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EDIZIONI
328/3 • Concorso Istruttore e Istruttore Direttivo Contabile a n e
Esp n lin
negli Enti Locali - Area Economico Finanziaria Categorie C e D o
Gruppo Editoriale Simone

ELEMENTI DI DIRITTO CIVILE

Questa espansione costituisce un approfondimento


dei contenuti del volume

328/3
Concorso Istruttore e Istruttore Direttivo Contabile
Area economico-finanziaria
ENTI LOCALI categorie C e D
Manuale completo
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Nozioni introduttive
Sommario: 1. Il rapporto giuridico. - 2. Vicende del rapporto giuridico. - 3. Le situazioni soggettive attive. - 4. Le situa-
zioni soggettive passive. - 5. Classificazione dei diritti.

1 Il rapporto giuridico
Si definisce rapporto giuridico la relazione tra due o più soggetti, regolata dal diritto.
Nell’ambito del rapporto giuridico si distinguono:
— il soggetto attivo, che è colui al quale l’ordinamento giuridico attribuisce determinati poteri (diritti soggettivi, po-
testà etc.);
— il soggetto passivo, che è colui su cui incombe una soggezione o su cui grava il corrispondente obbligo.

2 Vicende del rapporto giuridico


a) Nascita del rapporto
Si ha quando un rapporto si costituisce e il titolare ne acquista il diritto. Tale acquisto, in particolare, può essere:
— a titolo originario: se il diritto sorge a favore di un soggetto senza essere stato trasmesso da un precedente titolare;
— a titolo derivativo: se il diritto viene trasmesso da un soggetto (autore o dante causa) ad un altro (successore o
avente causa).

b) Modificazione del rapporto


Ricorre in relazione a determinati fatti, al verificarsi dei quali il rapporto subisce un mutamento, che può consistere
nella limitazione del suo contenuto o nella variazione di un soggetto o dell’oggetto.

c) Estinzione
Si ha quando il soggetto perde il diritto e a tale perdita non corrisponde l’acquisto da parte di un altro soggetto
(es.: rinunzia ad un diritto).

3 Le situazioni soggettive attive


a) Diritto soggettivo: è il potere di agire per il soddisfacimento del proprio interesse, protetto dall’ordinamento giuridico.
b) Potestà: costituiscono dei poteri attribuiti ad un soggetto per la realizzazione di interessi che non fanno capo direttamente a
lui.
c) Aspettativa: è la posizione in cui si trova il soggetto a favore del quale viene maturando un diritto soggettivo.
d) Diritto potestativo: è il potere di modificare, con un atto unilaterale, la situazione giuridica di un altro soggetto che, rispetto a
tale diritto, è in posizione di soggezione.
e) Status: costituiscono un complesso di diritti (e doveri) che fanno capo ad un individuo in relazione alla posizione che esso
occupa in un gruppo sociale.
f) Interesse legittimo: è la pretesa alla legittimità dell’attività amministrativa, riconosciuta al soggetto che, rispetto ad un potere
della Pubblica Amministrazione, si trovi in una posizione differenziata, in virtù di un precedente rapporto di diritto pubblico o
privato (VIRGA).
g) Interessi diffusi: sono situazioni giuridiche attive appartenenti alla generalità dei soggetti di una comunità nel suo complesso
indifferenziato.
h) Interessi collettivi: sono situazioni giuridiche attive appartenenti ad una collettività determinata, la cui tutela è affidata ad un
ente esponenziale.

4 Le situazioni soggettive passive


a) Obbligo giuridico: è il dovere di tenere un comportamento di contenuto specifico, per la realizzazione di un interesse altrui.
b) Dovere generico di astensione: consiste nella situazione giuridica di chi si deve limitare a rispettare una situazione di supre-
mazia altrui.
c) Onere: è il sacrificio di un interesse proprio, imposto ad un soggetto come condizione per ottenere o conservare un vantaggio
giuridico.
d) Soggezione: consiste nella sottoposizione di un soggetto alle conseguenze dell’esercizio dell’altrui diritto potestativo, senza
potere in alcun modo reagire (es.: la posizione di colui che riceve una disdetta, la dichiarazione di riscatto etc.).

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5 Classificazione dei diritti


Tra le più importanti distinzioni in materia di diritti soggettivi ricordiamo quelle tra:

a) Diritti assoluti / Diritti relativi


Diritti assoluti: attribuiscono al titolare un potere che questi può far valere indistintamente verso tutti gli altri soggetti, a carico
dei quali sussiste un generico obbligo negativo di non turbare il diritto stesso.
Diritti relativi: assicurano al titolare un potere che si può far valere solo verso una o più persone determinate, a carico delle quali
sussiste l’obbligo di dare, fare o non fare qualcosa.

b) Diritti patrimoniali / Diritti non patrimoniali


Diritti patrimoniali: tutelano interessi economici dei soggetti.
Diritti non patrimoniali: realizzano interessi di prevalente natura morale.

c) Diritti trasmissibili / Diritti intrasmissibili


Diritti trasmissibili: sono quelli normalmente trasferibili ad altri soggetti.
Diritti intrasmissibili: sono quelli che non possono essere trasferiti ad altri soggetti.

d) Diritti reali / diritti di obbligazione


Diritti reali: costituiscono la categoria più importante dei diritti assoluti ed attribuiscono al loro titolare una signoria
piena (es.: proprietà) o limitata (diritti reali su cosa altrui) su un bene.
Diritti di obbligazione (o di credito o personali): sono diritti relativi e attribuiscono al loro titolare un potere che può
farsi valere solo verso una o più persone determinate, a cui si richiede un particolare comportamento (cd. prestazione).

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I soggetti dell’attività giuridica

Sommario: 1. L’uomo come soggetto di diritto. - 2. La capacità giuridica. - 3. La capacità di agire. - 4. Gli istituti di
protezione degli incapaci: la responsabilità genitoriale; la tutela; la curatela; l’amministrazione di sostegno. - 5. La
sede giuridica della persona. - 6. Le persone giuridiche. - 7. Le vicende delle persone giuridiche. - 8. Le associazioni
non riconosciute. - 9. I comitati. - 10. L’impresa sociale. - 11. Le Organizazioni di volontariato e le ONLUS

1 L’uomo come soggetto di diritto


L’uomo è riconosciuto dall’ordinamento come soggetto del mondo giuridico, capace, cioè, di essere titolare e di
esercitare diritti e doveri giuridici.
La nostra Costituzione, in materia di persona fisica, sancisce due fondamentali principi:
— ogni essere umano, solo perché è persona fisica, è considerato dall’ordinamento anche soggetto di diritto;
— tutti gli uomini hanno uguale grado di soggettività giuridica.
Nel nostro ordinamento, soggetti dell’attività giuridica sono, oltre l’uomo definibile come persona fisica, anche le persone
giuridiche e gli enti di fatto.

2 La capacità giuridica
La capacità giuridica è l’attitudine di un soggetto ad essere titolare di rapporti giuridici, cioè di diritti e doveri.
La capacità giuridica si acquista al momento della nascita con la separazione del feto dal corpo materno, purché
tale feto sia «vivo».
Benché l’acquisto della capacità giuridica coincida, per la persona fisica, con la nascita, la legge riconosce eccezionalmente
alcuni diritti a soggetti non ancora venuti ad esistere, subordinatamente all’evento della nascita:
— ai nascituri concepiti la legge riconosce la piena capacità di succedere a causa di morte (art. 462, 1° comma) e la capacità di
ricevere per donazione (art. 784);
— ai nascituri non concepiti la legge riconosce la capacità di succedere a causa di morte ma solo in caso di vocazione testamentaria
(art. 462, 3° comma) e la capacità di ricevere per donazione (art. 784), sempre che si tratti di figli di persone viventi al tempo
della morte del testatore o della donazione.
La capacità giuridica si perde solo a seguito dell’evento naturale della morte del soggetto.

3 La capacità di agire
La capacità d’agire è l’idoneità del soggetto a costituire, modificare o estinguere la propria situazione giuridica.
La capacità d’agire si acquista con il conseguimento da parte della persona fisica della attitudine a curare da sé
i propri affari e interessi.
Il raggiungimento di tale maturità è fissato dal legislatore al compimento degli anni diciotto (cd. «maggiore età»).
La capacità d’agire è limitata o esclusa anche dopo il compimento degli anni diciotto, se un soggetto si trova in
condizioni psicofisiche che lo rendono (in tutto o in parte) incapace di provvedere ai propri interessi ovvero abbia
riportato particolari condanne penali.

a) L’emancipazione del minore per matrimonio


Si parla di emancipazione per indicare lo status di limitata capacità di agire di cui può essere titolare il minore prima del com-
pimento del 18° anno di età, qualora — avendo compiuto i 16 anni — sia stato ammesso a contrarre matrimonio (per gravi motivi).
Trattasi di un effetto che consegue al matrimonio.
Gli effetti dell’emancipazione, sono:
— la cessazione della responsabilità genitoriale da parte dei genitori;
— l’acquisto di una limitata capacità di agire circoscritta dalla legge agli atti non eccedenti l’ordinaria amministrazione.

b) L’interdizione giudiziale
L’interdizione giudiziale si ha quando colui che si trova affetto da abituale (ovvero permanente) infermità di mente è dichiarato,
con sentenza, incapace di provvedere ai propri interessi.
Con la L. 9-1-2004, n. 6 (v. §4, lett. D) l’interdizione non è più obbligatoria, ma deve essere disposta solo qualora ciò si riveli
necessario ai fini dell’adeguata protezione dell’incapace.

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Dalla sentenza di interdizione deriva l’incapacità totale di porre in essere, da parte dell’interdetto, negozi patrimoniali e familiari.
Tale principio, tuttavia, a seguito dell’emanazione della L. 9-1-2004, n. 6 (v. infra par. 4) non è più inderogabile: la nuova for-
mulazione dell’art. 427 c.c. prevede infatti che il giudice, nella sentenza che pronuncia l’interdizione, possa dispensare l’incapace
dall’intervento o dall’assistenza del tutore per il compimento di taluni atti di ordinaria amministrazione.
Sulla base della sentenza di interdizione, il giudice tutelare nomina, con decreto, il tutore definitivo.
Tutti gli eventuali atti giuridici compiuti dall’interdetto posteriormente al provvedimento d’interdizione sono annullabili su
istanza del suo tutore o dei suoi eredi o aventi causa.
La modificazione e la cessazione dell’interdizione si hanno con la:
— revoca dell’interdizione pronunziata con sentenza del tribunale, su istanza delle stesse persone legittimate a chiedere l’interdi-
zione quando viene a mancare totalmente l’incapacità;
— trasformazione dell’interdizione in inabilitazione o in amministrazione di sostegno: che si verifica quando il giudice, nel revocare
l’interdizione, pronunzi l’inabilitazione, ritenendo l’interdetto non più gravemente infermo, ma nemmeno pienamente capace;
ovvero quando il giudice, d’ufficio o ad istanza di parte, ritenga più opportuno applicare l’amministrazione di sostegno (art. 6,
L. 9-1-2004, n. 6).

c) L’inabilitazione
È la parziale incapacità che ricorre nei casi di:
— infermità abituale di mente non grave da cui sia affetto il maggiore di età e che non sia grave al punto da giustificare l’interdizione;
— prodigalità (abitudine di spendere in modo disordinato e smisurato in relazione alle condizioni economiche del soggetto) o
abuso di bevande alcooliche o di stupefacenti, quando tali pratiche espongono il soggetto o la sua famiglia a grave pregiudizio
economico;
— alcune imperfezioni o menomazioni fisiche, come la sordità o la cecità dalla nascita o dalla prima infanzia, che non siano state
accompagnate da un’educazione correttiva tale da assicurare al soggetto una sufficiente autonomia psico-fisica.

Dal provvedimento d’inabilitazione deriva una incapacità parziale di agire dell’inabilitato.


A differenza dell’interdetto, l’inabilitato conserva un margine di capacità di agire in base alla quale:
— può compiere, da solo, gli atti di ordinaria amministrazione;
— per gli atti eccedenti l’ordinanaria amministrazione, invece, sono necessari l’autorizzazione del giudice tutelare e il consenso
del curatore; tuttavia il giudice, nella sentenza che pronuncia l’inabilitazione, può stabilire che taluni atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore (art. 9, L. 9-1-2004, n. 6, di modifica
dell’art. 427 c.c.; v. infra §4, lett. D);
— per gli atti di disposizione di cui all’art. 375, sono necessari sia l’autorizzazione del tribunale (su parere del giudice tutelare) che
l’assistenza del curatore.
Gli atti eventualmente compiuti senza l’osservanza delle formalità prescritte sono annullabili su istanza dell’ina-
bilitato o dei suoi eredi o aventi causa.

d) L’interdizione legale
L’interdizione «legale» è quella prevista dalla legge (art. 32 c.p.) come pena accessoria per effetto della condanna all’ergastolo
o alla reclusione per un tempo non inferiore ai cinque anni per reato doloso.
L’incapacità dell’interdetto legale concerne tutti gli atti di natura patrimoniale, ma non si estende agli atti aventi carattere
personale o familiare.

e) Incapacità naturale o di fatto (art. 428)


È incapacità naturale l’incapacità di intendere e di volere, dovuta a qualsiasi causa anche transitoria (infermità di mente, son-
nambulismo, suggestione ipnotica, delirio febbrile, ubriachezza etc.). Essa consiste nell’effettiva, reale inettitudine psichica, in cui
viene a trovarsi un soggetto, normalmente capace, nel momento in cui compie un determinato atto. Essendo l’incapacità naturale
uno stato dell’individuo non preventivamente accertato mediante sentenza (come nel caso dell’interdizione giudiziale o della
inabilitazione) si pone il problema di tutelare la persona che in buona fede ha contrattato con l’incapace naturale.
Al riguardo il legislatore ha differentemente disciplinato diverse ipotesi:
— per gli atti unilaterali: l’annullabilità è ammessa in tutti i casi in cui dall’atto possa derivare un grave pregiudizio per colui che
ha contrattato in stato di incapacità naturale;
— per i contratti: l’annullabilità è ammessa solo quando oltre al pregiudizio sussiste anche la malafede (cioè quando il contraente
era a conoscenza delle anomale condizioni in cui si trovava l’altra parte);
— per gli altri atti (matrimonio, testamento, donazione): l’annullamento è sempre ammesso senza la necessità di altri requisiti.

4 Gli istituti di protezione degli incapaci: la responsabilità genitoriale; la tutela;


la curatela; l’amministrazione di sostegno
Allo scopo di assicurare una tutela giuridica ai soggetti affetti dalle accennate cause di minorazione, il legislatore
ha previsto alcuni istituti detti di «protezione degli incapaci».

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a) La responsabilità genitoriale
L’espressione «responsabilità genitoriale» è quella che meglio definisce i contenuti dell’impegno genitoriale, non più da
considerare come una «potestà» sul figlio minore ma come un’assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti
del figlio.
Essa dovrà essere esercitata tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio.

b) La tutela
La tutela assolve una funzione di interesse pubblico, quale è quella di garantire la protezione dei minori (qualora entrambi i
genitori siano morti o non possono esercitare la responsabilità) e degli interdetti.
Alla funzione tutoria sovraintende il giudice tutelare che provvede alla nomina del tutore e del protutore.
Ai sensi dell’art. 357 il tutore ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti civili suscettibili di rappresentanza,
ne amministra i beni.

c) La curatela
La curatela ha lo scopo di proteggere gli interessi di coloro che sono affetti da una parziale incapacità (inabilitati, minori emancipati).
Il curatore assiste l’incapace integrando la sua volontà.
L’inabilitato (o il minore emancipato) può compiere da solo gli atti di ordinaria amministrazione e quelli cui sia stato autorizzato
dal giudice nella sentenza di inabilitazione (art. 9, L. 6/2004); mentre per gli atti di straordinaria amministrazione è richiesta l’assi-
stenza del curatore e l’autorizzazione del giudice competente.

d) L’amministrazione di sostegno
Al fine di tutelare le persone prive in tutto o in parte di autonomia, il legislatore ha introdotto, con la L. 9-1-2004, n. 6 (in vigore
dal 19-3-2004), l’istituto dell’amministrazione di sostegno, apportando le opportune modifiche alle rigide e talvolta obsolete di-
sposizioni del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, le quali escludono del tutto ovvero limitano fortemente la
capacità d’agire.
Per effetto della nuova disciplina, colui il quale sia incapace di provvedere ai propri interessi a causa di infermità ovvero di me-
nomazione fisica o psichica (dipendente da alcolismo, tossicodipendenza, ma anche dall’età avanzata, dal disagio psicofisico di uno
stato di degenza o dalla condizione di detenuto), pur non versando dunque in stato di «abituale infermità di mente», può ricorrere
al giudice tutelare affinché nomini con decreto un «amministratore di sostegno» indicato dal beneficiario ovvero, in mancanza o in
presenza di gravi ragioni che impongano una diversa designazione, scelto dal giudice nell’interesse esclusivo del beneficiario stesso.
Possono proporre ricorso (eventualmente congiunto all’istanza di revoca dell’interdizione o inabilitazione) anche il minore, l’interdetto
o l’inabilitato, ovvero per lui uno dei soggetti indicati dall’art. 417.
A differenza dell’interdetto (il quale non può donare alcunché, né fare testamento, né unirsi in matrimonio etc.), il beneficiario
dell’amministrazione di sostegno conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la necessaria rappresentanza o
l’assistenza dell’amministratore di sostegno. Quest’ultimo, per converso, nel provvedere alla cura ed agli interessi dell’assistito ha
l’obbligo di informarlo tempestivamente degli atti da compiere. Gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione delle
disposizioni dettate dalla legge, ovvero oltrepassando i limiti fissati dal giudice nel conferimento dell’incarico, o che siano comun-
que in contrasto con l’interesse del beneficiario, possono essere annullati su istanza dell’amministratore di sostegno medesimo,
del pubblico ministero, del beneficiario e degli eredi o aventi causa di quest’ultimo. Parimenti annullabili sono gli atti compiuti dal
beneficiario personalmente in violazione della legge o delle prescrizioni del giudice.

