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5.

NARRAZIONE
In questo capitolo ci occuperemo di come i segni si legano per formare narrazioni, ossia per raccontare
storie.
Secondo la narratologia, branca della semiotica che si occupa delle caratteristiche e del funzionamento dei
testi narrativi, l’intera esperienza umana si organizza secondo la logica del racconto in quanto, da sempre,
gli esseri umani hanno raccontato storie ed essi sembrano naturalmente portati a cercare un senso
narrativo nelle cose che li circondano (tendiamo a leggere gli eventi che ci capitano, o che capitano agli
altri, come delle storie attribuendo intenzioni ed obiettivi agli individui coinvolti).

5.1 CHE COS’E’ LA NARRATIVITA’


La narratività è un modo in cui gli esseri umani sono portati ad organizzare i dati sconnessi dell’esperienza
(attributo imposto al testo dal lettore il quale interpreta il testo stesso come una narrativa, cioè lo
narrativizza). Un frammento di esperienza che potrebbe sembrare insignificante acquista un senso nel
momento in cui gli si riconosce un ruolo all’interno di una catena narrativa più ampia.
Ad es. la visione di un passante che borbotta tra sé e sé per strada: forse il passante sta semplicemente
parlando al telefono con l’auricolare  può darsi dunque che il suo comportamento non sia insensato come
potrebbe sembrare.

Allo stesso modo, un fenomeno sensibile (cioè tutto quello che si presenta come costituito all’osservatore
che quindi lo può cogliere attraverso l’apparato sensibile) acquista un senso narrativo nel momento in cui lo
si inserisce in una catena di cause e di effetti.
Ad es. la fotografia di un uomo con il braccio alzato ci spinge a completare l’azione mentalmente,
immaginando che l’uomo stia per colpire qualcuno, che stia chiedendo la parola durante un’assemblea o
che stia chiamando un tax  siamo portati a leggere una storia nell’immagine.
L’effetto Kulesov è un esempio della tendenza umana a creare collegamenti narrativi. Questo dimostra che
l’interpretazione di un segno (o di un testo) dipende dal co-testo, cioè da ciò che viene prima e dopo nel
flusso comunicativo.
Il meccanismo della narratività, che è collegato all’interpretazione della consequenzialità (prima succede x,
poi succide y) come casualità (siccome succede x, allora succede y), trasforma una sequenza cronologica di
eventi in una storia dotata di una trama coerente.
EDWARD MORGAN FORSTER Per storia si intende una narrativa di eventi ordinati della loro sequenza
temporale (ad es. “Il re morì e poi la regina morì”).
Per trama, invece, si intende sempre una narrativa di eventi, ma l’enfasi qui cade sulla casualità (ad es. “Il
re morì e poi la regina morì di dolore”).
La molla della narratività è il principio del “dopo ciò, quindi a causa di ciò”: si tratta di un principio
ingannevole in quanto non è detto che ciò che accade in un tempo x, sia causato da ciò che accade in un
tempo x-1, ma è proprio secondo questo principio che funzionano i testi narrativi, i quali richiedono la
collaborazione di un interprete che tracci collegamenti casuali anche nel caso in cui questi non siano
evidenti.
SCOTT MCCLOUD  mostra il suo concetto di closure che potremmo definire come la saturazione degli
impliciti narrativi di un testo (figura 5.1)

CLOSURE NARRATIVA (figura 5.1)


Se è vero che il segno racchiude la somma dei suoi sviluppi possibili, certi sviluppi sembrano più possibili di
altri: è più probabile che l’aggressore della prima vignetta completi la sua azione piantando l’ascia nella
schiena dell’aggredito, piuttosto che invitarlo a bere una tazza di tè.
Ma la closure narrativa non riguarda solo quei testi che sono stati costruiti per essere rappresentati
narrativamente, come il fumetto e la sequenza cinematografica, ma anche i segni naturali, come l’esempio
del passante che borbotta tra sé e sé  basta attribuire un senso a qualsiasi evento di interesse umano per
far sì che questo sia narrativo.
BREMOND Ogni racconto è un discorso che integra una successione d’eventi di interesse umano
nell’unità di una stessa azione. Non c’è racconto dove non esiste successione, dove non si ha integrazione
nell’unità di un’azione e dove non sono implicati interessi umani.
Bremond allarga i confini della categoria dei testi narrativi, ammettendo testi non narrativi come la
barzelletta o l’articolo di giornale e non include, invece, la fotografia (manca la successione), la pura
cronaca (risponde alla struttura aperta dell’elenco) e la descrizione del funzionamento del motore di una
macchina (è assente il soggetto umano).
Anche i testi che non rientrano nella categoria di Bremond potrebbero essere analizzati con gli strumenti
della narratologia.
In quanto animali sociali siamo portati a raccontare storie a noi stessi e agli altri, trasformando le nostre
esperienze in una sequenza di cause e di effetti, e attribuendo intenzioni agli individui coinvolti nell’azione.

