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Kitzinger – Alle origini dell’arte bizantina

Capitolo primo – La crisi dell’arte antica


Il capitolo si apre con uno degli esempi più evidenti non solo di accostamento di stili differenti, ma
anche di crisi di quello che era il canone formale classico greco durante il periodo tardo romano.
Viene menzionato l’arco di Costantino (315 d.C.), commissionato dal Senato per celebrare la
vittoria dell’imperatore su Massenzio nel 312: nell’opera, infatti, vengono assemblati rilievi del II e
del IV secolo. La differenza è chiara agli occhi di chi guarda, e doveva esserlo anche nel 315. Le
figure costantiniane sono rigide, accalcate, fortemente marcate, a differenza dei rilievi più antichi,
realizzati in uno spazio che sembra essere aperto e arioso. La rigidità dei soggetti raffigurati è ben
evidente nella figura dell’imperatore, seduto in trono rivolto verso l’osservatore. Al suo fianco, posti
con la massima simmetria, gli astanti su entrambi i lati. Il canone delle proporzioni è scomparso, la
figura del sovrano governa sulla scena, per indicare la sua importanza con immediatezza. È questo
lo scopo di tale maniera di scolpire: dare un messaggio con estrema rapidità.
Stessa rigidità e simmetria si osserva del gruppo dei Tetrarchi, realizzati in porfido, ora collocati
all’esterno della basilica di San Marco a Venezia. Il materiale ci aiuta a capire che questa tendenza
non era esclusivamente delle aree limitrofe a Roma: infatti, l’unica cava di porfido era in Egitto, e
ciò porta a pensare che gli scultori provenissero anch’essi da tali zone. Un altro indizio è fornito
dalle monete, come quella che ritrae Massimino Daia che fu coniata ad Antiochia, in Turchia. E
ancora il mosaico nella villa di Piazza Armerina in Sicilia. Tutti soggetti raffigurati con rigidità,
monotonia e angolosità.
I motivi di tale cambiamento si possono intuire attraverso numerose ipotesi: la realizzazione
schematica, rigida, richiedeva meno difficoltà, quindi si potrebbe pensare ad una perdita
dell’abilità artigianale; oppure, alcune forme tradizionali potevano avere assunto col tempo
significati non più condivisi e graditi; una valida teoria potrebbe essere quella della presenza di un
substrato dell’arte romana conosciuta come arte popolare o arte plebea. Quindi, il cambiamento
può essere non una innovazione, ma una riscoperta di un’arte già esistente ma poco conosciuta.
Con il termine “sub-antico” si possono raccogliere le diverse manifestazioni artistiche dell’intero
impero. Questi stili non per forza vennero a contatto tra loro, ma condividevano tutti delle
caratteristiche. Per esempio, la tendenza a ritrarre il soggetto di fronte era in comune a tutti gli stili,
come anche la necessità di ridurre all’essenziale in modo da fornire immediatezza visiva.
Tornando ai motivi per i quali si può aver adottato questa arte plebea, uno di questi potrebbe
essere la volontà dei committenti, delle classi più alte, di avvicinarsi a quelle più basse, di mostrare
loro simpatia e solidarietà. Al contrario, la scelta di allontanarsi dallo stile classico può
simboleggiare astio nei confronti di chi ne era rappresentato: esemplare la decisione di Diocleziano
di adottare i valori e gli ideali del passato romano, a discapito della classe senatoriale di origine
ellenica. Gli artisti sono stati scelti, probabilmente, dall’ambiente del sub-antico, poiché capaci di
raffigurare un tale messaggio.
Tuttavia, il sovvertimento del canone classico non avvenne all’improvviso, ma era già iniziato nel II
secolo, con Marco Aurelio. La sua colonna presenta elementi che si vedranno due secoli più tardi
sull’arco di Costantino: sulle bande a spirale della colonna, è rappresentato l’imperatore in veduta
frontale, e le sue truppe in modo schematico e ripetitivo. Probabilmente l’intenzione era quella di
esaltare la figura dell’imperatore.

L’astrazione comincia a dominare nell’arte già nel II secolo, quando le figure vengono scolpite con
profondi solchi, che vanno a porre l’attenzione non sulle entità corporee (l’arte centrata sull’uomo
era prettamente greca), ma sull’azione. I dettagli vengono messi in luce per quello che sono, non
vengono definiti, lo scopo della semplificazione è l’espressività. Espressività di sentimenti forti,
come la sofferenza. I soggetti diventano infatti, sempre più spesso, l’uomo morente, che sia
guerriero, prigioniero o schiavo, all’artista interessa dare importanza e rappresentare la tensione
emotiva. Gli studiosi riconducono il motivo all’epoca che si stava vivendo, chiamata “età dell’ansia”.
Il mondo romano stava attraversando una grave crisi, un periodo di crescita delle tasse e
dell’inflazione, un rapido susseguirsi di imperatori, catastrofi militari e, soprattutto, l’abbandono di
quella che per secoli era stata la religione tradizionale.

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Abbiamo già detto che il passaggio tra canoni ellenistici e sub-antichi avviene gradualmente, anche
a causa di reazioni e contromosse a tale cambiamento, come la ripresa del plasticismo da parte
dell’imperatore Gallieno nel III secolo. Ciononostante, il classicismo veniva anche incorporato in
realizzazioni romane come i sarcofagi: il gusto classico prevaleva per i temi mitologici, e venne
utilizzato, ad esempio, in un sarcofago del III secolo. La scena mitologica di Achille sui lati è
realizzata in stile classico, mentre per la raffigurazione del defunto, sul coperchio della tomba, è
chiaro il rigore della figura. La convivenza di stili diversi sulla medesima opera è chiamata “modo”,
in cui ad ogni stile corrisponde un soggetto diverso.

Dall’arte classica nasce inoltre l’arte cristiana, nel senso che il suo declino ha favorito la diffusione
di della religione cristiana e quindi della rispettiva arte. Prima del 200 non esistono testimonianze
di un’arte cristiana, questo perché la produzione di immagini veniva associata negativamente al
culto pagano. Con la diffusione della religione, si diffusero anche le forme artistiche.
Un celebre esempio della diffusione della religione cristiana nell’arte risiede nelle catacombe
dell’inizio del III secolo: significative sono le simulazioni architettoniche, attuate attraverso la
pittura di linee colorate su soffitti e pareti. All’interno di queste, su sfondo a tinta unita, figure
isolate, ridotte al minimo, che rappresentavano temi e personaggi biblici, in modo tale da
trasmettere immediatamente un segnale all’osservatore. I diversi oggetti non sono collegati da un
filo logico, è il messaggio ad essere in comune: liberazione e sicurezza grazie all’intervento divino.
Per rappresentare in senso classico, e non solamente per trasmettere un segnale, vennero scolpite
con gusto barocco ellenistico quattro sculture oggi conservate al Cleveland Museum of Art. La
figura di Giona nella bocca della balena è levigata, morbida, probabilmente commissionata da un
ricco cristiano che voleva seguire la moda pagana del tempo. Altri monumenti romani presentano
opere realizzate con l’interesse per la rappresentazione: nel tardo III secolo la storia di Giona venne
rappresentata su diversi sarcofagi, in sequenza, com’era di consuetudine fare sulle tombe pagane.
Vengono presi in prestito anche i soggetti, come l’immagine di Endimione addormentato all’ombra
di un albero, che sui sarcofagi cristiani diventa Giona, anziano, nella stessa posizione.
Queste tendenze testimoniamo la preferenza a scegliere la tradizione piuttosto che l’innovazione.

