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Prove di un’antropologia del personaggio

Massimo Bonafin (Università di Macerata)

Prove di un’antropologia del personaggio

Identità relazionale, sintagmatica e paradigmatica

La categoria del personaggio è tornata al centro della riflessione teorico-letteraria, dopo


l’eclissi narratologica, e dunque mi pare meritevole anche di un tentativo di analisi nel quadro di un
approccio che si vuole ‘antropologico’ e che si trova particolarmente a suo agio nel dominio
medievale; come mi pare giusto in un contesto seminariale, quale quello odierno, e come il titolo
del mio intervento dichiara, non sono in grado di proporre una teoria compiuta ma soltanto alcune
prove, alcuni assaggi in questa direzione.
La critica formalistica e strutturalistica – da Propp a Lotman, passando attraverso
Tomaševskij e Bremond – aveva in larga misura ridotto il personaggio a una funzione
dell’intreccio, scambiando la sua identità con il suo ruolo narrativo, appiattendolo sulle sue azioni.1
Già alla fine degli anni settanta del XX secolo Seymour Chatman propugnava una teoria aperta del
personaggio, riconoscendo che il ruolo che un personaggio interpreta e le parole con cui è
rappresentato nel testo non bastano a spiegare le implicazioni, le inferenze e le interpretazioni che il
pubblico legittimamente ne trae.2 In effetti, noi ricostruiamo come sono i personaggi piuttosto che
che cosa sono e/o fanno, e così «la loro personalità rimane aperta, soggetta a ulteriori congetture e
arricchimenti, analisi e revisioni» (Chatman 1981, p. 123), non diversamente da quanto accade con
le persone reali. 3 Si può dunque far consistere lo statuto del personaggio in un paradigma di tratti,
laddove tratto individui una «qualità personale relativamente stabile e costante» (ivi, p. 130),
ovvero il modo distinto e durevole per cui un individuo si distingue da un altro, un sistema di
abitudini (gesti, azioni, frasi ripetute) interdipendenti, che le narrazioni richiedono al pubblico di
riconoscere come «sintomi di determinati tratti» (ivi, p. 126).
Si fa strada in queste riflessioni una concezione non più ontologica o proprietaria del
personaggio, ma una concezione modale, cioè un approccio che punta a individuare i modi di essere

1
Ma restando prigioniera di una concezione proprietaria del soggetto, come fa notare Giovanni Bottiroli (2001,
p. 17): che il personaggio sia definito a partire da elementi, tratti, caratteristiche psicologiche o morali (che ha, che
possiede) ovvero da atti e comportamenti che pone in essere (ciò che fa) non cambia la sua natura cosale, reificata, di
ente fornito di certe proprietà.
2
«Molto spesso ricordiamo vividamente dei personaggi inventati, ma non una sola parola del testo dal quale
provengono» (Chatman 1981, p. 122).
3
Perciò si capisce che per un teorico della letteratura come Bottiroli (2001, p. 15) la nozione di personaggio
appaia «strettamente legata al dibattito sulla soggettività, sull’identità personale, e sul concetto stesso di “identità”».

Massimo Bonafin – Padova 27-28 settembre 2007


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del personaggio, attraverso le sue relazioni sintagmatiche con gli altri personaggi del testo in cui
agisce.4
Definire l’identità del personaggio a partire dal sistema di relazioni che lo lega agli altri
personaggi di un’opera, dalla dinamica delle identificazioni possibili, 5 presuppone una unicità,
un’individualità, una soggettività che è senz’altro appropriata nel contesto letterario moderno e che
si manifesta – o si aggrappa – al nome proprio,6 ma porta forse a trascurare l’aria di famiglia che
spesso un personaggio ha con altri suoi simili presenti in altri testi: una relazione ‘verticale’ o
‘paradigmatica’ con personaggi di altre opere, epoche, lingue e culture, con i quali condivide
caratteristiche che lo rendono subito riconoscibile dal lettore, in quanto, in un certo senso, replica di
un tipo già noto e codificato nella sua enciclopedia.
In rapporto all’intreccio narrativo, poi, l’ottica strutturalistica è ormai ribaltata: argomenta
infatti Cesare Segre che, se si considera il personaggio come «un fascio di attitudini e di tratti
caratteriali, deducibile dai suoi atteggiamenti e comportamenti, oltre che dalle sue parole esplicite e
dai mimetismi o dalle menzogne operati con le parole», le azioni del quale non ne esauriscono del
tutto l’identità, allora lo schema di una narrazione letteraria «potrebbe essere qualcosa come:
struttura del personaggio → iniziative del (o ostacoli incontrati dal) personaggio → struttura
risultante del personaggio» (Segre 2006, p. 7).7 Che sia il personaggio a determinare l’intreccio
attraverso uno o più dei suoi modi di essere, il caso del trickster lo esemplifica assai bene: la sua
comparsa suscita una trama fatta di aneddoti indipendenti, connessi non tramite relazioni causali
bensì tramite il rinnovarsi delle astuzie e l’incessante vagabondare dell’eroe imbroglione.
Si può a questo punto ripensare all’identità del personaggio 8 lungo due assi, quello
orizzontale delle relazioni con gli altri personaggi all’interno del testo, secondo una dinamica di
‘identificazioni’ e ‘differenze di famiglia’ come direbbe Bottiroli, e quello verticale delle relazioni
con altri personaggi accomunati invece da un’aria di famiglia, in quanto attualizzazioni di tipologie
già codificate nella cultura; inoltre, i due assi, quello sincronico e quello diacronico, guadagnano in

