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Arte nel tempo

Volume I, Tomo I, parte II capitoli IV-V


Capitolo IV ROMA DA CAPITALE DELL'IMPERO A CAPITALE DEL MONDO CRISTIANO

L'arte imperiale
Dai Severi a Costantino

Trasformazione della spiritualità e ritratti imperiali : nei primi anni del III secolo, si succedettero al
vertice dell'impero sovrani appartenenti alla dinastia africana dei Severi. Dopo la morte dell'ultimo
di essi, Severo Alessandro, e per tutto il IV secolo, si assiste a una successione violenta e frenetica
di imperatori tra i quali: Diocleziano, Costantino, Teodosio, essi segnarono la vita dell'ultima fase
della storia del mondo antico. Gli storici definirono questo periodo "decadenza", di cui è
d'esempio l'opera (fig 250 pag 240) presentata a Parigi nel 1847 che esprime l'idea che al tempo si
aveva di questa fase storica: decadenza morale, personaggi in pose lascive e il sopravvento del
"vizio".
Decadenza morale, politica e sociale e anche artistica, tutta la tradizione della storia dell'arte vede
in questo periodo una "crisi" della concezione classica, la rottura con la forma organica, razionale,
naturalistica dell'arte greca. A tal proposito possiamo notare che le tendenze "antigreche",
presenti nell'arte di questo periodo, non erano certo una novità nel mondo romano, in precedenza
infatti si è posta in evidenza la presenza constante e parallela a quella dell'arte di tendenza greco-
ellenistica, di una tradizione figurativa non naturalistica, antimimetica definita "plebea".
Alois Riegl, agli inizi del 900, pubblicò "Arte tardo-romana" e riteneva che ogni periodo storico
aveva una sua Kunstwollen (volontà d'arte), ogni fase storica esprimeva le proprie idee attraverso
il linguaggio artistico. Con Riegl cominciò una rivalutazione del periodo in questione che viene oggi
inteso come un momento di congiunzione e di passaggio tra MONDO ANTICO E MEDIOEVO.
Le vicende storiche mostrano infatti una rapida evoluzione: all'esterno, l'Impero sosteneva
continue lotte sui confini orientali e settentrionali; le vittorie celebrate , ad esempio, da Settimio
Severo sull'Arco di Roma dopo le campagne in Patria non portarono pace, così come a ben poco
servirono le battaglie contro i barbari del Nord che si tentò di neutralizzare.
L'Impero mutò all'interno anche la sua fisionomia: Roma perse il suo carattere di città al centro del
potere poichè anche molti imperatori non appartenevano più alle grandi famiglie romane.
Con la Constitutio antoniniana , promulgata da Caracalla nel 212 d.C. furono dichiarati cittadini
romani tutti gli uomini liberi abitanti sul territorio dell'impero; caddero i privilegi che da secoli
erano riservati a chi era cives romanus .
Dal punto di vista religioso invece la tendenza verso nuove forme di spiritualità è evidente nella
filosofia di Plotino (204-270) poichè nel suo pensiero, definito neoplatonico, troviamo la
concezione del mondo inteso come emanazione dell'Uno e del Dio. La tensione verso forme di
religione monoteiste dominò tutto il periodo; generalmente di origine orientale, i diversi culti
onoravano Serapide o Mitra o il Sole. Tra i diversi culti ebbe il sopravvento quello cristiano, prima
diffuso tra le classi più povere e poi anche ai gruppi sociali più elevati. Quando nel 313 Costantino
dichiarò libero il culto cristiano venne resa ufficiale una situazione già di fatto esistente; l'impero
era in gran parte cristiano e alla metà del III secolo, testi orientali persiani, come la Cronaca di
Seert, parlano dello Stato romano come di uno stato cristiano. Le persecuzioni di alcuni imperatori
e i tentativi, come quello di Giuliano l'Apostata, di rovesciare la situazione, fallirono scontrandosi
con una tendenza ormai inarrestabile.
I sintomi di questa evoluzione storica risultano nei RITRATTI IMPERIALI: la testa colossale di
Gordiano III (fig 251 pag 241) indica già il passaggio verso un ritratto diverso da quello della
tradizione romana, il volto del giovane imperatore, posto sul trono nel 238 a 16 anni e che venne
ucciso dopo tre anni, ha uno sguardo intenso incorniciato dalle spesse sopracciglia e i capelli sono
resi con tagli nel marmo così come anche i baffetti da adolescente, il volto ancora giovane
contrasta con l'intensità e la serietà dello sguardo; risulta così l'immagine di un fanciullo pensoso,
precocemente maturo, come i puer senes, lodati dalla letteratura del tempo.
Questa tendenza all'idealizzazione del ritratto corrisponde alla trasformazione che subì nel periodo
l'immagine del principe; l'esito finale di questo processo di trasformazione appare chiaro in opere
come la testa di Costantino ( fig 252 pag 241) o come il ritratto di Costanzo II (fig 253). Il volto
assume una forma plasticamente più semplice: capelli, barba, baffi e sopracciglia sono spesso resi
con incisione nel marmo e presentati in modo curato e del tutto innaturale; gli occhi, spesso
smisuratamente grandi, sono l'elemento centrale del ritratto, lo sguardo è intenso. Gli stessi
elementi sembrano apparire nel profilo di Valente II sulla moneta del Museo Romano di Brescia
(fig 254 pag 241), raggiunge la stessa astrazione del ritratto a tutto tondo, il lineamenti sono molto
idealizzati e la pettinatura risulta curatissima, l'occhio è ingigantito e lo sguardo appare lontano. La
forte spiritualizzazione del soggetto ne rende spesso difficile l'identificazione come nel caso della
testa di marmo degli Uffizi considerata ritratto di Valenti o di Valentiniano I (fig 255 pag 242).
Ciò che importa non è più la rappresentazione fisica e fisionomica di un personaggio poichè adesso
l'imperatore esprime con il proprio volto IDEALIZZATO il concetto della sanità del potere imperiale.
Possiamo pensare che questa concezione nel III secolo si fosse sviluppata conseguentemente a
una sacralizzazione della persona del princeps. Con il cristianesimo l'imperatore non fu più un dio,
ma l'EMANAZIONE, IL RIFLESSO DELLA DIVINITA' STESSA. LA SUA VESTE ERA PERCIò SACRA E LA
FISSITA' DEI RITRATTI IMPERIALI RIFLETTE IL CERIMONIALE DI CORTE CHE PREVEDEVA L'ASSOLUTA
IMMOBILITA' DEL PRINCIPE DIVENUTO RAFFIGURAZIONE DEL DIVINO.

Monumenti imperiali e rilievi celebrativi: Nel III secolo Roma di arricchisce di costruzioni volute
dagli imperatori Severi, ricordiamo l'arco di Settimio Severo eretto sotto il Campidoglio tra il 202 e
il 203 d.C. (fig 256 pag 242) a tre fornici fu costruito per onorare le vittorie di S.Severo contro i
Parti e i quattro grandi pannelli, due per fronte, posti sugli archi minori, narrano gli avvenimenti
principali delle guerre partiche. Singolare è la disposizione degli episodi raffigurati (fig 257 pag
243) che si succedono in ordine cronologico e vanno letti dal basso verso l'alto su fasce
sovrapposte. Questo schema probabilmente è stato suggerito dalle opere della pittura trionfale,
come i dipinti che illustravano le imprese belliche, portati nei trionfi o esposti nei luoghi pubblici.
In tutti e quattro i pannelli vi è anche un riferimento alla scultura della colonna aureliana,
terminata pochi anni prima, nella disposizione degli episodi leggibili dal basso verso l'alto . il
quarto pannello ovest presenta la raffigurazione dell'assedio e della presa della città di Ctesifonte
(fig 258 pag 243), il maestro che lo eseguì usò molto il trapano creando nel marmo zone di ombra
e luce; nuova e originale è anche la rappresentazione della figura umana che non appare più
nell'individuazione della visione greca, ma in MASSE. Nella sezione in alto a sinistra del quarto
pannello, l'immagine di S.Severo circondato dai suoi generali sovrasta come un'apparizione divina.

Un elemento importante per comprendere Roma in questo periodo è da individuare nella


costruzione della nuova CINTA MURARIA. Aureliano, imperatore dal 270 al 275, regnò in un
momento storico difficile: a nord, sotto Gallieno, i confini del Danubio erano stati invasi dai barbari
che erano arrivati fino al lago di Garda e agli Appennini; in Oriente era in corso la lotta contro
Zenobia, regina di Palmira. In questa situazione Aureliano decise di cingere Roma di mura che
vennero costruite tra il 271 e il 275 e tali mura delimitavano le dimensioni reali raggiunte dalla
città cresciuta oltre le mura serviane.

