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Dialogo di Tristano e di un amico di Leopardi

Il Dialogo di Tristano e di un amico risale al 1832 .E’ l’ultima delle prose delle Operette Morali e
rappresenta una sorta di testamento spirituale del poeta. L’opera vede contrapporsi le
posizioni diametralmente opposte di Tristano, dietro il quale si cela il poeta, e del suo amico.
La scelta del nome Tristano si ricollega sia al cavaliere medioevale Tristano che al romanzo
di Laurence Sterne.

Riassunto ed analisi
L’opera riassume le posizioni filosofiche di Leopardi, in netto contrasto con la cultura del
tempo.
L’amico ha un ruolo limitato, quello di porre domande e di consentire all’amico di esporre le
sue ragioni.

Il racconto inizia quando Tristano annuncia di aver cambiato idea rispetto al suo ultimo libro,
ossia le Operette Morali. Si tratta di un espediente per dimostrare l’inesattezza della filosofia
del XIX secolo. Inoltre, Leopardi, grazie al ragionamento, smonta le tesi di coloro che spiegano
il suo pessimismo in ragione delle sue malattie.

Infatti, il ragionamento del poeta è molto più ampio e riguarda l’umanità in generale. Tutti, 
compresi coloro che godono di buona salute, sono destinati a sperimentare l’infelicità ed il
dolore. In questo dialogo, lo scrittore sottolinea che la natura è matrigna ed indifferente e
quindi causa di dolore ed infelicità.
Tristano chiarisce, anche grazie all’ironia, che l’umanità è condannata alla sofferenza e
all’infelicità. Battuta dopo battuta, l’amico è costretto a rivedere le sue posizioni e a concludere
che la vita è fonte di dolore e tristezza.

Il protagonista preferisce essere coraggioso e non lasciarsi cullare dall’idea che la vita possa
essere felice o bella. Lui non china il capo e non fa finta di essere felice ma affronta la realtà per
quella che è. Tristano al termine dell’opera afferma di provare invidia soltanto per i defunti. In
passato, avrebbe voluto essere un stolto o un presuntuoso ma ora desidera solo la morte. A
rendere la sua esistenza ancora più infelice infatti è il pensiero che la sua vita possa prolungarsi
ancora.
Non è un caso che il Dialogo di Tristano e di un Amico sia l’ultimo
testo delle Operette morali. Esso, infatti, rappresenta una sorta
di summa del pensiero di Leopardi, che lo espone attraverso la
voce del personaggio di Tristano, il cui nome, oltre a rimandare al
celebre protagonista del romanzo medievale Tristano e Isotta, si
riconduce per paretimologia (ovvero, tramite un’etimologia fasulla)
alla parola “triste” (dall’aggettivo latino tristis, triste), quale è
appunto la filosofia del personaggio. Ma la posizione di coda
nell’indice delle Operette morali risulta significativa anche perché
questa prosa si riallaccia per struttura e temi al Dialogo di Timandro
e di Eleandro, ossia all’operetta che chiudeva l’edizione del 1827.
Cinque anni più tardi, Leopardi ha incrementato il numero delle prose
del suo libro e ha aggiunto questa nuova conclusione, senz’altro più
completa e potente, capace di rispecchiare gli ultimi drammatici
sviluppi del suo pensiero e in grado di preannunciare la forza
poetica e filosofica dell’estrema stagione leopardiana, in
particolare la Palinodia al Marchese Gino Capponi (1835), in cui
ritroviamo la stessa tecnica della finta ritrattazione, e La ginestra o il
fiore del deserto (pubblicata per la prima volta nel 1845). Come
nel Dialogo di Timandro anche qui l’alter ego di Leopardi si imbatte
in un altro personaggio che non assume vere e proprie caratteristiche
narrative né ha parte attiva nel dialogo, ma rimane confinato nel ruolo
di far parlare il protagonista, offrendogli il destro
per un’esposizione dei nuclei teorici che stanno alla base
della sua argomentazione. C’è chi, tra i critici, ha scorto dietro
questo Amico gli intellettuali fiorentini della «Antologia», ossia
quei moderati progressisti da cui Leopardi andò sempre più
distanziandosi nel corso degli anni per abbracciare posizioni
ideologiche più radicali e coraggiose.

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