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Espansione semplificata
Diritto civile

1 Premessa
Chi studia per la prima volta il diritto civile può avere difficoltà nel capire questa materia
molto complessa.
Questa espansione semplificata fornisce un supporto per lo studio di questa disciplina, in
quanto è finalizzata alla preliminare comprensione di concetti fondamentali e di parole chiave,
che spesso si danno per scontati, come ad esempio il concetto di rapporto giuridico; il concetto di
soggetto di diritto; la distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi; il concetto di negozio giuridico;
il concetto di adempimento e di inadempimento e così via.

2 L’ordinamento giuridico. Ambito di operatività del diritto civile


Qualsiasi forma di aggregazione sociale è legata all’esistenza e all’osservanza di norme
che ne disciplinano il buon funzionamento nonché alla presenza di organi preposti alla loro
applicazione. Dall’analisi generale delle associazioni umane, emergono alcuni elementi strut-
turali comuni a ciascun gruppo che, per affermare e conservare la propria esistenza, necessita
di un’organizzazione che:
— imponga ai consociati, attraverso dei comandi, determinate condotte;
— disciplini i rapporti fra i consociati stessi, attribuendo a ciascuno una determinata posizione
nel gruppo.
In particolare, nell’associazione che prende il nome di Stato (e che si fonda sul «diritto»),
questi elementi strutturali assumono una terminologia precisa:
— l’organizzazione è detta ordinamento giuridico;
— i comandi che da essa derivano sono le norme giuridiche;
— i rapporti che disciplina si definiscono rapporti giuridici;
— le posizioni di ciascuno nei confronti degli altri e dello stesso Stato sono dette situazioni
giuridiche soggettive.

In particolare, il diritto privato è l’insieme delle norme che regolano i rapporti tra i membri
della collettività che si trovano in una posizione di parità reciproca ed i conseguenti diritti ed
obblighi. Nell’ambito del diritto privato, il diritto civile disciplina le persone e la famiglia, le
successioni a causa di morte, i diritti patrimoniali e gli atti giuridici.

3 Il rapporto giuridico e le situazioni giuridiche soggettive


La base per lo studio del diritto civile è la comprensione dei concetti di rapporto giuridico; di
situazione giuridica soggettiva e di soggetto di diritto.

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a) Rapporto giuridico
Nella convivenza civile, tra le varie tipologie di relazioni che si possono instaurare (come,
ad esempio, le relazioni d’amore, le relazioni di amicizia etc.), vi sono le relazioni giuridiche,
caratterizzate dal fatto di essere regolate dal diritto: il rapporto giuridico è ogni relazione tra
due o più soggetti presa in considerazione e regolata dal diritto.
Sono esempi di rapporti giuridici la relazione tra un datore di lavoro e un lavoratore; quella tra genitori
e figli; quella tra venditore e compratore di un bene.

Dunque, non qualunque relazione tra due persone dà vita a un rapporto giuridico: perché vi
sia questo, è necessario che vi sia un interesse, non necessariamente economico, considerato
meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico.

b) Situazioni giuridiche soggettive. Soggetto attivo e soggetto passivo del rap-


porto giuridico
Il rapporto giuridico pone ciascuno dei soggetti coinvolti in una determinata posizione: questa
posizione è qualificata «situazione giuridica soggettiva».
In particolare, si distingue tra:
1) situazioni giuridiche soggettive attive, che sono quelle che attribuiscono situazioni di van-
taggio ad un soggetto (es.: un diritto);
2) situazioni giuridiche soggettive passive, che sono quelle che conferiscono, invece, situazioni
di svantaggio ad un soggetto, imponendogli un certo comportamento (es.: un obbligo).
Il soggetto a cui è attribuita una situazione di vantaggio è detto soggetto attivo del rapporto
giuridico (ed è quello il cui interesse è protetto nell’ambito del rapporto); al contrario, il soggetto
a cui è attribuita una situazione di svantaggio è detto soggetto passivo del rapporto giuridico
(ed è quello il cui interesse è sacrificato nel rapporto).
Tali soggetti costituiscono le parti del rapporto giuridico e si distinguono da coloro che
risultano estranei allo stesso, definiti “terzi”.
Ad esempio, tra debitore e creditore intercorre un rapporto giuridico in virtù del quale il primo è tenuto
a eseguire una determinata prestazione (si pensi al pagamento di una somma di denaro) a favore del se-
condo, il quale potrà pretendere tale prestazione: all’interno di questa relazione giuridica, soggetto attivo
è il creditore; soggetto passivo è il debitore.

4 Principali situazioni giuridiche soggettive attive


Le principali situazioni giuridiche soggettive attive riconosciute dall’ordinamento giuridico
sono: 1) il diritto soggettivo; 2) l’interesse legittimo e 3) la potestà.
Il diritto soggettivo è un interesse garantito dall’ordinamento perché ritenuto meritevole di
tutela in maniera immediata. Si tratta di una posizione giuridica di vantaggio che attribuisce
al suo titolare un potere per il soddisfacimento di un proprio interesse tutelato e garantito dall’or-
dinamento giuridico. Vi sono diversi tipi di diritti soggettivi e ne parleremo a breve.
Ma come si esercita il diritto soggettivo? Il diritto soggettivo ha un proprio contenuto,
costituito da un insieme di facoltà giuridiche, che servono appunto per esercitare in concreto
quel determinato diritto.
Facciamo un esempio: il proprietario di un bene (soggetto titolare del diritto di proprietà) ha la facoltà
di usare il suo bene, di goderne, di non usarlo, di venderlo, di impedire ad altri di usarlo.

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Il diritto soggettivo si manifesta, quindi, come sintesi di una posizione di forza e di una posi-
zione di libertà: il titolare del diritto soggettivo è, infatti, libero di decidere se esercitare o meno
il suo diritto e di avvalersi delle facoltà riconosciute dall’ordinamento giuridico.
Il diritto soggettivo si estingue quando viene soddisfatto l’interesse del titolare del diritto
(ad es., con l’adempimento dell’obbligazione da parte del debitore) oppure a seguito di altre
vicende (es. prescrizione).
Per quanto riguarda l’interesse legittimo, esso è definito come il potere di agire per un pro-
prio interesse quando questo corrisponde a un interesse generale e all’interesse che la Pubblica
amministrazione eserciti il suo potere secondo la legge.
Ad esempio, l’interesse del singolo candidato al corretto svolgimento di un concorso pubblico, che gli
consente di gareggiare alla pari con gli altri concorrenti, trova una corrispondenza nell’interesse generale
che le prove concorsuali rispettino la procedura prevista.