Nel 315 venne terminata la costruzione dell'arco eretto vicino al Colosseo (fig 259 pag 244) per
festeggiare il decennale dell'IMPERO DI COSTANTINO: il monumento, a 3 fornici con colonne
sostenuto da plinti su ogni facciata, è ornato da sculture di periodi diversi e vi sono statue e rilievi
dell'età di Adriano e Marco Aurelio, nei quali i ritratti degli imperatori sono stati sostituiti
dall'immagine di Costantino ( fig 260). Alcuni particolari della struttura architettonica provengono
anch'essi da edifici precedenti, il riuso di pezzi antichi divenne un processo abituale per i
monumenti moderni. La scelta dei pezzi in riuso non era causale poichè infatti gli imperatori citati
erano quelli più amati e rispettati e Costantino intendeva porsi come loro erede diretto.
Al IV secolo appartiene il lungo fregio posto subito sotto il livello dei tondi adrianei che corre sulle
fronti e sui fianchi dell'arco. Qui viene narrata la conquista del potere da parte di Costantino, dalla
partenza da Milano, alla'arrivo e alla proclamazione a capo assoluto dell'impero, dopo le vittorie di
Verona e del ponte di Milvio.
Nel famoso rilievo con la adlocutio ( fig 261 pag 245), sul fronte nord dell'arco, la figura
dell'imperatore purtroppo è acefala e siede al centro della tribuna più in alto rispetto alle altre
figure e in una posizione rigidamente frontale come una divinità, ai suoi lati a destra c'è Adriano e
a sinistra Marco A.
La rappresentazione viene organizzata tenendo conto delle proporzioni gerarchiche: la figura
umana assume diverse dimensioni a seconda dell'importanza, del rango e del grado di sacralità. Lo
sfondo del rilievo costituisce un'interessante testimonianza dei monumenti del Foro romano. A sx
alcune arcate rappresentano in modo sintetico la basilica Giulia e subito dopo, un arco ricorda
quello, oggi scomparso, dedicato a Tiberio. Dietro la tribuna dei Rostra , appare il perduto
monumento ai Tetrarchi, costituito da cinque colonne coronate dalle statue di
Diocleziano,Massimiliano, Gallieno, Costanzo Cloro e Giove. L'ultima parte dello sfondo riproduce
l'arco a tre fornici di Settimio Severo. Tutti questi monumenti che nella realtà, cioè nel Foro
Romano, avevano collocazioni diverse attorno alla tribuna dei rostra, vengono disposti sullo
sfondo allineati e paralleli alla superficie del rilievo. Anche i due gruppi laterali di popolo che in
teoria dovevano stare davanti alla tribuna, sono girati e messi ai lati dei rostra. Viene fatto quindi
uso della "prospettiva ribaltata" altro elemento tipico della rappresentazione provinciale e plebea
che determina l'allineamento di figure ed elementi architettonici su un'unica superficie.
Il rilievo è eseguito con l'uso del trapano che accenta le figure e tali rilievi furono ritenuti l'esempio
più chiaro della decadenza della scultura romana nella "tarda antichità" lontana sempre di più
dalle ricerche naturalistiche dell'arte greca. Il fregio mostra profondi mutamenti rispetto alle
convenzioni di rappresentazione "classica", tuttavia non vi sono vere e proprie novità poichè quasi
tutti gli elementi che lo compongono erano già in uso; nell'Arco di Costantino questa corrente
manifesta piuttosto tutta la sua potenzialità.
Altre importanti evoluzioni si vedono a Roma a partire dal IV secolo, ad esempio la costruzione dei
primi edifici cristiani realizzati per onorare i martiri e per rendere la città la più importante sede
episcopale. Quindi basiliche, battisteri, mausolei e martyria vennero edificati all'interno e
all'esterno delle mura cittadine, come punti di riferimento per la nuova religione.

LA PRIMA ARTE CRISTIANA

I luoghi di sepoltura: prima dell'editto di Costantino del 313, le dottrine cristiane trovano
diffusione in forma clandestina e le comunità vengono sottoposte a persecuzioni. A Roma il
messaggio cristiano si diffonde all'interno e per tramite della minoranza giudaica che mantiene
rapporti commerciali e culturali con la Palestina. San Paolo arrivato a Roma nel 61, è accolto da
una comunità cristiana già organizzata. Il verbo evangelico che trova piede inizialmente tra le classi
più povere come plebei, militari e schiavi, progressivamente coinvolge anche i ricchi i quali
mettono a disposizione le loro abitazioni come luogo clandestino per i fedeli per il culto e le
riunioni, le cosiddette domus ecclesiae (casa dell'assemblea fig 273 pag 249). Si formano infatti in
città i tituli , simili alle moderne parrocchie; nel IV secolo se ne contano 25.
La fede nella resurrezione del corpo porta poi i cristiani all'abbandono della cremazione in favore
dell'inumazione dei defunti e la loro sepoltura in luoghi sotterranei. Per i pagani e per i cristiani
esistono due tipi di sepolcreti: le catacombe , in uso dalla metà del II secolo fino a circa il V secolo;
e i cimiteri in superficie , entrambi collocati lungo le vie di accesso alla città secondo la legge
romana.
Il termine "catacomba", in uso dal IX secolo, deriva da una parola greca che significa "presso le
grotte" in riferimento a un luogo di sepoltura nel quale il terreno declina rapidamente verso un
pendio che taglia la Via Appia dove in seguito sorgerà la Basilica Apostolorum.
Tale nome si estende poi a tutti i sepolcreti che venivano detti anche "luoghi di riposo" in greco o
in latino "coemeterium" cioè "dormitorio alludendo alla morte come riposo.
Le catacombe rimangono luoghi di pellegrinaggio dove venerare i corpi dei santi fino al IX secolo
quando, in seguito alle frequenti traslazioni nelle basiliche, sono abbandonate.

La sepoltura avveniva in ambienti sotterranei prevalentemente in tufo che permetteva un'agevole


escavazione, in riferimento a ciò sono state rinvenute catacombe cristiane nell'Italia Mer e Set ( fig
274 pag 249).
Nel II secolo la Chiesa ancora clandestina, divide la città di Roma in 7 regioni sovraintese da 7
diacono (in greco servo/ ministro del tempio) a ognuna di queste regioni corrisponde, fuori le
mura, una zona catacombale (fig 275 pag 249).
Talvolta le catacombe prendono il nome del proprietario del terreno sotto cui si diramano le
gallerie (es c di Priscilla) talora quello dei martiri ivi sepolti.
Le gallerie scavate in piani sovrapposti larghi circa 80/90 cm e altri circa due metri e mezzo, oggi
dette "ambulacri" in antico sono chiamate criptae dai "fossori" (operai addetto allo scavo fig276
pag 250). Talora i lati delle gallerie si aprono in camere sepolcrali più vaste, i "cubicoli" (dal latino
cubiculum camera da letto) di forma poligonale dove sono inumati i cristiani più facoltosi. I sepolcri
sono detti loci/loculi mentre pila è la sezione verticale della parete che li contiene ( fig 278 pag
251).
La produzione artistica della prima cristianità a noi giunta consiste prevalentemente in immagini di
carattere funerario e negli arredi liturgici. Tra gli oggetti legati al culto dei morti vi sono i vetri
dipinti detti "fondi d'oro" perchè ottenuti da fondi di bicchiere o di coppe e decorati con una
lamina d'oro. Poi vi sono avori e oggetti in metallo prezioso che forniscono ulteriori spunti per una
corretta definizione delle arti figurative cristiane: calici di legno o di vetro, alcuni gioielli e cucchiai
in argento con i nomi cristiani incisi o anche in argento. Sono oggetti di uso comune con incise o
impresse immagini attinenti la salvazione come quelle del Buon Pastore o di Giona i quali
inducevano una funzione protettiva nei confronti del possessore.

Le persistenze: arte cristiana e arte pagana/arte cristiana e arte giudaica: l'arte cristiana primitiva
mira alla trasmissione dei nuovi contenuti del messaggio evangelico con un linguaggio figurativo
che si ispira sia alla cultura pagana che a quella giudaica. Nelle pitture cristiane delle catacombe,
ispirate soprattutto al Vecchio Testamento, sono rappresentati episodi di salvazione dei giusti che
prefigurano simbolicamente la salvazione degli uomini operata da Cristo (figg. 270-280 pag 251). Il
fatto che le scene del V.T.predominano numericamente su quelle evangeliche trova ragione
nell'origine ebraica delle prime preghiere cristiane per i morti e testimonia lo scambio tra la
cultura ebraica e quella cristiana. Tuttavia anche in alcune scene della mitologia pagana, l'eroe è
rappresentato come "salvatore" come nel caso di "Ercole che fa uscire Alcesti dagli inferi" (pag 251
fig 281), questo a causa delle affinità che si sono create sul piano spirituale tra mondo cristiano e
mondo pagano (fig 282 pag 252). Di esempio è il personaggio con la barba seduto tra i discepoli
(fig 283 pag 252).
Il rapporto con la tradizione greco-romana è confermato da un lato dalla "persistenza"
nell'iconografia della tradizione antica, per es di soggetti tratti dalla mitologia o di ispirazione
bucolica, dall'altro da osservazioni di carattere stilistico. Infatti, l'intento storico-narrativo che
caratterizza le arti figurative a partire dal IV secolo trova chiara analogia nei fregi istoriati delle
colonne onorarie e degli archi di trionfo romani dei secoli precedenti. Uno sguardo ai cambiamenti
socioculturali in atto nella Roma imperiale di età tardoantica (III-IV secolo) chiarisce il fenomeno di
parziale adesione delle arti figurative al mondo romano. Inoltre in seguito alla concessione della
cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'Impero nati liberi, sancita nel 212 dalla Constitutio
Antoniana , arrivano a Roma gli abitanti delle province e penetrano cosi anche nuove dottrine
improntate all'irrazionalismo filosofico religioso di matrice orientale favorito anche dalla dinastia
dei Severi (193-235). L'arte, riflettendo tale moment, allenta i saldi nessi ancorati alla tradizione
dell'età classica e cede ad una lettura simbolica e allusiva della stessa. L'altra corrente che
confluisce nell'arte cristiana delle origini è quella di matrice giudaico-orientale del Vecchio
Testamento. L'origine del Cristianesimo in area orientale culturalmente ebraica giustifica la rarità
delle testimonianze figurative, motivata dall' "aniconismo" che fino al III secolo rallenta lo sviluppo
dell'arte secondo i dettami del divieto biblico, ovvero "non avrai altro Dio fuori di me, non ti farai
nessuna scultura né immagine delle cose che splendono in cielo o sono sulla terra o nelle acque
sotto la terra." Poichè comunque la produzione delle arti figurative è per sua natura costituita da
immagini e forme, nel rispetto di tale divieto diventa essenziale trovare immagini che "senza
riprodurre" la divinità, alludano ad essa.
Proprio la diffusione del Cristianesimo nel III-IV secolo incoraggia la maggior tolleranza ebraica
verso l'uso di immagini che illustrino i fatti biblici senza mai rappresentare la divinità.
L'unità stilistica e di intenti della pittura ebraica e di quella cristiana nel corso del III secolo è
evidente negli affreschi della sinagoga di DURA EUROPOS in Siria (fig 286 pag 254) e in quelli della
Catacomba della Via Latina ( fig 287 pag 254). In entrambi l'espressione della realtà interiore
prevale sulla descrizione della realtà fisica. Tali opere testimoniano la rinuncia alla
caratterizzazione fisionomica e al modellato naturalistico della figura umana in favore della
stilizzazione formale, della rappresentazione frontale e bidimensionale, di un tratto meno
narrativo, sintetico; appaiono quindi più adatti a esprimere il distacco dal mondo terreno rispetto
ai termini "classici" dell'"organicità e del naturalismo.