5.2 A COSA SERVONO LE STORIE?


La vita collettiva difficilmente sarebbe possibile se non fosse per la capacità umana di organizzare e
comunicare l’esperienza umana in forma narrativa (BRUNER).
Raccontare storie è una facoltà che ci permette di comunicare con altre persone, sia perché la condivisione
di storie comuni crea una comunità d’interpretazione, sia perché le storie insegnano a “leggere nel
pensiero” degli altri e quindi ad interpretare gli stati mentali altrui e a comportarsi di conseguenza.

Perché usiamo la forma del racconto per descrivere eventi della vita umana? Perché la narrativa ci offre un
mezzo pronto e flessibile per trattare gli esiti incerti dei nostri progetti e delle nostre aspettative.
La spinta della narrativa è data dalla “peripéteia”, come la chiama Aristotele (peripezia = fatto,
avvenimento imprevisto).
L’attesa caratterizza tutti gli esseri viventi.
La sua espressione umana è il progetto: l’escogitare i mezzi appropriati per raggiungere i nostri scopi.
Secondo MILLER, GALANTER e PRIBMAN il progetto è l’unita elementare della consapevolezza e dell’azione
umana. I processi che regolano le nostre azioni intenzionali produrrebbero sequenze organizzate, ovvero i
progetti (o piani, o programmi). Queste sequenze verrebbero registrate per costruire una sorta di
inventario delle situazioni problematiche di interesse umano, che inciderà sulle esperienze successive
dell’individuo.
Il progetto, dunque, sarebbe la struttura minima con cui rappresentiamo le azioni umane.
All’origine di un progetto c’è qualcuno che vuole qualcosa per qualche motivo. Questo qualcuno escogita i
mezzi per ottenere i propri obiettivi, tenendo conto delle difficoltà e degli ostacoli che potrebbe affrontare.
Gli elementi di un progetto sono: un agente, una situazione (o scena) iniziale, uno scopo, un’azione prevista
per raggiungere l’obiettivo in questione e dei mezzi per realizzare questa azione prevista.
L’essere umano, tra l’altro, può essere definito come un animale progettuale, in quanto ciò che ci
contraddistingue è la capacità di anticipare scenari possibili alternativi rispetto a quello attuale e di
manipolare mentalmente tali scenari in vista degli obiettivi futuri.
Ad es. è quanto accade quando mentiamo e ci imbarchiamo tra il mondo dell’esperienza attuale e quello a
cui ci costringe la bugia.
La capacità di formulare progetti ci permette di esercitare un controllo sulla realtà circostante, sia nel senso
che miglioriamo la nostra abilità di anticipare il modo in cui la natura reagirà alle nostre azioni, sia nel senso
che impariamo a prevedere le reazioni degli altri esseri umani alle nostre sollecitazioni.
La facoltà progettuale dell’essere umano è fonte di ansia e di paura in quanto nulla ci turba di più
dell’imprevisto non controllabile.
La cultura fornisce agli individui che si riconoscono in essa schemi (frame o sceneggiature) relativi a
situazioni socialmente stereotipate, in cui i ruoli dei partecipanti e le loro azioni sono prestabiliti.
Ad es. il frame è un’unità di ambientazione dotata di caratteristiche tipiche: “una unità-Ufficio”, ovvero un
insieme di elementi tipici dell’ufficio e di attività tipiche che si svolgono negli uffici.
In base alle ripetute esperienze di simili situazioni comuni, ciascuno di noi ha registrato un numero
elevatissimo di sceneggiature comuni o “regole per l’azione pratica”. Ciascuna sceneggiatura comporta un
certo numero di informazioni che vengono organizzate secondo una sequenza logica e temporale che
assomiglia ad una storia incompleta.
Ad es. la sceneggiatura che corrisponde ad una visita al supermercato, ci sono varie caselle (o slot), del tipo:
prendere il carrello, camminare lungo i corridoi, scegliere gli articoli, riempire il carrello, pagare alla cassa
ecc.
Il repertorio narrativo fornisce un sotto-strato di sceneggiature o di fabule prefabbricate che guidano i modi
in cui i membri di una certa comunità interpretano i comportamenti propri e altrui, attivando aspettative
