Sei sulla pagina 1di 26

OPERA

Per opera si intende un tipo di spettacolo teatrale in cui l’azione drammatica si manifesta attraverso la
musica e il canto. Diversa è la configurazione che tale spettacolo ha assunto nel corso della sua storia
plurisecolare. L’opera può definirsi come un dramma interamente cantato e strumentato, anche se
l’organico può cambiare e con tali premesse si differenzia da altre forme di teatro musicale.

Per la produzione dell’opera è necessario che:

1. Un poeta appronti un libretto, cioè inventi una fabula.


2. Un compositore elabori una partitura che risponda alle esigenze del testo.
3. Uno scenografo allestisca una serie di scene.
4. Degli interpreti.
5. Un direttore d’orchestra.
6. un direttore di scena.

Sono poi necessarie altre due figure: finanziatore, che investe del denaro per acquistare o affittare la sala,
per ingaggiare gli artisti, e pubblico, che assisti alla rappresentazione.

Lo spettatore è sia il destinatario dell’opera che un soggetto attivo, un vero e proprio “coproduttore” dello
spettacolo.

Un'altra polarità incide sul prodotto operistico: la “pubblica autorità”, ossia il potere politico, che controlla i
contenuti e può intervenire sulla produzione degli spettacoli. Infatti per secoli il teatro è stato un veicolo
attraverso il quale definire determinati codici etici, comunicativi e comportamentali.

I singoli artefici dello spettacolo sono condizionati dal contesto produttivo, dal contesto rappresentativo
proprio del teatro, dal contesto recettivo.

Quando si parla di fenomeno operistico occorre fare una distinzione tra oggetto-opera, intesto come
prodotto specifico, e un oggetto-teatro d’opera, intesto come insieme dei processi produttivi e fruitivi. Si
può parlare di opera come testo e opera come sistema. L’oggetto-opera si fonda sul montaggio e
l’interazione di sistemi espressivi molteplici e di natura endogena: un sistema verbale, uno musicale, uno
scenico. Ogni sistema possiede una propria autonomia sotto il profilo della materia d’espressione e rimanda
a una serie di sott’insiemi. Tali sistemi non sono tuttavia autosufficienti, in quanto devono essere tra loro
coordinati e integrati in vista dello spettacolo. Si può quindi affermare che l’opera è un testo sincretico
composto da più testi parziali di differente materia espressiva, dove per testo s’intende ogni unità di
discorso verbale.

Ne consegue che : il librettista non concepisce il testo come un manufatto chiuso in se stesso, ma
predispone materiali letterari in funzione dell’intonazione musicale e delle esigenze della scena; a sua volta
il musicista organizza l’assetto sonoro in risposta allo stimolo del testo e in previsione dei cantanti. Questo
comporta che il prodotto finito sia molto di più di una semplice somma delle parti.

Il testo verbale e quello musicale costituiscono degli insieme dal punto di vista semiotico ma sono anche dei
testi scritti in senso proprio, ossia libretto e partitura.

MUSICA
Nell’opera la musica è il requisito caratterizzante e costitutivo. Tale centralità si esplica in più livelli: l’opera
è il tipo di dramma che è determinato da cima a fondo dall’espressione musicale; il testo musicale funziona
da baricentro e forza centripeta dello spettacolo, fissa l’intonazione degli interpreti e la durata temporale
degli eventi drammatici, nonché contiene alcuni specifici suggerimenti riguardo ai gesti, emozioni,
movimenti; il testo musicale costituisce il primari oggetto estetico dello spettacolo.

Il libretto subisce una profonda metamorfosi: perde completamente il controllo del sostrato verbale perché
la parola cantata non si organizza più secondo i parametri del codice linguistico, bensì secondo quelli del
codice musicale. Anche il senso delle parole non rimane quello concepito in origine dal librettista: il
compositore può intervenire sulle strutture temporali dell’azione.

Nella parola “musica” coesistono fin dalle origini almeno due accezioni che rimandano a moduli tecnico-
stilistici: c’è la musica del recitativo, in cui l’assetto sonoro si modella direttamente sul testo verbale; e la
musica dell’aria dove l’assetto sonoro organizza secondo le proprie regole il testo verbale. Il rapporto tra
recitativo e aria si modifica in maniera rilevante, così come quello tra librettista e compositore. Più ampio è
lo spazio destinato al recitativo, più il poeta può considerarsi il vero autore dell’opera e la musica un
addobbo del dramma.

L’opera è nata proprio perché si riteneva che la musica potesse potenziare dal punto di vista espressivo i
valori della parola e potesse muovere gli affetti dell’animo umano. Tale scelta implicava l’idea che la musica
fosse portatrice di un valore aggiunto, di un significato di per sé. Con il progressivo emergere dei generi
strumentali nel corso del Seicento, la musica acquista più coscienza dei propri mezzi e della sua autonomia
dal punto di vista estetico, fino a giungere nel tardo settecento al completo ribaltamento nell’ambito della
gerarchia dei generi: il primato riconosciuto alla musica vocale, passa ora alla musica strumentale.

La musica inoltre comunica attraverso figure o unità significative discrete che emergono a tratti dal flusso
sonoro. Ci sono figure individuabili sulla base delle loro intrinseche regole sintattiche e dotate di un
significato assai generico: si tratta di strutture endogene impiegate nell’ambito di una partitura e il cui
senso vale solo per un compositore; figure più semplicemente individuabili dall’ascoltatore in quanto
stereotipi compositivi rinviabili a un codice condiviso, i cosiddetti “topoi esogeni”, ossia formule tradizionali
tramandate da una generazione di compositori.

Funzioni della musica nell’opera


Il compositore non si limita a trasporre il sostrato verbale del dramma, così come p fissato nel libretto, ma
mira a interpretare musicalmente anche il sottotesto. La musica può aderire a questi differenti livelli dello
spettacolo o a sua volta svolgendo tre funzioni principali:

1. funzione mimetica o corroborativa: e la funzione di base della musica nell'opera e quella di più
antica data. Questa funzione comprende una serie di sotto funzioni, tra cui le seguenti:
- funzione espressiva: può evidenziare ciò che un personaggio dice, che ne rivela lo stato d'animo
in relazione ad una determinata situazione drammatica. Può adoperare specifiche tecniche per
enfatizzare alcune parole o frasi del testo: una ripetizione di parole, un virtuosismo vocale, uno
scarto di metro, di dinamica, di andamento melodico, di ritmo armonico.
- Funzione fisiognomica: figure musicali soprattutto di tipo endogeno o anche topoi stilistici
possono essere utilizzati per caratterizzare tanto lo status sociale di un personaggio quando un
suo tratto peculiare. Una melodia particolarmente ornata, di tipo virtuosistico, può essere
impiegata in un contesto comico.
- Funzione identificativa: determinate figure musicali possono essere utilizzate per identificare
personaggi o oggetti.
- Funzione performativa: particolari figura vengono utilizzate per accompagnare o realizzare
musicalmente determinate azioni, per lo più cerimoniali o rituali.
- Funzione referenziale: alcune figure, realizzate in orchestra, possono essere utilizzate in senso
onomatopeico, ossia per imitare alcuni fenomeni naturali..
- Funzione cinetica: si possono sfruttare determinati sincronismi tra strutture sonore ealcuni
elementi vettoriali della partitura scenica (profili melodici e movimenti/gestualità).
- Funzione infradiegetica: uso della musica in scena o del canto realistico, ossia di quei brani che
anche nel teatro di parola sarebbero accompagnati dalla musica; questa funzione svolge un
ruolo particolare nel contesto operistico.

2. Funzione diegetica o di commento: il compositore si trasforma in una sorta di narratore che sa


molto di più dei personaggi stessi: può penetrare nel loro animo, leggere i loro pensieri. È possibile
individuare anche una serie di sottofunzioni:
- Funzione ironica: alcune figure possono essere impiegate per contraddire ciò che afferma un
personaggio o per svelare qualcosa che il personaggio stesso ignora.
- Funzione relazionale: mediante alcuni elementi ricorrenti il compositore può stabilire una serie
di relazioni tra parti diverse dell’opera.
- Funzione di focalizzazione: il compositore può ottenere effetti di primo piano tramite il ricorso a
un’orchestrazione selettiva.
3. Funzione articolatoria o organizzativa: la musica assolve nell’opera non solo compiti drammatici ma
anche strutturali, dal momento che è in grado di creare forme idonee a dar coerenza alla
composizione. Ci sono una serie di sottofunzioni:
- Funzione congiuntiva: mediante un ventaglio di tecniche il compositore può organizzare le
forme musicali in vasti quadri unitari e connettere eventi drammatici tra loro separati.
- Funzione demarcativa: accentua la separazione tra un evento drammatico e l’altro.
- Funzione temporale: attraverso le forme musicali il compositore stabilisce la durata di singoli
eventi del dramma.

Oltre queste funzioni sono presenti altre che la musica assolve per aderire al dramma:

- Funzione poetica: si tratta della funzione che privilegia il messaggio artistico in se rispetto al suo
contenuto referenziale.
- Funzione conativa: casi in cui la musica esercita una pressione sullo spettatore, così da
influenzare un suo modo di pensare o un comportamento.

Tipologie di musica operistica


Musica a sipario chiuso: ouverture (pezzo che introduce l’opera nel ‘700 serve ad abbattere il rumore di
fondo, nell’’800 tende a far entrare nel dramma anticipando temi e scene del dramma stesso, intermezzi
(es cavalleria rusticana)

Musica come finzione: finzione che poi per la sospensione dell’incredulità tendiamo a vedere come cosa
naturale. Una volta che si entra dentro la finzione, il fatto che si canti invece di parlare diventa una cosa
abbastanza naturale.

Musica “in scena” o “di scena” (pezzi musicali realistici, che verrebbero cantati anche nel teatro di parola,
che fa parte della vicenda es balletti, serenate, cori), o “fuori scena” (musica “da dentro”, effetti sonori
esterni ma che hanno effetti devastanti sulla psiche dei personaggi).

VOCALITÀ

Triangolo vocalico: tipico VOCALE tipico nell’opera seria del ‘700: di solito tre personaggi principali e una
storia d’amore contrastato tra un soprano (figlia) e contralto (amante: o cantante castrato o una donna
travestita in abiti maschili). Questo triangolo favoriva molto la spinta verso l’acuto della voce perché erano
cantanti molto virtuosi. Il tenore (voce maschile acuta) faceva da antagonista, solitamente il padre che
contrastava l’amore tra la figlia e l’amante.
Nell’800 in cui si assiste a un maggior realismo dell’opera, con Rossini c’è ancora la figura del contralto, con
Bellini e Donizetti si impone la figura del tenore come amante del soprano. Il baritono fa da antagonista.

Il tenore: soprattutto tra Rossini e la generazione successiva avviene una rivoluzione anche nel tipo di
tenore. Rossini rimane legato alla figura del contralto, ma anche quando c’è il tenore come amante o due
tenori in competizioni per una donna. Il tenore di Rossini era leggero perché aveva un canto con molti
vocalizzi e quindi ci voleva una voce agile e leggera.

Donizetti in particolare cambia il volto al tenore, in parte già Bellini lo aveva fatto il quale voleva un tenore
più drammatico rispetto a quello più leggero e ornato.

