inserita nelle organizzazioni
mondiali e tramite l’attività diplomatica spera di ottenere sicurezza e rispetto necessari per la realizzazione delle Quattro
Modernizzazioni.
All’inizio degli anni ‘80, il contesto mondiale era poco stabile e la Cina aveva come prima preoccupazione quella di rimuovere gli
ostacoli che avrebbero potuto comprometterne la modernizzazione. L’ideologia non è più tenuta in gran conto nella definizione della
politica estera cinese, la quale, ormai secolarizzata, lascia spazio a interessi di sviluppo economico (politica di apertura).
La caduta di Hu Yaobang (1987) causa difficoltà nelle relazioni cino-giapponesi, mentre l’avvicinamento all’Urss è dovuto a Li Peng
(simpatizzante dell’Urss).
La Cina diviene uno dei principali beneficiari dei crediti delle organizzazioni internazionali; nel 1986 entra nel GATT (Sistema generale
di accordo tariffario) per facilitare gli scambi commerciali, prima regolati da vari trattati bilaterali. Pur partecipando alla comunità
internazionale, tuttavia la Cina non accetta i valori su cui si basa come trasparenza statistica e ricorso a procedure di arbitrato
internazionale; la repressione delle rivolte tibetane nel 1989 e i massacri in Piazza Tien-an men dello stesso anno dimostrano che i
diritti dell’uomo sono subordinati agli interessi nazionali cinesi.
L’avvicinamento cino-sovietico è simbolo di una distensione globale, confermata dall’accordo fra Gorbaciov e Reagan
sull’eliminazione dei missili a breve e media gittata nel 1987. Questo apre alla Cina nuove speranze di sviluppare rapporti con gli stati
vicini e affermare la sua potenza a livello regionale. Tuttavia, l’avvicinamento cino-sovietico mette in discussione le relazioni fra Cina e
Giappone, il quale era da sempre considerato dalla Cina come punto cardine della sua lotta antisovietica e del quale ora sorveglia con
preoccupazione l’ascesa militare e politica.
All’inizio del 1989 la Cina dunque appare al mondo come potenza pacifica, desiderosa di perseguire la propria modernizzazione grazie
ad una cooperazione con potenze industrializzate, sia capitaliste che socialiste, e impegnata per costruire una stabilità in Asia
Orientale. Ma la repressione di Piazza Tien-an Men distrugge questa immagine rassicurante della Cina. Rimangono gli imperativi della
Realpolitik (scelte basate più su questioni pratiche che su principi universali o etici); basteranno a salvaguardare il posto che, dopo 10
anni di sforzi, la Cina si era conquistata nella comunità internazionale?
La cooperazione con gli Stati Uniti
Nel 1982 la Cina prende un po’ le distanze dagli Usa e riapre il dialogo con l’Urss; riafferma l’indipendenza della sua politica estera e la
sua solidarietà con il Terzo Mondo. Le relazioni con gli Usa hanno incontrato due ostacoli:
-mantenimento di buone relazioni fra Usa e Taiwan → tuttavia, uno spirito di riappacificazione spinge gli Usa a firmare il
Comunicato Comune nell’agosto 1982 che prevedeva la riduzione della consegna d’armi americane a Taiwan (questo
blocca la crisi ma non il malessere)
-lotta per i diritti dell’uomo → gli USA criticano la repressione dei tumulti tibetani nel 1987; in reazione innalzano le
barriere doganali verso le importazioni cinesi, creando tensioni.
Tuttavia, le relazioni economiche fra i due stati continuano (Usa vende armi a Pechino, anche se teme che Pechino le esporti nei paesi
del Terzo Mondo) e le relazioni in generale rimangono buone per volere dei governanti.
L’avvicinamento cino-sovietico
Può dunque sembrare, ai suoi inizi, che l’apertura verso l’Urss, sia stata conseguenza di certe delusioni incontrate nelle relazioni con gli
Usa. La Cina si dichiara aperta a iniziare negoziati con l’Urss ma l’invasione dell’Afganistan del 1979 ne provoca l’interruzione.