4 «L’identità di un personaggio è legata al sistema dei personaggi di un determinato testo. Dunque l’identità è

un fenomeno relazionale, non necessariamente e non sempre circoscrivibile all’interno di un “gruppo di parole”»
(Bottiroli 2001, p. 13).
5
Di personaggio come «possibilità di identificazione» non solo e non tanto per il lettore ma anche e proprio
per gli altri personaggi, parla appunto Bottiroli (2001, p. 13).
6
I nomi propri sarebbero deittici ipostatizzati e i personaggi «degli insiemi di tratti attaccati a un nome», al
nome di uno che non esiste, secondo Chatman (1981, pp. 136, 143).
7
L’idea di una struttura risultante del personaggio implica che egli subisca un’evoluzione nel corso del
racconto – il che si adatta bene alla narrativa moderna – ovvero che il suo ‘paradigma di tratti’ non sia chiuso, ma
aperto, cioè che egli ne possa acquistare, o perdere, o commutare, qualcuno man mano che procede nell’intreccio: il che
suggerisce che si debba guardare all’identità del personaggio non solo come un’identità relazionale (Bottiroli) ma anche
come un’identità combinatoria e mobile, variabile lungo una scala, fino al limite (asintoto) di una non-identità (vedi
appresso le riflessioni di Ferdinand de Saussure).
8
«Il personaggio è un’identità» per Bottiroli (2001, p. 25).

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efficienza se definiscono l’identità attraverso un insieme di tratti non invariante e stabilito a priori
nel numero, nelle categorie e nelle possibilità di combinazione, bensì aperto e flessibile. In tal modo
sarà possibile considerare di volta in volta il personaggio sia in rapporto al testo particolare in cui si
muove, sia come esecuzione e/o trasformazione di un modello preesistente nello sfondo
intertestuale e interdiscorsivo (ovvero nel repertorio culturale).

Personaggio-segno, combinazione flessibile di tratti

Un contributo importante alla riflessione sull’identità del personaggio, e preziosa sia per
l’approccio antropologico sia per l’applicazione medievale, viene dalle note di Ferdinand de
Saussure (1986) sulle leggende germaniche e dalla rilettura critica fattane poi da D’Arco Silvio
Avalle (1995). Saussure considera la leggenda, di cui gli interessa soprattutto il meccanismo di
produzione e trasmissione a partire da fatti di cronaca, storia e folklore, come costituita da una serie
di personaggi-simboli (o segni), 9 la cui identità non può essere fissata dal momento in cui sono
messi in circolazione, «versati nella massa sociale» – che equivale a dire esistenti come simboli, 10
giacché proprio dei simboli è di essere il risultato preterintenzionale di un’evoluzione, che ha creato
o alterato un rapporto fra elementi preesistenti, un prodotto del tempo e della tradizione orale.11 Se
ciascun personaggio è un simbolo, cioè un segno (un segno culturale di applicazione letteraria,
direbbe Avalle) 12 – Saussure fa l’esempio della runa, di esso possono variare il nome, la posizione
relativa, il carattere, la funzione e gli atti (1986, p. 31): e se un nome è trasferito, può di
conseguenza essere trasferita anche una parte delle azioni, e viceversa, e tutto l’intreccio può
cambiare per questo.
Saussure critica pertanto l’idea di affidarsi ai nomi propri nello studio della leggenda,
piuttosto che ai ruoli o al carattere dei personaggi, perché la tradizione che genera le leggende non
attribuisce al nome più stabilità o importanza di una qualunque altra componente del personaggio. 13
Ciò sarebbe rivelato, tra l’altro, dai casi di trasferimento del nome dal padre (o dal nonno) al figlio,

9
«Per simbolo Saussure intende il segno, in quanto facente parte di una leggenda; in questo campo esso si
identifica di norma con il personaggio» (Avalle 1995, p. 86).
10
È il senso che emerge dalla nota 3958.4.1° risv. cop. – 1r secondo la numerazione Marinetti-Meli in
Saussure (1986, pp. 30-31).
11
Qui mi riferisco alla nota 3958.4.63v-64r (in Saussure 1986, pp. 76-77). Più avanti Saussure formula la sua
idea sulla genesi di un simbolo nella leggenda a partire da modificazioni intervenute nella «trasmissione semiologica»,
senza che ci sia stata alcuna «intenzione di simbolo» (3958.6.49r, ivi, p. 129); anzi, la parola pura, il «semplice errore di
trasmissione» può produrre il simbolo (3958.6.45v, ivi, p.132).
12
Ma sarebbe preferibile commutare la definizione avalliana in “applicazione letteraria di un segno culturale”.
13
È la nota 3958.4.66r di Saussure (1986, p. 79).