Capitolo secondo – Rigenerazione


Come l‘arte del III secolo era stata caratterizzata da astrazione e anticlassicismo, quella del IV
secolo conobbe una rigenerazione dell’eredità classica.
Alcune tendenze dello stile classico sono rintracciabili nei fregi di alcuni sarcofagi cristiani. Il
sarcofago a fregio è la prima creazione originale cristiana, sebbene somigli alle bande a rilievo
dell’arco di Costantino. A prima vista, infatti, presentano le stesse caratteristiche: proporzioni
tozze, figure schierate linearmente, linee crudamente incise e movimenti angolosi. Le figure
allineate erano poste su due registri di uguale altezza, invenzione cristiana che rendeva possibile
rappresentare più scene possibili. Tali scene erano prese dal Vangelo o dall’Antico Testamento,
come Daniele nella fossa dei leoni, la resurrezione di Lazzaro, la moltiplicazione dei pani e dei
pesci, ma anche storie apocrife della vita di San Pietro. Questa sequenza di eventi è una novità: sui
sarcofagi pagani potevano essere rappresentate in questo modo le Fatiche di Ercole. Il fregio
cristiano è isocefalo, le figure minori sono più piccole, l’occhio dell’osservatore è portato a seguire il
susseguirsi della storia più che a soffermarsi a pensare al loro significato, poiché esso era chiaro.
Questi tipi di sarcofagi erano prodotti in serie, probabilmente all’inizio della diffusione del
cristianesimo, e commissionati dalla classe media. Osservando il mutamento stilistico dei sarcofagi
a fregio si può notare un ritorno allo stile classico.
Il sarcofago “dogmatico”, ora in Vaticano, fu uno dei primi a presentare la struttura a doppio
registro: ciascun personaggio, sebbene le scene siano comunque affollate, è separato dall’altro
grazie a ombre profonde, facendo sì che le figure risaltino come tanti blocchi solidi e
tridimensionali, dai quali sono spariti i tratti crudamente incisi. Ogni fregio aveva ai lati elementi
di chiusura, solitamente il sepolcro di Lazzaro, Dio e la Vergine in trono e San Pietro che fa
sgorgare acqua dalle pareti della prigione.
Il successivo sarcofago “dei due fratelli” a San Paolo fuori le Mura presenta ulteriori trasformazioni.
Il medaglione centrale che raffigura i due defunti è posto davanti a entrambi i piani, con una forma
marcatamente concava che fornisce lo spazio necessario ai busti di svilupparsi come figure a tutto

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tondo. Tutte le figure rappresentate, come Cristo che dona la vista al cieco e Pilato che si lava le
mani, assumono posizioni tridimensionali nello spazio. Inoltre, i modelli dei soggetti devono essere
ispirati al repertorio di immagini utilizzate nel mondo mediterraneo a partire dal periodo classico,
più precisamente ellenistico: Daniele nella fossa dei leoni presenta una corporatura che ricorda le
statue greche degli efebi, e la sorella di Lazzaro, che nel sarcofago “dogmatico” era ridotta a
personaggio secondario e quindi ritratta in piccole dimensioni, ora è modellata sulla nutrice di
Fedra, ancora una volta dalla tradizione greca. Sembra che la volontà cristiana fosse quella di
imitare il repertorio iconografico mitologico dell’arte sepolcrale pagana. Ora il fregio rappresenta
pienamente una narrazione, non è solo veicolo di un messaggio di salvezza, lo dimostra la scelta di
inserire personaggi e scene nuove, che andassero ad integrare il ciclo narrativo, come, per esempio,
Pilato nella Passione di Cristo.
Il terzo ed ultimo esempio è il sarcofago di Giunio Basso (prefetto di Roma morto nel 359): il
particolare di questa tomba è l’abbandono del fregio a favore di una narrazione a nicchie. Ogni
nicchia è separata da colonne e ha profondità e spazio propri a seconda della scena ritratta. Rimane
la sistemazione su due registri. Cambia il modo di raffigurare i volti, di nuovo incisi con tratti
leggeri, ma che animano le espressioni. Si pensa che il maestro che introdusse questi elementi a
Roma dovesse provenire dall’Oriente greco. Si nota anche una somiglianza con i busti di Cleveland:
basti mettere a confronto la morbidezza dei drappeggi.
Dai primi esempi di sarcofago a fregio romano ai più recenti sarcofagi a nicchie, è chiaro che la
committenza è cambiata: dalla classe media ad alti funzionari. Questo fa capire che gli ideali
estetici che una volta erano propri delle classi inferiori, ora sono stati appropriati dalle classi più
agiate, forse poiché la religione cristiana andava gradualmente diffondendosi anche tra queste.
Tuttavia, il cambiamento non può essere solo “eterodiretto”, ovvero causato solo dalla
committenza, ma anche da chi realizzava tali opere. Persino al tempo di Costantino e dell’Arco
dovevano esserci scultori non estranei agli standard formali classici. Si possono osservare teste
realizzate a questa maniera nel medaglione adrianeo in cui il volto di Costantino è resa con dettagli
e cura tipici del periodo classico. Così era scolpito anche sulle monete. Inoltre, lo stesso stile è
rintracciabile negli affreschi rimasti nello scavo del palazzo imperiale di Treviri, risalenti al 315-325
ca.
Il gusto per il classicismo tra le classi agiate non si ferma alle tombe, ma anche agli oggetti comuni,
come i vasellami d’argento a sbalzo. Essi raffiguravano soggetti presi in prestito dalla mitologia
greca, soprattutto pertinenti a Dioniso (Bacco). Molti di questi oggetti si sono conservati grazie alla
prassi di nasconderli sottoterra, forse per evitare di essere derubati durante le invasioni barbariche,
sebbene tali oggetti potrebbero essere a loro volta di molto anteriori al IV secolo. Con l’avanzare del
secolo, crebbe anche la richiesta: il motivo potrebbe essere il tentativo dell’imperatore Giuliano, nel
360 ca., di ristabilire la religione romana nell’impero. Il vassoio d’argento conosciuto come “Lanx”
di Corbridge a prima vista sembra classico, ma le proporzioni sono errate, le figure sono statiche.

Teodosio il Grande ascese al trono della parte orientale dell’impero, con capitale Costantinopoli,
nel 379: gli artisti che operarono per lui imposero grandi cambiamenti che divennero lo standard.
Un piatto argenteo a Madrid, che commemora il decimo anniversario del suo potere, è collocabile
in un atelier del Mediterraneo orientale. Venne lavorato in bassorilievo, nel quale l’imperatore è
raffigurato seduto, al centro, sul trono, collocato di fronte ad un palazzo (festigium), accompagnato
da una figura molto più ridotta di un alto funzionario, e dalla personificazione della Terra, nella
parte inferiore del piatto. I corpi sono morbidi ed elastici, ma ancora una volta, come sulla Lanx di
Corbridge, non si rispettano le proporzioni, e gli arti sembrano essere disarticolati. Tuttavia, se si
osserva la Terra, si può notare una ricercatezza nella sua posa, il suo drappeggio è modellato
perfettamente sulle curve del suo corpo. Le linee dell’orlo, inoltre, ricordano l’arte attica del V
secolo a.C. Il tratto impiegato nell’intera composizione è chiaro, continuo e semplificato, doveva
risaltare l’autorità dell’imperatore.
Le stesse caratteristiche dei rilievi si possono notare sui quattro lati della base dell’obelisco egiziano
al centro dell’ippodromo di Costantinopoli: i rilievi furono realizzati poco più tardi del piatto di
Madrid, e suggeriscono che la realizzazione dovesse essere avvenuta negli atelier della capitale. Essi
rappresentano solenni apparizioni cerimoniali dell’imperatore e del suo seguito. Persiste un
dualismo stilistico che vede convivere la simmetria e l’ordine geometrico con un’accurata
elaborazione del dettaglio. Nonostante ciò, i tipi facciali sono in un numero limitato, tutti

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caratteristici di questo periodo. Il ritratto del co-imperatore di Teodosio, Valentiniano II,
proveniente da Afrodisia, rappresenta gli ideali estetici ed umani di quel periodo. Ulteriore opera
che testimonia la ripresa degli ideali classici è la colonna trionfale, di cui rimangono solo
frammenti, eretta nel Foro imperiale a Costantinopoli: modellata su quelle di Traiano e Marco
Aurelio, è unica in questo periodo, la prima di questo tipo ad essere realizzata dopo due secoli.
Tornando allo stile “eterodiretto” delle opere, si fa l’esempio dei dittici in avorio commissionati
dalle antiche famiglie senatorie di Roma, ma anche da alti dignitari che li donavano ad amici e
colleghi in occasione della loro assunzione alla carica. Un famoso dittico è quello che raffigura due
sacerdotesse, e che porta i nomi dei Nicomachi e dei Symmachi, risalente alla fine del IV secolo. È
chiaro che l’artista dovesse avere studiato le sculture greche e le loro copie romane, il loro
classicismo è studiato, ricercato, consapevole. Un’altra opera, talmente retrospettiva da essere
datata inizialmente al II secolo, fu una patera in argento trovata in provincia di Milano.
Si cataloga sotto l’etichetta di “rinascenza teodosiana” ogni prodotto commissionato dai grandi
mecenati e l’arte di corte di Costantinopoli, grazie al loro riavvicinamento all’arte classica. Le stesse
immagini dell’arte teodosiana furono utilizzate poi per l’arte cristiana e per la raffigurazione di
Cristo. Basti pensare ad un rilievo di marmo a Dumbarton Oaks raffigurante la guarigione del
cieco, nel quale Cristo ha le stesse caratteristiche facciali dei funzionari teodosiani. Inoltre, l’intera
scena ricorda una cerimonia di corte, in cui il Salvatore è assimilato ad un imperatore. L’arte
cristiana ed i suoi soggetti cominciano a cambiare fondendosi con le caratteristiche e le tendenze
orientali di Costantinopoli. Furono proprio i Nicomachi ed i Symmachi a promuovere il massiccio
trasferimento di forme classiche nell’arte cristiana, poiché il loro scopo era stato quello di
promuovere l’arte classica, pagana, su quella cristiana. Gli “avversari” vollero raccogliere la sfida e
la produzione si intensificò prendendo esempio da quei soggetti e stili.
Si guardi il mosaico absidale della chiesa di Santa Prudenziana a Roma, probabilmente risalente al
periodo di papa Innocenzo I (402-417), la più antica composizione absidale arrivata fino a noi:
Cristo è in primo piano, seduto in trono con splendore imperiale, fra gli apostoli. Le teste di questi
portano la vista sul Salvatore, che governa su questa veduta architettonica. Il portico funge da
quinta, dopo numerosi piani che contengono anche figure femminili (personificazioni della Chiesa
degli Ebrei e della Chiesa dei Gentili/pagani). In alto, sullo sfondo, le quattro creature alate
dell’Apocalisse. Non esiste coerenza di scala, lo sfondo ricorda i rilievi del IV secolo, ma lo sfondo
architettonico era anche molto utilizzato nel I e nel II secolo per conferire maggiore solennità alle
figure imperiali. La novità sta nell’assemblea di Cristo e degli apostoli, già presente nelle pitture
catacombali del IV secolo, ma mai posizionata su sfondo così elaborato. Il mosaico si può
chiaramente catalogare tra le opere romane che risposero alla reazione pagana.