circa la condotta che è da considerarsi normale in determinate circostanze. Contando sul fatto che queste
aspettative sono condivise anche dagli altri, ci si adegua ad un copione culturale che riduce il rischio di
incomprensioni.
La forza narrativa di una storia risiede nella sua capacità di mettere in scena una violazione della
consuetudine sociale.
Ad es. la storia di una bambina che va a trovare la nonna malata, trasgredendo il divieto, che si comporta in
modo imprudente e ne affronta le conseguenze, è molto più soddisfacente da un punto di vista narrativo
rispetto alla storia di una bambina che va a trovare la nonna malata e, obbedendo alle raccomandazioni
materne, torna a casa sana e salva  questo perché un ingrediente indispensabile delle narrative è la
peripezia, ossia la mutazione repentina degli eventi dovuta al verificarsi di circostanze imprevedibili.
La peripezia pone il soggetto della narrativa di fronte ad un ostacolo di qualche tipo, e all’interprete
interessa sapere come se la caverà il soggetto di fronte alla difficoltà incontrata.
Il grado di narratività che riconosciamo a un testo sarà direttamente proporzionale all’imprevedibilità degli
eventi che esso racconta.
Secondo BRUNER la narrativa è il racconto di progetti umani che sono falliti. Essa ci offre il modo di
addomesticare l’errore e la sorpresa; arriva a creare forme convenzionali di contrattempi umani,
convertendole in generi: commedia, tragedia, romanzo d’avventura, ironia ecc.
5.3 ANALISI DEL TESTO NARRATIVO
La narratologia strutturale è quel filone di studi semiotici che, ispirandosi ai principi della linguistica
saussuriana e agli studi dei formalisti russi, si interroga su ciò che fa di un testo un testo narrativo.
La teoria di fondo è che, al di sotto della diversità degli intrecci, dei personaggi e dei discorsi narrativi, vi sia
un’impalcatura logica comune che permette di fissare certi elementi invariabili che definirebbero la natura
narrativa di un testo. Si tratterebbe, insomma, di portare alla luce la langue narrativa a partire dall’anali dei
concreti atti di parole, ovvero dei singoli racconti. Si tenta così di ricostruire una grande sintagmatica del
racconto, una storia-tipo posta su un piano sufficientemente generico e astratto.
5.3.1 LO SMONTAGGIO DELLA FABULA: dai motivi alle funzioni narrative
I fondatori della narratologia strutturale sono i formalisti russi che, nei primi anni del 900, hanno inaugurato
un modello di testo narrativo inteso come sistema di livelli stratificati: dal più profondo (e costante) al più
superficiale (e variabile).
BORIS TOMASEVSKIJ fece una distinzione tra fabula, ovvero la catena di eventi, collegati sia in senso
temporale sia logico, che compongono una storia ed intreccio, ovvero l’insieme degli stessi eventi nella
successione in cui essi sono effettivamente dati nel testo.
In alcuni generi narrativi semplici, fabula e intreccio tendono a coincidere; al contrario le forme narrative
più complesse giocano sulla possibilità di scarto tra fabula e intreccio.
Un’unica fabula può essere all’origine di numerosi intrecci.
Scavando nelle strutture narrative dei testi, si può rilevare l’esistenza di un unico modello da cui
scaturirebbe una molteplicità di fabule possibile.
Secondo VLADIMIR PROPP, infatti, è possibile trovare una struttura comune a tutte le fiabe di magia (prima
di Propp si era cercato di classificare le fiabe in base agli intrecci; per esempio “gli innocenti perseguitati”,
“l’eroe sciocco”, “i tre fratelli”, “la conquista della fidanzata” ecc.).
PROPP osserva che i sistemi di classificazione basati sull’intreccio sono poco sistematici: la stessa fiaba può
essere inserita in una o in un’altra categoria a seconda del punto di vista prescelto.
PROPP allora decide di cercare i tipi fiabeschi a livello degli elementi primari (particelle minime non
scomponibili), le cui combinazioni danno luogo alla varietà del repertorio fiabesco: per esempio divieto,
infrazione, danneggiamento, partenza, lotta, vittoria, nozze ecc.