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di riduzione di due personaggi a uno (per identità onomastica) o, viceversa, di sdoppiamento di un


personaggio, di deformazione, di etimologia, e dall’uso germanico dei composti: a differenza delle
persone reali, che possono anche cambiare nome, ma la cui identità è assicurata dalla costanza degli
altri caratteri, ogni tratto del personaggio leggendario può «dissiparsi al primo soffio con altrettanta
facilità del suo nome».14
Saussure cerca di ovviare alla insufficiente riflessione filologica e linguistica sull’identità di
esseri inesistenti, come una parola, una persona mitica, o una lettera dell’alfabeto, cioè differenti
forme del segno, osservando come l’incapacità di mantenere un’identità costante (da parte di questi
segni) non è dovuta al passare del tempo bensì è costitutiva: quell’unità che noi presupponiamo (nel
personaggio, p.es.) non esiste in alcun momento, è la combinazione fuggevole di due o tre idee, una
messa insieme temporanea di tre o quattro elementi o tratti (i soli esistenti), la quale fintantoché
dura ci dà l’illusione di un’identità unitaria.15
Dopo aver formulato il notevolissimo «principio dell’equi-indifferenza dei tratti costitutivi
di una figura mitica» (3958.8.22v, ivi, p. 194), col corollario della negazione che uno qualunque di
essi possa sussistere più a lungo degli altri (ivi, p. 306), Saussure sembra attenuare una teoria tanto
radicale, sulla base circoscritta dell’esperienza maturata nello studio delle leggende germaniche,
riconoscendo che alcuni elementi possiedono un certo grado di persistenza (ténacité): in ordine
decrescente, il ricordo degli spostamenti, il titolo di re, il carattere morale degli individui, certe
creature fantastiche, l’avversario di un combattimento, il nome degli individui, la differenza fra
padre e figlio.16 Resta tuttavia acquisito che il nome, le azioni, il carattere, l’ambiente, o altri tratti
del personaggio non possono costituire un criterio sufficiente per identificarlo, perché ciascuno di
essi può essere stato trasformato e trasferito, e la questione dell’identità può non avere risposta (ivi,
p. 312).
Per la teoria del personaggio, il contributo indiretto di Saussure si può articolare in due
momenti: da un lato, si ribadisce la priorità del personaggio sull’intreccio, perché «le leggende
dipendono dalla libera combinatoria dei materiali su cui si fondano i personaggi» (Avalle 1995,
p.100), sono delle variabili dipendenti dalle continue trasformazioni di questi ultimi, vere e proprie
variabili indipendenti, nonché centro d’irradiazione degl’intrecci narrativi. D’altro lato, però,
l’identità del personaggio risulta in movimento, prodotto di una combinazione libera di tratti

14
Riprendo la nota 3958.7.35r (ivi, p. 141), non utilizzata da Avalle. Altrove Saussure ribadisce che
l’individuo semiologico non ha mezzo di provare di essere rimasto lo stesso, perché si fonda su un’associazione libera
(3958.8.21r, ivi, p. 192).
15
L’esito radicale di queste note (3958.8.21r e 21v, ivi, pp. 191-92), l’inesistenza del segno, è stato colto
appieno da Avalle (1995, p. 128).
16
L’elenco si trova nelle note 3959.10.17 e 3959.11 (ivi, pp. 306 e 314).

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equivalenti, non riducibili all’ovvia gerarchia di ‘invariabili’ e ‘varianti’ né a un paradigma rigido


che includa un numero finito di elementi necessari e sufficienti:17 occorre piuttosto pensare a
un’identità mobile, o flessibile, che ne assicuri un certo grado di riconoscibilità e di durata nel
tempo e nella varietà dei contesti, 18 prodotta da associazioni variabili e temporanee di più ‘tratti’ e
modi di essere.