5 La sede giuridica della persona


Il luogo in cui le persone vivono e svolgono la propria attività assume rilevanza per l’ordinamento giuridico, in
quanto è necessario che si conosca il luogo dove il soggetto opera e può essere reperito.

a) La dimora
È il luogo nel quale il soggetto si trova occasionalmente; ha scarso rilievo giuridico e viene presa in considerazione
solo quando non si conosca la residenza, per la notifica di alcuni atti giudiziari.

b) La residenza
La residenza implica l’effettiva e abituale presenza del soggetto in un dato luogo, quindi il luogo di abituale dimora
(art. 43). La residenza può essere scelta e mutata liberamente, ma il trasferimento deve essere denunciato nei modi
prescritti dalla legge.

c) Il domicilio
È il luogo ove il soggetto stabilisce la sede principale dei propri affari ed interessi (art. 43).
Non è necessario che il soggetto, di fatto, dimori nel luogo di domicilio. Mentre possono aversi più residenze, il
domicilio generale (cioè il centro principale degli affari ed interessi) di un soggetto deve essere solo uno.

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Per le persone giuridiche (v. paragrafi seguenti) non si parla di domicilio, ma di sede.
La legge 94/2009 (cd. Pacchetto sicurezza) nel modificare la disciplina delle anagrafi della popolazione residente, ha stabilito che
la persona che non ha fissa dimora si considera residente nel comune dove ha fissato il proprio domicilio, in mancanza di questo
si considera residente nel comune di nascita.

6 Le persone giuridiche
Per persona giuridica si intende quel complesso organizzato di persone e beni, preordinato ad uno scopo lecito,
socialmente rilevante al quale l’ordinamento giuridico riconosce la qualifica di soggetto di diritto.
Le persone giuridiche si distinguono in:
— corporazioni. È tale il complesso organizzato di persone fisiche aventi uno scopo comune (determinabile e lecito);
Le corporazioni, in particolare, si distinguono in:
— associazioni (in senso stretto): se il loro scopo principale non è di natura prettamente economica (es.: culturale, sportivo,
politico);
— società: se perseguono uno scopo lucrativo (società di capitali) o mutualistico (società mutualistiche).
— istituzioni. È tale il complesso organizzato di beni diretto a perseguire uno scopo (determinabile e lecito).
Le istituzioni si distinguono in:
— fondazioni, caratterizzate dalla destinazione di un patrimonio privato ad un determinato scopo di pubblica utilità (assisten-
ziale, culturale, scientifico);
— comitati, generalmente costituiti per la raccolta di fondi vincolati ad una finalità determinata.
Inoltre le persone giuridiche si distinguono, secondo la natura dello scopo che perseguono, in:
— persone giuridiche pubbliche che svolgono attività di interesse pubblico (generale);
— persone giuridiche private che svolgono attività di interesse privato.
Elemento essenziale per far acquisire la personalità giuridica ai suddetti enti è l’iscrizione nel registro delle persone
giuridiche, iscrizione che comporta il loro riconoscimento (art. 1, D.P.R. 361/2000).
Il valore pratico della personalità giuridica conseguente al riconoscimento viene principalmente individuato
nell’autonomia patrimoniale dell’ente e nella limitazione di responsabilità assicurata ai singoli: le persone giuridiche
godono di autonomia patrimoniale perfetta per il fatto che il patrimonio della persona giuridica rimane nettamente
distinto dal patrimonio dei suoi componenti.
Le persone giuridiche godono di una «capacità illimitata e generale» affine a quella delle persone fisiche; in relazione alla loro
particolare natura, però, l’ordinamento non riconosce ad esse quei diritti strettamente attribuibili alle sole «entità fisiche» e cioè:
— nel campo dei diritti personali: la persona giuridica essendo priva di un organismo fisico, non può far valere le situazioni e i diritti
derivanti dalla vita familiare (come l’uso, l’abitazione, i diritti alimentari etc.). Tuttavia ha diritto al nome, ha una sede giuridica
etc.;
— nel campo dei diritti patrimoniali: il limite principale era costituito dalla necessità di un’autorizzazione governativa (art. 17) per:
— acquisto di immobili a titolo oneroso o gratuito;
— accettazione di eredità e conseguimento di legati (aventi ad oggetto mobili ed immobili).
L’art. 17 della L. 127/1997, nell’ambito del progetto di semplificazione della procedura della pubblica amministrazione nei
rapporti con i privati, ha abrogato l’art. 17 del codice civile che sottoponeva gli acquisti di immobili, l’accettazione di eredità e
il conseguimento dei legati da parte delle persone giuridiche all’autorizzazione amministrativa. Questa, dunque, operava come
condizione sospensiva di efficacia dell’atto di acquisto. Inoltre, la L. 191/98 (cd. Bassanini ter) ha stabilito che l’autorizzazione
governativa non è più necessaria per l’alienazione di immobili da parte delle persone giuridiche.

Le persone giuridiche hanno piena capacità di agire; tuttavia esse non sono idonee, per loro natura, a formare
ed esprimere una loro volontà se non attraverso persone fisiche: gli amministratori, che si configurano quali «organi»
della persona giuridica, la cui volontà è quella stessa dell’ente.

7 Le vicende delle persone giuridiche


a) Costituzione
Affinché la persona giuridica possa entrare a far parte del mondo del diritto, il riconoscimento deve esser preceduto
dalla «costituzione» o «formazione» dell’ente. Riguardo alla costituzione occorre distinguere tra associazioni e fondazioni:
a) la costituzione delle associazioni (in senso lato) si ha attraverso:
— l’atto costitutivo: che è il negozio plurilaterale di natura contrattuale da stipulare nella forma dell’atto pubblico,
in forza del quale si costituisce l’associazione;
— lo statuto: che è il documento, redatto nella forma dell’atto pubblico, contemplante le norme che regoleranno
la vita dell’ente.

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b) La costituzione delle fondazioni si ha attraverso:


— il negozio unilaterale di fondazione: che ha come contenuto la volontà del fondatore a che sorga la fondazione,
e può rivestire sia la forma dell’atto pubblico tra vivi che quella del testamento;
— l’atto di dotazione che opera l’attribuzione dei beni, a titolo gratuito, all’ente da costituire;
— lo statuto per il quale vale quanto detto per la costituzione delle associazioni.

b) Estinzione delle persone giuridiche


Fra le cause di estinzione distinguiamo:
a) cause comuni ad ogni persona giuridica:
— cause previste dalla volontà degli associati o del fondatore, es.: scadenza del termine di durata;
— venir meno dello scopo, per il raggiungimento o per sopravvenuta impossibilità di esso;
b) cause di estinzione proprie delle sole associazioni, che sono:
— il venir meno degli associati;
— lo scioglimento disposto dall’assemblea.
A seguito dell’entrata in vigore del D.P.R. 361/2000, l’estinzione non deve più essere dichiarata dall’autorità governativa,
come stabiliva l’abrogato 3° comma dell’art. 27; attualmente, la prefettura, la Regione o la Provincia autonoma competente
accerta, su istanza di qualsiasi interessato o anche d’ufficio, l’esistenza di una delle cause di estinzione della persona giuridica
e dà comunicazione della dichiarazione di estinzione agli amministratori e al presidente del tribunale competente. Si deter-
mina, così, il passaggio alla fase di liquidazione, cioè alla fase in cui si definiscono i rapporti giuridici pendenti e si provvede
alla sorte dei beni.

c) La devoluzione dei beni della persona giuridica


È il trasferimento ad un nuovo soggetto dell’eventuale residuo netto del patrimonio, dopo la liquidazione della
persona giuridica. I beni residuali sono devoluti:
— secondo le disposizioni dell’atto costitutivo o dello statuto;
— in mancanza di tali disposizioni (o di deliberazione assembleare, per le associazioni), provvede l’autorità competente
che, mediante atto di attribuzione, assegna i beni ad un altro ente che abbia fine analogo a quello dell’ente estinto.
Le vicende fondamentali relative alle persone giuridiche devono essere iscritte, a cura degli amministratori,
nell’apposito registro.

8 Le associazioni non riconosciute


Si tratta di soggetti i quali, pur essendo dotati dello stesso substrato delle persone giuridiche (persone, patrimonio
e scopo) non hanno chiesto il formale riconoscimento dell’autorità statale.
L’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute sono regolati dagli accordi degli
associati (art. 35). Anche tali associazioni, quindi, hanno la loro fonte in un atto costitutivo e sono organizzate mediante
uno statuto.
I contributi degli associati e i beni acquistati dall’ente costituiscono il cd. fondo comune e su di esso si possono
eventualmente soddisfare i terzi creditori.
Le associazioni non riconosciute possono ricevere anche per donazione o per successione a causa di morte: infatti la l. 22-6-2000,
n. 192, ha abrogato gli artt. 600 e 786 che subordinavano l’efficacia della donazione o della disposizione testamentaria a loro favore
alla richiesta del riconoscimento. La L. 52/85 ha loro riconosciuto la capacità di essere titolari di diritti reali immobiliari.
Anche in tali enti esiste un’autonomia patrimoniale, anche se imperfetta, perché il patrimonio delle associazioni non riconosciute
si distingue da quello degli associati, che restano tuttavia responsabili solidalmente e personalmente se hanno agito in nome e
per conto dell’associazione.

9 I comitati
Il «comitato» è un ente di fatto più circoscritto delle associazioni non riconosciute; esso è composto da un
gruppo di persone che, attraverso un’aggregazione di mezzi materiali, si propone il raggiungimento di uno scopo,
generalmente nell’interesse pubblico, e all’uopo cerca contributi per mezzo di pubbliche sottoscrizioni o inviti
a offrire.
Il «fondo» del comitato si costituisce con le offerte (oblazioni) dei singoli sottoscrittori. Il comitato che ottiene il
pubblico riconoscimento si trasforma automaticamente in fondazione a causa della prevalenza dell’elemento patrimo-
niale su quello personale.

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10 Gli Enti del Terzo Settore (ETS)


a) Nozione e disciplina generale
Con D.Lgs. 3-7-2017, n. 117 (come successivamente modificato e integrato, in particolare dal D.Lgs. 105/2018) è
stato approvato il Codice del Terzo Settore per il riordino e la revisione della disciplina vigente in materia.
Sono Enti del Terzo Settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filan-
tropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni,
riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società. La denominazione
sociale deve contenere l’indicazione di ente del Terzo settore o l’acronimo ETS.
Tali enti sono costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale, elencate
dallo stesso Codice (es., servizi sociali, prestazioni sanitarie, educazione, istruzione e formazione professionale, tutela
e valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale); l’elenco può essere aggiornato con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri. Gli ETS possono esercitare anche attività diverse, a condizione che l’atto costitutivo o lo statuto
lo consentano, e tali attività siano secondarie e strumentali rispetto a quelle di interesse generale, secondo criteri e
limiti definiti con decreto.
Tutte le agevolazioni (fiscali, finanziamenti, semplificazioni) previste dal Codice sono subordinate alla iscrizione degli enti nel
Registro unico nazionale del Terzo settore (alla cui attivazione si provvede con apposito regolamento di attuazione).
In caso di estinzione o scioglimento, il patrimonio residuo è devoluto ad altri ETS secondo le disposizioni statutarie o dell’or-
gano sociale competente o, in mancanza, alla Fondazione Italia Sociale.

b) Particolari categorie di enti del Terzo settore


— Organizzazioni di volontariato
La L. 11-8-1991, n. 266 aveva definito e disciplinato le organizzazioni di volontariato, individuandone i caratteri
tipici nella gratuità dell’attività, nell’assenza di uno scopo di lucro e nel fine di solidarietà. Le organizzazioni di
volontariato sono ora definite come Enti del Terzo Settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non
riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre organizzazioni di volontariato, per lo svolgi-
mento prevalentemente in favore di terzi di una o più attività di interesse generale, avvalendosi in modo prevalente
dell’attività di volontariato dei propri associati o di altre persone aderenti agli enti associati.
La denominazione sociale deve contenere l’indicazione di organizzazione di volontariato o l’acronimo ODV. L’indicazione di
organizzazione di volontariato o l’acronimo ODV, ovvero di parole o locuzioni equivalenti o ingannevoli, non può essere usata
da soggetti diversi dalle organizzazioni di volontariato.

— Organizzazioni non lucrative di utilità sociale


Le Onlus non rappresentano una nuova figura associativa ma la qualifica che alcuni enti possono assumere se
ricorrono le condizioni indicate nel D.Lgs. 460/1997 e costituiscono un’autonoma categoria di enti solo ai fini fiscali
essendo destinatarie di una disciplina tributaria di favore.
Con l’attuazione della riforma del Terzo settore, la normativa sulle Onlus viene abrogata dalla nuova disciplina, superata la fase
transitoria, con la piena operatività del Registro unico nazionale del Terzo settore.

— Imprese sociali
Il Codice del Terzo settore rinvia per la disciplina al D.Lgs. 3-7-2017, n. 112 (come successivamente modificato e
integrato, in particolare dal D.Lgs. 95/2018) dove sono confluite le norme contenute nel D.Lgs. 24-3-2006, n. 155,
con il quale per la prima volta, nel nostro ordinamento, il concetto di impresa è stato sganciato dal necessario
conseguimento di un profitto, essendo ammissibile la costituzione di un’impresa senza fine di lucro, vale a dire
di enti imprenditoriali privi del carattere lucrativo tipico dell’impresa commerciale, che viene sostituito dalla
finalità di utilità sociale e di interesse collettivo.
Possono acquisire la qualifica di impresa sociale: le organizzazioni private, comprese le società, che esercitano un’attività
economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni e servizi e servizi di utilità sociale in possesso dei requisiti fissati
dalla legge, nonché le imprese che esercitano attività finalizzata all’inserimento lavorativo di soggetti lavoratori svantaggiati
o disabili.
Le attività esercitabili sono simili a quelle degli ETS ma non coincidono (vi è compreso, ad es., il microcredito). Inoltre è ammessa
la possibilità di una limitata distribuzione degli utili.
Alle imprese sociali si applicano, in quanto compatibili, le norme del codice del Terzo settore.

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L’attività giuridica

Sommario: 1. I fatti e gli atti giuridici. - 2. Prescrizione e decadenza. - 3. Il negozio giuridico. - 4. La rappresentanza. - 5.
La patologia del negozio giuridico. - 6. Pubblicità e trascrizione.

1 I fatti e gli atti giuridici


Sono qualificati giuridici quei fatti, cioè quei comportamenti o accadimenti (umani, naturali etc.), al cui verificarsi
l’ordinamento ricollega il prodursi di effetti giuridici quali la nascita, la modificazione o l’estinzione di rapporti giuridici.
Distinguiamo pertanto:
— fatti giuridici in senso stretto: sono quei fatti in cui manca del tutto la volontà umana (es.: fulmine) o tale volontà,
secondo la considerazione fatta dall’ordinamento giuridico, gioca un ruolo indifferente;
— atti giuridici (o atti umani): sono, invece, quei fatti caratterizzati da un’attività umana consapevole e voluta, po-
sta in essere da un soggetto capace d’intendere e di volere, cui l’ordinamento attribuisce il potere di modificare la
realtà esterna.
Gli atti giuridici, a loro volta possono suddividersi, in relazione alla conformità o meno a norme giuridiche, in atti
leciti (se non contrastano con l’ordinamento) e atti illeciti (se, invece, contrastano con esso).
In relazione al rapporto intercorrente tra la volontà dei soggetti agenti e le conseguenze giuridiche che l’atto pro-
duce, gli atti giuridici leciti possono ancora suddividersi in:
— atti giuridici in senso stretto (o meri atti giuridici) sono quei comportamenti consapevoli e volontari i cui effetti
sono determinati dalla legge anche se il loro autore non li abbia voluti;
— negozi giuridici sono, invece, quegli atti (consapevoli e volontari), le cui conseguenze giuridiche sono determinate,
nei limiti del rispetto delle norme imperative, dai soggetti agenti (es.: compravendita).

2 Prescrizione e decadenza
La prescrizione (artt. 2934 e ss.) può esser definita come la perdita del diritto soggettivo per effetto dell’inerzia o
del non uso da parte del titolare di esso protrattosi per un periodo di tempo determinato dalla legge.
Non tutti i diritti sono soggetti a prescrizione; sono infatti imprescrittibili: il diritto di proprietà; i diritti della per-
sonalità (es. diritto al nome); i diritti di stato (es.: diritto di cittadinanza); le potestà di diritto familiare; altri particolari
diritti indicati dalla legge.
La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.).
Quanto alla durata (cioè al termine necessario perché la prescrizione maturi) occorre distinguere tra:
— prescrizione ordinaria che si realizza col decorso di dieci anni, salvi i casi in cui la legge dispone diversamente;
— prescrizione dei diritti reali su cosa altrui (es.: superficie, enfiteusi, usufrutto, servitù prediali etc.) che si realizza
col decorso di venti anni;
— prescrizioni brevi che si realizzano col decorso di un periodo di tempo più breve dei dieci anni. Così, ad esempio, il
diritto al risarcimento dei danni prodotti dalla circolazione dei veicoli si prescrive in due anni;
— prescrizioni presuntive, in base alle quali il decorso del tempo determina la nascita, a favore del debitore, di una
presunzione legale di pagamento e, quindi, di estinzione dell’obbligazione, trattandosi di rapporti rispetto ai quali
l’adempimento suole avvenire senza dilazione o, comunque, in tempi brevi. Le prescrizioni presuntive si sostanziano
in una presunzione che ammette come unica prova contraria il giuramento decisorio.
La prescrizione presuppone un’inerzia ingiustificata del titolare del diritto, pertanto, se l’inerzia è giustificata, si ha
sospensione della prescrizione (art. 2941) (es.: un militare richiamato al fronte non può esercitare un proprio diritto);
se, invece, l’inerzia viene a mancare in quanto il titolare compie un atto di esercizio del diritto si ha interruzione della
prescrizione (art. 2943) (es.: messa in mora del debitore).
Anche la decadenza (art. 2964 e ss.), come la prescrizione, è un istituto collegato al decorso del tempo: essa, infatti,
si sostanzia nella perdita della possibilità di esercitare un diritto per il mancato compimento di una determinata attività,
o di un dato atto, nel termine perentorio previsto dalla legge.
La prescrizione, dunque, estingue il diritto; la decadenza, invece, annulla e impedisce l’azione, cioè l’esercizio del diritto.
Da ciò deriva che:
— non trovano applicazione, in materia di decadenza, la sospensione e la interruzione;
— l’unico modo per evitarla è il compimento dell’atto nel termine e con le modalità previste dalla legge.