Capitolo terzo – I conflitti del V secolo (Parte I)


Il V secolo si caratterizza per la sua frammentarietà culturale ed artistica, soprattutto a causa della
scissione dell’impero romano nelle sue due parti d’Oriente, che mantenne una unità politica, e
d’Occidente.
Tuttavia, si mantennero tratti in comune con il secolo precedente, come la tradizione di distribuire
dittici eburnei, che continuò anche nel VI secolo. Prendendo d’esempio il dittico di Boezio, console
nel 487, si può osservare un rifiuto degli standard classici: le proporzioni sono sbagliate, lo sfondo è
ancora una volta una struttura architettonica, ma la figura è schiacciata tra le pareti della valva, le
linee diventano più squadrate. Il console è rappresentato in momenti diversi, in piedi e seduto, ma
in nessuno dei due casi agisce nello spazio. L’effetto è un’immagine di forza bruta, di potenza.
Questo rifiuto dell’ideale di classicismo accademico non avviene improvvisamente dopo la caduta
dell’Impero d’Occidente nel 476, ma è un processo graduale. Il detrimento della grazia e
dell’eleganza a favore di movimenti meccanici è caratteristico in pannelli oggi conservati al British
Museum di Londra, raffiguranti scene del Vangelo: il rilievo si appiattisce, le figure sembrano
essere più bidimensionali che tridimensionali, nonostante si tratti di altorilievi. Nel tardo V secolo
abbiamo anche l’esempio di scene del Vangelo raffigurate su una legatura libraria conservata nel
Duomo di Milano. Si tratta di un rilievo piatto, sebbene sia raffigurata la vivacità delle azioni delle
figure. A saltare all’occhio è la struttura del pannello in quadrati, cerchi e rettangoli, oltre che la
Croce al centro.
Tutti gli avori precedentemente citati furono eseguiti in Occidente, e condividono elementi in forte
coerenza e omogeneità tra loro, a differenza degli intagli in avorio realizzati nell’area mediterranea

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nel V secolo. Anche in Oriente, come in Occidente, si nota un indurimento delle forme,
l’eliminazione dello spazio e della profondità: osservando il gruppo di dittici eseguiti per dignitari
di Costantinopoli nei primi anni del VI secolo, salta all’occhio la possente figura del donatore,
isolata dai dettagli dello sfondo, dal contesto in cui è inserito. Il dittico eburneo del console
Anastasio ne è un esempio: egli siede in un trono ricco di dettagli, nella parte inferiore si svolge un
azione, come l’antico tema dei giochi del circo. In comune con i dittici occidentali vi è l’ostentazione
del potere, sebbene le figure siano più raffinate e precise. L’immagine è resa atemporale,
immutabile. Contenuto e forma appaiono correlati.

Nel V secolo l’arte musiva si fa spazio fino a diventare il principale canale di arte figurativa. Il
mosaico, in realtà, era divenuto una forma di decorazione diffusa in tutto il territorio romano già
dal I sec. d.C. Si parla dei mosaici pavimentali, i quali hanno avuto migliori possibilità di
sopravvivenza e reperimento rispetto a quelli parietali.
In centri dell’Oriente e in città come Antiochia e Apamea, nel V secolo entrò in voga un nuovo tipo
di decorazione pavimentale: le figure vengono poste, singolarmente, su uno sfondo neutro, in modo
regolare, in uno schema potenzialmente espandibile all’infinito. Anziché uno sfondo paesaggistico,
si trovano arbusti e alberi sparsi in questo “tappeto figurato”. Prima di questa novità, i mosaici
erano composti come “emblemata”, ovvero come scene rappresentate su sfondi evocativi di
profondità, chiuse in una cornice. Lo scopo era quello di ingannare la vista e dare l’illusione di
sfondare la superficie (trompe l’œil), producendo un effetto di meraviglia nello spettatore. Nei
pavimenti del V secolo, invece, la composizione figurata si estende sull’intera superficie, dando la
possibilità di osservare le figure con una veduta dritta a prescindere alla posizione in cui si trova,
soluzione precedentemente attuata realizzando emblemata orientati in modo diverso. Anche nella
città di Tabgha, nell’odierno stato di Israele, abbiamo un esempio di tappeto figurativo: i bracci del
transetto della basilica eretta sul luogo del miracolo dei Pani e dei Pesci sono decorati con scene di
vita del Nilo, con figure disseminate sul pavimento, tutte volte nella stessa direzione.
In Italia, esempi di tappeti figurativi si trovano a partire dal II secolo, con i mosaici “a silhouette”,
che vedono figure nere distribuite su sfondo neutro.
Lo stesso principio di distribuzione di figure su uno sfondo neutro si trova anche in dittici eburnei
di IV e V secolo, probabilmente influenzati dai principi compositivi occidentali.
Nel V secolo la decorazione a tappeto va gradualmente a sostituire quella ad emblema in tutta
l’Antiochia e nell’Oriente greco, dove la tradizione degli emblemata era radicato nel passato
ellenistico della regione.
Per quanto riguarda i mosaici parietali, una protagonista è Ravenna: è qui che si può osservare una
successione di edifici del V secolo e inizio del VI con decorazioni a mosaico. Nel V secolo divenne
infatti capitale dell’Impero romano d’Occidente (402-476).
Mausoleo di Galla Placidia: non si tratta di un vero mausoleo, in quanto l’imperatrice (dal 424 al
450) non è sepolta al suo interno. In tutte le decorazioni musive abbiamo un’evidente distinzione
tra bidimensionalità e tridimensionalità. La lunetta del Buon Pastore si può definire emblema, in
quanto realizzata in una cornice e posta sopra la porta d’ingresso, circondata da una volta a botte
decorata da un motivo a stelle su sfondo blu. Il Pastore è seduto su un sasso ed è circondato da sei
pecore, in un ambiente rurale, che si estende per profondità. Sotto i suoi piedi, a chiudere la lunetta
nella parte inferiore, delle rocce, espediente usato dai pittori del periodo tardo ellenistico e romano.
Il motivo delle stelle che decora l’adiacente volta a botte è derivato dalle sete di origine esotica ed è
puramente bidimensionale, a rafforzare la tridimensionalità della lunetta.
La lunetta nel braccio opposto della croce ha come protagonista San Lorenzo accanto alla graticola
che lo renderà martire e ad un armadietto aperto contenente i quattro Vangeli. Tutti gli oggetti
sono fortemente tridimensionali, come anche l’azione di San Lorenzo, che sta entrando da un lato
della lunetta. In alto, come per la lunetta del Buon Pastore, si apre un cielo stellato bidimensionale.
Nei bracci laterali sono raffigurati due cervi per ciascuna lunetta, composizioni identiche tra loro,
subordinate alle altre due lunette. La profondità è esclusa dalla cornice di arbusti, che rimandano
lo sguardo alla decorazione bidimensionale della volta che li circonda, la quale ripete le medesime
decorazioni vegetali.
Nella parte superiore centrale si trovano quattro lunette con coppie di apostoli che acclamano la
croce al centro della volta stellata sovrastante. Tutti sono in piedi su un prato verde, che dà l’idea di

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tridimensionalità, mentre sopra le loro teste motivi a conchiglia in forte scorcio, anch’essi realizzati
per dare l’idea dello spazio in profondità.
Disegni della tradizione ellenistica sono utilizzati per decorare in modo tridimensionale elementi
architettonici, come gli archi. Si può pensare che l’arte della cappella di Galla Placidia si rifaccia al
passato ellenistico.