L’avvicinamento riprende grazie a visite ufficiali, nelle quali i problemi economici vengono divisi da quelli politici. Per volontà di
Gorbaciov, le timide aperture del 1982-1985, portano ad una vera e propria riconciliazione fra Cina e Urss, coronata dall’incontro fra
Gorbaciov e Dieng Xiaoping nel 1989. Gorbaciov sa che per continuare questo avvicinamento deve accettare delle concessioni chieste
da Pechino:
-ritiro sovietico dall’Afganistan
-ritiro delle truppe dalle frontiere di confine e accettare la divisione fra stati lungo il corso dei fiumi Amur e Ussuri
-ritiro dell’appoggio alla politica del Vietnam in Cambogia [ritiro truppe vietnamite, formazione di un governo di coalizione che
comprenda i Khmer rossi, sotto la presidenza del principe]
Dunque, Gorbaciov annuncia un ritiro parziale da Mongolia e Afghanistan e accetta di fissare la frontiera lungo i due fiumi.
L’eliminazione dei primi due ostacoli permette la ripresa dei negoziati. Riguardo alla Cambogia, dove l’URSS sostiene il partito dei
Vietnamiti e del governo che essi hanno installato a Phnom Penh - mentre la Cina appoggia il movimento di resistenza, ovvero la
branca comunista Khmer rossa, l’URSS favorisce gli incontri fra il primo ministro del governo di Phnom Penh e il principe capo della
resistenza antivietnamita; nel 1987 Hanoi annuncia il ritiro unilaterale delle truppe vietnamite. Quando ancora il conflitto in Cambogia
non era finito, la Cina, a fine 1988 prende l’iniziativa di un vertice cino-sovietico. Questa fretta si spiega forse con la paura di non
essere considerata nei trattati di pace in Cambogia, forse con il deisderio di Deng Xiaoping di concludere al meglio il suo mandato o
forse con la volontà di stringere subito rapporti con Gorbaciov del quale ammiravano la politica di riforme. L’incontro al vertice fra
Gorbaciov e Dieng Xiaoping nel Maggio 1989, a causa dell’esplosione della protesta in Piazza Tien-an Men, non ottiene la risonanza
che avrebbe dovuto avere e segna il declino di Deng Xiaoping. Tuttavia, a livello internazionale, nonostante la questione cambogiana
non sia ancora risolta, segna il culmine della normalizzazione già compiuta; La smilitarizzazione alla frontiera continua, la
cooperazione si rafforza nei campi dell’educazione, dell’economia e della tecnologia, e l’URSS si dimostra più attenta alle
preoccupazioni geopolitiche della Cina (soprattutto nella penisola indocinese). A questo proposito, l’avvicinamento cino-sovietico
appare come un fattore determinante che permette alla Cina di emergere come potenza regionale.
Negli anni ’90 in Cina si ha grande slancio economico, urbano e rurale, tuttavia ineguale: grande nelle zone costiere e talvolta
inesistente nelle province del centro e dell’ovest. Questo viene considerato il decennio glorioso cinese, nonostante Tien-an Men, il cui
ricordo è continuamento occultato dalla Cina e tende dunque a cancellarsi. Esso viene accompagnato da mutamenti sociali i quali
hanno però natura ambigua; si trova iniziativa e autonomia nel mercato mentre si torna a tradizioni e poteri arcaici, sfavorevoli
all’emancipazione femminile. Dunque, il dinamismo economico, si contrappone spesso ad un immobilismo politico. Il regime è
cambiato, è privo di fondamenti ideologici e corroso dalla corruzione ma tuttavia riceve legittimazione grazie all’aumento dello stile di
vita della maggioranza della popolazione.
La Cina supera bene la crisi asiatica del 1997-1998. Il rifiuto di svalutare lo yuan evita inflazioni e instabilità monetaria; inoltre
l’indebolimento delle altre potenze asiatiche (Indonesia, Giappone, Corea del sud) favorisce l’espansione cinese su scala regionale e
mondiale. Molte incertezze, tuttavia, continuano a pesare sul futuro della Cina, sul suo sviluppo economico ancora fragile, sulla sua
identità culturale minacciata dagli imperativi della modernizzazione e sul suo sistema politico.