Simbolismo e narrazione: simbolismo e narrazione sono le due forme espressive proprie dell'arte
cristiana primitiva: nei secoli che precedono l'ufficializzazione del culto prevale la forma simbolica,
con ripetute allusioni al destino dell'uomo dopo la morte. L'arte ha perciò un intento
prevalentemente ESCATOLOGICO (dal greco il termine eskatos "dottrina delle cose ultime").
La forma narrativa, invece, si sviluppa pienamente a partire dall'EDITTO DI COSTANTINO : dal IV
secolo forma simbolica e forma narrativa procedono parallelamente con manifestazioni che sono
alla base di tutta l'arte cristiana successiva, orientata verso la rappresentazione dell'invisibile
attraverso il visibile". In età tardoantica, la spiritualità pagana di matrice ellenica, legata al culto
delle divinità olimpiche, andava perdendo vitalità a causa della convivenza a Roma di culti
misterici orientali; la spiritualità cristiana apporta una nuova tensione verso l'infinito che l'arte
cerca di esprimere attraverso il simbolo, atto a cogliere una realtà metafisica.
Il simbolo, elemento del linguaggio figurativo e verbale, rimanda sempre a un oggetto diverso da
se: l'agnello dell'iconografia cristiana non interessa nella sua identità animale, ma nel suo
significato traslato, l'agnello sacrificato è metafora del sacrificio di Cristo.
Successivamente, ai simboli e alle allegorie del Cristo come l'Agnello (fig 288 pag 255) o il Buon
Pastore (fig 311-315 pag 262) si affiancano le raffigurazioni dirette della sua persona: il Cristo
imberbe (fig 328 pag 266) tra gli Apostoli ( fig 333 pag 267), il Cristo barbato ( fig 285 pag 253)
secondo una tipologia di tradizione siriaca o il Cristo del banchetto eucaristico.
La ragione dell'acquisita libertà di rappresentazione dell'immagine di Dio è insita nella natura
stessa del Cristo che si è incarnato ed è entrato nella storia partecipe della corporeità e del puro
spirito, l'umano e il divino si sono fusi in lui. All'Agnello e al Buon Pastore si affianca anche la figura
di Cristo seduto tra gli apostoli dell'arte catacombale che riprende l'iconografia imperiale romana
della traditio legis (fig 289-290 pag 255 consegna della legge)
Dipinti e rilievi cristiani tra III e IV secolo: l'evoluzione delle arti figurative in questi primi secoli
della cristianità appare segnata dalla volontà di non limitarsi alla "rappresentazione" della realtà
fisica ma di "suggerire" una realtà che trascende il mondo naturale. La testimonianza offerta dalle
pitture murali e dai sarcofagi mostra questo cammino nel quale consegue un minor interesse per
la descrizione puntuale del mondo naturale in favore dunque di una maggiore trascendenza.
I primi documenti dell'arte cristiana primitiva risalgono al III secolo quindi a circa duecento anni
dalla scomparsa del Cristianesimo. La quasi totale mancanza di testimonianze figurative nei primi
secoli è in linea di massima imputabile al divieto giudaico di rappresentare la divinità a cui anche
i cristiani inizialmente si attengono. Le testimonianze più importanti sono quelle della pittura
parietale " a fresco" e sono conservate nei luoghi di sepoltura, sono rare invece quelle rinvenute in
altri ambienti sotterranei appartenenti ai secoli che precedono la liberalizzazione del culto
nell'impero: tra queste ricordiamo gli affreschi delle domus ecclesiae di Dura Europos (fig 291 pag
293).
Solo dal IV secolo la decorazione parietale a mosaico si diffonde nelle basiliche e, nella loro fase
iniziale, le pitture conservano vivo il ricordo del naturalismo e del decorativismo di origine greco-
romana: quelle della Catacombe di Pretestato ne offrono un valido esempio negli uccelli
dell'arcosolio della camera superiore ( prima metà III sec fig 292 pag 256) che, pur mantenendo la
freschezza delle pitture pagane del mausoleo sotto la basilica di San Sebastiano (II sec fig 294 pag
256), mostrano un tratto pittorico più rapido e schemi compositivi più rigidi. Tale rapidità del tratto
pittorico è presente anche nell'episodio della Samaritana in San Callisto ( prima metà III sec fig 293
pag 256) in cui il tratto appare schizzato e quasi "impressionistico", termine nato tuttavia nel XIX
secolo in Francia in seguito applicato anche all'arte dei primi secoli per indicate una stesura
pittorica "abbreviata". Questo stile dal tratto veloce era già noto alla pittura "compendiaria"
romana e alle coeve manifestazioni pittoriche dell'impero.
La frequente ispirazione dell'arte cristiana a motivi della romanità è confermata nella Catacomba
dei SS. Pietro e Marcellino dal "Banchetto eucaristico" ( fig 295 pag 257): l'agapè della tradizione
pagana (cioè la carità) nell'iconografia cristiana diventa commemorazione dell'ultima cena di
Cristo attraverso la celebrazione dell' Eucarestia comunitaria, secondo un'usanza diffusa nel
mondo cristiano tra il II e il III secolo (fig 282 e 295). Anche ne caso dell'agapè, la resa sintetica e la
fluidità del movimento delle figure intervengono in modo originale sulla tradizione classica
preesistente. Lo stesso avviene nel sarcofago di Baebia Hertofila (fig 296 pah 257) nel quale è
rappresentata la moltiplicazione dei pani e dei pesci che richiama alla memoria l'iconografia
dell'Ultima Cena. Nel rilievo appiattito il segno è "rapido" e più attento alla resa espressiva che alle
proporzioni anatomiche.

Nei sarcofagi del III e IV secolo notiamo il progressivo passaggio dai modi della "narrazione",
assunti dallo stilo "continuo" dei rilievi romani, e dalla "condensazione" di più episodi in un unico
contesto alla "presentazione" dei singoli episodi. Un esempio è il sarcofago del Museo Laterano
(fig 297 pag 257): da sx leggiamo il peccato originale, il miracolo del vino, quello del cieco guarito e
quello del morto resuscitato. È interessante notare come in questo caso abbia luogo un processo
di semplificazione compositiva: l'immagine di Cristo è, infatti, ripetuta tre volte in posture quasi
identiche. Le figure sono costrette in uno spazio compresso , dove gli elementi naturalistici sono
quasi del tutto banditi, e si sovrappongono fisicamente le une sulle altre. Questa impaginazione è
molto diversa da quella della fronte del Sarcofago di GIUNIO BASSO (fig 298 pag 257) che
un'iscrizione datata al 359 dedica a un ex console romano convertitosi al cristianesimo. La
"narrazione continua" lascia posto a uno schema rigoroso che separa per mezzo di colonnine le
scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, ordinate su due registri. L'opera presenta nessi con la
classicità sia nella partizione ritmata dello spazio, scandita dagli elementi architettonici, sia nella
resa volumetrica delle figure. Tali nessi sono motivati dall'estrazione sociale del committente che,
in quanto dignitario di corte, è partecipe della tradizione ufficiale "classicistica" imperiale. Appare
evidente che la "continuità" del Sarcofago Laterano è di natura ben diversa, nelle colonne coclidi,
infatti, gli episodi della storia romana sono svolti ininterrottamente, seguendo la successione
temporale e logica degli accadimenti "narrati". Nel nostro sarcofago invece, pur mancando
interruzioni al racconto, non c'è una vera e propria narrazione dei fatti, ma la giustapposizione di
episodi isolati. Anche l'eliminazione del paesaggio e dell'architettura dello sfondo favorisce
l'"essenzialità" della rappresentazione.
Stesso espediente usato in pittura come nella Guarigione del paralitico (fig 291 pag 256) della
domus ecclesiae di Dura Europos ( metà III sec) dove l'accadimento miracoloso è enfatizzato dal
brusco passaggio dalla posizione statica sul lettino al dinamismo dell'azione successiva, il trasporto
del paralitico.
Intorno al V secolo il processo di sfaldamento formale della tecnica "impressionistica" giunge a
maturazione: nonostante la posizione del "Mosè che percuote la roccia" della Catacomba del SS.
Pietro e Marcellino ( fig 299 pag 258) mantenga una certa scioltezza, notiamo sul volto del profeta
il colore steso a macchie chiare contrapposte a quelle più scure e l'importanza data all'espressione
del personaggio, come nel caso analogo del sarcofago di Barbia Hertofila (fig 296 pag 257).
Elementi simili si ritrovano nella "Guarigione dell'emorroissa "( fig 300 pag 258) nelle catacombe
dei SS. Marcellino e Pietro in cui i volti perdono l'evidenza dei contorni e i personaggi appaiono
isolati sullo sfondo, privo degli elementi naturalistici presenti nel Mosè che percuote la roccia (fig
299). Confrontiamo la figura dell'Orante del Cimitero Maggiore (fine III sec fig 301 pag 258) con
quella della Catacomba dei Giordani (fig 302 pag 259) di età costantiniana (metà IV sec): la
seconda ha acquistato maggior ieraticità rispetto alla prima, grazie alla postura frontale e
all'accentuazione dei grandi occhi. In essa la nobiltà delle vesti testimonia l'avvenuta penetrazione
del messaggio cristiano nelle classi più abbienti, mentre le pitture dell'Ipogeo di Trebio Giusto (fig
303 pag 259), che alludono all'attività di costruttore e di amministratore del defunto, attestano il
propagarsi della nuova fede anche dei ceti sociali medi.

La critica novecentesca ha introdotto nella definizione stilistica dell'arte cristiana antica il termine
"espressionismo", mutuato dall'arte moderna, per indicare un modo di rappresentare che si
allontana dalla forma naturalistica in senso stretto, attribuisce maggior rilievo all'espressione del
mondo soggettivo dell'artista, rafforzando il valore evocativo della linea e del colore. In età antica,
non è l'interiorità dell'artista ad essere espressa, ma la SPIRITUALITA' che investe la società.
L'ideale umano della società del III secolo muta dunque orientamento, indirizzandosi
dall'esaltazione della corporeità all'espressione della spiritualità.
Dopo la pace di Costantino, la raggiunta sobrietà figurativa sembra cedere nuovamente il passo a
composizioni più complesse, ricche di nuovi spunti narrativi. Tale considerazione è chiarita dal
confronto tra la "Resurrezione di Lazzaro" dipinta alla fine del III secolo (fig 279 pag 251) nella
Catacomba dei SS. Pietro e Marcellino, e il soggetto analogo che decora la Nuova Catacomba della
Via Latina ( fig 280 pag 251) in cui l'inquadratura architettonico-illusionistica fa da sfondo alla folla
animata , attonita di fronte al miracolo operato da Cristo.

