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Giovanni Pascoli - Appunti e riassunti molto utili per la


maturità
Scienze applicate (Liceo Scientifico Statale J.F. Kennedy (RM))

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GIOVANNI PASCOLI

¬ La vita

Nasce nel 1855. La sua vita è segnata dalla serie di lutti che affronta, a partire dalla morte del padre
(ucciso con una fucilata, il suo assassino rimane impunito) nel 1867 seguita dalla morte di alcuni fratelli e
della madre. Questi eventi portano allo sviluppo di due temi fondamentali della sua poetica: il tema della
“casa-nido” e della morte. Vince una borsa di studio a Bologna e diventa allievo di Giosue Carducci, ma
gli viene revocata per aver partecipato ad una manifestazione contro la Pubblica Amministrazione;
prendendo parte ad una manifestazione non autorizzata viene arrestato e questo lo porta alla
depressione, lo fa allontanare dalla vita politica e lo fa orientare ad una solidarietà umana. Nel 1891
pubblica Myricae e nel 1897 pubblica Il Fanciullino la cui versione definitiva viene pubblicata nel 1903
insieme a i Canti di Castelvecchio. Nel 1904 ottiene la cattedra dell’università di Bologna succedendo
Carducci. Nel 1911 fa un discorso, in occasione della guerra di Libia, in cui dichiara di essere favorevole
all’espansione coloniale, che egli stesso vede come una cosa necessaria perché potevano essere dei possibili
sbocchi per i ceti più poveri. Muore a Bologna nel 1912.

¬ Il pensiero e la poetica

Nonostante fosse più estraneo alla vita europea, a differenza di autori come D’Annunzio e Carducci, Pascoli
fu in grado di recepire ed elaborare gli spunti stranieri creando un nuovo tipo di poesia, risultato
dell’unione tra la tradizione e il nuovo, che influenzò tutto il Novecento. In Pascoli si incontrano
l’ispirazione classica e la modernità (la prima deriva dall’interesse per la cultura classica che aveva
fina da giovane; la seconda deriva dagli atteggiamenti e dalla sensibilità di fine Ottocento dei quali avevi
filtrato gli spunti culturali). Nelle sue opere ci sono riferimenti al Simbolismo e all’Estetismo e si afferma
una tendenza allo sperimentalismo metrico e linguistico.

La poetica del fanciullino è un elemento tipico di Pascoli. Il tema dell’infanzia ricorre spesso nella
sua produzione e ad esso va ricollegata l’essenza della sua poesia. Il fanciullino è in grado di vedere dove gli
adulti non arrivano utilizzano l’intuizione e alcune capacità percettive; la stessa cosa deve fare il poeta
che, attraverso lo stupore e la fantasia, deve andare al di là degli oggetti e metterli in relazione tra loro. A
differenza del pensiero decadentista, secondo Pascoli, il poeta ha un ruolo molto importante nella società.
L’autore vede la poesia come uno strumento consolatorio che attenua le tensioni sociali e ricostruisce i
rapporti tra gli uomini attraverso la contemplazione comune della bellezza. Inizia a sostenere un
socialismo basato sulla solidarietà umana e un nazionalismo (non ha un carattere politico, ma si basa sulla
difesa della patria come luogo-nido). Pascoli non vede un lato positivo e progressivo nella storia,
l’unico rifugio possibile è nella rete degli affetti. A causa dei numerosi lutti che l’hanno colpito, la
morte è il tema ricorrente nella poetica pascoliana; c’è una sottile inquietudine nelle descrizioni della
natura e il peso opprimente dell’ingiustizia umana che ha privato degli innocenti del loro padre torna spesso
a tormentare il poeta. La poesia diventa, quindi, la consolazione al male dell’esistenza. Per superare questo
dolore il poeta si rifugia in ogni forma di intimità familiare (nido, focolare, patria). A protezione del mondo
c’è, poi, la nebbia che è utilizzata spesso come immagine metaforica; così come l’immagine della siepe che
esprime il bisogno di protezione. Quella di Pascoli è la poetica delle cose: gli oggetti diventano simboli di
un ricordo, di un’emozione o di una condizione; ogni cosa assume un significato importante nel suo
discorso; gli oggetti sono poetici indipendentemente dalle loro caratteristiche, dal loro valore e dal loro
ruolo. Nella lingua di Pascoli diventano centrali la dimensione uditiva e fonosimbolica della realtà.
Il mondo viene descritto con una certa esattezza linguistica, ogni particolare del mondo ha un nome
esatto; in più c’è una grande musicalità fatta da diverse figure retoriche (ad es. onomatopee e allitterazioni).
Un’altra cosa caratteristica di Pascoli è lo sperimentalismo lessicale in cui i termini tecnici vengono
affiancati da termini preziosi, dialettali e quotidiani e l’effetto è quello di un plurilinguismo che influenzerà
molto la poesia del Novecento.