TIPI DI CANTO:

canto spianato (sillabico ): una nota per sillaba. Canto di Donizetti.

canta ornato (melismatico): molti vocalizzi, molte note per una sola sillaba. Canto di Rossini.

STILI DI CANTO:
Recitativo semplice (o secco):più vicino al parlato. Il recitativo semplice che nell’opera seria scompare
verso il 1830, mentre rimane nell’opera buffa ancora per un po'. È solo accompagnato dal clavicembalo e
da uno strumento che fa il basso. La declamazione può essere più o meno accentuata.

Recitativo accompagnato: accompagnato dall’orchestra.

Declamato: viene usato da personaggio autorevoli di voce grave, stile di canto sillabico che enfatizza la
declamazione di un tratto significativo del testo drammatico, con frequenti note ribattute e salti d’ottava,
spesso col concorso di un’orchestrazione severa e nutrita. Viene utilizzato anche per le voce femminili che
però hanno sempre una grande importanza.

Sillabato buffo: espressione vocale che troviamo nelle opere buffe e connota i personaggi che vengono
messi in ridicolo nell’opera. È un canto sillabato, molto ritmato, con tempo molto rapido, come un sillabato
a raffica. È la specialità del basso buffo, è un caso estremo di stilizzazione meccanica della persona.

Parlante (recitativo su melodia orchestrale ben profilata): non è uno stile di canto in senso stretto, ma una
forma di espressione in cui conta anche l’orchestra. È una sorta di recitativo su una melodia orchestrale
ben profilata. L’orchestra da modo di declamare il testo in maniera più libera. Da modo al compositore di
introdurre dei motivi all’orchestra che danno tono alla conversazione.

Secondo Dall’Olio fu introdotto il parlante allo scopo di concedere un campo alla parte strumentale
ponendosi tra recitativo e cantabile, quasi come un anello di congiunzione.

Arioso: è una melodia o un passo melodioso all’interno di versi sciolti, di un recitativo. Non è stato
concepito come pezzo lirico, ma il musicista può trattare alcuni versi di recitativo come cantabile. Richiama
l’aria, lo stile cantabile.

Cantabile: più melodioso.

RAPPORTO TRA TESTI E RAPPRESENTAZIONE


La partitura può considerarsi un testo scenicamente forte, dato che fissa su carta insieme alla musica anche
il testo verbale e elementi interpretativi. La partitura può avvalersi del direttore d’orchestra. Assai più
debole è il testo del teatro di parola, dove i tempi e i modi dell’esecuzione non sono fissati una volta per
tutte ma vanno riadattati e rigenerati ad ogni allestimento scenico.
Per quanto riguarda l’Italia ruolo di coordinamento degli elementi scenici e di direzione degli interpreti, fu
per secoli esercitato dal librettista, talvolta dal compositore, o dal direttore d’orchestra. Nell’800 i teatri si
rivolgevano a poeti stabili al loro servizio che si limitavano a controllare che l’azione si svolgesse in modo
ordinato. Non esisteva quindi una figura autonoma che sovraintendesse all’intero allestimento: nel sistema
produttivo d’oltralpe si cominciarono a stampare manuali di disposizioni sceniche, che contenevano
minuziose descrizioni di movimenti, gesti, posizioni sul palcoscenico. In Italia bisogna invece attendere
Verdi. Questa situazione si è in parte modificata nel momento in cui anche in Italia si è andata imponendo
nel teatro d’opera la moderna figura di regista. A partire dagli anni cinquanta, registi come Visconti, Strhler,
Zeffirelli, Ronconi non solo hanno contribuito alla rivalutazione o alla semplice nobilitazione del testo
scenico, ma hanno anche offerto una rilettura complessiva dei grandi capolavori del repertorio.

La regia operistica ha esplorato più strade:

- La più gradita ai musicologi, ossi al riproduzioni filologica delle messinscene.


- Una seconda strada è opera dei registi che si collocano nel solco delle convenzioni e della
mentalità del teatro lirico, ossia intendono la regia si secondo tecniche moderna, ma
mantenendosi nell’alveo dei suoi valori tradizionali.
- Regia critica, in cui il regista intende lo spettacolo lirico come espressione e commento delle
intenzioni dell’autore.
- Regia trasposta: i registi amano spostare le vicende in luoghi e soprattutto in tempi diversi da
quelli concepiti originariamente dagli autori.
- Regia radicale: il registra organizza lo spettacolo in assoluta libertà e realizzando una sua
personale idea dell’opera.

I PROTAGONISTI

Librettista
Al poeta spetta il difficile compito di mettere in moto la complessa macchina operistica attraverso la
stesura del libretto. Nonostante il mutare di certe condizioni nel corso del tempo, il librettista si avvale di
una serie di procedure standard. Egli concepisce il testo per musica coma una complessa stratigrafia,
riconducibile ai tre momenti scanditi dalla retorica classica: inventitio, dispositio, elocutio, ossia invenzione
del soggetto, organizzazione della materia drammatica, elaborazione del parlato.

Le diverse fasi che caratterizzano il modus operandi del librettista possono così sintetizzarsi:

1. Egli riceve l’incarico di comporre il testo dal finanziatore dello spettacolo, il quale gli impone di
solito una serie di limitazioni.
2. Scegli il soggetto tratto da modelli letterari; si va da fonti mitologiche o epiche, a fonti storiche, ma
soprattutto si attinge a piene mani dalla letteratura teatrale.
3. Scelto il soggetto, elabora uno scenario in prosa: esso riporta la scansione delle principali fasi
drammatiche dell’opera, nonché la scaletta particolareggiata dei numeri musicali corrispondenti;
nel disporre il disegno drammatico il librettista deve tenere conto delle leggi del genere operistico:
forme musicali che dovrà utilizzare il compositore/caratterizzazione tecnico espressiva degli
interpreti e la relativa gerarchia dei ruoli/numero e tipo delle mutazioni sceniche in rapporto alle
dimensioni del palcoscenico e alle consuetudini di allestimento di una dato teatro.
4. Procede alla stesura del testo: stabilisce la divisione in atti e scene, l’assegnazione delle parti ai
personaggi, la struttura verbale e le relative soluzioni sia di tipo contenutistico sia di tipo formale.
Decide la divisione del testo tra sezioni in versi sciolti e sezioni in versi lirici.
5. Concorda il testo con una serie di indicazioni che sono funzionali all’allestimento scenico.
Il compositore
Il testo così confezionato dal librettista viene consegnato al musicista. Il compositore può apportare alcuni
cambiamenti tanto alla versificazione quando ad elementi drammatici. A partire dall’800 diventa sempre
più rilevante la figura del compositore, che può interagire e collaborare con il librettista già dalla scelta del
soggetto e dalla elaborazione dello scenario. Il compositore fissa quindi l’assetto musicale, stabilendo: 1) Le
strutture fonali 2) L’intonazione del testo 3) il peso e il ruolo dell’intervento strumentale soprattutto in
rapporto alla voce 4) la durata degli eventi drammatici.

Il compositore non si limita a illustrare o amplificare il sostrato verbale del dramma, ma può intervenire
all’interno dell’opera, manipolando tanto i tempi quanto i modi della narrazione.

Nel confezionare il suo prodotto egli deve tener conto: dei desideri del committente; delle caratteristiche
tecnico vocali e interpretative dei cantanti; delle convenzioni compositive della sua epoca.

È costretto anche a lavorare in tempi assai brevi, data la richiesta di prodotti sempre nuovi necessari per
saturare la domanda della varie stagioni operistiche.

È costretto a cedere la partitura all’impresario che può disporre dell’opera come crede.

Per quanto riguarda le concrete modalità di lavoro, la scarsa documentazione riguardo il 600-700 attesta
che in tale periodo il musicista di solito componeva l’opera per brani distinti, elaborando prima i recitativi,
poi le arie e i pezzi chiusi, in ultimo le ouverture o sinfonia introduttiva.

Nell’800 i compositore stendevano la partitura scrivendo prima le linee vocali e il basso e inserendo di tanto
in tanto gli interventi solistici dell’orchestra; in questa forma veniva passata ai copisti che preparavano le
parti vocali per i cantanti; in seguito l’autografo tornava al compositore che completava la partitura con
l’orchestrazione e il resto dei dettagli esecutivi.

Lo scenografo
Lo scenografo svolge un importante ruolo nell’ambito dello spettacolo operistico, curando l’ideazione e la
realizzazione delle scenografie e degli arredi del palcoscenico. Dai primi esperimenti fiorentini del 600,
l’opera italiana ha sempre coltivato la poetica della meraviglia e utilizzato la seduzione visiva come uno dei
principali mezzi per polarizzare l’attenzione del pubblico.

L’assetto scenografico muta al variare del gusto proprio di un epoca e sulla base delle diverse tipologie di
oper. È una variabile dipendente di più specifici fattori, quali:

- Il tipo di committenza dello spettacolo.


- I generi.
- La dimensione dell’edificio teatrale.

Tale spettacolo, al momento della nascita e nella prima fase della sua storia, si svolge prevalentemente in
spazi effimeri, in teatri provvisori. Gli apparati scenici e le numerose macchine per apparizioni e prodigi
potevano offrire uno spettacolo particolarmente seducente e sfarzoso, ma questi eventi non costituivano di
certo la norma. L’ambientazione del dramma si limitava a poche scene allusive o a soluzioni effimere e
variavano a seconda del gusto e della personalità dell’artista. È solo a partire dall’apertura a Venezia del
primo teatro pubblico a pagamento che l’opera verrà rappresentata in teatri stabili inaugurando una
tradizione rappresentativa e spettacolare che da allora in poi si diffonderà con successo sia nel resto della
penisola che all’estero.

Il cantante
Il cantante ha un ruolo di assoluta centralità nello spettacolo operistico. Soprattutto sulla prestazione dei
cantanti si appuntava l’attenzione del pubblico e il giudizio dei critici e da essi in pratica dipendeva il
successo o meno dello spettacolo. I finanziatori erano pertanto disposti a pagare cifre elevate pur di
accaparrarsi i migliori interpreti disponibili sul mercato.

Questa centralità può misurarsi sulla base di altri criteri: 1) la scelta del soggetto da parte dell’impresario. 2)
il lavoro del compositore prende l’avvio dalla qualità e dalle caratteristiche tecnico-espressive dei cantanti.
3) la modifica della compagnia di canto in occasione della ripresa di un opera comporta sempre il
riadattamento o la sostituzione di alcuni numeri della precedente versione.

Il ruolo centrale dell’interprete si spiega con il fatto che il canto è il mezzo principale attraverso il quale la
musica si trasforma in azione drammatica.

Dal punto di vista del virtuosismo vocale, le figure più emblematiche sono i cosiddetti castrati, uomini la cui
voce veniva mantenuta allo stadio infantile per via chirurgica. La scena operistica porta alla ribalta la voce
femminile: si assiste a una fioritura di grandi cantatrici. Per quanto riguarda le voci maschili i tenori e bassi
ricoprono ruoli prevalentemente da comprimari, essendo o antagonisti dell’amoroso o caratteri; nel 700
riscattano la loro la loro subalternità diventando i principali interpreti maschili. Affinché il tenore si
emancipi occorre aspettare il crollo dell’ancien regime.