Gli elementi minimi invariabili vengono chiamati funzioni narrative (per funzione narrativa si intende
l’azione di un personaggio) e sono considerati come i mattoni primi della storia.
Le funzioni si collocano su un livello più profondo della fabula, perché sono svincolate dai singoli testi che le
contengono, appartenendo al repertorio del genere fiabesco. Si tratta delle azioni che i personaggi
compiono, che compaiono con regolarità in tutte le fiabe della tradizione popolare (al contrario, l’identità
dei personaggi stessi è variabile ed accessoria, così come la modalità delle loro azioni).
Attraverso l’analisi di centro fiabe russe, PROPP individua 31 funzioni che, secondo lui, forniscono l’ossatura
di ogni fiaba.
PROPP osserva come la successione degli elementi sia sempre identica: ciò non significa che ogni fiaba
debba presentare tutte le funzioni, ma che l’ordine delle funzioni rimane costante. In conclusione, tutte le
fiabe di magia russa hanno una struttura monotipica, mentre le diverse combinazioni sarebbe dei sotto-tipi
della struttura fondamentale.
5.3.2 ATTANTI E SCHEMA NARRATIVO CANONICO
Ispirandosi agli studi di Propp, i narratologi degli anni 70 del 900 hanno scavato sempre più a fondo nella
ricerca degli elementi invariabili, fino ad individuare un’unica origine condivisa da tutti i testi narrativi.
(l’ipotesi che vi sia una struttura narrativa comune a tutti i testi ha spinto un gruppo di studiosi, provenienti
da aree culturali diverse, ad applicare la metodologia strutturalista ad una serie di artefatti comunicativi
diversi: racconti, romanzi, testi cinematografici, fumetti, brani musicali, opere pittoriche o architettoniche
ecc.)
Uno degli effetti di queste ricerche è stato allargare la categoria di testo narrativo.
GREIMAS definisce la narratività in termini astratti, quasi algebrici.
Per GREIMAS sono narrativi tutti quei testi che presentano una struttura profonda di tipo polemico-
contrattuale, basata sullo scontro-incontro di due programmi narrativi complementari e opposti (quello del
Soggetto e quello dell’Anti-soggetto), che ad un certo punto si uniscono grazie alla presenza di un Oggetto
di valore comune.
Due percorsi narrativi, quello del soggetto e quello dell’anti-soggetto, si svolgono in due direzioni opposte,
ma caratterizzate dal fatto che i due soggetti mirano ad uno stesso oggetto di valore: si sviluppa uno
schema narrativo elementare, fondato sulla struttura polemica.
PROPP aveva osservato come, oltre alla varietà dei personaggi fiabeschi, si possa individuare una
configurazione di ruoli fissi, articolata in 7 sfere d’azione: la sfera dell’eroe (il protagonista), quella
dell’antagonista, del donatore (di un oggetto che aiuterà il protagonista), dell’aiutante, della principessa
(oggetto delle ricerche dell’eroe), del mandante (colui che invia l’eroe alla ricerca) e del falso eroe.
Le sfere d’azione di PROPP, però, sono ancora troppo legate alla struttura della fiaba per essere applicate
ad altri tipi di testo narrativo: per estendere il modello proppiano ad altri generi narrativi è necessaria una
rielaborazione, che viene svolta da GREIMAS quando rielabora le sfere d’azione e le ribattezza ruoli
attanziali.
I ruoli attanziali (o attanti ) sono dei ruoli sintattici, privi di qualunque specificità (tematica, raffigurativa), e
vanno perciò tenuti distinti dai personaggi che incarnano i vari ruoli attanziali ( o attori).
I ruoli attanziali sono 6 e si collocano su tre assi: asse della comunicazione, asse del desiderio ed asse del
potere.
Soggetto ed Oggetto sono ruoli interdefiniti: non c’è l’uno senza l’altro.
Il Soggetto si definisce per la sua relazione di desiderio (o avversione, che è un desiderio al contrario) nei
confronti dell’oggetto; mentre agli occhi del Soggetto, l’Oggetto è investito di un valore (positivo o
negativo).
Per cui, il Soggetto desidera congiungersi o disgiungersi da un certo Oggetto: l’Oggetto può assumere una
forma concreta (la ricchezza, la principessa ecc.) o astratta (la libertà, la pace ecc.).