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IL PENSIERO E LA POETICA

Il poeta pascoliano è un essere straordinario, non in senso superomistico, ma che grazie all’intuizione
avverte i significati più profondi della natura e li descrive in versi. L'attività poetica di Pascoli si svolge nel
tempo attraverso una continua opera di rielaborazione e riscrittura.

Le sue raccolte poetiche vengono ripubblicate più volte a distanza di anni, arricchendosi di testi e
modificando la loro struttura originaria, con risultati spesso molto distanti dall'originale.

All'interno della produzione pascoliana non va ricercata una vera e propria evoluzione di forme e temi
legata alla successione cronologica, ma la continua variazione di strutture e motivi, in un costante
sperimentalismo che spinge l'autore a mettersi alla prova in ambiti e generi differenti. All’interno delle
opere di Pascoli possiamo trovare vari stili metrici, come ad esempio il decasillabo e il novenario
pascoliano.

AMBIGUITA’ DELLA NATURA

La rappresentazione della natura assume nella poesia di Pascoli un significato ambivalente. Da un lato il
paesaggio agreste che appare come un rifugio sicuro dalle minacce del mondo esterno; dall'altro, però,
esso stesso è fitto di echi funebri, che rinviano ai lutti e alle sofferenze del poeta.

Soprattutto nella raccolta Myricae, ogni particolare naturale si carica di richiami misteriosi e inquietanti,
come ad esempio la voce degli uccelli che sembra rimandare alla possibilità di una comunicazione tra i vivi e
i defunti, mentre i fenomeni atmosferici (come in Temporale o Il lampo), alludono all'incombere di una
violenza senza scopo né fine.

Alla radice di questa fitta rete di richiami simbolici si pone il ricordo incancellabile della morte del padre
che diviene agli occhi di Pascoli un emblema tangibile della violenza che pervade il mondo, secondo
una visione pessimistica.

UNA DIMENSIONE REGRESSIVA

Traumatizzato dai precoci lutti familiari, Pascoli rifiuta la violenza del mondo esterno e ricerca
costantemente una dimensione protetta e chiusa, che lo spinge a desiderare di ritornare agli anni
sereni dell'infanzia, di regredire a uno stadio infantile.

Questa tematica si concreta spesso nell'immagine simbolo del “nido”, simbolo dell'unità familiare per
sempre perduta, ma sempre ricercata. Il desiderio di ricostruire il “nido” suscita nel poeta un lacerante
rimpianto della famiglia originaria, impedendo ogni apertura verso l'esterno e creando una costante
tensione tra nostalgia e paura del mondo esterno.

Si spiega così anche la frequenza di altre immagini simboliche, come la siepe (confine tra il nido ed il
mondo esterno, un richiamo alla poesia leopardiana), la nebbia (un simbolo di isolamento) e lo spazio
chiuso, ma protettivo, del cimitero.

Questo atteggiamento regressivo, motivato in Pascoli dalle vicende biografiche, è riconducibile del resto
nella più generale crisi delle certezze positivistiche che caratterizza gli intellettuali di fine Ottocento,
costretti a confrontarsi con l'affermarsi del nazionalismo, con le difficoltà della nuova civiltà industriale e
con la perdita di importanza dell'artista nella società.

A questa crisi, Pascoli reagisce con il ripiegamento intimistico che lo spinge a vedere nelle piccole cose
della campagna e nel ricordo devoto del nucleo familiare l'unico possibile rifugio dal male della storia.

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LE NOVITA’ FORMALI

La visione del mondo di Pascoli si traduce in una poesia profondamente innovativa sul piano delle
strutture, del lessico e del metro, in una rivoluzione formale che apre la strada alla poesia del
Novecento. In linea con l'ottica del «fanciullino», nelle sue liriche Pascoli rinuncia alla costruzione di una
precisa articolazione logica a vantaggio del libero accostamento di immagini e suggestioni,
espressione di una visione intuitiva del mondo.

La sintassi abbandona le strutture complesse e predilige le frasi brevi. Sul piano retorico, è molto
frequente l'uso di metafore, analogie e sinestesie, che legano ambiti sensoriali diversi portando allo scoperto
le misteriose «corrispondenze» che animano la realtà. Il lessico amplia il vocabolario poetico della
tradizione, mescolando fra loro registri diversi.