Tale processo di cambiamento riguarda anche la voce femminile: se quella di soprano diviene la voce
elettiva delle protagoniste dell’opera, la voce di contralto cede sempre di più il passo a quella di
mezzosoprano, impiegata nei ruoli antagonistici al soprano.

Il direttore d’orchestra
Le attività di coordinamento, controllo e guida tanto degli interpreti vocali quanto delle masse strumentali
spettano al direttore d’orchestra. I suoi compiti sono:

- Istruire i cantanti riguardo alla corretta interpretazione della loro parte.


- Curare la tenuta d’insieme dell’esecuzione.
- Stabilire l’andamento dell’esecuzione, ossia la velocità di un brano o la dinamica.
- Concertare l’esecuzione al fine di conseguire particolari effetti.

La figura del direttore d’orchestra si afferma tuttavia dei teatri italiani solo a partire dal secondo 800. In
precedenza, un ruolo di più generico, era affidato al clavicembalista.

Tale lavoro interpretativo era necessario in quanto la partitura elaborata dal compositore si mostrava molto
spesso incompleta, riportando in genere solo le parti vocali e la linea del basso continuo. Tuttavia anche
quando la stesura era completa, quasi mai venivano indicati dal musicista l’esatto andamento del brano, i
segni di dinamica, di agogica, o di articolazione della frase.

L’orchestra operistica presenta un organico che nel numero e nella composizione può variare a seconda
degli stili compositivi, della dimensione e importanza dei teatri, alla risorse finanziarie, al genere dello
spettacolo.

Emerge la tendenza a strutturare l’orchestra in tre gruppi: archi, fiati/ottoni, percussioni.

Quanto alla resa esecutiva delle prchestre italiane, lo sforzo di coordinamento teantato dai direttori sembra
che non sempre riuscisse a produrre gli esiti sperati. Alcuni critici hanno messo in evidenza la stretta
correlazione che esisterebbe tra questa scadente modalità esecutiva e il tipo di orchestrazione impiegata
dagli operisti italiani più inclini a mettere in risalto la linea vocale.

Direttore di scena
La presenza di un responsabile unico dell’allestimento è stata sempre avvertita come una necessità
imprescindibile nell’ambito del teatro d’opera.
1. La messinscena non deve interferire con le esigenze vocali del cantante/attore: quest’ultimo deve
cioè evitare posture o movimenti scenici non compatibili con l’emissione vocale.
2. Il cantante deve essere attento non solo alla tecnica vocale, ma possedere anche presenza scenica
ed assumere un atteggiamento adeguato al ruolo del personaggio.
3. La partitura scenica del cantante-attore, deve essere il più possibile sincronizzata a quella musicale.
4. Il coro non deve mai ridursi a una mera presenza meccanica.
5. La messinscena deve cercare di armonizzare al massimo le varie componenti espressive.

Nel corso della storia dell’opera tale compito è stato di volta in volta esercitato da figure diverse. Nei primi
decenni del 600 questa funzione di guida e coordinamento della rappresentazione è esercitata dagli autori
dell’opera. Quando tuttavia l’opera diventa una sorta di industria del divertimento e le singole competenze
professionali si specializzano sempre di più la figura di direttore si riduce pertanto al ruolo di “maestro delle
scene”.

Una svolta importante si registra a partire dal 700: il nuovo prestigio acquisito da alcuni librettisti porta alla
ribalta l’autorità del poeta all’interno del processo di produzione operistico: a lui viene ora affidata la
direzione scenica dello spettacolo che consiste nel controllo dello svolgimento materiale della
rappresentazione e nell’istruzione dei cantanti.

Nell’800 il ruolo di direttore dell’allestimento scenico compete nuovamente a figure diverse, che variano a
seconda dei teatri.

Intorno agli anni trenta del 900 comincia ad essere usato in Italia il nuovo termine regista, che tuttavia
implica un ruolo di semplice coordinamento delle differenti competenze professionali. Solo a partire dal
1950 con Luchino Visconti si può parlare in Italia della figura di regista.

Finanziatore e pubblico
Nei primi quattro decenni della sua storia, l’opera in musica nasce e si sviluppa nelle corti dell’area centro-
settentrionale della penisola. L’opera di corte è prodotta e finanziata da un mecenate il quale la
commissiona agli artisti posti alle sue dipendenze per fini autocelebrativi. Uno spettacolo del genere è
destinato innanzi tutto al mecenate stesso.

L’opera in musica approda tuttavia nella repubblica veneta, dove non ci sono i principi ne sovrani, bensì un
tessuto civile e nobiliare assai ramificato. Una compagnia di canto proveniente da Roma inaugura a Venezia
con la rappresentazione dell’Andromeda al Sa Cassiano, il primo teatro d’opera a pagamento.

Figura centrale dello spettacolo operistico diventa ora l’impresario.

All’impresario i proprietari di un teatro assegnano la gestione degli spettacoli ed egli si addossa le spese di
produzione ingaggiando i singoli artisti. Le sue entrate sono assicurate dalla vendita dei biglietti d’ingresso e
dall’affitto dei palchetti.

È in questa forma che il teatro d’opera presto dilaga in tutta la penisola. La diffusione si realizza
inizialmente attraverso compagnie itineranti di musicisti.

Nel corso del 700 il sistema impresarile si consolida ulteriormente e la produzione di spettacoli musicali
cresce a un ritmo sempre più intenso. Il teatro d’opera diviene l’istituzione cittadina più rappresentativa e
prestigiosa.

La novità più vistosa rispetto al secolo precedente è rappresentata dalla divisione dello spettacolo
operistico in due generi, serio e comico. L’opera seria domina nettamente su quella comica: la prima
costituisce l’intrattenimento raffinato e lussuoso per l’aristocrazia. L’opera comica è incentrata invece sulla
rappresentazione della vita quotidiana di personaggi appartenenti a strati sociali medio-bassi.
L’opera seria può contare su finanziamenti più sostanziosi e continuativi rispetto all’opera comica.

Il fiorente sviluppo dell’opera comica si intensifica ulteriormente a fine secolo e prosegue nel primo
decennio dell’800, raggiungendo il culmine del suo successo con Rossini.

In questo periodo muta anche la composizione sociale del pubblico operistico: oltre l’aristocrazia, esso si
allarga a comprendere i ceti medi e le classi meno abbienti.

A partire dagli anni ’50 una nuova figura emerge nel panorama produttivo italiano fino a esautorare il ruolo
dell’impresario quale principale regolatore del mercato operistico: l’editore. Data la crescente importanza
che i compositore stavano assumendo nel sistema produttivo dell’opera italiana, tale operazione si rilevò
profetica e i guadagni dell’editore di moltiplicarono.

Ma a partire dagli anni ’60 il quadro muta: il venire meno delle corti e della relativa sovvenzione,
provocarono una grave crisi finanziaria. Anche l’inasprimento fiscale che colpisce i teatri porta il sistema al
collasso.

Di conseguenza si rafforza l’opera di repertorio, l’impresario viene soppiantato dall’editore, si moltiplicano


a fine secolo le sale alternative al teatro d’opera.

A partire dagli anni ’70 dell’800 l’opera comincia a perdere pertanto la sua centralità nel tessuto
spettacolare cittadino. A fine secolo il teatro d’opera cessa quindi di porsi come emblema della storia
italiana e progressivamente si cristallizza.

STRUMENTI CRITICI

STORIOGRAFIA
La consapevolezza riguardo alla natura pluridimensionale dello spettacolo operistico e l’attenzione rivolta al
suo contesto di produzione e di ricezione sono aspetti maturati solo negli ultimi decenni in ambito
storiografico. La storia dell’opera italiana è stata solo tardivamente studiata nonostante l’importante ruolo
esercitato nella cultura sia del nostro Paese sia del resto d’Europa e del mondo. Il primo serio tentativo è
stato quello intrapreso da Bianconi e Pestelli con la pubblicazione di una Storia dell’opera italiana in più
volumi.

Un simile ritardo i questi studi è dovuto:

- Pregiudizio dei letterati settecenteschi e dei letterati in generale contro l’opera italiana,
considerata un tipo di spettacolo di rango inferiore.
- L’influenza a lungo esercitata dalla musicologia tedesca che ha letto l’opera italiana secondo
paradigmi interpretativi inadeguati: l’opera italiana – contrassegnata da discontinuità e cesure
– è stata valutata negativamente sul piano estetico e quindi considerata poco rilevante da
studiare.
- La tendenza a una certa settorializzazione della cultura musicale, per cui la storia dell’opera era
parte di una più generale storia della musica, e scomponibile in più settori da studiare anch’essi
separatamente: l’uno aveva come oggetto il testo poetico e l’altro aveva come oggetto il testo
musicale.

Il rinnovamento di prospettive inaugurato dalla Storia dell’opera italiana è il frutto del vivace contesto
culturale degli anni settanta e ottanta, in cui maturano nuove metodologie e un dialogo interdisciplinare: la
musicologia si apre alla sociologia, alla psicologia, all’antropologia. Dall’analisi del libretto e della partitura,
la ricerca si è allargata fino a comprendere lo studio del contesto produttivo e quelli della spettacolarità e
della messinscena operistica.
Nell’ambito di questo filone di ricerche un ruolo centrale hanno svolto gli studi sulle forme del
melodramma ottocentesco. Ale approccio è sembrato talmente pervasivo da suscitare negli ultimi tempi
qualche riserva: c’è che ha ravvisato il pericolo di scadere in un certo manierismo metodologico o chi ha
osservato come il sistema del melodramma italiano sia in realtà assai più fluido e articolato di quanto si
potesse pensare, per cui appare un’operazione troppo artificiosa racchiudere l’strema varietà delle forme
in pochi modelli. Un impulso analogo hanno subito le ricerche riguardanti la struttura melodica dell’aria
ottocentesca che hanno condotto alla formulazione teorica della “lyric form”.

Un cenno particolare merita l’attenzione che negli ultimi anni p stata riservata al libretto, tanto da
inaugurare un nuovo settore di studio : la librettologia. Per secoli questo testo è stato riguardato da critici,
studiosi e uomini di cultura unicamente dal punto di vista letterario e denigrato come sottoprodotto
artistico. In anni recenti tale giudizio è stato superato e si è analizzato il libretto come componente parziale
di un’idea drammaturgica che solo in unione con la musica e la scena trova la sua ragion d’essere.

Non va tuttavia dimenticato che il ruolo de poeta melodrammatico si è modificato nel corso dei secoli. Se
nel 600 e per buona parte del 700 il librettista è ritenuto l’autore dell’opera, a partire dagli inizi dell’800 il
compositore entra di prepotenza all’interno della sua officina creativa. Il musicista sceglie il soggetto e
stende lo scenario o detta comunque al librettista le regole del suo lavoro.

I anni relativamente recenti si è compresa l’importanza della dimensione cinetico-visiva dello spettacolo. Si
è rilevato come questa componente abbia influenzato sia i processi creativi degli autori, sia la risposta del
pubblico.