La potestà, poi, è il potere riconosciuto a un soggetto di agire per realizzare un interesse altrui
che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela: ne è un esempio la responsabilità genitoriale:
infatti, i poteri che sono collegati alla posizione di genitore (educare i figli, istruirli etc.) devono
essere esercitati nell’esclusivo interesse del minore.
In questa sede, ci occuperemo in particolare dei diritti soggettivi e delle più importanti di-
stinzioni all’interno di questa categoria.

a) Diritti assoluti e diritti relativi


Una delle più importanti distinzioni all’interno della categoria dei diritti soggettivi è quella tra
diritti assoluti e diritti relativi:
— diritti assoluti sono quelli che garantiscono al titolare un potere che questi può far valere
indistintamente verso tutti gli altri soggetti (per questo si dice che possono essere fatti va-
lere “erga omnes”), a carico dei quali sussiste un generico obbligo negativo di non turbare il
godimento del diritto stesso.
Rientrano in questa categoria, come a breve vedremo, i diritti reali (es. il diritto di proprietà); ancora,
vi rientrano i diritti della personalità (es. diritto alla vita e all’integrità fisica; diritto al nome);

— diritti relativi sono quelli che assicurano al titolare un potere che si può far valere solo ver-
so una o più persone determinate, a carico delle quali sussiste l’obbligo di fare o non fare
qualcosa. Tali diritti, quindi, sono tutelati in via principale mediante obblighi specifici posti
a carico di determinati soggetti.
Esempio tipico di diritto relativo è il diritto del creditore di ottenere l’adempimento della prestazione da
parte del soggetto passivo del rapporto.

b) Diritti reali e diritti assoluti


La categoria più importante di diritti assoluti è costituita dai diritti reali, che sono diritti
che attribuiscono al loro titolare un potere assoluto ed immediato su un bene:
1) assoluto, in quanto il diritto può essere esercitato nei confronti di tutti i consociati;
2) immediato, in quanto l’interesse del titolare può essere soddisfatto indipendentemente
dall’attività di altri soggetti.
Rientrano in questa categoria il diritto di proprietà, i diritti reali di godimento su cosa altrui
(es. usufrutto; abitazione) e i diritti reali di garanzia (pegno e ipoteca).

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I diritti di obbligazione (o di credito o personali) sono invece diritti relativi e si caratterizzano


per il fatto che l’interesse del titolare può essere soddisfatto solo a seguito del compimento di una
certa attività da parte di uno o più soggetti determinati, sui quali grava l’obbligo di adempiere una
prestazione (che può consistere in un fare qualcosa, nell’astenersi dal fare qualcosa o, ancora,
nel dare qualcosa al titolare del diritto).

5 Acquisto ed estinzione dei diritti


L’acquisto di un diritto può avvenire a titolo derivativo o a titolo originario. In particolare, si ha:
— acquisto a titolo derivativo, quando il diritto viene trasmesso da un soggetto (cd. autore o
dante causa) ad un altro (cd. successore o avente causa). Si determina, in questo caso, un
fenomeno di successione nel diritto, successione che può avvenire:
a) per atto tra vivi, cioè per effetto di ordinari atti negoziali diretti a soddisfare le esigenze
della vita di relazione (es.: compravendita);
b) a causa di morte, quando il fenomeno successorio è determinato dalla morte del titolare
del diritto, morte che costituisce la causa e il presupposto essenziale della successione
stessa. La successione a causa di morte può essere anche a titolo universale, quando
il successore (erede) subentra in tutti i rapporti (trasmissibili) che facevano capo al
defunto;
— a titolo originario, quando il diritto si costituisce in capo ad un soggetto senza dipendere
dalla posizione di un precedente titolare e manca, pertanto, un rapporto di trasmissione. È
quanto accade, ad esempio, in caso di usucapione che, in presenza dei presupposti richiesti
dalla legge (possesso continuo e non interrotto, non violento né clandestino di un bene per
il tempo previsto dalla legge) costituisce un modo di acquisto a titolo originario del diritto
di proprietà o di altro diritto reale di godimento.
L’estinzione del diritto si verifica in tutte le ipotesi in cui lo stesso non si trasferisce ad altri
soggetti, ma viene meno definitivamente. Ciò può accadere per numerosissime cause.
L’estinzione del diritto può, ad esempio, essere determinata dal raggiungimento dello scopo
per il quale lo stesso era sorto (l’adempimento dell’obbligazione estingue, ad esempio, il diritto
di credito, in quanto soddisfa l’interesse del creditore) oppure perché il raggiungimento di tale
scopo è divenuto impossibile; oppure, ancora, in presenza dei presupposti richiesti dalla legge,
l’estinzione di un diritto può avvenire per effetto del decorso di un certo periodo di tempo (es.
prescrizione).

6 Principali situazioni giuridiche soggettive passive


Nell’ambito di un rapporto giuridico, alla situazione di vantaggio del soggetto attivo,
corrisponde la posizione di svantaggio del soggetto passivo.
Tra le situazioni giuridiche soggettive passive prese in considerazione dall’ordinamento
giuridico, possiamo ricordare: 1) il dovere; 2) l’obbligo e 3) l’onere.
Il dovere è la situazione giuridica passiva corrispondente a un diritto soggettivo altrui e con-
sistente nell’astenersi da comportamenti che possano lederne o pregiudicarne il godimento
o l’esercizio (es. al diritto soggettivo del proprietario corrisponde il dovere di tutti gli altri di non
violare la proprietà).
L’obbligo è la situazione giuridica passiva che grava, invece, su una persona determinata e
che corrisponde a un diritto soggettivo di un’altra persona ben determinata (es. il debitore ha
l’obbligo di pagare il debito al suo creditore e non a chiunque).

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L’onere, infine, consiste in un comportamento richiesto a un soggetto come condizione per


ottenere o conservare un vantaggio giuridico e, quindi, per soddisfare un proprio interesse; quel-
lo richiesto nell’onere giuridico, cioè, è un comportamento non obbligatorio e, quindi, non è
soggetto a sanzioni di alcun tipo.
Se acquisto, ad esempio, un computer e mi accorgo che presenta delle imperfezioni, la legge
prevede il mio diritto alla riparazione o alla sostituzione del prodotto difettoso, a condizione
che io adempia all’onere di denunciare il vizio al negoziante, entro un periodo determinato da
quando l’ho scoperto.