1. Lo slancio economico
La riforma incompiuta
La grande crescita del 1992-1998, ha nascosto alcuni ostacoli contro cui rischiava di scontrarsi. Il settore industriale pubblico infatti era
in decifit cronico; le riforme lanciate negli anni ’80 di fiscalizzazione, sistema di responsabilità dei gestori, leggi sulla libertà di
assunzione e licenziamento, sono poco e mal applicate. Il settore pubbico funziona in perdita con con 180 milioni dipendenti agganciati
ai privilegi; sopravvive grazie a sovvenzioni e crediti bancari che ha portato ad un enorme debito. Zhu Rongji decide così di limitare le
sovvenzioni e prestiti bancari accordati alle imprese di Stato e riesce a far diminuire l’inflazione. Sempre Zhu Rongji affronta la riforma
della proprietà; essa prevede la trasformazione delle imprese pubbliche in società per azioni
A partire dall'autunno 1998, l'economia cinese da' numerosi segni di debolezza. L’accresciuta competitività dei paesi del sud-est
asiatico, fanno rallentare la crescita del PIL e dell'esportazione; la domanda interna cala, si accumulano gli stock invenduti, aumenta la
disoccupazione e gli investimenti di stranieri diminuiscono del 56%. Moltissimi contadini emigrano da una provincia all'altra in cerca di
lavoro. La Cina si oppone al decentramento e alla riduzione del ruolo delle imprese di Stato; si ha l'impressione che la riforma sia
sospesa. Il governo preferisce ritornare ai vecchi metodi di controllo: fissazione dei prezzi, moltiplicazione delle barriere doganali non
tariffarie, limitazione degli investimenti stranieri esclusi da certi particolari settori.
Mentre negli anni ‘80 i riformisti temevano soprattutto l'opposizione della fazione conservatrice del partito, oggi sembrano invece
preoccupati di evitare le manifestazioni di malcontento sociale.
Molti studiosi si chiedono se la Cina degli anni ‘90 é ancora comunista? La risposta è si, fuori da ogni dubbio.
La Cina è uno dei rari paesi in cui, all'alba del 21º secolo, il regime comunista è sempre presente. Essa, anche al momento della
successione di Deng Xiaoping, si è mostrata unita nonostante la divisione in varie frazioni e alle rivalità personali e si è difesa con rigore
contro i suoi nemici.
L'eredità della storia cinese ha un grande peso sulle relazioni internazionali in Asia orientale; la sua vocazione all'egemonia simbolica si
è trasformata in un'aspirazione di dominio militare, territoriale e politico.
Il problema di Taiwan
Negli anni ‘90 il conflitto Cino-Taiwanese si moderato grazie all’intensificazione di scambi economici. La tensione culmina nel 1996
quando l’APL procede al lancio di missili nello stretto di Taiwan con lo scopo di non far candidare Lee, contrario ad una politica di
riunificazione, alle elezioni presidenziali; l'invio di due portaerei americane mette fine a queste dimostrazioni militari.
Le relazioni rimangono comunque tese e la Cina tollera sempre meno l’indipendenza de facto di Taiwan. Nel 1988 Clinton appoggia la
la “Politica dei tre no” cinese:
. no al sostegno e indipendenza di Taiwan
. no alla partecipazione di Taiwan alle organizzazioni internazionali
. no alla coesistenza di due Cine (principio di “una sola Cina”)
Sotto la pressione americana, dunque, Taiwan accetta di riprendere i negoziati con la Cina, ma le posizioni dei due stati non cambian.
Taiwan, sostenendo la democrazia, ritiene impossibile la riunificazione fino a che Pechino reprimerà ogni forma di opposizione politica
e pretenderà di imporre il partito unico; Pechino, da parte sua, si rifiuta di rinunciare all’uso della forza in caso di dichiarazione di
indipendenza da parte di Taiwan.