A presa di coscienza della complessità del teatro d’opera non significa che gli studi concreti in questo
settore abbiamo seguito una medesima impostazione. Non esiste una definizione univoca del fenomeno
operistico e tanto meno un approccio analitico condiviso. Si è affermata nella letteratura operistica degli
ultimi decenni una concezione: il libretto è solo un pretesto per la musica o un appiglio per la comprensione
del significato drammatico veicolato dalla musica. In anni recenti si è esplorata la possibilità di afferrare il
significato drammatico da aspetti quali la scenografia, la gestualità, la mise-en-scene, itinerario che ha finito
per privilegiare l’interesse della performance rispetto ai dati testuali del prodotto artistico.

I gender studies hanno riletto le vicende operistiche o alcune scelte tecniche attraverso la lente della
sessualità. Si sono sondati gli aspetti legati all’universo femminile, all’omosessualità, al mondo dei castrati.

In questi anni si è riflettuto anche sulle difficoltà che la storiografia musicale ha incontrato nel
concettualizzare il fenomeno operistico. Si è osservato come uno dei principali problemi sia quello di
individuare i punti di rottura del codice, ossia quei momenti e quelle opere in cui il linguaggio operistico si
trasforma per dar vita a nuove soluzioni e a un nuovo insieme di convenzioni. Si è ravvisata una criticità nel
modo di integrare la storia dei sistemi, di maggior durata e quindi collocata su un asse sincronico, e la storia
degli eventi disposta lungo l’asse diacronico; una criticità che ne richiama il problema del flusso storico e
delle relative periodizzazioni.

Per tentare di risolvere questi problemi si è proposto di operare un confronto con il concetto di “sistema”
elaborato nell’ambito della teoria letteraria. Secondo Della Seta quando nella storia dell’opera si parla di
sistema ci si riferisce al sistema produttivo. Nella teoria letteraria la nozione di sistema è fondamentale in
molti altri livelli: è sistema tutta la letteratura nel suo insieme, e i diversi sottosistemi (es letteratura
nazionali, gruppi o scuole); sistemi esterni.

Secondo tale impostazione è indispensabile cogliere continuità e fratture nel flusso storico.

FONTI
I testi di cui oggi disponiamo sono:
- Libretti e relativi paratesti.
- Partiture manoscritte e a stampa.
- Schizzi preliminari, abbozzi, scenari.
- Documenti iconografici (incisioni e bozzetti relativi a scenografie).
- Documenti amministrativi: note spese per la produzione degli spettacoli, contratti d’appalto.
- Letteratura testimoniale: cronache, memorie.
- Trattati teorici, scritti polemici.
- Registrazioni sonore e audiovisive.

Qualunque ricerca non parte mai da un’astratta catalogazione delle fonti, bensì da un interesse specifico,
che spinge a porsi alcune domande. È sulla base del cosiddetto “questionario” di ricerca che vengono
selezionate le fonti e trasformati oggetti altrimenti inerti in un prezioso materiale di lavoro.

Una volta individuati un campo d’indagine e le relative fonti che abbiamo a disposizione, occorre porsi le
domande tipiche di ogni ricerca storiografica: chi ha prodotto tali fonti, per chi e a quale scopo? Che grado
di attendibilità hanno? Alcuni studiosi hanno raccomandato di identificare all’interno di un documento la
“zona di silenzio”: chi produce il documento può infatti omettere ciò che ritiene sia già saputo dal
destinatario.

Si è formata tutta una generazione di storici che ha portato avanti una demolizione nei confronti di alcuni
dogmi storiografici:

- Spostamento d’interesse dalle fonti “classiche” della ricerca storica alle testimonianze
“involontarie” o comunque alle fonti fino ad allora ritenute secondario o irrilevanti.
- Critica all’idea della neutralità dello storico nei riguardi dell’oggetto da lui analizzato.
- Riformulazione del concetto di documento, non più inteso come fonte bensì come
“monumento”, ossia risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro
quella data immagine di se stesse.

EDIZIONI CRITICHE
Nel teatro d’opera molti sono i problemi connessi sia all’intenzione dell’autore sia alla natura stessa di
queste fonti.

1. Volontà d’autore: date le circostanze di produzione, non sempre si è conservato l’autografo di un


libretto o di una partitura. Anzi gli autografi sono andati spesso perduti e al loro posto si sono
conservati magari solo esemplari a stampa dei libretti e/o copie manoscritte delle partitura. Queste
ultime venivano eseguite da copisti in vista dell’esecuzione o in occasione delle riprese dell’opera.
In questo caso, quindi, o nel caso delle stampe dei libretti, l’intenzione dell’autore risulta mediata
da altri personaggi. Anche nei casi in cui possediamo il testo autografo di un autore non è detto che
le sue intenzioni siano sempre così chiare e inequivocabili. Gli studiosi distinguono infatti tra
l’intenzione originale dell’autore e l’intenzione finale.
2. Molteplicità delle fonti: almeno per alcuni periodi della sua storia non abbiamo tanto il problema di
individuare e interpretare un testo, quanto quello di barcamenarci tra un alto numero di testi
conservati: schizzi preparatori, versioni autografe, manoscritti apografi, edizioni a stampa. Tale
proliferare di testi porta a un progressivo allontanamento dalla fonte originaria e al relativo
inserimento di un certo numero di varianti rispetto all’autografo.
Queste varianti ai testi potevano essere causate da più fattori:
- Le repliche e el riprese successive delle opere.
- Le esigenze degli editori, che potevano alterare i testi per facilitare le vendite o per compiacere
le autorità.
- L’intervento dei copisti.
- La volontà degli stessi autori, che potevano inserire alcune modifiche.

A partire dagli ultimi decenni del ‘900 si è avvertita sempre di più l’esigenza di affrontare la complessa
questione delle fonti operistiche in maniera rigorosa e secondo strumenti offerti dalla filologia musicale.
Compito di quest’ultima p quello di ricostruire l’intero itinerario compositivo di un testo: dalla sua
concezione originaria, alla prima pubblicazione, alle successive edizioni, fino alle versioni postume.

Questo più rigoroso studio delle fonti è strettamente connesso con un altro fenomeno: quello delle edizioni
critiche. per edizione critica di un testo di intende una pubblicazione del testo stesso mirante a ristabilirne a
forma originariamente concepita dall’autore sulla base dello studio comparato e della collazione
(=confronto) di ciascun passo dei diversi testimoni diretti e indiretti esistenti.

Un’edizione critica solitamente contiene:

- La lista completa dei testimoni sinteticamente descritti.


- Un’introduzione recante tutte le notizie riguardanti la storia del testo, i vari problemi riscontrati
e i criteri adottati.
- Il testo vero e proprio.

METRICA
I librettisti italiani si sono valsi quasi esclusivamente del verso. Ogni testo poetico presenta una doppia
articolazione:

1. Una struttura metrico-prosodica, che organizza il discorso sulla base di segmenti formalmente
definiti.
2. Una struttura sintattico-semantica, che organizza il discorso sulla base di unità di significato.

Molto spesso questi due livelli tendono a convergere.

Il sistema metrico-prosodico italiano si basa su quattro elementi fondamentali:

1) Computo sillabico

Un fonema o un insieme di fonemi raggruppati attorno ad una vocale individua una sillaba. Al computo
sillabico si riferiscono i nomi che tradizionalmente si danno ai versi. Es endecasillabo: verso di 11 sillabe;
ottonario: verso di 8 sillabe.

Ma bisogna tener presente che non sempre c’è corrispondenza tra sillabe grammaticali e sillabe metriche e
in presenza di certe condizioni il computo sillabico può modificarsi. Es sinalefe (quando la vocale finale e
quella iniziale si fondono in un’unica sillaba), dialefe (quando la vocale finale e quella iniziale di due parole
contigue non si fondono), sineresi (due vocali contigue all’interno di una parola si fondono in un’unica
sillaba metrica), dieresi (due vocali all’interno di una parola, che normalmente formerebbero un dittongo,
non si fondono).

Per il computo sillabico è importante anche l’uscita del verso. Ogni verso può presentare tre uscite
differenti:

- In una parola piana, cioè accentata sulla penultima sillaba (verso piano)
- In una parola tronca, cioè accentata sull’ultima sillaba (verso tronco)
- In una parola sdrucciola, cioè accentata sulla penultima sillaba (verso sdrucciolo)

2) La posizione deli accenti


La dislocazione dell’accento distingue le sillabe in toniche, su cui la vocale appoggia con particolare energie,
o atone. I versi si distinguono in due specie:

a. Versi parisillabi: hanno uno schema fisso di accenti.


Bisillabo (accento sulla 2° sillaba)
Quadrisillabo o quaternario (accento sulla 3° sillaba)
Senario (accento sulla 2° e 5°)
Ottonario (accento sulla 3° e 7°)
Decasillabo (accento sulla 3°, 6° e 9°)
b. Verbi imparisillabi: hanno un accento fisso sulla penultima sillaba mentre gli altri sono mobili.
Trisillabo (accento sulla 2°)
Quinario (accento fisso sulla 4° e mobile su una delle due prime sillabe)
Settenario (accento fisso sulla 6° e mobile su una delle prima quattro sillabe)
Novenario (Accento fisso sull’8° e diverse varianti)
Endecasillabo (fisso sulla 10° e mobile sulle altre)
c. Versi doppi
Doppio quinario: ha un accento obbligatorio sulla 4° sillaba e una cesura tra il primo e il secondo
emistichio e semiverso.
Doppio senario: i due senari che lo compongono hanno costantemente accenti sulla 2° e sulla 5°
sillaba.
Doppio settenario: il primo emistichio piano e rime baciate a ogni distico.
3) La rima: consiste nella perfetta identità di suono nella terminazione di due o più versi.
4) Le strofe: consiste in un certo numero di versi raggruppati per tipo di metro e struttura di rima: es
distico, terzina, quartina, sestina.

VERSI SCIOLTI E VERSI MISURATI

Versi sciolti: sono aggregati di endecasillabi e settenari senza uno schema strofico ne una sequenza
prestabilita di rime. L’accostamento dei due metri nasce sulla base della completa omogeneità di questi
due tipi di verso. Tale combinazione di versi risulta congeniale sia al dialogo teatrale, sia al “recitativo”. I
versi sciolti sono utilizzati prevalentemente per le sezioni del testo destinate alle fasi espositive e
dinamiche dell’azione, sezioni per lo più in forma dialogata.

Versi misurati: sono i versi organizzati in strofe o lasse per lo più isometriche (versi con stesso metro),
che sono dotate di uno schema prefissato di rime e che terminano nella maggior parte dei casi con un
verso tronco. Le misure più utilizzate sono: il settenario, l’ottonario, il quinario, il senario, il decasillabo.
I versi lirici sono di regola destinati: alle arie, ai prologhi e ai cori, ai numeri chiusi in generale.

MODULI POETICI E INTONAZIONE VOCALE

Nelle mani del compositore il testo verbale si trasforma in canto. E il canto implica la scolta non solo
dello stile d’intonazione ma anche delle parti strumentali adeguate ad accompagnare la voce del
cantante.