Spostandoci nel palazzo imperiale di Tessalonica (Salonicco), si può analizzare la cupola della
grande rotonda, oggi Rotonda di San Giorgio. L’intera superficie della cupola, con un diametro di
24 metri ca., era ricoperta da mosaici, con alla sommità una visione celestiale, probabilmente
Cristo in un medaglione, verso cui erano rivolte le figure acclamanti. Oggi rimane il registro
inferiore, ovvero il terzo, una banda dorata ampia circa 8 metri, decorata sopra da una trabeazione
fittizia e sotto da un fittizio fregio a mensola. Già nel periodo ellenistico la decorazione di cupole o
di volte era concepita come una sequenza di cerchi o bande concentrici. In questa cupola in
particolare, la banda più bassa doveva suggerire l’idea di uno zoccolo. Il disegno della decorazione
di questa cupola aveva radici in una tradizione che risaliva al I sec. a.C. La cupola era stata
concepita in modo da apparire qualcosa di diverso da ciò che era.

Battistero degli Ortodossi: il disegno del mosaico della cupola, che andò a sostituire la copertura in
legno, si sviluppa in due bande concentriche intorno a un medaglione centrale sulla sommità, con
la banda più esterna che presenta una facciata consistente, e la banda più interna che si apre su un
distante spazio aereo. La banda più bassa è divisa in otto parti da disegni di candelabri floreali,
mentre la banda interna contiene gli apostoli in vivace movimenti, sullo sfondo blu del cielo e con i
piedi su un prato verde. Nel medaglione centrale si svolge la scena del Battesimo di Cristo, a sé
stante. La composizione, a differenza di quella della cupola di Tessalonica, è priva di unità
drammatica. Un’altra differenza è che il mosaico, sebbene sviluppato in bande concentriche, ha
uno schema decorativo basato su partizioni radiali, schema di tradizione prevalentemente
occidentale.

Battistero degli Ariani: venne costruito cinquant’anni più tardi del Battistero degli Ortodossi, per
volere del re Teodorico per i suoi Goti ariani. Il programma iconografico è ridotto alla scena del
Battesimo di Cristo nel medaglione centrale, insieme al cerchio degli apostoli che lo cinge. Lo
schema questa volta è concentrico, è stata eliminata l’impressione di un pergolato radiale, e lo
sfondo degli apostoli, immobili, non è più il cielo, ma l’oro, eliminando le implicazioni spaziali.
L’intero emisfero della cupola è visto come un’unica superficie suddivisa solo da una banda
ornamentale uniforme che separa il cerchio esterno dal medaglione centrale.

La cupola di San Vittore in Ciel d’Oro, a Milano, è decorata da una distesa dorata uniforme, a
eccezione del medaglione centrale che raffigura San Vittore. L’oro rende lo sfondo una superficie
unitaria, ma allo stesso tempo la smaterializza, diffondendola di luce.

Sant’Apollinare Nuovo: le superfici delle pareti della navata basilicale della chiesa di palazzo di
Teodorico, nelle parti superiori, sono ricoperte da mosaici, dominati dall’oro. Tuttavia, quelli che
vediamo oggi non facevano parte del disegno originale. Quelli voluti dall’arcivescovo Agnello (556)
raffigurano le processioni di martiri e vanno a sostituire le processioni della corte di Teodorico.
Sono rimaste le vedute del palazzo del re e della città portuale di Classe, oltre a Cristo e la Vergine
in trono, situati dov’erano stati posti originariamente, alla conclusione delle processioni. Un fregio
a greca separa il fregio delle processioni dalla parte superiore, dove sono raffigurate trentadue
figure maschili con aureola, collocate una per una negli spazi tra le finestre e in fila di tre nella
superficie senza finestre all’estremità di ciascuna parete, fungendo da elemento di chiusura.
Ciascuna di queste figure ha, com’era consuetudine ormai fare nelle decorazioni ravennati, un
piedistallo verde sfumato e una conchiglia sopra la propria testa, unico elemento posto su uno
sfondo non dorato, ma blu. Ad alternarsi con le conchiglie, scene del Vangelo, dove le figure sono
statiche, rivolte frontalmente, sono composizioni chiuse in loro stesse.

Cappella nel Palazzo Arcivescovile di Teodorico: la decorazione consiste in medaglioni contenenti


Cristo, i dodici apostoli e i santi, posti su uno sfondo dorato nell’intradosso dei quattro archi che

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sostengono la volta dello spazio centrale. La caratteristica di questi complessi è una ritrattistica
semplice e atemporale unita al congelamento dell’azione.

Si può affermare che i mosaici di Ravenna avessero influenzato non solo gli artisti che lavorarono
negli stessi edifici ravennati in tempi diversi, ma fossero influenzati dallo stile ellenistico e
orientale, sebbene i mosaici di Ravenna fossero più rigidi e con espressioni più tese.

Capitolo quarto – I conflitti del V secolo (Parte II)


Un eccezionale esempio di decorazione musiva a Roma fu quella ideata ed eseguita nel 430 ca. per
la Basilica di Santa Maria Maggiore, arrivata ad oggi solo in parte, a causa della distruzione
dell’abside originale nel XIII secolo per la costruzione di un transetto. Rimangono, dal V secolo, le
immagini dell’Antico Testamento che occupano gli spazi sotto le finestre, poste al di sopra di
trabeazioni e non di arcate, elemento classicheggiante. I pannelli della navata sono separati dalle
lesene fra le finestre, ed ogni pannello musivo aveva la sua edicola con frontone. Il mosaico sulla
parete dell’arco absidale, al contrario, è racchiuso in senso geometrico solamente da bande
orizzontali, presentando l’intera superficie come un’unica estensione bidimensionale: vi è
un’accettazione della superficie, mentre nella navata questa viene dissimulata. Quella di Santa
Maria Maggiore è la narrazione ciclica più completa pervenutaci dall’arte monumentale del V
secolo, sebbene si siano conservati solamente 27 dei 42 pannelli. Questi narrano episodi tratti dai
libri della Genesi, dell’Esodo e di Giosuè.
Le rappresentazioni musive di questa basilica sono strettamente assimilabili alle miniature di
alcuni codici: come reazione all’affermazione del Cristianesimo, l’aristocrazia reazionaria pagana di
Roma commissionò la produzione di edizioni illustrate di lusso di testi classici come le Georgiche e
l’Eneide di Virgilio. È chiamato “Codice Vaticano” o “Virgilio Vaticano” il codice che contiene questi
due testi. Le miniature di questi ultimi presentano figure ed edifici spesso sullo stesso piano, anche
su registri sovrapposti, e con proporzioni sbagliate. A fare da sfondo alle figure, colori sfumate per
dare l’impressione della profondità. Queste miniature vanno a negare la superficie del foglio,
aprendo una “finestra” come i mosaicisti la aprivano su pavimenti e pareti. Visto lo scopo del
movimento di reviviscenza per cui erano stati commissionate, queste miniature hanno un aspetto
fortemente retrospettivo. Questa correlazione tra i mosaici di Santa Maria Maggiore e le miniature
del Virgilio Vaticano è confermata anche dal fatto che furono realizzati manoscritti biblici miniati
nello stesso stile di quest’ultimo. In molti pannelli, inoltre, viene riproposto lo stesso schema
compositivo di alcune miniature, oltre che scenari atmosferici simili e alcuni degli stessi tipi
figurativi. Un’altra similitudine è l’utilizzo dell’oro, non come colore a riempire lo sfondo intero, ma
a dare effetti di luce alle miniature e come zona di sfondo intermedia tra le scene e figure dei
mosaici.
I mosaici di Santa Maria Maggiore sono esattamente coevi a quelli del Mausoleo di Galla Placidia a
Ravenna: entrambe le decorazioni musive negavano la superficie, a Ravenna con vedute di spazi
distanti, ma a Roma con mezzi diversi. Nelle scene dell’infanzia di Cristo raffigurate nel mosaico
dell’arco di Santa Maria Maggiore, la superficie è perlopiù uno sfondo dorato in cui le figure sono
massicce e squadrate, fronteggiano l’osservatore e sono quasi statiche, l’azione è lenta, solenne, in
opposizione con i pannelli dell’Antico Testamento. Per questo motivo si riteneva che questi ultimi
provenissero da un edificio precedente al periodo di Sisto III (dal 432), ma i legami tra le due parti
sono numerosi. Lo stesso espediente utilizzato per rendere lo sguardo delle figure penetrante e
animare i volti è reperibile in entrambe le lavorazioni. Si ritiene che gli autori fossero molteplici,
tutti appartenenti ad una stessa squadra: ciò che varia sono i modelli utilizzati per l’una e l’altra
scena. Si è pensato che le scene dell’Antico Testamento fossero ispirate alle miniature dei codici
come quello del Virgilio Vaticano, ma ciò è impossibile, perché le figure sono poste in relazione allo
spazio che occupano nell’edificio. Avvicinandosi al santuario, la scansione narrativa rallenta: la
forma è quindi correlata alla ubicazione, l’ubicazione è connessa con la funzione ed il significato.
Sebbene non siano state copiate dai codici miniati, al di sotto di alcune scene sono state trovate
tracce di disegni preparatori, istruzioni, che non necessariamente sono stati seguiti, come si può
trovare sotto le miniature dei codici. Ciò dimostra che ogni disegno è stato progettato ad hoc. La
somiglianza con queste miniature continua quando le si pone nella loro ubicazione, ovvero a
grande altezza e di conseguenza di difficile lettura. Lo scopo era quello di richiamare, nella mente
dell’osservatore, una sequenza ciclica tipica dei poemi epici, ma questa volta con le storie bibliche.