Vocaboli letterari e latineggianti coesistono con parole quotidiane e vicine al parlato, cui si alternano
termini tecnici dell'ambito agreste e botanico, di grande precisione descrittiva. Una particolare musicalità è
ottenuta attraverso frequenti onomatopee e allitterazioni, spesso in funzione fonosimbolica. (procedimento
stilistico per cui una determinata parola suggerisce, attraverso il suono, un particolare stato d’animo o una
sensazione).

MYRICAE

Pascoli pubblica la sua prima raccolta, Myricae, nel 1891, quando ha 36 anni. È una raccolta dedicata
al padre ed è considerata, con i Poemetti e i Canti di Castelvecchio, la parte più viva della produzione di
Pascoli. Il titolo, in latino, intende le tamerici (arbusti comuni nelle zone mediterranee) e indica la
predilezione per argomenti umili. Le poesie si distinguono per la loro brevità, l’illuminazione
improvvisa e il frammento lirico. Vengono utilizzati termini precisi che vengono introdotti per la
prima volta nella lingua italiana; è importante l’aspetto fonosimbolico del linguaggio che precede il
significato (uso di onomatopee, sinestesie, analogie) ed evoca gli oggetti e il loro valore attraverso il suono
(uso di allitterazioni o di una trascrizione dei suoni). Questo mostra un’attenzione ai suoni e l’ascolto dalla
voce interiore del fanciullino che ricorda di guardare la realtà con meraviglia e stupore. Si tratta di una
raccolta incentrata sul lutto familiare che diventa espressione del dolore universale che colpisce la storia
e la natura; i temi, oltre alla morte, sono il nido distrutto (=perdita degli affetti familiari) e la
rappresentazione della natura. La natura è una madre dolcissima (a differenza di Leopardi per il quale
si trattava di una matrigna) anche quando si arriva alla morte; gli uomini sono la causa del male che
provano durante la vita. I paesaggi e i ritratti non hanno niente di realistico, si trovano in una dimensione
che li rende sfuggenti e inafferrabili che crea una minacciosa inquietudine.

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“Arano”

Pascoli dipinge un quadretto di soggetto agricolo: una mattina d'autunno, in mezzo alla Povo nebbia, i
contadini arano. Il madrigale sembra un dipinto en plein air ("all'aperto, in mezzo alla natura") di un pittore
impressionista; in realtà Pascoli prende ispirazione da un passo del quarto capitolo dei Promessi sposi di
Alessandro Manzoni: « A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti
a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne' campi di stoppie biancastre e
luccicanti dalla guazza».

PARAFRASI

Nel campo dove qualche foglia di vite (pampano) ancora splende, con il suo color rosso fuoco (roggio)
nei filari, e dai cespugli (fratte) sembra evaporare la nebbiolina del mattino, arano: lente grida ed un
contadino (uno) spinge le lente (lente…lente – la ripetizione dell’aggettivo ha lo scopo di cadenzare il
ritmo del verso, suggerendo il ritmo pacato del lavoro) vacche; un altro contadino (un) ribatte
pazientemente con la zappa (marra paziente – ipallage – l’aggettivo paziente viene riferito a marra
anziché a contadino) le zolle di terra smosse dall’aratro (porche – strisce di terra tra due solchi) per
coprire i semi; poiché (ché) il passero furbo (saputo – che sa il fatto suo) già in cuor suo si rallegra (gode -
in previsione dei semi che rimasti scoperti andrà a beccare) e tutto controlla (spia) dai rami spogli (irti) del
gelso (moro); ed anche il pettirosso (anche il pettirosso spia il lavoro dei contadini – ellissi, omissione del
verbo reggente): nelle siepi si sente il suo delicato canto tintinnante come le monete d’oro (suo sottil
tintinno come d’oro - onomatopea e similitudine: l’espressione vuole riprodurre il canto dell’usignolo ed
inoltre paragona il cinguettio del pettirosso al suono che producono le monete d’oro battendo sul metallo).