L’alternanza tra sezioni in versi sciolti e sezioni in versi lirici funge infatti da vera e propria segnaletica
con la quale il librettista suggerisce al compositore quale stile di canto scegliere. Sul piano vocale
possiamo distinguere un duplice stile d’emissione:
1. Intonazione recitativa: è un tipo di canto che tende a rimanere il più possibile aderente
all’enunciato poetico.
2. Intonazione cantabile: è un tipo di canto che mette in evidenza soprattutto in valori musicali e può
quindi essere sganciato dalla struttura verbale.

Nel caso dell’intonazione recitativa il compositore può scegliere se aderire a uno o più pivelli della
struttura poetica: quella metrico-sillabica, quella sintattico-semantica o quella melodico-espressiva.

Lo stile recitativo mostra i seguenti caratteri:

a. Un prevalente sillabismo, per cui a ogni sillaba del testo corrisponde una nota musicale.
b. Un ritmo flessibile e irregolare.
c. La resa della punteggiatura del testo mediante l’inserimento di pause e cadenze.
d. La sottolineatura delle sillabe toniche.
e. La prevalenza di note ripetute alla stessa altezza e di movimenti per gradi congiunti.
f. L’assenza di ripetizioni verbali.
g. Un accompagnamento strumentale poco mobile.

Nel caso dell’intonazione cantabile il grado d’interazione tra livello verbale e sonoro è assai meno puntuale.
I principali caratteri formali di questo tipo di canto sono:

a. Un profilo melodico ben definito.


b. Un ritmo periodico e regolare, scandito sugli aggregati isometrici dei versi lirici.
c. Un intervento cospicuo degli strumenti.
d. La ripetizione di singole parole, frasi o intere strofe.
e. La presenza di colorature.

ARIA E RECITATIVO
Netta è la separazione tra l’opera seria e l’opera comica: la seria è considerata un genere artistico
superiore; l’opera comica è un genere inferiore, praticato in teatrini secondari e nella stagione estiva
( oppure nella forma di intermezzo, tra un atto e l’altro dell’opera seria). L’opera comica è affidata ad altri
cantanti rispetto a quelli dell’opera seria: meno bravi sul piano del virtuosismo vocale. L’apparato
orchestrale è molto più modesto, gli argomenti sono tratti dalla vita quotidiana e la comicità non è un
elemento indispensabile. L’opera comica deve essere intesa come “non tragica” ed è fondata
sull’osservazione degli aspetti della vita quotidiana e sull’impiego di personaggi comuni.

Sul piano formale l’opera italiana nel 600 e nel 700 è incentrata sul binomio recitativo-aria, sebbene
struttura e funzionalità drammatica di questi singoli organismi si trasformino via via lungo l’asse temporale
anche secondo i generi (serio e comico).

a. Il recitativo costituisce la struttura portante delle prime favole pastorali e dei drammi per musica
dei decenni immediatamente successivi. Nell’ambito delle lunghe sezioni in versi sciolti non è
tuttavia infrequente trovare le cosiddette “cavate”, ossia passaggi destinati a un tipo di canto
ritmicamente più regolare e maggiormente pregnante sul piano melodico e ciò avviene in
occasione di momenti di maggior tensione emotiva. L’aria invece è riservata a situazioni articolari e
si caratterizza per il suo profilo frastagliato e irregolare: le strofe destinate all’intonazione cantabile
possono infatti assumere in questo periodo veste tanto isometrica quanto polimetrica.
Le cose iniziano a cambiare nella seconda metà del Seicento quando le arie, aumentando di
numero e di peso drammatico, divengono sempre più il polo d’attrazione dell’opera. In questo
periodo si diffondono le arie con il cosiddetto “intercalare” o refrain, caratterizzate dalla ripresa
conclusiva della frase di avvio (schema ABA). Il rilievo dato al refrain dell’aria è sottolineato da una
sorta di motto musicale che provoca un ampliamento del brano e la sua segmentazione tra una
parte A e una parte B di minore entità.
b. La divaricazione tra recitativo e aria raggiunge il suo culmine nel ‘700: il recitativo assume un taglio
più spedito e semplificato, con minore varietà ritmica e melodica, maggior schematismo armonico;
esso si suddivide in semplice ( o secco), sostenuto dal solo cembalo, e accompagnato, in cui
interviene l’intera orchestra. L’aria a sua volta assume maggiore regolarità metrica e dimensioni
sempre più ampie con la cosiddetta aria col “da capo”, caratterizzata da un impianto tripartito
(ABA’ oppure AA’BAA’), inframezzata da ritornelli strumentali e ulteriormente impreziosita da
numerosi vocalizzi e abbellimenti del cantante.
Si amplifica pertanto lo scarto tra recitativo e aria, così come si approfondisce il dislivello
funzionale: il recitativo realizza le fasi dinamiche dell’azione e funziona da tessuto connettivo tra le
varie arie; l’aria è incaricata di esprimere gli stati d’animo, gli affetti o le riflessioni del singolo
personaggio.
Nell’opera comica permane la distinzione tra recitativo e aria, ma quest’ultima non funziona tanto
come momento lirico-riflessivo, quanto si inserisce nel flusso dell’azione: al virtuosismo del bel
canto dell’aria dell’opera sera, l’aria comica preferisce un canto sillabico ricco di bruschi contrasti
per rendere la concitazione del discorso.
Nell’ambito del teatro musicale comico si assiste a un altro importante fenomeno: alle arie
vengono ad affiancarsi i pezzi d’insieme, in particolare duetti e concertati a più voci. A partire dalla
metà del 700 assumono particolare rilievo i finali d’atto: si tratta di brani piuttosto complessi,
formati da una sequela di versi misurati, in cui si avvicendano una serie di micro eventi che
conducono l’azione drammatica a un culmine di scompiglio. Negli ultimi decenni del secolo tale
finali diventano sempre più esteti. Nell’ambito dell’opera comica si tende a una progressiva
drammatizzazione delle forme musicali: la musica organizzata del pezzo chiuso si occupa non solo
della sfera sentimentale della vicenda ma anche dell’azione. Il finale d’atto 800esco eredita da
quello del ‘700 la funzione

Verso la fine del 700 la dicotomia recitativo-aria rende ad essere superata anche nell’opera seria. In questo
ambito, grazie all’azione congiunta di fattori contestuali, l’assetto discontinuo e fratto dato dall’alternanza
di questi due moduli viene compensato dall’inserimento di nuovi organismi formali o dalla rivisitazione di
quelli precedenti: l’orchestra è chiamata a svolgere un ruolo più attivo. Le stesse arie solistiche non sono
più solo del tipo “da capo”, ma si creano altre tipologie che interrompano il meno possibile il flusso
dell’azione: fanno così la loro comparsa le cavatine (aria con cui un personaggio si presenta per la prima
volta in scena) e le arie a due tempi (lento-veloce). Tra le arie bipartite spicca il rondò: è la grande aria di
bravura di solito inserita verso la conclusione dell’opera per esprimere uno stato di forte conflittualità di cui
è afflitto il/la protagonista; sul piano poetico l’aria è costituita da due o tre strofe in versi misurati, mentre
sul piano musicale è strutturata in due tempi, uno lento e tripartito (ABA’) e l’altro veloce.

Ai primi dell’800 il binomio formale recitativo-aria viene sostituito da un nuovo assetto formale: l’opera è
ora organizzata sula base di una serie di “numeri” musicali, cui corrispondono nuclei drammatici. Tali
numeri sono caratterizzati da una configurazione interna assai più complessa. Si afferma una nuova forma
multipartita che favorisce una maggiore integrazione tra azione e riflessione. Il numero è infatti organizzato
in modo da alternare sezioni cinetiche e sezioni statiche. Tale divaricazione funzionale è sottolineata da una
analogo contrasto dello stile musicale: le sezioni cinetiche si basano su libero declamato vocale che sostiene
il paso principale del discorso musicale; le sezioni introspettive sono invece caratterizzate da melodismo
pregnante e simmetrico affidato alle voci.
SOLITA FORMA
La costruzione di un dramma in musica si avvale di modelli formali a cui i compositori non sfuggivano, sia
per accontentare gli interpreti che dovevano eseguire le opere sia perché erano strumenti per costruire in
fretta le opere. Per analizzare e interpretare un’opera in musica è importante conoscere le forme, le quali
possono essere manipolate o eluse a seconda delle intenzioni del compositore.

Numero: unità drammatico musicali di senso compiuto, più o meno ampia. Estrapolabile rispetto a ciò che
precede e a ciò che segue; ha un inizio, uno svolgimento e una conclusione; spesso inizia e termina nella
stessa tonalità. (VEDI GLOSSARIO). Pezzo chiuso che può essere aria, duetto, concettato (pezzo d’assieme:
quartetto, quintetto), ecc. L’articolazione in numeri è importantissima: un testo drammatico in prosa si
articolerà in scene. La segmentazione di un libretto d’opera avviene per scene drammatiche (scena 1, 2,3)
determinate d entrate e uscite dei personaggi, ma il libretto si struttura per numeri/pezzi, distribuiti tra i
cantanti scritturati. Si parla di numeri, anche perché sono numerati in partitura.

Scena: è l’unica sezione del numero a rimanere in versi sciolti; essa imposta la situazione e fornisce tutti gli
elementi utili per comprendere la posizione dei personaggi e i relativi conflitti; sul piano musicale è
realizzata in recitativo accompagnato: uno stile declamato o arioso nella linea vocale sostenuto da accordi o
pregnanti motivi in orchestra.

Tempo d’attacco: è la fase in cui ha luogo lo scontro dialettico tra i personaggi, culminante in un colpo di
scena che muta la situazione; nel caso del duetto questa sezione consta molto spesso di due strofe poetiche
parallele, intonate sullo stesso disegno melodico prima dell’uno e poi dall’altro cantante, seguito da un più
rapido scambio di battute.

Cantabile: è il momento dello sfogo sentimentale in reazione al colpo di scena precedente; sul piano
musicale è caratterizzato da una o più linee melodiche a rilievo su un accompagnamento orchestrale. Nel
finale intermedio in questa sezione ha luogo il cosiddetto “concertato di stupore”.

Tempo di mezzo: l’azione torna dinamica per l’irrompere di una nuova situazione; sul piano musicale torna
lo stile parlante o arioso su un movimento continuo dell’orchestra.

Cabaletta o Stretta: è ancora un momento di sfogo emotivo provocato da quanto avvenuto nella sezione
precedente; sul piano musicale tale sezione è caratterizzata da una melodia dal profilo più pregnante e
simmetrico rispetto a quello del movimento lento, melodia che dopo un breve passaggio di raccordo viene
subito ripetuta. Nel finale d’atto la stretta è un momento di strepito generale in cui le parole non
aggiungono più nulla all’azione e assolvono solo alla funzione retorica di perorazione finale.

ARIA
Nell’aria del ‘700 era un pezzo chiuso che veniva dopo il recitativo, è un pezzo a solo, per un personaggio
che canta la propria interiorità; abbiamo una struttura tripartita A-B-A’, una forma chiusa che racchiude un
sentimento. L’opera seria del ‘700 si struttura quasi esclusivamente tramite arie. L’aria non contiene solo
un sentimento, ma può contenerne anche due ma entrambi contenuti in un unico pezzo chiuso.