Genesi del personaggio medievale

Il personaggio che la narrativa del Medioevo volgare ci presenta, nella sua varietà di generi
e di testi, ha nondimeno alcune caratteristiche comuni che lo differenziano a prima vista dal
personaggio della tradizione romanzesca moderna. È scontato ribadire la forza omogeneizzante
della cultura trasmessa nella scuola, d’impronta latina ed ecclesiastica, quanto la parallela invadenza
di una cultura orale e folklorica, latrice di modelli antropologici e di archetipi dell’immaginario. Il
risultato dell’azione concorrente di questi due fattori sono personaggi alquanto tipizzati che «non
hanno una fisionomia riconoscibile» né «una specifica psicologia che li individualizzi», ma che «si
qualificano in maniera inconfondibile attraverso i propri atti» (Varvaro 1998, pp. 29-30). A ragione
è stato anche osservato che «tutti i personaggi della letteratura medievale, dalle vite dei santi ai
romanzi, dalle chanson de geste al Roman de Renart hanno un passato che si suppone noto, e
altrettanto noto è il loro futuro» (ivi, p. 39) e che parimenti «l’universo narrativo in cui si colloca
ogni singolo testo è esso stesso noto, dato, e rafforza la notorietà del personaggio che vi si muove»
(ivi, p. 40).19 Tanto gl’intrecci quanto i personaggi sono già dati, sono patrimonio di una cultura
comune, pronti a essere riattualizzati ogni volta come quelli del mito.
In rapporto al personaggio del romanzo moderno, non c’è dubbio che i personaggi medievali
appaiano statici nonostante le vicende in cui sono coinvolti, «fedeli alla loro natura definibile con
una parola», come scrive Segre (2006, p. 10) a proposito dei protagonisti della storia di Tristano e
Isotta. È appunto la ‘storia’, presupposta nota come un fondale mitico, a governare tanto l’intreccio,
la successione degli episodi non retta da causalità, ma – nel caso dei romanzi di Tristano – dalle

17
Avalle (1995, p. 91) rileva sottilmente una distinzione fra il piano delle categorie generali, che Saussure
chiama ‘caratteri’ o ‘elementi’, e il piano della loro attualizzazione in ‘attributi’ o ‘tratti’ che, combinandosi, danno
luogo al personaggio.
18
Il che sarebbe impossibile se l’alterazione di un solo tratto, come sembra implicitamente suggerire Avalle,
fosse sufficiente a disintegrare l’identità del personaggio.
19
Scrive ancora Alberto Varvaro (1998, p. 41) che «il narratore medievale, in certo modo, non narra ma ri-
narra, non disvela un personaggio che ha costruito ma richiama quel personaggio che è già costruito. Ne discende un
gioco quanto mai caratteristico tra leggenda e testo, tra tradizione e racconto.»

Massimo Bonafin – Padova 27-28 settembre 2007


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astuzie e dalle finzioni per protrarre la relazione degli amanti, quanto i personaggi, che «dati una
volta per tutte, precedono l’eventuale effetto degli episodi.» (ivi, p. 16)
Proprio questo statuto del personaggio medievale aumenta il rendimento di un confronto
condotto non tanto sull’asse sintagmatico delle relazioni con gli altri personaggi all’interno di uno
stesso testo,20 quanto sull’asse paradigmatico che unisce le diverse attualizzazioni di uno stesso eroe
(Tristano, Orlando, Lancillotto, ecc.) nei testi che narrano le sue avventure, ma altresì che unisce su
un piano ulteriore personaggi differenti che partecipano di tratti (attributi, modi di essere) comuni;
su questo secondo piano si verifica sia il valore delle riflessioni saussuriane sull’identità che la
persistenza e la forza modellizzante di talune figure archetipiche. La genesi del personaggio
medievale è, assai più che per il personaggio moderno, davvero ‘avvolta nella leggenda’, o, per
dirla con Avalle (1995, p. 128), il prodotto di un’attività combinatoria «esercitata all’interno di
aggregati o nebulose di elementi»,21 in cui può essere difficile distinguere l’apporto dell’invenzione
da quello della storia e della memoria culturale.

L’archetipo esemplare dell’Imbroglione

Consideriamo un eroe culturale multiforme universalmente diffuso nelle mitologie di


popolazioni d’interesse etnologico dalla Siberia all’Australia, dall’Africa all’America, la cui
fisionomia è stata riconosciuta anche fra gli dèi della Grecia e dei Germani: il trickster, il demiurgo
imbroglione che talvolta contende il ruolo al Creatore nelle cosmogonie primitive. 22 «Pochi sono i
miti di cui si possa affermare con altrettanta sicurezza che appartengono alle più antiche forme
d’espressione dell’umanità», ha scritto Paul Radin (1979, p. 25). La sua arcaicità è rivelata
dall’ambivalenza profonda e radicale (serio demiurgo del mondo così com’è e comico violatore
delle regole e dei confini stabiliti), dall’aspetto zoomorfo che si alterna a quello antropomorfo, dalle
sue pulsioni primordiali («l’appetito famelico, l’umore vagabondo e la sessualità sfrenata», Radin
1979, p. 172) e dalla loro persistenza.23 Gli inganni e le burle che danno sostanza alle sue imprese,

20
Tanto più che, come rileva Varvaro (1998, p. 40), «il personaggio si colloca … in un universo narrativo dato,
che tende a dilatarsi con ambizioni enciclopediche: da mondo di quel romanzo o di quel poema, esso diventa il mondo
del romanzo arturiano o il mondo dell’epica carolingia.»
21
Metodologicamente si deve poi distinguere la genesi del personaggio dall’origine dei singoli tratti (p.es.
nome, posizione, carattere, azioni, aspetto, ecc.), ciascuno dei quali può essere portatore di un significato.
22
Sul ruolo di questa figura nel dualismo religioso si legga l’opera di Ugo Bianchi (1958).
23
Secondo Jung (1979, p. 185) «le caratteristiche arcaiche si dimostrano di regola tanto più conservatrici e
tenaci quanto più sono antiche».