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La decadenza può essere:


a) legale: è prevista dalla legge ed è sempre istituto eccezionale, perché deroga al principio secondo cui l’esercizio
dei diritti soggettivi non è sottoposto a limiti di tempo;
b) convenzionale o negoziale: anche la volontà privata può stabilire casi e termini di decadenza nei modi stabiliti
dall’art. 2965.

3 Il negozio giuridico
Il negozio giuridico è la manifestazione di volontà diretta ad uno scopo pratico che consiste nella costituzione, modi-
ficazione o estinzione di una situazione giuridicamente rilevante.
Esso è, dunque, un atto giuridico, lecito, consistente in una dichiarazione di volontà diretta a produrre determinati
effetti giuridici.
A seconda del numero delle parti che pongono in essere il negozio si distinguono:
a) negozi unilaterali: ossia quelli provenienti da una sola parte;
b) negozi bilaterali: sono quelli che risultano da dichiarazioni di volontà provenienti da due parti e producono effetti per entrambe
(es.: mutuo);
c) negozi plurilaterali: sono quelli che risultano da manifestazioni di volontà provenienti da più parti e producono effetti per tutte
le parti (es.: contratto di società).
In relazione alla natura dei rapporti, si distinguono:
a) negozi non patrimoniali che generalmente attengono alla sfera dei rapporti familiari;
b) negozi patrimoniali: che riguardano rapporti economicamente valutabili.
In relazione al corrispettivo distinguiamo:
a) negozi onerosi o a titolo oneroso, quando all’attribuzione in favore di un soggetto faccia riscontro un corrispettivo a carico dello
stesso (es. compravendita);
b) negozi gratuiti o a titolo gratuito, quando manchi tale corrispettivo.
In relazione all’evento «morte», infine, si distinguono:
a) negozi mortis causa (a causa di morte): quelli in cui la morte costituisce il presupposto per la loro efficacia (es. testamento);
b) negozi inter vivos (fra vivi): tutti gli altri negozi.
Primo e fondamentale elemento del negozio è la volontà, che per poter assumere rilevanza giuridica deve esser
dichiarata. Tuttavia, può verificarsi una divergenza tra la volontà dichiarata e la volontà interna.
In particolare distinguiamo le seguenti situazioni:
a) Casi di mancanza di volontà: cioè casi in cui è emessa una dichiarazione senza che vi sia la volontà effettiva:
— dichiarazioni non serie: si tratta delle dichiarazioni fatte durante una rappresentazione (es.: teatrale) o emesse a scopo
didattico (si pensi alla stipulazione di un contratto a titolo di esempio), o per scherzo. Non hanno alcun valore;
— violenza fisica: ricorre quando un soggetto emette una manifestazione di volontà negoziale perché costretto a viva forza
da un altro soggetto. Un negozio concluso in queste condizioni è assolutamente nullo (o addirittura inesistente) in quanto
manca del tutto la volontà.
b) casi di divergenza tra volontà e dichiarazione: quando vi è una volontà ma non corrispondente a quella dichiarata:
— riserva mentale: quando il soggetto intenzionalmente dichiara una cosa diversa da quella che vuole; non ha alcuna con-
seguenza ed il negozio è perfettamente valido ed efficace;
— errore ostativo:è l’errore del dichiarante che cade: sulla dichiarazione (es.: dico 100 e volevo 1.000), oppure: sulla trasmis-
sione della dichiarazione stessa (es.: volevo telegrafare « 10» ma per errore l’addetto al telegrafo trasmette «100»).
Il negozio viziato da errore ostativo è annullabile, come diremo riguardo all’errore in generale (vedi infra);
— simulazione: si ha quando le parti, d’accordo tra loro, pongono in essere dichiarazioni difformi dall’interno volere.
La simulazione può essere relativa se le parti vogliono un negozio diverso, assoluta se le parti non vogliono alcun negozio.
Quanto all’efficacia fra le parti, in caso di simulazione relativa vale il negozio dissimulato, in caso di simulazione assoluta il
negozio simulato non produce alcun effetto.

La volontà può essere viziata. Sono «vizi della volontà» quegli elementi che alterano il processo formativo della
volontà fuorviandola e determinandone una formazione anormale. In presenza di un vizio la volontà nasce «malata»,
in quanto a causa dell’incidenza del vizio, il soggetto ha posto in essere un atto che altrimenti non avrebbe compiuto.
I vizi della volontà cui la legge attribuisce rilevanza sono: l’errore, il dolo, e la violenza. Tali vizi non producono quale
conseguenza la nullità, bensì l’annullabilità, e legittimano i soggetti interessati all’impugnativa del negozio nel termine
prescritto dalla legge (cinque anni).
a) L’errore (artt. 1428-1433)
L’errore è la falsa rappresentazione della realtà cui è equiparata l’ignoranza.
L’errore può cadere sulla dichiarazione o sulla trasmissione (errore ostativo) o influire sul procedimento di formazione della vo-
lontà (errore vizio); può riguardare circostanze di fatto (errore di fatto) o cadere sull’esistenza di una norma (errore di diritto).

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L’errore, inoltre, deve essere essenziale (relativo ad una qualità o ad un elemento necessario del negozio) e riconoscibile
(quando una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo).
b) La violenza (artt. 1434-1438)
La violenza morale consiste nella minaccia di un male ingiusto e notevole posta in essere al fine di determinare un soggetto a
compiere un negozio.
c) Il dolo (artt. 1439-1440)
Il dolo consiste negli artifizi e raggiri posti in essere per ingannare un soggetto allo scopo di determinarlo a compiere un negozio
che non avrebbe compiuto o avrebbe compiuto in modo diverso.
Altro elemento essenziale del negozio giuridico è la causa; essa è la funzione economico-sociale del negozio da
intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, la cui mancanza o illiceità produce
la nullità del negozio.
Per quanto riguarda l’oggetto nei negozi «patrimoniali», esso deve essere possibile, lecito, determinato o determi-
nabile.
La forma è il mezzo con cui si manifesta la volontà negoziale.
La manifestazione può essere:
— espressa, se si attua con parole, scritti, cenni etc., cioè con qualunque mezzo che renda palese agli altri il pensiero;
— tacita, se consiste in un comportamento che sarebbe incompatibile, secondo il comune modo di pensare e di agire,
con una volontà diversa.
Nel nostro ordinamento vige il principio della libertà della forma.
In alcuni casi, però, l’ordinamento subordina la validità del negozio all’uso di una forma determinata (atto pubblico
o scrittura privata).
Questa forma (ad substantiam), richiesta per alcuni negozi (cd. negozi solenni o formali), rappresenta un onere
per il dichiarante perché, senza la osservanza di essa, non può realizzare l’intento negoziale che intende perseguire.
Infatti, il negozio privo della forma cd. solenne è nullo.
Talora, invece, la forma scritta è richiesta dalla legge solo per la prova del negozio (cd. forma ad probationem). In
tal caso, la mancata osservanza dell’onere formale non influisce sulla validità del negozio, ma solo sulla possibilità di
provarlo.
La problematica relativa alla forma degli atti giuridici, e dei contratti in particolare, si è dovuta inevitabilmente adeguare alle
novità imposte dalla evoluzione tecnologica e, soprattutto, dalla cd. rivoluzione telematica. Ha fatto così la sua comparsa il cd.
documento informatico, cioè la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti, che il legislatore ha
tempestivamente provveduto a disciplinare dichiarandone l’efficacia giuridica e probatoria.
Il documento informatico è disciplinato dal D.Lgs. 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale), modificato dal D.Lgs. 217/2017.
In particolare, tale documento soddisfa il requisito della forma scritta ed ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 c.c. quando vi è
apposta una firma digitale (o altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata) o, comunque, è formato,
previa identificazione informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’Agenzia per l’Italia digitale
(AgID) con modalità tali da garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e la sua riconducibilità all’autore.
In tutti gli altri casi, l’idoneità del (—) a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente
valutabili in giudizio, in relazione alle caratteristiche del documento. Le Linee guida, emanate dall’AgID, disciplinano le regole tec-
niche per la formazione, per la trasmissione, la conservazione e la copia dei documenti informatici.

Inoltre vi sono alcuni elementi del negozio giuridico che non sono essenziali ma possono essere liberamente apposti
dalle parti (elementi accidentali). Essi sono:
a) la condizione: consiste in un avvenimento futuro ed incerto; deve essere possibile e lecita.
Riguardo agli effetti distinguiamo:
— condizione sospensiva: è quella da cui dipende l’inizio di efficacia del negozio (es.: ti regalo l’orologio se ti laurei);
— condizione risolutiva: è quella da cui dipende la cessazione degli effetti del negozio (es. ti regalo l’orologio, ma se sarai
bocciato, dovrai restituirlo).

Non tutti i negozi giuridici sopportano l’apposizione di condizioni: esistono, infatti, determinati negozi che, per
loro natura, non tollerano la condizione (es.: il matrimonio, l’accettazione e la rinunzia all’eredità etc.).
La condizione è illecita se contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 1354).
La condizione illecita:
— negli atti tra vivi rende nullo il negozio, sia essa sospensiva o risolutiva;
— negli atti di ultima volontà si ha per non apposta, tranne che risulti come motivo unico della disposizione, per cui l’atto
rimane perfettamente efficace.

La condizione deve essere possibile; l’impossibilità può essere fisica (es.: se tocchi il cielo con un dito) o giuridica
(es.: se mi vendi un bene demaniale).

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La condizione impossibile:
— negli atti tra vivi se è sospensiva rende nullo il negozio, se è risolutiva si considera non apposta;
— negli atti di ultima volontà, si ha per non apposta, sia essa sospensiva o risolutiva.
b) il termine: può definirsi un avvenimento futuro e certo dal quale le parti fanno dipendere l’inizio o la cessazione
degli effetti del negozio giuridico.
Il termine di efficacia da cui si fanno dipendere gli effetti del negozio, può essere:
— iniziale se indica il momento dal quale debbono prodursi gli effetti del negozio;
— finale se indica il momento fino al quale debbono prodursi gli effetti del negozio.
Come per la condizione vi sono alcuni negozi che non tollerano l’apposizione di un termine (es. disposizioni testa-
mentarie a titolo universale);
c) il modo: è una clausola accessoria che si appone solo agli atti di liberalità (istituzione di erede, legato, donazione)
allo scopo di limitarne gli effetti; è, appunto, un onere, cioè un peso imposto al destinatario della liberalità.
Il modo quando è impossibile o illecito si ha per non apposto, sia negli atti di liberalità tra vivi che in quelli mortis
causa, tranne che risulti essere stato il solo motivo determinante della liberalità.
L’impossibilità sopravvenuta del modo libera l’obbligato, in conformità dell’art. 1256; questi, inoltre, non è tenuto
nella esecuzione del modo, oltre il valore di ciò che ha ricevuto.

4 La rappresentanza
La rappresentanza è l’istituto per cui ad un soggetto (rappresentante) è attribuito (dalla legge o dall’interessato)
il potere di sostituirsi ad un altro soggetto (rappresentato) nel compimento di attività giuridica per conto di questo
ultimo e con effetti diretti nella sua sfera giuridica.
La rappresentanza può essere:
— diretta: è la figura vera e propria di rappresentanza, che si ha quando il rappresentante agisce non solo per conto (e cioè nell’in-
teresse) del rappresentato, ma anche nel nome di questo;
— indiretta: si ha quando il rappresentante agisce solo per conto, ma non nel nome del rappresentato;
— legale: trova la sua fonte esclusivamente nella legge e nei soli casi dalla legge previsti: es.: i genitori hanno la rappresentanza
legale dei figli minori di età;
— volontaria: trova la sua fonte esclusivamente nella volontà dei soggetti. Essa è conferita attraverso un apposito negozio, la
procura.

La procura è l’atto con il quale una persona conferisce ad un’altra il potere di rappresentarla. Essa può essere
speciale, se il potere è conferito per porre in essere un singolo e determinato atto; generale, se il potere è conferito
per una serie determinata di atti o per tutti gli atti del rappresentato.
Il rappresentante deve agire nell’interesse del rappresentato (art. 1388). Si ha, quindi, abuso di potere, quando il
rappresentante, pur fornito di potere di rappresentanza, abbia fatto cattivo uso di esso agendo per un fine diverso da
quello per cui il potere era stato conferito, cioè perseguendo un interesse proprio o di terzi in contrasto con gli interessi
del rappresentato.
Si ha eccesso di potere quando il rappresentante abbia oltrepassato i limiti conferitigli con la procura.
Si ha difetto di potere, invece, nel caso del «falsus procurator», del soggetto, cioè, che si sia finto rappresentante
senza averne i poteri.
In questi due casi l’atto compiuto risulta inefficace.
Tuttavia la legge riconosce al rappresentato il potere di far acquistare efficacia al negozio concluso dal rappresen-
tante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitigli e, pertanto, inefficace, a mezzo della ratifica.

5 La patologia del negozio giuridico


La legge richiede che i negozi giuridici presentino determinati elementi o requisiti; qualora uno di essi manchi o
sia viziato, il negozio è difforme dalla legge.
Conseguenza immediata della difformità dalla legge è che il negozio non è in grado di produrre i suoi effetti o, se questi
si producono egualmente, non possono permanere, per cui il negozio è inefficace.
Si ha inesistenza del negozio, inoltre, quando questo manca addirittura di quel «minimum» di elementi necessari
per poter essere concepito, qualificato o identificato come «negozio giuridico».
Per il codice il negozio è nullo quando:
— manca uno degli elementi essenziali, indicati dall’art. 1325 (accordo, causa, oggetto, forma prescritta dalla legge a
pena di nullità);
— la causa è illecita;
— il motivo è illecito;

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— l’oggetto è impossibile, illecito, indeterminato o indeterminabile;


— è contrario a norme imperative, nonché negli altri casi stabiliti dalla legge.
Più in generale si può dire che causa di nullità è la contrarietà del negozio a norme di legge.
Si parla di nullità di protezione in riferimento a quei casi, diffusi soprattutto nella legislazione speciale, in cui un contratto
viene qualificato nullo non per interesse generale o contrarietà all’ordine pubblico economico, ma a tutela di una delle parti che è
l’unica a potersi avvalere della nullità stessa (v., ad es. art. 36 Codice del consumo).

Il negozio nullo non produce effetti; di conseguenza, se il negozio è stato eseguito, chi ha effettuato la prestazione
ha diritto alla sua ripetizione (art. 2033). Eccezione a tale principio si ha nel caso di negozio immorale.
Si ha conversione del negozio nullo quando quest’ultimo può produrre gli effetti di un negozio diverso, del quale
contenga i requisiti di sostanza e di forma; il suo fondamento si deve ravvisare nel principio di conservazione del negozio.
L’annullabilità è l’altro aspetto che può assumere l’invalidità del negozio e si configura per quei negozi per i quali,
pur essendo difformi dall’ordinamento, la sanzione della nullità sarebbe troppo grave.
Il negozio è annullabile in caso di vizi del consenso (artt. 1427-1440), incapacità legale o naturale della parte (art.
1425) ed in tutti gli altri casi previsti dalla legge.
Il negozio annullabile, finché non viene annullato, produce tutti i suoi effetti.
La convalida è il negozio col quale il soggetto legittimato a proporre l’azione di annullamento dichiara di voler sanare
il vizio del negozio stesso.
La convalida può essere tacita, se consiste nell’esecuzione volontaria del negozio annullabile, fatta nella consa-
pevolezza della sua annullabilità.

6 Pubblicità e trascrizione
La legge prescrive e organizza la pubblicità di alcune categorie di fatti giuridici per soddisfare l’interesse generale a che tali
fatti siano conoscibili da chiunque.
Si distinguono tre forme di pubblicità:
a) la pubblicità-notizia: ha lo scopo di rendere determinati fatti giuridici conoscibili da chiunque, ma la sua omissione, pur potendo
dar luogo a sanzioni pecuniarie o penali, non incide sulla validità e sull’opponibilità ai terzi del fatto che ne costituisce oggetto
(es.: le pubblicazioni matrimoniali);
b) la pubblicità-dichiarativa: ha lo specifico scopo di rendere opponibile ai terzi il fatto giuridico «pubblicizzato»: in sua mancanza,
l’atto resta valido tra le parti ma è inopponibile ai terzi (es.: la trascrizione in ordine ai negozi dispositivi di beni immobili);
c) la pubblicità-costitutiva: si ha quando la pubblicità è un requisito necessario per la costituzione di un rapporto giuridico: es., il
diritto di ipoteca nasce solo con l’iscrizione nei registri immobiliari (art. 2808).
Per i beni mobili, la pubblicità è data dal possesso, in quanto chi possiede un bene mobile si presume che ne sia titolare, e la
consegna dello stesso rende noto ai terzi che il diritto su di esso viene trasferito (pubblicità di fatto); per i beni mobili registrati, ai fini
della pubblicità, è necessaria l’iscrizione in appositi registri (es.: la vendita di un’automobile dev’essere registrata al P.R.A.: Pubblico
Registro Automobilistico); per i beni immobili, infine, è necessaria la trascrizione nei registri immobiliari.
La trascrizione è un mezzo di pubblicità relativo agli immobili ed ai beni mobili registrati che assicura la conoscibilità delle
vicende relative a tali beni.
La sua funzione si ricollega direttamente ad una precisa esigenza di mercato, che è quella della circolazione dei beni nell’am-
bito di una società organizzata, e della conoscibilità di tale circolazione, per cui si sappia in qualsiasi momento, a chi appartiene
un determinato bene.
L’art. 2643 elenca gli atti soggetti a trascrizione. A tal proposito la L. 30/1997 ha previsto la trascrivibilità dei contratti preliminari
che trasferiscono la proprietà di beni immobili o che costituiscono, trasferiscono o modificano diritti reali di godimento su beni im-
mobili inclusi i preliminari di contratti che costituiscono la comunione sui diritti summenzionati (art. 2645bis); mentre il D.L. 70/2011
conv. in L. 106/2011 ha disposto che sono soggetti a trascrizione anche i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i
diritti edificatori (cd. cessione di cubatura), previsti da normative statali o regionali o da strumenti di pianificazione territoriale.
La trascrizione deve essere eseguita presso l’ufficio dei Registri Immobiliari nella cui circoscrizione sono ubicati i beni oggetto
della stessa.