Nell’Ottocento l’opera buffa porta nuove forme, si afferma un modello formale formato da due momenti
distinti, non più racchiusi in un unico guscio formale. Vediamo in Ghislanzoni, L’arte di far libretti (1870), la
parodia: non ci sono personaggi veri e propri ma proprio gli artefici (tenori, comprimario). Vediamo qui un
adagio in settenari. C’è poi un tempo di mezzo (or che l’adagio): crea un intermedio tra le due arie. Poi
cabaletta: costruita sempre da otto versi, la cabaletta indica la sezione finale di arie. La cabaletta indica uno
stato d’animo agitato (vendetta, sterminio, morte). La cabaletta di norma prevede anche la ripetizione da
capo della melodia, dopo una breve transizione, nell’Ottocento veniva ripetuta due volte, poi venne
tagliata.

Powers è uno studioso moderno che ha ricostruito la struttura fisica di: un gran duetto, aria o cavatina
(alternanza pezzi statici e dialogici, manca qui un tempo d’attacco) e finale intermedio.

L’aria ha quattro sezioni:

1. scena;

2. adagio;

3. tempo di mezzo;

4. cabaletta;

La differenza tra cabaletta e cantabile: il cantabile ha 12 versi (mentre di solito ha 8 versi), quindi qui c’è
un’espansione melodica. Mentre nella cabaletta abbiamo 8 versi (doppi quinari, non decasillabo perché
non ci sono accenti fissi su 4, 6 e 9).

Vediamo come si struttura la lyiric form: forma abbastanza compatta, costituita da 4 frasi musicali, ogni
distico corrisponde a una frase musicale, una coppia all’inizio simile (A- A’), poi fase intermedia B (divisa in
due incisi paralleli, simili) con un piccolo prolungamento e poi ripresa di A. di solito 16 battute che
corrispondono a un sentimento completo, formalizzato. Dopo le 16 battute c’è un prolungamento più o
meno esteso, detto coda (si riconosce perché il testo si ripete in maniera fitta). Il termine coda può essere
fuorviante perché fa pensare a un’appendice che si può togliere senza conseguenze, ma ciò non è vero
perché ella coda spesso c’è il culmine (acuto); rappresenta la rottura della griglia formale (4 frasi) che
tracima nella coda, il sentimento si esprime pienamente nella coda, strappando applausi, con acuto finale.

DUETTO
Forma drammatico-musicale importante che consente l’interazione tra i personaggi. C’è alternanza tra
dialogo ed espressione del sentimento. L’equilibrio o lo squilibrio tra le parti liriche e drammatiche è più
evidente.

Partendo dal 600/700> nell’opera seria del ‘700 predomina un tipo di numero che è l’aria; le prime donne, i
castrati e le dive dell’epoca mal sopportavano l’idea di cantare insieme e quindi ognuno aveva un’aria in cui
esprimere i propri sentimenti.

Nell’opera seria il duetto non manca però sono rari, ed è appannaggio della coppia amorosa (soprano e
contralto maschile, soprano vestito da uomo e soprano vero) e avevano una staticità di fondo che non
prevedeva l’interazione ed evoluzione all’interno del duetto. Erano duetti d’amore in cui i sentimenti non
potevano essere espressi a parole perché c’era qualche motivo importante che osteggiava l’amore tra la
coppia. Nel ‘600 ci sono duetti alla fine dell’opera: gli amanti esprimono l’unione finale che esprime un
sentimento di estati finale.

Confronto tra duetto del 700 e 800: la solita forma è un modello formale che si afferma soprattutto con
Rossini che inizia a plasmare questa forma. La solita forma ci riporta un’articolazione ancora più fitta in cui
si alternano sezioni più dinamiche e sezioni più dinamiche in cui c’è l’espressione del sentimento dei due
personaggi dove le voci si uniscono. Spesso infatti nei duetti troviamo la dicitura “a due” o una parentesi
graffa che unisce le due parti: le ragioni del dialogo musicale sono in equilibrio.

La descrizione del duetto è stata fatta da alcuni studiosi e si deve come la conosciamo si deve ad Abramo
Basevi il quale accenna alla forma del duetto senza approfondirla. Ci parla di un tempo d’attacco, l’adagio, e
la cabaletta: poi sono stati applicati alla forma dell’aria e del concertato. Il duetto è la forma madre per
ricostruire la solita forma.

Ritorni descrive la forma del duetto senza usare tutti i termini di basevi, ma corrisponde. Dice “un duetto
comincerà da due strofe di pari quantità. Verrà dopo l’adagio in cui si risponderanno coni sentimenti e
desinenze loro i versi dei due contendenti.

Struttura:

1. tempo d’attacco (strofe parallele + libero dialogo)>stasi


2. adagio (strofe parallele + comune) >stasi
3. tempo di mezzo (libero dialogo)> dialogo
4. cabaletta (strofe parallele+ponte+ripetizione) > stasi e risoluzione del conflitto.

FINALE CONCERTATO: finale d’atto che diventa un numero articolato che ha durata anche
ampia. Finale a catena perché ci sono più sezioni concatenate tra loro. Non c’è un recitativo che fa da
stacco, ma è tutto musicato. La musica segue da vicino l’azione con l’orchestra, che diventa quasi un attore
segreto e commenta l’azione dei personaggi. Il finale d’atto contiene il nodo dell’azione e c’è il massimo
dell’azione.

Il primo finale a catena attestato nell’opera buffa si trova nella prima opera di Goldoni e Galuppi (Arcadia in
brenta, 1749). Il finale a catena vera e proprio lo abbiamo nel 1755 nella Diavolessa di Goldoni e Galuppi.
Nella buona figliola di Piccinni, con una forma rondò.

Da Ponte definisce il finale come una specie di commediola o di piccol dramma da sé. Si canta tutto e si
deve trovare ogni genere di canto: l’adagio, l’allegro, l’andante, lo strepitosissimo con cui quasi sempre si
chiude il finale. Si chiama anche chiusa o stretta. Nel finale compaiono tutti i cantanti.

Il librettista concorda con il compositore l’”ossatura” dell’opera, ossia lo scenario in prosa che riassume
l’intreccio drammatico scena per scena e già prevede la distribuzione dei numeri musicali tra li interpreti; in
alcuni casi è il compositore stesso che stende lo scenario. Al librettista invece rimane la fase della
versificazione. Egli si attiene a specifici moduli poetici: versi sciolti per la scena, versi misurati organizzati in
strofe formale da quartine, distici per il cantabile e la cabaletta; versi misurati ma non aggregati strofici per
il tempo d’attacco e il tempo di mezzo.

Il librettista in questo periodo non devo solo rispettare la struttura della “solita forma”, ma deve anche
attenersi alle specifiche modalità di costruzione della melodia vocale la quale subisce un decisivo
mutamento: nelle aire viene abbandonato il canto melismatico per un declamato sostanzialmente sillabico
assai più aderente al significato del testo.

Si afferma infatti in questo periodo (1820) un congegno melodico-formale che consta in linea di massima di
16 battute, comprendenti tre tipi di materiale: un blocco tematico iniziale (A A’), un idea contrastante (B) e
una frase di chiusura, che può essere una semplice variante della frase di apertura (A’’) o può introdurre
nuovo materiale melodico (C). tale congegno è stato definito “lyric form”. Il primo periodo tematico (di 8
battute) è bilanciato dal secondo; in questo secondo periodo la maggiore attività ritmica, la melodia più
florida, la presenza di modulazioni, sono tutti elementi che contribuiscono a creare un culmine espressivo.
Nell’approntare il testo dell’aria il librettista da un lato non deve discostarsi da un impianto isometrico,
dall’altro non deve rompere l’arcata melodica della frase inserendo una cesura a ogni verso.
Sul piano della “solita forma” si possono introdurre alcune varianti riguardo alle singole sezioni del numero
e/o alla loro articolazione interna: a seconda delle esigenze del dramma si possono comprimere o
espandere alcuni numeri eliminando o aggiungendo singoli movimenti; si può anche far scorrere l’azione
nelle sezioni liriche del numero.

OPERA BUFFA
Genere di teatro musicale sviluppatosi nel Settecento, denominato perlopiù dai letterati dramma giocoso
per musica. Dal dramma per musica tout court si distingue non solo per il soggetto, ma anche per le forme
musicali, più varie e flessibili che nell’opera seria (aria); tra le forme peculiari spicca in particolare il finale
buffo. Il principale drammaturgo buffo è, a metà Settecento, C. Goldoni; esempi supremi del genere sono le
opere buffe di L. da Ponte e W.A. Mozart (compreso il Don Giovanni ), e nell’Ottocento quelle di Rossini e di
Donizetti.

L’opera buffa si deve intendere come “non tragica”, non aulica e non mitologica nei soggetti, ma fondata
sull’osservazione di aspetti della vita quotidiana e sull’impiego di personaggi comuni.

Nell’opera buffa hanno una parte importanti elementi come la finzione, il travestimento, gli equivoci, gli
inganni, le burle. Goldoni ci da un profilo di come c’è stata un’evoluzione del genere dall’opera seria, come
intermezzo, fino a diventare un genere a se stante.

Nel corso del ‘700 c’è un’ascesa dell’opera buffa che va quasi a soppiantare l’opera seria nel secondo 700,
fino a quando con Mozart l’opera buffa e seria sono sullo stesso piano. L’opera buffa non è relegata nei
teatri minori, ma diventa un genere molto apprezzato.

L’opera buffa nasce a Napoli dialettale nei primi anni del ‘700, dove c’erano parti dialettali e parlate.

Il modello dell’opera buffa si afferma quando si trasferisce a Roma e a Venezia, ma soprattutto con Goldoni-
Galuppi ci sarà una ricca produzione che darà risonanza internazionale al genere. Goldoni e Galuppi
definiscono anche il modello di opera buffa con delle caratteristiche particolari che ritornano:

- suddivisione in 3 atti
- numeri concertati all’inizio e spesso nel corso dello spettacolo
- finali lunghi e metricamente svariati
- duetto di riconciliazione tra gli innamorati protagonisti dell’ultima scena del 3° atto
- breve coro con tutti in scena per finire
Serva padrona di Pergolesi: intermezzo buffo che ebbe successo internazionale. Quando fu rappresentata
nel 1752 diede luogo alla Querelle des bouffons tra tradizionalisti (legati alla tradizione seria) e
enciclopedisti (che preferivano la nuova opera buffa di origine italiana).

Questo duetto viene anche citato nel Dizionario della musica di Rousseau il quale dice che è un duetto
comico perfetto in tutte le sue parti. Di canto gradevole, di unità melodica, di armonia semplice, brillante e
pura, di accento, dialogo e gusto.

Per quanto riguarda il linguaggio. è più semplice e ricorrono onomatopee, alterati (occhietti, malignetti), gli
insulti, il lessico dell’imbroglio, il dialetto, elenchi, parole non letterarie e un lessico della quotidianità.

FASI DELLA LAVORAZIONE DI UN’OPERA.


Si stipula un contratto: solitamente veniva stipulato a maggio per gennaio successivo. Nel contratto è
specificato il cast che agirà o man mano verrà ingaggiato.

