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ECONOMIA AZIENDALE

L’economia aziendale è una scienza giovane, difatti ha meno di 100 anni di vita. Nel 1925 all’università di
Venezia ci fu una lezione magistrale di inaugurazione del prof Gino Zappa che inventò questa nuova
materia. L’economia aziendale è la somma di tre tecniche: organizzazione aziendale, tecnica industriale e
commerciale (gestione delle aziende) e ragioneria/contabilità. L’economia aziendale è la scienza che studia
le condizioni di esistenza e le manifestazioni di vita delle aziende.

Una scienza è un insieme di teoria e pratica. Ogni scienza si caratterizza per 2 elementi: OGGETTO e
METODO.

Esistono due tipologie di scienze: scienze fisiche (hard science) e scienze sociali (soft science). La differenza
fondamentale tra le due è che l’oggetto di studio delle scienze sociali è l’uomo, l’essere umano; le scienze
fisiche (come la matematica) studiano qualcosa che è fermo, statico, immobile, che non cambia nel tempo.
Nelle scienze naturali, un esperimento può essere fatto ripetute volte ottenendo sempre lo stesso risultato,
generando una legge/teoria che funziona sempre.

L’economia aziendale è una scienza sociale il cui oggetto di studio è l’uomo. L’uomo è un soggetto
dinamico, viene studiato nelle sue relazioni sociali, con altri esseri viventi, non un uomo statico, immobile,
pertanto non possiamo tirare fuori delle leggi universali. Non abbiamo strumenti per formulare teorie che
funzionano sempre. Esistono solo delle teorie PROBABILISTICHE (usiamo la statistica, che studia il calcolo
delle probabilità, non la matematica): un fenomeno non si ripete sempre allo stesso modo, al contrario
esso cambia, pertanto non si può prevedere né prevenire.

Per ogni azienda, possiamo vedere tanti comportamenti differenti; anche aziende simili tra di loro possono
reagire diversamente o allo stesso modo. Al massimo possiamo probabilisticamente prevedere il
comportamento di un’azienda, non abbiamo alcuna certezza.

La Banca d’Europa è l’istituzione che gestisce la moneta in Europa, la quale serve a finanziare altre banche,
le aziende e le persone.

Ogni banca compra da un’altra banca che a sua volta compra da un’altra, fino ad arrivare alla Banca
d’Europa.

La banca applica un tasso di interesse  SPREAD: il profitto della banca

STIMOLO DI MERCATO legge della domanda e dell’offerta

Quando aumenta il prezzo, la domanda diminuisce. Quando il prezzo diminuisce, la domanda aumenta.

Gli economisti (che studiano la politica economica) hanno individuato una relazione tra costo (CD) e
aumento degli investimenti (I), la quale è inversamente proporzionale. Per loro questa è una LEGGE.

I CD

Pur essedo vera questa legge, per gli aziendalisti non è così perché non si ha la certezza che questa
relazione si verifichi anche nella nostra azienda. L’azienda potrebbe essere indifferente allo stimolo.

Il punto di differenza tra economisti e aziendalisti è il METODO. L’economista ragiona secondo la razionalità
assoluta: rispetta una legge espressa mediante una formula matematica che funziona e si verifica sempre.
L’aziendalista ragiona secondo la razionalità limitata: non utilizza leggi/formule, perché quello che studia
non può esprimerlo in maniera certa e sicura (usa la statistica, razionalità probabilistica).

Macroeconomia: studia tutto il sistema economico Microeconomia: studia le singolarità.

L’economia si regge sul DEBITO.

Il METODO è come noi studiamo la nostra azienda. Noi studiamo l’azienda come SISTEMA interno ed
esterno. Per quanto riguarda le relazioni dentro, studiamo l’azienda come somma di uomini, cioè il
comportamento dell’azienda deriva dalle iterazioni sociali tra le persone che stanno dentro di essa. Per
quanto riguarda e relazioni fuori, studiamo le relazioni che l’azienda instaura fuori di essa, cioè le relazioni
economiche, sociali, ambientali, come l’azienda si comporta nei confronti dei clienti o fornitori e delle altre
aziende (con i concorrenti). Il sistema esterno è molto più complesso rispetto a quello interno in quanto è
molto più grande.

Come l’azienda si rapporta al sistema? L’azienda ricerca sistematicamente l’EQUILIBRIO; l’azienda


garantisce l’equilibrio tra risorse e bisogni. L’unico soggetto che può garantire equilibrio tra risorse e bisogni
è l’AZIENDA.

L’OGGETTO dell’economia aziendale è l’azienda. Tutto il problema economico è una contrapposizione di


bisogni e risorse. Il problema economico nasce proprio quando non si riesce a mantenere questo equilibrio.
Questa situazione è definita trade-off. TRADE OFF: quando due fenomeni sono contrastanti, vanno in
direzioni opposte: i bisogni aumentano sempre e le risorse tendono sempre a diminuire. Le risorse possono
essere materiali, immateriali, naturali, le quali sono tutte insufficienti per colmare i nostri bisogni. Questa è
l’economia, se non ci fosse questo trade off, l’economia sarebbe inutile.

L’azienda ha il compito di aumentare le risorse, è il soggetto destinato a incrementare le risorse.

SCALA DEI BISOGNI/PIRAMIDE di Maslow

 Bisogni di autorealizzazione:
(essere felici, raggiungere un obiettivo, stare bene)
 Bisogni di stima:
(fiducia, amore, emozioni, sentimenti)
 Bisogni sociali:
(socialità, relazioni, amici)
 Bisogni di sicurezza:
(stipendio, casa, stabilità economica)
 Bisogni fisiologici:
garantiscono la vita, sono essenziali e vitali per l’essenza stessa della vita (mangiare, bere, dormire)

I bisogni sono ILLIMITATI; i mezzi e le risorse sono LIMITATI. L’azienda si evolve parallelamente ai bisogni,
l’azienda evolve insieme all’evoluzione dei bisogni. Al giorno d’oggi, sono talvolta le stesse aziende che
creano il senso del bisogno (sharing economy  esempio: prodotti che durano di meno per vendere di più).
LE RISORSE

L’attività economica indica un processo attraverso il quale delle risorse, scarse per definizione, sono
combinate per ottenere dei beni e dei servizi al fine di soddisfare dei particolari bisogni. Per soddisfare i
bisogni bisogna produrre ricchezza e le discipline che studiano la produzione ed il consumo delle ricchezze
sono:

1. Matematica: quantifica la ricchezza (ciò che si può misurare esiste, il resto no)
2. Diritto: per produrre ricchezze servono regole, per stabilire la proprietà della ricchezza (diritto
pubblico e privato) e per distribuirla
3. Economia: creare la ricchezza

Macro e micro hanno stesso metodo ma oggetto diverso.

MACROECONOMIA studia il sistema economico. MICROECONOMIA: studia l’unità economica.

Chi studia l’azienda?

PROSPETTIVE DI STUDIO

 SOCIALE (studia come si comporta l’uomo nell’azienda);


 GIURIDICA (studia i contratti, sindacati, i clienti, i lavoratori);
 TECNICA o INGEGNERISTICA (studia l’ingegneria aziendale, la gestione aziendale);
 ECONOMIA (studia il sistema aziendale e le unità aziendali);
 AZIENDALE (campo di studio esclusivo, studia SOLO l’azienda, prospettiva sistemica dell’azienda
nell’ottica dell’equilibrio).

ECONOMIA AZIENDALE

Oggetto di studio: azienda

Obiettivo: fornisce i metodi e le logiche per la comprensione della complessità aziendale e formula le leggi
che permettono le funzionalità

Si compone di discipline integrate:

1. Gestione (tecnica amministrativa)


2. Organizzazione
3. Rilevazione (ragioneria)

L’economia aziendale non fa previsioni; studia le situazioni, le osserva e tira fuori le soluzioni al problema.
Non sa a priori, ma a posteriori. L’economia aziendale principalmente si rivolge al governo dell’azienda, al
vertice, cioè a chi comanda.

Per comprendere il concetto di azienda, è necessario comprende tre elementi:

1. ISTITUTO/ISTITUZIONE
2. ACCADIMENTI ECONOMICI  risorse/bisogni
3. SISTEMA
Possiamo definire ISTITUTO ogni insieme di beni e persone che abbiano una finalità condivisa. Ogni
passaggio della nostra vita avviene in un istituto. Esempio: famiglia

4 PRINCIPALI CLASSI DI ISTITUTI (attività economica rilevante):

 Famiglia;
 Impresa (differente dall’azienda);
 Istituti pubblici territoriali (attività economiche dello stato), forma che utilizza lo Stato per
intervenire nell’economia al fine di soddisfare i bisogni dei cittadini;
 Organizzazioni non profit (enti non lucrativi/ terzo settore), a metà tra Stato e imprese: dal punto di
vista giuridico lavorano nel privato come se fossero imprese; dal punto di vista dei bisogni lavorano
nel pubblico per soddisfare una serie di bisogni che lo Stato non riesce a soddisfare avendo scarse
risorse.

Bisogna capire quali tra questi istituti è un’azienda:

1. La famiglia non è un’azienda: svolge attività economica, ma non nasce con finalità economica
(prevale la sfera sentimentale e poi c’è l’attività economica);
2. L’impresa è un’azienda: ha prevalentemente finalità economica;
3. Gli istituti pubblici territoriali non sono aziende: soddisfano bisogni di natura sociale, pur
avendo una finalità economica;
4. Le organizzazioni non profit

DEFINIZONI PRINCIPALI DI AZIENDA

1 Definizione di Gino Zappa 1956  ricostruzione post-guerra e boom economico. Al tempo, il tessuto
economico era prevalentemente fatto di imprese, pertanto la sua realtà era piccola. La definizione di Zappa
è la più diffusa in Italia.

Azienda vista come istituto economico: istituto in quanto è un insieme di beni e persone che hanno una
finalità comune ed economico in quanto svolge prevalentemente l’attività economica. Considerando questa
definizione di azienda, solo l’impresa può essere considerata un’azienda.

2 Definizione di Carlo Masini 1970  in Italia si creano le regioni dal punto di vista politico ed
amministrativo, prima votazione del presidente della regione. In quegli anni, iniziava un fenomeno il
“federalismo” in cui lo Stato centrale delegava una serie di funzioni verso il basso, lo Stato pensò di creare
delle istituzioni che avvicinassero il cittadino alle istituzioni. Masini intuì che una grande parte dei bisogni è
soddisfatta dagli enti pubblici territoriali. Proprio perché in essi non prevale l’attività economica, è ancora
più importante il ruolo dell’aziendalista, essendoci una carenza (gap). Masini non discrimina aziende e non
aziende, pertanto ha una visione molto più larga rispetto a quella di Zappa in quanto va ad analizzare un
universo molto più ampio il quale era stato ignorato da Zappa. Masini voleva studiare come la finalità
sociale si coniuga con la finalità economica.

Azienda vista come ordine strettamente economico dell’istituto: all’interno dell’istituto esiste un’attività
economica. L’azienda è la parte economica dell’istituto, quindi l’azienda sta in tutti gli istituti perché in ogni
istituto c’è attività economica. Questa definizione è onnicomprensiva e più larga perché non discrimina tra
aziende e non aziende, ma guarda l’attività economica. Se in tutti gli istituti c’è attività economica, vuol dire
che in tutti gli istituti c’è un’azienda e che l’azienda sarà quella parte che coincide con l’attività economica.
Secondo questa visione, l’azienda è un sottoinsieme dell’istituto.
Secondo Masini, l’azienda non esiste. Essa è un modo di vedere le cose, una prospettiva: guardo un istituto
e lo guardo come un’azienda, cioè vado a guardare quella parte, anche se piccola, di attività economica, e
mi interessa sapere come questa attività economica si concilia con l’attività sociale, culturale, politica,
religiosa ecc.

(IL MUSEO NON È UN’AZIENDA: Salvatore Settis, storico dell’arte, professore universitario importantissimo
e direttore della Scuola Normale di Pisa, visione autorevole nel mondo degli storici dell’arte. Per Settis,
azienda vuol dire bilancio, soldi, pertanto ha una prospettiva zappiana, ignorando la visione di Masini).

Giannessi, fondatore della scuola pisana di Economia Aziendale, afferma che l’azienda è l’ordine
sistematico di combinazione e di composizione.

Ordine: azienda è un sistema ordinato, cioè c’è un’organizzazione, delle regole, c’è una finalità condivisa e
c’è un obiettivo che si vuole raggiungere.

Combinazione: combinare persone e risorse (riguarda le cose tangibili). In ogni azienda è presente almeno
una risorsa umana che è associata ad un altro componente inanimato.

Ordine di combinazione vuol dire che l’azienda deve combinare perfettamente le persone con le cose in
maniera dinamica, aggiornandola costantemente.

Composizione: riguarda le cose intangibili, cioè gli interessi. In ogni azienda, per crescere ed andare avanti,
bisogna comporre gli interessi delle persone che gravitano attorno all’azienda.

CARATTERISTICHE DELL’AZIENDA

1. Coordinazione sistemica: l’azienda è un sistema, cioè un insieme di interazioni. La decisione


dell’azienda è in funzione del sistema, cioè le persone che ci sono e le loro interazioni influenzano e
condizionano le decisioni delle aziende.

2. Autonomia: caratteristica e prerequisito. Le aziende sono autonome, cioè libere di decidere.


L’azienda ha piena facoltà decisionale in tutti i campi, sempre nell’interesse dell’azienda stessa. Ci
sono chiaramente dei vincoli e delle regole da rispettare.
Esistono due tipi di autonomia:
 Autonomia oggettiva, cioè economica. L’azienda ha delle risorse proprie. Si chiama
oggettiva perché si può misurare con certezza.
 Autonomia soggettiva, cioè dei soggetti. L’azienda e le persone presenti all’interno di essa
sono due cose differenti: gli interessi delle persone possono non convergere con gli
interessi dell’azienda. L’azienda più forte è anche un’azienda libera dalle persone, che può
decidere in autonomia rispetto alle persone che ci stanno dentro. Le persone possono
cambiare, ma l’azienda resta; l’azienda che muore quando le persone non ci sono più non
ha sicuramente autonomia soggettiva.

3. Equilibrio economico: l’equilibrio economico è necessario in un’azienda e può anche essere


misurato quantitativamente.

4. Durabilità: l’azienda nasce per durare nel tempo, anche oltre la vita umana. La durabilità è una
caratteristica che deriva dalle altre, è una conseguenza delle altre. L’azienda più longeva è la chiesa,
in quanto svolge attività economica (IOR  istituto delle opere religiose, banca che gestisce miliardi
di euro).

5. Creazione di valore: gli economisti non usano il termine “valore”, ma “utilità”; analogamente, i
giuristi usano il termine “ricchezza”. Nel soddisfare i bisogni, dal momento che le risorse sono
scarse, c’è bisogno di un valore aggiuntivo, cioè di creare più risorse, valore. L’azienda crea valore
quando aggiunge qualcosa che prima non c’era, fa qualcosa in più rispetto alle risorse già presenti.
L’azienda lavora sulle risorse già esistenti, seppur insufficienti, e le lavora in un’ottica migliorativa
ed aggiuntiva. Vi sono anche aziende che distruggono valore, piuttosto che crearlo, le quali prima o
poi saranno destinate a morire. Solo le aziende che creano valore hanno senso di esistere e di
durare. La creazione di valore è sia la conseguenza che la causa delle altre caratteristiche, le quali
sono tutte intimamente collegate. Tra tutte queste caratteristiche c’è un rapporto di causa-effetto,
cioè una è causa dell’altra, ma al tempo stesso anche effetto.

IVA: imposta su valore aggiunto. Anche lo stato ha capito che le aziende aggiungono valore e, volendosi
appropriare di esso, aggiunge una tassa.

CLASSIFICAZIONE DELLE AZIENDE

1 Classificazione delle aziende secondo l’oggetto/destinazione della produzione

Classificare vuol dire raggruppare in base a caratteristiche omogenee. Si stima che le aziende italiane sono
circa 6 milioni, le quali, classificate, arrivano a 4 categorie principali.

o DIMENSIONE: come capire quando un’azienda è grande, piccola o media


o DESTINAZIONE DEL PROFITTO: dove va a finire chi si prende il profitto
o SOGGETTO GIURIDICO: chi è il proprietario dell’azienda
o DESTINAZIONE DELL’ATTIVITÀ PRODUTTIVA: chi si appropria dell’attività produttiva

Tutte le aziende mettono in atto i processi di produzione, sia quelle di produzione che quelle di erogazione,
ma solo alcune di esse destinano i loro prodotti/servizi per lo scambio con il mercato. La differenza tra le
aziende di produzione e le aziende di erogazione sta nella destinazione dell’attività produttiva.

AZIENDE DI PRODUZIONE  l’attività va verso il mercato. Le aziende di produzione operano nel mercato a
concorrenza perfetta. Esse lavorano nel mercato mediante un prezzo chiamato “prezzo remuneratore”,
cioè un prezzo capace di coprire tutti i costi della gestione, che remunera i fattori produttivi, che copre tutti
i costi dell’azienda e genera anche un utile, un profitto.

Possiamo definire “mercato” quel luogo fisico o virtuale in cui si incontra domanda e offerta. Il prezzo o
quantità monetaria è il punto di equilibrio tra domanda e offerta.

Esistono tre tipologie di mercato:

1. monopolio: l’offerta è una, quindi quantità minima; la domanda è infinita. È l’attività che la legge
consente esclusivamente ad un solo soggetto (sigarette). Il prezzo lo fa quell’unica persona che
vende, essendo il solo, egli può decidere liberamente il prezzo. È la situazione migliore per il
venditore e peggiore per il compratore, in quanto deve stare alle regole dell’azienda.
2. oligopolio: “oligo” dal greco cioè poco, abbiamo pochissime aziende a fare l’offerta e tanta
domanda (compagnie aeree, telefonia). Le aziende tendono a colludere, cioè a mettersi d’accordo
in maniera informale, in quanto questo è proibito. Normativa antitrust: una legge in Italia che
impedisce le concentrazioni monopolistiche. Nella pratica tutti si mettono d’accordo, basti vedere il
prezzo della benzina, delle assicurazioni ecc. Le aziende non hanno interesse a farsi concorrenza, al
contrario vogliono solo spartirsi il mercato.
3. mercato a concorrenza perfetta: offerta infinita e domanda infinita. Il potere passa dall’azienda al
cliente, situazione ottimale per il cliente, il quale potrà scegliere tra infinite aziende e venditori,
pertanto sceglierà la migliore per se stesso. È la situazione peggiore per il venditore.

AZIENDE DI EROGAZIONE  operano a monopolio e come conseguenza non hanno un prezzo, bensì una
tariffa. Si tratta di un prezzo politico che non stabilisce l’azienda, ma la legge, ed essa copre i costi di
produzione solo in parte. Le aziende di erogazione lavorano sottocosto: esse da sole non ce la fanno ed è
necessario l’intervento dello Stato per coprire il disavanzo, quei costi di produzione che la tariffa non copre.
Le aziende di erogazione non generano profitti.

Nell’azienda di erogazione, non parliamo di cliente, ma di utente. Il cliente è colui libero di scegliere;
l’utente non è libero di scegliere, deve rivolgersi per forza a quella determinata azienda. L’azienda sceglie il
cliente con il prezzo; tuttavia, nelle aziende di erogazione il cliente non può scegliere l’azienda e l’azienda
non può scegliere il cliente. Si tratta di un monopolio geografico, territoriale: per legge, a quella
determinata azienda di erogazione vengono stabiliti un quantitativo di utenti da soddisfare. Nelle aziende di
erogazione, abbiamo una comunità territoriale di riferimento a cui viene associata un’azienda che eroga un
determinato bene o servizio. Lo Stato interviene per equilibrare domanda e offerta, ad un certo numero di
utenti viene associata una certa azienda.

Tutto questo avviene per garantire la fruizione a tutti di determinati beni, prodotti o servizi. Lo Stato
individua dei bisogni sociali e collettivi che devono essere garantiti indistintamente a tutti, anche a chi non
può permetterselo. Interviene nell’economia, eroga direttamente un servizio ad una tariffa bassa proprio
per aumentare l’accessibilità. Interverrà, inoltre, per coprire il mancato guadagno di quell’azienda visto che
questa tariffa non copre tutti i costi.

Esiste una via di mezzo tra le aziende di produzione e quelle di erogazione: le aziende composte

AZIENDE COMPOSTE  Aziende nelle quali sono presenti sia processi di erogazione di ricchezza per il
soddisfacimento di bisogni che processi di produzione di nuova ricchezza; ed aziende che svolgono sia
attività di consumo finale che attività di produzione di beni economi. Esempio: TRENITALIA

2 Classificazione secondo il soggetto giuridico

Il soggetto giuridico rappresenta il proprietario dell’azienda. La proprietà dell’azienda assegna la finalità


dell’azienda: sapere chi è il proprietario vuol dire capire quale sarà il fine ultimo di quell’azienda. Questa
classificazione dipende dal capitale, cioè la ricchezza iniziale dell’azienda, le risorse disponibili all’azienda
per sviluppare i suoi investimenti.

AZIENDE PUBBLICHE  capitale di proprietà dello Stato, il cui soggetto fondatore e portatore del capitale
non si può ricondurre ad una persona fisica, bensì ad un soggetto immateriale che si identifica nello Stato e
in tutte le sue emanazioni.

AZIENDE PRIVATE  capitale di proprietà di soggetti privati, cioè persone fisiche che risultano essere i
proprietari dell’azienda, che risultano essere i proprietari portatori del capitale aziendale.
AZIENDE MISTE  Nel suo capitale ha sia un elemento pubblico che un elemento privato. Esempio: ENEL

3 Classificazione secondo la destinazione del profitto

AZIENDE FOR PROFIT  aziende in cui il soggetto giuridico si appropria degli utili creati: il profitto è
esternalizzato, cioè i soggetti esterni si appropriano di questa ricchezza creata

AZIENDE NO PROFIT  aziende in cui gli utili non sono destinati istituzionalmente al soggetto giuridico,
cioè all’esterno, ma sono trattenuti all’interno e reinvestiti per il miglioramento ed il potenziamento
dell’attività aziendale

Le Aziende di produzione sono prevalentemente private e for profit. Le Aziende di erogazione sono
prevalentemente pubbliche e sicuramente no profit.

RAPPORTO TRA AZIENDA ED IMPRESA

L’impresa è un sottoinsieme dell’azienda. Nella letteratura economico-aziendale, le imprese sono le aziende


di produzione con finalità for profit. Secondo un ulteriore definizione, le imprese sono tutte le aziende di
produzione, sia quelle for profit che quelle no profit.