COMMENTO

Arano fa parte della prima raccolta di liriche di Pascoli: Myricae. La poesia rappresenta una scena di umile
vita campestre in un paesaggio tipicamente autunnale: alcuni contadini lavorano all’aratura dei campi
mentre il passero e il pettirosso ne spiano i gesti pregustando il momento in cui potranno beccare i semi
sparsi rimasti sulla superficie del terreno. Le tre strofe corrispondono a 3 diversi aspetti del quadretto
campestre:

● la prima strofa descrive il paesaggio autunnale (si intuisce l’autunno dal colore rosso dei pampini e
dalla nebbia). Il poeta usa dati visivi (il rosso delle foglie, la nebbia).;

● la seconda il lavoro dei contadini impegnati nell’aratura. In questa strofa prevalgono i dati uditivi (le
grida, il rumore della marra);

● la terza i due spettatori della scena: il passero e il pettirosso che osservano la scena in disparte
pregustando di poter beccare le sementi rimaste in superficie. Nei primi 2 versi predominano i dati
visivi (il passero spia la scena) mentre negli ultimi 2 versi viene dato rilievo ai dati uditivi (il verso
del pettirosso).

Una lettura più attenta rivela che questa descrizione realistica di carattere agreste è l’espressione di uno
stato d’animo e di una visione della vita contrassegnati da una profonda malinconia. Si distinguono
elementi caratteristici della poesia decadente, quali: la minuziosità nella descrizione di ogni oggetto, gesto o
situazione e la dimensione magico-sacrale di tutta la situazione.

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“X Agosto”
Introduzione
La notte del 10 agosto, san Lorenzo, è la notte delle stelle cadenti: la tradizione popolare le ha interpretate come le lacrime
piante da Lorenzo durante il suo martirio (III secolo d.C.). Il 10 agosto il padre di Pascoli, sulla strada di casa, fu ucciso in
un agguato con una fucilata. Pascoli costruisce questa poesia mettendo in relazione i due avvenimenti. La pubblico per la
prima volta sul numero datato 9 agosto 1896 della rivista «Il Marzocco accompagnandola con questa nota: «Questo ricordo
del X agosto 1867 io dedico ad alcuni ignoti uomini atroci; siano essi ora spettri che vagolano perpetuamente dal luogo ove
uccisero al luogo ove furono uccisi, o siano teste rugose e bianche che sempre più si chi nano all'ombra estrema, che cova la
vendetta, o siano fronti pallide che provano a rialzarsi lentamente, sperando che essa Ate [la dea greca della Vendetta] non
venga più, non ci sia più... Un po' di pazienza ancora, un po' di pazienza! Pazienza! Pazienza».
Parafrasi discorsiva
San Lorenzo, io so perché un numero così grande di stelle brilla e cade attraverso l’aria tranquilla, perché un pianto così
grande risplende nella volta del cielo. Una rondine stava ritornando al suo nido: fu uccisa: cadde tra i rovi: aveva nel becco
un insetto: la cena per i suoi figlioletti. Ora è là, come se fosse in croce, che tende quel verme verso quel cielo lontano; e i
suoi piccoli sono nell’oscurità ad aspettarla, pigolando sempre più piano. Anche un uomo stava tornando a casa: fu ucciso:
disse: “Vi perdono”; e nei suoi occhi sbarrati restò soffocato un grido: portava in regalo due bambole… Ora là, nella casa
solitaria, lo aspettano, lo aspettano inutilmente: lui immobile, sbigottito mostra le bambole al cielo lontano. E tu, Cielo,