Dalla fine dell'età costantiniana fino allo scorcio del V secolo si delinea un prevalente ritorno al
classicismo. La riabilitazione alle forme che appartengono a una tradizione in precedenza
consolidatasi è fatto frequente nella storia dell'arte e va sotto il nome di "rinascenza". Nel corso
dei secolo è infatti possibile vedere diverse "rinascenze" che non si configurano come fenomeni
artistici autonomi, ma facenti parte di una più vasta temperie culturale.
Molto spesso tale orientamento è motivato dal bisogno di trovare stabilità nel passato, ricercando
in esso elementi di coincidenza con il presente. Ad esempio l'imperatore Giuliano l'Apostata ( 361-
363 d.C.) restaura il culto pagano rinnegando il Cristianesimo ed è inoltre fautore di un'arte
classicheggiante tesa al recupero figurativo di un passato vagheggiato in ambito politico. Anche la
successiva ripresa dei modi classici in età teodosiana, alla fine del IV sec, corrisponde ad una
politica che mira a consolidare l'Impero per ricondurlo alla trascorsa stabilità con forme artistiche
funzionali alle scelte politiche.
Nel nostro caso il ritorno al classicismo si esprime nel tentativo di consolidare la forma attraverso
l'uso del disegno e la funzione plastica del colore: la "Testa di apostolo" (fig 305 pag 260)
dell'Ipogeo degli Aurelii (metà II sec) o la "Susanna in forma di agnello tra i lupi" ( fig 304 pag 360)
della Catacomba di Pretestato, sono esempi della pittura plastico- costruttiva affermatasi
definitivamente nel IV secolo.
Un esplicito riferimento alla classicità romana è insito nella compostezza del panneggio e nel
realismo delle acconciature femminili dell'affresco di "Santa Petronilla e Veneranda" fig 306 pag
260) presso la basilica dei SS. Nereo e Achilleo. Il ritorno alla corretta descrizione fisionomica è
evidente nel "Cristo" della Catacomba di Comodilla ( fig 285 pag 253) il cui volto divino è dipinto
tra l'Alfa e l'Omega, simboli della vita e della morte. Alfa e omega sono infatti la prima e l'ultima
lettera dell'alfabeto greco e alludono all'inizio e alla fine dei tempi.
Talora anche i rilievi scultorei si appropriano dei modi “pittorici" che tendono a ridurre la
tridimensionalità. Questo procedimento acquista grande evidenza nel particolare della "Scena di
vendemmia" (fig 307 pag 261) del Sarcofago di San Lorenzo fuori le Mura (IV sec) che raffigura
putti alati con tralci e grappoli d'uva: il rilievo schiacciato e il tratto lineare, fortemente inciso,
appiattiscono la forma che risulta quasi disegnata. Analoghe caratteristiche sono presenti nel
Sarcofago del Buon Pastore dei Musei Vaticani (metà IV sec fig 308 pag 261) che ripropone il tema
della vendemmia desunto dalla tradizione funeraria pagana. La figura del Buon Pastore è ripetuta
tre volte come a scandire la superficie colpita e gli effetti pittorici sono ottenuti con un abile uso
del trapano che accentua i chiaro scuri.
L'arte cristiana primitiva, nonostante le convergenze con l'arte ellenistico-romana e con quella
orientale, non si adegua passivamente ai mutamenti formali del mondo tardoantico, ma interviene
sulla loro evoluzione in modo originale e sviluppando le premesse per un linguaggio nuovo
fondato maggiormente sulla schematicità e sull'essenzialità della composizione. Tale linguaggio
sarà elaborato e portato a compimento dall'arte bizantina. In questo senso l'arte paleocristiana è
elemento catalizzatore della tradizione greco-romana e di quella giudaico-orientale e origine del
vasto patrimonio figurativo dell'Alto Medioevo.

Iconografia della prima arte cristiana:l'iconografia cristiana dei primi secoli utilizza due tipi di
immagini: le immagini-segno e le immagini-narrative ; le prime si distinguono dalle seconde per la
brevità del messaggio trasmesso e sono quelle più frequentemente presenti negli affreschi
catacombali e sui sarcofagi, le immagini-segno raggiungono il loro scopo solo se risultano
immediatamente intelligibili a chi le osserva. Queste immagini no descrivono gli avvenimenti ma il
suggeriscono secondo un processo di semplificazione che le rende accessibili al livello di
informazione del cristiano dell'epoca. Esse illustrano concetti inerenti alla fede cristiana: vediamo
le immagini-segno 309-310 e 320 pag 262-264, similmente a quanto già avveniva nella tradizione
pagana e quella del Buon Pastore (fig 311-315-317 pag 262-3). Tale continuità costituisce il
fondamento originale dell'iconografia cristiana volta all'attribuzione di significati nuovi a immagini
preesistenti. Si tratta di un'operazione semantica comune al linguaggio visivo e a quello verbale.
Anche nella lingua infatti osserviamo che le parole modificano il loro senso con il tempo e
assumono quindi un significato nuovo pur mantenendo la stessa forma o appena variandola. Ciò
che caratterizza il segno è il suo valore convenzionale e il messaggio trasmesso dal segno deve
essere compreso dall'ambiente in cui viene diffuso. L'iconografia cristiana dei primi secoli adotta,
infatti, un linguaggio visivo "noto" condiviso cioè dalla cultura del tempo. L'analisi del vasto
repertorio dell'arte cristiana primitiva permette di rintracciare molti punti di contatto con quanto
elaborato contemporaneamente dalla cultura romana ed ebraica. Vediamo gli esempi nelle figure
318-319 (Endimione giace addormentato al suolo in una postura che non è per nulla diversa da
quella dell'iconografia cristiana di Giona ritratto sotto il ricino nelle figure 310-320-323 pagine 263-
265.)
L'esempio del tema di Giona, frequente nell'arte funeraria cristiana primitiva, induce ad alcune
considerazioni. Ricevuto l'ordine di predicare nella città di Ninive, Giona preferisce imbarcarsi
suscitando l'ira del Signore che scatena la tempesta. Ritenuto la causa del possibile naufragio e
gettato in mare dall'equipaggio, il profeta viene ingoiato da un serpente marino nel ventre del
quale resta per 3 giorni. L'intervento divino lo salva ed egli decide di tornare a Ninive e redenta la
città, Giona si riposa in campagna, sdraiato all'ombra di un ricino che Dio ha fatto germogliare
sopra di lui. L'iconografia cristiana rappresenta solitamente gli episodi di Giona gettato in mare
( fig 325-326 pag 265) vomitato dalle fauci del serpente marino e disteso sotto la pianta di un
ricino ( fig 310-320-323) . quali contenuti ci sono dietro queste immagini? Una sorta di "paradigma
di salvezza" visto nella morte apparente di Giona che prefigura la morte e la resurrezione di Cristo.
Questa sorta di "propaganda religiosa" è comune nella cultura cristiana e anche in quella giudaica
anche se l'azione salvifica di Cristo inizialmente è rivolta all'individuo, mentre quella del Dio biblico
è indirizzata alla collettività del popolo eletto. Solo dopo la liberalizzazione del culto voluta da
Costantino, i cristiani sono riconosciuti come "comunità". Attraverso l'apposizione del
monogramma di Cristo (fig 327 pag 266) sulle insegne dell'esercito romano, per la prima volta, la
salvezza è per tutta la comunità. Con tale atto Costantino, prima della battaglia di Ponte Milvio
( 312) contro Massenzio voleva mettere le milizie sotto la protezione divina.
In età costantiniana le immagini-segno assumono forme più consone alla spiritualità cristiana del
IV secolo.
Il "tipo" del Cristo filosofo (fig 328 pag 266) incarna il concetto di "testimonianza" della tradizione
stoica pagana di Epitteto: discendente cioè dal "saggio" testimone della divinità.
Il "tipo" del Cristo mistico ( fig 331-332 pag 267) di età costantiniana ( prima metà del IV secolo) è
il Cristo giovinetto protagonista degli episodi del Nuovo T. che, alla fine del III secolo, si affiancano
sempre di più ai fatti vetero-testamentari nell'iconografia dei sarcofagi. Attribuire a Cristo uno
stato di giovinezza significa collocarlo fuori dal tempo poichè la giovinezza diventa manifestazione
fisica della sua dimensione eterna. Vediamo le figure 331-332 dei sarcofagi.
Infine il "tipo" del Cristo storico di età teodosiana (seconda metà IV sec) evoca il significato
salvifico della Passione e della Resurrezione o esalta la maestà divina ( fig 329-330) anticipando le
affinità formali tra il Cristo in maestà e l'imperatore in trono ( fig 333-334 pag 267). L'iconografia
evidenza quindi come dopo l'ufficializzazione del culto cristiano nell'Impero, i vincoli tra potere
spirituale e temporale si fanno sempre più forti sino a diventare inscindibili. (Vedi scheda 11 pag
268)

Capito V LE NUOVE CAPITALI DELL'IMPERO

Costantinopoli
L'8 novembre del 324 ebbe luogo la cerimonia della consecratio della nuova capitale che
Costantino intendeva edificare sulle rive del Bosforo. Secondo quanto tramandano le fonti,
l'imperatore stesso, impugnando una lancia, tracciò, seguendo un antico costume romano, il
perimetro delle mura urbane. Erano passate sei settimane dalla battaglia di Crisopoli e dalla
vittoria contro Licino, presentata pubblicamente come il trionfo del Cristianesimo e la disfatta del
paganesimo. Costantino sentiva su di lui il peso di una missione divina, cioè quella di diffondere la
fede nell'Impero pacificato e unito il che richiedeva una capitale permanente e che risolvesse
alcuni gravi disagi e inconvenienti, oltre che diversi costi, i quali comportavano la pratica di
sposare frequentemente la sede della corte imperiale, del comando militare e degli organi di
governo tra sedi diverse e spesso lontane tra loro come Treviri, Vienne, Milano, Tessalonica o
Serdica.
La Nuova Roma non doveva identificarsi con l'antica e infatti si scartò il progetto di promuovere
una delle precedenti residenze nei Balcani in favore di una città nuova. La scelta cadde su di un
promontorio sulla riva settentrionale del Mar di Marmara, sulla cui estremità orientale sorgeva
una piccola e antica città greca - Bisanzio - ampliata da Settimio Severo nel 196 d.C. un luogo
facilmente difendibile, che domina gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, dotato di eccellenti vie di
comunicazione terrestre e marittime verso tutti i principali territori dell'Impero. La nuova capitale
venne progettata, fin dagli inizi, su scala grandiosa nell'impianto urbanistico come negli elementi
monumentali. L'antico insediamento greco, ampliato da S.Severo, venne quadruplicato in
estensione (fig 350 pag 272); le muta completate nel 328 e sostituite 80 anni dopo da quelle di
Teodosio II, correvano per circa due chilometri e mezzo nel mare di Marmara al Corno d'Oro;
venne subito iniziata la costruzione di un nuovo porto dotato di imponenti magazzini e
installazioni; l'ippodromo su progettato per ospitare cinquantamila spettatori seduti (fig 351 pag
273). Benchè alla morte di Costantino (337) i lavori fossero ancora molto lontani dal
completamento, già tre anni prima erano in funzione le strutture essenziali : oltre le mura,
l'acquedotto, il palazzo imperiale, le sedi degli uffici amministrativi, la rete stradale. La popolazione
andava verso i 90mila abitanti.