4 Classificazione per dimensione

Si tratta di un criterio giuridico, non aziendale in quanto frutto della legge. La legge è intervenuta per
stabilire in modo univoco le dimensioni delle aziende. La legge dice che per poter essere classificata in una
dimensione, l’azienda deve restare in almeno due parametri di essa per almeno due anni consecutivi. Al
principio le aziende erano PICCOLE, MEDIE e GRANDI; solo successivamente sono nate le MICROIMPRESE in
quanto tutte le aziende europee, specificamente quelle italiane, si collocavano nelle piccole ed erano
disomogenee tra loto. Esistono dei parametri obbligatori stabiliti dalla legge:

 numero dei dipendenti


 fatturato: sommatoria delle vendite effettuate dall’azienda nel suo mercato in un anno, ogni
vendita deve emettere una fattura
 investimenti

GRUPPI AZIENDALI

I gruppi aziendali nascono negli anni ’70 per una ragione fondamentale, ossia il fatto che il contesto
competitivo è ormai diventato molto più difficile e globale, le aziende non riescono più a rispondere a
questa condizione con dimensioni minime, per questo risulta necessario crescere dal punto di vista
dimensionale. I gruppi aziendali risultano quindi necessari per l’incremento della produzione di beni e
servizi, per favorire le aziende come sistemi aperti e per una serie di favorevoli politiche aggregative.

Le aggregazioni aziendali sono insiemi di aziende interconnesse da legami labili oppure da vincoli tanto
stringenti da poter considerare le diverse unità produttive come un’azienda unitaria. I gruppi sono lo
strumento grazie al quale le aziende crescono e incrementano la propria dimensione. Il gruppo aziendale
aiuta le aziende perché consente una crescita in tempi rapidi, meno rischiosa e con meno investimenti.

Esistono tre tipi di aggregazioni:


1. aggregazioni basate su rapporti di tipo informale: si configura tra due aziende per un obiettivo
comune e quindi per vantaggio reciproco, non c’è nessuna formalità, nessun contratto. Vi è un
vantaggio economico in quanto non ci sono costi e l’accordo si può facilmente sciogliere;
2. aggregazioni basate su rapporti di tipo contrattuale: tratta di un accordo formale per iscritto dove
saranno presenti sia diritti che doveri. Vi è meno flessibilità, il contratto è più difficile da sciogliere e
ci sono più vincoli;
Esempi: consorzi e franchising. Il consorzio è uno strumento giuridico che disciplina
un'aggregazione volontaria che coordina e regola le iniziative comuni per lo svolgimento di
determinate attività di impresa, sia da parte di enti privati che da parte di enti pubblici (molto
vantaggioso per un’azienda piccola). Il franchising è una formula di collaborazione tra imprenditori
per la distribuzione di servizi e/o beni, indicata per chi vuole avviare una nuova impresa usufruendo
di format già sperimentati e affermati sul mercato (vantaggioso perché chi vende non deve
sostenere spese di pubblicità).
3. aggregazioni basate su rapporti di tipo patrimoniale: il gruppo. Si tratta di un’aggregazione molto
stabile e durevole perché nel gruppo si scambiano azioni tra le aziende che lo costituiscono. Un
gruppo è una serie di aziende in cui una o più sono proprietarie di altre o viceversa. Il legame non è
un contratto o una stretta di mano, ma molto più solido e duraturo in quanto sono aziende che
hanno investito nel capitale di altre aziende.

CARATTERISTICHE DEL GRUPPO

Gruppo vuol dire più società, le quali sono autonome giuridicamente (ognuna ha il suo soggetto giuridico),
ma hanno una guida unica, la “capogruppo” o “holding”, cioè un’azienda leader che sta al vertice che
influenza tutte le aziende che fanno parte dello stesso gruppo.

Caratteristiche:

 Pluralità dei soggetti giuridici  pluralità di aziende formalmente indipendenti;


 Unicità del soggetto economico  il potere di dominio sull’intero aggregato deve concentrarsi in
una sola figura, sia essa una persona o un gruppo di persone;
 Controllo tramite partecipazioni al capitale  la partecipazione deve consentire di esercitare il
concreto potere di gestione sull’azienda partecipata;
 Direzione unitaria  necessità che il soggetto economico eserciti effettivamente le proprie
prerogative su tutte le aziende partecipate.

CLASSIFICAZIONE DEI GRUPPI

Esempi di gruppi a struttura semplice con:

una società controllata CAPOGRUPPO  ALFA (solo 2 società)

più società controllate CAPOGRUPPO  ALFA BETA E GAMMA (4 società, 1 controlla, le altre 3)

In questo caso abbiamo un livello di controllo. Esistono tre diversi tipi di controllo: il controllo di diritto, di
fatto e contrattuale.

Il controllo di diritto è quando l’azienda ha il 50%+1 delle azioni di quell’altra, cioè ha la maggioranza
assoluta delle azioni. Nel controllo di fatto, vi è la maggioranza relativa e non assoluta. Il controllo
contrattuale viene stipulato un contratto in cui si decide chi ha il controllo del gruppo.
Esempi di gruppi a struttura complessa:

CAPOGRUPPO  ALFA  BETA

CAPOGRUPPO  ALFA  BETA  GAMMA

Esempi di gruppi a struttura mista:

DELTA  CAPOGRUPPO  ALFA  BETA  GAMMA

I gruppi possono essere classificati in base al grado di integrazione tra le diverse aziende:

- gruppi orizzontali: sono gruppi che lavorano nello stesso settore offrendo prodotti diversi;

- gruppi verticali: sono gruppi che hanno una serie di attività per realizzare un unico prodotto;

- conglomerati: sono una forma mista, gruppi che fanno tantissime cose diverse che non c’entrano nulla
l’una con l’altra. Si fanno i conglomerati per la diversificazione del rischio.

GRUPPO PIRELLI: storicamente nasce per


fare pneumatici, oggi è il capo di TIM.
Finalità economiche del gruppo

1. Ridurre il rischio di impresa


2. Ridurre la complessità, al fine di ridurre la concorrenza
3. Conseguire delle “economie” di scala e di scopo: più produci su larga scala, più riduci i costi; più sei
grande e più sei efficiente.
4. Aumentare la capacità di credito
5. Raggiungere finalità occulte: risparmiare le tasse
6. Operare delle ristrutturazioni aziendali per favorire lo sviluppo o fronteggiare stati di crisi
7. Sfruttare la leva azionaria:
GRUPPO Holding  A (100%)  B (60%)  C (50%)  D (60%)
Se il capitale di D è 100 e D fallisce, H cosa perde? (H controlla D indirettamente)
Se D perde 100, C perde il 60%, B perde il 30%, A perde il 18%, H perde il 18%
Dunque, in un gruppo, fallendo una società pari a 100, la capogruppo perde 18. Questa è la LEVA
AZIONARIA: effetto leva, cioè un effetto moltiplicatore. Attraverso questo meccanismo di controllo,
estendendo sempre di più la catena, più vai avanti, più ci guadagni, cioè fai leva, riduci al minimo le
perdite, il rischio.

Le LEGGI AZIENDALI sono i principi guida dell’economia aziendale, cioè EFFICIENZA, EFFICACIA ed
ECONOMICITÀ. Si tratta di leggi che possono anche essere misurate attraverso un calcolo. Queste leggi
sono sia principi guida che obiettivi dell’azienda, in quanto ogni azione che l’azienda svolge deve essere
indirizzata al raggiungimento di questi obiettivi. Sono principi‐guida cui devono attenersi gli operatori
economici nell’assumere le scelte e nel regolare i propri comportamenti.

EFFICIENZA: l’efficienza è l’ottimizzazione delle risorse disponibili, è una legge dell’economia aziendale che
punta ad ottimizzare e migliorare l’uso delle risorse disponibili a parità di risultati. L’efficienza è anche detta
legge del MINIMO MEZZO E MASSIMO RISULTATO, minimizzando le risorse e massimizzando il risultato che
si vuole raggiungere. Un’azienda è efficiente se capace di ottenere il massimo risultato utilizzando il minor
numero possibile di risorse. L’efficienza è un concetto relativo perché è un rapporto tra input e output.

L’efficienza è data dal rapporto tra output e input (INPUT: qualunque risorsa in ingresso della nostra
azienda, qualunque risorsa che entra nell’azienda; OUTPUT: qualunque cosa che esce dall’azienda e ritorna
sul mercato)

Ogni azienda acquisisce e trasforma input e genera output. L’efficienza è minimizzare l’input, che
rappresenta un costo per l’azienda, e massimizzare l’output.

L’efficienza è un rapporto: quantità di output / unità di input

Esistono due tipi di efficienza:

 efficienza tecnica o produttiva: (osserva le quantità fisiche, che fanno riferimento alle
caratteristiche del bene (es. peso, funzioni, materiale). Misura il modo in cui i fattori sono utilizzati
nel processo produttivo. Indica la capacità dell’azienda di produrre più unità fisiche di output dato
un certo ammontare di input e una certa tecnologia o viceversa.
 efficienza allocativa o gestionale: (osserva le quantità monetarie, ossia l’espressione del bene in
denaro (quanto costa). Misura la capacità di combinare input e output al minimo costo. Indica la
capacità dell’azienda di ottenere più unità di output con la minore quantità di mezzi monetari a
disposizione, possibile attraverso i risparmi ottenuti sul mercato (sia nei processi di acquisto di
input che di vendita di output).

È necessario che un’azienda sia anche efficace, e non solo efficiente. L’efficacia e l’efficienza sono due facce
della stessa medaglia.

EFFICACIA: un’azienda è efficace quando ha raggiunto con successo gli obiettivi prefissati. L’efficacia è la
massimizzazione dei ricavi e dell’output, cioè il raggiungimento degli obiettivi dell’azienda. L’efficacia è il
rapporto tra risultato raggiunto ed obiettivo prefissato.

Esistono due tipi di efficacia:

 efficacia interna o gestionale (output/obiettivi): misura e indica la capacità di raggiungere


determinati obiettivi prefissati
 efficacia esterna o sociale (obiettivi/risultati): misura e indica la capacità dell’azienda di soddisfare i
bisogni

L’ECONOMICITÀ è la contemporanea presenza di efficienza ed efficacia. Il concetto di economicità


sintetizza la capacità dell’azienda nel lungo periodo di utilizzare in modo efficiente le proprie risorse
raggiungendo in modo efficace i propri obiettivi (efficienza + efficacia). L’economicità non si può misurare.

In generale, le imprese sono più forti sull’efficienza, mentre le aziende pubbliche sull’efficacia.

RAPPORTO TRA ECONOMICITÀ ED EQUILIBRIO ECONOMICO

L’economicità è nel breve periodo (3/5 anni). Come diceva Keynes, il più grande economista mondiale, è
inutile preoccuparsi del lungo periodo, perché nel lungo periodo saremo tutti morti. Tuttavia, lui era un
economista, non un aziendalista; pertanto non sa che le aziende non nascono per il breve periodo, ma per il
lungo. È importante capire come l’economicità da breve diventa lungo periodo.

L’equilibrio economico è una caratteristica e l’obiettivo fondamentale dell’azienda. Alla base dell’equilibrio
economico vi sono efficienza ed efficacia. Vi è poi l’economicità e l’equilibrio finanziario (l’equilibrio di cassa
tra entrate ed uscite, cioè il movimento del denaro, della finanza). L’obiettivo è che nelle aziende pubbliche
le entrate siano pari alle uscite, invece nelle imprese le entrate devono essere superiori alle uscite. Vi è poi
l’equilibrio reddituale, cioè l’equilibrio fra costi e ricavi. L’obiettivo è che nelle aziende pubbliche vi sia un
pareggio tra costi e ricavi, invece nelle imprese i ricavi devono essere superiori ai costi.

I motivi principali per cui falliscono le aziende in Italia: le uscite superano le entrate, i costi superano i ricavi
e liti tra soci (motivo più importante e problema umano). Pertanto, ancora più importante tra gli altri
equilibri, è l’EQUILIBRIO SOCIALE, non più un equilibrio materiale, riguardante i soldi.

L’APPROCCIO SISTEMICO PER LO STUDIO DELL’AZIENDA

Che significa studiare l’azienda come un sistema? Cosa devo osservare quando studio l’azienda come un
sistema?

L’azienda è un sistema, concetto che deriva dalla biologia (la scienza che studia la vita). Un sistema è un
insieme di esseri viventi; in biologia esiste il concetto di ecosistema: stando insieme in uno stesso sistema
bisogna trovare delle condizioni in cui si possa vivere in comune. Cosa significare vivere in un sistema
economico? Le aziende vivono con altre aziende, questa convivenza necessaria può essere sia pacifica,
creando sviluppo e ricchezza, che pericolosa. Ogni comportamento dell’azienda è una conseguenza del
sistema economico in cui essa vive.

Nell’ambito del sistema economico, iniziamo a vedere l’ambiente interno all’azienda e poi quello esterno, il
quale è molto più grande e complesso.

TRATTI COSTITUTIVI DI OGNI AZIENDA:

1. SCOPO  “mission”, ogni azienda nasce con un obiettivo, una finalità, cioè un bisogno da
soddisfare. Il momento di genesi dell’azienda è un momento immateriale, legato ad un’idea; la
nascita dell’azienda è un momento teorico e astratto. In seguito, è necessario passare da un piano
immateriale (concetto di idea) ad un piano materiale.
Passiamo da un’idea alla realizzazione di essa (operazione di concretezza). Non tutte le idee sono
realizzabili, pertanto è necessaria una fase di selezione, lasciando solo le idee concrete, che
possono trasformarsi immediatamente in un’azienda atta a soddisfare dei bisogni
2. STRUTTURA  è l’organizzazione dell’azienda ed è necessaria per mettere in atto l’idea
dell’azienda stessa. Gli elementi di base della struttura sono uomini e mezzi, cioè risorse umane e
beni. La struttura non è teorica o astratta, va su un piano concreto.
3. OPERAZIONI  uomini e mezzi svolgono le tre attività: ACQUISIZIONE, TRASFORMAZIONE E
VENDITA. Ci troviamo ad un terzo livello ancora più concreto e pratico.
4. RISULTATI  sono le conseguenze dell’attività dell’azienda. Ogni operazione ha un impatto
economico che noi misuriamo in termini di costi, entrate ed uscite. Quelle risorse su cui ho investito
inizialmente devono necessariamente tornare, devono essere remunerate. Attraverso le vendite
ottengo una trasformazione dell’output in denaro, e posso ottenere dei risultati e misurarli.

Tra una fase ed un’altra c’è un rapporto causa-effetto.

Se l’attività aziendale ha delle difficoltà, per capirne il motivo bisogna osservare per prima cosa i risultati
(facendo i conti si individuano le perdite). Essi possono essere positivi o negativi, pur essendo un punto di
vista relativo, in quanto dipende dall’azienda. Se i risultati sono negativi, bisogna andare a vedere cosa c’è
di sbagliato. Ci può essere un problema nelle operazioni (negli acquisti o vendite), tuttavia a volte non basta
individuare il problema, bisogna individuare il livello di gravità delle problematiche dell’azienda.

La scienza che studia lo scopo si chiama STRATEGIA. La scienza che studia la struttura è la combinazione. La
scienza che studia le operazioni è la GESTIONE AZIENDALE. La scienza che studia i risultati è la CONTABILITÀ
e BILANCIO.

La gestione si occupa di definire l’insieme coordinato di operazioni dell’azienda . L’organizzazione studia il


coordinamento e la dimensione del lavoro in azienda. La rivelazione è la parte del bilancio e della
contabilità: si procede ad una quantificazione monetaria dell’attività svolta dall’azienda.

Esistono due prospettive di osservazione:

VISIONE OGGETTIVA: economia aziendale come scienza degli andamenti, studio delle componenti “hard”
dell’azienda. Studia come si muovono le aziende (il primo elemento dell’andamento è il bilancio).

VISIONE SOGGETTIVA: economia aziendale come scienza dei comportamenti, studio delle componenti
“soft” dell’azienda. Studia il comportamento dell’uomo all’interno dell’azienda.
L’organizzazione può essere rappresentata tramite un organigramma: c’è uno sviluppo verticale, ciò implica
una struttura gerarchica.

MARZOTTO anni ‘50

Modello funzionale: vengono identificate le diverse funzioni che svolge l’azienda (acquisizione,
trasformazione e vendita). Lo schema è basato sulle competenze.

Consigliere delegato:

Direttore generale: ha il compito di coordinare

Direzione generale commerciale: uffici, impiegati

Direzione generale tecnico-produttiva: impianti, officine, macchine, tecnici

Direzione acquisti: acquistare materia prima necessaria a sviluppare il business

Direzione di stabilimento: si trasforma la materia prima fino ad arrivare ad i vestiti

Direzione vendite: trovare clienti, fissare prezzi, fare pubblicità

In seguito al boom di Marzotto, si passa da un modello funzionale ad un modello divisionale. Marzotto


diventa un gruppo: l’azienda cresce come dimensioni, c’è complessità, quindi bisogna affiancare
all’amministratore delle nuove persone per gestire meglio l’azienda. In alto vi è il presidente e in seguito
amministratore delegato. Nella parte centrale, aggiungiamo delle funzioni trasversali, cioè delle attività che
l’azienda deve svolgere necessariamente a prescindere dalle sue dimensioni o dal suo business.

Questo modello è chiamato divisionale perché negli anni ‘50 Marzotto produceva un solo prodotto, cioè si
dedicava solo all’abbigliamento, e poi in seguito ha iniziato anche a vendere e commercializzare i tessuti.
Marzotto raddoppia l’output: avendo due prodotti che hanno qualcosa in comune ma processi produttivi
diversi, bisogna duplicare le attività. Restano le 3 fondamentali attività, però raddoppiano (3 per ogni
prodotto che si realizza). Il modello divisionale genera una duplicazione dei costi, avendo due uffici che
fanno la stessa cosa applicata a prodotti differenti. Dunque, lo svantaggio del modello divisionale è quello di
essere molto costoso, mentre il vantaggio è la specializzazione.

Esistono modelli che vanno in profondità sulle singole funzioni: MODELLO DIVISIONALE GEOGRAFICO. Qui
la divisione non è solo legata al prodotto, può anche essere legata al mercato in senso fisico, cioè dove
vendo quei determinati prodotti.

È l’organizzazione che si adatta all’azienda, e non viceversa; i modelli sono flessibili, è sempre l’azienda che
determina le proprie necessità ed in funzione di questi bisogni si crea l’organizzazione. A volte cambiare
l’organizzazione è problematico, essendo un processo molto lungo e difficile. A volte le aziende diventano
schiave della propria organizzazione, ma questo è possibile solo nel breve periodo.

Funzionale: rispetto alle funzioni di base

Divisionale: per prodotti o mercati

Caratteristiche che influenzano gli organigrammi: clienti, tecnologia, prodotti


Flat organization (Facebook, Google…): organizzazione piatta, è una linea retta. Non c’è più il modello di
sviluppo verticale inteso in senso gerarchico: tutti sono alla pari, infatti non vi sono più uffici chiusi, ma
open space. Gli orari sono flessibili, perché la flessibilità è l’unico strumento per stimolare la creatività. Il
business di queste aziende è basato sulla capacità di disegnare il mondo e il futuro.

CLASSIFICAZIONE DEI SISTEMI ESTERNI ALL’AZIENDA:

L’azienda in quanto sistema aperto vive un costante rapporto di scambio con l’ambiente esterno dal quale
riceve degli input (fattori produttivi, vincoli legislativi, opportunità) e nel quale colloca i suoi output
(prodotti/servizi, altri fattori). Fuori dall’azienda c’è un ambiente naturale e uno economico:

1 ambiente fisico-naturale, macroambiente: l’ambiente fisico naturale vede l’azienda come un essere
vivente che si va confrontare con la natura (materie prime) e che deve essere attenta a preservare
l’ambiente che la circonda. Inoltre, l’azienda ha come scopo quello di creare valore, per questo possiamo
dire che l’azienda ha una responsabilità sociale nei confronti dell’ambiente.

2 ambiente economico o competitivo, microambiente: fa riferimento alle relazioni di scambio attivate


dall’azienda e coincide con i mercati di approvvigionamento dei fattori produttivi o di sbocco dei prodotti.

Nell’ambiente economico esistono diversi tipi di mercato:

 mercato del lavoro: la domanda è fatta dall’azienda, l’offerta dai lavoratori. L’azienda ha bisogno
dei lavoratori. Il punto di equilibrio è dato dalla retribuzione, dal salario. Nel mercato del lavoro,
efficienza è pagare di meno i lavoratori; efficacia è essere disposto a pagare di più per avere
maggiore qualità;
 mercato finanziario o mercato dei capitali: dove si reperiscono le risorse monetarie. L’azienda ha
necessariamente bisogno di capitali, nasce nel mercato finanziario. La domanda è fatta dall’azienda
e l’offerta da chi possiede il capitale, cioè le banche, lo Stato e le famiglie. Domanda e offerta si
mettono in equilibrio tramite il prezzo, in questo caso il tasso di interesse. Nel mercato dei capitali,
efficienza è prendere soldi e pagare di meno, dunque tasso di interesse minore possibile; efficacia,
prendere quanti più soldi possibili. Equilibrio tra la disponibilità temporale del denaro e il costo;
 mercato dei clienti: l’azienda fa l’offerta e il cliente la domanda. Il punto di equilibrio è il denaro
che accontenta contemporaneamente entrambi.
 mercato delle materie prime (input) o dei fornitori: l’azienda fa la domanda ed il fornitore
l’offerta. C’è interesse convergente, per cui ci si mette d’accordo sulla base di un prezzo di acquisto.

La sfida è tenere in equilibrio tutti i mercati, infatti si parla di equilibrio multiplo (contemporaneamente
interno, esterno, col clima…), senza mai rompere uno a vantaggio di un altro. Naturalmente, c’è un conflitto
tra l’azienda e i mercati in cui opera; questi conflitti si risolvono sul piano immateriale.

L’azienda è un fenomeno sociale che vive necessariamente in un sistema per cui ha una POSIZIONE
PASSIVA, cioè subisce i cambiamenti che arrivano dal mercato e dall’ambiente esterno, e una POSIZIONE
ATTIVA, cioè li anticipa trasformandoli in attività o fattori di crescita. Al giorno d’oggi, la sfida dell’azienda è
trasformare la minaccia in opportunità. La bravura sta nel giocare un ruolo attivo, anticipando i
cambiamenti e trasformando tutte le minacce in grandi opportunità.

L’azienda come sistema aperto intrattiene delle relazioni con diversi soggetti. Si tratta di una relazione
biunivoca, cioè ha due direzioni opposte: da una parte abbiamo un flusso finanziario e dall’altro un flusso
reale, cioè cose e beni.
RELAZIONI FRA AZIENDA E FORNITORI: l’azienda ha un flusso in uscita finanziario verso i fornitori, cioè paga
i fornitori; in cambio, i fornitori daranno la materia prima, l’input all’azienda.