7 I soggetti di diritto. Differenza tra capacità giuridica e capacità


d’agire
I soggetti attivi e i soggetti passivi del rapporto giuridico sono detti «soggetti di diritto» e
soltanto l’ordinamento giuridico può stabilire chi deve essere considerato soggetto di diritto:
soggetti di diritto possono essere le persone fisiche, le persone giuridiche o gli enti di fatto.
In particolare, l’attitudine di un soggetto di essere titolare di rapporti giuridici (cioè, di situa-
zioni giuridiche attive e passive) è definita capacità giuridica: essa si acquista con la nascita (art.
1 del codice civile) e spetta indistintamente a tutte le persone fisiche e giuridiche.
Differente dalla capacità giuridica è la capacità d’agire, che consiste nell’idoneità del soggetto
a manifestare validamente la propria volontà al fine di compiere atti giuridici, acquistare o esercitare
diritti, assumere obblighi e, più in generale, al fine di modificare la propria “situazione giuridica”.
La capacità di agire si acquista con la maggiore età (art. 2 del codice civile), cioè al compi-
mento del diciottesimo anno, perché la legge presume che, solo da tale momento, l’individuo
possa consapevolmente curare i propri interessi in quando in grado di valutare la portata degli
atti che pone in essere.
Dunque, la differenza tra capacità giuridica e capacità d’agire consiste in questo: mentre la
capacità giuridica indica la “riferibilità” ad un soggetto di diritti, obblighi e situazioni giuridiche;
la capacità d’agire concerne la possibilità, per il soggetto, di compiere atti di acquisto, perdita
modifica dei suoi diritti e rapporti giuridici.
Facciamo un esempio pratico per distinguere in concreto capacità giuridica e capacità d’agire:
quando nasco, acquisto la capacità giuridica e, quindi, posso essere titolare del diritto di proprietà su un
bene (ad esempio, di una casa che mi è stata donata), ma è soltanto quando divento maggiorenne che
posso, ad esempio, vendere quel bene di cui sono proprietario.

La capacità di agire, acquistata con la maggiore età, si conserva, di regola, fino alla morte,
anche se è sempre legata all’idoneità del soggetto a curare i propri affari ed interessi: quindi, in tutti
i casi in cui tale idoneità viene meno o è limitata, anche la capacità d’agire subisce la stessa sorte.
La legge, infatti, tenendo conto delle cause che possono incidere su tale idoneità, ha previsto
apposite norme e istituti per garantire che tutte le persone che agiscono nel campo del diritto
lo facciano consapevolmente. L’ordinamento giuridico in sostanza si preoccupa di proteggere
il soggetto incapace dal compimento di atti che lo possono pregiudicare.
Ad esempio, se viene accertata l’abituale infermità di mente di un individuo, è prevista l’interdizione
giudiziale (art. 414 del codice civile); a tutela di chi invece si trova nell’impossibilità, anche parziale o tem-
poranea, di provvedere ai propri interessi, è previsto l’istituto dell’amministrazione di sostegno e così via.

Si ricordi, inoltre, che il possesso della capacità d’agire costituisce requisito di validità degli
atti negoziali. Dunque, se un soggetto privo di capacità d’agire compie un atto, esso è annul-
labile (articolo 1425 del codice civile): ciò significa che - come a breve vedremo - fino a quando
l’atto non viene annullato, produce effetti giuridici.

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La capacità d’agire della quale abbiano fino ad ora parlato è l’incapacità cd. legale. Tuttavia,
può accadere che una persona, che normalmente ha capacità legale di agire, sia temporane-
amente incapace di intendere e di volere, che cioè non sia in grado di effettuare una seria
valutazione del contenuto e degli effetti di un atto (ad esempio, un soggetto maggiorenne, le-
galmente capace di agire, può momentaneamente non essere capace d’intendere e di volere a
causa di ubriachezza): tale situazione di temporanea incapacità è definita dal diritto incapacità
naturale o “di fatto”.
La legge tutela anche il soggetto che ha posto in essere un atto negoziale in stato di incapa-
cità naturale e sancisce che tale atto, in presenza di determinati presupposti, è annullabile (art.
1425 del codice civile).

8 Distinzione tra fatti e atti giuridici. Il negozio giuridico


Non tutti i comportamenti umani sono rilevanti per il diritto: alcune azioni possono avere
rilievo sotto un profilo morale, sociale o religioso ma essere completamente ignorate dalla leg-
ge (es.: cedere il posto ad una persona anziana nell’autobus è sicuramente lodevole sul piano
sociale e morale, ma è totalmente irrilevante per il diritto).
Quando, invece, ad un determinato evento la legge riconduce uno o più effetti allora si parla
di fatto giuridico. Possiamo perciò definire il fatto giuridico come qualsiasi fatto al quale una
norma giuridica collega un determinato effetto.
Nell’ambito dei fatti giuridici, si distingue tra:
1) fatti giuridici in senso stretto, intesi come quegli eventi il cui verificarsi è del tutto indipen-
dente dalla volontà umana ma che hanno comunque conseguenze rilevanti sul piano del
diritto (es.: la morte di una persona comporta la successione nel suo patrimonio);
2) atti giuridici in cui rientrano, invece, gli eventi derivanti da un’attività umana consapevole
e voluta, posta in essere da un soggetto capace di intendere e di volere, cui l’ordinamento
attribuisce valore giuridico. Quando i comportamenti umani sono conformi alle prescrizioni
di diritto si parla di atti leciti; al contrario, se il comportamento è vietato dalla legge, si parla
di atti illeciti.
Nell’ambito della categoria degli atti giuridici leciti si distingue, ulteriormente, fra atti giuridici
in senso stretto e negozi giuridici: ciò che li distingue è la volontà della persona che pone in
essere quel comportamento, poiché nell’atto giuridico in senso stretto l’agente vuole solo porre
in essere l’atto, mentre gli effetti giuridici sono prodotti dalla legge indipendentemente dalla
volontà del soggetto.
Si pensi al caso in cui il creditore chieda formalmente al debitore l’adempimento mediante intimazione:
in questo caso, la legge prevede che il debitore è costituito in mora, in virtù di quanto prevede l’art. 1219
del codice civile e questo effetto si verifica anche se il creditore non avesse nemmeno conosciuto l’istituto
della costituzione in mora. Infatti, l’intimazione a pagare è un atto compiuto volontariamente dal creditore,
ma gli effetti di questo atto sono stabiliti dalla legge.

Nel negozio giuridico, invece, il soggetto vuole non solo porre in essere un atto, ma vuole
anche avvalersi degli effetti che la legge riconduce a quel determinato comportamento. Dun-
que, anche se nel codice civile non troviamo una definizione di negozio giuridico, la dottrina
tradizionalmente lo definisce come la manifestazione di volontà diretta alla produzione di
effetti giuridici riconosciuti e garantiti dall’ordinamento.
Esistono diversi tipi di negozi giuridici: il contratto, ad esempio, è un tipo di negozio giuridico.