Il Palazzo e le sedi del governo vennero collocati nella parte romana dell'antica città, ma l'unico
edificio di età costantiniana di tale complesso, sopravvissuto alle successive trasformazioni, è
l'IPPODROMO, che ebbe priorità assoluta, insieme alle mura, nel programma di costruzione ( fig
352 pag 273). Struttura imponente e monumentale, oltre 450 m di lunghezza e 120 di larghezza,
l'ippodromo era considerato, a partire dal Circo Massimo a Roma ( ai piedi del Palatino), elemento
essenziale di ogni residenza imperiale in quanto, soprattutto all'epoca dei Tetrarchi, luogo per
eccellenza della "epifania imperiale". Dalla tribuna infatti il dio-imperatore presiedeva ai giochi
accolto dalle acclamazioni rituali della folla e si mostrava al popolo.

Fulcro dei collegamenti tra la residenza imperiale della città vecchia e i nuovi quartieri residenziali,
era il FORO, collocato su di una altura, come il complesso del Palazzo imperiale, dell'Ippodromo e
di Santa Sofia. A pianta circolare, racchiuso da colonnati a doppio ordine, aveva al centro una
colonna, con alla sommità la statua bronzea di Costantino, rappresentato come Helios, che si
ergeva su uno zoccolo alto 5 m racchiuso in un piccolo edificio-santuario dove si celebrava la
messa, si bruciavano incensi, si accendevano lampade votive e si innalzavano preghiere
all'immagine imperiale per offrirle a Dio e scongiurare ogni calamità.

Il culto dell'imperatore doveva raggiungere il culmine in una costruzione religiosa, una delle chiese
da lui fatte erigere e consacrata alla Sapienza Divina fu la Santa Sofia destinata ad assumere la
funzione di cattedrale. Iniziata intorno al 326 e completata nel 360, la Santa Sofia fondata da
Costantino venne interamente ricostruita dopo il 532 all'epoca di Giustiniano ,ma dalle fonti
sappiamo che si trattava di un edificio a cinque navate (laterali sormontate da gallerie), preceduto
da propilei e da un atrio: un modello insigne, ripreso nelle costruzioni costantiniane di
Gerusalemme.
L'unica chiesa iniziata e completata da Costantino nella sua nuova capitale, tuttavia, quella dei
Santi Apostoli, concepita come un suo mausoleo nel punto più alto della città dentro le mura,
pressa la porta di Adrianopoli. Ricostruita da Giustiniano, venne poi trasformata radicalmente nel
XV secolo e nel XVIII secolo ma le fonti la descrivono come una costruzione a croce greca, che
sorgeva entro un cortile con portici colonnati, esedre e fontane,con annessi edifici termali e una
residenza imperiale. All'interno era la tomba dell'imperatore, sopra la quale Costantino aveva
disposto che venisse celebrato quotidianamente il sacrificio eucaristico, circondata dalla sacra
stélai (cenotafi o lapidi) dei dodici apostoli. Il recinto preparato per accogliere la folla, le terme
destinate al ristoro, il palazzo per le visite dei futuri imperatori: tutto è concepito per trasformare il
luogo della sua sepoltura in un luogo per il pellegrinaggio.
La nuova Capitale dell'Impero cristiano diventa l'espressione del primo imperatore cristiano come
manifestazione terrena di Cristo in connessione con la divinità. Concezione imbevuta di cultura
ellenistica che spiega l'identificazione con Helios, la divinità solare fin dal terzo secolo assimilata a
Cristo, Solm Invictus, "Sole di giustizia e di salvezza".
Secondo un'antica tradizione fu inoltre coniata una medaglia che celebrava la consacratio di
Costantino alla sua morte, che le celebra quindi la sua assunzione tra li dei. (fig 355 pag 274), che
rappresenta l'imperatore su una quadriga diretta verso il cielo.

Nonostante l'importanza delle fondazioni di Costantino, la nuova capitale non fu in grado di


competere con Roma e con altri centri come Antiochia o Alessandria, antiche città ricche di piazze
monumentali, vie porticate, palazzi, templi, teatri. Ma la crescita della nuova capitale proseguì
senza interruzione anche dopo la morte di Costantino, in particolare grazie a TEODOSIO I e dei suoi
discendenti e, a partire dal V secolo, con il declino di Roma ( saccheggiata dai Goti nel 410, poi dai
Vandali nel 455)e più tardi di Antiochia e della stessa Alessandria, si avviò a divenire con gli
imperatori Anastasio I ( 491-518) e Giustino (518-27) ma soprattutto con Giustiniano (528-65) , la
più grande città di tutto il mediterraneo.
Del palazzo imperiali gli scavi hanno portato alla luce solo poche parti come un cortile e i mosaici
del pavimento; due grandi palazzi del V secolo a pianta circolare o poligonale sono stati poi trovati
a settentrione dell'Ippodromo (fig 354 pag 274), ingrandito da Teodosio I. Accanto ai palazzi
imperiali e agli edifici per lo Stato,vanno ricordate altre imprese architettoniche dei secoli V e VI,
mercati, strade porticate, le grandi cisterne di Gerabatan Serai ( fig 356 pag 275) e di Bin bir Direk
con foreste di colonne che sorreggono archi e volte, e le mura di cui Teodosio II iniziò la
costruzione in sostituzione della cinta muraria dell'età di Costantino (fig 357 pag 275): mura
parallele, parte in laterizi e parte in pietre squadrate, precedute da un fossato e da strutture
secondarie di difesa, rafforzate da 192 torri verso terra e da 110 verso il mare.
Erano imprese di vasta portata che richiedevano cantieri molto organizzati con maestranze
specializzate, guidate da uomini con esperienza tecninca.
Secondo Procopio di Cesarea (storico di Giustiniano) le grandi imprese architettoniche rivestivano
per l'imperatore la medesima importanza e il medesimo peso politico della restaurazione
dell'ortodossia religiosa, della codificazione del diritto o della riconquista dei territori occidentali
dell'antico Impero Romano. Lo splendore delle imprese architettoniche era concepito da
Giustiniano come instrumentum imperii,manifestazione primaria della sacralità del potere
imperiale all'interno e all'esterno dell'impero.
L'architettura religiosa di Giustiniano conduce ad un'affermazione di strutture a impianto centrale,
dominate da una vasta cupola: in Santa Sofia la cupola sovrasta lo spazio rettangolare della navata
centrale mentre nella chiesa dei Santi Sergio e Bacco si eleva un vano più decisamente
centralizzato.
Costruzioni a pianta centrale non costituivano certo una novità in assoluto neppure per
l'architettura religiosa, ma si trattava in genere di edifici non troppo grandi, come cappelle
palatine, battisteri, martyria o mausolei.
Con gli edifici giustinianei la struttura a pianta centrale viene portata a scala monumentale e le
grandiose dimensioni unitamente allo splendore dei materiali e della decorazione (fig 359 pag 275)
conducono all'affermazione, in tutta l'area orientale e per oltre un millennio, di un nuovo tipo di
costruzione religiosa.
All'importanza delle realizzazioni architettoniche fa riscontro il graduale affermarsi della nuova
capitale come centro di produzione artistica in ogni campo, prima grazie al convergere di artisti
provenienti da ogni regione dell'Impero, quindi con lo stabilirsi di scuole e laboratori legati agli
ambienti di corte, con prestigio crescente rispetto ad altri centri.
Gli orientamenti stilistici nell'arte tardo-antica trovano pieno riscontro anche nell'attività degli
artisti di Costantinopoli tra il V e il VI secolo ma con una peculiare accentuazione di aspetti tra di
loro apparentemente contraddittori, in realtà determinati dai legami con la committenza di corte:
da un lato la predilezione, nelle immagini di carattere ufficiale per una frontalità ieratica e astratta
di carattere sacrale, dall'altro i fenomeni di renovatio , le continue riprese di impulsi naturalistici di
ascendenza classica o ellenistica.
Nei rilievi della base dell'obelisco portato a Costantinopoli da Karnak e collocato sulla spina
dell'Ippodromo, l'imperatore Teodosio I, accompagnato dai figli e da personaggi della corte, è
raffigurato in atto di assistere ai giochi da un palco( fig 360 pag 276). Alla rigida frontalità delle
immagini "ufficiali", in contrasto con la vivacità di movimento degli attori e delle danzatrici
dell'arena, si accompagna il venir meno dei rapporti prospettico-spaziali in favore di una
rappresentazione che privilegia rapporti di carattere gerarchico e che impone dimensioni maggiori
per il gruppo imperiale e nettamente inferiori per gli attori e per le danzatrici, che dovrebbero
trovarsi invece fisicamente più in prossimità dello spettatore.
Analoghi caratteri stilistici si trovano in opere di carattere non monumentale ma comunque legate
alla committenza di corte, come il Missorium (piatto d'argento) raffigurante Teodosio con
Valentiniano II e Arcadio in occasione dell'investitura di un alto dignitario ( fig 361 pag 276) mentre
un medaglione fatto coniare da Costanzo II (333-335) con la figura di Costanzo accompagnato dai
figli (fig 362 pag 276) con una maggiore attenzione alla resa della figura secondo il canone classico.