Oggi la responsabilità sociale dell’azienda non è più solo verso clienti, fornitori, lavoratori…, ma su un piano
più ampio e immateriale: possiamo parlare di responsabilità ecologica (tutela dell’ambiente, salvaguardia
delle risorse naturali), responsabilità sociali (diritti dei lavoratori) … esempio: Chevron pagherà 8.6 miliardi
danni ambientali in Amazzonia  quando rompi un equilibrio, in questo caso ambientale, prima o poi
andrai a perdere economicamente in quanto arriveranno sanzioni, multe, condanne. Altro esempio: Mazda
è condannata a risarcire la famiglia di un dipendente suicidatosi per il troppo lavoro.

RIEPILOGO I caratteri dell’azienda come sistema:

 l’azienda è un sistema aperto, che scambia in modo biunivoco con l’ambiente esterno, dunque
riceve input e consegna output;
 l’azienda come sistema dinamico, in continuo cambiamento, non si può raggiungere mai un
equilibrio statico;
 l’azienda come sistema complesso, cioè la somma di tutti gli altri;
 l’azienda come sistema finalizzato, che ha un fine e un obiettivo, cioè l’equilibrio;
 l’azienda come sistema probabilistico, imprevedibile, si può prevedere solo in termini di probabilità.

Oggi cos’è un’azienda? Al centro vi è la struttura o organizzazione, a sinistra abbiamo l’ambiente


competitivo, dove abbiamo il prodotto e il business, a destra abbiamo il sistema sociale, cioè la parte
immateriale (interessi, attese, aspettative). Il punto di unione è la CONSONANZA, mettere d’accordo la
parte materiale con quella immateriale.

GLI STAKEHOLDER AZIENDALI ED IL GOVERNO DELL’AZIENDA

Gli “stakeholder” sono i portatori di interessi  ogni soggetto o istituzione che in qualche modo ha un
certo interesse per l’azienda può essere definito stakeholder. Ci basta osservare una serie di soggetti e
capire se questi hanno una qualche forma qualunque di interesse verso l’azienda, cioè osservano l’azienda
in una prospettiva di interesse. Gli interessi possono essere diversi: materiali, cioè soldi o prodotti, ma
anche interessi immateriali, cioè lavorare in un clima favorevole o essere apprezzati. Gli stakeholder
possono essere innumerevoli, pertanto bisogna raggiungere un equilibrio con tutti gli stakeholder
contemporaneamente, che è un equilibrio necessario per la sopravvivenza dell’azienda.

L’azienda sta al centro ed attorno gravitano una serie di soggetti che noi chiamiamo genericamente
“stakeholder”: clienti, lavoratori, banche, fornitori, proprietari del capitale.

CLASSIFICAZIONE DEGLI STAKEHOLDER:

1. stakeholder esterni:

istituzioni pubbliche e private; fornitori di beni e servizi; clienti.

2. stakeholder interni: proprietari; management; dipendenti.

SOGGETTO ECONOMICO e SOGGETTO GIURIDICO

Il SOGGETTO GIURIDICO è il titolare dei diritti e dei doveri legati all’esercizio dell’attività aziendale. Sono i
soggetti titolari di queste responsabilità che nascono quindi dalla costituzione dell’azienda e dal suo
esercizio. La responsabilità giuridica deriva dalla proprietà del capitale, possiamo difatti rappresentare il
soggetto giuridico con il proprietario del capitale. Il soggetto giuridico è sempre certo e sicuro, quindi è
sempre individuabile, il che è un grande vantaggio.

Il SOGGETTO ECONOMICO è il soggetto nel cui prevalente interesse si svolge la gestione: significa che
l’azienda è gestita nell’interesse del soggetto economico, l’azienda farà gli interessi del suo soggetto
economico. È fondamentale sapere un’azienda di chi fa gli interessi per capire come sarà gestita. Questa è
la definizione di Zappa, tuttavia ne esistono diverse, in particolare una classica e una moderna. Secondo la
definizione classica, il soggetto economico è colui o coloro che rappresentano gli interessi istituzionali della
combinazione produttiva. L’azienda come parte dell’istituto ha una sua finalità e un suo interesse di fondo
legato alla sua attività; il soggetto economico è proprio colui in cui si va a identificare questo interesse di
fondo. Non vi è un interesse prevalente (per Zappa l’interesse prevalente è il profitto), ma istituzionale, cioè
una finalità di fondo più grande, legato alla finalità dell’istituto. Secondo la definizione moderna, il soggetto
economico è rappresentato dai soggetti in cui si accentra il potere volitivo e che dominano i massimi organi
di governo dell’azienda.

La differenza principale tra soggetto giuridico ed economico è che quest’ultimo a volte non è certo e sicuro,
difatti esistono delle teorie del soggetto economico.

Esistono varie teorie del soggetto economico:

 istituzionale: i soggetti economici sono i soci (soldi) e i dipendenti (coloro che tutti i giorni fanno
l’azienda).
 giuridico-formale: (sottoinsieme della teoria istituzionale) il soggetto economico è il socio di
maggioranza, colui che ha più azioni.
 sostanziale: chi di fatto esercita la funzione di governo (amministratore delegato, cioè che ha
ricevuto la delega dai soci).
 tecnico: chi di fatto ha le competenze per esercitare la funzione di governo.

Nelle società di capitali (SPA o SRL) e nelle società di persone (SNC o SAS) più persone si mettono insieme e
costituiscono un’azienda. La differenza tra società di persone e società di capitali è che nella prima la
responsabilità dei soci è illimitata, cioè che più persone si mettono insieme per fare una società di persone
e se le cose vanno male, i soci possono perdere tutto (tutto il loro patrimonio); nella seconda la
responsabilità è limitata al capitale conferito in azienda. Nelle società di capitali i soggetti giuridici sono i
soci; il soggetto economico dipende da caso a caso.

Nelle ditte individuale, il soggetto giuridico è il proprietario dell’azienda; il soggetto economico non si sa con
certezza, ma se la ditta è piccola ed individuale avremo una coincidenza tra soggetto giuridico ed
economico.

I gruppi aziendali hanno un solo soggetto economico e tanti soggetti giuridici. Il soggetto economico è la
capogruppo “holding”. Nelle aziende pubbliche, l’interesse prevalente è nei dipendenti, dunque il soggetto
economico sono i dipendenti.

La corporate governance è una disciplina che rappresenta le modalità di governo delle aziende, cioè come
si tengono in equilibrio gli stakeholder. Abbiamo due modelli di riferimento fondamentali: il modello
RENANO (dal fiume Reno) e il modello ANGLOSASSONE. Il primo è prevalentemente europeo, pur
trovandosi anche in Giappone; il secondo è prevalentemente inglese e americano. L’equilibrio degli
stakeholder deriva dal modello che si sceglie di corporate governance. Questi due modelli derivano da due
teorie fondamentali: la “stakeholder theory” e la “shareholder theory”. La stakeholder theory (portatori di
interesse) rappresenta il modello renano; la shareholder theory (portatori di capitale delle azioni)
rappresenta il modello anglosassone. Shareholder è un sottoinsieme di stakeholder, in particolare
stakeholder è la categoria in generale, mentre gli shareholder sono i capitalisti e gli azionisti. La teoria degli
stakeholder è stata elaborata da Freeman (1963); la teoria degli shareholder è stata elaborata da Friedman
(1962). Friedman è il più grande economista liberale, è per l’economia di mercato; Freeman era un
economista di sinistra, secondo il quale il mercato non risolve nulla e c’è bisogno dell’intervento dello Stato
nell’economia per risolvere i problemi. Secondo Friedman, l’azienda deve fare primariamente gli interessi
degli azionisti, gli shareholder, i soggetti economici. Secondo Freeman, l’azienda deve fare gli interessi di
tutti gli stakeholder, senza preferenze. Il modello renano è un modello banco centrico, la banca è il centro
dell’economia. (In Italia le aziende quotate in borsa sono 200, di cui una sola del Sud). La ricchezza in Italia è
immobile, statica, consolidata su un conto corrente bancario e nelle case. Nel modello anglosassone il
centro dell’economia è la borsa, tutte le aziende sono quotate in borsa. La ricchezza in America è maggiore
ma più diseguale.

LA STRATEGIA

La strategia deriva dal greco: STRATOS e GOS: questo termine nasce in ambito militare e significa condurre
gli eserciti. Ogni azienda ha una strategia, cioè vuole mettere in campo una serie di strumenti e mezzi per
raggiungere il suo obiettivo. Vi sono una serie di elementi comuni alle definizioni di strategia:

 definizione di obiettivi di lungo termine: quando parliamo di strategia, osserviamo l’azienda


necessariamente nel lungo periodo;
 condivisione e pervasività nell’azienda degli obiettivi strategici: la strategia nasce dall’alto e si
sviluppa verso il basso dell’azienda, l’ideale sarebbe che chiunque in azienda conosce e condivide la
strategia elaborata al vertice. Una delle responsabilità dell’amministratore è far sì che tutti si
convincano della strategia. Esiste anche un modello di strategia che va dal basso verso l’alto ed è
una strategia che deriva dal fare: i lavoratori si confrontano con i clienti e possono avere delle idee
da consigliare a chi sta al vertice (possiamo individuare questo modello nelle imprese);
 pianificazione e sviluppo di azioni dirette ad orientare la gestione verso gli obiettivi e la creazione di
valore;
 acquisizione e allocazione delle risorse necessarie: strategia vuol dire dove allocare le risorse chiave
dell’azienda, cioè capitali e persone. La strategia si occupa di assegnare i capitali all’organizzazione,
cioè decidere e scegliere i migliori investimenti, e mettere le persone giuste al posto giusto per
valorizzare l’attività.

Fare strategia significa decidere quale prodotto voglio vendere, e quindi quale bisogno voglio soddisfare,
poi dove lo voglio vendere, in quale mercato, chi è il mio cliente, come lo voglio vendere, con che
tecnologia, quale combinazione produttiva ho a disposizione per realizzare il prodotto. Quindi: in quali
mercato e/o settori operare, in che modo confrontarsi con la concorrenza, come dare attuazione alle
diverse funzioni che compongono il circuito degli investimenti (approvvigionamento, produzione e vendita).

L’orientamento strategico di fondo rappresenta la parte celata ed invisibile del disegno strategico. Si
compone di valori, idee guida, convincimenti di fondo che possono essere sintetizzati.

IL SISTEMA DELLE DECISIONI AZIENDALI

Le decisioni aziendali possono essere classificate in un triplice livello gerarchico:


 decisioni strategiche: idee di fondo, che riguardano i tratti costitutivi, cioè la struttura dell’azienda,
sia materiale che immateriale. Le decisioni strategiche sono a volte idee pure e sono quelle di lungo
termine. Clienti, prodotto, tecnologia, organizzazione dell’azienda e valori perseguiti sono 5
elementi strategici;
 decisioni tattiche: più pratiche, sono importanti ma riguardano attività quotidiana.
Se voglio scegliere quale banca mi deve prestare i soldi, non sto compiendo una decisione
strategica, ma tattica perché chi mi presta i soldi è indipendente dai 5 elementi strategici.
 decisioni operative: più elementare, sono le decisioni quotidiane e servono per tenere in piedi
l’azienda.
Se la decisione tattica è scegliere da quale banca prendere i soldi, la decisione operativa sarà come
restituire i soldi alla banca.

LA STRATEGIA E LE POLITICHE AZIENDALI

La strategia aziendale è una e sta al centro, ciò che sta attorno sono le politiche. La strategia è l’idea di
fondo da tramutare in atti operativi, cioè mette in campo delle politiche. In funzione della mia strategia
avrò tante politiche quante sono le attività e le funzioni aziendali: politica del personale, politica
ambientale, politica commerciale (rapporto con i clienti), politica fiscale (rapporto tra azienda e fisco). Tutte
le politiche dell’azienda fanno riferimento ad una strategia che è il motivo di fondo che tiene in piedi queste
politiche.

Quando parliamo di strategia, facciamo riferimento alla strategia realizzata che è la parte visibile di un
processo strategico, in cui eliminiamo delle idee strategiche in quanto non realizzabili. Si ha inizialmente
l’intenzione strategica, cioè l’idea pura; normalmente la strategia nasce in forma inconsueta, il problema è
realizzare tale strategia; allora inizia un processo di selezione in cui rimuovo una parte di idee per
approdare alla strategia decisa. L’azienda però non sempre riesce a fare quello che pensa di fare e quindi
deve cercare un’alternativa per approdare ad una strategia realizzata. Paradossalmente oggi le aziende più
grandi e più forti sono quelle che non lo fanno questo processo, si fermano direttamente all’intenzione
strategica.

INTENZIONE STRATEGICA (parte rimossa o abbandonata)  STRATEGIA DECISA (+ parte emergente, - parte
non attuata)  STRATEGIA REALIZZATA

LIVELLI DELLE STRATEGIE

È possibile analizzare la strategia su 2 livelli:

1. Livello corporate: è il livello aziendale dove noi raggruppiamo le strategie di fondo che riguardano
gli obiettivi di lunga durata dell’azienda, cioè la filosofia di fondo, l’organizzazione, la struttura
dell’azienda che è la parte più solida e duratura. Le strategie di corporate sono legate ai valori,
dunque avremo una strategia sociale, strategie organizzative ed economico-finanziarie.
2. Livello business: definito ASA (area strategica di affari), è l’insieme di clienti, prodotti e tecnologie;
ogni combinazione di questi 3 elementi mi dà un’ASA.

A livello corporate, l’azienda avrà sicuramente una strategia di fondo e una molteplicità di strategie a
livello business.

FORMULA IMPRENDITORIALE: modello di interazione con l’ambiente attraverso il quale l’impresa


persegue una certa idea di successo imprenditoriale.
Come si valuta una strategia sia a livello ASA che a livello corporate?

Esistono una serie di strumenti che servono a valutare la strategia, tra cui:

• l’analisi SWOT (modello americano): è una matrice con 4 quadranti, ognuno dei quali possiede una serie
di domande che servono a capire come si posiziona l’azienda rispetto al mercato e ai concorrenti. L’analisi
SWOT è molto utilizzata perché ha un grande punto di forza, cioè non pensa soltanto all’azienda nel
presente, ma anche al futuro (questo è possibile introducendo una variabile temporale). SWOT è un
acronimo che sta a rappresentare i 4 quadranti (strengths, weaknesses, opportunities, threats);

• modello delle cinque forze competitive di Porter: l’azienda nel confrontarsi in un mercato, con un
prodotto, con un cliente, deve fare i conti con almeno 5 forze. Per prima cosa l’azienda deve conoscere il
nemico, che può essere occasione di minaccia e di crisi. La cosa importante è analizzare queste 5 forze e
cercare di pensare per ognuna una strategia di competizione vincente (un vantaggio competitivo durevole
nel tempo). Quando l’azienda decide di entrare in un settore si pone il problema dei:

1. concorrenti: soggetti che offrono la stessa tipologia di prodotto sul mercato. L’azienda deve cercare
di individuare tutti i concorrenti per capire come lavorano per poterli superare e surclassare;
2. clienti: i destinatari dell'output prodotto dall’impresa. È il cliente che decide il prezzo e la qualità del
prodotto o del servizio secondo i propri gusti;
3. fornitori: coloro dai quali l'azienda acquista materie necessarie per svolgere il processo produttivo.
Proprio per la loro necessità sono loro a porre le condizioni (decidono i tempi, la quantità e i prezzi),
per cui l’azienda è debole. Inoltre il fornitore è importante perché determina la qualità del
prodotto;
4. produttori sostitutivi: soggetti che immettono sul mercato dei prodotti diversi da quelli dell'impresa
di riferimento, ma che soddisfano, in modo diverso, lo stesso bisogno del cliente;
5. nuove imprese concorrenti (potenziali entranti): soggetti che potrebbero entrare nel mercato in cui
opera l’azienda.

In un mercato in cui ci sono meno concorrenti, è più facile competere. La strategia non è solo il mercato
attuale (clienti, fornitori), ma anche il mercato futuro (nuove imprese concorrenti e produttori sostitutivi).

LA MATRICE BOSTON CONSULTING GROUP

La matrice BCG è una chiave di consulenza che ha fatto la sua matrice per analizzare la strategia. È molto
semplice perché utilizza un linguaggio e dei termini banali, che possono essere compresi da tutti. Vengono
utilizzate due variabili: sull’asse delle x, la quota di mercato e sull’asse delle y, il tasso di crescita del
mercato. La quota di mercato è il rapporto tra il mio fatturato e il totale del fatturato del settore, attraverso
cui posso capire se la mia quota sia alta o bassa. Questo è un elemento statico; elemento dinamico: questo
mercato cresce o fallisce?

La matrice BCG ci propone a tal proposito 4 tipi di aziende:

1. STAR: un’azienda che sta contemporaneamente in un mercato in espansione avendo una quota di
mercato alta (posizione migliore).
2. DOG: è un’azienda con una quota molto piccola e sta in un mercato in esaurimento, destinato a
morire (posizione sfavorevole). Qui la strategia è vendere il più possibile e cambiare mercato.
3. CASH COW (mucche da mungere): è un’azienda forte nel mercato presente che va in esaurimento.
L a strategia è mungere, cioè fare cassa, spremere: quest’azienda deve incrementare le vendite in
vista dell’esaurimento del mercato.
4. QUESTION MARK (enigmi): è un’azienda piccola in un mercato in espansione.

Una stessa azienda si può muovere in questi quadrati, cioè che anche il cane può diventare stella.

LE STRATEGIE COMPETITIVE

Esistono 2 tipi di strategie:

 LEADERSHIP DI COSTO  un’azienda che punta ad ottimizzare i costi e produrre il suo prodotto che
deve costare meno di ogni concorrente, quindi unta ad arrivare sul mercato col prezzo più basso
possibile. Lavora sull’efficienza, cercando di spremere al massimo i fattori produttivi, comprese le
risorse umane, la tecnologia ecc. Il cliente razionale sceglierà il prezzo più basso possibile, si farà
orientare dal prezzo.
 DIFFERENZAZIONE  un’azienda che punta a vendere un prodotto unico ed inimitabile. L’azienda
punta alla qualità, lavora sull’efficacia; il prezzo è più alto in funzione della qualità che caratterizza
quel prodotto. Il cliente è disposto a pagare un PREMIUM PRICE, prezzo premiale, maggiorato per
avere una qualità esclusiva.

La leadership di costo è una leadership temporanea perché si immetterà sempre nel mercato una nuova
azienda che vende lo stesso prodotto ad un prezzo più basso. La leadership di costo tendenzialmente vale
nel breve periodo e per i prodotti di massa; la differenziazione vale per il lungo periodo e per i prodotti di
nicchia.

LA VALUTAZIONE DELLA FORMULA STRATEGICA

Ci chiediamo se la strategia che stiamo applicando sia adeguata o meno. Anche qui abbiamo delle matrici:
ci sono 2 matrici in base a 2 diversi livelli di strategia aziendale:

1. MATRICE PER ASA: valutazione della strategia competitiva


Asse x: successo reddituale
Asse y: successo competitivo
Il successo reddituale attiene sempre alla classe economico-finanziario, cioè il reddito, il profitto, i
guadagni. Valuto il mio successo in base all’utile realizzato annualmente e posso avere un successo,
cioè un utile alto, o un insuccesso, cioè un utile basso. Utile alto o basso sono riferiti alle
aspettative. Il successo reddituale viene incrociato con il successo competitivo: sul mercato rispetto
ai competitori che tipo di azienda sei? Forte, piccola, grande, poco conosciuta ecc.
Paradossalmente le due misure non coincidono sempre: chi ha il successo competitivo, non sempre
ha il successo economico. L’ideale è che l’azienda sia nel punto 1 della matrice che è la migliore
soluzione.

2. MATRICE PER AZIENDA: valutazione della strategia corporate


Oltre al successo reddituale, si misura anche il successo sociale: come l’azienda è a livello
ambientale, a livello sociale, a livello politico ecc. Riguarda gli aspetti immateriali.
IL CIRCUITO DELLA PRODUZIONE

È importante ricordare che tutte le aziende producono; la produzione riguarda tre operazioni fondamentali:
acquisto, trasformazione e vendita. L’attività aziendale è un’attività complessa e dinamica, pertanto è
opportuno semplificare il nostro sistema (l’azienda) al fine di semplificare l’analisi.

A livello elementare, in tutte le aziende si svolgono diverse operazioni: attività svolte da risorse umane con
l’ausilio di altre risorse; sono attività operative (quotidiane) che riguardano una serie di obiettivi che sono
abbastanza semplici. Le operazioni in azienda sono centinaia, pertanto è opportuno aggregare le
operazioni. Si può definire processo un’aggregazione di operazioni omogenee tra di loro. Il criterio guida è
l’omogeneità delle operazioni, cioè operazioni simili, che hanno caratteristiche complementari, che
possono essere aggregate in processi. I processi sono circa una decina in azienda (12). I circuiti sono invece
aggregazioni di processi omogenei tra loro; l’azienda può essere suddivisa in 4 circuiti (i 4 circuiti ci danno il
sistema). Per ogni circuito andremo ad analizzare i processi che ne fanno parte.

CIRCUITO DELLA PRODUZIONE

Il circuito della produzione delle imprese è il complesso di azioni che consentono la trasformazione di
fattori produttivi in prodotti. Tutte le aziende producono e l’attività produttiva è l’attività in cui si crea
valore. Il circuito di produzione è il più importante perché consente la creazione di valore, cioè l’obiettivo
fondamentale, la necessità e la ragione di vita dell’azienda. L’insieme di processi che generano valore si
svolgono tutti nel circuito di produzione. Si chiama circuito perché si tratta di una serie di processi che si
svolgono necessariamente uno dopo l’altro; quando un processo finisce, ne riparte immediatamente un
altro, disegnando un cerchio infinito che si autoalimenta e che può durare per sempre. Il circuito di
produzione è formato da 3 processi:

1. acquisizione di fattori produttivi: i fattori produttivi sono gli input, ossia i fattori in ingresso
dell’azienda, che quest’ultima acquista per la produzione di un bene o per l’erogazione di un
servizio. Sono un insieme di beni, risorse, persone, che entrano in azienda e sono necessari
all’attività dell’azienda. I fattori produttivi principali sono universali per tutte le aziende: essi si
comprano nel mercato dei fornitori e in genere sono lavoro (es. risorse umane e dipendenti) e
capitale (denaro o macchinari, impianti o materie prime che servono all’attività dell’azienda).
2. combinazione produttiva: complesso di operazioni attraverso cui si utilizzano i fattori produttivi
acquisiti per realizzare i beni e i servizi oggetto dell’attività produttiva. Il fattore d’ingresso appena
acquistato dovrà essere trasformato dal punto di vista fisico o dal punto di vista spaziale (riguarda
l’attività commerciale). A differenza del primo e del terzo processo, la combinazione produttiva è un
processo interno, cioè l’azienda non ha a che fare con nessun interlocutore esterno, e in particolare
non c’è alcuno scambio nei mercati.
3. vendita di beni e servizi: riguarda la distribuzione ed il collocamento degli output ottenuti dopo la
trasformazione. È la fase più importante del circuito perché si crea valore: individua qualcuno
disposto ad acquistare gli output, per ottenere la remunerazione delle risorse monetarie investite.