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a) Gli effetti giuridici: tipi


Abbiamo fino ad ora più volte usato l’espressione “effetti giuridici”. Chiariamo che essi pos-
sono essere di diverso tipo:
— costitutivi, se sono diretti alla formazione di un rapporto giuridico;
— modificativi, se intervengono su un rapporto giuridico in atto per modificarne la disciplina;
— estintivi, se determinano l’estinzione di un rapporto giuridico.
Questa classificazione è espressamente dettata nell’art. 1321 del codice civile in riferimento
agli effetti scaturenti dal contratto che, come abbiamo appena detto, è un tipico fatto giuridico.
In relazione al loro oggetto, gli effetti giuridici si distinguono poi in:
— reali, se consistono nella costituzione o nel trasferimento di un diritto reale;
— obbligatori, se determinano o incidono su un diritto di obbligazione.
Chiariamo, però, che spesso a un singolo fatto giuridico conseguono sia effetti reali sia effetti obbligatori
(es.: dal contratto di compravendita derivano tanto il trasferimento del diritto reale di proprietà quanto
l’obbligo di pagare il prezzo).

In relazione ai soggetti sui quali incidono, possiamo, poi, distinguere tra effetti:
— erga omnes, se valevoli contro tutti (se cioè devono essere rispettati da tutti);
— personali, se sono valevoli solo nei confronti di alcuni particolari destinatari.
Facciamo un’ultima considerazione molto importante sugli effetti giuridici: in genere, essi
si producono nel momento in cui si perfeziona la fattispecie da cui traggono origine; tuttavia,
in alcuni casi, l’ordinamento giuridico fa risalire la produzione degli effetti ad un momento
precedente a quello del perfezionamento della fattispecie: in tal caso, si parla di retroattività
degli effetti.
Nei manuali giuridici, come sinonimo dell’espressione “effetti retroattivi”, troviamo l’espres-
sione “ex tunc”, differente dall’espressione “ex nunc” che, al contrario, è sinonimo di effetto non
retroattivo (quando, cioè, un atto produce effetti solo dal momento in cui viene posto in essere).

b) La prova dei fatti giuridici: il concetto di «onere della prova»


Anche se la materia delle prove forma oggetto del diritto processuale, in questa sede accen-
niamo ad un principio fondamentale: quello dell’«onere della prova», stabilito dall’art. 2697
del codice civile.
Quando nei manuali giuridici troviamo espressioni come «l’onere della prova incombe o
ricade su questo soggetto» «questo soggetto ha l’onere di provare», che significa? Il problema è
il seguente: l’esistenza di un fatto giuridico può essere certa (come, ad esempio, la morte di una
persona) oppure può non essere certa e deve, quindi, essere provata (es. il decorso del tempo
necessario per usucapire la proprietà di un bene). Ovviamente, il problema riguarda soltanto i
fatti contestati tra le parti, in quanto la mancata contestazione di un fatto lo rende pacifico e,
quindi, non bisognoso di prova.
Il principio fondamentale in materia di assunzione delle prove è quello sancito dal ci-
tato art. 2697 del codice civile, secondo cui sia colui che propone la domanda e dà avvio
al processo (che, in termini processuali, è detto attore) sia colui che viene “convenuto” nel
processo (es. viene citato in giudizio) devono provare ciò che hanno affermato a sostegno
delle proprie posizioni.

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c) Mancanza o vizio di un elemento essenziale del negozio giuridico: conse-


guenze
Il negozio giuridico è costituito da elementi essenziali, senza i quali, cioè, il negozio non può
formarsi (es. volontà; causa) e da elementi accidentali, che sono elementi solo eventuali, che
le parti, cioè, sono libere di inserire oppure no (es. condizione; termine).
Ma quali sono le conseguenze derivanti dalla mancanza di un elemento essenziale o dalla
presenza di un vizio dello stesso?
In generale, si ricordi che secondo la dottrina tradizionale:
— quando un elemento essenziale del negozio manca, il negozio è nullo.
— quando un elemento essenziale del negozio presenta, invece, soltanto un vizio, il negozio è
annullabile.
Facciamo un esempio relativo all’elemento della volontà. La violenza morale rappresenta un vizio della
volontà, in quanto se io sono minacciato di un male ingiusto e notevole e questa minaccia mi ha indotto
alla conclusione di un contratto, la volontà esiste, ma è viziata: il negozio, in questo caso, è annullabile.
Quando, invece, la violenza non è morale, ma fisica, cioè fisicamente io sono costretto a stipulare un
contratto (perché, ad esempio, mi hanno fisicamente costretto a firmare un contratto guidando la mia
mano sul foglio), la volontà è totalmente assente (e non solo viziata) e il negozio, in questo caso, è nullo.

Ma sulla base di quali presupposti la legge prevede a volte la nullità e a volte l’annullabilità nei
casi prospettati? E, soprattutto, quali sono gli effetti che, rispettivamente, conseguono alle stesse?
Per capire questo, dobbiamo necessariamente soffermarci sulla ratio dell’azione di nullità
e dell’azione di annullamento in generale (cioè sulla funzione di queste due azioni), per poi
esaminare le differenze anche in termini di effetti giuridici.
Chiariamo, in primo luogo, che la nullità è l’aspetto più grave che può assumere l’invalidità
di un negozio, mentre l’annullabilità è un’ipotesi di invalidità meno grave.
La nullità può essere testuale (quando vi sono norme che la sanciscono espressamente) o virtuale
(quando, pur non essendo stabilita espressamente da una norma, risulta dal sistema nel suo complesso;
ad esempio, come detto, è nullo il negozio concluso in seguito a violenza fisica perché manca la volontà,
anche in assenza di una norma che preveda espressamente tale nullità).
L’annullabilità, invece, è soltanto testuale, cioè l’annullamento di un negozio può essere chiesto solo
nei casi espressamente previsti dalla legge.