L’asse portante di tutta la storia è costituito dall’insieme delle azioni compiute dal Soggetto per realizzare
questa congiunzione (o disgiunzione: nel caso in cui il Soggetto voglia liberarsi di un partner incomodo, di u
incantesimo malefico, di una malattia ecc.).

GREIMAS chiama queste sequenze di azioni mirate al raggiungimento di uno scopo programmi narrativi.

Destinante e Destinatario si collocano sull’asse della comunicazione e introducono la dimensione cognitiva


del racconto. (ad es. Il re manda l’arciere a cercare la principessa: il re è il Destinante, l’arciere il
Destinatario del suo ordine, mentre la principessa è l’Oggetto; dunque l’arciere è sia Destinatario sia
Soggetto).
Il Destinante è colui che rende desiderabile l’oggetto agli occhi del Destinatario-Soggetto, ovvero colui che
investe l’Oggetto del suo valore.
La comunicazione tra Destinante e Destinatario assume la forma del contratto: il Destinante propone una
prova da superare e il Destinatario si assume l’impegno; in cambio del superamento della prova il
Destinante gli prometto un premio (nella fiaba, ad es., la mano di sua figlia o un’immensa ricchezza).§
Si può dunque distinguere all’interno del ruolo attanziale del Destinante, un Destinante manipolatore,
ovvero colui che convince, esorta, obbliga il destinatario ad affrontare la prova e un Destinante giudicatore,
ovvero colui che, alla fine, valuta/sanziona l’operato del Destinatario.
Come per l’Oggetto, anche nel caso del Destinante non è indispensabile che questo ruolo attanziale assuma
una forma fisica concreta.
Può capitare, dunque, che il Soggetto sia il mandate di sè stesso (ad es. nel caso in cui questo si autoimpone
una serie di norme morali).
Infine, Aiutante e Opponente si collocano sull’asse del potere.
L’Aiutante è colui che pone il Soggetto nella condizione di superare la sua prova (ad es. donandogli un
oggetto magico); mentre l’Opponente è colui che ostacola il superamento della prova stessa.