Scelta del soggetto e accordi sul cast: il soggetto solitamente nell’opera non è mai originale perché è il
rifacimento di qualcosa. Sono rari i libretti che inventano qualcosa perché sono sempre il riadattamento o
di un romanzo, o di un testo teatrale, o di un altro libretto.

Approvazione del soggetto sulla base del progetto o programma o selva: prima di scrivere il libretto si
stendeva in prosa con indicazione dei numeri. Si faceva un indice dei numeri e all’interno dei numeri si
faceva una sorta di trama che conteneva ciascun numero. L’ossatura serviva per distribuire equamente i
pezzi tra i cantanti principali perché bisognava distribuirli bene tra i cantanti. Questo progetto in prosa
serviva anche per l’approvazione presso la censura. Dopo il programma il compositore può anche
abbozzare la musica per i vari pezzi che sono stati messi in indice nel programma, ma non tutti erano soliti
fare ciò. A volte l’idea musicale precede la stesura del libretto e per questo i compositori quando
collaborano con i musicisti chiedono uno specifico metro poetico e serve un verso che si adatti a quella
musica.

Stesura del libretto (versificazione)

Composizione in partitura scheletro: mentre il librettista compone il testo e lo passa il musicista il quale
inizia a comporre: il primo tipo di composizione è quello in partitura-scheletro. Il musicista non compone la
musica completa di tutto: annota le voci e la linea del basso perché dalla partitura scheletro si potevano
ricavare le parti che potevano essere mandate ai cantati per lo studio.

strumentazione, partitura completa.

Poi avviene la lavorazione dei costumi in base ai figurini e delle scenografie in base ai bozzetti.
DONIZETTI
Morì nel ’48 e non riuscì a vivere il periodo della rivoluzione. Fu il compositore italiano più noto in Italia e
all’estero. È un precursore di Verdi e tra Rossini e Verdi è il compositore più importante. Rossini all’apice
della carriera decise di lasciare la sua vita lavorativa, anche se rimase una figura eminente. In francia gestì il
Teatre italienne in cui si rappresentavano solo opere italiane.

3 fasi della vita. I primi sintomi della sifilide cominciarono a comparire già nel ’43. Si fecero evidenti nel ’45
e Donizetti non potè più scrivere. Poi fu portato a Bergamo assistito dagli amici ma morì nel ’48.

Donizetti è sepolto nella basilica di santa maria maggiore di Bergamo insieme al suo maestro.

Deve la sua carriera di musicista alle lezioni caritatevoli istituite da Giovanni maier, maestro tedesco che
decise di trasferirsi e vivere a Bergamo per fare il maestro di cappella. Donizetti fu uno dei suoi allievi.
Questo maestro gli fece conoscere anche i classici viennesi, Haydn, Mozart.

Si trasferisce alla scuola di Mattei per perfezionarsi.

Nel periodo di formazione di Donizetti si può notare l’esercizio della musica strumentale, scriverà infatti
quartetti; l’apprendistato sulla musica viennese gli consentì di avere maggiore padronanza nei concertati
d’opera, nei pezzi d’insieme. Infatti disse “i quartetti di Haydn mi permetto di risparmiare in fantasia…”

La carrirera in italia era indirizzata sull’opera perché il mercato richiedeva quello: nell’800 italiano non c’è
una fruizione di musica strumentale, come avveniva oltralpe. In italia il melodramma era il genere
prevalente che denotava il successo di un compositore e per questo si indirizzo alla carriera operistica con
un bagaglio robusto.

Nella prima fase della produzione (1816-1830) si divise tra genere buffo e genere serio. Il primo successo è
del 1822, e nel 1824 con l’Ajo nell’imbarazzo a Roma. Nel 1827 fece un contratto con Barbaia a Napoli e
doveva scrivere 12 opere in 3 anni e aveva l’incarico di direttore di orchestra al Nuovo. Questo non era un
problema per Donizetti che aveva una facilità di scrittura che spesso gli è stato rimproverata perché si
pensava che non curasse le opere. Ma ci sono opere composte in poco tempo ma che ebbero molto
successo, come opere scritte in più tempo che non ebbero invece successo.

Nel 1822 si trasferisce a Napoli fino al 1838 e si integra perfettamente nella realtà napoletana. Nel 1838
deluso da diverse esperienze napoletane, tra cui la morte della moglie nel 1837 e del figlio appena nata,
dalle esperienze lavorative (voleva diventare direttore del conservatorio di Napoli), si trasferì a Parigi e poi
a Vienna. A Vienna ebbe l’incarico di maestro di cappella e di camera. La fase della malattia si svolge negli
ultimi anni: viene internato nel ’46 e muore nel ’48.

La fase matura: 1830-1838. Qui maturano i capolavori di Donizetti tra cui Anna Bolena, Elisir d’amore,
Lucrezia Borgia, Lucia di Lammermoor. Si indirizza sempre di più verso il melodramma.

Al lavoro di compositore alterna quello di docente presso il conservatorio di Napoli.

A Parigi c’erano diversi teatri d’opera importante e riesce a piazzare le sue opere nei più importanti teatri:
Grand operà, operà comique (rappresentazione di ogni specie di dramma……), teatre italienne, teatro de la
renassance.

A Parigi però non ebbe un successo di critica perché veniva criticato per la facilità di scrittura. Berlioz parlò
di colonizzazione da parte di Donizetti dei teatri parigini.

GENERI: ci sono queste tipologie> melodramma romantico, dramma romantico moderno, modello grand-
opèra, opera semiseria, opera buffa.
Il melodramma romantico ha una grande aria finale, ha effetti suntuosi nella messinscena. Quando la
drammaturgia si fa serrata si parte di dramma romantico moderno.

Il dramma romantico moderno: tende ad avvicinarsi alla tecnica drammaturgica del dramma parlato. si
concerta su pochi personaggi e su una vicenda privata, una drammaturgia serrata anche a scapito dei
grandi allestimenti. Spesso la struttura interna dei pezzi è più agile e concisa. È una rielaborazione formale:
il compositore cerca di adattare le forme ad un dramma più serrato cercando forme più flessibili.

Grand-opèra: fa parte dell’ultima produzione. Era vigente nell’accademia reale di musica di Parigi ed era
caratterizzato da sfarzo scenico, presenza di ampi episodi coreografici, il dispiegamento di grande masse
corali (che mancavano del dramma romantico moderno in cui era marginale) e svolge una contrastata
vicenda amorosa. Donizetti fu attratto da questo tipo di opera anche se non la sentiva congeniale alla sua
drammaturgia che tendeva ad essere serrata. Donizetti andò in Francia perché c’erano possibilità
economiche maggiori.

Musica popolare: assenza di forme chiuse che lui invece aveva come bagaglio nella carriera italiana.

Poetica e drammaturgia: dall’epistolario di Donizetti leggiamo che “voglio amore, che senza questo i
soggetti sono freddi, e amore violento (appassionato)”> questo può dare adito alla musica di esprimersi. La
brevità ricorre come concetto principale: chiede ai suoi librettisti di essere brevi e pregnanti, efficaci. “il
buono consiste nel fare poco e bello, non nel seccare”> anche Verdi richiede questo ai suoi librettisti, infatti
hanno un’identità di sentire molto accentuata.

Scritto durante la composizione del Don Pasquale.

Donizetti è colui che contribuisce all’affermazione del tenore romantico (da quello rossiniano che
gorgheggia).

Sulla sua drammaturgia sono importanti alcune opinioni: Fedele d’Amico dice: “ come nell’opera romantica
si sostituisce l’equazione amore-piacere, con amore-dolore e i personaggi di donizetti ci appaiono vittime
vere ed umane nella piena del patire, non eroi tipizzati, non tipi della commedia, ma individui sofferenti
sopraffatti da una crudeltà di cui non si capacitano e si sfidano per essere redenti”. Questo appello alla
verità lo troveremo anche nel Don Pasquale. Mazzini, che ascoltò le opere di Donizetti, diceva
“l’individualità dei personaggi di Donizetti è tratteggiata con rara energia e religiosamente serbata.”
C’è un’ide di maggiore realismo, di tipi sentiti come veri. La nuova vocalità di Donizetti aiuta ad accentuare
questa verità.

Bianconi dice che “in Donizetti la dialettica di fondo sta tra due principi antagonistici: il contegno, il sistema
delle convenzioni sociali, dall’altra l’impeto devastate degli affetti, la veemenza della passione, la furia del
sentimento individuali”> donizetti sfrutta questo iato tra le convenzioni e l’impeto della passione. Un
esempio ce l’abbiamo nella Lucia di Lammermoor che è una lunga gestazione della follia del personaggio
che mano a mano si sente più costretta dalle convenzioni sociali che vengono espresse anche in musica e
alla fine dell’opera esplode con la scena della follia (in cui vengono disarticolate anche le forme).

DON PASQUALE
Donizetti, dopo essere giunto a Parigini, verso la fine di settembre del 1842, ricevette dal direttore del
Theatre-Italien, uno schema di contratto composto di sette articoli. Il documento non faceva menzione al
titolo e all’argomento dell’opera, ma specificava che avrebbe dovuto essere un’opera buffa e che i suoi
interpreti sarebbero stati la Grisi, Mario, Lablanche e Tamburini. Il suo sodalizio con Lablanche e Tamburini
durava da più di vent’anni, quello con Giulia Grisi da più di dieci, e solo per il tenore Mario non aveva scritto
alcuna parte.

Durante la collaborazione con Ruffini per la stesura del libretto, il poeta diventò sempre più impaziente
davanti all’intransigenza di Donizetti al punto che si rifiutò di far figurare il suo nome sulle edizioni a stampa
del libretto e dello spartito. La sua identità è nascosta dietro la iniziali M.A.

È probabile che alla firma del contratto Donizetti avesse già individuato un argomento adatto nel Ser
Marcantonio di Pavesi su libretto di Anelli. Infatti in una lettera al cognato del 12 novembre 1842 scriveva
che il Don Pasquale è il vecchio Ser Marcantonio, e uno settimana dopo gli ribadiva il fatto che fosse un
“soggetto antico” e di non dirlo a nessuno. Questo “vecchio soggetto” trapelava non solo nel rifacimento
ma anche nei frammenti di versi interamente ripresi. Ser Marcantonio infatti ancora non era uscito di
repertorio e fin dal suo debutto nel 1810 aveva avuto molto successo, fino a registrare 54 recite.

Data la frequenza con cui essa apparve nei palco scenici fino agli anni ’20 dell’800, si può ipotizzare che
Donizetti lo conoscesse direttamente. Ashbrook osserva che benché Donizetti avesse lasciato Vienne circa
due mesi prima di questa riesumazione, quasi certamente sapeva che doveva avere luogo e ciò potrebbe
avergli suggerito di usare il libretto di Anelli come punto di partenza di una propria opera buffa. Infatti il
compositore sfiorò una tarda ripresa a Vienna nell’estate-autunno 1842, poco prima che gli venisse l’idea
del suo rifacimento. Donizetti aveva lasciato Vienna due mesi prima e dunque non poté assistere.