Nel corso del VI secolo soprattutto negli avori e nell'oreficeria , risultano più sensibili gli effetti
della renovatio nel senso di una sempre più consapevole ripresa di modelli classici, nella valva di
dittico con la figura dell'arcangelo Michele ( fig 363 pah 276) che mostra una forte attenzione alla
resa del corpo e al panneggio così come anche alla profondità della cornice architettonica o nella
raffigurazione dell'imperatore Giustiniano come trionfatore sui barbari nell'Avorio Barberini ( fig
364 pag 277) che presenta una modellazione accentuatamente plastica e un'inconsueta cura nella
definizione dei particolari e anche dei rapporti spaziali e dei movimenti complessi. Il significato più
autentico della renovatio che si affermò nel corso del VI secolo si coglie nel modo più evidente in
opere di carattere profano, dai mosaici pavimentali di un grande cortile porticato del palazzo
imperiale ( fig 365 pag 277) con scene di derivazione bucolica, giochi di bambini, episodi di caccia e
combattimenti di animali mostruosi, che si stagliano con estrema vivacità naturalistica su fondo
bianco, a una sequenza di opere in argento con scene mitologiche (figg 366-368 pag 277) prodotte
dalle officine di Costantinopoli e databili, grazi ai marchi impressi, tra l'inizio del VI secolo e la metà
del VII, che riprendono con sorprendente immediatezza spunti iconografici e stilistici di
derivazione ellenistica differenziandosi da opere contemporanee di soggetto religioso.
Scheda 12
Santa Sofia
Fondata da Costantino e consacrata nel 360, riedificata da Teodosio II nel 415 in seguito ai danni
provocati da un incendio, la basilica fu nuovamente devastata e distrutta durante la rivolta detta
della Nika nel 532, quando gli incendi appiccati dai rivoltosi raggiunsero anche la chiesa di Santa
Irene e parti del palazzo imperiale.
Giustiniano ne fece intraprendere da subito la ricostruzione affidandone il progetto agli architetti
ANTEMIO DI TRALLE e ISIDORO DI MILETO, entrambi esperti costruttori e versati nelle scienze della
matematica (fig 369 pag 278).
I lavori durarono quasi sei anni e si conclusero nel dicembre del 537; in pianta l'edificio ( fig 370
pag 278) presenta una forma rettangolare molto vicina al quadrato (m 71x77), con un'unica
abside, esternamente poligonale, opposta all'ingresso, che è preceduto da un vasto nartece. Le
dimensioni corrispondono a quelle della chiesa di San Giovanni in Studion. L'interno è diviso in 3
navate: vastissima quella centrale, sormontata dalla grande cupola che poggia su pennacchi e
archi (fig 372 pag 279), retti da quattro enormi pilastri fatti da pietre connesse e legate tramite
colate di piombo, (archi e pareti sono in mattoni), e coperta da mezze cupole su esedre a colonne
nelle zone verso l'abside e verso l'ingresso.
Nella parte centrale le navate laterali sono divise da quella di mezzo da un ordine di 5 arcate su
colonne, sormontate da altre 7 arcate del matroneo. Sopra la muratura appare traforata da due
fine di finestre sovrapposte, 7 nella zona inferiore e 5, di grandezza crescente verso il centro, in
quella superiore.
L'impianto non si differenzia dallo schema delle basiliche a pianta longitudinale ma l'effetto
spaziale risulta radicalmente trasformato per l'assoluto dominio della gigante cupola.
Nonostante il sistema di scarichi e contrafforti, la cupola si rivelò per secoli quasi sicuramente il
punto più fragile dell'intera costruzione. Fin dal 563 dovette essere ricostruita con adeguati
rinforzi,ma nuovi crolli si verificarono in seguito, interessando la parte occidentale (989) e quella
orientale (1346), comportando cosi altri rimaneggiamenti che non alterarono la struttura
dell'edificio lasciando quindi immutati gli effetti dominanti di incommensurabile estensione dello
spazio e della leggerezza degli elementi di copertura che appaiono come sospesi.
In origine esaltata dai preziosi rivestimenti in marmi e mosaici (oggi in gran parte perduti) la luce
appare lo strumento principe di suggestione e modellazione spaziale ( fig 373 pag 279).
Già al tempo della ricostruzione di Santa Sofia,Procopio di Cesarea aveva osservato come, filtrata
dalle finestre disposte a diversi livelli e in particolare da quelle che formano come una corono alla
base della cupola,la luce apparisse quasi generata all'interno della basilica stessa, riflessa dai
mosaici sfavillanti e dai preziosi paramenti murari, con l'effetto di annullare la consistenza
materiale e il peso della struttura.

Milano
Milano sorgeva al centro della pianura padana, all'incrocio strategico di tutte le strade che
portavano ai centri più importanti dell'Italia e dell'Europa antiche. Sembra che la città sia stata
fondata dai Galli ma l'aspetto urbano più antico è quello romano (fig 374 pag 280). Milano aveva il
suo foro nella zona dell'odierna piazza San Sepolcro. Una cinta di mura racchiudeva una
estensione corrispondente più o meno a quello che oggi è il centro storico. Con la Tetrarchia,
voluta da Diocleziano, la città divenne capitale imperiale e fu ampliata al tempo di Massimiano
(286-305). Nel 313 con l'Editto di Milano, che proclamava la libertà di culto per i cristiani,la città
incominciò a subire profonde trasformazioni. Venne costruita la basilica, dedicata al Salvatore, poi
conosciuta come Santa Tecla (IV sec). I resti ritrovati sotto l'odierna piazza del Duomo indicano che
si trattava di una basilica a cinque navate, con divisione tra corpo longitudinale e presbiterio,
chiusa sul fondo da un'abside. ( fig 375 pag 280).
La basilica di San Lorenzo, ricostruita successivamente ma sempre sulla pianta della chiesa più
antica ( fig 376-378 pag 281) presenta un quadriportico di accesso realizzato con colonne di riuso,
appartenenti originariamente a più antichi edifici, probabilmente templi. La pianta è centrale,
quadrata, con gli angoli rinforzati da torri. Su ogni lato della costruzione si apre un'esedra che da
accesso al mausoleo (fini IV, inizi V sec). Molto si è discusso sulla funzione e soprattutto sulla
datazione dell'edificio ma sembra accettabile l'ipotesi che si trattasse di una basilica palatina
collegata al palazzo dell'imperatore, sebbene si trovasse al di fuori delle mura cittadine,
probabilmente era collegata al palazzo imperiale. Nella zona adiacente, infatti, all'interno delle
mura, alcuni toponimi (antichi nomi di luoghi o costruzioni) come la chiesa di San Giorgio "al
palazzo" confermano tale ipotesi.
La grande personalità che determinò l'aspetto cristiani della città su Sant'Ambrogio già magistrato
romano e nominato vescovo nel 373 e restò in carica fino alla sua morte nel 397. A lui si deve
probabilmente la costruzione del primo battistero di forma ottagonale, vicino alla basilica maior
(San Salvatore-Santa Tecla). Il battistero si ispirava, nella forma, ai mausolei imperiali, come quello
del palazzo di Diocleziano a Spalato. Inoltre il vescovo cinse la città di chiese, costruite al di fuori
delle mura.
La basilica Martyrum (fig 377 pag 281) si elevava dove ora sorge la costruzione romanica di
Sant'Ambrogio. Consacrata nel 386, aveva tre navate e accolse le spoglie dei santi Gervasio e
Protasio e in seguito vi fu sepolto Sant'Ambrogio.
La Basilica Apostolorum, poi divenuta San Nazaro, consacrata nel 386 presentava una pianta a
croce, movimentata da absidiole sui bracci laterali (fig 379 pag 281). La singolare planimetria che
non sembra avere precedenti nella coeva architettura di Roma, si ricollega invece a quella della
chiesa dedicata agli Apostoli in Costantinopoli. Anche la terza chiesa, la basilica Virginum, poi San
Simpliciano, aveva pianta cruciforme, ma con il braccio del coro molto ridotto e gli spazi del
transetto aperti sulla navata, illuminata da alte finestre (fig 380). Della quarta basilica , quella
dedicata a Dionigi, sappiamo solo che era localizzata presso i bastioni di Porta Venezia.

Ravenna
Alla morte di Teodosio (395) l'Impero venne diviso in due parti: l'Oriente, con capitale
Costantinopoli fu governato da ARCADIO, mentre l'Occidente toccò ad ONORIO.
Sotto la minaccia di Alarico, re dei Visigoti, la capitale venne spostata da Milano a Ravenna (fig
381) che, oltre a offrire più facili collegamenti sia con l'Oriente sia con le varie parti della penisola
attraverso la vecchia rete stradale romana, si trovava in una zona circondata da lagune in parte
divenute paludi, che la rendevano sicura dall'attacco dei barbari. È probabile che per i primi anni
del V secolo, Ravenna sia stata sentita come capitale di ripiego, come rifugio imposto dalla
necessità e che solo il Sacco di Roma del 410 la trasformasse nella residenza stabile degli
imperatori. Ravenna era strettamente unita al porto di Classe e al vicino borgo di Cesarea. Classe
fu un importante centro di diffusione del Cristianesimo e vi fu infatti stabilita la sede arcivescovile.
Alla fine del IV secolo è databile il trasferimento della cattedra vescovile da Classe a Ravenna: in
tale occasione il vescovo Urso dotò la città di edifici religiosi nuovi.
La cattedrale, oggi nota come URISIANA (fig 382 pag 282) nella parte orientale della città, era
dedicata alla aghia anastasis ( santa resurrezione) , di essa oggi non resta quasi nulla.
In questa stessa fase venne costruito anche il battistero, annesso alla cattedrale (fig 383 pag 282):
di forma ottagonale, presenta l'esterno in semplice laterizio, con le pareti scandite da lesene, con
una soluzione caratteristica di moltissime costruzioni ravennati. Il soffitto venne sostituito intorno
a 458, ai tempi del vescovo Neone ( da qui la denominazione di battistero Neoniano o degli
ortodossi) da una cupola con all'interno tubi fittili che la alleggeriscono. Anche i sontuosi mosaici
risalgono al V secolo.
Nella decorazione del Battistero Neoniano (fig 384 pag 282) si affermano le tendenze tipiche delle
prime fasi del mosaico ravennate, le immagini presentano una certa consistenza plastica dovuta a
rapporti con l'ambiente romano. Infatti la monumentalità e la ieraticità crescente delle figure,
insieme alla policromia, trovano la loro radice nel mondo artistico orientale e bizantino. Nella
fascia più esterna appare il motivo simbolico dell'etimasia, riferimento apocalittico alla fine del
mondo.
Morto Onorio nel 423, Ravenna visse una grande stagione artistica sotto la guida di GALLA
PLACIDIA, reggente d'Occidente per il figlio Valentiniano III. Venne allora intrapresa la
trasformazione della città con l'intento di rendere Ravenna una capitale splendida e soprattutto di
conferirle l'aspetto di una città cristiana, come esigeva la connessione sempre più stretta tra
Impero e Cristianesimo. Una delle maggiori difficoltà della città fu la collocazione del Palazzo
imperiale al quale sono legate anche le funzioni delle singole chiese. Esso doveva trovarsi nella
zona sud-est della città vicino al palazzo di Teodorico, nel quartiere che tradizionalmente era noto
come Regio Caesaris. Il palazzo di Teodorico ( in realtà i resti della chiesa alto medievale di San
Salvatore in Calchi) precede un'area dove sono state trovate tracce di una residenza aristocratica
del II-III secolo d.C. Qui Valentiniano costruì probabilmente il palazzo già iniziato da Onorio e poi
completato da Teodorico. Il complesso comprendeva varie parti e nelle vicinanze, Galla Placidia
fece costruire, dopo il 426, la chiesa di San Giovanni Evangelista ( fig 385 pag 283) come voto per il
felice esito di un suo viaggio. La chiesa è a tre navate e aveva interessanti mosaici purtroppo
andati perduti riguardanti la famiglia imperiale.
Di questa fase è riferibile al V secolo il cosiddetto MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA (fig 386 pag 283)
nella zona nord-est della città e unica parte sopravvissuta di un più vasto complesso. Il mausoleo
era collegato a un lato del nartece della chiesa di Santa Croce, sull'altro doveva ergersi un altro
mausoleo. La chiesa dedicata alla Santa Croce, oggi distrutta, possedeva una sola navata e
probabilmente era a croce latina ( fig 387 pag 283), l'esterno era in semplice laterizio e l'interno, in
contrasto, aveva sfarzosi mosaici. La decorazione si presenta sfavillante di colori ( fig 388-390 pag
284), dominata dalla grande croce circondata da stelle della cupola ( fig 390) sovrastante quattro
lunette con le figure dei santi e degli apostoli. Ognuno dei bracci della croce termina con una
lunetta decorata a mosaico e cosi come anche le volte a botte dei soffitti. Spiccano le due lunette a
sud e a nord, con le celebri raffigurazioni di San Lorenzo e del Buon Pastore: Cristo raffigurato
imberbe, seduto su una roccia mentre tutte le pecore si rivolgono verso di lui. La raffigurazione,
nell'esecuzione che rende plasticamente consistente i corpi, nel movimento delle figure,
nell'ambientazione definita e dai chiari intervalli spaziali, mostra rapporti con l'arte antica.