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Le cose e i beni

Sommario: 1. Generalità: concetto di «bene» e di «cosa». - 2. Classificazione dei beni. - 3. I rapporti di connessione tra
le cose. - 4. Le universalità. - 5. I frutti.

1 Generalità: concetto di «bene» e di «cosa»


L’art. 810 c.c. definisce i beni come «le cose che possono formare oggetto di diritti» 1.
Dall’art. 810 si ricava che le cose si distinguono in:
— cose in senso non giuridico, che, in quanto non presentano alcun interesse economico, non possono formare oggetto
di rapporti giuridici: tali sono ad es. il sole, l’aria etc.;
— cose in senso giuridico, che, potendo formare oggetto di diritti, costituiscono appunto, la categoria dei beni.
L’insieme dei beni appartenenti ad una persona costituisce il patrimonio. Più precisamente si definisce patrimonio
l’insieme di rapporti giuridici attivi e passivi (diritti ed obblighi) facenti capo ad una persona (cd. «titolare») e valutabili
economicamente.

2 Classificazione dei beni


a) Beni corporali e beni incorporali
Rispetto alla loro struttura, i beni si distinguono in:
— beni corporali, che sono tutti i beni del mondo esterno dotati di materialità corporea;
— beni incorporali, che sono, invece, «quei beni privi di materialità, ma che, tuttavia, sono percepibili con i sensi o con
l’intelligenza»; tali sono le opere dell’ingegno e le invenzioni etc.

b) Beni immobili e beni mobili


Sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, gli edifici e le altre costruzioni e in genere tutto
ciò che naturalmente o artificialmente è incorporato al suolo (cd. beni immobili per natura).
Sono reputati dalla legge immobili (anche se, per sé stessi, non sarebbero da considerare «immobili») i mulini, i
bagni e gli altri edifici galleggianti quando sono saldamente assicurati alla riva in modo permanente (cd. beni immobili
per determinazione di legge).
Sono beni mobili tutti gli altri beni. In particolare, si considerano beni mobili, per l’art. 814, le energie naturali che
hanno valore economico (es.: l’energia elettrica).

c) Cose specifiche e cose generiche


Sono specifiche le cose individuate mediante caratteri propri (es.: quel determinato cavallo); sono generiche quelle non
individuate singolarmente, ma come appartenenti ad un «genere» senza ulteriore specificazione (es.: un cavallo, un albero).

d) Cose fungibili e cose infungibili


Sono fungibili le cose che si pesano, si contano, si misurano e che, per ciò, possono essere sostituite con altre dello
stesso genere (es.: grano, stoffa, danaro). Infungibili sono, invece, quelle cose che non possono essere indifferentemente
sostituite con altre, in quanto individuate dalle parti in relazione a un dato rapporto.

e) Cose consumabili e inconsumabili


Cose consumabili sono quelle che non possono essere utilizzate senza essere consumate, fisicamente (es.: il cibo
o i combustibili) o economicamente (es.: il danaro).
Cose inconsumabili sono, invece, quelle che si prestano ad una utilizzazione continuata, senza che restino distrutte
o alterate (es.: un fondo) ed indipendentemente dal fatto che, con l’uso si deteriorino (es.: vestiti).

1 Da tale definizione si evince che la nozione di bene non coincide con quella di cosa:
— infatti esistono cose che non sono beni e non possono pertanto formare oggetto di diritti; ad esempio l’aria, lo spazio, la luce del sole,
il mare (le cc.dd. res communes omnium);
— d’altro canto vi sono beni che non sono cose (i ccdd. beni immateriali o incorporali), come le opere dell’ingegno.

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f) Cose divisibili ed indivisibili


Divisibili sono le cose che possono essere frazionate in modo omogeneo, senza che se ne alteri la destinazione
economica, ed in modo che ciascuna delle parti rappresenti una porzione del tutto (es.: il denaro, bene divisibile per
eccellenza; un edificio diviso per piani, un fondo etc.); indivisibili sono tutte le altre.
La indivisibilità di un bene può derivare: dalla natura dello stesso (es.: animale vivo), dalla volontà delle parti, o
dalla legge (es.: sono indivisibili le parti comuni di un edificio in condominio).
Tale differenziazione ha rilievo in materia di prestazioni indivisibili per le quali, ad esempio, se ci sono più creditori, ciascuno
può esigere l’esecuzione dell’intera prestazione da parte del debitore, e il pagamento ha effetto liberatorio nei riguardi degli altri
creditori (art. 1319).

3 I rapporti di connessione tra le cose


Oltre che nella loro individualità, le cose possono presentarsi come risultato dell’unione di più elementi o parti, ovvero in
rapporto con altre cose.
Sotto questo profilo, pertanto, occorre distinguere:
a) cose semplici: sono quelle i cui elementi sono talmente compenetrati fra loro che non possono staccarsi senza alterare la fisio-
nomia del tutto: tale è una pianta, un animale, un fiore;
b) cose composte: sono quelle, invece, in cui più cose complementari formano un nuovo bene, che viene ad avere funzione e va-
lore economico diversi da quelli delle cose che lo compongono. Es.: una casa (che è l’insieme di mattoni, travi, cemento etc.);
un’automobile etc.;
c) cose connesse: si ha connessione quando due o più cose (la cui connessione non è necessaria come nelle cose composte) vengono
poste in una determinata relazione tra di esse, per cui è possibile distinguere una cosa principale ed una accessoria.
Figure di connessione sono l’incorporazione e la pertinenza:
— si ha incorporazione quando una cosa mobile (accessoria) è naturalmente o artificialmente compenetrata in un’altra immobile
(cosa principale): es.: statua incorporata in una nicchia. Entrambe le cose devono appartenere alla stessa persona;
— sono pertinenze «le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa» (art. 817). Ad esempio gli strumenti
rurali sono pertinenze del fondo. Le pertinenze sono sottoposte allo stesso regime giuridico delle cose principali, senza però
escludere che possano formare oggetto di autonomi rapporti (art. 818).

4 Le universalità
Accanto alle cose composte ed alle pertinenze sono da considerare le cd. «universalità di mobili»: cioè quel complesso di cose
che appartengono alla stessa persona ed hanno una destinazione unitaria (es.: un gregge, una biblioteca) (art. 816).
Dalla formulazione dell’art. 816 si evincono gli elementi delle universalità:
— una pluralità di cose mobili;
— una destinazione unitaria;
— l’appartenenza al medesimo soggetto.
Le singole cose che compongono l’universalità non perdono, per effetto dell’unitarietà della destinazione, la loro autonomia,
per cui possono formare oggetto di separati atti e rapporti giuridici (art. 816, 2° comma).
Dalla figura dell’universalità di fatto occorre distinguere la cd. universalità di diritto, nella quale una pluralità di rapporti giuridici
autonomi è considerata come complesso unitario dalla legge. In pratica, nella universalità di diritto è la legge (e non il titolare, come
nella universalità di fatto) che considera e regola unitariamente una serie di rapporti giuridici (non cose); esempio più importante
è l’eredità.

5 I frutti
I frutti sono beni che provengono da un altro bene. Essi vengono annoverati tra i beni futuri (allorché non sono venuti ancora
ad esistenza).
I frutti si distinguono in due categorie:
— frutti naturali: sono quelli che provengono direttamente da un altro bene (i prodotti agricoli, la legna, i parti degli animali etc.).
Essi diventano beni autonomi solo con la separazione.
Di regola i frutti naturali appartengono al proprietario della cosa che li produce (art. 821); tuttavia la proprietà può essere
attribuita ad altri dalla legge (ad esempio all’usufruttuario: art. 984) o in virtù di un atto negoziale. In tal caso la proprietà si
acquista con la separazione;
— frutti civili: sono quelli che si traggono da un bene come corrispettivo del godimento che altri ne abbia (interessi, corrispetti-
vo delle locazioni etc.). Essi si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto (si pensi alla maturazione degli
interessi corrisposti dalla banca).

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I diritti assoluti

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il diritto di proprietà. - 3. I modi di acquisto della proprietà. - 4. La difesa della proprietà. -
5. Comunione, condominio e multiproprietà. - 6. Superficie, enfiteusi ed usufrutto. - 7. Uso e abitazione. - 8. Le servitù.
- 9. Possesso e usucapione.

1 Premessa
I diritti assoluti attribuiscono al titolare un potere che questi può far valere indistintamente verso tutti gli altri
soggetti, a carico dei quali sussiste un generico obbligo di non turbare l’esercizio del diritto stesso.
I diritti relativi assicurano al titolare un potere che si può far valere solo verso una o più persone determinate, a
carico delle quali sussiste un obbligo di dare, fare o non fare qualcosa.
La categoria più importante nell’ambito dei diritti assoluti è quella dei diritti reali, i quali riconoscono al titolare
un potere immediato ed assoluto su di un bene determinato. Essi presentano tali caratteri:
— immediatezza: implica una diretta signoria sul bene, senza l’interpo­sizione e la cooperazione di altre persone;
— assolutezza: si fanno valere nei confronti di tutti i terzi (cioè «erga omnes»), sui quali incombe indistintamente un
dovere negativo di astensione in base al quale non possono impedire l’esercizio del diritto al suo titolare;
— tipicità: tutti i diritti reali sono previsti dalla legge: oltre questi, i privati non possono crearne altri («numerus clausus»);
— attribuiscono al titolare il cd. «diritto di sequela» (o diritto di seguito), consistente nel diritto di «inseguire» la cosa
oggetto del diritto per riprenderla da chiunque eventualmente la possegga.
Si distinguono i diritti reali su cosa propria (diritto di proprietà) e i diritti reali su cosa altrui (diritti reali di godimento:
usufrutto, uso, servitù, enfiteusi, abitazione, superficie; diritti reali di garanzia: pegno, ipoteca).

2 Il diritto di proprietà
La proprietà, fra i diritti reali, è quella che consente la più ampia sfera di facoltà, che l’ordinamento riconosce ai
soggetti sulle cose.
La proprietà è il diritto di godere e di disporre di una cosa in modo pieno ed esclusivo, nei limiti e con l’osservanza
degli obblighi fissati dalla legge (art. 832).
Il diritto di proprietà presenta i seguenti caratteri:
a) pienezza: la proprietà, giusto il dettato dell’art. 832, costituisce un diritto che consente al proprietario ogni lecita
utilizzazione del bene.
Nell’ampiezza di questo concetto, si individuano i due poteri (o «facoltà») fondamentali del proprietario:
— il potere di godimento del bene relativo al valore d’uso del bene (cd. utilità «diretta»);
— il potere di disposizione del bene (es.: di alienarlo) relativo al valore di scambio del bene (cd. utilità di scambio);
b) elasticità: anche quando i poteri del proprietario sono limitati dall’esistenza di un diritto reale altrui, il diritto di
proprietà (che in tali casi è detta «nuda proprietà») rimane potenzialmente integro: infatti, non appena viene meno
il vincolo che la comprime, la proprietà riprende automaticamente la sua ampiezza primitiva;
c) autonomia ed indipendenza: il diritto di proprietà (a differenza dei diritti reali limitati) non presuppone mai l’esi-
stenza di un parallelo diritto altrui di portata maggiore;
d) perpetuità (carattere discusso);
e) imprescrittibilità: la proprietà non si può perdere per «non uso», bensì soltanto per usucapione, cioè per il possesso
prolungato del bene per un certo periodo di tempo, da parte di un altro soggetto.
I limiti posti dalla legge al diritto di proprietà possono essere di due categorie, secondo la finalità da soddisfare:
a) limiti posti nell’interesse pubblico
— l’espropriazione per pubblica utilità, che è il provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione priva un
soggetto del diritto di proprietà o di un altro diritto reale su un bene immobile trasferendolo a sé, dietro paga-
mento di una giusta indennità;
— la requisizione: provvedimento con il quale la Pubblica Amministrazione acquisisce temporaneamente diritti
altrui (proprietà, uso) per soddisfare un bisogno pubblico.
b) limiti posti nell’interesse privato
— concernono la proprietà immobiliare e regolano i rapporti tra proprietà vicine («diritti e doveri di vicinato»).

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La L. 20-11-2017, n. 168 ha istituito la figura giuridica dei domini collettivi e li riconosce, qualunque sia la loro denominazione,
come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie (in attuazione degli artt. 2, 9, 42, secondo comma, e 43 Cost.). Con
il termine dominio collettivo si indica la situazione giuridica di una determinata estensione di terreno, di proprietà sia pubblica
che privata, oggetto di godimento da parte di una collettività determinata, abitualmente per uso agro-silvo-pastorale.
I (—) riguardano tradizionalmente i beni oggetto del diritto di uso civico, il cui contenuto consiste nel trarre utilità (generalmente
raccolta di legna, uso di acque, semina, pascolo, caccia etc.) da terre pubbliche o private per il perseguimento di finalità di interesse
generale. Il regime giuridico dei beni è quello dell’inalienabilità, dell’indivisibilità, dell’inusucapibilità e della perpetua destinazione
agro-silvo-pastorale; su tali beni è inoltre imposto il vincolo paesaggistico.

3 I modi di acquisto della proprietà


L’art. 922 indica i modi di acquisto della proprietà, ossia quei fatti giuridici che hanno per effetto l’acquisto della
proprietà di una cosa.
Essi si distinguono in:
a) modi d’acquisto a titolo originario: l’acquisto della proprietà non dipende da un egual diritto del precedente
titolare, o perché non deriva da questo (es.: usucapione, acquisto di beni mobili ex art. 1153; vedi infra), o in quanto
addirittura il diritto sorge per la prima volta nel patrimonio dell’attuale proprietario (es.: pescatore che fa propri i
pesci caduti nella sua rete). I modi d’acquisto a titolo originari della proprietà operano ipso iure, senza la necessità
che siano preventivamente accertati dinanzi al giudice;
b) modi d’acquisto a titolo derivativo: il diritto di proprietà dipende dall’esistenza del diritto di un precedente pro-
prietario (es.: compravendita).
I singoli modi di acquisto della proprietà a titolo originario sono:
a) L’occupazione
È la presa di possesso, per le sole cose mobili, accompagnata dall’animo di farle proprie (gli immobili vacanti, invece,
sono di proprietà dello Stato: art. 827). Essa riguarda, in particolare, le cose mobili che non siano proprietà di nessuno
o per non esserlo mai state o per essere state abbandonate dal proprietario.
b) L’invenzione
Per «invenzione», in senso giuridico, s’intende il ritrovamento delle cose smarrite che devono essere consegnate
al proprietario o, se questi è ignoto, al Sindaco del luogo ove vengono rinvenute.
Si noti, però, che:
­­— se, dopo un anno dalla consegna della cosa, il proprietario non si è presentato a ritirarla, il diritto di proprietà su di essa spetta
al ritrovatore;
— se il proprietario si presenta, si deve al ritrovatore un premio, che è del 10% del valore della cosa stessa.

c) Accessione
L’accessione si verifica quando una proprietà preesistente (es.: suolo) attira nella sua orbita altre cose che prima
ne erano estranee (es.: alberi o costruzioni), ciò a prescindere dal concreto esercizio di una volontà di appropriarsene
del soggetto, che può, pertanto, diventare proprietario delle nuove cose anche senza saperlo. Tale acquisto si verifica
sempre a favore del proprietario della cosa principale.
d) L’usucapione (si rinvia al §9).
I modi di acquisto a titolo derivativo sono:
a) Contratti traslativi della proprietà (es.: compravendita).
b) Trasferimenti coattivi (es.: espropriazione).
c) Successione a causa di morte.

4 La difesa della proprietà


Le azioni poste a difesa della proprietà sono dette petitorie, mentre quelle poste a difesa del possesso sono dette
possessorie.
Le azioni petitorie mirano ad accertare ed affermare la titolarità del diritto di proprietà contro chi la contesti di-
rettamente (negandola) o indirettamente (vantando diritti reali limitati sul bene). Sono quattro:
a) L’azione di rivendicazione
È l’azione con cui il proprietario rivendica la cosa propria da chiunque la possiede o la detiene senza titolo (art.
948). È la principale delle azioni petitorie, e mira non solo ad accertare la titolarità del diritto di proprietà, ma anche a
far recuperare al proprietario il bene.
b) L’azione negatoria

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Può definirsi come quell’azione con cui il proprietario tende a far dichiarare l’inesistenza dei diritti affermati da
altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio, o a far cessare le turbative o le molestie che altri arrechi al
suo diritto (art. 949).
c) L’azione di regolamento di confini
Può definirsi come l’azione mediante la quale ciascuno dei proprietari di un fondo confinante può chiedere che sia
stabilito giudizialmente il confine tra i due fondi, quando tale confine sia obiettivamente incerto.
d) L’azione per apposizione di termini
Può essere definita come l’azione con cui ciascuno dei proprietari limitrofi può chiedere, quando sia certo il confine
dei fondi, che siano posti o ripristinati, a spese comuni, i segni materiali e tangibili di tale confine, che precedentemente
mancavano o erano divenuti irriconoscibili.