Il fondamento della nullità è tradizionalmente (BIANCA, GAZZONI) individuato nell’esigenza


di tutelare interessi generali dell’ordinamento. Nel caso dell’annullabilità viene, invece, in con-
siderazione l’interesse particolare del contraente, interesse che viene tutelato attribuendo alla
stessa parte un potere di scelta in ordine alle sorti del negozio.
In altri termini, tutelando la nullità interessi generali, il negozio è nullo fin dall’inizio; tutelando,
invece, l’annullabilità l’interesse particolare del contraente, si può scegliere di non annullare il
negozio e far sì che questo continui a produrre effetti giuridici.
Quindi:
— il negozio nullo, fin dal momento in cui è posto in essere, non produce effetti, né tra le
parti né nei confronti di terzi: questo comporta che eventuali prestazioni eseguite dalle
parti devono essere restituite, perché prive di causa che le giustifichi;
— il negozio annullabile, invece, produce effetti fin dal momento in cui è posto in essere, ma
questi effetti sono soltanto provvisori, nel senso che possono venire meno se, nei termini

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previsti dalla legge, viene proposta l’azione di annullamento (e tale azione viene accolta,
cioè il giudice ritenga esistente il vizio). Attenzione però: se l’azione di annullamento viene
accolta, l’annullamento ha effetti retroattivi, cioè “distrugge” ed elimina anche gli effetti
che si sono già prodotti; dunque, le prestazioni eventualmente già eseguite devono essere
restituite.

9 Il rapporto obbligatorio
a) Nozione di obbligazione
L’obbligazione è un vincolo giuridico in forza del quale un soggetto (debitore) è obbligato a
tenere un certo comportamento per soddisfare l’interesse di un altro soggetto (creditore).
L’obbligazione determina la nascita di un rapporto giuridico caratterizzato da due contrap-
poste posizioni soggettive: il debito e il credito.
Il debito è la posizione giuridica passiva del rapporto obbligatorio ed ha come suo contenuto
il dovere di adempiere una determinata prestazione, cioè di tenere un determinato comporta-
mento.
La responsabilità del debitore è personale, nel senso che il debitore è soggetto alle sanzioni
previste dalla legge in caso di inadempimento e, in particolare, al risarcimento del danno causato
al creditore; patrimoniale, in quanto il debitore risponde dell’obbligazione con tutti i suoi beni
presenti e futuri (art. 2740 del codice civile), cioè anche con i beni non presenti nel suo patrimonio
al momento dell’assunzione dell’obbligazione, ma che vi entrano in un momento successivo.
Il credito è il diritto (soggettivo) all’adempimento, ossia la pretesa giuridicamente tutelata
del creditore ad ottenere la prestazione.

b) Le fonti del rapporto obbligatorio


I fatti giuridici idonei a far sorgere le obbligazioni si dicono fonti delle obbligazioni. Secondo
l’elencazione contenuta nell’art. 1173 del codice civile, le obbligazioni derivano:
— da contratto;
— da fatto illecito;
— da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.
Il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un
rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321 c.c.).
Esso determina sempre il sorgere di obbligazioni tra le parti: da un contratto di locazione, ad esempio,
sorge l’obbligo per una parte di pagare il canone pattuito e l’obbligo per l’altra parte di assicurare al con-
duttore il pacifico godimento del bene.

Il fatto illecito è definito dall’art. 2043 del codice civile come qualunque fatto doloso o colposo
che causa ad un altro soggetto un danno ingiusto. Esso determina il sorgere di una obbligazione
di risarcimento in capo a colui che ha commesso il fatto.
Quando, poi, il codice civile parla di ogni altro atto o fatto idoneo a produrre un’obbli-
gazione in conformità dell’ordinamento giuridico, rinvia ad altre specifiche disposizioni del
codice civile o di leggi speciali che affermano, di volta in volta, quando un determinato fatto o
atto è idoneo a far sorgere un’obbligazione (es.: ai sensi dell’art. 2033 del codice civile, il paga-
mento di un debito non dovuto determina il sorgere dell’obbligo di restituire appunto ciò che
non era dovuto).

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c) Elementi del rapporto obbligatorio: principi generali


Gli elementi del rapporto obbligatorio sono desumibili dalla sua stessa definizione: sono
i soggetti, l’oggetto (prestazione) ed il vincolo giuridico.
Per quanto riguarda i soggetti, sono due i principi fondamentali da ricordare:
1) il rapporto obbligatorio deve necessariamente intercorrere tra due distinti titolari, portatori
di interessi contrapposti (principio della dualità dei soggetti); quando, infatti, le qualità di cre-
ditore e di debitore si riuniscono nella stessa persona, si verifica quella causa di estinzione
dell’obbligazione che va sotto il nome di confusione;
2) al momento in cui sorge l’obbligazione, i soggetti devono essere determinati o almeno de-
terminabili (principio di determinatezza dei soggetti); in altri termini, deve essere certo fin
dall’inizio chi è il creditore e chi è il debitore o, quanto meno, deve essere stabilito un criterio
che consente di identificarli in un momento successivo (es.: se prometto una ricompensa a
chi troverà il mio cane smarrito, il creditore della ricompensa sarà quello che troverà il cane
ma non può essere determinato dall’inizio).
I soggetti possono anche essere più di due: è possibile avere più creditori (es. se i comproprietari di
un bene vendono il bene comune, diventano creditori verso il compratore per il pagamento del prezzo)
o più debitori (es. più persone, comprando insieme un bene, diventano debitori verso il venditore per il
pagamento del prezzo).

Ricordiamo, inoltre, che la legge prevede dei casi in cui sono possibili modificazioni del
rapporto obbligatorio, sia nel lato attivo (es. cessione del credito), sia nel lato passivo (es.
espromissione).
L’oggetto dell’obbligazione è la prestazione, cioè il comportamento cui è tenuto il debitore
per far conseguire un’utilità al creditore. Può trattarsi di un comportamento consistente in un
dare (es.: dare una somma di denaro); in un fare (es.: consegnare un libro); in un non fare (es.:
non costruire la propria casa oltre una certa altezza per non limitare la visibilità del panorama al
proprio dirimpettaio).
L’art. 1174 del codice civile dispone che la prestazione deve avere contenuto patrimoniale,
cioè deve essere suscettibile di valutazione economica (in altri termini, deve essere “traducibi-
le” in una somma di denaro che ne rappresenti il valore economico): proprio il carattere della
patrimonialità distingue l’obbligazione da altri obblighi, pur giuridicamente rilevanti, ma
di diversa natura (es. l’obbligo alla fedeltà coniugale nel matrimonio).
L’obbligazione deve inoltre corrispondere a un interesse del creditore e questo interesse
può anche non essere patrimoniale.
Può trattarsi, infatti, di un interesse anche soltanto scientifico, culturale, affettivo, ideale, purché «social-
mente apprezzabile» e, come tale, degno di tutela giuridica (si pensi, ad esempio, all’interesse ad assistere
ad uno spettacolo teatrale o sportivo).