Nel 476, Odoacre, re degli Eruli, depose l'imperatore ROMOLO AUGUSTOLO; questo evento, FU
ASSUNTO IN SEGUITO COME DATA CONVENZIONALE PER DIVIDERE L'ETA' ANTICA DAL
MEDIOEVO.
La parentesi del regno di Odoacre fu interrotta dall'arrivo di Teodorico, re dei Goti. Di origine
barbarica e precisamente ostrogota, Teodorico trascorse la prima parte della sua vita come
ostaggio alla corte di Bisanzio. Egli tuttavia era di religione ariana, come il popolo ostrogoto.
Inviato in Italia dall'imperatore di Bisanzio, ZENONE, per combattere Odoacre, Teodorico nel 493
assunse il potere sui territori italiani con il titolo di Patrizio d'Oriente e re degli Ostrogoti e fu poi
adottato dall'imperatore Zenone.
Compì opere di bonifica dei territori attorno a Ravenna e, avvalendosi anche dei consigli di grandi
uomini come Cassiodoro, Boezio e Ennodio, organizzò il suo regno molto diverso da quello dei
regni barbarici.
Pur mantenendo sempre separate le due etnie dei Goti e dei Latini, mirò alla convivenza pacifica
tra i due popoli, tale orientamento determinò una situazione particolare, infatti a Ravenna venne
creato un nuovo quartiere riservato ai GOTI, nella Regio Caesaris, con al centro il palazzo ampliato
in modo da poter ospitare una grande corte.
Teodorico fece costruire alcuni edifici religiosi riservati al culto ariano, furono in particolare
edificati la basilica, anch'essa come l'Ursiana dedicata alla anastasis (odierna Santo Spirito) e un
battistero (oggi detto degli Ariani fig 391 pag 284), collocati nella zona vicina al quartiere dei Goti.
Nell'area vicino al palazzo, Teodorico fece realizzare la basilica oggi nota come SANT'APOLLINARE
NUOVO (fig 392 pag 285) che allora era dedicata al Salvatore (inizi VI sec) e concepita
probabilmente come chiesa palatina. La costruzione, a tre navate, presenta abside poligonale
esterno, come di frequente avviene delle chiese ravennati, riprendendo elementi di origine
orientale (fig 393 pag 285). L'illuminazione è diffusa da finestre che non sono disposte solo nella
parte superiore della navata centrale,ma anche nelle pareti delle navatelle, secondo uno schema
comune a Ravenna che deriva dall'architettura orientale. Le colonne, in marmo del Proconneso
con capitelli corinzi provenienti da Bisanzio, presentano, tra capitello e attacco dell'arco, il
PULVINO elemento architettonico di derivazione bizantina costituito da un tronco di piramide
rovesciata.
Ricchissima è l'ornamentazione a mosaico della chiesa, divisa in tre fasce: in quella più alta sono
raffigurati episodi della vita di Cristo, intervallati da un motivo allegorico fatto da un padiglione
con due colombe; nei mosaici di Sant'Apollinare Nuovo si incominciano a notare profondi
mutamenti rispetti a quelli di Galla Placidia. Nel riquadro che raffigura "Cristo che divide le pecore
dai capretti" ( fig 394 pag 285) gli animali sono disposti su diversi piani spaziati, ma l'immagine
risulta fortemente ieratica. Sono presenti anche riferimenti a motivi della tradizione italica come
nell' "Ultima cena" ( fig 395 pag 285) che ricorda la corrente romana-provinciale. Altro elemento
caratteristico del racconto estremamente sintetico, sono le proporzioni gerarchiche proprie della
tradizione romana plebea (fig 396 pag 285). Su tutto domina il fondo oro che crea
un'ambientazione poco naturale ma piuttosto ULTRATERRENA. Nella fascia intermedia,
intervallate dalle finestre, ci sono le figure di profeti e santi; l'ultima fascia presenta una ricca
decorazione che subì molti cambiamenti. Alla fase teodoriciana vanno assegnate le
rappresentazioni del "Porto di Classe" (fig 397 pag 286) e del "Palazzo di Teodorico" a Ravenna (fig
398), a sinistra e a destra vicino l'ingresso, entrambe le rappresentazioni mostrano una prospettiva
non naturalistica: il porto di Classe appare visto a "volo d'uccello" in modo da far risaltare la
grandezza del porto con case e il borgo; nel palazzo di Teodorico si mostrano tutte le varie parti
dell'edificio, tra gli intercolumni c'erano delle figure che poi furono sostituite da tende, immagini
delle quali rimangono le mani appoggiate alle colonne.
Stesso destino per i mosaici delle parti rimanenti di queste due fasce dove forse c'erano scene del
culto ariano che furono rimosse per fare posto a quelle attuali.
Dopo la morte di Teodorico e l'avvento di Giustiniano ai tempi del vescovo Agnello, la chiesa venne
riconciliata al culto cattolico con la dedica a San Martino di Tours, in seguito nel IX secolo venne
dedicata a Sant'Apollinare protovescovo di Ravenna.

A Ravenna Tedorico fece costruire anche il proprio MAUSOLEO (fig 399 pag 286) nella necropoli
riservata ai Goti, posti a nord-est della città. Si tratta dell'unica costruzione ravennate realizzata
non in mattone ma in pietra d'Istria : è un edificio a due ordini, la cui concezione probabilmente è
da ricondursi alla tradizione architettonica dei mausolei romani con pianta centrale. Il primo
ordine presenta una forma esternamente ottagonale, con nicchie rettangolari e all'interno
cruciforme. Il secondo è più piccolo di quello inferiore in moda da lasciare spazio all'ambulacro.
L'esterno è decagonale, mentre all'interno vi è l'ambiente circolare dove forse venne sepolto
Teodorico. Il soffitto è costituito da un'unica grande pietra monolitica, igens saxum, trasportata via
mare issata per mezzo di dodici anse. Interessante è la fascia decorativa che circonda la cupola con
un motivo a tenaglia che non trova riscontro alcuno nel mondo figurativo tardoantico e bizantino,
ma nell'oreficeria gotica (fig 400 pag 286). Il mausoleo è un singolare insieme di motivi artistici
provenienti da culture diverse infatti il tipo di edificio fa pensare alla tradizione romana e
tardoantica ma ad essa si sovrappongono motivi, come la decorazione e la calotta monolitica
provenienti dal mondo germano-nordico della prima metà del VI secolo.

Con la morte di Teodorico nel 526 si aprì un periodo politicamente travagliato per Ravenna: i
rapporti tra i Goti e Bisanzio si erano deteriorati sin dagli ultimi anni del regno di Teodorico
soprattutto per l'intolleranza degli imperatori bizantini verso gli Ariani. Con la salita di Giustiniano
nel 527 la situazione capitolò nella cosiddetta guerra goto-bizantina che interessò tutta la penisola
e si concluse nel 553 con la vittoria di Giustiniano e con la temporanea unificazione degli imperi di
Oriente e Occidente. Nel 554 con la Prammatica sanzione, Giustiniano costituì la Prefettura d'Italia
la cui capitale era Ravenna, quindi la città rimase un importante centro politico.
Diventò inoltre interessante la cancellazione del ricordo del periodo goto nella città: al vescovo
Agnello (557-570) vennero donati tutti i beni della chiesa ariana come da decreto imperiale ed egli
riconciliò al culto cattolico tutti gli edifici religiosi goti e "purificò" anche le immagini contenuti in
essi, come accade il Sant'Apollinare Nuovo in cui l'ultima fascia dei mosaici subirono variazioni:
vennero cancellati i personaggi che popolavano il palatium di Teodorico e aggiunte le due famose
teorie di Santi Martiri (fig 401 pag 287) che procedono verso Cristo in trono e gli angeli e di Sante
Vergini (fig 402) che guidate dai Re Magi si dirigono verso Maria in trono con il bambino in braccio
agli angeli. In questi mosaici si notano nuove trasformazioni stilistiche che troveranno massima
espressione in San Vitale. Le immagini riprese nello stesso atteggiamento, sono più solenni e
ieratiche, ma meno consistenti e plastiche stagliandosi su un fondo oro e mostrando una sempre
più netta adesione ai modi bizantini della seconda metà del VI secolo.