5 Comunione, condominio e multiproprietà


Il concetto di comunione rientra nel più ampio concetto di contitolarità di diritti e ricorre in tutte quelle ipotesi in
cui uno stesso diritto appartiene, nella sua interezza, a due o più persone. In particolare la comunione ricorre quando
il diritto di proprietà o altro diritto reale su uno stesso bene, appartiene a più persone (cd. «comunisti»).
La comunione può essere:
— volontaria, quando nasce per accordo tra i partecipanti;
— legale o forzosa, se il suo titolo è nella legge (es.: muro confinante);
— incidentale, quando sorge per circostanze fortuite (es.: comunione successoria tra più eredi).
I diritti dei singoli comunisti possono così sintetizzarsi:
— diritto all’uso della cosa comune (art. 1102): ogni partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, senza
alterarne la destinazione;
— diritto di disposizione della quota (art. 1103): ogni partecipante può disporre della sua quota, alienandola o ipote-
candola;
— diritto al godimento degli utili: ognuno gode gli utili della cosa comune, in proporzione della sua quota;
— diritto a chiedere la divisione della cosa comune, salvo patto contrario o divieto legislativo.
L’amministrazione della comunione è affidata all’insieme dei comunisti. Per le decisioni si applica il principio mag-
gioritario (la maggioranza si calcola non in base al numero delle persone, ma in base al valore economico delle quote).
Si applica, invece, il principio dell’unanimità dei consensi per gli atti di alienazione e costituzione dei diritti reali
sul fondo comune.
La cessazione della comunione si attua con la divisione.
Il condominio negli edifici è senz’altro la figura più importante, ed anche più complessa di comunione. È una
particolare forma di comunione forzosa e perpetua, che nasce dal fatto che necessariamente, nel caso di più proprietà
divise per piani, vi sono delle parti dell’intero edificio che non possono non essere in comune (così il suolo su cui l’e-
dificio poggia, le fondazioni, le scale, i muri perimetrali, i tetti etc.). La singolarità di questa figura sta, appunto, nella
circostanza che essa accompagna un diritto di proprietà pieno ed esclusivo: il singolo condomino, cioè, oltre ad essere
esclusivo proprietario del suo appartamento, è nel contempo, e necessariamente, comproprietario delle parti comuni.
La riforma del condominio, attuata con L. 11-12-2012, n. 220 (in vigore il 18-6-2013), ha innovato significativamente la disci-
plina dell’istituto.
In primo luogo, sono meglio identificate «le cose comuni» che rappresentano il contenuto e, quindi, l’essenza del condominio
e, attraverso la rivisitazione della disciplina delle parti comuni (innovazioni, modifica delle destinazioni d’uso, spese), si definisco-
no più incisivamente diritti e facoltà dei singoli condomini. Viene poi ridisegnata la figura dell’amministratore nell’ottica di una
maggiore professionalità, con l’attribuzione di specifiche competenze nella gestione del condominio e nuove responsabilità. Infine
viene innovata la disciplina dell’assemblea al fine di snellire il procedimento di assunzione delle decisioni, nel rispetto di procedure
che garantiscano l’espressione della volontà di tutti i condomini.

Nella prassi contrattuale si è recentemente molto diffusa la multiproprietà immobiliare in zone turistiche, che
ricorre quando lo stesso immobile (o, di solito, la stessa frazione di un complesso residenziale) viene separatamente
alienato a più soggetti. A ciascuno è attribuito il diritto (trasmissibile) di godere di quella frazione immobiliare in modo
esclusivo, ma per periodi di tempo limitati, a turno con gli altri proprietari della medesima frazione immobiliare sulla
quale viene impresso un duplice vincolo di destinazione (turistica) e di indivisibilità.
Attualmente la multiproprietà è disciplinata dal D.Lgs. 6-9-2005, n. 206, recante il Codice del consumo (da ultimo
modif. ex D.Lgs. 79/2011, Codice del turismo).
L’art. 69 del D.Lgs. 206/2005 definisce la multiproprietà come il contratto di durata superiore a un anno tramite il quale un
consumatore acquisisce a titolo oneroso il diritto di godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di
occupazione.

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In omaggio al principio di trasparenza, è previsto (art. 70) l’obbligo per il venditore di predisporre e consegnare a chiunque
richieda informazioni relative all’immobile un documento informativo i cui elementi non possono essere modificati se non da
circostanze indipendenti dalla sua volontà, tuttavia dopo la consegna del documento le parti possono accordarsi per modificarle.
Ai sensi dell’art. 72, il contratto di multiproprietà deve essere redatto per iscritto a pena di nullità o su altro supporto durevole
facilmente accessibile al consumatore.
Di regola, tuttavia, l’acquirente deve esercitare il diritto di recesso entro 14 giorni, peraltro senza dover specificare i motivi e senza
dover pagare alcuna penalità: sarà soltanto tenuto a rimborsare al venditore le spese sostenute per la conclusione del contratto.

6 superficie, enfiteusi ed usufrutto


Il codice civile, all’art. 952, prevede due diverse ipotesi di superficie:
— il diritto di erigere e mantenere una costruzione sul suolo altrui (diritto di edificare);
— il diritto di proprietà su una costruzione già esistente, separato dal diritto di proprietà sul suolo.
Il primo, il diritto di superficie in senso stretto, essendo un diritto reale su cosa altrui, si estingue se il titolare
non costruisce per venti anni.
La seconda ipotesi, la proprietà superficiaria, è un normale diritto di proprietà.
Il titolare del diritto di superficie può alienare la costruzione già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo.
Il diritto di superficie può sorgere: per contratto (a titolo oneroso o gratuito) soggetto a trascrizione, o per testamento.
Il diritto di superficie può essere costituito in perpetuo o a tempo determinato.
L’enfiteusi è quel diritto reale di godimento su cose altrui che attribuisce al titolare lo stesso potere di godimento del
fondo che spetta al proprietario, salvo l’obbligo di migliorarlo e di pagare al concedente un canone periodico (artt. 959-960).
L’enfiteusi può sorgere per: usucapione, testamento, contratto. Può essere costituita in perpetua o a tempo inde-
terminato.
L’usufrutto si concreta nel diritto riconosciuto all’usufruttuario di godere ed usare della cosa altrui, traendo da essa
tutte le utilità che può dare (compresi i frutti che essa produce), con l’obbligo di non mutarne la destinazione economica.
La situazione del proprietario del bene gravato da usufrutto è comunemente detta «nuda proprietà».
L’usufrutto, a differenza degli altri diritti reali, è caratterizzato dalla temporaneità: esso cioè non può eccedere in
nessun caso la vita dell’usufruttuario, se si tratta di persona fisica, o i trent’anni se si tratta di persona giuridica. L’u-
sufrutto può acquistarsi per legge, per contratto, per testamento ed infine per usucapione.
Oggetto dell’usufrutto può essere qualunque specie di bene (mobile o immobile, crediti, azienda etc.).
In linea generale, però, deve trattarsi di beni infungibili ed inconsumabili, stante l’obbligo per l’usufruttuario di re-
stituire lo stesso bene alla fine dell’usufrutto. Tuttavia l’art. 995 ha previsto anche la possibilità di un usufrutto avente
ad oggetto cose consumabili: ed è questo il quasi-usufrutto.
Nel quasi-usufrutto (a differenza che nell’usufrutto) i beni consumabili passano in proprietà all’usufruttuario, il quale
ha l’obbligo di restituire non già gli stessi beni ricevuti (il che sarebbe impossibile: si pensi al denaro ormai speso), ma
altrettanti beni dello stesso genere (tantundem eiusdem generis).

7 Uso e abitazione
Analoghe al diritto di usufrutto, ma con contenuto più ristretto, sono le due figure previste dagli artt. 1021-1022.
Esaminiamole:
— uso (art. 1021): il diritto di uso attribuisce al suo titolare (cd. usuario) il potere di servirsi di un bene e, se esso è frut-
tifero, di raccoglierne i frutti, ma solo limitatamente a quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia;
— abitazione (art. 1022): ancor più ristretto è il diritto di abitazione, che conferisce al titolare soltanto il diritto di
abitare una casa limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia.
I diritti di uso e di abitazione hanno carattere personalissimo e, quindi, non possono essere ceduti o locati.

8 Le servitù
La servitù consiste nella limitazione imposta sopra un fondo (cd. fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (cd.
fondo dominante), appartenente a diverso proprietario (art. 1027).
L’«utilità» per il fondo dominante consiste in un qualsiasi vantaggio, anche non economico, che consenta una migliore utilizza-
zione del fondo. In particolare, essa può:
— consistere nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante (art. 1028): es., per conservare la vista panoramica di una
villa, può costituirsi una servitù che impedisca di edificare sul fondo vicino;
— essere inerente alla destinazione industriale del fondo (art. 1028): es., può costituirsi una servitù di presa d’acqua su un fondo
per assicurare l’acqua necessaria al funzionamento di uno stabilimento sito su un fondo vicino.
È inoltre ammessa anche la costituzione di una servitù per assicurare a un fondo un vantaggio futuro (art. 1029).
Si distinguono le servitù volontarie da quelle coattive, a seconda che si costituiscano per volontà dei singoli oppure
per legge.

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La servitù coattiva è quella i cui presupposti sono espressamente stabiliti dalla legge; essa però non sorge auto-
maticamente al verificarsi delle condizioni prescritte, in quanto occorre sempre un atto di volontà del proprietario del
fondo dominante il quale o la otterrà contrattualmente, ovvero potrà rivolgersi al giudice per ottenere una sentenza
costitutiva.
Le servitù coattive sono tipiche, e cioè sono soltanto quelle previste dalla legge.
I modi di acquisto comuni a tutte le servitù volontarie sono:
— il contratto: tra proprietario del fondo dominante e del fondo servente. Si tratta di un contratto formale, con effetti
reali, normalmente oneroso;
— il testamento;
— usucapione ordinaria o abbreviata;
— destinazione del padre di famiglia (art. 1062): è un modo d’acquisto che non ha natura negoziale, ma di «atto giu-
ridico in senso stretto».
Le servitù si estinguono per:
— confusione: riunione nella stessa persona della proprietà del fondo dominante e del fondo servente;
— prescrizione estintiva ventennale (non uso);
— scadenza del termine e verificarsi della condizione risolutiva previsti nel titolo;
— abbandono del fondo servente (1070) da parte del proprietario che voglia così sottrarsi alle spese per la servitù, cui è tenuto in
forza di legge o del titolo, rinunziando alla proprietà del fondo in favore del proprietario del fondo dominante;
— rinunzia del proprietario del fondo dominante;
— totale perimento del fondo servente o dominante;
— impossibilità d’uso e mancanza di utilità, una volta decorso il termine prescrizionale ventennale (art. 1074).

9 Possesso e usucapione
A norma dell’art. 1140, il possesso è «il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio
della proprietà o di altro diritto reale».
Gli elementi del possesso sono:
— il corpus possessionis: che si identifica con il comportamento materiale che il soggetto assume nei confronti del bene, esercitando
un’attività corrispondente a quella del proprietario o del titolare di un diritto reale (elemento oggettivo);
— l’animus possidendi: che si identifica nella volontà del possessore di esercitare sul bene i poteri del proprietario o del titolare
di altro diritto reale (elemento soggettivo).

L’acquisto del possesso si realizza con la consegna della cosa o con la successione.
La legge prevede due forme di congiunzione per far godere all’attuale possessore gli effetti di un precedente possesso:
a) la successione nel possesso (art. 1146, comma 1): alla morte del possessore, il possesso continua nel suo erede con
gli stessi caratteri che aveva rispetto al defunto (buona o malafede, vizi etc.);
b) l’accessione del possesso (art. 1146, comma 2): il successore a titolo particolare (legatario o acquirente per atto
tra vivi) può (ma non ne ha l’obbligo) unire al proprio possesso quello del suo autore (se era in buona fede e non
viziato) ai fini dell’usucapione.
A norma dell’art. 1153 «colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non è proprietario, ne acquista la
proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al
trasferimento della proprietà».
Si sancisce, cioè, il principio secondo cui — in materia mobiliare — il possesso vale titolo.
Le azioni possessorie sono rimedi giudiziari aventi come fine immediato la tutela del possesso contro qualsiasi
turbativa. Esse sono:
a) l’azione di reintegrazione o di spoglio è l’azione con cui il possessore, spogliato del possesso di un bene, chiede,
entro l’anno dal sofferto spoglio, di essere reintegrato in esso (art. 1168).
Lo spoglio, di cui il possessore è stato vittima, deve essere stato effettuato con violenza (ossia con ricorso alla forza
o con minacce) o con clandestinità;
b) l’azione di manutenzione è diretta a tutelare i possessori contro le molestie o le turbative, di fatto o di diritto; essa
è altresì concessa contro lo spoglio non violento o non clandestino.
Con l’azione di manutenzione è tutelabile soltanto il possesso avente ad oggetto un bene immobile o una universalità
di mobili, che sia ultrannuale, continuo e non interrotto, non acquistato con violenza o con clandestinità.
Il termine per proporre l’azione è quello di un anno dalla molestia o dallo spoglio.
Le azioni di nunciazione sono azioni cautelari che tendono alla conservazione di uno stato di fatto, mirando a
prevenire un danno o un pregiudizio che può derivare da una nuova opera o da una cosa altrui.

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Esse sono:
— la denunzia di nuova opera è l’azione con cui il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, denunzia
un’opera da altri intrapresa e non terminata (purché non sia trascorso un anno dal suo inizio) quando abbia ragione di temere
che da essa possa derivare un danno alla cosa che forma oggetto del suo diritto o possesso;
— la denunzia di danno temuto è quella con cui il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore, si rivolge
all’autorità giudiziaria, quando teme che da un albero, una costruzione etc. (cose, comunque, già esistenti) stia per derivare un
danno grave e prossimo (ossia imminente) alla cosa che forma oggetto del suo diritto.

L’usucapione è il mezzo in virtù del quale, per effetto del possesso protratto per un certo tempo e, talora, di altri
requisiti, si produce l’acquisto della proprietà o dei diritti reali di godimento.
Requisiti dell’usucapione, dunque, sono: il possesso continuo e non interrotto, non violento né clandestino ed il
decorso di un certo periodo di tempo.
L’usucapione ordinaria è quella che si compie col decorso di:
— venti anni: per i beni immobili, universalità di mobili (artt. 1158 e 1160).
Si definisce universalità di mobili quel complesso di cose che appartengono alla stessa persona ed hanno una destinazione
unitaria (es. un gregge, una biblioteca, una raccolta di monete);
— dieci anni: per i beni mobili registrati (art. 1162, comma 2).
I beni mobili registrati sono quei beni mobili che, in considerazione della loro rilevanza, sono dalla legge equiparati, quanto
ad alcuni aspetti della disciplina giuridica (forma ed onere di pubblicità), ai beni immobili; tali beni sono, in genere, i cd. beni
di locomozione e trasporto, come le navi, gli aeromobili, gli autoveicoli.

L’usucapione abbreviata è una sottospecie dell’usucapione ordinaria, da cui si differenzia per il solo fatto che
richiede alcuni requisiti in più e si realizza in minor tempo:
a) requisiti:
— la buona fede al momento dell’acquisto del possesso;
— un titolo valido ed astrattamente idoneo al trasferimento del diritto;
— la trascrizione del titolo;
b) durata, perché si verifichi l’usucapione abbreviata occorre distinguere tra:
— beni immobili, per i quali occorrono dieci anni;
— universalità di mobili, per le quali occorrono dieci anni;
— beni mobili registrati, per i quali bastano tre anni.
Per i beni mobili bisogna distinguere due ipotesi:
— se vi è il titolo astrattamente idoneo, possesso e buona fede dell’acquirente l’acquisto è immediato (art. 1153);
— se manca il titolo idoneo, l’usucapione si realizza dopo dieci anni, qualora il possesso sia stato acquistato in buona fede.
Se il possessore è di mala fede, l’usucapione si compie con il decorso di venti anni (art. 1161).

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Il rapporto obbligatorio, la responsabilità
del debitore e le garanzie del creditore

Sommario: 1. Generalità. - 2. I privilegi. - 3. I diritti reali di garanzia: pegno e ipoteca. - 4. Garanzie semplici o personali.
- 5. La caparra.

1 Generalità
L’obbligazione è il rapporto tra due parti in virtù del quale una di esse (debitore) è tenuta ad effettuare una deter-
minata prestazione a favore dell’altra (creditore).
Le fonti delle obbligazioni possono essere i contratti, i fatti illeciti e ogni altro fatto o atto idoneo a produrre un’ob-
bligazione in conformità dell’ordinamento giuridico (es.: obbligo del coniuge di prestare gli alimenti).
L’obbligazione crea un vincolo giuridico fra le parti, articolandosi in debito, ossia il dovere di adempiere la presta-
zione, e responsabilità, consistente nell’assoggettamento del patrimonio del debitore al potere coattivo del creditore,
in caso di inadempimento.
Contrariamente ai diritti reali, le obbligazioni tendono a estinguersi in un breve periodo di tempo; infatti, quando il
creditore ha raggiunto il proprio vantaggio patrimoniale, il vincolo obbligatorio viene meno in quanto non ha alcuna
ragione di continuare ad esistere.
Modo normale di estinzione dell’obbligazione è l’adempimento o pagamento in generale (art. 1218), che consiste
nell’esatta esecuzione della prestazione, ossia di tutto quanto è stato dedotto nel rapporto obbligatorio. Esso estingue,
in via diretta e contemporanea, sia l’obbligo del debitore, sia il diritto del creditore.
L’art. 1176 impone al debitore di usare, nell’adempimento dell’obbligazione, la diligenza del buon padre di famiglia
per evitare la responsabilità contrattuale.
Il mancato o inesatto adempimento può dipendere:
— o da cause imputabili al debitore: in tal caso si parlerà di inadempimento ed il debitore sarà responsabile;
— o da cause non imputabili al debitore: in tal caso si parlerà di impossibilità sopravvenuta ed il debitore sarà liberato
dall’obbligo senza alcuna responsabilità.
Venuto a mancare l’adempimento della prestazione, il patrimonio del debitore viene assoggettato all’adempimento
forzoso da parte del creditore. In materia vigono due principi fondamentali:
— tale assoggettamento cade su tutti i beni presenti e futuri del debitore (cioè anche quelli pervenuti dopo l’assunzione
dell’obbligo: art. 2740);
— inoltre, tutti i creditori hanno uguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore (garanzia generica), salve le
cause legittime di prelazione (art. 2741): queste consistono nel diritto di preferenza che la legge riconosce a deter-
minati crediti (sono il pegno, l’ipoteca e i privilegi).