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predisponendole a essere serializzate in una catena di aneddoti potenzialmente illimitata,24


esemplificano quel tratto della sua figura mitica a cui deve il nome di trickster: l’astuzia, che
tuttavia non è mai disgiunta da una qualche forma di stupidità, evidente quando diviene egli stesso
vittima dei suoi scherzi.
Tanto Carl Gustav Jung quanto Károly Kerényi avevano colto nel briccone divino gli
elementi di un archetipo culturale che ricompare nelle fiabe dello stolto o del sempliciotto, che
ottiene senza sforzo ciò che ad altri richiede uno spreco di energie, nel diavolo ingannatore-
ingannato del folklore, nelle feste dei fanciulli, dei suddiaconi, dei folli, dell’asino della tradizione
cristiana e carnevalesca medievale, nelle figure picaresche della letteratura europea, come pure nel
dio greco Ermes e nella mitologia ad esso collegata: «l’eroe-briccone può essere la fonte di una
letteratura, prima di una letteratura “pre-letteraria”, e poi anche di una letteratura raffinatissima,
dotata di una piena coscienza artistica. Il dio-briccone è la fonte super-individuale di una particolare
concezione del mondo» (Kerényi 1979, p. 230). D’altro canto, Michail Bachtin leggeva nelle figure
del furfante, del buffone e dello stolto tre applicazioni letterarie di un sistema di segni, la cultura
popolare del Medioevo, che ruota attorno all’ambivalenza del riso e della maschera, in cui l’allegra
finzione coglie aspetti del mondo occultati dalla serietà e dalle convenienze sociali; ed Eleazar
Meletinskij riconosceva nel trickster l’antenato di certe figure ambivalenti della narrativa
medievale, 25 degli eroi burleschi e dei sosia comici della letteratura moderna. Già queste
considerazioni, provenienti da studiosi di aree molto distanti, avvalorano l’idea che una figura
mitica come il trickster abbia prodotto una varietà di attualizzazioni, in contesti storici, sociali e
culturali differenziati ed evoluti, le quali sono a loro volta divenute la matrice di un certo numero di
tipi e personaggi letterari. Ciò, aggiungo, è potuto avvenire perché l’identità del trickster è
un’identità mobile o flessibile, nel senso suggerito in precedenza. 26
Ripercorriamo rapidamente le principali determinazioni etnologiche del personaggio in
questione. Si può partire dalla constatazione che «nei cicli narrativi di popoli diversi si costituiscono

24
«Not only does the episodic ciclical form convey the sense of an unfinished, still creative universe: the
incessant wandering of the trickster also reinforces the impression of life without fixed boundaries» annota Jo Anne
Kraus (1990, p. 265).
25
Con parole quasi identiche a quelle di Bachtin (1979, pp. 305, 308), scrive a proposito della genesi della
novella: «I poli fondamentali dell’aneddoto sono l'ingegno e la stupidità, le figure del furbone (il furfante che risale ai
trickster antropomorfi della favola a soggetto animale e del mito) e dello sciocco, che talvolta si confondono nella
figura intermedia del buffone» (Meletinskij 1993, p. 264).
26
Come scrive Bottiroli (2001, p. 36) «un’identità in grado di ospitare la differenza e di tollerare una continua
metamorfosi»: anche se non riferite al trickster le riflessioni di questo teorico della letteratura sulla flessibilità, la virtù
strategica per eccellenza, che «oltre a svolgere il ruolo di motore delle divisioni, indica un tipo di intelligenza, di
razionalità» (ivi, p. 34) richiamano assai bene il discorso sulla metis greca, sull’intelligenza astuta, che è sotteso – anche
se spesso non tematizzato esplicitamente – a quasi tutti i discorsi sulle diverse epifanie etnologiche e letterarie del
personaggio dell’imbroglione.