La legge, poi, richiede che la prestazione debba essere: possibile (es. non può consistere
nell’obbligo di consegnare un bene inesistente); lecita, cioè non deve essere contraria a norme
imperative, all’ordine pubblico e al buon costume; deve essere determinata o determinabile
in un secondo momento (es. le parti possono deferire ad un terzo la determinazione della pre-
stazione: si pensi al caso in cui si deferisca ad un terzo la determinazione del prezzo di un bene).
Con particolare riferimento al requisito della liceità della prestazione, chiariamo poi che:
a) le norme imperative sono norme che non possono essere derogate dalla volontà delle parti:
esempio di obbligazione contraria a norme imperative è quella relativa al commercio di
stupefacenti;

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b) l’ordine pubblico è costituito dal complesso dei principi fondamentali e inderogabili che pos-
sono essere desunti dall’intero ordinamento giuridico: esempio di obbligazione contraria
all’ordine pubblico può essere un’obbligazione di partecipazione ad un’azione violenta contro
persone;
c) il buon costume rappresenta il complesso dei principi della morale comune: un esempio di
obbligazione contraria al buon costume può aversi nel campo delle prestazioni sessuali.

d) Correttezza e buona fede


Ai sensi dell’art. 1175 del codice civile, il debitore e il creditore devono comportarsi secondo
le regole della correttezza.
Ma che significa in concreto? Significa che, nell’ambito di un rapporto obbligatorio, il credi-
tore non può abusare del proprio diritto e deve cooperare con il debitore o quanto meno evitare
di aggravare la sua posizione; il debitore, dal canto suo, è tenuto ad osservare tutti i doveri di
informazione, protezione e cooperazione che siano in grado di determinare il soddisfacimento
dell’interesse del creditore.
Chiariamo che la nozione di correttezza di cui parla l’art. 1175 citato costituisce un’appli-
cazione concreta del concetto di buona fede, che costituisce una regola di comportamento cui
devono attenersi le parti di un rapporto obbligatorio: in particolare, la norma citata fa riferimento
alla buona fede cd. oggettiva, per distinguerla dalla buona fede cd. soggettiva, che consiste
nell’ignoranza di ledere un diritto altrui.
Nella disciplina dei rapporti obbligatori, la regola della buona fede oggettiva assume par-
ticolare importanza. Oltre che nell’art. 1175 del codice civile, il legislatore la richiama infatti in
numerose situazioni:
— le parti devono comportarsi secondo buona fede nelle trattative e nella formazione del
contratto (art. 1337 del codice civile);
— il contratto deve essere interpretato secondo buona fede (art. 1366 del codice civile);
— il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 del codice civile).
Ne ricaviamo due importanti caratteristiche del principio di buona fede:
— esso opera come fonte di integrazione del contratto, perché nel regolamento contrattuale
possono essere comprese previsioni o conseguenze che non discendono né dalla volontà
delle parti né da precise norme di legge, ma appunto dal criterio della buona fede;
— esso ha natura di clausola generale, è cioè una valvola che, attraverso il filtro delle valutazioni
giudiziali, consente alla disciplina del contratto di adeguarsi all’evoluzione del costume, delle
prassi, delle esigenze che maturano fra i protagonisti delle relazioni contrattuali.

e) Estinzione dell’obbligazione. La diligenza nell’adempimento


Il codice civile non definisce espressamente l’adempimento, ma la sua nozione può essere
ricavata dall’art. 1218 del codice civile, il quale stabilisce che il debitore che non esegue esatta-
mente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento
o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non im-
putabile: dunque, se il debitore è inadempiente quando non esegue esattamente la prestazione
dovuta, egli è adempiente quando esegue esattamente la prestazione.
Dunque, semplificando e schematizzando ulteriormente, ricaviamo che:
1) l’adempimento è l’esatta esecuzione della prestazione (ed estingue l’obbligazione, libe-
rando il debitore);

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2) l’adempimento deve essere esatto, cioè il suo contenuto deve corrispondere al contenuto
della prestazione obbligatoria.
Si tenga presente che questa regola, però, può essere derogata da un accordo delle parti. Il creditore
e il debitore, infatti, possono concludere un contratto che prende il nome di dazione in pagamento (o
prestazione in luogo dell’adempimento), in base al quale il creditore accetta dal debitore una prestazione
diversa rispetto a quella dovuta e l’obbligazione si estingue nel momento in cui la diversa prestazione è
eseguita (art. 1197 c.c.).

Ma quando una prestazione può dirsi “esattamente eseguita”? E qual è lo sforzo che
può essere legittimamente richiesto al debitore per soddisfare l’interesse del creditore?
Particolarmente importante in tal senso è l’art. 1176 del codice civile, che impone al debitore di
usare, nell’adempimento dell’obbligazione, la diligenza del buon padre di famiglia. Che signi-
fica? Significa che al debitore è richiesto l’impegno che ci si può ragionevolmente aspettare da un
uomo “medio”, in grado di fare bene le cose, ma dal quale non si può pretendere la perfezione.
Dal debitore, dunque, è lecito aspettarsi uno sforzo appropriato, secondo criteri di normalità,
finalizzato a soddisfare l’interesse del creditore.
Il secondo comma dell’articolo 1176 c.c. precisa che, se l’obbligazione è inerente all’esercizio
di una attività professionale, la diligenza deve essere valutata con riguardo alla natura dell’attività
esercitata: si parla, in questo caso, di diligenza tecnica (o professionale) e il debitore è obbligato
ad attenersi a quelle regole tecniche che sono proprie di ogni tipo di attività e che gli consentano
di eseguire la prestazione “a regola d’arte”.
L’obbligo di diligenza individua, dunque, le modalità dell’esecuzione della prestazione e rap-
presenta, come sarà chiaro a breve, il criterio di imputazione della responsabilità del debitore
in caso di inadempimento. In quest’ultimo caso, la diligenza, cioè, indica lo sforzo che il debitore
deve impiegare per evitare l’inadempimento o l’inesattezza dell’adempimento.
Non sempre, però, un comportamento perfettamente diligente del debitore porta al soddi-
sfacimento dell’interesse del creditore. In alcuni casi, infatti, è necessario il raggiungimento di
un certo risultato, in assenza del quale il debitore è inadempiente, anche se si è comportato in
maniera diligente.
Facciamo degli esempi. Se l’obbligazione ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, il
creditore ha interesse ad ottenere il pagamento e l’obbligazione può dirsi adempiuta solo nel momento in
cui tale pagamento avviene: in assenza del pagamento, il debitore è inadempiente e a nulla vale un suo
eventuale comportamento diligente.
Se, invece, l’obbligazione ha ad oggetto la prestazione di un professionista, ad esempio, di un avvocato,
che difende in un giudizio il creditore, quest’ultimo ha interesse ad essere assolto. Nessun avvocato, però,
può ovviamente garantire l’assoluzione e, infatti, in questo caso, la diligenza professionale è sufficiente a
far ritenere l’obbligazione adempiuta. Lo stesso discorso vale per il medico che non può garantire la riuscita
di una terapia o di un intervento chirurgico, ma è obbligato a fare tutto il possibile e ad usare tutte le sue
conoscenze per soddisfare l’interesse del paziente.
Quanto detto chiarisce la distinzione tra obbligazioni di mezzi — nelle quali il debitore, per ritenersi
“adempiente”, è tenuto esclusivamente a tenere una condotta diligente — e obbligazioni di risultato, nelle
quali il debitore è tenuto a fornire al creditore un determinato risultato finale.