Il circuito della produzione non può essere il primo circuito perché il circuito che parte con l’acquisto
presuppone che a monte si devono già avere delle risorse monetarie. Quindi la prima attività dell’azienda è
l'acquisizione del capitale.
La contabilità ha una sola regola, cioè la partita doppia. Ogni operazione ha due conseguenze: una
variazione economica e una variazione finanziaria/monetaria. In questo caso, un’acquisizione di fattori
produttivi genera un costo, ossia una variazione economica negativa, e in parallelo si svolge anche una
variazione finanziaria negativa, cioè al costo corrisponde un’uscita, che rappresenta il flusso di denaro che
va dall’azienda al fornitore. Analogamente un collocamento degli output genera un ricavo, ossia una
variazione economica positiva, e in parallelo si svolge una variazione finanziaria positiva, ossia un’entrata. Il
costo si può definire come il sacrifico economico di ricchezza necessario per godere dell’utilità produttiva
dei fattori, è il sacrificio di risorse monetarie per l’acquisizione di beni, esso corrisponde alla quantità di
denaro ceduta per acquisire una certa quantità di fattori produttivi. Il costo è in funzione di due elementi
fondamentali: il prezzo di acquisto e la quantità acquistata. C = P x Q. Il costo è misurato dal denaro. Il
ricavo è la valorizzazione economica sul mercato del bene prodotto dall’azienda, la quantità di denaro
ottenuta vendendo una determinata quantità del prodotto generato dalla combinazione produttiva.

Trattandosi di un prezzo remuneratore, le entrate saranno superiori alle uscite ed i ricavi superiori ai costi:
l’azienda recupera l’investimento sostenuto al momento dell’approvvigionamento quando finalmente
riesce a vendere i propri output sul mercato. In tal modo il circuito è in equilibrio, le risorse generate in
eccesso saranno reinvestite nell’azienda per alimentare altri circuiti e nuovi investimenti, potenzialmente
all’infinito.

Le operazioni che riguardano il processo d’acquisto sono l’approvvigionamento, cioè il fabbisogno e la


ricerca del fornitore secondo criteri di efficienza ed efficacia. In seguito, vi è l’invio dell’ordine e la consegna
della merce, ed infine la fattura, cioè il documento contabile che prova legalmente l’avvenuto acquisto.

LA COMBINAZIONE PRODUTTIVA

Si tratta prevalentemente di atti di gestione interna che si esauriscono nel processo di trasformazione; non
vi è alcuna variazione economica né finanziaria perché non c’è mercato. Come l’azienda organizza i processi
di produzione?

Asse x: varietà produttiva, cioè quanti prodotti realizza l’azienda e quanto sono diversi l’uno dall’altro.
Possiamo avere una bassa varietà, cioè l’azienda fa un solo prodotto sempre uguale e sempre allo stesso
modo, dunque parliamo di produzione standard e continua; alta varietà, cioè un’azienda che fa tanti
prodotti tutti diversi tra loro, abbastanza complessi, adatti a particolari tipologie di clienti.

Asse y: produttività, cioè la capacità produttiva dell’azienda, cioè quanti prodotti può realizzare. È una
misura della dimensione dell’azienda: le aziende più grandi hanno produttività più alta e possono produrre
più prodotti, viceversa le aziende più piccole hanno produttività più bassa.

Tra le due variabili c’è una relazione inversamente proporzionale: l’alta varietà si associa alla bassa
produttività e l’alta produttività si associa alla bassa varietà. Le aziende in alto a sinistra puntano alla
strategia leadership di costo (aziende con produzione standard), in basso a destra puntano alla
differenziazione (aziende con produzione su misura, che è anche la più ricca).

COLLOCAMENTO DEI PRODOTTI FINITI

Il processo di vendita è il processo più importante in cui si crea valore. La caratteristica comune a tutti i
processi di vendita è il ricavo, cioè la valorizzazione sul mercato del mio prodotto finito (cioè quanto vale il
mio prodotto sul mercato per il mio cliente, quindi quanto lui è disposto a pagare pur di avere il prodotto
finito).
R= Q x P  quantità di prodotti venduti per prezzo remuneratore

Il ricavo rappresenta l’entrata, cioè una variazione monetaria/finanziaria positiva.

Nel processo di vendita abbiamo una serie di operazioni consequenziali che possono essere svolte dagli
uffici nella grande azienda e da singole persone nelle piccole aziende. Prima di tutto, c’è l’area direzionale
commerciale (analisi di mercato, analisi concorrenza), poi l’area amministrativo-commerciale (gestioni
ordini), area tecnico-commerciale (gestione magazzino-spedizioni, vendite e servizi post-vendita ai clienti),
area amministrativo-finanziaria (rilevazioni ricavi e crediti, gestioni crediti e incassi da clienti, fattura di
vendita, cioè il documento legale che testimonia l’effettiva vendita).

Possiamo classificare l’azienda in base a come organizza il suo processo di vendita: abbiamo le aziende che
sono orientate al prodotto, e quindi a fare il prodotto migliore; aziende orientate alla vendita, è più
importante vendere che produrre il prodotto migliore; aziende orientate al mercato, cioè l’azienda non
pensa più ai bisogni del cliente, ma osserva il mercato e produce inseguendolo; azienda orientata al
marketing, cioè si crea il bisogno, chi lo crea per prime assume un vantaggio competitivo e sarà il leader del
mercato.

Come sono legati tra loro i tre processi e qual è l’equilibrio?

Le attività delle aziende non si avviano con la produzione, ma con il circuito finanziario. Il circuito della
produzione inizia sempre con un’uscita e finisce con un’entrata; vi è un andamento contrapposto, essi
iniziano con il segno – e devono per forza terminare con il segno + se si vuole raggiungere l’equilibrio. Che
rapporto c’è tra entrate e uscite e dunque tra costi e ricavi? Come sta in equilibrio il circuito della
produzione? Nelle imprese, i ricavi devono superare i costi, e quindi le entrate devono superare le uscite.
Nelle aziende pubbliche, ci deve essere il pareggio perfetto, dunque costi uguali a ricavi.

FATTORI PRODUTTIVI ED OBSOLESCENZA

LA CLASSIFICAZIONE DEI FATTORI PRODUTTIVI

Il fattore produttivo è ciascun elemento necessario alla produzione di un bene o all'erogazione di un


servizio. Per gli aziendalisti è una risorsa scarsa a cui posso assegnare un prezzo, quindi è solo ciò che si può
rappresentare nella dimensione economico-finanziaria, che si può misurare; per gli economisti, invece, i
fattori produttivi sono tutti quei fattori che si possono utilizzare per la produzione (anche l’aria, il sole e
l’acqua, che invece non sono considerati fattori produttivi per gli aziendalisti, perché non si possono
comprare). I fattori produttivi possono essere classificati in base alla modalità di recupero dell’investimento
fatto. I vari criteri sono:

 DURATA: in base alla durata del fattore produttivo, abbiamo i fattori pluriennali e correnti. I fattori
pluriennali possono essere utilizzati per vari anni, da 2 anni in su; i fattori correnti hanno una durata
molto più breve, al massimo un anno. Se il fattore è pluriennale vuol dire che conserva la sua
integrità.
 PARTECIPAZIONE AL PROCESSO PRODUTTIVO (in che modo impiego i fattori nell’azienda): i fattori
produttivi si dividono in generici e specifici in base al modo in cui posso utilizzarli. I fattori produttivi
generici sono fattori produttivi standard ed universali, che vanno bene per tutte le aziende; i fattori
produttivi specifici sono peculiari, hanno caratteristiche specifiche per ogni azienda. Tra i fattori
produttivi generici possiamo individuare le risorse umane e il capitale; tuttavia, ad esempio, il
denaro diventa fattore produttivo specifico per la banca, dunque la classificazione è relativa. Tra i
fattori produttivi specifici possiamo individuare materie prime (un’azienda industriale che
trasforma la materia prima in prodotto finito), macchinari, tecnologia, le merci.
 TANGIBILITÀ: si dividono in materiali e immateriali. Oggi tutte le aziende investono in fattori
produttivi immateriali, infatti i fattori produttivi materiali rappresentano una minima parte. Le
aziende per competere e generare più valore lavorano maggiormente sui fattori produttivi
immateriali. Un tipico fattore produttivo immateriale è il brand: oggi il brand può essere una
persona (Chiara Ferragni). Il fattore produttivo intangibile è il fattore centrale per la creazione di
valore nell’azienda.
 PROVENIENZA: si dividono in fattori produttivi a provenienza interna ed esterna. La maggior parte
dei fattori produttivi hanno provenienza esterna, cioè nel mercato. Generalmente il prodotto
desiderato va cercato e acquistato dal mercato, ma può succedere che l’azienda non riesce a
trovare sul mercato il prodotto desiderato e quindi lo autoproduce: in questo caso il fattore
produttivo è interno (anche nel caso in cui l’azienda necessita di un fattore produttivo specifico).

Ciò che hanno in comune tutti i fattori produttivi è il costo e per definizione i fattori produttivi sono scarsi.
Per gli economisti, il fattore produttivo è una risorsa naturale cioè considerano una risorsa come fattore
produttivo se questa è utilizzabile per la produzione. Per gli economisti una risorsa può essere considerata
come fattore produttivo se è scarsa e se posso assegnarle un costo (on a caso il costo è il fattore comune a
tutti i fattori produttivi).

Nell’ambito della classificazione, l’interesse primario riguarda la durata dei fattori produttivi. I fattori
pluriennali e correnti sono più importanti perché il tempo rappresenta un elemento di rischio per l’azienda:
più tempo passa, più si incrementa il rischio aziendale di non riuscire a recuperare l’investimento.

Sulla base della durata e del recupero distinguiamo:

 i fattori a fecondità semplici che sono i cosiddetti fattori correnti. Si tratta di fattori che esauriscono
la loro utilità economica in un unico ciclo produttivo. Il fattore produttivo a fecondità semplice o
corrente è un fattore produttivo il cui recupero avviene in un solo circuito della produzione. Posso
associare a questi fattori produttivi un basso rischio proprio perché durano al massimo un anno, c’è
un orizzonte temporale ridotto. Quando alla fine del circuito si ottiene il ricavo, che deriva dal
prezzo remuneratore, si riesce a recuperare immediatamente tutta la ricchezza investita nei fattori
correnti;
 i fattori a fecondità ripetuta che sono i cosiddetti fattori pluriennali. Si tratta di fattori che cedono
la loro utilità economica a più cicli produttivi, ai quali partecipano mantenendo inalterate le proprie
caratteristiche tecniche. Vi è il rischio di mancata remunerazione dei costi sostenuti inizialmente. Il
recupero dell’investimento in quel fattore produttivo avviene lungo tutti i suoi cicli produttivi in cui
posso utilizzare il fattore produttivo. Il recupero è proporzionale al tempo di utilizzo: più vado
avanti con il tempo, più si allontana il recupero e più aumenta il rischio che questo recupero non
avvenga mai.

Le materie prime sono fattori a fecondità semplice; la tecnologia rappresenta un fattore a fecondità
ripetuta. Il fattore produttivo a fecondità ripetuta lo acquisto una volta e lo uso all’infinito, quello a
fecondità semplice devo acquistarlo ogni volta. I lavoratori sono fattori a fecondità semplice, perché li pago
alla fine di ogni mese.

Come faccio a capire quanto dura un bene? Questo è un elemento di ulteriore incertezza, più vado avanti
col tempo, più diventa difficile che un bene abbia una durata di 20/30 anni. La vita del bene è una speranza,
la durata è un rischio. Il punto di equilibrio è il prezzo remuneratore (l’equilibrio del circuito), il quale deve
necessariamente servire per recuperare tutti costi dei fattori a fecondità semplice più una parte
proporzionale al tempo dei fattori a fecondità ripetuta. Il prezzo remuneratore deve essere maggiore
uguale di tutti i costi dei fattori a fecondità semplice più la quota parte dei costi dei fattori a fecondità
ripetuta calcolata in proporzione al tempo. Il prezzo remuneratore ricopre tutti i costi dei fattori produttivi: i
costi dei fattori a fecondità semplice devono essere recuperati tutti, i costi dei fattori a fecondità ripetuta
devono essere recuperati non tutti, ma in base al tempo. Questo lo chiameremo AMMORTAMENTO.
Questa quota si ottiene dividendo il costo del fattore produttivo pluriennale per gli anni in cui si spera di
utilizzarlo. Il prezzo remuneratore è necessario perché solo con quest’ultimo si ottiene il ricavo e si chiude il
circuito della produzione. I ricavi serviranno per fare altri investimenti e riprendere con il ciclo della
produzione.

Abbiamo introdotto un concetto fondamentale: la differenza tra vita fisica e vita economica (anche detta
vita utile).

Sull’asse del tempo t c’è una curva che arriva fino a t che ci dà la vita fisica, che è sempre più grande della
vita economica, che è sempre un sottoinsieme. Mentre la vita fisica è standard, la vita economica è
soggettiva, perché pur essendo più piccola dipende e cambia da azienda a azienda, in quanto dipende dal
tipo di utilizzo che l’azienda fa di quel tipo di fattore produttivo.

Esiste anche una vita giuridica che caratterizza ad esempio i brevetti (la titolarità, l’utilizzo esclusivo di un
bene) i quali pur essendo fattori produttivi hanno una durata.

Gli altri elementi che riducono la vita economica sono l’effetto moda, cioè il gusto dei consumatori per cui si
effettua una variazione della domanda, e l’innovazione tecnologica. Il rischio di mancata remunerazione
dipende quindi da:

 variabilità ambientale;
 rigidità di impiego del fattore;
 ampiezza temporale di utilizzo (durata fisica, giuridica ed economica).

OBSOLESCENZA

L’obsolescenza è quel fenomeno economico che determina il mancato recupero di un investimento; è il


nemico numero 1 dell’azienda essendo la causa per cui non si recuperano gli investimenti. Ciò significa che i
ricavi sono insufficienti a coprire i costi. Prevalentemente l’obsolescenza riguarda i fattori a fecondità
ripetuta, ma può riguardare anche i fattori a fecondità semplice. L’obsolescenza si ha quando la vita
economica di un fattore è finita. Essa è data dalla differenza tra vita fisica e vita economicamente utile (la
vita economica è quel periodo in cui il fattore produttivo è economicamente valido sul mercato).
L’obsolescenza può essere programmata, cioè il produttore può programmare quando rendere un prodotto
obsoleto. L’obsolescenza è un fenomeno relativo, non assoluto; dipende dalle modalità d’uso del fattore
produttivo. Il rischio più grande è l’obsolescenza delle idee, e dunque delle risorse umane dell’azienda.

Come capiamo se un prodotto è diventato obsoleto? Il riferimento fondamentale è il mercato dei clienti e
delle vendite, cioè quando non ho più ricavi remuneratori. L’unica soluzione all’obsolescenza è la flessibilità
di utilizzo, cioè in grado di essere impiegati anche in un diverso processo o attività e quindi capaci di
adattarsi alla dinamica del mercato. Bisogna investire in fattori produttivi flessibili, cioè fattori che costano
poco, facilmente sostituibili, che durano poco; ma anche flessibilità dei manager per innovare
continuamente l’azienda e riguardo i macchinari “leasing” (prendere un macchinario in prestito al fine di
cambiarlo quando questo diventa obsoleto). Il leasing comporta una sharing economy: non più proprietari
di nulla, ma in affitto perenne.

LE FONTI DI FINANZIAMENTO DELL’AZIENDA

Il circuito finanziario riguarda il movimento del denaro e ha come oggetto che si muove all’interno di esso
esclusivamente il denaro, che è un fattore produttivo, ma anche e soprattutto costitutivo.

Il circuito di produzione è il più importante, tuttavia non è il primo dal punto di vista temporale. Siccome il
circuito della produzione inizia con un’uscita, è necessario che già prima di quest’ultimo all’interno
dell’azienda ci sia del denaro. Il modo con cui viene acquisito il denaro da un’azienda riguarda le fonti di
finanziamento, quindi per fonti di finanziamento si intendono i soggetti che finanziano l’azienda, cioè che
apportano le risorse monetarie o finanziarie necessarie per avviare il circuito della produzione. Dunque,
l’attività dell’azienda non inizia nel mercato di approvvigionamento, ma nel mercato di capitali, che è il
momento temporale collegato alla genesi dell’azienda.

Possiamo classificare le fonti di finanziamento aziendali in:

 FONTI INTERNE, cioè l’azienda stessa, l’AUTOFINANZIAMENTO: l’azienda da sola riesce a generare
un certo quantitativo di risorse necessarie per continuare ad alimentare i suoi investimenti. Questa
è la condizione migliore perché è in perfetto equilibrio, perfetta autonomia oggettiva e soggettiva.
Come l’azienda riesce a raggiungere quest’obiettivo e a creare valore da sola? L’autofinanziamento
si genera nella terza fase del circuito della produzione, dall’attività di vendita, cioè dagli utili che
l’azienda ha generato e che saranno reinvestiti in un altro circuito della produzione . L’attività di
vendita genera ricavi remuneratori, i quali coprono tutti i costi e in più danno la possibilità di genera
un surplus di ricchezza, cioè l’utile o profitto dell’azienda. Le risorse che genero come surplus nella
fase dei ricavi (entrate di denaro) servono a fare contenti gli shareholder, l’altra viene reinvestita in
azienda al fine di sostenere nuovi acquisti e ripartire con un nuovo circuito della produzione.
Dunque, nella misura ottimale, l’azienda avvia gli investimenti, che generano un ritorno, e con
questo ritorno riavvia gli investimenti e così via all’infinito. Il circuito si autoalimenta e cerca
sempre di avere un recupero dell’investimento superiore ai sacrifici iniziali; se questi ricavi sono
remuneratori consentono l’autoalimentazione all’infinito del circuito di produzione.
L’autofinanziamento è un fenomeno derivativo, cioè le aziende non nascono con
l’autofinanziamento. Per cui l’autofinanziamento è una fonte secondaria: per avere fonti interne,
l’azienda deve prima avere fonti esterne. L’autofinanziamento è sempre ipotetico, è una speranza
ma non una certezza. Non tutti i ricavi generano autofinanziamento, ma solo quelli remuneratori.

 ogni azienda nasce sempre con fonti esterne. Le FONTI ESTERNE sono due:
1. capitale a titolo di rischio o finanziamenti a titolo di capitale proprio: è un capitale, e quindi un
insieme di denaro, vincolato al rischio dell’azienda. Il rischio è la mancata remunerazione. Il capitale
di rischio è un capitale destinato all’azienda e che sopporta lo stesso rischio dell’azienda. Nelle
società di capitali il rischio massimo coincide con il capitale dell’azienda. Nelle società di persone
oltre al capitale dell’azienda, si rischia anche il patrimonio personale dei singoli soci. Il capitale di
rischio lo presta il proprietario dell’azienda, cioè il rischio maggiore lo sopportano i soggetti che
sono i proprietari dell’azienda, perciò si chiama anche capitale proprio. Il capitale proprio è una
fonte esterna all’azienda, perché bisogna distinguere l’azienda nella sua essenza dai soggetti che la
governano o che ne sono i proprietari; per noi l’azienda è l’attività economica dell’istituto; chi ci
mette i soldi è una questione indipendente dall’attività economica.
2. capitale a titolo di credito o finanziamento a titolo di credito: il credito è il diritto a riscuotere una
prestazione; quando ho un credito, ho un diritto affinché una controparte svolga una certa
prestazione. La controparte, che deve svolgere la prestazione, avrà un debito, cioè un dovere di
adempiere ad una determinata prestazione. Si chiama capitale di credito perché è un capitale
temporaneamente prestato all’azienda che dovrà essere restituito. Può avere una durata ampia,
ma avrà sempre un limite, una scadenza. Questo capitale non sopporta il rischio azienda, questa è
la differenza tra le due fonti esterne.

Sono entrambe necessarie; tutte le aziende utilizzano entrambe le fonti di finanziamento perché le fonti di
finanziamento sono risorse scarse per definizione. L’azienda ha sempre più bisogno di soldi che però
scarseggiano.

In prima istanza la fonte primaria di finanziamento è il capitale proprio; ovviamente ad un certo punto,
l’azienda non riesce più a recuperare capitale dai proprietari, pertanto si andrà da altri soggetti. Questo
dipende da come è strutturato il mercato dei capitali. L’altro canale di finanziamento fondamentale sono le
banche. L’Italia è un paese bancocentrico, difatti tutta la ricchezza è concentrata in mano alle banche. In
America le banche hanno un peso minimo, i soldi si trovano in borsa, tutte le famiglie investono in borsa e
cioè investono in aziende.

Le fonti a titolo di capitale di rischio sono le fonti di azionisti; le fonti a titolo di capitale di credito sono le
banche in Italia. Generalmente nelle aziende 75% è capitale delle banche e 25% dei proprietari, pertanto vi
è uno sbilancio. Vi sono delle eccezioni, come l’azienda Ferrero, dove il capitale è 99,9% capitale proprio.

Le due categorie si differenziano per:

 vincolo di restituzione: se il capitale deve essere restituito.