La grande espressione dell'arte di questa fase è senz'altro la chiesa di SAN VITALE (522-547) (fig
403 pag 288) edificata nella zona nord-ovest della città vicino al complesso che comprendeva il
mausoleo di Galla Placidia. Probabilmente iniziata nel periodo goto, sotto il vescovo Ecclesio, sul
luogo di un sacello del V secolo, la costruzione fu proseguita dai vescovi Ursicino e Vittore e venne
conclusa con Massimiano ( 546-556). Fu coinvolto anche Giuliano l'Argentario, banchiere, che
spese nell'impresa 26.000 solidi.
La chiesa mostra, in pianta e nell'alzato, profonde differenze rispetto alle precedenti costruzioni
ravennati, collegandosi alla contemporanea architettura bizantina e orientale, mostrando anche
elementi comuni con la chiesa dei Santi Sergio e Bacco a Bisanzio ( fig 404 pag 288). A pianta
centrale, ottagonale, è preceduta da un nartece o ardica, con due torri laterali, oltre il quale era
originariamente un portico che proseguiva su tre lati (fig 405 pag 288). L'interno presenza un
nucleo centrale, separato dal deambulatorio da pilastri e colonne su due ordini. La cupola
impostata su un tamburo, si eleva con altezza maggiore rispetto agli esempi coevi orientali.
Grande risalto è dato al presbiterio che si sviluppa su due ordini e conduce all'abside fiancheggiata
da due vani, i quali a loro volta danno accesso a due ambienti circolari, probabili antichi mausolei.
L'interno è arricchito da molti mosaici , marmi preziosi, capitelli troncoconici prodotti da officine
orientali e decorati con una ricca ornamentazione a traforo ( fig 406). Tutti questi elementi
concorrono a distinguere l'edificio dai precedenti ravennati. Richiamano l'arte bizantina la
suggestiva decorazione interna e la concezione dello spazio che non è fruibile in modo unitario ma
che necessita invece di essere percorso, rivelando scorci sempre nuovi.
La tecnica costruttiva sembra essere occidentale, la cupola rivela infatti la tipica struttura italica
caratterizzata dai tubi fittili interni di alleggerimento. Anche i mosaici hanno connessione con il
mondo orientale: i due famosi riquadri con Giustiniano e Teodora con i loro seguiti ( fig 407 pag e
408 pag 289) presentano figure frontali forse secondo uno schema che riflette il rigido rituale di
corte. Le immagini ieratiche risultano bidimensionali e la coppia imperiale riflette il ruolo
semidivino di chi è stato scelto da Dio per governare il mondo. La stessa tendenza all'astrazione è
riconoscibile nel mosaico del catino absidale di Sant'Apollinare in Classe (VI secolo fig 409 pag
289). Tradizionalmente legata al nome del vescovo Massimiano ( 546-556) è la preziosa cattedra
eburnea conservata nel Museo Arcivescovile di Ravenna (fig 410 pag 290), in cui ricche e raffinate
decorazioni ricoprono questo seggio, un raro esempio di trono episcopale, in genere posto
nell'abside della chiesa, simbolo della sapienza del vescovo.
La cattedra ravennate conserva ancora buona parte delle formelle eburnee della decorazione: tre
ricchi motivi vegetali e immagini di santi, sono raffigurati nei preziosi rilievi, oltre che alle storie di
Cristo ed episodi della vita di Giuseppe. Non avendo elementi per fare confronti, si è parlato di
artigiani alessandrini, cosmopolitani, orientali, siriaci e ravennati che forse avrebbero creato la
cattedra del vescovo. Influenze diverse condizionano del resto la produzione scultorea ravennate,
ricca di sarcofagi ornati da scene figurate o motivi simbolici, di oggetti e arredi liturgici. (fig 411-
413 pag 290.)

Scheda 13
I mosaici
Sin dai primi secoli e fino al Medioevo, il mosaico è molto diffuso nel mondo cristiano-bizantino
come rivestimento per pareti, pavimenti e soffitti, le sue origini risalgono però al mondo greco-
romano. Infatti la testimonianza più antica è relativa a mosaici pavimentali costituiti da ciottoli
accostati (fig 414 pag 291) e successivamente si scelsero delle "tessere" giustapposte colorate in
pasta vitrea, pietra, terracotta e madreperla. Le tessere in oro e argento di ottenevano invece
stendendo una sottile lamina di questi metalli preziosi su una lastra di vetro trasparente. Le
dimensioni e la forma delle tessere variano per adattarsi meglio alle superfici e alle zone più
irregolari di archi o volte.
Il muro greggio viene preparato con un "arriccio" (calce, sabbia e acqua) , viene poi sovrapposto
un impasto di polvere di marmo, calce spenta e pozzolana, cioè calce e sabbia, steso in vari strati e
sull'ultimo vi si applicano le tessere. Il lavoro del mosaicista era svolto in equipe sin dal IV secolo,
c'era il "pictor imaginarius" che tracciava sul cartone il soggetto e indicava i colori da usare; poi il
"pictor parietarius" che trasferiva il soggetto sulla superficie; infine il "musivarius" che disponeva le
tessere.
Fino al I secolo la decorazione musiva era tipica delle dimore patrizie come la casa del Fauno a
Pompei del II sec a.C. in cui ricordiamo la "Battaglia di Isso" (fig 415 pag 291) combattuta da
Alessandro contro Dario. Intorno al I sec d.C. il mosaico si ritrova anche nelle abitazioni comuni per
rivestire piccole colonne o intere pareti ( fig 416 pag 292) con decorazioni per lo più geometriche.
Le imprese edilizie degli imperatori Antonini (II sec) favorirono l'uso di decorazioni musive sulle
volte di edifici pubblici come i complessi termali, o i palazzi imperiali, come quello di
Costantinopoli della seconda metà del VI secolo in vediamo scene di caccia realistiche (fig 417 e
418- 419 pag 292). Oltre ai grandi mosaici ci sono anche opere portatili di piccole dimensioni che
dalla Grecia si diffondono nel mondo romano. Nelle basiliche della prima cristianità il mosaico
parietale acquista rilievo mentre quello pavimentale un pò meno, il mosaico è inoltre preferito alla
pittura poichè più duraturo e inoltre induce il fedele a guardare verso l'alto. La struttura e il colore
dell'immagine è funzionale all'effetto creato, la luce si infrange con grande intensità sulle tessere
oro creando giochi di luce, effetti suggestivi e di contemplazione spirituale come accade nelle
basiliche ravennati del V-VI secolo (Battistero Neoniano fig 420 pag 292 e San Vitali fig 421 pag
293). Roma, Ravenna e anche Milano ma in misura minore, testimoniano le fasi salienti
dell'evoluzione del mosaico tra i primi secoli della cristianità e l'età giustinianea (VI secolo). I dodici
pannelli a riquadri simmetrici della volta anulare dell'ambulacro di Santa Costanza a Roma ( fig 422
pag 293) ripropongono, nella prima metà del IV secolo, brani di vivace realismo di tradizione
pagana che ritroviamo in Santa Pudenziana (fig 423 pag 293) e, nella prima metà del V secolo,
nella vivacità dei mosaici di Santa Maria Maggiore (fig 424). I mosaici della lunetta del buon
Pastore nel Mausoleo ravennate di Galla Placidia ( V sec fig 390) sono ancora rispettosi dell'antico
naturalismo come quelli della lunetta di San Lorenzo, sovrastata dalle figure degli apostoli. ( fig
388). In ambito milanese la tradizione realistica del ritrattismo romano è conservata verso la fine
del V secolo dalla figura di Sant'Ambrogio nel sacello di San Vittore in Ciel d'Oro nella basilica di
Sant'Ambrogio. ( fig 425 pag 294). Tra il VI e il VII secolo vediamo una perdita di interesse per le
soluzioni tridimensionali nella ieratica, solenne postura del Cristo e dei SS. Cosma e Damiano
nell'omonima basilica romana (fig 426 pag 294). La scarsa volumetria e la frontalità di queste
figurazioni mostrano la dipendenza dalla tradizione bizantina, tuttavia la tradizione romana si
attarda ancora nel VIII secolo nei mosaici di San Giovanni VII a Roma. (fig 427 pag 294).
In Oriente i mosaici di Santa Sofia a Costantinopoli mostrano come verso la fine del XI secolo la
disposizione delle tessere, fitta e regolare, assume caratteri analoghi al tratto disegnativo (fig 428
pag 295); mentre una nuova vitalità è suggerita nel corso del XII secolo dal Giudizio Finale nella
controfacciata della cattedrale di Torcello ( Venezia fig 429 pah 295), e dal ciclo del duomo di
Monreale a Palermo con la frontalità del Cristo Pantocratore di Monreale ( fig 430 pag296) il quale
trova un precedente nell'XI secolo nel busto ieratico del Pantocratore del monastero di Dafne ad
Atene ( fig 431 pag 296).
A partire dal XIII secolo l'arte del mosaico si allinea alla pittura nella ricerca di una nuova
definizione dello spazio e dei volumi: i forti contrasti coloristici e il decorativismo cedono il passo
ad un modellato naturalistico con effetti di ombreggiattura grazie all'uso di tessere sempre più
piccole. Inizia cosi un processo di decadenza e contrasto tra la libertà espressiva della pittura e il
virtuosismo dei mosaicisti, ciò è evidente soprattutto a Bisanzio nel periodo dei Paleologi (metà XIII
sec e metà XV sec) quando si diffondono i mosaici portatili, oggetti suntuari legati alla devozione
privata eseguiti su tavole di legno e formati da tessere così piccole da essere quasi impercettibili ad
occhio nudo, vediamo ad esempio delle tavolette con le 12 festività liturgiche cristiane dei maestri
bizantini conservati al museo del Duomo di Firenze e databili all'inizio del XIV secolo ( fig 433 pag
296). In Italia ricordiamo anche l'intervento di Coppo di Marcovaldo nel Giudizio Finale(fig 435 pag
297) e i mosaici a Roma in Santa Maria Maggiore eseguiti da Jacopo Torriti (fig 436 pag 298) e in
Santa Maria in Trastevere da PIETRO CAVALLINI verso la fine del XIII secolo. Soprattutto le figure
della Vergine del Cavallini che si stagliano sul fondo dorato hanno ormai acquisito consistenza
corporea rispetto alla linearità bizantina ( fig 437 pag 298).
Il ciclo musico della Basilica di San Marco a Venezia copre uno spazio cronologico molto esteso (XI-
XVI sec) e la presenza di artisti bizantini a Venezia influisce sulle scelte estetiche operate dai
mosaicisti , come è evidente nell'abside nelle figure dei SS.Patroni (fine XI sec fig 438 pag 298). Le
figurazioni successive, fine XII sec e inizi XIII,, offrono riferimenti più prossimi all'arte romanica
come le scene della Genesi nel nartece (fig 439). Un esempio del compiuto distacco dall'originaria
matrice bizantina è fornito dal piccolo mosaico con il Busto di San Zanobi (fig 443 pag 299)
eseguito da Monte di Giovanni detto il Fora per cattedrale di Firenze tra il 1504 e il 1505, in cui
l'artista sostituisce il fondo oro con un paesaggio chiaro.

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