I ruoli attanziali sono sufficientemente indeterminati da non essere vincolati ad alcun genere particolare,
basta che ci sia qualcuno (Soggetto) che vuole qualcosa (Oggetto) per qualche motivo (Destinante) e che,
per raggiungere i suoi propositi, debba fare qualche sforzo (Opponente).
GREIMAS, rifacendosi a Propp, riscontra all’interno del repertorio fiabesco 3 prove che dettano il flusso
dell’azione narrativa.
La prova qualificante coincide con l’acquisizione della competenza da parte del Soggetto che, convocato dal
Destinante-Mandante, si equipaggia dei mezzi necessari per intraprendere il suo programma narrativo (ad
es. l’eroe della fiaba si prepara per affrontare il drago e si dota dei mezzi magici per combatterlo); la prova
decisiva consiste nel vero e proprio scontro tra Soggetto e Anti-soggetto e sfocia nella realizzazione del
programma narrativo del Soggetto (ad es. l’eroe uccide il drago e salva la principessa); infine, la prova
glorificante coincide con la fase in cui l’operato del Soggetto viene sanzionato, positivamente o
negativamente, dal Destinante giudicatore (ad es. il re dà in premio all’eroe la mano di sua figlia).
GREIMAS osserva come la successione delle tre prove si ritrova in tutte le narrazioni (non solo nel genere
fiabesco) e anche in molte delle nostre esperienze quotidiane (ad es. la sequenza “preparazione per
l’esame-interrogazione-voto finale”).
Successivamente, GREIMAS riformula la sequenza delle tre prove secondo lo schema narrativo canonico,
articolabile nella sequenza manipolazione-competenza-performanza-sanzione.
Secondo questo schema, al centro di ogni narrazione c’è una performanza, ovvero una serie di azioni
congiuntive e disgiuntive tra Soggetto e Oggetto, ma prima di congiungersi con il proprio Oggetto di valore,
il Soggetto deve munirsi della competenza necessaria per affrontare il suo compito (in particolare, il
soggetto deve sapere ciò che gli serve per realizzare la performanza e potere affrontare adeguatamene il
suo compito, deve cioè entrare in possesso dei mezzi che gli servono a questo scopo)
Ad es. un candidato politico che si propone agli elettori come colui che cambierà le sorti del suo Paese
(performanza), deve innanzitutto dimostrare di conoscere e disporre dei mezzi necessari per attuare la
trasformazione desiderata (competenza).
Performanza e competenza costituiscono insieme la dimensione pragmatica del racconto, cioè l’azione
narrativa vera e propria.
La dimensione pragmatica dell’atto viene incorniciata dalla dimensione cognitiva del contratto: prima
ancora che si equipaggi della competenza necessaria per realizzare la performanza, il Soggetto deve essere
motivato ad intraprendere il suo compito (fase della manipolazione), deve volere o dovere affrontare la
prova.
In ogni caso, sia che il Soggetto è il Destinante di sé stesso, sia che il Soggetto è spinto all’azione da un
Destinante esterno che funge da mandante, viene stipulato un contratto tra Destinante e Soggetto e solo
alla fine, nella fase di sanzione, la performanza del Soggetto viene valutata dal Destinante giudicatore (ad
es. dagli elettori al momento del voto).
Lo schema narrativo canonico si propone come un modello che rende conto della sintassi narrativa di tutti i
testi, secondo l’ipotesi che esistono delle forme universali di organizzazione narrativa.
GREIMAS elabora un modello semiotico noto come percorso generativo del senso, applicabile ad una
varietà pressoché illimitata di fenomeni culturali diversi.
Nel rappresentare il testo in forma stratificata, GREIMAS adotta la prospettiva della generazione di un testo
e tale modello pensa i livelli come tappe di generazione del senso tra loro connesse secondo procedure di
conversione che da un piano astratto, in cui i valori si articolano secondo le relazioni differenziali,
procedono verso una manifestazione concreta, che progressivamente immette quel reticolo di unità in
forma di tipo sintattico-narrativo e le trasforma poi in allestimenti di tipo tematico-figurativo.
Il percorso generativo organizza una gerarchia di livelli testuali a partire dalle strutture elementare della
significazione (opposizioni semantiche sulle quali si regge il testo, del tipo vita vs. morte o natura vs.
cultura), le quali si articolano nel livello intermedio, costituito dallo schema narrativo canonico e dalla
struttura attanziale e, infine, nelle strutture discorsive che, attraverso l’enunciazione, danno corpo alla
superficie espressiva del testo.
Il soggetto dell’enunciazione attinge al repertorio dei saperi collettivi (stereotipi, ruoli tematici ecc.) per
dare consistenza allo scheletro narrativo (al posto di Soggetti che si congiungono con Oggetti, avremo
burattini che si trasformano in bambini veri, promessi sposi che si ritrovano dopo innumerevoli peripezie,
suffragette che conquistano il diritto di voto ecc.).
E’a livello del discorso che gli intrecci si diversificano, che i personaggi acquistano il loro spessore
psicologico e che il testo manifesta la propria originalità rispetto all’origine narrativa che lo accomuna a
tutti gli altri testi.
5.3.3 FIGURE DEL RACCONTO
Lo schema narrativo canonico è una forma molto scarna, che assume caratteristiche più determinate man
mano che si avvicina a particolari contesti culturali e specifiche situazioni comunicative.
Successivamente, diversi narratologi ritornano all’analisi dei singoli testi o di determinati generi o
sottogeneri di testi (come il romanzo, il genere poliziesco, la barzelletta, l’articolo di giornale, lo spot