Il capitale di rischio o proprio non prevede la restituzione, non ha nessun vincolo formale/giuridico
di restituzione. L’azienda può decidere liberamente se restituire il capitale, c’è la facoltà, l’opzione.
La restituzione è molto rara nella pratica; può capitare quando c’è troppo capitale e l’azienda non
sa come investirlo.
Il capitale di credito deve essere obbligatoriamente restituito. Bisogna stabilire preventivamente la
restituzione: quando fai il contratto con la banca, vi è sempre l’obbligo di restituzione e anche la
scadenza.
 scadenza: con quale tempistica il capitale deve essere restituito. Si firma un contratto di
finanziamento con cui l’azienda si impegna a restituire, ad una certa data, i soldi con un certo tasso
di interesse. La scadenza è presente nel capitale di credito e manca in quello di rischio.
 soggetti finanziatori: proprietario dell’azienda per il capitale di rischio; diversi soggetti per il
capitale a titolo di credito (banche). C’è un caso dove i soci possono essere finanziatori a titolo di
credito: il socio potrebbe scegliere di prestare i soldi all’azienda anche sotto forma giuridica di
capitale di credito. Questo è possibile, ma è un caso molto raro perché la legge tende a scoraggiare
questa tipologia d’investimenti.
 rischio/remunerazione per i soggetti finanziatori: il finanziamento bancario prevede una
remunerazione obbligatoria (gli interessi), che non è prevista per il capitale di rischio . La
remunerazione è direttamente proporzionale al rischio: un rischio alto comporta una
remunerazione più alta; un rischio basso comporta una remunerazione più bassa. L’interesse è il
prezzo remuneratore della banca e dipende dal rischio che la banca sostiene nel finanziamento.
Alla banca, l’azienda deve dare una remunerazione fissa, costante; la banca chiede anche la
garanzia, una qualunque forma di garanzia su cui eventualmente si può rivalere. La remunerazione
del capitale proprio sono i dividendi; la remunerazione del capitale a rischio sono gli interessi.
In Italia, le aziende sono più orientate a chiedere i soldi alle banche, perché i soci chiedono un
dividendo molto più alto legato al maggior rischio.

CIRCUITO DEI FINANZIAMENTI ATTINTI COL “VINCOLO” DI CAPITALE DI PROPRIET À

Questo circuito inizia nel mercato dei capitali, così come tutti i circuiti finanziari. In questo caso specifico,
sul mercato dei capitali noi ci rivolgiamo a una sottocategoria, gli shareholder, gli azionisti, i proprietari di
dell’azienda. Nel circuito, osserviamo sempre qual è l’oggetto del circuito (in questo caso è il denaro) e il
suo andamento, dove inizia e dove finisce. Questo circuito inizia con un’entrata di denaro e termina con
un’uscita; pertanto, qui l’andamento è opposto rispetto a quello del circuito di produzione. Osserviamo
anche le variazioni finanziarie (che riguardano il movimento del denaro) e le variazioni economiche (che
riguardano la ricchezza che si muove in azienda). Ogni operazione aziendale genera sempre almeno due
conseguenze: variazione economica e finanziaria sono legate da un rapporto causa-effetto, difatti la causa è
la variazione economica, la conseguenza sarà il movimento del denaro cioè la variazione finanziaria. Le
variazioni finanziarie sono l’entrata e l’uscita; in corrispondenza dell’entrata del denaro, c’è un incremento
del capitale, dunque una variazione economica positiva; ci sarà poi l’uscita, cioè una riduzione del capitale,
e una variazione economica negativa. La variazione economica negativa si verifica quando l’azienda
restituisce il capitale ai soci (ipotesi rara) e il secondo caso riguarda i dividendi. Anche il dividendo è una
diminuzione del capitale, perché fa parte di un nuovo capitale creato che però l’azienda non trattiene, bensì
esternalizza dandolo ai suoi soci. Il capitale aumenta per effetto degli utili; se decidiamo di distribuire
quest’utile, e dunque di fare i dividendi, ci sarà un’uscita di denaro e il capitale diminuisce.

CIRCUITO DEI FINANZIAMENTI ATTINTI COL “VINCOLO” DI CAPITALE DI PRESTITO

L’azienda necessita di soldi e li chiede ai soci; sicuramente questi soldi sono insufficienti, cioè l’azienda non
riuscirà ad avviare tutti i suoi investimenti senza dover chiedere altri capitali. Le aziende si rivolgono alle
banche perché il loro capitale non è sufficiente per gli investimenti. Anche per questo circuito l’oggetto
sono i soldi, l’andamento è sempre lo stesso, le variazioni economiche e finanziarie sono sempre le stesse.
Osserviamo delle differenze rispetto al circuito precedente: queste differenze sono legate alle differenze tra
le fonti esterne, e dunque tra il capitale bancario e il capitale proprio. La differenza riguarda l’equilibrio di
questo circuito, quindi il prezzo remuneratore che garantisce l’equilibrio tra domanda e offerta. Parliamo di
interesse. Come sempre, si parte dal mercato del capitale; tuttavia, in questo caso l’ipotesi è parzialmente
diversa: immaginiamo di avere già esaurito il capitale proprio, dunque non ci si rivolge più agli azionisti, ma
alla banca. La banca eroga il finanziamento, quindi vi è un’entrata di denaro (variazione positiva). I soldi che
arrivano dovranno essere restituiti in futuro, quindi sorge un debito di finanziamento: debito, cioè dovere a
svolgere una determinata prestazione, di finanziamento, perché ha come oggetto il denaro. La conseguenza
dell’entrata è il debito. Il processo si conclude con il pagamento di questo debito, quindi con un’uscita di
denaro, una variazione finanziaria negativa; i soldi torneranno alla banca, e cioè nel mercato dei capitali. Si
crea un meccanismo di fiducia tra le controparti: se sono preciso, puntuale, rispetto i patti, ovviamente la
banca è contenta e sarà disposta in un futuro a prestarmi eventualmente anche una somma maggiore di
denaro.
Qui le uscite non corrispondo alle entrate, non c’è equilibrio monetario tra entrate e uscite. Questo perché
quando prendo soldi alla banca, devo restituire non solo i soldi che mi ha prestato, ma anche gli interessi
passivi, i cosiddetti “oneri finanziari”, che rappresentano il costo del denaro per la nostra azienda. Sarà
quindi un prezzo remuneratore per la banca e un costo, un onere per l’azienda. L’interesse rappresenta un
equilibrio nel mercato dei capitali. Nella fase di chiusura del circuito dei finanziamenti concessi come
prestito a terzi abbiamo la variazione economica negativa, l’interesse passivo, che fa sì che le uscite non
corrispondano alle entrate, cioè che le uscite sono superiori alle entrate.

CIRCUITO DEI FINANZIAMENTI CONCESSI COME PRESTITO A TERZI

In questo circuito, l’azienda ha un surplus di ricchezza e non sa cosa farne, avendo quest’eccesso di
risparmio presta i soldi a terzi, cioè altre aziende. Nella pratica, è un caso molto raro. Questo avviene in due
casi:

1. l’azienda fa parte di un gruppo, dunque l’azienda che ha bisogno, chiede i soldi ad un’altra azienda
che ha un eccesso di ricchezza;
2. quando l’azienda è una banca.

Il punto di partenza in questo circuito è il mercato dei capitali, l’andamento è esattamente opposto rispetto
a quello degli altri circuiti: questo circuito inizia con un’uscita, avremo quindi un credito di finanziamento (il
contrario di debito), maturiamo dunque un diritto a ricevere una controprestazione. Prima o poi, l’azienda a
cui abbiamo prestato il denaro ce lo restituisce, estinguendo questo diritto, e avremo un’entrata di denaro,
che corrisponde alla fase finale del circuito.

Anche in questo caso, le entrate non corrispondono alle uscite: la quantità di denaro che ritorna all’azienda
sarà sempre superiore alla quantità di uscita inizialmente (entrate>uscite). Questo perché l’azienda
presterà i suoi soldi in cambio di interessi attivi, i cosiddetti “proventi finanziari”. È esattamente il contrario
del circuito precedente.

Nella pratica al giorno d’oggi, non avvengono quasi più operazioni in contanti, le variazioni monetarie non
sono più in contanti, non si muove più il denaro; tutti i pagamenti sono gestiti in modo diverso. La legge
spinge per scoraggiare ed eliminare i pagamenti in contanti, cioè mette una serie di strumenti a
disposizione che tendono sempre di più a quella che viene definita la “tracciabilità dei pagamenti”,
strumenti che tracciano il denaro. Oggi le uniche transazioni che avvengono in contanti sono quelle a nero,
che escono fuori dal circuito legale. Di conseguenza, non parliamo più di entrate e uscite di denaro, ma
crediti e debiti di funzionamento che vanno a sostituire temporaneamente il denaro contante. Nel circuito
della produzione, andiamo dunque a sostituire crediti e debiti al movimento di denaro. Quando parliamo di
movimento in entrata, abbiamo in sostituzione i crediti; quando parliamo di movimenti in uscita, abbiamo
in sostituzione i debiti. I crediti sostituiscono le entrate, i debiti sostituiscono le uscite del denaro contante.
La variazione è identica, li utilizziamo solo come sinonimi. Questi sono chiamati CREDITI E DEBITI DI
FUNZIONAMENTO (o di REGOLAMENTO o COMMERCIALI). Quando l’oggetto dello scambio che origina il
credito e il debito è un bene, un prodotto, un servizio e ho a che fare con clienti e fornitori, identifichiamo il
debito o credito di funzionamento. Quando l’oggetto dello scambio è solo il denaro, parliamo di crediti e
debiti di finanziamento.

Rappresentiamo graficamente la sovrapposizione dei 4 circuiti: bisogna andare a vedere come i 4 equilibri
sono compatibili l’uno con l’altro. In alto vi è sempre il mercato dei capitali, poi il circuito della produzione
(uscite di denaro), acquisizione dei fattori produttivi, attività di gestione interna, vendita dei prodotti e la
conseguente entrata del denaro e remunerazione degli investimenti. Questi circuiti hanno un’origine e una
fine comune, sempre nel mercato dei capitali: l’azienda serve solo a trasformare il denaro affinché da
semplice strumento diventi la soddisfazione dei bisogni degli esseri umani. Prendiamo il denaro e lo
impieghiamo. L’equilibrio necessario multiplo di tutti e 4 i circuiti è nel circuito della produzione, in
particolare sono i ricavi di vendita, cioè la chiusura del circuito di produzione, il prezzo remuneratore. Il
prezzo remuneratore è l’equilibrio supremo: è il punto di equilibrio che consente contemporaneamente di
tenere in equilibrio tutti i circuiti aziendali.

Abbiamo coppie di circuiti che hanno il medesimo andamento: il circuito della produzione e il circuito dei
finanziamenti concessi hanno il medesimo andamento, cioè prima le uscite e poi le entrate; abbiamo poi il
circuito dei finanziamenti attivi con vincolo di capitale proprio e il circuito dei finanziamenti attivi con
vincolo di capitale di credito che hanno andamento opposto, cioè prima entrate e poi uscite. Se prendiamo
come variabile di analisi l’andamento, possiamo dire che i circuiti vanno a coppie; pertanto, sulla base
dell’andamento, passiamo da 4 cicli a 2, che chiameremo “circuito degli investimenti” e “circuito dei
finanziamenti”. Gli investimenti si occupano di generare risorse necessarie per alimentare i finanziamenti;
mentre i finanziamenti si occupano di trovare le risorse per alimentare gli investimenti. C’è sempre questa
relazione circolare che si autoalimenta in cui i finanziamenti hanno il compito di trovare i soldi con i quali
alimentano gli investimenti; gli investimenti hanno il compito di gestire bene questi soldi restituendo il
denaro ai finanziamenti. Questo è il punto di equilibrio.

Abbiamo prima un equilibrio quantitativo, cioè i finanziamenti devono essere uguali agli investimenti, cioè
trovare i soldi sufficienti per alimentare gli investimenti. Vi è poi un equilibrio qualitativo, cioè temporale:
se i soldi mi servono domani, i soldi devono esserci già stasera, equilibrio nel tempo e nello spazio. Anche
gli investimenti hanno un equilibrio qualitativo e temporale: devono restituire denaro adeguato a
remunerare i finanziamenti. Se mantengo l’equilibrio quantitativo e l’equilibrio qualitativo, l’azienda è in
equilibrio.

Questa è un’ipotesi ottimistica, vi è però anche un’ipotesi pessimistica: cioè gli investimenti sono diversi dai
finanziamenti. In questo caso, per riportare l’azienda in equilibrio abbiamo due strade contrapposte che ci
danno lo stesso risultato: o riduciamo gli investimenti o aumentiamo i finanziamenti.

È più facile ridurre gli investimenti, cioè ad esempio licenziare le persone o chiudere uno stabilimento.

FABBISOGNO FINANZIARIO

Il fabbisogno finanziario è l’entità dei mezzi finanziari necessari per alimentare gli investimenti, cioè il totale
delle risorse necessarie per alimentare gli investimenti. L’azienda ha sempre un fabbisogno, necessità di
trovare finanziamenti e capitali, fondamentali per gli investimenti. Laddove scarseggiano, l’azienda si dovrà
impegnare per incrementare il suo fabbisogno finanziario, cioè trovare altre risorse al fine di continuare a
svolgere la sua attività di produzione, e quindi creare valore. Più correttamente, questa è la definizione di
fabbisogno finanziario complessivo, cioè totale dei mezzi necessari per alimentare gli investimenti; questo
deve coincidere con gli investimenti.

Il fabbisogno finanziario residuale è un sottoinsieme di quello complessivo: è quindi il fabbisogno finanziario


complessivo meno la copertura naturale degli investimenti. La copertura naturale degli investimenti sono
ricavi che immediatamente affluiscono all’azienda nel momento stesso in cui si chiude il circuito della
produzione. Se il nostro fabbisogno finanziario complessivo è 100, 100 è il totale dei soldi che ci servono
per alimentare gli investimenti; gli investimenti ammontano a 100, cioè le due grandezze coincidono. Una
parte di questi investimenti generano immediatamente una serie di ricavi, recuperi; se sottraggo a 100
questa parte che recupero immediatamente, la differenza corrisponde al fabbisogno finanziario residuale. Il
fabbisogno finanziario complessivo alimenta tutti gli investimenti, è la sommatoria; quello residuale,
necessariamente più piccolo, serve ad alimentare una parte degli investimenti. Nel lungo periodo, bisogna
parlare di fabbisogno finanziario complessivo; nel breve periodo, bisogna parlare di fabbisogno finanziario
residuale.

ESERCIZIO

INVESTIMENTI FFS FFR N° SCAMBI


IMPRESA A 300000 100000 300
IMPRESA B 300000 100000 1
L’impresa A si occupa della rivendita a dettaglio di articoli di ortofrutta (fruttivendolo). L’impresa B lavora
nel settore dell’edilizia, costruisce immobili, case, palazzi. Ci interessa osservare gli investimenti di queste
aziende per arrivare a trovare l’equilibrio con i finanziamenti, il quale è in funzione del business.

L’impresa A ogni giorno va al mercato e compra frutta per 1000€, dunque avvia il circuito della produzione.
Se vende tutta la frutta che ha comprato la mattina in un girono, alla fine della giornata avrà incassato
1300€, quindi lavora con un prezzo remuneratore. La frutta è un fattore a fecondità semplice; quelli a
fecondità ripetuta saranno ad esempio un furgone, dei frigo, una bilancia, registratore di cassa ecc.
Immaginiamo che in un anno va al mercato 300 volte, cioè lavora 300 giorni all’anno. A quanto ammontano
i suoi investimenti? Bisogna sommare tutti i soldi che spende nell’anno: se va ogni giorno al mercato
spendendo 1000€, bisogna fare 1000€ x 300 g + 10000€ (FFR)= 400000€, che è il totale annuo.

Gli investimenti annui dell’impresa B sono: terreno 100000€, progettazione 10000€, lavoro 140000€,
materie prime 150000€, per un totale di 400000€, di cui 100000€ sono FFR e 300000€ sono FFS. L’azienda
ci mette un anno per costruire il palazzo, spende 400000€ e incassa 500000€.

L’impresa A e B hanno lo stesso volume di investimenti, anche ugualmente diviso in FFS e FFR. Dopo aver
calcolato gli investimenti dobbiamo calcolare il fabbisogno finanziario complessivo, che coincide con il
totale degli investimenti.

Il fabbisogno finanziario complessivo sia per A che per B è di 400000€. Che significa? Il 1 gennaio l’azienda
deve far partire i suoi investimenti, fa la sua programmazione e per tutto l’anno gli serviranno 400000€. Il
problema è trovare questi soldi. C’è una grande differenza tra le due aziende: il fabbisogno finanziario
complessivo coincide, la differenza sta nel fabbisogno finanziario residuale.

Il fabbisogno finanziario residuale di A ammonta a 101000€, cioè 100000€ di FFR e 1000€ di costi
giornalieri, che servono per poter avviare il circuito della produzione. Dunque, il fabbisogno finanziario
residuale per l’impresa A è pari alla sommatoria tra i FFR e i FFS limitati all’investimento giornaliero. Il
fabbisogno finanziario residuale di A il secondo giorno è 0, perché il giorno prima ha ricavato 1300€. Il fatto
che l’azienda incassa la sera dà la possibilità di reinvestire i ricavi avviando lo stesso circuito della
produzione senza dover trovare altri soldi; l’azienda, in questo modo, ha raggiunto l’autonomia e si
autoalimenta.

Il fabbisogno finanziario residuale di B ammonta a 400000€, cioè 100000€ + 150000€ + 140000€+ 10000€ di
FFR. Nel caso particolare di un’azienda che lavora in un settore del genere, il fabbisogno finanziario
residuale coincide con il fabbisogno finanziario complessivo. In questo caso il ricavo lo avrò alla fine
dell’anno; il circuito di produzione dura un anno. L’anno seguente, il fabbisogno di B all’inizio dell’anno sarà
0 perché dall’incasso annuale di 500000€ (ricavi remuneratori) toglierò 400000€ per l’edificio e 100000€
saranno i ricavi.

Il fabbisogno finanziario è variabile, varia in funzione della tipologia di azienda e degli investimenti. Più
investo più aumenta il fabbisogno.

Ipotizziamo che l’azienda A non va al mercato tutti i giorni, ma una sola volta a settimana. A quanto
ammonta il fabbisogno finanziario residuale di A in questa seconda ipotesi? Bisogna ragionare su quanti
giorni si lavora in una settimana: se il fruttivendolo lavora 5 giorni a settimana, bisogna moltiplicare i fattori
a fecondità semplice per il numero di giorni a settimana + i FFR, cioè il fabbisogno finanziario residuale è
uguale a 1000€ FFS x 5 gg + 100000€ FFR = 105000€.

Ipotizziamo che l’impresa A incassa una volta al mese e non tutti i giorni. A quanto ammonta il fabbisogno
finanziario residuale di A in questa terza ipotesi? Il fabbisogno finanziario residuale è uguale a 100000€ di
FFR + 1000€ di FFS x 20 gg di lavoro al mese= 120000€. I FFS variano in funzione dell’attività che viene
svolta: se aumentano i crediti, aumenta il fabbisogno.

Ipotizziamo che l’impresa A acquistasse i suoi FFR con pagamento posticipato a 6 mesi. A quanto ammonta
il fabbisogno finanziario residuale di A in questa quarta ipotesi? Il fabbisogno finanziario residuale di A resta
sempre 100000€, il fatto che l’azienda sposta in avanti il debito, non va a ridurlo, pertanto l’azienda deve
preoccuparsene già il 1 gennaio. Il fabbisogno finanziario residuale è influenzato dai crediti, ma non dai
debiti. L’azienda in questa ipotesi riesce da sola a trovare una risposta parziale al suo fabbisogno di
finanziamenti: ogni giorno genera utili, i quali serviranno almeno parzialmente per compensare il debito
che l’azienda dovrà pagare dopo 6 mesi. Introduciamo dunque il CASH FLOW (il flusso di cassa), cioè il
denaro che si muovono nella nostra azienda e che daranno la risposta alla domanda circa l’ammontare del
fabbisogno finanziario residuale. Il flusso di cassa è la differenza tra entrate monetarie ed uscite. Le entrate
sono 1300€ x 150 gg in cui l’azienda lavora in 6 mesi= 195000€; le uscite sono 1000€ di uscite giornaliere x
150 gg= 150000€. Il cash flow sarà 195000€ - 150000€= 45000€. Il fabbisogno finanziario residuale per i FFR
ammonta a 100000€ di FFR iniziali - 45000€= 55000€ (in questo modo l’azienda ha ridotto il fabbisogno
finanziario residuale.) Questo si chiama autofinanziamento, che è una fonte interna.

Andiamo a calcolare gli UTILI, i quali sono diversi dal flusso di cassa. Il flusso di cassa segue le variazioni
monetarie, l’utile segue le variazioni economiche, cioè la differenza tra ricavi e costi. Le variazioni
economiche riguardano solo i fattori a fecondità ripetuta.

UTILE= ricavi – costi (FFS+ FFR)

RICAVI= 1300€ x 150 gg= 195000€, che coincidono con le entrate.

COSTI (riguardano FFS e FFR)= FFS (1000€ x 150 gg= 15000€, dunque coincidono con le uscite) + FFR (80€ x
150 gg= 12000€)= 15000€ + 12000€= 162000€

UTILE= 195000€ - 162000€= 33000€

Da dove escono questi 80€? In questo caso, il costo del FFR è il totale del valore del bene/ numero di anni in
cui lo utilizzo. FFR= 100000€, ipotizziamo di usarlo per 4 anni. Se dopo il 4 anno questi beni conservano un
valore, possiamo venderli; immaginiamo che il nostro valore economico sia 4000€. Dunque: 10000€ FFR -
4000€ di valore economico= 96000€. Dividiamo 96000€ per i 4 anni in cui utilizziamo i FFR= 96000€ /4=
24000€, che rappresenta l’ammortamento annuo. AMMORTAMENTO: quota di costo che incide in
quest’anno per il fruttivendolo. In questo caso abbiamo ipotizzato 6 mesi e non un anno, dunque bisogna
dividere 24000€ per 2, cioè 24000€/2= 12000€. Se vogliamo la quota di ammortamento giornaliera avremo
12000€ / 350gg= 80€. Il costo dei FFR deve essere ripartito nel tempo, il recupero deve essere
proporzionale al tempo. Il prezzo remuneratore ha il compito di recuperare tutti i FFS e anche una quota di
FFR, questa quota è l’ammortamento. I ricavi ammontano a 1300€, di cui 10000€ serviranno a recuperare i
FFS e di quei 300€ che restano come utili, 80€ l’azienda dovrà risparmiarli per riacquistare gli stessi fattori
quando diventeranno obsoleti.

L’utile è inferiore al cash flow a causa dell’ammortamento.

Il fabbisogno finanziario residuale è direttamente proporzionale agli investimenti, è direttamente


proporzionale ai crediti di finanziamento concessi a terzi, è direttamente proporzionale ai crediti di
funzionamento concessi ai clienti, è inversamente proporzionale alla velocità di circolazione degli
investimenti (l’azienda più veloce avrà un basso fabbisogno, quella più lenta, un alto fabbisogno). La
velocità di circolazione degli investimenti è la durata del circuito della produzione, ovvero quanto tempo
impiegano gli investimenti a trasformarsi in denaro, quanto tempo occorre a recuperare l’investimento.
Nell’esempio del fruttivendolo, si ha un’alta velocità di circolazione perché il suo circuito della produzione
dura un giorno: la mattina acquista e la sera vende, in un giorno ha recuperato integralmente gli
investimenti. Il suo fabbisogno è infatti molto basso, rispetto all’azienda B che ha un circuito della
produzione molto lento, che dura addirittura un anno. Quando il circuito è molto lento, aumenta il
fabbisogno.