infinito, eterno, dall’alto dei mondi sereni, inondi di un pianto di stelle questo corpuscolo senza luce caratterizzato solo dal
male.
Commento
La poesia X Agosto, ricchissima di simboli, Pascoli, come in molti altri componimenti di Myricae, rievoca la tragedia
dell’uccisione di suo padre, avvenuta il 10 agosto 1867, trent’anni prima della stesura della poesia. Il 10 agosto è, però,
anche il giorno di San Lorenzo, quello in cui, secondo la tradizione popolare, si verifica il fenomeno delle stelle cadenti.
Le stelle che cadono in quella notte, nell’immaginario pascoliano, rappresentano il pianto del cielo sulla malvagità degli
uomini: quest’immagine rende l’idea di un cosmo profondamente umanizzato.
Prendendo le mosse dalla propria tragica vicenda personale, il poeta affronta i grandi temi del male e del dolore: gli
elementi familiari e biografici vengono trasposti su un piano universale e cosmico. Così, la rondine e il padre uccisi, posti in
evidente parallelismo (ritornava una rondine al tetto, v. 5 – anche un uomo tornava al suo nido, v. 13; “l’uccisero: cadde tra
spini”, v. 6 -“l’uccisero: disse: Perdono”, v. 14; “ella aveva nel becco un insetto”, v. 7 – “portava due bambole in dono”, v.
16; “tende / quel verme a quel cielo lontano”, vv. 9-10 – “addita / le bambole al cielo lontano”, v. 20), diventano il simbolo
di tutti gli innocenti perseguitati ed alludono scopertamente alla figura di Cristo, la vittima per eccellenza, che perdona i
suoi carnefici sulla croce, richiamata già nel titolo, con il numero romano X. La rondine che stava tornando al suo nido
portando un verme per i suoi piccoli, è stata uccisa durante il tragitto e li ha lasciati soli ed affamati; allo stesso modo, il
padre del poeta viene ucciso mentre sta tornando a casa, il “nido” chiuso e protetto, portando due bambole in dono alle
figlie, che ora lo aspettano vanamente, proprio come i piccoli della rondine aspettano la madre, ormai affamati e morenti.
L’unica differenza tra la rondine e il padre in punto di morte sta nella parola “perdono” pronunciata dall’uomo.
La struttura del componimento è circolare (Ringcomposition), poiché esso si apre e si chiude con l’immagine del cielo
inondato di stelle cadenti, simboli del dolore (vocativo “San Lorenzo”, v. 1 – vocativo “E tu, Cielo”, v. 21; “aria tranquilla”,
v. 2 – “mondi / sereni”, vv. 21-22; “sì gran pianto”, v. 3 – “pianto di stelle”, v. 23). Il Cielo, ossia Dio, è sentito come
lontano, distante, indifferente, separato dal mondo, capace solo di guardarlo dall’alto e di “piangere” sulle miserie umane,
ma non di lenirne in nessun modo le sofferenze. Il male, personificato, è incomprensibile per l’uomo, che si sente sempre in
balia di un insondabile destino. La Terra, nell’economia dell’universo, al cospetto dell’immensità del Cielo, non è altro che
un “atomo opaco”, un minuscolo ed insignificante corpuscolo che non brilla neppure di luce propria.
Di fronte alla malvagità del mondo, l’unico rifugio, dovrebbe essere il “nido”, unico luogo protetto in cui trovare pace,
ma la casa è anch’essa “romita”, solitaria, lacerata dalle tragiche vicende del mondo, dunque insufficiente a proteggere
l’uomo, a cui non resta che invocare invano il “pianto di stelle” del cielo che lo soccorra e partecipi del suo dolore.