Il tipo del vecchio in amore era stato a suo tempo portato in scena nella commedia omonima di Donato
Giannotti che a ritroso rimandava al Mercator di Plauto. Ad Anelli però l’idea del soggetto forse gli venne da
un modello più recente, l’Hypocondre, oh La femme qui ne parle point di Rousseau, già usata come base
per il libretto di Angiolina, o sia il matrimonio per sussurro di De Franceschi-Salieri e Dritto e rovescio di
Foppa-Gardi. Si trattava di una rielaborazione di una precedente commedia inglese di Ben Jonson intitolata
Epicoene, the silent woman, rappresentata nel 1609.

La vicenda di Ser Marcantonio ripercorre quella dell’Hypocondre ma allontanandosene negli espedienti e


facendo confluire in un unico personaggio (Tobia) quello che invece nell’Hypocondre è distribuito in più di
uno.

Nel passaggio da Ser Marcantonio a Don Pasquale , il lavoro di Ruffini e Donizetti tenne conto anche di
quanto fatto da Anelli. Il soggetto è identico: un vecchio che decide di ammogliarsi, la burla esemplare del
falso matrimonio con una finta semplice che si rivelerà dispotica e vitale appena siglato il patto nunziale.
Le differenze sono:

- Riduzione dell’organico: marcantonio ha due nipoti, innamorati di una coppia di fratello e sorella.
Un paio di servi completano il cast. Donizetti e Ruffini restringono a un quartetto vocale i
protagonisti, eliminando la nipote femm e gli aiutanti.
- Modifica le relazioni reciproche: malatesta e Norina non hanno rapporti di parentela, mentre in
Anelli l’ideatore della beffa e l’esecutore sono fratello e sorella e sono motivati da questioni ideali e
da presupposti pratici.
- Il libretto di Anelli mette in scena una trama burlesca tipica dell’opera comica tardo settecentesca
con intrighi, mascheramenti e finte identità. Ruffini e Donizetti se ne sbarazzano dando alle vicende
più verosimiglianza e una profonda analisi psicologica.

Guccini si chiede se Donizetti abbia iniziato a pensare al Ser Marcantonio prima o dopo il contratto del 27
settembre. A seconda che si adotti la prima o la seconda possibilità, ci sono diverse implicazioni. Se
Donizetti aveva iniziato a pensare già prima del contratto all’idea di riprendere le vecchie tematiche del Ser
Marcantonio, la scelta di fare un’opera buffa rientrano in una strategia di rinnovamento definita dal
compositore. Se invece aveva iniziato a rifletterci in seguito alla proposta di contratto, ciò rivela la capacità
di Donizetti di stabilire reti progettuali che comprendono la dimensione storica del teatro musicale.

Nell’agosto del 1842, mentre Ser Marcantonio debuttava a Vienna, Donizetti si trovava a Napoli dove vi era
giunto all’inizio del mese. Molto probabilmente in questo soggiorno aveva avuto modo di vedere il libretto
di Anelli della rappresentazione dell’opera al Teatro de Fiorentini nella primavera del 1827. Quindi ciò ci fa
dedurre che la fonte primaria del Don Pasquale non è il Ser Marcantonio del 1810 ne la versione bolognese
del 1811, ma la versione napoletana del 1817 dove figurano aggiunte e sostituzioni che altrove non si
possono riscontrare.

Nel Don Pasquale il tipo del vecchio in amore acquista maggiore complessità e sostituisce ai meccanismi del
ridicolo quelli del patetico. Ma questo processo di umanizzazione appare già impostato nella versione
napoletana del 1817 dove figura il celebre schiaffo di Norina a DP. Lo schiaffo della fanciulla al vecchio
innamorato non è un’invenzione ma uno sviluppo condotto su una base già impostata.

La minaccia di percosse subisce nelle diverse versioni delle modifiche: nella scena 4 dell’atto II Bettina dopo
aver firmato il contratto getta la “maschera” e si da alle spese pazze. Rinnova l’arredamento, modifica la
casa e si circonda di aiutanti. Ser Marcantonio vedendo questo comportamento di lei, minaccia di rompere
il contratto. Bettina chiama Pasquino con due servi per mettere a Ser Marcantonio il costume da cicisbeo ed
espone il vecchio a una derisione spietata. Questa soluzione edita per la rappresentazione al teatro di
Bologna non piacque al pubblico, così che un anonimo librettista sostituì la vestizione di Ser Marcantonio
con un momento di effusioni sensuali furiose e grottesche. Diversa è la versione andata in scena al teatro
de Fiorentini di Napoli nel 1817, nel quale Ser Marcantonio è consapevole della situazione e presenta a
Bettina delle condizioni per poter procedere al matrimonio, ma qui scatta la minaccia di percosse da parte
di Bettina.

Queste aderenze tra il Ser Marcantonio e il Don Pasquale, rendono probabile che Donizetti già durante la
permanenza a Napoli, abbia pensato a un argomento idoneo a far risaltare le qualità vocali e recitative dei
quattro grandi cantanti del Theatre Italien: Ser Marcantonio avrebbe dato modo a Lablache di dispiegare le
sue doti di grandi attore; bettina era adatta alla Grisi; Taddeo offriva a Tamburini un personaggio
onnipresente e dinamico; per Mario si sarebbe potuta ricavare una parte lavorando su Medoro.

Molto probabilmente Donizetti già coltivava l’idea di sorprendere la capitale europea del teatro con una
resurrezione del genere buffo. Infatti la vicenda del Ser Marcantonio avrebbe ripreso la trama del Barbiere
di Siviglia.
L’importanza dell’opera portò Donizetti a interferire continuamento nel lavoro di Ruffini (librettista), il cui
lavoro diventa tormentato. Ruffini infatti in una lettera ad Accursi (agente di Donizetti), dice che D non gli
lascia tregua. A fine ottobre infatti valuta la possibilità di non firmare il libretto, visto che non si tratta di un
testo nuovo ma di un rifacimento. Infatti il libretto di Don Pasquale attribuisce la stesura a un certo M.A.
che ha fatto a lungo pensare a Michele Accursi.

Le lamentele di Ruffini portano alla luce un comportamento di Donizetti volti a manipolare la stesura del
libretto senza però impostare con il librettista un rapporto entro precise coordinate.

Il Don Pasquale occupa una posizione culturale complessa che risulta di malinconico recupero oppure di
licenziosa avanguardia.

Il 29 settembre del 1842 tramite il suo agente a Parigi, Accursi, Donizetti commissiona a Ruffini il libretto.

Il 7 ottobre combinano l’ossatura. Ruffini, che aveva un epistolario con la madre, dice che la struttura
dell’opera era già delineata. Possiamo infatti ricostruire il programma grazie a questa lettera.

Per un mese va avanti la versificazione del libretto e Donizetti compone la partitura scheletro.

Il 5-6 dicembre iniziano le prove al pianoforte perché non c’è la partitura completa. Il 21 dicembre iniziano
le prove con l’orchestra con la partitura completa.

Il 28 dicembre inizia la prova d’insieme con orchestra e cantanti che preludono alla prima rappresentazione
del 3 gennaio 1843.

Per la rappresentazione di maggio a Vienna Donizetti fa dei cambiamenti; poi di aggiungere versi al finale.

Fortuna del “vecchio in amore”

Nelle tradizioni dei comici italiani, le parti dei vecchi solevano essere ridicole, per essere innamorati. Anche
Goldoni rappresenta in Il mercante fallito un Pantalone conforme al vecchio tipo comico: attaccato alle
donne, disposto a comprarne l’amore e insaziabile. La seconda ondata di questo tipo drammatico venne
sollevata a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento dalle vaudeville (commedie leggere). In Italia questo
filone venne denominato con il termine francese di pochade che significa “abbozzo” e trovavamo un marito
libertino, una moglie gelosa, una suocera spaventevole, una cocotte desiderata dal marito, un vecchio
libertino che desidera la cocotte. Il vecchio in amore ritornava così a inseguire il prediletto tipo della
cortigiana, che gli si presentava ora sotto le vesti delle moderne cocotte.

Rapporto tra fonti


Riguardo il tema del vecchio in amore molte sono le fonti che ci riportano questo tema già a partire dal
‘600: ben Jonson con l’Epicoene; Rousseau, con l’Hypocondre; Sertor con Il divorzio senza matrimonio ossia
la donna che non parla; De Franceschi con Angiolina ossia il matrimonio per sussurro; Foppa-gardi con
Dritto e Rovecio; Caravita con Il matrimonio per sussurro; Anelli-Pavesi con Ser Marcantonio; Donizetti-
Ruffini con Don Pasquale. C’è infatti una fitta rete di parentele tra questi 8 lavori.

Partendo dall’Angiolina di De franceschi, se quest’ultimo viene considerato l’unico autore dell’Angiolina


dall’altra gli viene negata la partecipazione all’opera di Caravita (il matrimonio per sussurro). Se però si va a
vedere il contenuto ci si accorge che gran parte dei versi sono di De franceschi e la fonte non è sicuramente
il Sertor. Quindi si dovrebbe parlare di co-autorialità: Defrancheschi per le parti comuni e Caravita per le
parti che risultano modificate.

Quindi Defranceschi aveva avuto a disposizione uno dei libretti del Divorzio senza matrimonio dal quale,
oltre al soggetto, riprende molti versi anche se raramente ha preso nella sua interezza un numero intero.
Ad esempio nell’aria del Barone i cambiamenti che attua sono inversioni di versi, sostituzioni di termini,,
aggiunte. Il linguaggio di Defranceschi è sicuramente più colorito di quello di Sertor.

Ma l’opera di Sertor non è stata l’unica fonte che il librettista aveva davanti a se perché prende ispirazione
anche da fonti più antiche, da Ben Jonson e Rousseau. L’Epiceon di Jonson è riconosciuta come nucleo
generatore di Angiolina e delle opere successive. L’Hypocondre è stata invece individuata da Rousseau in
relazione al Ser Marcantonio. Ma anche Angiolina ha delle affinità con l’opera di Rousseau, e una
derivazione è mancante in Sertor, segno che Defraneschi lesse direttamente da Rousseau.

Una situazione trasversale riguarda la scena della presentazione tra il vecchio amoroso e la futura sposa: è
presente in tutte le fonti prese in considerazione e ha come contraltare il momento in cui il vecchio scopre
chi ha veramente davanti. Se si mettono a confronto le scene delel presentazioni, oltre a trovare elementi
comuni, risulta evidente anche un evoluzione del personaggio femminile. Se infatti all’inizio la donna viene
apprezzata solo perché non parla, dall’Angiolina in poi la donna deve avere due caratteristiche: un cuore
semplice e l’essere una persona senza troppe pretese e rifuggire la vita mondana. Quest’ultima
caratteristica però finisce per scalzare tutto il resto diventando l’unica caratteristica nel Ser Marcantonio e
nel Don Pasquale. Nel Ser Marcantonio è stato rilevato come la questione della riverenza assuma un ruolo
più indefinito poiché in casa non vige il silenzio e quindi è meno comprensibile il motivo per cui la sposa
debba esprimersi a gesti. Infatti nel Ser Marcantonio la riverenza sembra essere artificiosità di
comportamento. Ancor di più in Don Pasquale dove l’insistenza di questi gesti posta don pasquale stesso a
confondersi.

Potrebbero piacerti anche