pubblicitario, il videoclip musicale ecc.).
Attraverso “la cassetta degli attrezzi”, adatta all’analisi narratologica dei testi, GÉRARD GENETTE
sistematizza diversi concetti distinguendo tra il concetto di storia (la fabula, ossia la concatenazione di
eventi di cui parla il racconto), di racconto (il discorso narrativo, e cioè la manifestazione espressiva del
testo) e di narrazione (l’atto concreto di narrare un racconto).
GENETTE osserva che, fra questi tre livelli, quello relativo al discorso narrativo e cioè al racconto, sia l’unico
ad offrirsi direttamente all’analisi testuale.
Inoltre, a partire dall’idea che il racconto possa essere inteso come l’espansione di un verbo (per cui, ad es.,
l’Odissea potrebbe essere riassunta con la proposizione “Ulisse torna ad Itaca”), GENETTE introduce le
categorie associate all’analisi grammaticale dei verbi (tempo, modo e voce) per impostare lo studio del
racconto.
TEMPO
La categoria del tempo riguarda i rapporti tra il tempo della storia (ovvero l’ordine di successione che gli
avvenimenti hanno nella storia) e il tempo del racconto (ovvero l’ordine di disposizione degli stessi
avvenimenti così come vengono dati nel racconto).
La disposizione cronologica di una storia può essere sconvolta per dare luogo ad anacronie (o salti
temporali), le quali sono suddivisibili in analessi (salti all’indietro, flash back) e prolessi (salti in avanti,
flashforward o anticipazioni).
Nel processo della lettura, il lettore è chiamato a ricostruire mentalmente l’ordine degli avvenimenti.
Inoltre, il racconto può giocare sugli effetti di ritmo, espandendo o contraendo la durata di un “blocco”
narrativo.
Naturalmente, un’espansione (che provoca un rallentamento del racconto) dirige l’attenzione su quel
particolare segmento narrativo (ad es. se si impiegano 20 pagine per raccontare un episodio durato 5
minuti, ciò induce il lettore ad attribuire un maggior peso narrativo a quell’episodio).
A volte, però, l’omissione frettolosa dei dettagli può assumente la stessa funzione: qualora l’episodio in
questione sia determinante (ad es. “la sventurata rispose”), la scelta di liquidarlo con una sola frase
riassuntiva viene interpretata come un caso di silenzio, di riserbo e dunque, come un invito rivolto al lettore
a riempire da sé le parti mancanti.
Per cogliere gli effetti di durata di un testo in prosa, occorre stabilire un rapporto tra la durata variabile dei
segmenti diegetici (i pezzi di storia) e la loro pseudo-durata (la lunghezza del testo) nel racconto.
Ad es. una sola frase come “Lars nacque nel 1903 e morì nel 1980” può coprire un lasso di tempo più o
meno lungo: naturalmente non c’è modo per misurare accuratamente la durata del racconto.
Dunque, il grado zero della durata (che corrisponde all’esatta coincidenza tra la durata della storia e la
pseudo-durata del racconto) non esiste se non come una specie di uguaglianza convenzionale che si
riscontra, per esempio, nel dialogo.
L’ipotetico grado zero (racconto isocrono) è un racconto dalla velocità costante: non appena vengono
introdotte delle accelerazioni (il cui caso estremo è costituito dall’ellissi) o delle decelerazioni (per arrivare
alla lentezza assoluta della pausa, si verificano delle anisocronie, o effetti di ritmo.
La scala, che va dalla massima accelerazione (ad es. “dieci anni dopo…”) alla pausa (ad es. nelle descrizioni),
è graduale, ma GENETTE prova a suddividerla in 4 tipi di effetti di ritmo: pausa (descrizioni), scena
(dialoghi), sommario (riassunti) e ellissi (omissioni).
Infine, la sottocategoria della frequenza riguarda le relazioni di ripetizione fra racconto e storia: la forma più
sfruttata è quella del racconto singolativo, che consiste nel raccontare una sola volta ciò che si è verificato
una sola volta (o nel raccontare x volte ciò che si è verificato x volte); il racconto ripetitivo, consiste nel
raccontare x volte ciò che si è verificato una volta sola (per esempio, variando il punto di vista); il racconto
iterativo, consiste invece nel raccontare una sola volta ciò che si è svolto x volte.
MODO
Le figure di modo riguardano il dosaggio dell’informazione narrativa (quanta informazione viene
trasmessa): una storia può assumere sembianze diverse a seconda della distanza e della prospettiva da cui
si guardano gli avvenimenti.
Qualunque racconto presuppone uno sguardo attraverso cui viene filtrata l’azione narrativa, anche se non
sempre questo sguardo viene reso esplicito dal testo.
La focalizzazione di un racconto può essere più o meno determinata. La focalizzazione zero, secondo
GENETTE, è la forma più tradizionale del racconto, quella del focalizzatore onnisciente che conosce ogni
articolazione della storia, da ogni punto di vista, e ha inoltre la facoltà di entrare ed uscire dalla testa di
ciascuno dei suoi personaggi.
GENETTE distingue anche tra focalizzazione esterna, in cui la prospettiva rimane al di fuori rispetto ai
pensieri dei personaggi e focalizzazione interna, in cui la prospettiva coincide con il punto di vista di uno dei
personaggi ed, inoltre, evidenzia che la focalizzazione interna può essere fissa (quando il punto di vista
dominante si identifica con lo sguardo di un determinato personaggio lungo tutta la durata del racconto),
variabile (ad es. nel romanzo “Madame Bovary” di Flaubert, dove il personaggio focale è prima Charles, poi
Emma e poi di nuovo Charles) o multipla (quando lo stesso episodio viene raccontato attraverso più punti di
vista consecutivamente).
VOCE