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Oltre degli avvenimenti epici dell’Iliade o dell’Odissea, vi è un’appropriazione del passato pagano,
trasformando le figure e le composizioni già utilizzate nei sarcofagi romani del III secolo, come
scene di battaglia, di adventus imperiale o di una dextrarum iunctio (stretta di mano cerimoniale
che due sposi facevano al momento del matrimonio) nel caso delle nozze di Mosè e Sefora. Questa
appropriazione nasce dal fatto che Santa Maria Maggiore fu la prima chiesa eretta da un papa,
vescovo di Roma, unica autorità effettiva rimasta nella città, vero e legittimo erede dei Cesari: non
si tratta solamente di una “rinascenza” del tardo IV secolo, ma una contromossa per dimostrare ai
pagani, sconfitti, la superiorità della Chiesa di Cristo.
L’avanzare verso il santuario non parte con la Creazione, ma si concentra solo sulle grandi figure
che nell’Antica Legge furono destinatarie della promessa di Dio al Popolo Eletto. Inoltre, la
narrazione non è cronologicamente accurata, ma organizzata, quando essa rallenta, in modo che
ogni evento sia simbolicamente rilevante: per questo motivo la scena di Melchisedec, re-sacerdote
che offre il pane e il vino, viene immediatamente prima del santuario, come simbolo dell’Eucaristia.
Il motivo centrale dei mosaici nella loro interezza è l’avvento di Cristo quale sovrano universale,
oltre che i temi secondari: quello “mariano” e quello “romano”.
Si può presupporre che la squadra che lavorò in Santa Maria Maggiore fosse straniera,
probabilmente dall’Oriente greco, in quanto si trovano similitudini nelle pose e nella resa di certe
figure con i mosaici pavimentali di Antiochia e Apamea. Tuttavia, l’idea direttiva dev’essere
scaturita localmente, un elemento, dunque, “eterodiretto”. La maniera astratta dell’arco e dei
pannelli più vicini all’arco si ritroverà nei mosaici di Ravenna, un secolo più tardi.

Durante il V secolo emerse la tecnica del tappeto figurato, un tipo di mosaico pavimentale diffuso
in Antiochia che portava all’accettazione della superficie come vettore della composizione, ma con
la perdita di relazioni naturali e organiche in favore dell’astrazione. Infatti, questo periodo fu
particolarmente creativo per la scultura architettonica, sopratutto nella zona egea. Prendiamo
d’esempio i capitelli corinzi: nel secolo precedente, il capitello corinzio mantenne forma e aspetto
di tipo “classico”, la transizione dal cerchio della base al quadrato della cima avviene per mezzo
dell’abaco, elemento quadrato posto sopra un elemento a coppa, la campana. Questa viene nascosta
dalle decorazioni a foglie di acanto rese in profondità. Dalla parte più alta di queste foglie nascono
delle volute su cui poggia l’abaco. Nel IV secolo le foglie sono schematiche, le volute si fondono tra
loro agli angoli dell’abaco. Nel V secolo, invece, verso l’inizio del VI se si parla di Sant’Apollinare
Nuovo, viene aggiunto un nuovo elemento, l’imposta. Inoltre, dalla forma a calice rovesciato e ricco
di elementi naturali, è diventato un blocco, le volute non danno più l’impressione di sostenere
l’abaco, ma di sospensione. Il capitello passa da avere un disegno organico e razionale ad averne
uno astratto ed irrazionale. Queste trasformazioni si concentrarono nella zona dell’Egeo.
L’imposta era già comparsa dal tardo IV secolo, come tronco di piramide rovesciata a sostegno
dell’arco sovrastante, come a Sant’Apollinare Nuovo. Altrove, le imposte sono decorate da motivi
fitomorfi, prima come contorno ad una croce sul lato frontale, poi sull’intera superficie. Con
l’evoluzione dell’imposta, cambiò anche il capitello stesso: andò infatti ad inglobare nella sua
decorazione il capitello ionico, andando a formare il cosiddetto “capitello-imposta ionico”, una
creazione originale del V secolo, ma anche il capitello corinzio, creando il “capitello imposta”.
Quest’ultimo fu il culmine dello sviluppo dei capitelli, si può osservare nell’ordine inferiore della
chiesa dei SS. Sergio e Bacco a Costantinopoli.
Si deve pensare che tali cambiamenti siano “introdiretti”, in quanto non c’è un significato da
formulare o messaggio da trasmettere, semplicemente si tratta di gusti estetici. Come per altri
generi dell’arte del V secolo, tuttavia, si notano tratti in comune, come il progressivo abbandono
delle forme classiche e l’incremento dell’astrazione. Si può concludere che sebbene lo stile sia
introdiretto, gli artisti fossero influenzati dai cambiamenti nei campi spirituale, intellettuale,
sociale e politico.