2 I privilegi
Il privilegio è un titolo di prelazione che la legge accorda al creditore in considerazione della particolare natura o
causa del credito (art. 2745). Fonte dei privilegi è soltanto la legge: le parti non possono creare altri crediti privilegiati
oltre quelli previsti dal legislatore.
I privilegi si distinguono in due categorie:
a) Privilegio generale, che è solo mobiliare e si fa valere sul ricavato della vendita coattiva eseguita su tutti i beni
mobili del debitore.
b) Privilegio speciale, che può essere mobiliare o immobiliare e grava soltanto su determinati beni del debitore.

3 I diritti reali di garanzia: pegno e ipoteca


Anche il pegno e l’ipoteca sono cause legittime di prelazione; in quanto diritti reali, però, essi presentano altresì i
seguenti requisiti:
— l’immediatezza: per il loro esercizio non occorre la cooperazione di alcun soggetto;
— l’assolutezza: sono opponibili «erga omnes»;
— il diritto di sequela (di «inseguire», cioè, il bene): nel senso che il creditore ha il potere di soddisfarsi sul bene anche
se la proprietà è passata ad altra persona. Il pegno è un diritto reale di garanzia, concesso dal debitore (o da un
terzo) su cosa mobile a garanzia di un credito.

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Esso si costituisce mediante contratto (contratto di pegno), tra il creditore e il debitore o un terzo datore del bene. Il
contratto si perfeziona con la consegna al creditore della cosa. Il debitore (o il terzo) proprietario del bene ne è tempo-
raneamente spossessato a garanzia del pagamento del debito. Il possesso della cosa, come si è visto, passa al creditore
(ma non l’uso e la disponibilità), mentre il creditore ha l’obbligo di custodire la cosa e di restituirla, quando il credito sia
stato interamente soddisfatto.
L’ipoteca è un diritto reale di garanzia, concesso dal debitore (o da un terzo) su un bene, a garanzia di un credito,
che attribuisce al creditore il potere di espropriare il bene e di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato.
Possono essere oggetto di ipoteca:
— i beni immobili con le loro pertinenze;
— i beni mobili registrati (navi, aeromobili, autoveicoli);
— l’usufrutto, il diritto di superficie, il diritto dell’enfiteuta e quello del concedente sul fondo enfiteutico;
— le rendite dello Stato (art. 2810).
Il diritto di ipoteca si costituisce mediante iscrizione nell’apposito registro presso l’ufficio dei registri immobiliari
che ha competenza territoriale sul luogo ove si trova il bene. Tale iscrizione ha, pertanto, carattere costitutivo.
In relazione alle fonti, la legge distingue:
— l’ipoteca legale (art. 2817): si ha quando è la legge che attribuisce ad alcuni creditori, in considerazione della cau-
sa dal credito o della qualità o posizione assunta dal creditore stesso, il diritto ad ottenere l’iscrizione ipotecaria,
senza il concorso della volontà del debitore;
— l’ipoteca giudiziale (artt. 2818-2820): chi ha ottenuto una sentenza di condanna al pagamento di una somma o
all’adempimento di un’altra obbligazione o al risarcimento dei danni (anche se la liquidazione dei danni è rinviata
ad un momento successivo), ha titolo per iscrivere ipoteca, anche se la sentenza non ha forza esecutiva o è sotto-
posta a impugnazione;
— l’ipoteca volontaria (artt. 2821-2826): nasce da contratto o da dichiarazione unilaterale di volontà da parte del
concedente (con atto pubblico o scrittura privata).
L’ordine di preferenza fra varie ipoteche iscritte sullo stesso bene è determinato non dalla data del titolo, ma dalla
data dell’iscrizione. Ogni iscrizione, infatti, riceve un numero d’ordine, che è il cd. grado dell’ipoteca.

4 Garanzie semplici o personali


Sono quelle garanzie che non si costituiscono mediante la creazione di un rapporto con una cosa determinata
con conseguente diritto di prelazione sulla stessa, ma consistono nella creazione di un nuovo rapporto obbligatorio
(accessorio all’obbligazione principale) fra lo stesso creditore e un altro debitore che si aggiunge, col suo patrimonio,
a rafforzare la garanzia del creditore.

a) La fideiussione
La fideiussione si costituisce mediante un contratto col quale un terzo si obbliga personalmente verso il creditore,
garantendo l’obbligazione altrui. Di regola la fideiussione presuppone un accordo con il debitore principale.

b) L’avallo
L’avallo è una dichiarazione cambiaria, con la quale taluno garantisce il pagamento della cambiale per uno degli
obbligati cambiari.
Si tratta di un’obbligazione cambiaria autonoma di garanzia, diversa però dalla fideiussione. Infatti, la fideiussione
ha come sua caratteristica l’accessorietà, accede ad una obbligazione principale e ne segue le sorti; l’avallo, invece, è
indipendente dalla obbligazione cambiaria per cui è dato. L’obbligazione di avallo deve essere scritta sulla cambiale: di
solito si usa la dizione «per avallo» seguita dalla firma dell’avallante, ma basta anche la sola firma apposta sulla facciata
anteriore della cambiale.

c) La clausola penale
La legge consente alle parti di determinare preventivamente una somma da pagare o altra prestazione da eseguire
nel caso di inadempimento.
Questo patto accessorio è detto clausola penale (art. 1382): ha la funzione primaria di liquidare preventivamente i
danni, ma rappresenta, altresì, una specie di pena per l’inadempimento, in quanto è dovuta indipendentemente dalla
prova dell’esistenza stessa del danno (agevolando il creditore, che non deve dimostrare il pregiudizio subito).

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5 La caparra
Per i soli contratti a prestazioni corrispettive, per rafforzare il diritto del creditore al risarcimento del danno in caso
di inadempimento, le parti possono convenire che una consegni nelle mani dell’altra una caparra, ossia una somma
di denaro o una quantità di cose fungibili.
Si distingue tra:
— caparra confirmatoria (art. 1385): è una somma di danaro o una quantità di cose fungibili che, al momento della
costituzione del rapporto obbligatorio, una parte dà all’altra, quale conferma dell’adempimento, di cui segna quasi
un’anticipata e parziale esecuzione.
Se il contratto viene adempiuto, la caparra deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta. In caso di
inadempimento, invece, se inadempiente è la parte che ha dato la caparra, l’altra può recedere dal contratto e
ritenere la caparra; se inadempiente è la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il
doppio della caparra;
— caparra penitenziale (art. 1386): in cui la somma che una parte dà all’altra non rappresenta una cautela contro
l’inadempimento, ma è il corrispettivo per l’attribuzione della facoltà di recesso dalla obbligazione contrattuale
(cioè di liberarsi dall’obbligazione assunta).
Una volta versata la caparra, i contraenti si riservano la scelta tra l’adempimento ed il recesso. Il recesso si attua
per volontà unilaterale: rinunziando alla caparra nelle mani della controparte, se recede il soggetto che l’ha con-
segnata, o provvedendo alla restituzione di una doppia caparra nella ipotesi inversa.

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I contratti

Sommario: Sezione Prima: Nozione e classificazione dei contratti. - 1. Definizione ed elementi del contratto. - 2. La
classificazione dei contratti. - Sezione Seconda: Formazione del contratto e contratto preliminare. - 1. Fasi delle tratta-
tive. - 2. Il contratto per adesione. - 3. Il contratto preliminare. - 4. I contratti del consumatore. - Sezione Terza: Inter-
pretazione ed integrazione del contratto. - 1. Nozione di interpretazione: interpretazione soggettiva ed oggettiva. - 2.
L’integrazione del contratto. - Sezione Quarta: Gli effetti del contratto. - 1. Effetti verso le parti: creazione del vincolo.
- 2. Segue: Il recesso (art. 1373). - 3. Contratti obbligatori e contratti ad effetti reali, immediati e differiti. - 4. Effetti del
contratto nei confronti dei terzi. - 5. Conflitti fra aventi diritto sullo stesso oggetto. - Sezione Quinta: La rescissione e la
risoluzione del contratto. - 1. Lo scioglimento del contratto. - 2. Segue: Ulteriori casi di risoluzione.

Sezione Prima
Nozione e classificazione dei contratti

1 Definizione ed elementi del contratto


Il contratto è la più importante fonte di obbligazione e viene definito direttamente dalla legge come «l’accordo di
due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale» (art. 1321).
La funzione del contratto può assumere tre aspetti:
— costituire, ossia dar vita ad un rapporto che prima non esisteva;
— regolare, ossia introdurre qualsiasi modificazione di un rapporto già esistente;
— estinguere, ossia porre fine ad un rapporto preesistente.
Il «contratto» è un «negozio giuridico», e come tale presenta gli elementi (essenziali e accidentali) propri di ogni
negozio giuridico. L’art. 1325 enuncia tali elementi essenziali del contratto:
— l’accordo o consenso delle parti, derivante dalla combinazione delle volontà degli stipulanti;
— la causa, ossia la funzione economico-sociale cui il contratto adempie;
— la forma, quando è richiesta ad substantiam;
— l’oggetto (ossia la prestazione), che deve essere:
a) possibile: se oggetto del contratto è una cosa fisica, questa deve esistere o poter esistere; se, invece, un com-
portamento umano, questo deve essere compatibile con le capacità fisiche ed intellettuali dell’individuo;
b) lecito: cioè non contrario alla legge, ordine pubblico, buon costume;
c) determinato o determinabile: certo e individuato o, quanto meno, individuabile nel momento dell’esecuzione.

2 La classificazione dei contratti


a) Riguardo al perfezionamento del vincolo contrattuale
Distinguiamo:
— contratti consensuali: che costituiscono la maggioranza e si perfezionano con il semplice consenso (se voglio ven-
dere la mia automobile, il contratto si perfeziona quando si forma l’accordo con il compratore, indipendentemente
dalla consegna dell’auto);
— contratti reali: tale categoria di contratti richiede, per il suo perfezionarsi, oltre al consenso delle parti, anche la
consegna della cosa (re perficitur obligatio) che, pertanto, non è un effetto obbligatorio del contratto, ma un ele-
mento costitutivo dello stesso.

b) Riguardo al tempo della esecuzione


Distinguiamo:
— contratti ad esecuzione istantanea: sono quelli che esauriscono i loro effetti in un solo istante o all’atto della
conclusione del contratto (contratti ad esecuzione immediata) o in un momento successivo (contratti ad esecuzione
differita);
— contratti di durata: sono quelli la cui esecuzione si protrae nel tempo o in modo continuo (contratti ad esecuzione
continuata) o ad intervalli (contratti ad esecuzione periodica).

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c) Riguardo agli effetti del contratto


Distinguiamo:
— contratti ad effetti reali o traslativi: sono quelli che producono, come effetto, il trasferimento della proprietà di
un bene determinato (o la costituzione o il trasferimento di un diritto reale su un bene determinato: art. 1376);
— contratti ad effetti obbligatori (o obbligatori): sono quelli che danno luogo alla nascita di un rapporto obbligatorio:
non fanno sorgere diritti reali, ma solo diritti personali di credito o godimento (es.: locazione, deposito etc.).

d) Riguardo al nesso tra le attribuzioni patrimoniali


Abbiamo:
— contratti a prestazioni corrispettive, caratterizzati dal fatto che:
— il contratto genera due attribuzioni patrimoniali contrapposte e ciascuna delle parti è tenuta ad una prestazione
(vi è, cioè, prestazione e controprestazione);
— tra le due prestazioni si stabilisce uno speciale nesso di corrispettività (sinallagma) che consiste nella interdi-
pendenza fra esse, per cui ciascuna parte non è tenuta alla propria prestazione, se non è effettuata anche la
prestazione dell’altra parte;
— contratti con prestazione unica: sono quei contratti che, pur implicando l’esistenza di due parti e due distinte
dichiarazioni di volontà, generano l’obbligo della prestazione per una sola parte, che si trova nella posizione esclu-
siva di debitore (es.: donazione, mutuo senza interessi etc.). Tali contratti sono anche detti unilaterali.

e) Riguardo al rapporto tra i corrispettivi


I contratti a prestazioni corrispettive si distinguono, a loro volta, in:
— contratti commutativi: in tali contratti, fin dal momento della conclusione, ciascuna delle parti conosce l’entità
del vantaggio e del sacrificio che riceverà dal contratto (es.: vendita, nella quale il venditore sa che si spoglierà del
bene e che in cambio riceverà una certa somma di danaro);
— contratti aleatori: sono quelli in cui, all’atto della stipulazione, non è nota l’entità del sacrificio e l’entità del van-
taggio a cui ciascuna parte si espone.

Sezione Seconda
Formazione del contratto e contratto preliminare

1 Fasi delle trattative


a) Generalità
Il contratto si forma attraverso le trattative tra le parti, che hanno carattere strumentale e preparatorio. Durante tali
trattative le parti contraenti hanno il dovere di comportarsi secondo buona fede: il loro comportamento deve essere
ispirato a lealtà e correttezza (art. 1337).
La violazione del dovere di correttezza comporta una responsabilità che prende il nome di responsabilità precontrattuale o
culpa in contrahendo.
Il danno risarcibile comprende:
— le spese e le perdite connesse strettamente con le trattative (es.: spese di viaggio e di corrispondenza): danno emergente;
— il vantaggio che la parte avrebbe potuto procurarsi con altre contrattazioni: lucro cessante.

b) La proposta
Le trattative iniziano con la proposta: essa, per essere idonea a costituire il vincolo contrattuale, deve essere com-
pleta, ossia deve contenere tutti gli elementi essenziali del contratto cui è diretta.
Da ciò discende che:
— il proponente può revocare la proposta finché il contratto non sia concluso, cioè fino al momento in cui egli viene
a conoscenza dell’accettazione dell’altra parte (art. 1328). Tuttavia, se l’accettante ha già intrapreso in buona fede
l’esecuzione del contratto, prima di avere notizia della revoca, il proponente lo deve indennizzare delle spese e delle
perdite subite per l’inizio dell’esecuzione (art. 1328);
— il proponente può rivolgere la stessa proposta a più persone;
— la proposta perde efficacia e libera il proponente qualora l’accettazione non intervenga entro il termine stabilito dal
proponente, o entro quello ordinariamente necessario secondo la natura dell’affare e secondo gli usi (art. 1326);

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— la proposta è caducata dalla morte o dalla sopravvenuta incapacità di contrattare del proponente, anteriore alla
conoscenza dell’intervenuta accettazione, salvo il caso in cui la proposta è irrevocabile o quando è stata fatta da un
imprenditore non piccolo nell’esercizio della sua impresa (art. 1330).

c) L’offerta al pubblico (art. 1336)


È un particolare tipo di «proposta» consistente in un’offerta diretta al pubblico, cioè in incertam personam, e fatta
col sistema dei pubblici proclami affinché sia eventualmente accettata da persona cui essa convenga.
L’offerta al pubblico costituisce proposta revocabile. La revoca, però, deve essere effettuata nella stessa forma
dell’offerta.

d) L’accettazione
È una dichiarazione recettizia che diviene elemento perfezionativo del contratto quando è portata a conoscenza
del proponente.
Deve essere tempestiva e coincidente in pieno con tutte le clausole contenute nella proposta: se è anche parzial-
mente difforme, o se giunge a conoscenza del proponente oltre il termine pattuito o ordinariamente necessario, vale
solo come controproposta.
Deve avere la forma richiesta dal contratto che si vuole concludere.
Deve essere fatta alla persona del proponente o ad un suo rappresentante (perché è dichiarazione recettizia).
Anche l’accettazione può essere revocata (o ritirata), purché la revoca giunga al proponente prima dell’accettazione
stessa (art. 1328, co. 2).
Si ha accettazione tacita qualora l’esecuzione immediata del contratto sia richiesta dal proponente o dalla natura
dell’affare o dagli usi.
In questi casi il contratto si conclude nel tempo e nel luogo in cui ha inizio l’esecuzione (art. 1327) ed il proponente
non potrà revocare la proposta dopo che l’altra parte abbia iniziato ad eseguire la prestazione richiesta.
L’accettazione tacita, comunque, deve risultare da un comportamento manifesto ed inequivocabile e non da una
mera dichiarazione.

e) Conclusione del contratto


Il contratto è concluso quando l’accettazione sia giunta all’indirizzo del proponente, salvo che questi dimostri che
egli, per un fatto non dovuto a sua colpa, non ne abbia avuto conoscenza (art. 1335).

2 Il contratto per adesione


a) Nozione e funzione
Nel contratto per adesione è già predisposto dal proponente il contenuto del contratto, tutte le clausole sono
prestabilite e l’altro contraente non può discutere il contenuto, bensì è tenuto ad aderire in blocco alla proposta se
vuole stipulare il contratto.
Funzione di detti contratti è di eliminare la fase delle trattative.

b) Disciplina giuridica (artt. 1341-1342)


La legge, nel prendere atto dei mutamenti della realtà economica, allo scopo di contemperare l’esigenza di spedi-
tezza nella conclusione dei contratti con l’opposta esigenza di tutelare il contraente più debole, stabilisce che:
a) le condizioni generali di contratto, ossia le condizioni predisposte in modo uniforme da uno dei contraenti (pro-
duttore industriale, impresa di trasporti, banca etc.) e destinate a valere per tutti i contratti conclusi coi consuma-
tori o gli utenti, sono efficaci per l’altro contraente se, al momento della conclusione del contratto, questi le ha
conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza (art. 1341, co. 1). Pertanto, l’altro contraente
resta vincolato anche se non abbia conosciuto tali condizioni e non le abbia perciò volute. È infatti sufficiente che
esse siano rese conoscibili;
b) le clausole vessatorie, ossia quelle clausole (predisposte da una parte nelle condizioni generali o nei contratti con-
clusi mediante moduli o formulari) particolarmente gravose per la controparte, non hanno effetto se quest’ultima
non le abbia specificatamente approvate per iscritto (art. 1341, co. 2). La mancata approvazione per iscritto di tali
clausole ne determina la nullità, secondo alcuni, l’inefficacia della sola clausola, secondo altri;
c) le clausole aggiunte ai moduli o ai formulari prevalgono su quelle predisposte in caso di incompatibilità (art. 1342).