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“L’assiuolo”
L'assiuolo è un rapace notturno: è simile al gufo, ma ha le dimensioni di un merlo; in dialetto toscano prende il nome dal
suo verso, che viene trascritto chiù. Nel passero solitario, Leopardi proponeva un parallelo esplicito tra le due condizioni
esistenziali, quella del passero e la propria. Analogamente, nella poesia pascoliana gli uccelli non sono una presenza pura
mente esornativa: non servono a mostrare la perizia descrittiva del poeta, o ad arricchire di dettagli un paesaggio, o a dare
un tocco pittoresco. Al contrario: gli uccelli hanno un profondo significato simbolico, solo che, a differenza di quanto
accade in Leopardi, questo significato non viene reso esplicito. È questo anche il caso dell'Assiuolo.
Parafrasi discorsiva
Mi domandavo dove fosse la luna, dato che il cielo era immerso (nuotava) nella luce chiara e perlacea dell’alba e sembrava
che il mandorlo e il melo rizzassero i loro rami per vedere dove fosse.
Da un punto indeterminato del cielo venivano guizzi di lampi preannuncianti una bufera (nero di nubi) e si sentiva una voce
dai campi: chiù (il verso triste e lamentoso dell’assiuolo).
Le rare stelle brillavano in mezzo al chiarore lattiginoso diffuso dalla luna (nebbia di latte).
Sentivo l’ondeggiare del mare, sentivo un fruscio tra i cespugli, sentivo il cuore sussultare, come se fosse l’eco di un antico
grido di dolore. Si sentiva lontano il pianto convulso: chiù…
Sulle cime degli alberi, ben visibili e lucenti per il riflesso della luna, tremava un leggero venticello; le cavallette
emettevano un suono stridulo con il frullare delle ali, come i sistri d’argento (bussavano alle porte della morte che non si
vedono e forse non si apriranno mai più). E continuava quel pianto funereo: chiù…
Commento
L’assiuolo, che dà il titolo alla lirica, è un piccolo rapace notturno, simile al gufo e alla civetta, che emette un grido
(chiù) che, nella tradizione popolare, viene associato alla tristezza e alla morte. Il suo verso lugubre, in forma onomatopeica,
scandisce la poesia e si carica di significati simbolici. I critici Gioanola e Li Vigni, parlando di questa poesia, dicono:
Siamo alle soglie dell’alba – un’alba di luna – e il lugubre grido dell’assiuolo, annunciatore di morte nella credenza
popolare, agisce probabilmente nella semincoscienza del dormiveglia e suscita una serie di immagini inquietanti, tutte più o
meno riferibili alla realtà, ma travolte nella loro essenza e nel loro ordinamento sintattico da un forte vento d’angoscia. E
naturalmente i versi, che nascono su un materiale così poco coordinato come quello onirico, svolgono un discorso per
elementi staccati, non logicamente dipendente, secondo una sintassi franta, a blocchi giustapposti. L’origine dello stile
pascoliano è proprio qui. 1
La prima strofa inizia con una domanda («Dov’era la luna?»), giustificata dal fatto che il cielo è quasi immerso nella
luce perlacea e le piante, alle quali vengono attribuite peculiarità umane, si rizzano per vedere la luna. Siamo nel momento
che precede l’alba e già inizia a diffondersi il lamento stridulo dell’assiuolo che, gradualmente, diviene un singhiozzo
premonitore di morte e arriva a trasformarsi, nella terza ed ultima strofa, in un pianto desolato, di morte, capace di
angosciare il poeta, il quale è solo col suo dolore, in un universo immenso. È come se l’assiuolo fosse il poeta stesso.
Le tre strofe della poesia manifestano un crescendo di pathos e partono tutte presentandoci immagini di luce (il
chiarore della luna, il luccichio delle stelle, gli alberi lucenti per il riflesso della luna) e si concludono con immagini di
segno diametralmente opposto.
La lirica è caratterizzata dal fonosimbolismo: un procedimento linguistico tipico in Pascoli, il quale ricerca gli effetti
sonori nelle parole per trasmettere dei significati ulteriori. Colpisce, in particolare, il ricorso alle onomatopee che, in questa
lirica, acquistano una rilevanza particolare. L’onomatopea con la quale si concludono tutte le strofe (chiù) altro non è che il
fonosimbolo della morte: rappresenta il suono attraverso il quale i morti comunicano coi vivi. Seguendo il richiamo
del chiù l’io del poeta riesce a comunicare coi morti. La voce degli uccelli in Pascoli, infatti, serve spesso per consegnare un
messaggio pieno di significati simbolici. Gli uccelli notturni fungono da intermediari fra il mondo dei vivi e quello dei
morti.
L’onomatopea tintinni, invece, richiama il «tintinnio segreto» di cui Pascoli parla nel Fanciullino, l’articolo da lui
pubblicato a puntate sul «Marzocco» nel 1897, che rappresenta una sorta di dichiarazione della sua poetica. Per Pascoli il
fine ultimo di far poesia è: «esorcizzare la morte, che costituisce il nostro limite, tenere a bada l’angoscia esistenziale, che ci
assilla, attraverso quella forma di sopravvivenza, sia pure provvisoria, che è la parola».2
Il poeta altri non è che «l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente»3, proprio come il fanciullo che riesce
ancora a guardare tutto con stupore, arrivando a capire il mistero dell’esistenza esplorando il mondo con sguardo incantato.
Nella terza strofa, come nella prima, il poeta ci pone di fronte ad un interrogativo invitandoci a riflettere sulla
possibilità che le porte della morte rimangano chiuse per sempre, non permettendo la resurrezione e il ritorno dei propri cari
defunti ed anche impedendo la possibilità di svelare il mistero della vita che l’apertura di queste avrebbe potuto dischiudere.
In questa strofa il poeta manifesta tutta la sua angoscia: i suoni del rapace notturno hanno riportato alla sua mente il dolore
per la perdita dei suoi cari e gli hanno permesso di acquisire la consapevolezza che la morte incombe anche su di lui.