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Capitolo V – La sintesi giustinianea
Nel 527 salì al trono dell’impero bizantino Giustiniano, aprendo un’era chiamata “Prima Età
dell’arte bizantina”. Questa, infatti, aveva un carattere proprio, ma consisteva in un completamento
della precedente tradizione artistica, più che una innovazione. Una delle maggiori rappresentazioni
dell’arte di questo periodo sono i mosaici nel presbiterio di San Vitale, realizzati intorno al 550.
Il tema principale della composizione è quello dell’Eucaristia, i protagonisti sono il primo
arcivescovo di Ravenna Massimiano, l’imperatore Giustiniano (482-565) e l’imperatrice Teodora
(497-548), i quali vengono raffigurati nei pannelli imperiali nell’abside. L’Agnus Dei funge da
chiave di volta, mentre rappresentazioni di modelli biblici di offerta e sacrificio percorrono le due
pareti laterali. Al contrario di Santa Maria Maggiore, la veduta del piano di Dio per la redenzione
dell’uomo va afferrata immediatamente, non occorre percorrere la serie. Vi sono rappresentazioni
di coloro che furono i principali portatori del progetto divino, come Mosè, che viene raffigurato tre
volte. Sono rappresentati anche evangelisti, apostoli e altri profeti e santi. Cristo appare nella conca
dell’abside assiso in un paesaggio paradisiaco, a fianco, compare il vescovo Ecclesio, il quale fece
cominciare la costruzione di San Vitale tra 526 e 530.
Le composizioni sono quadri nei quali lo spazio è tutto riempito da vegetazione e dai personaggi,
raffigurati come figure isolate, ma in pieno movimento. Il colore predominante è il verde. I pannelli
verticali con gli evangelisti sono emblemata: i quattro uomini sono seduti in paesaggi rocciosi, che
ricordano la lunetta del Buon Pastore nel mausoleo di Galla Placidia. La differenza sta nello sfondo,
l’orizzonte è posto nella parte più alta del mosaico, rendendo il paesaggio una sorta di fondale o
sipario dietro alle figure, fornendo all’intera composizione un carattere quasi astratto, dato anche
dalla posizione degli attributi simbolici (angelo, bue, aquila, leone), posti in alto senza un solido
appoggio. Anche le scene di Abramo sono caratterizzate dall’astrazione: tutti gli elementi, infatti,
sembrano appesi ad un fondale e sembrano non fare parte di un’ambientazione razionale. Si tratta
di uno pseudo-emblema, ovvero non più finestre che sfondano la superfici, ma rappresentazioni
figurative con cornice, ma senza una vera profondità, la superficie rimane intatta, l’uniformità
viene mantenuta dalla distribuzione su tutta la superficie di elementi naturali, di movimento e
crescita, l’impressione è quella dell’horror vacui. Il vero emblema è la composizione nella conca
dell’abside, dove siede Cristo. La corte di Cristo, con due angeli, San Vitale ed Ecclesio, è posta al di
là di una pesante banda ornamentale con decorazione di cornucopie verdi e blu. La materialità del
terreno viene messa in dubbio dalla sfera del cielo su cui siede Cristo, sebbene l’ambientazione
naturale sembra essere plausibile.
Le due scene imperiali sono tableaux compiuti in se stessi, ciascuno con la propria ambientazione.
Questi sono così diversi da tutti gli altri mosaici da sembrare di un’altra datazione, ma la differenza
è stata ottenuta di proposito, in modo da distinguersi sia dalla scena del paradiso celeste, sia da
quelle bibliche: le figure, compatte, formano una sorta di muro compatto, appartengono ad un
mondo diverso. Il “modo” riservato al mondo del sovrano terreno vede la predominanza di
geometria, ordine ed astrazione. Sebbene sembrino immobili, i due gruppi imperiali sono in
movimento verso l’abside. Il potere di Giustiniano viene messo in secondo piano da quello di
Massimiano, unica figura il cui nome è inscritto, posto in primo piano rispetto all’imperatore, ma
anche e contemporaneamente dietro di lui, posizione simbolica del potere condiviso e non assoluto
dell’imperatore.
Si può pensare che l’artista che realizzò i mosaici di San Vitale provenisse dall’Oriente greco, dove
sono riscontrabili sviluppi antecedenti. Si parla dei mosaici pavimentali puramente ornamentali:
all’inizio del VI secolo, nelle chiese del mondo greco, il pavimento delle navate presentava una
grande varietà di uccelli, animali e piante all’interno di motivi geometrici, questi ultimi ripetitivi, in
modo che l’intero tappeto potesse essere espanso potenzialmente all’infinito. Un esempio è il
pavimento del nartece (vano trasversale posto a stretto contatto con la facciata) di una basilica di
Delfi, risalente al 500 circa. Esso è caratterizzato, come molti mosaici in tutto il Vicino Oriente, da
motivi floreali e non più geometrici, ma severamente stilizzati, tanto da svilupparsi, in altri mosaici,
in griglie floreali abitate da figure organiche. Questi “rinceaux” abitati erano già stati moduli di
base di pavimenti in Italia e in Africa settentrionale, ma per zone orientali come Palestina e Siria
costituivano nel VI secolo una moda nuova.
Il pavimento antiochiano dello “Striding Lion” databile tra la fine del V e l’inizio del VI secolo è
brulicante di vita, ma è anche particolare grazie alla posizione del leone centrale e degli animali che
riempiono la griglia: il grande felino è al centro, sovrapposto al motivo della griglia, mentre i

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volatili e gli altri elementi nella griglia guardano in quattro direzioni diverse, rendendolo un
mosaico multidirezionale che si può espandere all’infinito. Questo in particolare, però, è chiuso da
una cornice. Da questo periodo in poi, l’utilizzo dell’elemento focale divenne sempre più in voga.
Lo pseudo-emblema, come a San Vitale, si trova anche nei mosaici pavimentali di Nicopoli
(Bulgaria), dove i rapporti reali tra gli elementi naturali sono stati ristabiliti, dentro ad una cornice.
Il desiderio dell’artista era quello di ristabilire una veduta naturale delle cose e racchiuderla entro
limiti chiari e ragionevoli. Questo processo, tuttavia, era limitato al mondo dell’Oriente greco.
Tornando a San Vitale, ci si concentri sul mosaico del soffitto con la visione dell’Agnus Dei: quattro
angeli reggono la ghirlanda che contiene l’Agnello, da cui partono quattro bande diagonali, le quali
accentuano forma e funzione strutturale della volta a crociera. Il motivo degli angeli era comparso a
Ravenna qualche decennio prima, quindi si può pensare che l’artista di San Vitale abbia citato
queste opere precedenti, ma trasformando le proporzioni e ponendo le figure in una decorazione
floreale. Le bande floreali di supporto a decorazioni a volta, invece, erano tradizionali.

La basilica dei SS. Cosma e Damiano a Roma (526-530) a Roma custodisce un monumentale
mosaico nell’abside con Cristo come figura centrale: vestito d’oro, domina dall’alto del cielo di un
colore blu scuro, camminando sopra nuvole multicolori. In primo piano, su un prato verde, stanno
i principi degli apostoli e i due santi Cosma e Damiano, assieme al papa fondatore Felice IV e san
Teodoro. Il mosaico riflette le tendenze generali del suo periodo. Le figure sono statiche, ma sono
entità organiche che usano lo spazio liberamente: la scena -la parousia di Cristo- è solenne,
immediata, travolgente. I volti dei personaggi sono vigorosamente modellati, i grandi occhi
sgranati straboccano di potenza senza tempo, come quello dell’imperatore Giustiniano a San Vitale,
eseguito vent’anni prima.

Le caratteristiche principali dei mosaici di San Vitale si trovano anche negli avori, in particolare in
quelli di origine greca orientale: il più lussuoso esempio di prodotto eburneo conservato dal VI
secolo è la decorazione della cattedra episcopale del vescovo Massimiano (547 ca.), di produzione
non ravennate, sicuramente la scuola che lavorò a quest’opera proveniva dall’Oriente greco. Le
scene raffigurate riguardano la storia di Giuseppe e, in ventiquattro campi oblunghi, la vita di
Cristo. Sono raffigurate anche le figure dei quattro evangelisti e di Giovanni Battista con l’Agnello
di Dio. Inoltre, non mancano le cornici a bande intagliate con rinceaux a vite. Tutti questi elementi
vanno a negare la struttura compositiva, l’impressione è ancora una volta quella di horror vacui. I
tre pannelli di Giuseppe, i pannelli evangelici con i rinceaux a vita sopra e sottostanti, ovvero gli
elementi di cornice, hanno ombre più profonde, meno sostanza e più effetto a giorno di quanto non
abbiano i rilievi posti entro le cornici, accentuando la distinzione tra quadro e cornice. Tuttavia,
l’unitarietà della cattedra intera non si può negare: le figure assumono la posa del contrapposto,
nella quale il peso poggia su una gamba sola, portando la testa e le spalle ad abbassarsi, i corpi
diventano delle curve a S. Il movimento ondulatorio si ripete in tutte le scene, collegandole tra loro.
Gli avori, sotto questo aspetto, sono più classicheggianti dei mosaici, oltre che più organicamente
integrati.
Un secondo avorio dello stesso periodo (540) è il Dittico Barberini, del tipo “a cinque parti”,
conservato al Louvre. Si tratta di un’opera dell’ambito dell’arte imperiale profana raffigurante
l’imperatore a cavallo. È possibile che questo tipo di avorio, in voga nel V secolo, fosse riservato
solamente a committenti imperiali. L’imperatore è scortato da un barbaro acclamante, da una
Vittoria in volo e da Terra ai suoi piedi, mentre nella banda orizzontale inferiore sono
rappresentate varie nazioni esotiche. Nel pannello superiore è visibile il busto di Cristo sostenuto
da due angeli. L’altra metà del dittico è andata persa. Datando l’opera nello stesso periodo della
Cattedra di Massimiano, si evince che l’imperatore in questione è Giustiniano, e che possa essere
stato realizzato nello stesso atelier, viste le numerose similitudini come il modo di intagliare gli
occhi ed il movimento ondulatorio delle figure. Soltanto il pannello centrale è considerato
“quadro”, mentre gli altri ne sono la cornice. Una particolarità è la scelta di intagliare una scena in
movimento, poiché solitamente le immagini centrali erano statiche: il mantello dell’imperatore sta
svolazzando, la Terra lo aiuta a scendere da cavallo ponendo una mano sotto il suo piede, la lancia è
conficcata nel terreno. L’unica figura in stato di quiete è Cristo, ma è anch’esso parte di un’azione,
in quanto l’angelo di sinistra risponde con la testa al movimento del sovrano. Inoltre, l’apparizione

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di Cristo coincide con l’avvento di Giustiniano a cavallo, vi è armonia tra regno celeste e regno
terreno.

L’ideale estetico degli artisti del periodo giustinianeo, dunque, erano la completezza e l’unitarietà
in termini di continuità fisica (posa del contrapposto) e di interconnessioni fisiche (Massimiano e
Giustiniano nei mosaici di San Vitale). Presentavano l’ordine divino sotto le sembianze dell’ordine
naturale.