Spesso la figura del focalizzatore (“colui che vede”) coincide con quella del narratore (“colui che parla”), ma
tale coincidenza non è necessare o inevitabile.
La voce è l’istanza narrativa a cui fa capo il racconto.
GENETTE osserva come ciascun testo presupponga un “io” che lo enuncia, sia che questo io si palesi
esplicitamente nel discorso sotto forma di marche di enunciazione (ad es. “Per molto tempo, mi son
coricato presto la sera”), sia che si nasconda dietro a forme impersonali (ad es. “Napoleone è morto a
Sant’Elena”).
Applicato all’analisi dei testi narrativi, il concetto di enunciazione riguarda i rapporti che avvengono tra il
racconto e l’atto della narrazione che tale racconto presuppone: se c’è racconto, significa che da qualche
parte c’è qualcuno (un narratore) che lo ha enunciato.
Il narratore, però, non va inteso come la persona che produce fisicamente il racconto, bensì come l’istanza
enunciativa presupposta dal racconto stesso ed inoltre, non è detto che il narratore condivida le stesse
caratteristiche dell’autore empirico (il quale può mascherarsi dietro ad una o più identità che non
corrispondono per nulla alla sua identità quotidiana).
Occorre, perciò, distinguere tra l’autore in carne ed ossa (figura semioticamente irrilevante secondo la
narratologia strutturale) e il ruolo del narratore che si trova iscritto nel testo.
Il compito della narratologia strutturale, alla luce di queste precisazioni, è di estrapolare dalla superficie
discorsiva del racconto indizi che permettono di ricostruire l’identità testuale del narratore, a cominciare
dalla sua collocazione temporale rispetto alla vicenda (tempo della narrazione).
Le strutture grammaticali della lingua impongono di posizionare il tempo della narrazione rispetto al tempo
della storia.
GENETTE distingue 4 tempi della narrazione:
a) Narrazione ulteriore: è la posizione classica del racconto al passato;
b) Narrazione anteriore: è il racconto predittivo, coniugato al futuro, che di solito compare per brevi
segmenti narrativi (ad es. nei sogni premonitori);
c) Narrazione simultanea: è il racconto al presente, contemporaneo all’azione narrativa (tipico del
monologo interiore);
d) Narrazione intercalata: è il racconto narrato al passato, ma che si frammenta e si inserisce fra i vari
momenti della storia, come una specie di reportage più o meno immediato (come accade nei diari e
nei romanzi epistolari). La narrazione intercalata è strutturalmente la più complessa delle tre
perché al suo interno storia e narrazione possono aggrovigliarsi in modo tale che la seconda agisca
sulla prima.
Infine, in una situazione narrativa normale, un narratore extra-diegetico (che si colloca fuori dal mondo
narrato) racconta la sua storia, istituendo così un secondo livello narrativo, che GENETTE chiama diegetico o
intradiegetico.
Tuttavia, può accadere che il narratore stesso appartenga al racconto di qualcun altro: si configura così una
struttura a scatole cinesi dove ogni avvenimento raccontato da un racconto, si trova ad un livello diegetico
superiore a quello dove si trova l’atto narrativo produttore di tale racconto.
Ci possono essere infiniti livelli narrativi, come accade nella nota filastrocca: “C’era una volta un re, seduto
sul sofà, che disse alla sua serva ‘Raccontami una storia’. La serva incominciò: ‘C’era una volta un re (…)’
ecc.”  in questo caso vi è un narratore extradiegetico, presupposto dal testo, al quale fa capo l’intero
racconto; all’interno del suo racconto (intradiegetico), vi è una narratrice intradiegetica (“serva 1”) che
introduce una storia di terzo livello (metadiegetico); all’interno di questo terzo livello, c’è un’altra narratrice
metadiegetica (“serva 2”) che racconta una storia di quarto livello e così via fino all’infinito, o almeno fino
all’esaurimento della pazienza dell’ascoltatore.
Il narratore può essere o meno uno dei personaggi della storia che racconta.
GENETTE distingue le persone del narratore eterodiegetico (assente come personaggio dalla storia che
racconta) e del narratore omodiegetico (presente come personaggio nella storia che racconta).
I due piani (livello e persona) possono essere incrociati.
La situazione comunicativa di ogni discorso implica un io che enuncia ed un tu a cui l’enunciato è rivolto.
PRINCE ha coniato il termine narratorio per riferirsi alla controparte del narratore sul versante della
ricezione (da non confondere né con il narratore empirico, né con il Lettore Modello).
Il narratorio è colui o colei al quale è destinata la narrazione (il re della filastrocca è il narratario della serva,
e per ogni serva-narratrice (livelli 1,2,3 ecc.) c’è un re-narratario dello stesso livello (1,2,3 ecc.).
Qualora il narratore sia extradiegetico, anche il narratario lo sarà, eventualmente comparendo nel testo
sotto forma di istanza di ricezione a cui vengono rivolte allocuzioni dirette (allocuzione: “discorso solenne
tenuto in pubblico”); viceversa, un narratore intradiegetico (come la “serva 2” della filastrocca) chiama in
causa un narratario intradiegetico (“il re 2”).
Talvolta, gli stessi personaggi del livello intradiegetico ricoprono a turno i ruoli di narratori e narratari dei
racconti di secondo livello, scambiandosi i ruoli.
In ogni caso, PRINCE sottolinea che una delle funzioni comunicative del narratario è di costruire un raccordo
tra il narratore ed il lettore (proiettandosi nella figura di “piccoli lettori”, il lettore di Pinocchio si predispone
ad assumere l’atteggiamento infantile prescritto dal testo).

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