La legge prevede, poi, dei modi di estinzione dell’obbligazione diversi dall’adempimento,


che la dottrina tradizionale distingue in “satisfattori” e “non satisfattori” a seconda che soddi-
sfino ugualmente l’interesse del creditore (es. compensazione) oppure non lo soddisfino (es.
remissione del debito).
Si consideri, poi, che anche se normalmente autore dell’adempimento è il debitore, l’adempi-
mento può essere eseguito da qualsiasi altra persona. Infatti, l’obbligazione può essere adempiuta
da un terzo, anche contro la volontà del creditore, se questi non ha interesse a che il debitore

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esegua personalmente la prestazione (art. 1180 del codice civile) (si pensi al caso in cui un famoso
chirurgo si sia obbligato nei confronti del paziente ad eseguire un delicato intervento chirurgico:
in questo caso, il paziente-creditore può legittimamente rifiutare l’adempimento offertogli da
un terzo, cioè da un altro chirurgo).

f) L’inadempimento
Dal concetto di adempimento, ricaviamo quello di inadempimento: l’inadempimento
dell’obbligazione può essere definito come la mancata o inesatta esecuzione della prestazione.

Tale mancato o inesatto inadempimento può dipendere:


a) da cause non imputabili al debitore: in tal caso, l’obbligazione si estingue senza che il debitore
possa essere ritenuto responsabile;
b) da cause imputabili al debitore: in tal caso, quest’ultimo è tenuto, ai sensi dell’art. 1218 del
codice civile, al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento (o il ritardo) è
stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile,
cioè da una causa a lui esterna (es. caso fortuito). La responsabilità prevista dall’art. 1218
del codice civile è definita responsabilità contrattuale (o per inadempimento).
Il risarcimento del danno può consistere:
a) nel risarcimento per equivalente (che è il più frequente), cioè nella corresponsione di una
somma di denaro equivalente al danno subito. Il risarcimento del danno per equivalente
deve comprendere la perdita subita dal creditore in virtù dell’inadempimento o del ritardo
(cd. danno emergente) e il mancato guadagno (cd. lucro cessante). Sia il danno emergente
che il lucro cessante devono essere risarciti se ed in quanto sono conseguenza immediata
e diretta dell’inadempimento del debitore (in termini giuridici si dice che deve esserci un
nesso causale tra inadempimento e danno).
Chiariamo meglio il significato delle espressioni “danno emergente” e “lucro cessante”. Tizio ha ac-
quistato da Caio un certo quantitativo di merce al fine di rivendere la stessa presso il proprio esercizio
commerciale ed ha pagato il relativo prezzo. Caio, però, alla scadenza pattuita, non effettua la consegna.
Tizio, in questo caso, in primo luogo, subisce una perdita patrimoniale, consistente nel prezzo versato
a Caio e tale perdita prende il nome di danno emergente. Egli, però, subisce anche un altro danno in
quanto, a seguito dell’inadempimento di Caio, non può vendere presso il proprio esercizio commerciale
la merce acquistata: questo danno, che consiste in un mancato guadagno, prende il nome di lucro
cessante;

b) nella reintegrazione in forma specifica, cioè nella ricostruzione di una situazione corri-
spondente a quella che sarebbe esistita se non fosse intervenuto il fatto che ha cagionato il
danno.

g) Tutela del credito e garanzie dell’obbligazione


Abbiamo prima accennato ad un principio generale: il debitore risponde dell’adempimento
delle obbligazioni con tutti i suoi beni, presenti e futuri (art. 2740 del codice civile), cioè anche
con i beni non presenti nel suo patrimonio al momento dell’assunzione dell’obbligazione, ma
che vi entrano in un momento successivo.
Dunque, è evidente che il creditore ha interesse a non vedere diminuita, in suo danno, la con-
sistenza di tale patrimonio (es. ha interesse ad evitare che il debitore trasferisca ad altri i propri
beni). A questo scopo, la legge prevede i cd. mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale
(es. l’azione revocatoria, con la quale il creditore può chiedere al giudice che, in presenza dei

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presupposti legislativi, dichiari inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio
con i quali il debitore abbia recato pregiudizio alle sue ragioni).

10 Il contratto come fonte di obbligazione


a) Distinzione tra contratto e altri negozi giuridici
Il contratto è la più importante fonte di obbligazione: è un negozio giuridico, necessariamente
bilaterale o plurilaterale con la funzione di costituire (nel senso di incidere sulla situazione e sugli
interessi delle parti introducendo un nuovo rapporto), regolare (cioè apportare una qualsiasi
modificazione ad un rapporto già esistente) o estinguere (nel senso di porre fine ad un rapporto
preesistente) un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321 del codice civile).
Il requisito della patrimonialità distingue il contratto da altri negozi giuridici, quali quelli
relativi ai rapporti di famiglia (come ad esempio, il matrimonio).
Esistono vari tipi di contratti; ad esempio, è possibile distinguerli in base al momento in cui
si perfezionano (consensuali e reali); in base agli effetti (ad effetti reali e ad effetti obbligatori)
e così via.

b) Il significato di «autonomia contrattuale»


Principio fondamentale in materia contrattuale è quello stabilito dall’art. 1322 del codice
civile, il quale prevede che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto
nei limiti imposti dalla legge e che le stesse possono anche concludere contratti che non ap-
partengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi
meritevoli di tutela.
Si parla, a tale proposito, di autonomia contrattuale, la quale si sostanzia, in primo luogo,
nella libertà attribuita ai privati di determinare il contenuto del regolamento contrattuale nei
limiti imposti dalla legge.
Questo significa che le stesse possono utilizzare uno schema contrattuale previsto dalla legge
ed adeguarlo come meglio credono alle proprie esigenze.
Esse devono rispettare necessariamente le disposizioni che si definiscono inderogabili (la cui applica-
zione, cioè, è imposta dall’ordinamento); possono, invece, derogare alle disposizioni che si definiscono
dispositive (che, cioè, regolano il rapporto, ma lasciano libere le parti di regolarlo diversamente) ed intro-
durre, sempre nei limiti imposti dalla legge, gli ulteriori patti, le ulteriori clausole contrattuali, che ritengono
opportuni e che meglio soddisfano i loro interessi.