Capitolo VI – Polarizzazione e nuova sintesi (Parte I)


Intorno al 550 l’ideale estetico del periodo giustinianeo era già arrivato alla sua fine, in quanto la
riconciliazione di forme e rapporti di tipo astratto con forme e rapporti organici poteva essere
raggiunta solo da artisti molto esperti. Il periodo successivo è caratterizzato dalla crisi dell’impero
giustinianeo, dalle invasioni di Slavi e Arabi, oltre che da continue mutazioni degli stili artistici.
Sono i mosaici a mostrare un netto cambiamento, in particolare quelli della chiesa del monastero di
Santa Caterina sul Monte Sinai (Egitto, 548-565): il tema della decorazione della conca absidale è
la Trasfigurazione, richiamando la figura di Mosè e associandola a quella di Cristo. Le figure sono
isolate, non hanno elementi a contrastare il piatto sfondo dorato, il terreno è ridotto a sottili bande
cromatiche. I personaggi sono posti con simmetria, solamente i profeti sembrano poggiare i piedi
sul terreno, Pietro è addirittura davanti ad esso: tutti sono fortemente in contrasto con lo sfondo
oro, anche le iscrizioni sono in caratteri imponenti. A destra del capo di Elia (a sinistra della
composizione) rimane una di quelle ombreggiature profonde che erano state usate a San Vitale per
distinguere una figura dallo sfondo paesaggistico, sebbene ora sia su uno sfondo neutro. Si tratta di
una testimonianza del mutamento stilistico in corso. La cornice del “quadro” va quasi a perdersi
nella forte riduzione dell’elemento paesaggistico, come anche la banda con l’iscrizione di dedica.
Non si avverte più il desiderio di creare una netta distinzione. Si pensa che gli artisti provenissero
da Costantinopoli, sicuramente da fuori, in quanto il Monte Sinai è un avamposto assai remoto in
cui porre un atelier.
Il mutamento artistico a Ravenna si avverte nelle decorazioni dell’abside di Sant’Apollinare in
Classe (549): esse descrivono l’apoteosi di Sant’Apollinare, primo vescovo di Ravenna, insieme alla
Trasfigurazione, questa rappresentata in chiave allegorica come in chiave simbolica. Un tratto in
comune con San Vitale è la scelta di inserire mosaici nella zona delle finestre, ma con cambiamenti:
essa viene riservata alle figure, la sua funzione strutturale e di supporto è meno chiara. Lo sfondo
del mosaico della conca è un paesaggio, più elaborato di quello del Sinai, si espande in altezza fino
all’incontro con una distesa dorata. Ogni elemento organico è posto in un ordinato allineamento
per file, come per i pavimenti musivi del V secolo. La superficie bidimensionale predomina. Sia il
mosaico del Sinai che quello di Sant’Apollinare in Classe differiscono da quello di San Vitale,
testimoniando il mutamento in atto intorno al 550 che riprende i principi astratti del disegno in
voga intorno al 500.

L’astrazione è forte nei mosaici di Sant’Agnese fuori le Mura, a Roma (625-38): le tre figure isolate,
vestite di vesti purpuree, si ergono come colonne verticali su uno sfondo dorato. L’intera superficie
è organizzata da principi geometrici: il terreno è ridotto ad una striscia verde senza profondità, il
cielo è composto di bande concentriche, le tre figure suddividono la superficie con rigida
simmetria. Queste sono totalmente subordinate al modulo di superficie, la loro resa non dà l’idea di
una presenza corporea tangibile e autonoma. Sant’Agnese ha il corpo allungato, la testa minuta ed
il volto di un cereo biancore: bidimensionalità, linearità e geometria diventano positivi principi di
composizione. Come i santi ed i martiri, anche la Vergine venne raffigurata in posizione focale, in
solenne isolamento. Si pensi al mosaico dell’abside della chiesa della Dormizione (morte di Maria)
a Nicea (Turchia), realizzato nel periodo successivo all’Iconoclasmo. Sebbene risalga al IX secolo, la
figura della Vergine presenta dettagli dell’arte anteriore a questo periodo, come la posizione ed il
contesto tematico. Come nei templi greci con le statue degli dei e delle dee, ora Cristo, la Vergine ed
i santi venivano posti dinanzi al fedele in assoluto isolamento.
Nacquero in questa atmosfera di nuova religiosità i pannelli votivi in legno, trasportabili o installati
stabilmente sulle pareti delle chiese, ad un’altezza accessibile agli occhi dei fedeli, così che si
potesse avere un rapporto diretto col santo. I mosaici della chiesa di San Demetrio a Tessalonica
(Salonicco, Grecia), risalenti al VII secolo, esemplificano questa pratica: essi rappresentano il santo

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patrono con diversi dignitari, insieme a due santi e due bambini. Trionfano la geometria e
l’astrazione, le proporzioni sono austere, le teste piccole posano su corpi allungati, prevale il
verticale e le figure sono in stretta subordinazione con la planimetria generale. Nel corso del VII
secolo e durante l’Iconoclasmo si raggiunse l’idea che l’immagine fosse in rapporto trascendentale
con la santa persona che rappresentava: non era più un mezzo di istruzione per gli illetterati, ma
istituiva un collegamento con il soprannaturale. Per questo non serviva più elaborare i tratti fisici
dei santi, in quanto il desiderio di pregare e di comunicare era fortissimo. Nel VII secolo, quindi, si
raggiunse l’estrema astrazione e smaterializzazione.

Tuttavia, il VII secolo non conobbe un unico stile. All’inizio del XX secolo vennero trovate
suppellettili argentee con rilievi mitologici a sbalzo e punzonatura, la quale garantiva la qualità. Per
molto tempo si è pensato risalissero all’antichità, ma un’analisi della punzonatura le datò nel
periodo compreso tra la fine del V e la seconda metà del VII secolo. Gli artigiani bizantini, dunque,
seppero produrre opere sufficientemente classiche da passare per prodotti dell’epoca di Adriano o
Marco Aurelio. Bisanzio non aveva mai rinnegato i miti dell’antichità. Oggetti di questo tipo, con
soggetti come Dioniso ed altri dei antichi, erano privilegiati da ricchi acquirenti. È possibile che a
Costantinopoli ci fossero botteghe metallurgiche specializzate in raffigurazioni di menadi danzanti
e Sileni paffuti nello stile tradizionale. Per questo motivo la realizzazione era diventata
approssimativa e semplificata, come fosse di routine: questi segni rivelatori nello stile dei rilievi
portano a pensare che non si tratti di prodotti antichi, ma appartenenti ad una “antichità
bizantina”. La produzione di argenti di soggetto classico classicamente eseguiti non fu regolare nei
secoli, ma ebbe moti di flusso e riflusso, riconoscibili in due fasi principali: la prima fu quella del
tempo di Giustiniano, un’epoca assai interessata al passato greco-romano; la seconda risale al
periodo di Eraclio e Costante II (VI-VII secolo). Un piatto argenteo raffigurante Meleagro (613-29),
conservato oggi all’Ermitage, suggerisce l’idea di una mano che pratica una tecnica bel consolidata,
in piena confidenza. Esso è testimone della corrente chiamata da Kitzinger “ellenismo perenne”
nell’arte bizantina. Si metta a confronto con un altro rilievo coevo raffigurante Davide su un piatto
argenteo: le punzonature dimostrano la sua appartenenza al periodo di Eraclio e fu trovato a Cipro.
L’esecuzione di Davide, rispetto a Meleagro, è più elaborata, meno libera, i tratti del volto ed i
capelli sono definiti in modo preciso. Tale cura dei dettagli richiama l’arte del IV secolo, si tratta
dunque di uno sforzo per recuperare forme di un lontano passato: un revival classico dell’epoca di
Eraclio, una innovazione stilistica “eterodiretta”. La scelta di temi e soggetti classici era presa per lo
più nell’ambito delle corti imperiali, in particolare da parte di sovrani illegittimi: lo stesso Eraclio
era un usurpatore e nei piatti di Davide, giovane re di Israele, si possono leggere le imprese di
quest’ultimo, che rovesciò il terribile Foca.

Un altro monumento artistico connesso alla corte imperiale di Costantinopoli è un mosaico


pavimentale risalente al VII secolo o addirittura al 700. Esso raffigura motivi di caccia, pastorali e
altri di carattere rustico, ricorda i tappeti figurati di V secolo, ma le figure sono tridimensionali,
permeate di tradizione ellenica molto più di quelle antiochiane.