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come sfera unitaria certe tipiche funzioni e certe tipiche qualificazioni», basate «sull’ostentazione
della contraddittorietà a tutti i livelli e su tutti i piani»;27 il trickster è identificabile, come archetipo
culturale, nella misura in cui appaiono solidali in un certo personaggio determinati predicati,28 che
indicano ciò che è o ciò che fa, a prescindere dal nome, dall’aspetto o dai contesti locali che lo
individualizzano. Una «impressionante ricorrenza di tratti fondamentali» connota questi personaggi
in luoghi diversi del mondo (Miceli 1984, p. 37): tratti pertinenti a quadri culturali affini, 29 come
l’impurità, l’indecenza, l’eccesso, l’infrazione di norme e consuetudini, e con una particolare
insistenza sul sesso, sugli escrementi, sulla sporcizia, che marcano una ‘corporeità’ intrinseca al
trickster . Una condizione di perenne liminalità, compendio di ogni possibile disordine e
ambivalenza, si rileva anche nell’aspetto indeterminato, polimorfo, inconfigurabile, nonché nel
trasformismo di molti di questi personaggi (ivi, pp. 45, 74).30
Il trickster si presenta spesso come un inventore di trappole, come «un tecnico dell’appetito
e degli istinti»,31 sembra non avere un comportamento proprio, ma sa imitare quelli degli altri, il che
gli conferisce un indubbio vantaggio, grazie alla maggior flessibilità e capacità adattativa al mutare
delle circostanze.32 Sa mentire e creare mondi fittizi, per ingannare i suoi antagonisti; sa cercare e
trovare vie di ingresso e vie di fuga, oppure trasformarle in trappole; sa sfruttare le opportunità a
suo vantaggio, ma anche impedirle a danno degli altri, perché possiede l’intelligenza necessaria per
operare col caso.33 È a suo agio con tutto ciò che è fuori posto, in disordine, sudicio, materiali di cui
si serve per creare questo mondo nella sua aperta incompiutezza, e, in quanto tematizza questi
aspetti nelle sue storie, permette una sorta di manipolazione ritualizzata dello ‘sporco’ (di ciò che la

27
Una buona sintesi sull’argomento è quella di Silvana Miceli (1984), da cui traggo le citazioni (ivi, pp. 23-
24). Già Kerényi (1979, p. 207) aveva notato che eliminare la contraddizione dal trickster equivaleva a disintegrarlo.
28
Nessuno dei quali, beninteso, è necessario e sufficiente: solo il variabile raggrupparsi di più caratteristiche o
attributi, insieme con l’iterazione delle avventure di cui è protagonista, possono rivelare l’identità del Briccone.
29
Nella concettualizzazione di Saussure-Avalle sarebbero i due piani delle categorie generali e delle loro
realizzazioni particolari.
30
Il trasformismo, la capacità di metamorfosi, che si desacralizza successivamente nel travestimento e nella
maschera.
31
Cito dal bel saggio di Lewis Hyde (2001, pp. 29, 32), che precisa poi: «egli cerca simultaneamente di saziare
il proprio appetito e di deludere l’appetito altrui».
32
Non ha dunque un’identità stabile, un unico modo di essere: cfr. Hyde (2001, pp. 53-55). «Per certi
personaggi multiformi è possibile che non si dia un Sé reale dietro le loro maschere mutevoli, o che esso si trovi
esattamente lì, nella superficie cangiante e non al di sotto di essa. È possibile che vi siano esseri che non hanno
comportamenti propri, ma unicamente i tanti che derivano dalle loro mutevoli facce e dai mutevoli contesti» (ivi, p. 66),
ovvero, aggiungo, dalla pluralità di identificazioni possibili.
33
Di «intelligenza della contingenza» parla ancora Hyde (ivi, p. 112), ma credo che non si possa fare a meno di
riconoscere nuovamente la presenza della metis illustrataci (trent’anni fa) da Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant
(1977) come quella forma di intelligenza astuta che, tra l’altro, permette a chi la possiede di cogliere l'occasione
propizia per avere la meglio sull'avversario. Hyde sottolinea più avanti (ivi, p. 149) gli ingredienti di certe avventure del
trickster : sorpresa, rapidità di pensiero, guadagno improvviso, nonché l’atmosfera di umorismo che le avvolge.

Massimo Bonafin – Padova 27-28 settembre 2007


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società considera indecente) che può avere una funzione stabilizzante, di valvola di sfogo come si
dice, ma anche di catalizzatore di una mescolanza e di un sovvertimento di valori. 34
Il trickster è più di chiunque altro un negatore dell’identità unica e rigida, colui che sfida a
reperire un volto al disotto delle sue molteplici maschere, un attraversatore di confini interni ed
esterni, uno che ama indugiare lungo le vie di accesso, le soglie, i crocevia, laddove si possono fare
incontri e cambiamenti di stato, ci si può perdere e ritrovare. È un personaggio che si trova non a
caso al centro di una narrativa dove coesistono i contrari e che possiamo leggere come esplorazione
nell’immaginario di livelli di coscienza normalmente esclusi dalla vita quotidiana. Se le storie di cui
è protagonista lo lasciano spesso ai margini, sulla soglia (di una casa, di uno status), senza
conclusione, non mancano svolgimenti narrativi che terminano con un parziale addomesticamento,
con un’accettazione delle regole e l’ingresso in società, magari con un ruolo subordinato, oppure
che finiscono con il suo esilio, allontanamento definitivo o neutralizzazione. 35 In ogni caso, come
scrive Hyde (2001, p. 299) «tutti i racconti di trickster … sono esperienze vivificanti di
trasgressione, salutari immersioni nell’ambivalenza ».