L’ASPETTO NUMERARIO, FINANZIARIO ED ECONOMICO DELLA GESTIONE

Aspetto numerario (originario o primario): numerario deriva da un termine greco “numus”, cioè moneta;
aspetto numerario è un sinonimo di aspetto monetario. Si definisce aspetto originario perché la prima cosa
di cui ci accorgiamo in azienda è il movimento del denaro. Il movimento può andare in due direzioni: o esce
o entra. Osservato il denaro, andiamo a chiederci la ragione per cui si muove il denaro, cioè la variazione
economica; il movimento originario è la variazione monetaria o numeraria. Le variazioni monetarie sono le
entrate e le uscite di denaro e crediti e debiti. Non tutte le operazioni avvengono in contanti, e possiamo
considerare come perfetti sostituti delle entrate e delle uscite dei contanti debiti e crediti di
funzionamento, sono la stessa cosa, hanno la medesima natura, e nascono dai medesimi elementi. L’unica
differenza sta nell’origine per il fattore tempo: quando il denaro è regolato immediatamente, ovvero in
contanti, parliamo di entrate e uscite di denaro; quando ci è una dilazione di pagamento, parliamo di crediti
e debiti di funzionamento. Prima o poi crediti e debiti si trasformano nuovamente in denaro, pertanto sono
solo fenomeni temporanei che sostituiscono il denaro. Le variazioni monetarie misurano le variazioni
economiche, cioè quantificano, trasformano una variazione economica attraverso un’espressione
quantitativa rispetto all’unità di misura. Serve la variazione primaria a definire il quantum della variazione
economica, il che può essere solo espresso in euro. La variazione economica si può definire derivata, cioè
deriva dalla primaria, originaria: sia perché è la più facile da osservare, sia perché ci dice esattamente
quanto è la variazione economica, perché la trasforma e la esprime in euro.

Variazione economica vuol dire variazione della ricchezza, cioè beni, servizi, prodotti, tutta la ricchezza che
transita in azienda. La prima ricchezza aziendale è il capitale proprio/di rischio, è dunque una variazione
economica che, come tutte le variazioni economiche, deriva da quelle monetarie. Può avere duplice
direzione, o aumenta (variazione positiva) o diminuisce (variazione negativa). I costi sono decrementi del
capitale e i ricavi sono incrementi della ricchezza. Abbiamo due variazioni monetarie (diretta: cassa e
associata: credito o debito) e due variazioni economiche (capitale e tutto ciò che riguarda la variazione del
capitale).

IL MODELLO DELLE VARIAZIONI NUMERARIE ED ECONOMICHE

Si tratta di un modello a 4 quadranti, in cui individuiamo prima la natura delle variazioni, monetarie o
economiche, e in seguito il segno, positivo o negativo. Al piano superiore abbiamo le variazioni primarie/
originarie divise tra sinistra e destra in variazioni positive e negativa, cioè rispettivamente aumento del
denaro, aumento dei crediti di finanziamento e riduzione dei debiti di funzionamento per le variazioni

positive e diminuzione del denaro, aumento dei debiti di finanziamento e diminuzione dei crediti di
funzionamento per le variazioni negative. Al piano inferiore abbiamo le variazioni economiche: a sinistra
abbiamo le variazioni positive, a destra quelle negative. Quelle positive sono i ricavi assimilati e l’aumento
del capitale, quelle negative sono l’aumento dei costi e la riduzione del capitale.
CIRCUITO DEI FINANZIAMENTI CONCESSI E CIRCUITO DEI FINANZIAMENTI ATTINTI CON VINCOLO
DI CAPITALE DI CREDITO (BANCARIO)

In questi due circuiti si generano ugualmente variazioni numerarie e variazioni economiche. Le variazioni
numerarie sono quelle più facili da osservare, quelle primarie, cioè denaro che si muove, entrate o uscite,
ed anche crediti e debiti di finanziamento, cioè dei sostituti della moneta che però noi chiamiamo debiti e
crediti di finanziamento in quanto non hanno un’origine commerciale, non derivano dallo scambio di beni,
prodotti, cose, ma derivando dallo scambio di denaro. Anche i debiti e i crediti di finanziamento generano
come conseguenza costi e ricavi, cioè interessi bancari o interessi legati a prestiti, a capitali concessi. Gli
interessi possono essere attivi o passivi: quelli attivi sono ricavi, quelli passivi sono costi. Hanno la stessa
conseguenza in termini economici: vanno comunque a generare o un costo o un ricavo. Questo è chiamato
VALORE NOMINALE DEL DENARO o DEL CAPITALE. Quando l’azienda deve restituire i soldi alla banca, non
dovrà dargli solo il valore nominale del capitale, ma anche gli interessi. L’interesse diventa variazione
economica, costo dell’operazione, cioè un sacrificio necessario per avere a disposizione i soldi della banca.
Quel costo deriva dal calcolo degli interessi passivi, anche definiti oneri finanziari. Il costo può derivare
dall’acquisto di un fattore produttivo, ma anche dai rapporti con le banche. La stessa cosa vale con i ricavi, i
quali sono definiti proventi finanziari; in questo caso ci troviamo nel caso degli interessi attivi. La
conseguenza è la stessa, la natura è diversa. Andiamo ad introdurre un nuovo modello: non parliamo più di
variazioni numerarie, ma di variazioni finanziarie. Le variazioni numerarie sono un sottoinsieme delle
variazioni finanziarie: aggiungiamo alle variazioni numerarie, cioè il denaro e i debiti e crediti di
funzionamento, anche i crediti e debiti di finanziamento. Nelle variazioni finanziarie rientrano il denaro, i
crediti e debiti di funzionamento, e i crediti e debiti di finanziamento. Per quanto riguarda l’aspetto
economico, aggiungiamo nel modello delle variazioni economiche visto finora il terzo elemento che deriva
dai circuiti finanziari: le chiameremo sempre variazioni economiche. Le variazioni economiche sono le
variazioni del capitale proprio, i costi e i ricavi in senso stretto (che derivano dalle operazioni commerciali,
dal rapporto con i clienti e con i fornitori, dal circuito della produzione) e gli oneri (derivanti dai
finanziamenti attinti) e i proventi finanziari (derivanti dai finanziamenti concessi). Anche le operazioni
finanziarie determinano costi e ricavi, cioè variazioni economiche positive o negative a seconda dei casi. Le
variazioni finanziarie sono quelle che ci dicono immediatamente la quantificazione del valore dei beni a cui
corrispondo invece le variazioni economiche.
Rappresentiamo tutte le variazioni economiche e tutte le variazioni finanziarie.

MODELLO DELLE VARIAZIONI FINANZIARIE ED ECONOMICHE

Al piano superiore abbiamo l’aspetto finanziario, pertanto qui seguiamo il denaro. A sinistra abbiamo il lato
positivo e a destra quello negativo. Al piano inferiore abbiamo l’aspetto economico, pertanto qui seguiamo
la ricchezza, i beni. A sinistra abbiamo il lato positivo e a destra quello negativo. Questa contrapposizione
deriva dalla regola centrale e fondamentale della contabilità, cioè la PARTITA DOPPIA. Si chiama partita
doppia perché è su due piani, quello superiore cioè finanziario e quello inferiore cioè economico. Ogni
operazione ha almeno due modalità di essere rappresentata, una al piano superiore, una al piano inferiore;
ogni operazione avrà un + o un -. Le variazioni finanziarie positive sono aumento del denaro, aumento dei

crediti di finanziamento/funzionamento e diminuzione dei debiti di finanziamento/funzionamento. Le


variazioni finanziarie negative sono la diminuzione del denaro, l’aumento dei debiti di
finanziamento/funzionamento e la diminuzione dei crediti di finanziamento/funzionamento. Le variazioni
economiche positive sono l’aumento dei ricavi e del capitale netto; le variazioni economiche negative sono
l’aumento dei costi e la diminuzione del capitale netto.

Questo modello è fondamentale per il bilancio. Si tratta del modello di Amaduzzi, un professore di
economia aziendale importantissimo, allievo di Zappa e maestro di Cavalieri. Il modello di Amaduzzi è
quello più semplificato che esiste, in quanto non vi è distinzione tra crediti e debiti di finanziamento e
funzionamento, costi e ricavi sono tutti uguali, semplifica l’origine. Bisogna sapere che esistono però anche
altri modelli: quello di Zappa o quello di Caramiello.

Il modello di Caramiello ha una sola differenza rispetto a quello di Amaduzzi, che riguarda i debiti e crediti di
finanziamento. Secondo quel modello, debiti e crediti di finanziamento non sono variazioni finanziarie, ma
economiche, cioè stanno al piano inferiore. Questo perché egli pensava che un mutuo fosse come un
ricavo, perché in entrambi i casi all’azienda arrivano dei soldi, tralasciando il fatto che il mutuo è un
prestito, pertanto l’azienda deve restituirli
questi soldi. Non è giusto associare i ricavi ai
debiti di finanziamento perché, pur avendo lo
stesso effetto, cioè soldi che arrivano, hanno
ovviamente una genesi troppo diversa che,
secondo Amaduzzi, non può essere associata.

La differenza nel modello di Zappa riguarda il


capitale: per Zappa il capitale è una variazione
finanziaria e non economica, dunque la mette al piano superiore e non inferiore.

ANALISI DEI VALORI

L’analisi dei valori è capire come si trasformano le operazioni secondo il linguaggio contabile del bilancio,
ovvero qual è la conseguenza in termini economici e finanziari che si determina per l’azienda. Andiamo a
riconsiderare tutte le operazioni viste fino a questo momento con le rispettive variazioni economiche e
finanziarie.

Ogni operazione genera una variazione finanziaria ed una economica come conseguenze, bisogna osservare
da un lato il movimento del denaro e parallelamente il costo della ricchezza.

Al momento della costituzione dell’azienda vengono conferite 100 unità di denaro a titolo di capitale di
proprietà (operazione descritta in particolare nel circuito dei finanziamenti attinti con vincolo di capitale
proprio/di rischio).

La variazione originaria/primaria/finanziaria è l’entrata di soldi in azienda, cioè una variazione finanziaria


positiva. A fronte di questa variazione finanziaria positiva, ne consegue un aumento di capitale, dunque una
variazione economica positiva. (Quando abbiamo due variazioni di natura opposta, il segno è lo stesso;
naturalmente l’importo deve essere coincidente.)

La chiusura del circuito dei finanziamenti attinti con vincolo di capitale proprio/di rischio avviene quando
l’azienda restituisce il capitale ai rispettivi
proprietari, cioè ai soci, agli azionisti. Al
momento della (eventuale) restituzione in
denaro del capitale di proprietà
all’imprenditore per l’importo di 100 si avrà:

Esattamente il contrario dell’analisi dei valori


precedenti: vi è una variazione finanziaria
negativa, cioè un’uscita di denaro. Ne consegue una variazione economica negativa, cioè una riduzione del
capitale. Quando abbiamo due variazioni di natura opposta, il segno è lo stesso, meno in questo caso.

Si passa poi al circuito dei finanziamenti attinti con vincolo di credito. Se l’azienda reperisce risorse
finanziarie per 200 accendendo debiti (di finanziamento) per pari importo ed ottenendo in contropartita
denaro, si avrà:
Vi è un’entrata di denaro, cioè una variazione finanziaria positiva. Tuttavia, questi soldi dovranno essere
restituiti prima o poi, pertanto l’azienda ha contratto un debito di finanziamento, che corrisponde ad una
variazione finanziaria negativa. Quando le variazioni hanno la stessa natura, il segno è opposto. In questo
caso, sono entrambe finanziarie, dunque il segno sarà opposta, una sarà negativa ed una positiva.

Ipotizziamo di restituire i soldi alla banca ad una certa scadenza, senza corresponsione di interessi. Il ciclo si
conclude con le seguenti variazioni:

Vi è un’uscita di denaro, cioè una variazione


finanziaria negativa. Ne consegue una
diminuzione di un vecchio debito di
finanziamento, cioè una variazione finanziaria
positiva (- debiti di finanziamento). Si tratta di
un’operazione opposta alla precedente. Il
segno opposto, perché sono due variazioni
della stessa natura.

Ipotizzando una restituzione per un pari


importo di 200 con corresponsione di interessi
maturati sul debito per 25; lo schema
evidenzierebbe le seguente variazioni:

Vi è un’uscita di denaro pari a 225, cioè una variazione finanziaria negativa. Ne consegue l’estinzione del
debito, cioè una variazione finanziaria positiva. Le variazioni finanziarie non coincidono come importo,
dunque si avrà una variazione economica, cioè l’equivalente degli interessi da pagare alla banca. Gli
interessi passivi possono essere chiamati oneri finanziari, e rappresentano una variazione economica
negativa. Quest’operazione ha 3
variazioni: due finanziarie ed una
economica.

Ipotizziamo che l’azienda ha recuperato il


capitale nei circuiti di finanziamenti e
passiamo al circuito della produzione.
Supponendo l’acquisto di fattori
produttivi per l’importo di 400 con
pagamento in denaro, si verificano le
seguenti variazioni:

Vi è un’uscita di denaro pari a 400, cioè una variazione finanziaria negativa. Ne consegue una variazione
economica negativa, che attiene al movimento
della ricchezza, cioè ai fattori produttivi che
abbiamo acquistato. Il costo d’acquisto di un
fattore produttivo è una variazione economica
negativa. (Variazioni di natura diversa -> stesso
segno)
Passiamo alla fase finale di vendita dell’output: nel
caso di vendita di prodotti finiti per l’importo di
500 con pagamento in denaro si verificano le
seguenti variazioni:

Vi è un’entrata di denaro, cioè una variazione


finanziaria positiva; ne consegue una variazione
economica positiva di importo equivalente, cioè un
ricavo. (Variazioni di natura diversa -> stesso
segno)

Supponendo l’acquisto di fattori per l’importo di 400 regolato in parte con pagamenti contanti (100) ed in
parte con accensione di debiti di funzionamento verso fornitori (300) si verificano le seguenti variazioni:

Vi è un’uscita di denaro pari a 100, cioè una variazione finanziaria negativa. La dilazione di pagamento
concessaci da un fornitore sulla base di un rapporto di fiducia rappresenta un debito di funzionamento, cioè
una variazione finanziaria negativa. Ne
consegue una variazione economica negativa,
cioè un costo. La scelta su come pagare un
fattore produttivo non influenza la variazione
economica: il costo è sempre 400; la
variazione economica è costante, la variazione
finanziaria non influenza la variazione
economica.

Analogamente nell’ipotesi di vendita di prodotti finiti per l’importo di 500 regolato in parte in denaro (150)
ed in parte con concessione di crediti di funzionamento (350) si verificano le seguenti variazioni:

Vi è un’entrata di denaro pari a 150, cioè una


variazione finanziaria positiva, e un credito di
funzionamento (pagamento posticipato) pari a
350, sempre variazione finanziaria positiva. Ne
consegue una variazione economica positiva, cioè
un ricavo. Quando il pagamento è dilazionato,
avremo tante variazioni finanziarie quanti sono i
crediti concessi ai clienti.

Consideriamo il caso in cui l’azienda deve pagare il


debito di 300 nell’acquisto dei fattori produttivi (100 già pagati in denaro).

Al momento dell’estinzione alla scadenza dei debiti di funzionamento per 300 si verificano le seguenti
variazioni:
vi è un’uscita di denaro, cioè una variazione finanziaria negativa; ne consegue l’estinzione del debito. La
cancellazione del debito è una variazione finanziaria positiva, cioè un’entrata assimilata.

Consideriamo il caso del pagamento


posticipato pari a 350. Al momento
dell’incasso alla scadenza dei crediti di
funzionamento per 350 si verificano le
seguenti variazioni:

Vi è un’entrata di denaro, cioè una variazione finanziaria positiva; ne consegue una cancellazione del
credito, che si trasformerà in denaro, cioè una
variazione finanziaria negativa (- crediti di
funzionamento).

Passiamo al circuito dei finanziamenti concessi


(l’azienda ha un eccesso di ricchezza e decide di
prestarlo ad un’altra azienda: operazione tipica
dei gruppi). Se l’azienda concede un credito per un importo di 150 si verificano le seguenti variazioni:

Vi è un’uscita di denaro pari a 150, cioè una


variazione finanziaria negativa; ne consegue
una variazione finanziaria positiva, cioè
l’azienda ha maturato un credito di
finanziamento nei confronti dell’azienda
beneficiaria di questo denaro per un importo
equivalente di 150.

Al momento dell’estinzione di un credito per un importo di 150 (ipotizzando l’assenza di interessi), si


verificano le seguenti variazioni:

Vi è un’entrata di denaro pari a 150, cioè una


variazione finanziaria positiva. Ne consegue la
cancellazione del credito di finanziamento, che
corrisponde ad una variazione finanziaria negativa.
Nel caso di estinzione di un credito di 150 con congiunta corresponsione di interessi attivi maturati per
l’importo di 10 si ha invece:

Vi è un’entrata di denaro pari a 160, cioè una variazione finanziaria positiva; ne consegue la cancellazione
dei crediti di finanziamento, cioè una variazione finanziaria negativa. Le due variazioni finanziarie non
coincidono, pertanto vi è una variazione economica positiva, cioè un ricavo pari a 10 (interessi attivi o
provento finanziario), che va a riconciliare gli importi.

REDDITO E CAPITALE

Reddito e capitale sono gli obiettivi della contabilità: il risultato a cui vogliamo pervenire quando
realizzeremo il bilancio sarà arrivare alla quantificazione numerica del reddito e del capitale.

CAPITALE

Il capitale aziendale/proprio è l’insieme dei beni materiali ed immateriali disponibili per l’attività di
un’azienda e necessari per l’attività economica. La maggior parte del capitale sono beni immateriali, come
marchi, brevetti (il diritto esclusivo
all’utilizzo di un determinato
prodotto), ma anche il capitale
intellettuale, ossia l’intelligenza
umana. Questi beni immateriali
anche se non li posso toccare, sono
molto più decisivi come fonte di
vantaggio sul mercato. Per quanto
riguarda i beni materiali, alcuni
esempi sono le materie prime, i
macchinari ecc. Le caratteristiche del
capitale aziendale sono:

1. dinamicità: il capitale è mutevole e variabile; può cambiare sia dal punto di vista quantitativo (può
aumentare o diminuire per effetto della gestione) che qualitativo (nasce come denaro e si
trasforma in materie prime, prodotti finiti, macchinari, risorse umane ecc.);
2. strumentalità: il capitale è uno strumento necessario, è l’elemento essenziale della vita aziendale
perché solo grazie al capitale possiamo soddisfare i bisogni umani (non è il fine o l’obiettivo
dell’azienda);
3. complementarità economica: il capitale è un insieme di beni, risorse, ricchezza che sono
opportunamente combinate secondo il criterio della complementarità. Un elemento del capitale ha
valore solo se combinato con altri; il capitale deve adattarsi alle esigenze delle aziende, deve quindi
integrarsi rispetto a ciò che l’azienda ne vuole fare. Ogni azienda assegnerà un valore diverso al
capitale, rispetto all’utilizzo che ne fa, per cui il capitale investito in azienda avrà un valore relativo e
non assoluto.

Attraverso il linguaggio giuridico-civilistico, il capitale può essere rappresentato come attività e passività;
come aziendalisti lo intendiamo come investimenti e finanziamenti, o impieghi e fonti. In quanto impieghi,
il capitale è il complesso dei beni di cui dispone l’azienda (investimenti o attività). In quanto fonti, il capitale
è il complesso delle obbligazioni assunte verso terzi, cioè un insieme di debiti che l’azienda deve restituire
ai legittimi proprietari (finanziamenti o passività). Possiamo osservare la perfetta coincidenza tra impieghi e
fonti, o investimenti e finanziamenti. Da un lato vado a vedere come ho speso i soldi, e dall’altro chi me li
ha dati. Le due quantità ovviamente coincidono.

CLASSIFICAZIONE DEL CAPITALE

Abbiamo tre tipologie di capitale:

1. CAPITALE ECONOMICO: il capitale economico riguarda il capitale di un’azienda ancora in vita. È


molto raro poter calcolare il capitale economico in quanto avviene normalmente quando vi è
un’operazione straordinaria nell’azienda, cioè quando l’azienda attua una trasformazione radicale
della propria struttura organizzativa. Rappresenta il valore attuale di tutto il flusso dei redditi che
l’impresa presume di realizzare in futuro.
Il capitale economico diventa il prezzo a cui si vende o si compra un’azienda; è un capitale
prospettico, futuro in quanto rappresenta una potenzialità dell’azienda (Zappa lo definiva come la
capacità di creare reddito). Il capitale economico è una prospettiva data dalla somma dei redditi
futuri che l’azienda sarà in grado di generare, quindi per calcolarlo bisogna fare una stima sui
guadagni futuri della vita dell’azienda utilizzando formule di matematica finanziaria.
Abbiamo due formule per calcolare il capitale economico:
CASO 1: rendita perpetua
Se ho un reddito per i prossimi anni, a quanto ammonta oggi il valore del reddito futuro? Si chiama
attualizzazione del capitale, cioè rendere attuale un valore futuro.

R
Ce=
i
R= reddito medio previsto i= tasso di capitalizzazione
ESEMPIO:
Calcolare ad oggi il valore dell’azienda X, che nell’anno t 0 ha un reddito di 450. Il tasso di
attualizzazione si ipotizza pari al 20% e gli anni di capitalizzazione sono 10.

Bisogna fare una proiezione del reddito, si ipotizza quanto saranno i profitti dell’azienda nei
prossimi anni. Prendo una media dei redditi futuri e la attualizzo al tasso del 20%.

500+650+ 620+… 2000


R= =1307
10
1307
Ce= =6535
0.2

CASO 2: rendita limitata nel tempo

R(1+i)n−1
Ce= n
i(1+i)
ESEMPIO:
10
1307(1+ 0.2) −1
Ce= 10
=6534
0.2(1+0.2)

Possiamo notare che queste due formule coincidono nel lungo periodo e che il capitale economico
è il valore maggiore che può assumere il capitale aziendale, è un valore molto più grande rispetto al
valore presente del capitale aziendale.