Capitolo settimo – Polarizzazione e nuova sintesi (Parte II)


Nel 1900 venne scoperta la chiesa di Santa Maria Antiqua nel Foro Romano, testimone grazie ai
suoi affreschi di una forte corrente ellenistica nella pittura religiosa dei secoli VII e VIII. La chiesa
risale al VI secolo, ma gli affreschi hanno datazioni diverse. In alcune opere del VII secolo appare
un audace stile impressionista, come nel pannello di Solomone, madre dei sette Maccabei,
raffigurati con lei e il loro tutore Eleazaro in uno dei pilastri della navata. La figura di Solomone si
erge dritta fra i figli, che invece assumono positure sciolte. Sullo sfondo, il cielo, diviso in due zone
orizzontali, ed il terreno. Nulla dei corpi è delineato nettamente: sono i contrasti di sfumature
cromatiche a dare forma ai volti e agli abiti. La pittura richiama quella greco-romana del I secolo
d.C. Si presuppone che gli artisti provenissero dall’Oriente greco. Sulla parete del “Palinsesto”, a
destra dell’abside, si trovano resti di diverse decorazioni sovrapposte: il primo strato risale al VI
secolo, fu coperto da due scene dell’Annunciazione nelle quali la Vergine indossa un costume di
corte bizantino, le quali furono coperte a loro volta da decorazioni di papa Giovanni VII (705-707).
La realizzazione delle pitture dei Maccabei, come quella dei piatti argentei bizantini, dimostra una
manualità implicita in una tradizione viva, non un consapevole sforzo di emulazione dei modelli di

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un antico passato. La coincidenza cronologica tra gli argenti a rilievi mitologici del periodo di
Eraclio e gli affreschi così ellenistici di Santa Maria Antiqua è significativa.
Vi sono similitudini con un mosaico del VII secolo rinvenuto a Istanbul, in quella che oggi è la
Moschea di Kalenderhane, raffigurante la Vergine che porge il bambin Gesù al sacerdote Simeone.
Quest’ultimo è reso con la giustapposizione di scarti chiaroscurali, assimilabili alle figure dei
Maccabei romani. In questo periodo, l’arte religiosa della capitale era profondamente influenzata
dalla corrente classica. Tutte le figure di entrambe le opere sono come evanescenti, privi di
sostanza, come se fossero soffuse di luce e d’aria. L’impressionismo crea l’illusione delle presenza
corporee e, al tempo stesso, le trasfigura, lo stesso scopo che aveva anche l’astrazione. Il
trattamento impressionistico fu riservato anche alle figure degli angeli in un affresco di fronte a
quello dei Maccabei, raffigurante l’Annunciazione: gli angeli furono sempre rappresentati come
esseri spirituali, senza corpo, era il “modo” in cui venivano realizzati.
Il “modo” è l’impiego convenzionale di una particolare maniera stilistica in collegamento con un
particolare soggetto o tipo di rappresentazione.
Nella stessa chiesa fu dipinta, al livello dell’osservatore, un’icona raffigurante sant’Anna con Maria
Bambina in braccio: l’artista che realizzò questo affresco doveva avere, come per i Maccabei e
Solomone, una padronanza della tecnica impressionistica. Mentre Solomone venne ritratta come
una presenza evanescente, trasparente, sant’Anna è una concreta presenza corporea, resa con lenti
e graduali passaggi dal bruno al rosa chiaro.

Una seconda icona trattata con la tecnica impressionista appartiene ai tesori del monastero del
Sinai (Santa Caterina) ed è una vera e propria immagine votiva portatile: le figure sono quelle della
Vergine in trono con Bambino fiancheggiata da due santi in costume di corte e due angeli sullo
sfondo. Questi ultimi sono creature di luce ed aria, esempi di come è sopravvissuta la tradizione
ellenistica, mentre Vergine e Bambino hanno più sostanza, anche se furono dipinti dallo stesso
artista. San Teodoro, a sinistra, ha grandi occhi fissi sull’osservatore e indossa un manto di qualità
vitrea, sembra, insieme all’altro santo, una colonna, realizzato con uno stile astratto. È possibile
datare l’icona alla prima metà del VII secolo. Essa è testimone di come uno stesso artista possa
modulare il proprio stile all’interno di un’unica opera per adeguarsi ai soggetti differenti.
Con il tempo prevalse la realizzazione dei corpi incarnati e con più volume, ma si continuò ad
utilizzare l’impressionismo ellenistico per modellare forme solide e massicce, come nella scena
dell’Annunciazione nella navata: la figura dell’angelo è tutt’altro che incorporea, il modo è stato
messo da parte. Questa Annunciazione, realizzata nel periodo di Giovanni VII, andava a sostituire
un’altra scena identica, ma con figure grandi e massicce. Il lavoro di papa Giovanni VII riflette uno
sviluppo interno dell’arte bizantina, in quanto egli era figlio di un alto dignitario bizantino a Roma.
L’impressionismo è tipico anche dei busti degli apostoli nei medaglioni sui muri laterali del
presbiterio: le figure sono solide ed imponenti, hanno grandi occhi bruni fissati sull’osservatore,
affinità riscontrabile nel primo periodo giustinianeo, per esempio nella testa di San Pietro nel
mosaico absidale della chiesa dei SS. Cosma e Damiano (526-530).
San Pietro è raffigurato anche in un’icona al Monte Sinai, che Kitzinger data intorno al 700, in
quanto presenta un ideale di monumentalità naturalistica: una tecnica pittorica così raffinata (nel
tratteggio delle vesti e della chioma) non può datarsi anteriormente. L’uso di espedienti
impressionistici per creare una figura di grande volume, potenza e solennità può essere spiegato
come reviviscenza giustinianea, piuttosto che essere collocata al tempo di Giustiniano stesso. Coevo
a San Pietro, un altro ritratto del Sinai, questa volta di Cristo: lo caratterizzano solidità, tangibilità
e monumentalità, la quintessenza dell’icona.
Anche la numismatica conobbe un revival giustinianeo: Costantino IV (668-85) volle una riforma
che comportò un ritorno a tipi e disegni non più usati dai tempi di Giustiniano. I disegni delle
monete venivano prodotti esclusivamente a Costantinopoli. Tornarono così le immagini con busto
adornato di elmo, corazza e scudo. Nelle monete dal 680 in poi si può osservare una rigenerazione
anche stilistica: volti e lineamenti sono modellati con attenzione, la figura è di tre quarti. Con il
figlio, Giustiniano II, viene realizzata la figura di Cristo sul recto (fronte) delle monete, al posto
dell’imperatore. Il busto è un’accurata replica su piccola scala di una figura pienamente modellata
in pittura o in rilievo. La fonte ultima che ispirò queste rappresentazioni di Cristo è da rintracciare
nello Zeus Olimpico di Fidia, presenza autorevole e benigna insieme. Cristo è rappresentato in

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termini di umanità idealizzata, come gli dei greci: ancora, risorgimento dell’ellenismo. La stessa
immagine venne reintrodotta dalla zecca bizantina dopo l’Iconoclasmo (fine nell’anno 843).
La tradizione classica si ripropose a Bisanzio nell’arte religiosa nel VII secolo, dopo che
l’allontanamento dalla forma e dagli ideali del mondo classico dovuto all’astrattismo aveva
caratterizzato il periodo tra VI e VII secolo, spinta iniziata nell’ultimo decennio del regno di
Giustiniano (527-565).

Epilogo
Lo stile ellenistico, per quanto sia stata una scelta “eterodiretta” di personaggi potenti, si è
mantenuto vivo grazie all’abitudine di utilizzare questo stile come “modo” di rappresentare certi
soggetti. Tuttavia, si trattò di un ampio e lento processo di evoluzione formale dotato di un fervido
slancio suo proprio. I committenti non facevano che alimentare tendenze già in atto, fecero da
“catalizzatori”. Il committente che ordina lo stile rappresenta gli interessi sociali, politici e religiosi
che quel dato stile esprime, ma anche i moti “introdiretti” erano intimamente legati a problemi e
aspirazioni sociali e spirituali dell’artista.
La forma è sempre reazione a forme precedenti, si costruisce sulle fondamenta del passato, non si
plasma da problemi extra-artistici, politici o religiosi.
Nei cinque secoli analizzati nel libro, si può trovare il filo conduttore dell’eredità greco-romana,
della quale rimasero elementi essenziali e basilari, nonostante i profondi mutamenti avvenuti.

Mente e metodologia di Kitzinger


Ernst Kitzinger procede per introduzione, tesi, antitesi e conclusione. La parte di tesi ed antitesi è
moltiplicata in ogni capitolo: analizza una tesi, senza dare subito il suo parere, per poi concludere
dicendo che tale ipotesi è insensata o impossibile, procedendo con la propria interpretazione dei
fatti, senza però darla per assoluta verità. Infatti, spesso giustifica un’ipotesi dicendo: “Visti i dati
trovati fino ad ora, in futuro potrebbero aumentare e alimentare tutt’altra tesi”.

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