Può accadere, però, che le parti abbiano esigenze che non possono essere soddisfatte attra-
verso la stipulazione di uno dei contratti tipici. In questo caso esse, come stabilisce il 2° comma
dell’art. 1322 c.c., possono concludere contratti diversi da quelli espressamente previsti e
disciplinati dalla legge, purché tali contratti siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela
secondo l’ordinamento giuridico.
Questi contratti, non previsti dalla legge, sono qualificati contratti atipici.
Le parti possono, dunque, stipulare un contratto atipico solo quando perseguono interessi
meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Tali interessi possono dirsi meritevoli di
tutela quando sono quanto meno compatibili con l’utilità sociale, quando il contratto, cioè,
non è in contrasto con gli interessi della collettività e non reca danno alla sicurezza, alla libertà e
alla dignità umana. Gli interessi non sono invece meritevoli di tutela quando non sono conformi
alle esigenze della comunità.

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L’autonomia di cui godono i privati in ambito contrattuale è, in realtà, più ampia rispetto alla
formulazione dell’art. 1322 c.c., perché ciascuno di noi è libero, prima ancora di determinare il
contenuto del contratto e di concludere negozi atipici, di decidere se stipulare o non stipulare
il contratto stesso (cd. libertà di contrarre, confermata dalla facoltà di revocare la proposta e
l’accettazione fino al momento della conclusione del contratto) e di scegliere la persona o le
persone con le quali contrarre.
Inoltre, si consideri che la libertà di contrarre può essere limitata dalla previsione di un obbli-
go a contrarre, che può ad esempio essere previsto dalla legge (es. come accade in presenza di
situazioni di monopolio legale, che si verificano quando la produzione e l’offerta di un determi-
nato bene o servizio è attribuita dallo Stato ad un unico soggetto); oppure può essere previsto
dalle parti (es. se è stato stipulato un contratto preliminare, le parti sono obbligate a prestare il
proprio consenso per la stipulazione di un successivo contratto, detto definitivo).

11 Il fatto illecito come fonte di obbligazione


Come abbiamo visto, l’art. 1173 del codice civile comprende, tra le fonti delle obbligazioni,
anche i fatti illeciti. Ma in che senso un fatto illecito è fonte di obbligazione?
Partiamo da un concetto basilare: il comportamento contrario alla legge che provoca ad altri
un danno ingiusto prende il nome di fatto illecito.
L’art. 2043 del codice civile dispone che qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri
un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno: dunque, l’atto
illecito è fonte dell’obbligo di risarcimento del danno.
Chiariamo che un fatto è doloso quando colui che lo ha commesso lo ha voluto e preveduto come
conseguenza della sua azione (es.: ti ho colpito perché volevo farti cadere).
Un fatto è invece colposo quando non è stato cagionato intenzionalmente, ma si è verificato a causa di
negligenza (es.: la diffusione di notizie che risultano diffamatorie, allorché il giornalista non si preoccupi di
controllarne la veridicità), imprudenza (es.: il ferimento involontario di una persona mentre si maneggia
un’arma per gioco) o imperizia (es.: il crollo di un edificio causato da un errore dell’ingegnere nel calcolo
del cemento armato).

Il danno da risarcire può essere:


a) patrimoniale, cioè il danno che determina, direttamente o indirettamente, un pregiudizio
patrimoniale al danneggiato (es.: è una perdita patrimoniale diretta quella conseguente al
danneggiamento della propria vettura ad opera di un terzo; mentre è un danno patrimoniale
indiretto quello consistente nella perdita della propria clientela determinata da una ingiusta
campagna diffamatoria operata da un giornalista disonesto).
Il danno patrimoniale può essere risarcito:
1) per equivalente, cioè tramite il pagamento di una somma di denaro. Il risarcimento del danno per
equivalente deve comprendere sia la perdita subita dal danneggiato in virtù dell’atto illecito (cd.
danno emergente), sia il mancato guadagno che ne è derivato (cd. lucro cessante);
2) attraverso la reintegrazione in forma specifica, cioè ricreando la stessa situazione che vi sareb-
be stata se il danneggiante non avesse posto in essere il fatto illecito (es.: riparazione a spese del
danneggiante della cosa danneggiata);

b) non patrimoniale, cioè il danno arrecato direttamente alla persona del danneggiato, senza
colpire, né direttamente, né indirettamente, il suo patrimonio.
Si pensi alle sofferenze psicologiche determinate da una lunga degenza in ospedale conseguente ad un
incidente automobilistico. Poiché, in questo caso, però, il danno consiste nella perdita o nella lesione di un

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bene che non può essere oggetto di scambio o di valutazione economica, il risarcimento del danno potrà
avvenire solo tramite la corresponsione di una somma di denaro determinata in via equitativa dal giudice.

Ferme queste considerazioni, si tenga presente che il legislatore non ha elencato le singole
figure di fatti illeciti, limitandosi a sancire un principio generale (art. 2043 cit.) e a prevedere
alcune particolari fattispecie generatrici di responsabilità (artt. 2047-2054 del codice civile). Il
nostro ordinamento ha accolto, infatti, il principio della atipicità dell’illecito civile: l’illecito
civile (a differenza dell’illecito penale) è atipico nel senso che non sono stati stabiliti a priori quali
fatti umani siano idonei a cagionare un danno (e, quindi, un obbligo di risarcimento).
La responsabilità derivante dal compimento di un atto illecito è definita responsabilità
extracontrattuale.
Il soggetto può essere considerato responsabile del fatto dannoso solo però se è imputabile,
se cioè è capace di intendere e di volere al momento in cui ha commesso il fatto. Precisamente,
per essere giudicato imputabile, il soggetto deve avere tanto la capacità di intendere (risultare,
cioè, dotato di facoltà intellettuali sufficienti a renderlo consapevole del comportamento che
pone in essere) quanto la capacità di volere (apparire, cioè, in grado di operare una libera scelta
tra vari possibili comportamenti, in modo che quello posto in essere possa dirsi volontario).

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