2. CAPITALE DI LIQUIDAZIONE: il capitale di liquidazione riguarda il capitale di un’azienda che ha


terminato la propria esistenza. Tra i tre capitali, quello di liquidazione è sicuramente il più basso,
quindi avrà un prezzo di mercato più basso rispetto al capitale in vita, perché non si avrà un vero e
proprio capitale, ma solo una somma dei beni in vendita al miglior offerente possibile. In generale,
la chiusura di un’azienda è un’operazione molto complessa, in quanto riguarda implica pagare i
debiti, licenziare i dipendenti, pagare la liquidazione ai dipendenti, chiudere i rapporti con le
banche ecc. Quello che resta da quest’operazione di chiusura sarà il capitale di liquidazione. La
liquidazione può avvenire per due motivi:
 liquidazione volontaria, caso più semplice in cui i proprietari decidono in autonomia di chiudere
l’azienda. La chiusura volontaria definitiva si avrà quando l’azienda rispetterà le proprie
obbligazioni. In questo caso, il capitale di liquidazione può essere 0 nel caso peggiore, ma può
anche essere positivo.
 liquidazione obbligatoria, caso più complesso in cui vi è un provvedimento della magistratura che
decreta la chiusura dell’azienda. Generalmente la liquidazione obbligatoria comporta un capitale
negativo.

3. CAPITALE DI FUNZIONAMENTO: il capitale di funzionamento riguarda il capitale di un’azienda


ancora in vita. Viene determinato per individuare il reddito di competenza di un periodo della vita
aziendale. L’azienda ripete il calcolo del capitale di funzionamento o di bilancio una volta all’anno.
Possiamo distinguere il capitale lordo di funzionamento e il capitale netto di funzionamento: il
capitale lordo rappresenta il totale delle attività o il totale delle passività; il capitale netto è la
differenza eventuale che c’è tra attività e passività. Il capitale di funzionamento è lo STATO
PATRIMONIALE.

IL CONTO

Il conto è uno schema che prevede due sezioni distinte e contrapposte, che nel linguaggio comune vengono
chiamate dare (-) e avere (+). Il conto si può rappresentare mettendo a sinistra le attività (+) e a destra le
passività (-) (anche chiamati debiti). Abbiamo due tipi di capitali: capitale lordo (totale) e capitale netto.
L'insieme dei beni, delle attività a disposizione dell'azienda costituiscono il capitale lordo. Si definisce
capitale netto, invece, la differenza tra il capitale lordo e i debiti contratti dall’impresa, è dato quindi dalla
differenza tra attività e passività dell’azienda.

ATTIVITÀ PASSIVITÀ
Capitale lordo di funzionamento Obbligazioni verso terzi
 Denaro disponibile (cassa)  Debiti di funzionamento e finanziamento
 Crediti di funzionamento e finanziamento  Ricavi anticipati
 Fattori a fecondità semplice  Capitale netto di funzionamento
 Fattori a fecondità ripetuta
 Prodotti non ancora venduti

Nel momento in cui nasce l’azienda, il


proprio capitale è pari a 0. Vi è prima di tutto un incremento del capitale per opera dei soci (capitale
proprio); in seguito, l’azienda investe il capitale, apre i circuiti, avvia le attività e si ha un ritorno, cioè un
utile, un profitto. L’utile è un incremento del capitale, infatti si definisce come l’incremento del capitale per
effetto della gestione. L’utile è anche chiamato capitale di risparmio. Si arriva poi al capitale di bilancio o
funzionamento, che è la somma del capitale iniziale + gli utili generati dalla gestione. C’è anche una striscia
più alta, cioè il capitale economico, il livello massimo a cui può giungere il capitale di un’azienda.

La differenza tra capitale di funzionamento e capitale economico sta negli utili prospettici, cioè il capitale
economico raccoglie anche le speranze dell’azienda, il futuro, le prospettive di utili. Il capitale di
funzionamento raccoglie il presente, cioè gli utili già realizzati. La quantificazione del capitale deriva dalla
quantificazione del reddito degli utili .

REDDITO

Il reddito è la variazione positiva o negativa del capitale per effetto della gestione: è l’incremento o
decremento che il capitale di rischio ha subito per effetto di tutte le operazioni compiute durante la vita
dell'impresa. Ogni operazione genera un reddito: se vi è un incremento, abbiamo generato un utile; se vi è
un decremento, abbiamo generato una perdita.

Abbiamo due configurazioni di reddito: reddito totale e reddito d’esercizio.

Il reddito totale riguarda tutte le operazioni della vita dell’azienda; è la variazione sintetica perché
rappresenta tutto ciò che è successo nella vita dell’azienda. Esistono varie formule di calcolo:
FORMULA PATRIMONIALE: Rt = capitale iniziale (sempre positivo) - capitale finale

FORMULA ECONOMICA: Rt = ∑ ricavi - ∑ costi

Questa seconda formula si può applicare solo se si verificano determinate condizioni: l’attività dell’azienda
deve essere completamente cessata; tutti i crediti e tutti i debiti devono essere stati estinti; non devono
esserci rischi in corso per costi o perdite future; il potere d'acquisto della moneta non deve aver subito
variazioni (inflazione, cioè il cambiamento del valore del denaro per effetto del tempo).

FORMULA FINANZIARIA: Rt = Σ entrate di denaro - Σ uscite di denaro con esclusione di quelle relative al
capitale di proprietà

Questa terza formula presuppone che: il capitale iniziale sia stato conferito in denaro; non siano stati
effettuati altri conferimenti né rimborsi di capitale di proprietà; non sia stato effettuato alcun prelievo di
reddito.

ALTRIMENTI: Rt = capitale finale - capitale iniziale – Σ altri conferimenti + Σ rimborsi di capitale + Σ prelievi di
reddito

Il reddito d’esercizio o reddito di periodo è il reddito di un’azienda in un intervallo temporale molto


piccolo, che corrisponde ad un anno solare (1 gennaio - 31 dicembre); sarà molto più piccolo rispetto al
reddito totale. Il calcolo del reddito d’esercizio è obbligatorio per legge una volta all’anno.

Il reddito di periodo si calcola per ottemperare agli obblighi fiscali: lo Stato preleva una parte della ricchezza
creata dall’azienda e la ricchezza è misurata dal reddito, per cui le tasse sono una percentuale di prelievo
sul reddito prodotto. Si calcola inoltre per ottemperare agli obblighi di legge in materia di redazione dei
bilanci; per fornire informazioni ad interlocutori esterni (shareholder); per stabilire un limite al prelievo di
ricchezza da parte dei proprietari; per verificare la validità delle strategie adottate.

Per calcolare il reddito di periodo bisogna introdurre il principio di competenza, con i costi e ricavi di
competenza. Esistono costi e ricavi di competenza e costi e ricavi non di competenza, cioè sospesi, da
rinviare al futuro. Solo i costi e i ricavi di competenza determinano il reddito d’esercizio; i costi e i ricavi non
di competenza non riguardano il reddito d’esercizio, ma il reddito futuro.

PRINCIPIO DI COMPETENZA

Il principio di competenza si divide in due sub-principi:

 il principio di competenza applicato ai ricavi, cioè principio della realizzazione dei ricavi:
ricavi finanziariamente conseguiti per i quali sia stata effettuata la relativa prestazione da parte
dell'impresa;
 il principio di competenza applicato ai costi, cioè principio dell’inerenza dei costi:
costi relativi alle prestazioni effettuate.

Un ricavo è di competenza quando è terminata l’attività produttiva, cioè è chiuso il circuito di produzione; il
prodotto deve essere nella disponibilità del cliente, cioè bisogna aver completato la vendita del bene. Se si
verificano entrambe queste condizioni, abbiamo un ricavo di competenza; sono due condizioni necessarie.
La seconda condizione può verificarsi solo se si è già verificata la prima. Non c’è alcun riferimento al
pagamento: non c’entra nulla se il cliente ha pagato o meno, il ricavo è ricavo di competenza a prescindere
dal movimento finanziario.
Sono tre le condizioni che riguardano il principio di inerenza dei costi:

1. associazione causa-effetto con un ricavo: se quel costo ha contribuito alla realizzazione di un ricavo
di competenza, automaticamente sarà un costo di competenza. Il costo è la causa, il ricavo è
l’effetto.
2. per ripartizione dell’utilità o funzionalità pluriennale su base razionale e sistematica: il costo ha
un’utilità che posso dividere nel tempo (ammortamento, fattori a fecondità ripetuta).
L’ammortamento è un processo di ripartizione pluriennale di un costo.
3. per imputazione diretta di costi al conto economico dell’esercizio: o perché associati al tempo o
perché sia venuta meno l’utilità o la funzionalità del costo (obsolescenza: quando il fattore
produttivo termina la propria utilità economica).

Non devono verificarsi necessariamente tutte e 3, possono verificarsi isolatamente.

Nella determinazione del reddito di periodo la competenza economica diviene il criterio rilevante,
indipendentemente dal momento della manifestazione finanziaria delle operazioni. Fanno parte del reddito
d’esercizio solo i costi e i ricavi di competenza.

Se abbiamo registrato dei costi che non sono di competenza, questi non partecipano alla determinazione
del reddito; se abbiamo registrato dei ricavi che non sono di competenza, questi non partecipano alla
determinazione del reddito. Se non abbiamo registrato dei costi che sono di competenza, occorre
ugualmente considerarli per la determinazione del reddito; se non abbiamo registrato dei ricavi che sono di
competenza, occorre ugualmente considerarli per la determinazione del reddito.

Questi fenomeni derivano dalla variazione finanziaria, la quale non incide sul reddito: a seconda che la
variazione finanziaria c’è stata o non c’è stata, l’azienda può avere o non avere una serie di costi o ricavi già
iscritti o meno nella contabilità, di cui bisogna valutare se sono o non sono di competenza.

La prima ipotesi deriva da una variazione finanziaria già manifestata; le scritture contabili partono nel
momento in cui c’è la variazione finanziaria/originaria. La variazione finanziaria decide il destino di questi
costi o ricavi che non sono di competenza: se ho prima una variazione finanziaria, quella variazione
finanziaria genera sempre un costo o un ricavo.

La seconda ipotesi deriva da una variazione finanziaria non manifestata: per quella singola operazione non
si è verificata ancora alcuna variazione finanziaria. Se non c’è stata alcuna variazione finanziaria, non ho
registrato costi e ricavi nel mio bilancio. Tuttavia, questi costi e ricavi ci sono stati, quindi li recupero e vado
ad integrarli ed aggiungerli al reddito.

Ne discende che: non tutti i costi e ricavi sostenuti o conseguiti in un periodo, che hanno cioè avuto la
movimentazione finanziaria, sono di competenza, ai fini della determinazione del reddito, del periodo
stesso i fattori produttivi, a fecondità semplice o ripetuta, ancora utilizzabili per ottenere prodotti vendibili,
così come i prodotti ottenuti ma non ancora venduti rappresentano alla fine di un periodo il complesso dei
beni e delle utilità economiche di cui l’impresa dispone per svolgere i processi produttivi di periodi futuri.
ESERCIZIO:

Il tempo t rappresenta il giorno di nascita


0

dell’azienda. t 0=1 gennaio; t 1=31 dicembre


t 1=1 gennaio del secondo anno di vita; t 2= 31
dicembre del secondo anno di vita
t z =termine dell’azienda

L’azienda svolge una serie di operazioni: nel periodo t 0-t 1l’azienda fa una sola operazione, cioè l’acquisto di
fattori produttivi; nel periodo t 1-t 2 l’azienda fa una sola operazione, cioè la vendita di merci. Per semplicità
ipotizziamo tutte operazioni in contanti.

Conferimento di capitale proprio in t 0=1000.

Nel periodo t 1vi è l’acquisto di fattori: merce =500, altri fattori=100

Nel periodo t 2 vi è la vendita di merci: vendite=800.

DOMANDA: A quanto ammonta il reddito d’esercizio nell’anno 1 e nell’anno 2 e a quanto ammonta il


capitale di funzionamento nell’anno 1 e nell’anno 2?

Per calcolare il reddito devo sapere se ci sono ricavi e costi di competenza.

Nel primo anno non abbiamo ricavi, in quanto non c’è alcuna vendita. Nel primo anno abbiamo dei costi
pari a 600 (500+100). Bisogna capire se questi costi sono di competenza, cioè se rispondono a uno dei tre
criteri del principio di inerenza dei costi: 1 causa-effetto non c’è; utilità del costo frazionato nel tempo
riguarda solo i fattori a fecondità ripetuta, quindi non c’è; ed obsolescenza non c’è. Di conseguenza non vi è
nessun costo di competenza: questi 600 sono costi sospesi, da rinviare al futuro, ma non sono di
competenza. Non avendo né costi né ricavi di competenza il reddito è pari a 0 nel primo anno di vita.

Il capitale di funzionamento è il complesso dei beni disponibili all’azienda per esercitare la sua attività
economica (attività e passività, impieghi e fonti, investimenti e finanziamenti).

Nel primo anno il capitale proprio è 1000 (non ci sono stati costi e ricavi), cioè 400 cassa (1000 iniziali di
capitale in fattori produttivi - 600) +500 di merci +100 di altri fattori.

Se il reddito è 0, il capitale sarà sempre uguale, in questo caso 1000.

RISPOSTA: nel primo anno il reddito sarà pari a 0, il capitale pari a 1000.

DOMANDA: A quanto ammonta il reddito d’esercizio e il capitale di funzionamento nel secondo anno di
vita dell’azienda?
Per calcolare il reddito devo sapere se ci sono ricavi e costi di competenza. Nel secondo anno abbiamo un
ricavo pari a 800, dunque si tratta di un ricavo di competenza. Di conseguenza abbiamo anche i costi di
competenza (per il primo criterio del principio di inerenza dei costi-> causa-effetto). Quei 600 che l’anno
prima erano costi sospesi adesso diventano costi di competenza, in quanto ci sono stati dei ricavi; dunque,
si rispetta il secondo il criterio del principio di inerenza. Il reddito sarà pari a 200, cioè 800 (ricavi)-600
(costi), e 200 sarà un utile.

Sappiamo che il reddito è l’incremento del capitale: se il reddito è 200, vuol dire che il capitale si è
incrementato di 200, dunque avremo 1000 (capitale al primo anno) + 200 (reddito)= 1200 di capitale di
funzionamento.

È necessario rappresentarlo graficamente con i prospetti. I prospetti hanno due sezioni contrapposte, che
però sono invertite: nel prospetto del reddito a sinistra mettiamo i costi di competenza, cioè -, a destra i
ricavi di competenza, cioè +. Nel prospetto del capitale a sinistra mettiamo le attività, cioè +, a sinistra le
passività, cioè -.

PROSPETTO DEL REDDITO NEL PRIMO


ANNO PROSPETTO DEL CAPITALE NEL PRIMO
ANNO

PROSPETTO DEL REDDITO NEL


SECONDO ANNO
PROSPETTO DEL CAPITALE NEL
SECONDO ANNO

Le sezioni devono sempre coincidere.

Il modello fin qui proposto è un modello semplificato. Esso ipotizza unicamente fattori a fecondità semplice,
ipotizza pagamenti in contanti, esclude le passività presunte, esclude prelievi/conferimenti di capitale
proprio, considera nullo il reddito del primo periodo di vita.

COSTI E RICAVI CON MANIFESTAZIONE FINANZIARIA MA NON DI COMPETENZA


Durante l’anno le aziende non si pongono il problema della competenza, quindi, possono registrare man
mano le varie operazioni (seguendo il criterio finanziario), dopodiché, al 31 dicembre dovremo andare a
dividere i costi e ricavi in competenza e sospesi, quelli di competenza li lascio nel conto del reddito, invece,
quelli sospesi li devo rinviare al futuro. Tuttavia può verificarsi il contrario, cioè durante l’anno non c’è stata
variazione finanziaria, ma ci possono essere stati costi e ricavi che non ho registrato e che devo andare ad
aggiungere. Per cui al 31 dicembre dovrò fare due operazioni: un’operazione di rettifica (segno -, sottrarre
un costo o un ricavo perché non sono di competenza) e un’altra di integrazione (segno +, aggiungere un
costo o un ricavo di competenza che non sono stati registrati). Se la variazione finanziaria si è già
manifestata, l’azienda ha già registrato costi e ricavi, tuttavia bisogna comprendere se questi costi e ricavi
sono di competenza o meno.

Ci sono TRE CASI in cui abbiamo prima la variazione finanziaria e poi quella economica.

1. RIMANENZE DI FATTORI E DI PRODOTTI. Le rimanenze sono fattori produttivi già acquistati, ma


non ancora utilizzati; essi conservano un’utilità economica. Le rimanenze sono costi perché
riguardano fattori produttivi già acquistati durante l’anno. Applicando il principio di inerenza dei
costi, è possibile affermare che le rimanenze non sono costi di competenza, ma sospesi e da
rinviare al futuro; questi costi non sono associabili a nessun ricavo, non hanno generato alcun
output. Tuttavia, sono costi già iscritti nella contabilità, ma non di competenza, di conseguenza non
devono partecipare al reddito d’esercizio. Nel prospetto del reddito abbiamo solo costi e ricavi di
competenza, dunque, le rimanenze, non essendo costi e ricavi di competenza, devono essere tolte
dal prospetto del reddito. Per farlo, si iscrive il valore nella sezione opposta per la medesima cifra
affinché si annulli l’effetto di queste rimanenze e il saldo sia pari a 0. Togliendo le rimanenze dal
reddito, queste finiscono nel capitale: le rimanenze sono attività del capitale, quindi nel prospetto
del capitale abbiamo tutte le variazioni finanziarie + costi e ricavi che non sono di competenza.
In sintesi, nel prospetto del reddito abbiamo le risorse già consumate, qualcosa che non c’è più: i
costi di competenza, che riguardano tutti i fattori produttivi trasformati ed utilizzati, ed i ricavi di
competenza, quindi tutto ciò che l’azienda ha venduto e consegnato al cliente. Tutto ciò che resta
farà parte del prospetto del capitale, cioè variazioni finanziarie + variazioni economiche non di
competenza.

2. RISCONTI PASSIVI. Un risconto si verifica ogni volta che c’è stata una variazione finanziaria, ma non
economica di competenza; la variazione finanziaria anticipa quella economica.
I risconti passivi sono ricavi, cioè entrate, una variazione finanziaria positiva a cui non corrisponde
un relativo ricavo di competenza.
3. RISCONTI ATTIVI. I risconti attivi sono costi, cioè uscite anticipate, una variazione finanziaria
negativa a cui non corrisponde un relativo costo di competenza.
Così come le rimanenze, anche i risconti non sono costi o ricavi di competenza, quindi devono
essere tolti dal prospetto del reddito per poi essere messi nel prospetto del capitale. Nel prospetto
del reddito bisogna mettere il costo anticipato, solo per il fatto che è stato pagato; nel prospetto del
capitale bisogna mettere il risconto attivo, cioè rappresento che quell’operazione ha generato un
costo, ma non si è ancora esaurita l’attività economica di quel costo.

COSTI E RICAVI DI COMPETENZA CON MANIFESTAZIONE FINANZIARIA FUTURA


Durante l’anno la contabilità generale segue la regola della variazione finanziaria, ma se quest’ultima non
c’è stata (non c’è stato movimento di denaro), nel mio reddito di periodo non ho traccia di costi e ricavi,
cioè al 31 dicembre non ho registrato nulla in contabilità. Tuttavia ci accorgiamo che ci sono dei costi e dei
ricavi di competenza che dovranno essere aggiunti al calcolo del reddito di periodo. La variazione finanziaria
non c’è stata (variazione finanziaria posticipata), ma c’è stata quella economica, ovvero costi e ricavi di
competenza. Essi non sono però presenti nel bilancio, proprio perché non c’è stata la variazione finanziaria.
Le operazioni ci sono ugualmente state, hanno avuto un impatto economico e determinano costi e ricavi di
competenza; quindi la natura di costi e ricavi di competenza non cambia.

Ci sono QUATTRO CASI in cui c’è prima la variazione economica e poi quella finanziaria; si gestiscono tutti
allo stesso modo (si applica il principio di competenza).

1. COSTI FUTURI PRESUNTI: l’uscita non c’è stata. Un esempio è la garanzia, che è un diritto del
consumatore. La garanzia per l’azienda è un costo futuro, perché questo costo non è immediato, e
presunto, perché questo costo potrebbe anche non verificarsi mai. È un costo di competenza
(principio causa-effetto), quindi deve essere aggiunto al prospetto.
2. PERDITE FUTURE PRESUNTE: un esempio è la perdita su crediti. Quando un’azienda vende a
credito, si assume un rischio, perché potrebbe non incassare mai quella cifra. Se il cliente non paga
questo credito, l’azienda subisce una perdita: è un costo, cioè una variazione economica negativa.
Questo danno è di competenza dell’anno in corso, perché il corso associato al rischio è sempre uno
di quei costi correlati causa-effetto al ricavo di competenza. Quando l’azienda ha un credito vuol
dire che ha fatto una vendita, cioè ha un ricavo di competenza. Se la vendita è fatta a dilazione, a
quel ricavo sarà associato un costo di insolvenza, cioè il rischio che l’azienda potrebbe non
incassare più quei soldi. L’entrata non c’è stata, quindi la variazione finanziaria è posticipata; la
variazione economica c’è stata ed è di competenza.
3. FATTURE DA EMETTERE E DA RICEVERE: la fattura è il documento ufficiale-legale e contabile-fiscale
che testimonia la vendita di un bene. Un’azienda grande potrebbe non riuscire ad emettere la
fattura in giornata per tutte le vendite che ha fatto. Se però la vendita è conclusa ed il cliente ha
anche ricevuto il prodotto, sicuramente quello è un ricavo di competenza, che va iscritto, anche
senza aver emesso la fattura. Possiamo parlare quindi di fatture da emettere, cioè ricavi di
competenza, ricavi che l’azienda non trova durante l’anno, ma deve inserire nel reddito. Lo stesso
discorso vale per le fatture da ricevere: l’azienda ha fatto l’acquisto e riceve la merce, anche senza
aver ricevuto la fattura, e sarà comunque un costo di competenza. Non c’è variazione finanziaria,
ma economica c’è stata. Nel prospetto del reddito, le fatture da emettere e da ricevere saranno
costi e ricavi; nel prospetto del capitale, saranno crediti o debiti.
4. RATEI ATTIVI E PASSIVI: I ratei sono l’opposto dei risconti: ogni volta che la variazione finanziaria è
posticipata rispetto alla variazione economica. I ratei attivi sono ricavi, cioè entrate, una variazione
finanziaria positiva. Il rateo attivo si verifica quando l’azienda vende una cosa, ma incassa l’anno
seguente; è quindi un credito, quindi va nell’attività del capitale. I ratei passivi sono costi, cioè
uscite, una variazione finanziaria negativa.