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3 Il contratto preliminare
a) Nozione e forma
Contratto preliminare è quello con cui le parti si obbligano a stipulare un futuro contratto detto definitivo. L’oggetto
consiste, dunque, in una prestazione di facere: quella di prestare un futuro consenso.
Il contratto preliminare è un contratto già perfetto e vincolante per le parti, pur inserendosi nelle trattative ed assolvendo una
funzione preparatoria del contratto definitivo, del quale determina il contenuto.

Per l’art. 1351 il contratto preliminare è nullo se non è stipulato nella stessa forma del contratto definitivo (forma
ad substantiam).

b) Reazione all’inosservanza del contratto preliminare


Se il soggetto obbligato a contrarre non adempie, l’altra parte può:
— chiedere la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento, con la condanna dell’inadempiente al risar-
cimento del danno (caso raro nella pratica);
— provocare, mediante domanda giudiziale, l’emanazione di una sentenza costitutiva (tranne nel caso di contratto
reale): sentenza che tiene luogo del consenso e produce gli stessi effetti del contratto definitivo non concluso (art.
2932).
L’art. 2645bis, introdotto dalla L. 30/1997, ha stabilito l’obbligo di trascrizione dei preliminari relativi ad operazioni su beni
immobili con prevalenza sulle trascrizioni o sulle iscrizioni (es. ipoteca) avvenute dopo la trascrizione del preliminare relative al
bene immobile oggetto del preliminare.

Diverso da tale contratto è il cd. preliminare improprio o compromesso, che è un contratto definitivo, immediatamen-
te efficace, ma che contiene l’obbligo di riprodurre il consenso in forma determinata (soprattutto ai fini della trascrizione).
La giurisprudenza (Cass. Sez.Un. 4628/2015) ha affrontato il problema dell’ammissibilità o meno del c.d. contratto
preliminare di preliminare. In presenza di una contrattazione che preveda la stipulazione di un contratto preliminare
dopo la conclusione di un primo accordo, anch’esso preliminare, occorre verificare se tale primo accordo costituisca
già esso stesso un contratto preliminare valido e suscettibile di produrre effetti ex artt. 1351 e 2932 c.c., oppure sol-
tanto effetti obbligatori con esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento. In particolare,
l’accordo preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare è
produttivo di effetti soltanto quando emerga l’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata
sulla diversità dei contenuti negoziali.
Altra tesi ritiene che il preliminare di preliminare è sempre nullo per difetto originario di causa, non essendo meritevole di
tutela l’interesse di «obbligarsi a obbligarsi» (Cass. 19557/2009), ben potendo l’impegno essere assunto immediatamente: non ha
senso promettere di promettere qualcosa, anziché prometterlo subito. A questa tesi, però, le Sezioni Unite hanno recentemente
obiettato che al contratto preliminare può riconoscersi una funzione giuridicamente apprezzabile qualora sia idoneo a produrre
effetti diversi da quelli del contratto preparatorio: soltanto se il secondo preliminare produce gli stessi effetti del primo (cioè,
impegnarsi a stipulare alle medesime condizioni e sul medesimo bene), il primo dovrà ritenersi nullo per difetto di causa.

La violazione del primo accordo, se contraria a buona fede, può dare luogo a responsabilità per la mancata conclu-
sione del contratto successivo, responsabilità di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto
nella fase precontrattuale.

4 I contratti del consumatore (D.Lgs. 206/2005)


La disciplina è volta a tutelare i consumatori, cioè coloro che stipulano contratti, per scopi estranei all’attività
imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata (art. 3, co. 1, lett. a), D.Lgs. 206/2005), con il professionista,
che agisce nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale (art. 3, co. 1, lett. c). Può essere sottoposto
alla disciplina a protezione del consumatore anche colui che stipuli il contratto per finalità promiscue, come accade
nei contratti di acquisto di beni suscettibili di essere utilizzati sia per esigenze di tipo professionale sia per esigenze
personali o, comunque, estranee all’attività professionale o imprenditoriale esercitata (ad es., automobile o personal
computer), purché il soggetto agisca per scopi che, prevalentemente, non rientrino nella sua attività imprenditoriale
o professionale.
Un aspetto particolare dei contratti dei consumatori è dato dalla disciplina delle clausole vessatorie (artt. 33 ss.).
È previsto il divieto di clausole vessatorie (artt. 33 ss.): sono vessatorie tutte le clausole che «determinano a carico
del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto».
La valutazione del carattere vessatorio della clausola non può riguardare la determinazione dell’oggetto del contratto né l’a-
deguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile; su questi
elementi il consumatore deve prendersi la piena responsabilità delle proprie scelte, senza poter cercare ex post l’aiuto della legge.
Per valutare la vessatorietà delle clausole deve tenersi conto della natura del bene o servizio, e il giudizio sulla vessatorietà di una

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clausola può essere influenzato dalla considerazione delle altre clausole (una clausola di per sé squilibrata a danno del consumatore
può trovare riequilibrio in altre clausole vantaggiose per lui). Il D.Lgs. 206/2005 individua talune clausole presuntivamente vessatorie:
se una clausola corrisponde a una voce dell’elenco contenuto nell’art. 33, co. 2 (ad es., limita la responsabilità del professionista) si
presume vessatoria salvo prova contraria fornita dal professionista. È esclusa la vessatorietà (art. 34, co. 3 e 4) quando la clausola
riproduce il contenuto di un atto normativo (legge o convenzione internazionale) o quando ha formato oggetto di trattativa indivi-
duale fra le parti. È onere del professionista dimostrare che la trattativa c’è stata e che è stata una trattativa vera e reale.

Il rimedio contro le clausole vessatorie che riguarda l’ambito individuale, invocabile dal singolo consumatore in
relazione a un singolo contratto, è la nullità: la clausola è cancellata e non vincola il consumatore (art. 36, co. 1). È una
nullità relativa (può farla valere solo il consumatore e non il professionista) e parziale (anche se la clausola è essenziale
per il professionista, il contratto resta valido).
È previsto anche il rimedio collettivo dell’inibitoria, con cui il giudice proibisce di inserire quella clausola in tutti i
futuri contratti che saranno conclusi con i consumatori sulla base di quelle condizioni standard (art. 37): esso riguarda
le clausole contenute in condizioni generali predisposte da un’impresa o categoria di imprese per un impiego uniforme
in un numero indefinito di rapporti e può essere attivato da associazioni di consumatori o imprenditori.
L’art. 37bis, D.Lgs. 206/2005 prevede anche un controllo amministrativo delle clausole vessatorie: l’Autorità antitrust può esa-
minare le clausole standard presenti sul mercato e, se le ritiene vessatorie, lo rende noto con un provvedimento a cui viene data
ampia pubblicità; non ne deriva, quindi, automaticamente la nullità o l’inibitoria del loro impiego, che possono essere pronunciate
solo dal giudice.

Da menzionare è la cd. class action, azione collettiva risarcitoria, che può essere chiesta da un singolo soggetto,
anche mediante associazioni cui dà mandato, a vantaggio di tutti i consumatori che si trovino in situazione omogenea
e che aderiscano all’azione esperita dal promotore).
Sono infine previste procedure per la risoluzione extragiudiziale delle controversie (artt. 141 ss.), mutuate dai sistemi comunitari
di ADR (Alternative Dispute Resolution).

Sezione Terza
Interpretazione ed integrazione del contratto

1 Nozione di interpretazione: interpretazione soggettiva ed oggettiva


L’interpretazione del contratto consiste nell’attività rivolta ad indagare e ricostruire il significato da attribuire alle
dichiarazioni delle parti.
Può, infatti, accadere che le dichiarazioni negoziali abbiano un significato equivoco, in quanto siano intese diver-
samente dal dichiarante, dal destinatario della dichiarazione e dai terzi interessati.
La legge, pertanto, detta una serie di regole da seguire per l’interpretazione dei contratti (artt. 1362-1371) e da
applicare, in quanto compatibili, anche ai negozi unilaterali e agli atti mortis causa.
Tra le norme in tema di interpretazione soggettiva (artt. 1362-1365) importanza fondamentale ha l’art. 1362, secondo
cui occorre accertare la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale che emerge dalle parole usate.
Altra norma di rilievo è quella (art. 1366) secondo cui il contratto deve essere interpretato secondo buona fede. Tale
buona fede non va intesa in senso soggettivo, ma è rappresentata dal comportamento leale dei soggetti, da apprezzarsi
secondo la media coscienza sociale.
Nel caso in cui l’indagine sulla comune volontà delle parti non ha portato ad alcun utile risultato hanno vigore
le norme interpretative-integrative (artt. 1367-1370). Esse rappresentano lo strumento per accertare la volontà che
presumibilmente le parti vollero esternare.
Tali norme, in particolare, riguardano:
— il principio cd. di conservazione del contratto: ossia, nel dubbio, il contratto e le singole clausole si devono interpretare nel
senso in cui possono avere qualche effetto (art. 1367) nella realtà giuridica esterna;
— pratiche generali interpretative: ossia le clausole ambigue si interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo
di conclusione del contratto (art. 1368);
— espressioni con più sensi: nel dubbio, devono essere intese nel significato più conveniente alla natura ed all’oggetto del con-
tratto (art. 1369);
— clausole inserite nei contratti per adesione e nei moduli e formulari: vanno, nel dubbio, interpretate contro l’autore delle clau-
sole (art. 1370).

All’art. 1371 il codice detta una norma nel caso in cui il contratto, nonostante l’applicazione delle norme interpre-
tative e interpretative-integrative, rimanga oscuro: bisogna, cioè, distinguere:
— se il contratto è a titolo gratuito, esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato;
— se il contratto è, invece, a titolo oneroso, va interpretato in modo da realizzare un equo contemperamento degli
interessi delle parti.

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2 L’integrazione del contratto


L’integrazione del contratto, disciplinata dall’art. 1374, è differente dall’interpretazione integrativa che è pur
sempre una ricerca della volontà effettiva o presunta.
La norma stabilisce che le parti sono tenute non soltanto a quanto incluso volontariamente nel contratto, ma anche
alle conseguenze che derivino dalla legge, o — in mancanza — dagli usi e dall’equità.
In altre parole, per quanto le parti non abbiano disposto o previsto, se vi è una norma di carattere dispositivo, questa
interviene a disciplinare quella parte del rapporto che non è stata oggetto della specifica previsione.

Sezione Quarta
Gli effetti del contratto

1 Effetti verso le parti: creazione del vincolo


Il contratto ha innanzitutto efficacia fra le parti che lo hanno stipulato, ossia tra le persone dei contraenti. Tuttavia
l’efficacia dei contratti si estende anche:
— nei confronti del successore a titolo universale di ciascun contraente;
— nei confronti degli aventi causa o successori a titolo particolare.
L’art. 1372 afferma che il contratto, una volta concluso, ha tra le parti, la stessa forza vincolante della legge.
Cioè le parti, libere di stipulare o meno, una volta concluso il contratto, sono tenute ad osservarlo. Conseguente-
mente il contratto non può sciogliersi che a seguito di un nuovo contratto (ossia col mutuo consenso) oppure per le
cause ammesse dalla legge (che hanno carattere eccezionale).

2 Segue: Il recesso (art. 1373)


Fra le cause di risoluzione ammesse dalla legge è espressamente disciplinato il recesso che va definito come il diritto
di sciogliersi dal contratto concluso, mediante una dichiarazione unilaterale comunicata all’altra parte.
Tale diritto può essere:
— legale: se è previsto dalla legge, ciò vale per alcuni contratti nominali (società, locazione, mandato, mutuo, contratto
di lavoro);
— convenzionale: quando è previsto contrattualmente con apposita clausola.
Il recesso, più che far venir meno il contratto, pone fine ex nunc al rapporto giuridico creato dal contratto, mentre
il mutuo consenso o la revoca unilaterale, quando è ammessa, incidono sul contratto facendone venire meno ex tunc
ogni effetto.

3 Contratti obbligatori e contratti ad effetti reali, immediati e differiti


Contratti obbligatori sono quelli che non producono effetti traslativi, bensì solo effetti obbligatori, tra essi rien-
trano, ad esempio: il mandato, il deposito, la locazione etc. Esistono, poi, i contratti traslativi, cioè aventi efficacia
reale: questi possono essere consensuali (come la compravendita) o reali (come il mutuo). Inoltre, talvolta, gli stessi
contratti traslativi consensuali non producono immediatamente l’effetto reale poiché questo è differito ad un altro
momento e col consenso si producono solo effetti obbligatori.
Nei contratti ad effetti obbligatori immediati e reali differiti (come quelli aventi ad oggetto il dare cose di genere,
cose future, cose altrui), affinché si verifichi l’effetto traslativo, occorre:
— la specificazione o l’individuazione per determinare — mediante pesatura, conteggio o misurazione — la cosa dovuta,
in caso di cose di genere;
— il venire ad esistenza della cosa promessa, in caso di cosa futura;
— l’acquisto della proprietà della cosa da parte dell’alienante, nel caso di cosa altrui.
In tutti questi casi l’effetto traslativo resta sospeso sino a che non si realizzino detti eventi.
Il contratto con effetti reali immediati, invece, produce immediato effetto traslativo o costitutivo.
In entrambi i casi, però, come stabilisce l’art. 1376, la proprietà si acquista comunque per effetto del consenso
legittimamente manifestato.

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4 Effetti del contratto nei confronti dei terzi


a) Nozione di terzo
Può dirsi, in via generale, che terzo è chi non è parte del contratto e chi non è parificato alla parte (come lo sono l’erede
e l’avente causa o subacquirente), nonché chi è estraneo al relativo rapporto.

b) Il terzo e il contratto
La regola generale è quella della limitazione degli effetti del contratto alle sole parti, per cui il contratto non produce
effetti rispetto al terzo (res inter alios acta tertio neque nocet neque prodest).
Tale principio incontra però eccezioni nei casi previsti dalla legge (v. art. 1372, co. 2): ad esempio, il contratto a
favore di terzo è immediatamente efficace per il terzo, ma la deroga al principio generale è giustificata dal fatto che il
terzo acquista diritti ma non assume alcun obbligo ed, inoltre, ha sempre il diritto di rifiutare il vantaggio derivatogli
dal contratto in suo favore.

c) Il contratto a favore del terzo (artt. 1411-1413)


Il contratto a favore del terzo è un negozio in virtù del quale «una parte (stipulante) designa un terzo quale avente
diritto alle prestazioni dovute dalla controparte (promittente)» (BIANCA). Lo stipulante deve avere un interesse, anche
soltanto morale, a che il terzo riceva un beneficio dal promittente.
Quanto alla disciplina, principali regole sono:
1) il terzo acquista il diritto verso il promittente, di regola, sin dal momento della stipulazione del contratto. Il terzo ha,
tuttavia, l’onere di dichiarare se vuole profittare del beneficio, così come può dichiarare di rifiutare la stipulazione
in suo favore;
2) lo stipulante, tuttavia, può revocare o modificare la stipulazione fino a quando il terzo non abbia dichiarato, anche
in confronto del promittente, di volerne profittare. Se la prestazione deve eseguirsi dopo la morte dello stipulante,
costui può revocare la stipulazione anche con testamento;
3) il promittente può opporre al terzo solo le eccezioni fondate sul contratto (es.: lo stipulante non ha pagato il corri-
spettivo), ma non quelle fondate su altri eventuali rapporti tra lui e lo stipulante (art. 1413);
4) nel caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a beneficio dello
stipulante, salvo che risulti diversamente dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto.

d) Il contratto per persona da nominare (artt. 1401-1405)


Si ha contratto per persona da nominare quando, al momento della conclusione di un contratto, una parte si riserva
la facoltà di nominare la persona nella cui sfera giuridica il negozio deve produrre effetti.
Tuttavia il contratto produce i suoi effetti nei confronti del terzo solo se:
— la dichiarazione di nomina viene comunicata nel termine fissato dalle parti (in mancanza entro tre giorni);
— la dichiarazione è accompagnata dall’accettazione della persona nominata, o dalla procura di questa, anteriore al
contratto;
— espressa nella stessa forma che le parti hanno usato per il contratto, anche se si tratta di una forma non prescritta
dalla legge.
Altrimenti, mancando i requisiti suddetti, il contratto produce i suoi effetti nei confronti dello stipulante originario
(che si era riservato la dichiarazione).
Si tratta di un’ipotesi di rappresentanza eventuale in incertam personam.

5 Conflitti fra aventi diritto sullo stesso oggetto


Si parla di conflitto quando una persona cede un suo diritto a due soggetti: prima a Tizio e poi, con successivo
contratto, a Caio: in tale ipotesi occorre accertare quale dei due debba essere considerato dalla legge il nuovo titolare
del diritto.
Il principio logico generale è quello di preferire colui cui il diritto è stato attribuito per primo, poiché chi si è già
spogliato di un diritto non può più disporre dello stesso a favore di altri.
Tuttavia le esigenze di protezione della buona fede e dell’affidamento, nonché quelle di favorire la circolazione dei
beni, introducono notevoli eccezioni a quel principio, per cui:
— nel caso di acquisto di beni mobili (non registrati) è preferito chi, per primo, ne ha acquistato il possesso in buona
fede (art. 1153);

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— nel caso di diritti immobiliari (o mobili registrati) è preferito chi, per primo, ha curato la trascrizione del titolo (art. 2644);
— nel caso di diritti personali di godimento (es. locazione) è preferito chi, per primo, ha conseguito il godimento della
cosa (art. 1380).
Quanto alle conseguenze si noti che il contraente sacrificato ha diritto al risarcimento dei danni nei confronti della
parte che ha attribuito ad altri lo stesso diritto.