Qualche (ovvia) epifania romanza

La peculiarità narrativa delle storie di trickster – che si dipanano in serie di episodi, senza
nessi causali apparenti – manifesta nella linearità del racconto la combinazione temporanea e aperta
dei tratti che lo identificano, dei suoi modi di essere, che a loro volta ricorrendo in differenti
personaggi li fa riconoscere quali applicazioni letterarie del modello, esecuzioni già storicizzate
(nonché desacralizzate) e culturalmente contestualizzate dell’archetipo. Osservo, en passant, che
come non basta un tratto a identificare il personaggio, nemmeno basta un episodio (di inganno) per
dichiarare l’identità del trickster , che sulle sue multiformi imprese deve costruire una vera e propria
carriera.
Quando Bachtin metteva in rilievo le figure del furfante, del buffone e dello sciocco, li
intendeva appunto come protagonisti di forme narrative a tendenza ciclica, di carattere satirico e
parodico, che si riallacciano a figure già note all’antichità e al Vicino Oriente, le cui origini «si

34
Quando «l’ordine attraversa una crisi fondamentale», come dice Hyde (ivi, p. 215), ovvero quando è più
acuto l’antagonismo sociale e politico; «a meno che non pensiamo di aver reso perfetto questo mondo ed essere giunti
alla fine della storia (e soprattutto se lo pensiamo), non possiamo sbarazzarci di coloro che operano con lo sporco. Il
loro operato promette una convivenza più flessibile e meno repressiva, in grado di tollerare e di fare ricorso alle proprie
esclusioni, di ridere dei propri progetti, e soprattutto di adeguarsi alle contingenze che il mondo continuerà ad offrirci»
(ivi, p. 227).
35
Questa triplice tipologia è discussa da Hyde (ivi, pp. 248-249).

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perdono nelle profondità del folklore primitivo» (Bachtin 1979, p. 306). Li accomuna un legame
particolare con la maschera e con i travestimenti, forme di un’estraneità al mondo e alle sue
distinzioni di status, che permette loro di rivelarne le contraddizioni mediante il riso.36 Si potrebbe
dire che rappresentano un livello intermedio fra l’archetipo etnico e i personaggi letterari con
identità più definite. Questi tipi compaiono nella letteratura medievale dei fabliaux, degli
Schwanken, delle farse, nei personaggi di villani astuti, di vagabondi d’ogni risma, nella tradizione
araba, siciliana e giudeo spagnola di Giufà, nel romanzo picaresco, e nella Narrenliteratur
umanistico-rinascimentale, in Till Eulenspiegel, e arrivano a lasciar traccia in Candide e Tom Jones.
Nel Medioevo romanzo la più ampia e significativa collezione di trickster stories appare
senz’altro il Roman de Renart il cui eroe eponimo assomma su di sé un congruo numero di tratti del
modello: lo zoomorfismo, indizio di sicura arcaicità e significativo per la scelta di un animale
culturalmente marginale; la furbizia, che pertiene alla tradizione fiabistica della volpe, ma assurge
ora a dimensioni inedite (trappole e imbrogli che sfruttano la ripetitività istintuale degli altri
animali); il perenne vagabondare dentro e fuori lo spazio organizzato della società; la soddisfazione
degli istinti primari (cibo, sesso) senza riguardo per nessuno; l’irrisione e l’infrazione delle norme
feudali ed ecclesiastiche; e poi l’inclinazione per l’osceno e la scatologia, la violenza gratuita, le
capacità trasformistiche, il commercio con il soprannaturale, la strutturazione a catena degli
aneddoti, imperniati sul tema dell’inganno e intonati sul registro comico.
Un testo alquanto più marginale del Roman de Renart, ma che ne importa e condivide
alcuni elementi, riconducibili appunto alle trickster stories è il lungo fabliau di Trubert: in esso il
protagonista sottopone i suoi cortesi avversari a una serie di scherzi crudeli, che gli danno modo di
esibirsi in prodezze e imbrogli di tipo sessuale, violento e scatologico, ricorrendo a camuffamenti e
travestimenti, che aboliscono i confini fra le classi e fra i generi e, in definitiva, dissolvono
l’identità presunta del personaggio; tutto è calato in una girandola di episodi, che fanno largo spazio
alla parodia degli istituti feudali, cavallereschi e cristiani. 37
Ma le potenzialità narrative e semantiche del trickster non sono appannaggio soltanto della
letteratura satirica e parodica, perché se ne trovano applicazioni anche nella produzione cosiddetta
seria, come dimostra il romanzo di Tristano, attraverso le redazioni frammentarie conservate, che
suggeriscono una composizione a episodi staccati. Tristano vi appare un abile imbroglione, quando
finge di dormire all’irrompere del re nella camera di Isotta, o di voler pregare entrando nella

36
«Queste maschere non sono inventate, hanno profondissime radici popolari, sono legate al popolo dai
privilegi consacrati della estraneità del buffone alla vita e della immunità della parola buffonesca, sono legate al
cronotopo della piazza popolare e al palcoscenico teatrale» (Bachtin 1979, p. 308).
37
Sul Roman de Renart e sul Trubert , in questa chiave, mi permetto di rinviare rispettivamente a Bonafin
(2006, pp. 244-254) e Bonafin (2001, pp. 129-164).