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CANTI DI CASTELVECCHIO

È una raccolta pubblicata nel 1903, ma la sesta edizione, quella definitiva, è pubblicata nel 1912. In questa
raccolta Pascoli è molto più legato alla tradizione rispetto a quanto non lo fosse nelle opere precedenti
(il titolo allude ai Canti dei Leopardi). Le poesie sono più lunghe, ciò permette più sperimentazioni
metriche, e la struttura cambia: la raccolta è scandita dal succedersi delle stagioni (autunno-autunno). Le
sensazioni del poeta e un esteso simbolismo riportano sempre alla tragedia familiare (il tema della morte
apre e fonda la raccolta). Anche in questa raccolta è presente il plurilinguismo pascoliano e la natura è
più simbolica e allusiva

“Il gelsomino notturno”

Questa poesia è stata scritta da Pascoli in occasione del matrimonio di un amico; è contenuta nei Canti
di Castelvecchio. È composta da 6 strofe di 4 versi a rime alternate.

Commento

La poesia Il gelsomino notturno, a prima vista, potrebbe apparire una descrizione


impressionistica e vivida di un paesaggio notturno, in cui si alternano immagini naturali e umane, colte
attraverso diversi tipi di sensazioni intrecciate: la lirica comincia e si conclude con l’immagine dei «fiori
notturni», i gelsomini, pertanto presenta una sorta di circolarità e unitarietà tematica che, a livello
puramente denotativo, consiste nella narrazione di ciò che avviene durante una notte. Occorre, tuttavia,
specificare che è dedicata alle nozze dell’amico Gabriele Briganti: come Pascoli stesso esplicita in una
nota, essa rievoca allusivamente, solo per analogia, la prima notte di nozze in cui è stato concepito un figlio.
Già la “e” iniziale pare alludere a qualcosa che viene prima e non viene esplicitato, allusivo, segreto. Allora, i
riferimenti alla casa che “bisbiglia” col lume ancora acceso andranno letti come una velata allusione alla
fecondazione che lì sta avvenendo, simile a quello che si verifica all’interno del fiore ; il colore rosso e il
profumo che si esala per tutta la notte assumono una forte carica sensuale, diventando una sorta di
invito all’amore. Il fiore che si apre al calar delle tenebre e all’alba racchiude dentro di sé il segreto della
fecondazione è un chiaro simbolo sessuale, mentre, ad esempio, i “petali un poco gualciti” alludono alla
perdita della verginità.

Ma l’inno di Pascoli non è un gioioso epitalamio: il poeta è escluso dalla gioia della
fecondazione, può solo vagheggiarla da fuori e da lontano (pur cogliendone ogni minima sensazione,
anche quelle impercettibili), ma ne resta del tutto escluso, come “l’ape tardiva” resta fuori dalla sua celletta.
In questa chiave vanno lette le immagini di morte, che costantemente si alternano a quelle
amorose (“i miei cari”, “le fosse”, “l’urna”) e i frequenti riferimenti al “nido” (le “ali”, le “celle”, la
“Chioccetta”, il “pigolio di stelle”), il luogo simbolico e rifugio protettivo in cui si racchiudono gli affetti
famigliari del poeta: la tragedia famigliare ha distrutto il nido, impedendogli ogni legame che non sia quello
con i cari defunti che continuano a vivere come lugubri presenze. Uscire dal “nido” e partecipare appieno
alla vita, per il poeta, significherebbe tradire un vincolo sentito come sacro. L’amore e la morte si
legano in un cerchio indissolubile: le immagini di morte nascondono il segreto della vita: ogni
elemento si può, infatti, associare a diverse aree semantiche fra loro opposte: luce vs oscurità; rumore vs
silenzio; riparo vs esclusione; tali opposizioni, poi, si ricollegano tutte all’antitesi vita vs morte. Il sereno
quadro notturno, dunque, è percorso da intime tensioni, per comprendere le quali occorre penetrare in
profondità nella psicologia del poeta. Il generale senso di mistero è accentuato dal valore polisemico e
metaforico di termini come “urna” (il recipiente che contiene le ceneri dei morti, ma anche l’ovario del fiore,
dove nasce nuova vita) e dall’indeterminatezza spazio-temporale.

Il testo si presenta come una serie di immagini apparentemente slegate, collegate solo per
analogia, sparse senza un preciso ordine: a fornire tale impressione contribuisce anche la costruzione
quasi sempre paratattica, accentuata anche dagli asindeti.

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“L’Aquilone”

La lirica di Giovanni Pascoli L’aquilone viene pubblicata nella seconda edizione dei Poemetti, per essere
inserita poi nei Primi poemetti. Il titolo della poesia, tanto cara all’autore da venir dedicata a coloro che
furono i suoi compagni di collegio ad Urbino, va anche a denominare la sezione della raccolta in cui è
contenuta: Il bordone - L’aquilone. Nel testo, composta da ventuno terzine dantesche, il poeta utilizza
come pretesto uno stimolo olfattivo, l’odore di viole, per ricordare il passato. In particolare, il ricordo di
Pascoli si focalizza su due momenti: il volo degli aquiloni in una giornata ventosa e la morte di un
compagno del collegio. Nasce così, nel poeta ormai adulto, un’amara riflessione sulla vita.