Sezione Quinta
La rescissione e la risoluzione del contratto

1 Lo scioglimento del contratto


Il codice prevede, oltre ai casi di nullità e di annullabilità, due modi in cui si scioglie il contratto: la rescissione e
la risoluzione.
Tali modi di dissolubilità hanno una comune matrice: sono cioè legati ad un difetto del sinallagma e, pertanto,
ricorrono solo nelle ipotesi di contratti a prestazioni corrispettive.

a) La rescissione (artt. 1447-1452)


L’azione di rescissione del contratto è concessa nel caso in cui lo stesso è stato concluso in stato di pericolo (art.
1447) e in caso di lesione (art. 1448).
Come l’azione di annullamento, l’azione di rescissione lascia sussistere gli effetti giuridici del contratto «rescindi-
bile» finché non sia accertata la rescindibilità con una pronuncia del giudice.
a) Rescissione del contratto concluso in stato di pericolo
Chi, per contratto, assume obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o
altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, può ottenere la rescissione del contratto (art. 1447).
Presupposti dell’azione sono:
— lo stato di pericolo in cui si trovava uno dei contraenti o un’altra persona (es.: un parente); deve trattarsi di un
pericolo attuale di un danno grave alla persona;
— l’iniquità delle condizioni a cui il contraente in pericolo ha dovuto soggiacere per salvarsi dallo stato di pericolo;
— la conoscenza dello stato di pericolo da parte di colui che ne ha tratto vantaggio.
b) L’azione generale di rescissione per lesione
Se c’è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno
di una parte, del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione
del contratto (art. 1448).
Presupposti dell’azione sono:
— la lesione ultra dimidium: ossia la sproporzione fra le due prestazioni superiore alla metà (il valore della prestazione
cui è tenuta la parte danneggiata deve essere di oltre il doppio del valore della controprestazione);
— lo stato di bisogno della parte danneggiata, che va interpretato, non nel senso di vera e propria indigenza, ma
anche come difficoltà non economica;
— l’approfittamento dello stato di bisogno, ossia la consapevolezza di tale stato e la convinzione di trarne una
immoderata utilità economica.
c) Disciplina della rescissione
Per quanto concerne la disciplina, si precisa che:
— legittimata all’azione di rescissione è la parte danneggiata;
— l’azione di rescissione si prescrive in un anno e, a differenza dell’annullabilità, la rescissione non può essere più
opposta come eccezione (art. 1449);
— si può evitare la rescissione del contratto quando il contraente che si è avvantaggiato della sproporzione fa un’of-
ferta di modificazione del contratto sufficiente a ricondurlo ad equità (art. 1450);
— l’azione non è esperibile quando l’originario squilibrio non sussiste più al momento in cui è proposta la domanda
(art. 1448, co. 3).

b) La risoluzione per inadempimento (artt. 1453-1462)


Se, in un contratto a prestazioni corrispettive, una parte non adempie la prestazione cui è tenuta, la parte adem-
piente può chiedere giudizialmente l’adempimento o esercitare il diritto alla risoluzione, oltre, in entrambi i casi, a
richiedere il risarcimento del danno: una volta chiesta la risoluzione, però, non può più chiedere l’adempimento (art.
1453), mentre è possibile l’inverso.

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a) Forme di risoluzione
Per ottenere la risoluzione non sempre occorre il ricorso al giudice: in particolare la risoluzione può aversi:
— di diritto, per effetto cioè dell’inadempimento, senza ricorso al giudice (basta la dichiarazione della parte di volersi
valere della risoluzione) quando:
— nel contratto è inserita la clausola risolutiva espressa: è, cioè, stabilito che il contratto si risolve se l’obbliga-
zione non è adempiuta o non è adempiuta con le modalità convenute (art. 1456);
— pur mancando detta clausola, la parte adempiente inoltri all’inadempiente una diffida ad adempiere, asse-
gnandogli un congruo termine che non può essere inferiore ai 15 giorni; decorso inutilmente detto termine, il
contratto si intende risolto (art. 1454);
— è scaduto il termine essenziale: scaduto, cioè, il termine oltre il quale il creditore non ha più interesse alla pre-
stazione del debitore, il contratto si intende risolto a meno che la parte, in cui favore è il termine, non dichiari,
entro tre giorni, di voler egualmente esigere l’adempimento (art. 1457);
— per effetto di una sentenza costitutiva (cd. risoluzione giudiziale), in tutti gli altri casi.
b) Presupposti
Ambedue le forme di risoluzione (sia quella di diritto, sia quella giudiziale) sono esperibili quando ricorrano i se-
guenti presupposti:
— che una parte sia inadempiente, in quanto, per colpa o dolo, non abbia eseguito la prestazione dovuta;
— che l’inadempimento non sia di scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte (art. 1455); la gravità
dell’inadempimento va valutata obiettivamente, in relazione all’attitudine a turbare l’equilibrio contrattuale.
La risoluzione ha efficacia retroattiva (come se il contratto non fosse mai stato concluso); tale retroattività riguarda le parti, ma
non pregiudica i terzi i quali abbiano acquistato prima che si sia verificata la risoluzione di diritto, o prima che sia stata proposta
la domanda giudiziale di risoluzione.
Se una delle parti è inadempiente, l’altra parte, prima di chiedere eventualmente la risoluzione del contratto, può avvalersi
dei seguenti mezzi di tutela preventiva:
1) Eccezione di inadempimento (art. 1460).
Nei contratti con prestazioni corrispettive, inoltre, ciascun contraente può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione, se l’altro
non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria obbligazione, salvo che si sia stabilito che i corrispettivi
adempimenti siano dovuti in tempi diversi, o che ciò risulti dalla natura del contratto (inadimplenti non est ademplendum).
2) Sospensione della prestazione per le mutate condizioni patrimoniali dei contraenti (art. 1461).
In questa ipotesi ciascuna delle parti di un contratto a prestazioni corrispettive può sospendere la prestazione se le condizioni
patrimoniali dell’altra siano divenute tali da mettere in pericolo evidente il conseguimento della controprestazione.

c) La clausola del «solve et repete» (art. 1462)


È una clausola con cui le parti — in deroga ai principi esaminati — stabiliscono che una di esse non può opporre
eccezioni per evitare o ritardare la prestazione. Tale clausola, per avere valore, deve essere specificamente approvata
per iscritto se è contenuta in un contratto predisposto unilateralmente (art. 1341, co. 2).
In ogni caso comunque la clausola non ha effetto per le eccezioni di nullità, di annullabilità e di rescissione del contratto.
Il giudice, se accerta l’esistenza di gravi motivi, può sospendere la condanna all’adempimento della prestazione.

2 Segue: Ulteriori casi di risoluzione


a) Impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1463-1466)
L’impossibilità sopravvenuta estingue l’obbligazione con conseguente liberazione della parte che vi era tenuta.
Pertanto, nei contratti corrispettivi, viene meno la giustificazione del diritto alla contropre­stazione.
A norma dell’art. 1463, infatti, la parte liberata non può chiedere la controprestazione. Da ciò si deduce che tale
forma di risoluzione opera di diritto.
Nel caso di prestazione parzialmente impossibile, tenendo presente il fondamento sinallagmatico dell’istituto, si
ha risoluzione parziale: l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione, ma può recedere dal
contratto se non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale (art. 1464).

b) Eccessiva onerosità (artt. 1467-1469)


L’azione è prevista per ovviare ad una onerosità sopravvenuta e quindi ad uno squilibrio fra le prestazioni verificatesi
dopo la conclusione del contratto.
Per evitare che la risoluzione possa servire per liberarsi da vincoli contrattuali ogni volta che sorga il pretesto della
maggiore onerosità, la legge richiede:
— che si tratti di contratti nei quali è previsto il decorso del tempo nell’esecuzione: deve trattarsi di contratti di durata
o di contratti istantanei ma ad esecuzione differita;

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— che non si tratti di contratti aleatori (art. 1469);


— che l’eccessiva onerosità si sia verificata successivamente alla conclusione del contratto;
— che tale onerosità dipenda da avvenimenti straordinari ed imprevedibili;
— che la sopravvenuta onerosità non rientri nell’alea normale del contratto.
La parte contro cui è chiesta la risoluzione del contratto può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni
del contratto (la cd. offerta di riduzione ad equità).
In caso di eccessiva onerosità la risoluzione non opera di diritto come nel caso di impossibilità sopravvenuta, ma
occorre la pronuncia del giudice.

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La responsabilità extracontrattuale

Sommario: 1. Premessa. - 2. L’illecito civile in generale. - 3. Il fatto. - 4. L’imputabilità del fatto: la capacità di intendere
e di volere. - 5. La colpa e il dolo. - 6. La responsabilità oggettiva. - 7. Responsabilità contrattuale ed extra­contrattuale.
- 8. Il danno e il risarcimento. - 9. L’effetto della responsabilità civile: il risarcimento del danno (art. 2058). - 10. Casi
di esclusione dell’antigiuridicità.

1 Premessa
I fatti illeciti rientrano tra le fonti dell’obbligazione (art. 1173), in quanto da essi deriva l’obbligo di risarcimento del
danno a carico del loro autore. Sono fonti non negoziali (o legali), perché l’obbligazione di risarcimento nasce come
conseguenza non voluta dall’autore del fatto.

2 L’illecito civile in generale


L’art. 2043 definisce illecito «qualsiasi fatto, doloso o colposo, che cagioni ad altri un danno ingiusto» sancendo
l’obbligo, per colui che lo ha commesso, di risarcire il danno.
Non ogni fatto dannoso genera l’obbligo di risarcimento, ma solo il fatto che contrasta con un dovere giuridico (con-
tra ius). Soltanto in questo caso il danno può ritenersi ingiusto e quindi meritevole di risarcimento. Sono in particolare
risarcibili le lesioni dei diritti assoluti (es.: diritti della personalità, diritti reali).
La struttura dell’atto illecito è costituita da:
— l’elemento oggettivo, consistente in un fatto che cagiona un danno ingiusto («contra ius»);
— l’elemento soggettivo (o colpevolezza), consistente nel dolo o nella colpa, sul presupposto della capacità di in-
tendere e di volere dell’agente.

3 Il fatto
Il fatto, ossia il comportamento dannoso, può consistere in un:
— atto positivo (commissivo), dal quale, cioè, il soggetto avrebbe dovuto astenersi;
— fatto omissivo, cioè in un’astensione: questa è rilevante, ai fini dell’obbligazione di risarcimento, solo quando chi
ne è l’autore aveva il dovere giuridico di agire e non l’ha fatto.
Per il sorgere della responsabilità, si richiede che tra la condotta e l’evento intercorra un nesso di causalità: l’evento
dannoso deve essere infatti «una conseguenza immediata e diretta» dell’atto (art. 1223 richiamato dall’art. 2056). Il
nesso causale sussiste allorché il danno si verifica, in dipendenza del fatto umano, secondo l’ordine naturale delle cose
e non rappresenta il prodotto di circostanze eccezionali (principio della causalità adeguata).

4 L’imputabilità del fatto: la capacità di intendere e di volere


La responsabilità civile presuppone la capacità di intendere e di volere: perché il fatto dannoso possa essere im-
putato all’agente, l’art. 2046 richiede che questi sia capace di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso.
L’art. 2046 precisa che l’esclusione della responsabilità dell’incapace di intendere e di volere cessa nell’ipotesi in cui
il soggetto si sia trovato in tale stato psichico per propria colpa (es.: per essersi ubriacato) o per averlo dolosamente
determinato (es.: allo scopo di procurarsi una scusa).
In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto
alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto (art. 2047).

5 La colpa e il dolo
Di regola, il fatto dannoso, per essere illecito, deve essere commesso dolosamente o colposamente.
Il dolo, in particolare, consiste nella volontaria trasgressione del dovere giuridico: l’atto illecito è doloso quando chi lo
ha commesso ha agito con la coscienza e la volontà di cagionare l’evento dannoso.
La colpa, invece, consiste nella violazione di un dovere di diligenza, cautela o perizia, nei confronti dei terzi: l’atto
illecito è colposo quando l’evento dannoso non è voluto ma è cagionato per negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero
per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

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6 La responsabilità oggettiva
La responsabilità oggettiva si fonda sulla sola esistenza del nesso di causalità, per cui si risponde del danno cagio-
nato come conseguenza diretta ed immediata della propria condotta, a prescindere dal dolo o dalla colpa. Per liberarsi
dalla responsabilità, occorre dimostrare la mancanza di rapporto di causalità fra la condotta e l’evento, ma tale prova
è diversamente configurata nelle diverse ipotesi di responsabilità.

7 Responsabilità contrattuale ed extracontrat­tuale


Ogni ipotesi di responsabilità civile presuppone la lesione di un interesse giuridicamente rilevante e si traduce nell’obbligo di
risarcimento dei danni.
Si ha responsabilità contrattuale nel caso di violazione di un dovere specifico, derivante da un precedente rapporto obbliga-
torio: l’art. 1218 precisa che se il debitore non esegua esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno. La
responsabilità contrattuale nasce dall’inadempimento di una precedente obbligazione qualunque sia la fonte (contratto o altro)
da cui tale rapporto nasce sicché più correttamente dovrebbe parlarsi di «responsabilità da inadempimento di un’obbligazione».
Si ha, invece responsabilità extracontrattuale nel caso di violazione del dovere generico del «neminem laedere», cioè del dovere
di non ledere la sfera giuridica altrui.
Si ha concorso tra responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale nell’ipotesi in cui un medesimo comportamento con-
sista a un tempo nell’inadempimento di un’obbligazione e nella lesione di un diritto primario, come quello alla vita e all’incolumità
personale.
Ad esempio, Tizio resta ferito in un incidente occorsogli mentre viene trasportato in vettura da Caio, col quale aveva stipulato
un contratto di trasporto.

8 Il danno e il risarcimento
«Danno» è qualsiasi «lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile e tutelato dall’ordinamento». Del danno si
fanno differenti classificazioni:
— danno patrimoniale e non patrimoniale
Il danno patrimoniale è quello che si traduce, direttamente o indirettamente, in un pregiudizio al patrimonio: esso può con-
sistere nella perdita, distruzione o danneggiamento di un bene patrimoniale, nella perdita di un guadagno o nella necessità
sopravvenuta di compiere delle spese. Il danno patrimoniale si distingue in:
— danno emergente: consistente in una diminuzione del patrimonio;
— lucro cessante: che si identifica nel mancato guadagno determinato dal fatto dannoso (es.: se viene danneggiato un taxi,
il danno emergente è dato dalle spese necessarie per la riparazione, il lucro cessante dal guadagno che il titolare del taxi
avrebbe conseguito se avesse utilizzato il proprio automezzo nel tempo in cui questo è rimasto fermo in officina).
Il danno non patrimoniale è, invece, ogni pregiudizio recato direttamente alla persona, senza colpire, né direttamente né
indirettamente, il patrimonio o la capacità produttiva della persona stessa (es.: lesioni all’onore, alla salute, alla tranquillità
d’animo etc.), anche se è economicamente valutabile.
Il danno «morale» è il danno non patrimoniale risarcibile solo nei casi determinati dalla legge (art. 2059), cioè, in pratica,
quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato (art. 185 c.p.); esso è strettamente connesso con le sofferenze ed ai dolori
patiti dalla persona offesa dal reato (peraltro, è andata affermandosi una lettura costituzionalmente orientata della norma
contenuta nell’art. 2059, a garanzia dei diritti inviolabili del soggetto, come singolo e nelle formazioni sociali in cui si svolge
la sua personalità, per consentire una protezione sempre più adeguata di tali diritti, dei quali rilevano manifestazioni sempre
nuove e diverse, frutto di elaborazione e studio in dottrina e giurisprudenza, in relazione alla tutela della persona);
— danni diretti ed indiretti
Il danno risarcibile è quello che costituisce conseguenza immediata e diretta del fatto illecito (arg. ex art. 1223); secondo la
giurisprudenza prevalente, anche il danno indiretto deve considerarsi risarcibile quando esso si collega alla condotta illecita
«secondo il corso ordinario delle cose», cioè in base ad un nesso di causalità regolare;
— danni presenti e futuri
Il danno, per essere risarcibile, dev’essere attuale, cioè certo ed effettivo al momento della pretesa al risarcimento. Sono tuttavia
risarcibili anche i danni che si proiettano nel futuro, come il lucro cessante, o i danni permanenti (art. 2057), in quanto siano certi
nella loro esistenza, anche se ancora incerti nel loro ammontare.

9 L’effetto della responsabilità civile: il risarcimento del danno (art. 2058)


Principio fondamentale in materia è che il risarcimento deve assumere il valore di una totale riparazione delle
conseguenze dell’evento dannoso. Il risarcimento può essere corrisposto:
— per equivalente: con il versamento di una somma di denaro corrispondente alla perdita subita e al mancato gua-
dagno;
— in forma specifica: che, invece, consiste nel ripristinare, qualora sia in tutto o in parte possibile, la situazione di
fatto preesistente (es.: mediante la restituzione del bene sottratto etc.). Se la reintegrazione in forma specifica risulta
troppo onerosa per il debitore, il giudice può disporre che il risarcimento avvenga per equivalente (art. 2058).

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10 Casi di esclusione dell’antigiuridicità


Un comportamento pregiudizievole può, in taluni casi, essere giustificato, talché il danno da esso arrecato non è antigiuridico
e non è quindi oggetto di risarcimento.
Tra i casi si esclusione dell’antigiuridicità si ricordino:
— la legittima difesa (art. 2044 c.c. e 52 c.p.), per cui non è responsabile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla
necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia propor-
zionata all’offesa;
— lo stato di necessità (art. 2045), che si ha quando chi ha compiuto il fatto vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri
dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato (es.: Tizio vede che
Caio sta per far fuoco contro di lui e, per salvarsi, si fa scudo con un passante, il quale viene ferito). Il legislatore prevede, però,
che al danneggiato sia dovuta un’indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, in modo da ripartire
le conseguenze dannose del fatto fra il danneggiante e il danneggiato.

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