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cappella da cui sfuggirà al castigo che lo attende, o di andare in esilio restando invece in
Cornovaglia, o di essere ferito per non avere rapporti con Isotta Biancamano. Ricorre a vari
travestimenti: da giullare, da mercante, da folle, da lebbroso, da pellegrino in alcuni episodi chiave
del racconto; muovendosi spesso ai confini dei codici e delle norme sociali, ne calpesta gli istituti (il
matrimonio, il vassallaggio). Come i tricksters etnologici, tanto Renart che Tristano possono essere
interpretati, tra l’altro, vuoi come l'espressione letteraria delle potenzialità antagonistiche
dell'individuo nei confronti della società, vuoi come la messa in scena immaginaria della
trasgressione con effetti, e scopi, impliciti di rigenerazione-rinnovamento della norma38.
Si tratta insomma di una figura mitica, quella del Briccone, che ha trovato nella letteratura
etnica molte applicazioni, generatrici a loro volta di una folta progenie letteraria, che ha adattato ai
mutati contesti storici e sociali, nonché ai pubblici cui si indirizzava, un paradigma di tratti aperto e
flessibile, come è stato definito più sopra, eppure dotato di una scalarità sufficiente a identificare
come affini i personaggi che lo condividono.

Riferimenti bibliografici:

Avalle 1995: D’Arco Silvio Avalle, Ferdinand de Saussure fra strutturalismo e semiologia,
Bologna, Il Mulino, 1995.
Bachtin 1979: Michail M. Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979.
Bianchi 1958: Ugo Bianchi, Il dualismo religioso. Saggio storico ed etnologico, Roma,
Edizioni dell’Ateneo, 1983.
Bonafin 2000: Massimo Bonafin, Le maschere del trickster (Tristano e Renart),
«L'immagine riflessa» n. s. 9, 2000, 1/2, pp.181-96.
Bonafin 2001: Massimo Bonafin, Contesti della parodia. Semiotica, antropologia, cultura
medievale, Torino, UTET Libreria, 2001.
Bonafin 2006: Massimo Bonafin, Le malizie della volpe. Parola letteraria e motivi etnici nel
Roman de Renart, Roma, Carocci, 2006.
Bottiroli 2001: Giovanni Bottiroli, Introduzione. Differenze di famiglia , in Problemi del
personaggio, a cura di G. B., Bergamo University Press, Edizioni Sestante, 2001, pp. 11-46.
Chatman 1981: Seymour Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e
nel film, Parma, Pratiche Editrice, 1981.

38
Su questo valore delle storie di Tristano insistono, da prospettive complementari, due contributi recenti di
Bonafin (2000) e Segre (2006).

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Detienne – Vernant 1977: Marcel Detienne – Jean Pierre Vernant, Le astuzie


dell'intelligenza nell'antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1977.
Hyde 2001: Lewis Hyde, Il briccone fa il mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
Jung 1979: Carl Gustav Jung, Contributo allo studio psicologico della figura del briccone,
in Paul Radin – Carl Gustav Jung – Karl Kerényj, Il briccone divino, Milano, Bompiani, 1979, pp.
175-201.
Kérenyi 1979: Karl Kerényj, Epilegomeni, in Paul Radin – Carl Gustav Jung – Karl Kerényj,
Il briccone divino, Milano, Bompiani, 1979, pp. 203-232.
Kraus 1990: Jo Anne Kraus, The Comedy of Paradox: Mythic and Medieval Tricksters in
Narrative, (PhD. Diss.) City University of New York, 1990.
Meletinskij 1993: Eleazar M. Meletinskij, Introduzione alla poetica storica dell'epos e del
romanzo [1986], Il Mulino, Bologna 1993.
Miceli 1984: Silvana Miceli, Il demiurgo trasgressivo, Palermo, Sellerio, 1984.
Radin 1979: Paul Radin, Introduzione all'edizione originale, I Winnebago e il ciclo del
briccone, in Paul Radin – Carl Gustav Jung – Karl Kerényj, Il briccone divino, Milano, Bompiani,
1979, pp. 25-28, 107-74.
Saussure 1986: Ferdinand de Saussure, Le leggende germaniche, scritti scelti e annotati a
cura di Anna Marinetti e Marcello Meli, Este, Libreria Editrice Zielo, 1986.
Segre 2006: Cesare Segre, Personaggi, analisi del racconto e comicità nel Romanzo di
Tristano, in Los caminos del personaje en la narrativa medieval, al cuidado de P. Lorenzo Gradín,
Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2006, pp. 3-17.
Varvaro 1998: Alberto Varvaro, La costruzione del personaggio nel XII secolo , in Il
personaggio romanzesco. Teoria e storia di una categoria letteraria, a cura di F. Fiorentino e L.
Carcereri, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 23-44.

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