La lirica L’aquilone comincia con un forte stimolo presente, ovvero il profumo delle viole che al termine
dell’inverno tornano a fiorire: questa sensazione (in maniera analoga a quanto accade in Digitale
purpurea sempre nei Poemetti) rievoca il tempo passato, che, almeno inizialmente, è una sensazione
vaga, seppur descritta con immagini naturali caratterizzata dalla consueta precisione
terminologica pascoliana.

Secondo un meccanismo straniante, tra la quarta e la quinta terzina una forte sensazione cromatica -
quella delle “bianche ali sospese” (v. 12, cioè gli aquiloni) nel cielo - trasporta il poeta in un momento del
proprio passato, che nel ricordo si sovrappone al tempo presente. Pascoli si vede nuovamente ragazzino,
quando, in un giorno di vacanza da scuola, lui e i suoi compagni avevano fatto volare gli aquiloni nel cielo
ventoso di Urbino. Un altro stimolo, questa volta uditivo, sposta l’immagine con un repentino cambio di
scena: le grida dei bambini mentre fanno volare gli aquiloni rimandano alle grida dei compagni di camerata
di Pascoli, che il poeta ricorda uno per uno. In particolare lo sguardo si sofferma su un compagno pallido e
malato, destinato a una morte prematura. Il poeta, al termine di una vita lunga e costellata di dolori,
ammette che è meglio morire giovani.

L’unica potente immagine di dolore arriva nell’ultimo verso, con la descrizione della madre addolorata che
pettina i capelli del figlio appena morto. Ma dal dolore sembra trasparire un nuovo rimpianto personale:
al poeta non è stata concessa nemmeno la tenerezza consolatoria di una carezza materna.

Per quanto riguarda lo stile, la lirica è costellata da enjambements e dalla presenza di due iperbati che non
fanno che dilatare gli endecasillabi e acuire la distanza tra il discorso sintattico e quello rtimico.

Metro: terzine di endecasillabi.

Downloaded by Letizia Notarangelo (leti.notarangelo@gmail.com)


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“Italy”

Italy è un lungo poemetto di due canti, composto in tutto da 450 versi, suddivisi in 29 strofe, che è stato
completato dall'autore nel 1904. Il poeta si è ispirato alle vicende di una famiglia garfagnina, realmente
vissuta, partita dal vecchio borgo di Caprona, dove Pascoli aveva acquistato una casa ed emigrata negli Stati
Uniti, a Cincinnati, nell'Ohio. I genitori decidono di riportare in Italia, a casa della nonna, la piccola Molly,
malata di tubercolosi, nella speranza che il cambiamento d'aria abbia effetti positivi sulla salute della
bambina. Da questa situazione iniziale si snoda la trama: la guarigione, la morte della nonna, il ritorno degli
emigranti in America, la memoria e la trasfigurazione dei ricordi.

Su tutte le vicenda si ritrova il desiderio della madre di raccogliere intorno a sé tutti i figli (tema del nido
che protegge dalla violenza e dalle ingiustizie del mondo) che lavorano lontani dalla patria, definita "antica
madre" come fossero schiavi nelle miniere o nella costruzione di ponti o strade. Il componimento si snoda
quindi sul tema degli emigranti e ci fa conosce un Pascoli interessato al socialismo patriottico, presente
anche nel discorso La grande proletaria si è mossa, pronunciato al teatro dei Differenti di Barga, in
occasione della guerra coloniali in Libia. Dalla lettura del testo traspare una rappresentazione solidale del
prezzo del dolore e dalla perdita affettiva causata dall'emigrazione.. A questo si aggiunge la solitudine
dell'emigrato costretto a correre in terre straniere di cui non conosce la lingua, ma sempre speranzoso di
ritornare un giorno nella casa natale e potersi acquistare un piccolo campo da coltivare con il piccolo
gruzzolo messo da parte ne tempo

Oltre ad avere un valore per l'interesse che il poeta mostra per l'emigrazione, il problema fondamentale
della società italiana a cavallo del XIX e XX secolo, il componimento è importante dal punto di vista
letterario per lo sperimentalismo linguistico., che si concretizza in un pluralismo lessicale che ricorre a
termini dialettali, al tecnicismo tipico della vita agreste, a termini americani italianizzati dagli emigranti (es.
bisini per business, cecche per cake, oppure il termine dialettale garfagnino "nieva"- neve che la bambina
capisce come se si trattasse del termine inglese never) oppure a rime fra un termine anglosassone ed uno
italiano ("nieva" con "fleva”, cioè "flavour" = aroma)

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