SCHEMA DEL PROSPETTO DEL REDDITO D’ESERCIZIO


Lo schema del prospetto del reddito di esercizio è un semplice conto di bilancio in cui a sinistra abbiamo le
componenti negative (costi) e a destra quelle positive (ricavi):

 Costi proveniente dal passato e da rinviare al futuro: se l’azienda è già in vita, avrà sicuramente
costi che provengono dal passato, ovvero rimanenze dei fattori produttivi, che però non sono costi
di competenza, perché conservano dell’utilità produttiva. Per togliere questi costi dal calcolo del
reddito, aggiungiamo a destra i costi da rinviare al futuro (questa tecnica viene chiamata artificio
contabile). Avremo le rimanenze iniziali al 1° gennaio tra i costi e le rimanenze finali al 31 dicembre
tra i ricavi. Se faccio rimanenze iniziali – rimanenze finali ottengo il consumo delle rimanenze. Il
consumo delle rimanenze è il costo;
 Costi e ricavi conseguiti nel periodo: questi costi e ricavi fanno riferimento a operazioni chiuse,
quindi danno origine a costi e ricavi di competenza;
 Ricavi da rinviare al futuro (risconti passivi) fa coppia con i ricavi provenienti dal passato;
 Quote di costi o perdite future presunte e costi di integrazione: sono quei costi di competenza da
integrare associati alla garanzia, alle perdite sui crediti (insolvenza), cioè tutti quei costi che non si
sono ancora manifestati finanziariamente, ma solo economicamente; La differenza del totale dei
ricavi e il totale dei costi di competenza mi darà un utile se positivo e una perdita se negativo.
SCHEMA DEL PROSPETTO DEL CAPITALE

Nel capitale vado a fare la “fotografia” di tutte quelle che sono le attività e passività dell’azienda, i beni
materialmente disponibili per l’attività produttiva al 31 dicembre che mi serviranno per iniziare l’anno
successivo. Nel capitale abbiamo tutte le variazioni finanziarie: cassa (attività), crediti (attività) e debiti
(passività). In più abbiamo i componenti economici non di competenza (il capitale non solo raccoglie tutta la
parte finanziaria, ma in più raccoglie anche la parte economica non di competenza). L’utile è l’elemento che
accumuna reddito e capitale, me lo ritrovo sia come differenza di attività e passività nel capitale, sia come
differenza tra costi e
ricavi di
competenza nel
reddito, quindi
l’utile deve
coincidere in entrambi
i conti perché deriva
dalla stessa logica.

Capitale lordo di

funzionamento = fattori produttivi ancora utilizzabili + prodotti ottenuti ma non ancora venduti + valori
finanziari attivi

Capitale netto di funzionamento = capitale lordo di funzionamento - obbligazioni assunte verso terzi -
passività presunte – ricavi anticipati

(non confondere ricavi con utili)

IL PRINCIPIO DI COMPETENZA

Ratei e risconti

Quando un’operazione non viene chiusa nell’arco di tempo tra il 1° gennaio e il 31 dicembre, essa viene
definita un’operazione aperta che può essere:
 Un rateo, se la variazione finanziaria è posticipata rispetto a quella economica (il denaro non si
muove entro il 31/12). I ratei sono costi e ricavi di integrazione (segno +);
 Un risconto, se la variazione finanziaria anticipa quella economica (il denaro si muove entro il
31/12). I risconti sono costi e ricavi di rettifica (segno -) da rinviare al futuro. Il risconto parte dal 31
dicembre, è tutto quello che vado a rinviare al futuro. Il risconto è tutto quello che non è di
competenza.

Esistono due tipi di rateo:

- Rateo attivo: è un ricavo di integrazione (+);

- Rateo passivo: è un costo di integrazione (-).

importodel contratto
La formula per calcolare il rateo è: x periodo di competenza
duratadel contratto

Esistono due tipi di risconto:

- Risconto attivo: costo anticipato da rinviare al futuro (-)

- Risconto passivo: ricavo anticipato da rinviare al futuro (+)

importodel contratto
La formula per calcolare il risconto è: x (durata del contratto - periodo di
duratadel contratto
competenza)

La particolarità del risconto è che bisogna fare due contabilizzazioni, prima contabilizzo l’intero costo e poi
devo contabilizzare la rettifica per trovarmi il costo di competenza.

I ratei e i risconti possono anche essere classificati in senso stretto e in senso lato:

 Ratei/risconti in senso stretto: dipendono dalla variabile temporale, il loro valore è esattamente
proporzionale alla durata del fenomeno che stiamo esaminando, quindi hanno una formula che
utilizza il tempo;
 Ratei/risconti in senso lato (ampio) non hanno una formula matematica.

ESEMPIO RATEI N°1: la “nostra” azienda prende in affitto un capannone il 1° settembre 2003 per un anno
ed il contratto prevede il pagamento posticipato dell’intero canone, che è pari a 1.200 €. A quanto
ammonta il costo di competenza di questa operazione? (Rateo passivo)

Analisi: Un’operazione che inizia il 1° settembre e finisce il 30 agosto dell’anno successivo, è un’operazione
aperta, perché c’è un capannone che sto usando sia nell’anno corrente che nel successivo. Siccome il
pagamento è posticipato, ci troviamo di fronte ad un rateo, in particolare siccome si parla di un costo da
integrare (da aggiungere in contabilità), si parla di un rateo passivo. Il capannone è stato utilizzato
prevalentemente nel 2004, quindi questi 1200 devono andare per una parte nel 2003 (1/3) e per un’altra
parte nel 2004 (2/3). Il 1° settembre 2003 nel momento in cui chiudo il mio contratto di affitto in contabilità
non si registra nulla, perché non c’è stata nessuna variazione finanziaria, ma al 31 dicembre mi rendo conto
che per quanto riguarda l’affitto del capannone non c’è nessuna traccia, quindi, c’è da integrare un costo di
competenza che equivale a 4 mesi di affitto del capannone. 1200/12 ⋅ 4 = 400.
Il rateo passivo andrà insieme ai costi di competenza, cioè a sinistra nel prospetto del reddito. Nel prospetto
del capitale andrà nelle passività, cioè a destra, in quanto il rateo passivo è un debito di funzionamento.

ESEMPIO RATEI N°2: la “nostra” azienda concede in affitto un capannone il 1° settembre 2003 per un anno
ed il contratto prevede la riscossione posticipata dell’intero canone, che è pari a 1.200 € A quanto
ammonta il costo di competenza di questa operazione? (Rateo attivo)

Analisi: In questo caso si parla sempre di un rateo, perché la variazione finanziaria (il pagamento) è
posticipato, ma di un rateo attivo, perché saremo noi a dare il capannone in affitto, quindi avremo un
ricavo da integrare. Al 1° settembre non devo registrare nulla perché non c’è stata nessuna operazione. Ma
al 31 dicembre dovrò integrare al calcolo del reddito una variazione finanziaria positiva, cioè il ricavo di
competenza dell’affitto del capannone: 1200/12 ⋅ 4 = 400. Quindi avremo un ricavo di competenza di 400
euro da aggiungere al 31 dicembre.

Nel prospetto del reddito, il rateo attivo andrà a destra; nel prospetto del capitale andrà nelle attività, cioè a
sinistra. Il rateo attivo è un credito, è una dilazione di pagamento.

ESEMPIO RISCONTI N°1: la “nostra” azienda prende in affitto un capannone il 1° settembre 2003 per un
anno ed il contratto prevede il pagamento anticipato dell’intero canone, che è pari a 1.200 €. A quanto
ammonta il costo di competenza di questa operazione? (Risconto attivo)

Analisi: Siccome il pagamento è anticipato, sappiamo di trovarci di fronte a un risconto, in particolare


siccome si tratta di un costo, sarà un risconto attivo. Il 1° settembre 2003 in contabilità ci sarà un’uscita di
denaro, quindi una variazione finanziaria negativa di 1200 euro, a questa variazione finanziaria negativa
corrisponderà il costo del capannone, cioè una variazione economica negativa. Questi 1200 euro saranno
costi di competenza per 1/3 per l’anno 2003 e quindi ci sarà bisogno di una rettifica in modo che compaiano
solo 4 mesi nel reddito di competenza. La formula per il risconto sarà: 1200/12 ⋅ (12 − 4) = 800, quindi 800 €
sarà il costo da rinviare al futuro (la quota che non è di competenza), mentre la rimanente somma dei 1200
€ è il costo di competenza del 2003 (400 €). Quest’operazione è un risconto in senso stretto (perché c’è il
tempo). Il risconto necessita di una doppia registrazione contabile: la prima avviene durante l’anno, quando
c’è la variazione finanziaria, la seconda avviene al 31/12 perché serve per capire in che modo
quell’operazione già registrata è di competenza o no.

Il risconto attivo starà tra i ricavi, cioè nei componenti positivi del reddito, in quanto costo di rettifica.

ESEMPIO RISCONTI N°2: la “nostra” azienda concede in affitto un capannone il 1 settembre 2003 per un
anno ed il contratto prevede la riscossione anticipata dell’intero canone, che è pari a 1.200 € A quanto
ammonta il costo di competenza di questa operazione? (Risconto passivo)

Analisi: Siccome il pagamento è anticipato si parla di risconto, ma in particolare poiché è un ricavo, di un


risconto passivo, cioè di un ricavo di rettifica. La formula per il risconto sarà: 1200/12 ⋅ (12 − 4) = 800.
Avremo un risconto passivo di 800 euro da rinviare al 2004 e un ricavo di competenza pari a 400 euro.

Il risconto passivo starà tra i costi, cioè nei componenti negativi del reddito, in quanto ricavo di rettifica.

ESERCIZIO DI ESAME:

Il punto di partenza di questo esercizio è trovarci al 1° gennaio di un qualsiasi anno con una situazione di
partenza, ovvero il prospetto del capitale, il quale ha due voci: a sinistra attività (+) e destra le passività (-)
(caratteristica principale del prospetto del reddito e anche del capitale è che il totale delle attività deve
coincidere con il totale delle passività). La prima cosa da fare è individuare le attività e le passività
all’interno del nostro esercizio. Nel nostro caso avremo:

Fondo TFR:
fondo di

trattamento fine rapporto (liquidazione a un lavoratore in fine carriera.

PROSPETTO DEL CAPITALE INIZIALE


Durante il periodo Tn-1/Tn, l’azienda X svolge le seguenti operazioni:

a) Acquisto di servizi per un valore di 500 € con pagamento in contanti;

b) Acquisto di materie prime per un valore di 600 €, con pagamento per ½ in contanti e ½ dilazionato ad un
anno;

c) Vendita di prodotti finiti per un valore di 6000 €, incasso metà in contanti e metà ad un anno;

d) Pagamento di salari e stipendi in contanti per un valore di 1000 €;

e) Pagamento in contanti della rata del mutuo per un valore di 200 € (di cui 180 € quota capitale e 20 €
quota interessi);

f) L’1/7 concediamo in fitto un terreno per un anno e concordiamo di ricevere il pagamento di 2000 € alla
scadenza;

g) L’1/10 viene sottoscritto un contratto di affitto di un capannone industriale per l’importo complessivo
semestrale di 2000 €. Il pagamento del canone è posticipato;

h) Si ritiene di dover sostenere costi futuri per interventi di garanzia sulla merce venduta per 100 €;

i) L’ 1/11 paghiamo anticipatamente un premio assicurativo per l’importo di 1200. La scadenza è


semestrale;

j) Si ritiene che una quota dei crediti pari a 150 € non sarà incassata.

Inoltre a fine esercizio si valutano:

Gli impianti per un valore di 700; i macchinari per un valore di 6000; le rimanenze di materie prime per un
valore di 800; le rimanenze di prodotti finiti per un valore di 200; i terreni per un valore di 3000.

Conviene calcolare prima il prospetto del reddito, così il prospetto del capitale sarà in parte già calcolato.

PROSPETTO DEL REDDITO

a) Acquisto di servizi per un valore di 500 €, con pagamento in contanti

Analisi dei valori: notiamo subito che si tratta di un acquisto, quindi avrà una variazione finanziaria negativa
(uscita di denaro) e una variazione economica negativa (costo), entrambe le variazioni pari a 500 euro.
Questo costo lo vado ad iscrivere nelle componenti negative del prospetto del reddito. Lo possiamo
visualizzare in basso nel conto del prospetto del reddito con la voce “acquisto servizi, 500 euro”.

b) Acquisto di materie prime per un valore di 600 €, con pagamento per ½ in contanti e ½
dilazionato ad un anno

Analisi dei valori: ci troviamo sempre di fronte ad un acquisto di 600 euro (costo, variazione economica
negativa), anche se in questo caso troviamo un pagamento dilazionato (la variazione finanziaria è sempre di
600 euro (la tratteremo in dettaglio nel prospetto del capitale)). Quindi nel prospetto del reddito
iscriveremo un costo nei componenti negativi pari a 600 euro con la voce “acquisto di materie prime, 600
euro”.

c) Vendita di prodotti finiti per un valore di 6000 €, incasso ½ in contanti e ½ ad un anno


Analisi dei valori: ci troviamo di fronte ad una vendita, quindi una variazione economica positiva (ricavo) e
una variazione finanziaria positiva (entrata). Quindi questa volta andremo ad aggiungere nei componenti
positivi la voce “vendita prodotti finiti, 6000 euro”, e soprattutto leggendo la traccia, potremmo cadere in
errore vedendo l’incasso metà i contanti e metà ad un anno, errore da non commettere perché si tratta
sempre di una variazione finanziaria positiva e quindi da aggiungere nel calcolo del capitale.

d) Pagamento di salari e stipendi in contanti per un valore di 1000 €

Analisi dei valori: gli stipendi sono un costo (variazione economica negativa e variazione finanziaria
negativa), andremo ad iscrivere un costo nei componenti negativi nel prospetto del reddito pari a 1000
euro.

e) Pagamento in contanti della rata del mutuo per un valore di 200 € (di cui 180 € quota capitale
e 20 € quota interessi)

Analisi dei valori: avremo un’uscita di denaro pari a 200 € (variazione finanziaria negativa), di cui 180 € sono
il rimborso della quota capitale del mutuo (variazione finanziaria positiva, - debiti) e 20€ sono gli interessi
passivi, chiamati anche oneri finanziari (variazione economica negativa). Nel prospetto del reddito
dobbiamo solo iscrivere la quota delle variazioni economiche, ovvero 20 euro, che andranno nelle
componenti negative con la voce “interessi passivi mutuo”.

f) L’1/7 concediamo in fitto un terreno per un anno e concordiamo di ricevere il pagamento di


2000 € alla scadenza

Analisi dei valori: siccome la variazione finanziaria è posticipata, si tratta di un rateo, e poiché è un ricavo, si
parla di un rateo attivo in senso stretto (perché c’è la data di riferimento). L’1/7 non registro nulla nel
prospetto del reddito, perché non c’è stata variazione finanziaria, l’unica registrazione nel prospetto del
reddito la farò il 31/12, utilizzando la formula: 2000/12 ⋅ 6 = 1000 euro, questi 1000 euro li iscriveremo nei
componenti positivi con la voce “ricavo di integrazione, 1000 euro”.

g) L’1/10 viene sottoscritto un contratto di affitto di un capannone industriale per l’importo


complessivo semestrale di 2000€

Il pagamento del canone è posticipato; Analisi dei valori: il pagamento è posticipato e siccome si tratta di un
costo, si avrà allora un rateo passivo in senso stretto, utilizziamo la formula: 2000/6 ⋅ 3 = 1000, lo
iscriveremo nei componenti negativi del reddito con la voce “costi d’integrazione, 1000”. Registrerò sempre
il 31/12.

h) Si ritiene di dover sostenere costi futuri per interventi di garanzia sulla merce venduta per
100 €

Analisi dei valori: quest’operazione è un rateo passivo in senso lato, iscriverò nei componenti negativi la
voce “costi futuri garanzia, 100”. In questo caso, non avremo bisogno di fare nessun calcolo, perché sarà
dato direttamente nel problema.

i) L’1/11 paghiamo anticipatamente un premio assicurativo per l’importo di 1200


La scadenza è semestrale; Analisi dei valori: essendoci la data, è un’operazione aperta (inizia in un anno e
finisce in un altro), se seguiamo i soldi vedremo subito la variazione finanziaria negativa anticipata (come
scritto nel testo), quindi possiamo definire questa operazione come un risconto attivo in senso stretto,
chiaramente non sarà tutto di competenza ma solamente 2 mesi, quindi iscriveremo nel prospetto 1200
euro nei componenti negativi con la voce “premio assicurazione, 1200”, ma nei componenti positivi
inseriremo una voce “costo di rettifica, 800 “ e per calcolare questo costo di rettifica utilizzeremo la
formula: 1200/6 ⋅ (6 − 2) = 800 euro. Per i risconti dovremo fare sempre due operazioni una nei componenti
negativi e l’altra nei componenti positivi (rettifica del valore).

j) Si ritiene che una quota dei crediti pari a 150 € non sarà incassata.

Analisi dei valori: è una semplice perdita futura presunta (150 euro), è un costo di competenza che vado ad
iscrivere nei componenti negativi con la voce “svalutazione crediti, 150”. È un rateo passivo in senso lato.

Gli impianti per un valore di 700, i macchinari per un valore di 6.000, le rimanenze di materie prime per un
valore di 800, le rimanenze di prodotti finiti per un valore di 200, i terreni per un valore di 3.000 sono
rimanenze finali. A fine anno ci rendiamo conto di avere ancora dei fattori produttivi disponibili in azienda,
che nel calcolo del reddito vanno nelle componenti negative come costi di competenza. Le rimanenze sono
risconti attivi in senso ampio, bisogna iscriverli con la tecnica dei risconti, ovvero, una doppia registrazione,
nei componenti negativi metterò le rimanenze iniziali (costi provenienti dal passato), invece, nei
componenti positivi le rimanenze finale (costi da rinviare al futuro).

Dopo aver inserito queste voci all’interno del nostro prospetto, posso calcolarmi l’utile: totale dei ricavi
(componenti positivi) - totale dei costi (componenti negativi) = 1930. L’utile di pareggio verrà inserito nelle
componenti negative (non perché è un componente negativo) per avere il pareggio perfetto tra
componenti positivi e componenti negativi.

PROSPETTO DEL
CAPITALE

Nel prospetto del capitale devo rifare tutte le operazioni precedenti, considerando soltanto le variazioni
finanziarie. La differenza tra il prospetto del reddito e del capitale è che nel prospetto del reddito partiamo
da 0, invece, nel prospetto del capitale abbiamo già dei valori al 1° gennaio. In questo caso parto con cinque
valori iniziali:

1. Cassa: 2500 – 500 (operazione A) – 300 (operazione B) + 3000 (operazione C) – 1000


(operazione D) – 200 (operazione E) – 1200 (operazione I) = 2300
2. Debiti: 800 + 300 (operazione B) = 1100
3. Crediti: 700 + 3000 (operazione C) - 150 (operazione J) = 3550
4. Mutui passivi: 2400 – 180 (operazione E) = 2220
5. Passività presunte: 800 + 100 (operazione H) = 900
6. Rateo attivo: + 1000 (operazione F)
7. Rateo passivo: - 1000 (operazione G)
8. Risconto attivo: + 800 (operazione I)

L’utile deve sempre coincidere in entrambi i prospetti di reddito e capitale. L’ordine delle voci può essere
casuale. L’utile va sempre nella parte inferiore per pareggiare le sezioni.

PRINCIPIO DI PRUDENZA

Il principio di prudenza va a coppia con il principio di competenza e sono entrambi necessari calcolare il
reddito d’esercizio, in particolare il principio di prudenza interviene dopo quello di competenza e si applica
ai costi e ai ricavi di competenza per andare a valutarli. Il principio di prudenza si applica alle operazioni
aperte, specialmente nei risconti (rimanenze) e nei ratei in senso lato (costi e perdite future presunte). (Le
operazioni aperte riguardano il capitale, non il reddito; il reddito sono tutte le operazioni chiuse, cioè di
competenza dell’anno, terminate nell’esercizio che hanno già manifestato i loro effetti economici e
finanziari.) Il principio di prudenza determina l’altezza del reddito di esercizio, quindi applicandolo “bene” o
“male” possiamo alzare o abbassare a piacimento quest’ultimo. Il principio di prudenza richiede dunque
delle stime, delle previsioni, la capacità di preventivare in modo che le attività/passività della gestione
annuale potranno evolvere negli anni successivi.

La prima cosa da stabilire è il campo di applicazione del principio di prudenza (dove e quando lo si deve
applicare). Il principio di prudenza come il principio di competenza è inserito all’interno del codice civile.
L’applicazione del principio di prudenza non esiste per le aziende grandi o per le aziende che utilizzano
modelli contabili internazionali (come quelle americane e inglesi), ma viene applicato solamente in Italia
dalle aziende più piccole.
Il principio di prudenza verrà applicato al 31 dicembre nelle operazioni aperte. Possiamo trovare due tipi di
operazioni in corso:

 Attività: rimanenze di fattori a fecondità semplice e ripetuta, crediti e costi anticipati.


 Passività: debiti, passività presunte e ricavi anticipati (più raro).

Esiste un’applicazione diversa a seconda se sia attività o passività:

Nelle attività, i valori tra cui oscilla la decisione del redattore del bilancio sono:

o Costo storico: fa riferimento al momento iniziale dell’acquisto del fattore produttivo, ovvero
quando entrano a far parte della combinazione produttiva dell’azienda (la parola “storico” fa
riferimento al passato, ad un’operazione che si è già verificata, si tratta di un costo che ha una data
passata);
o Valore di presumibile realizzo (valore futuro): un’ipotesi del possibile valore di vendita sul mercato
del fattore stesso, una volta conclusa la sua attività . Il realizzo non si è verificato, ma è presunto,
potrebbe verificarsi; questo valore è diverso dal costo storico. Il principio di prudenza si applica se il
valore aumenta o diminuisce e in particolare abbiamo due ipotesi:
1. Se il valore di presumibile realizzo è inferiore al costo bisogna inserire nel bilancio il valore di
realizzo presunto, cioè il più basso;
2. Se il valore di presumibile realizzo è superiore al costo posso scegliere qualunque valore compreso
nello spazio dei valori ragionevoli, ovvero compreso tra l’intervallo “minimo costo – massimo costo
di realizzo”. La conseguenza di ciò è il determinare l’altezza del reddito a proprio piacimento, posso
aumentare o diminuire il reddito in funzione di come applico il principio di prudenza. Se scelgo il
valore massimo allora aumentano gli utili, mentre se scelgo il valore minimo gli utili diminuiscono.
Questi utili/ perdite non sono veritieri, ma frutto di stime. Questa tecnica nel linguaggio aziendale
viene definita “politica di bilancio”. Le aziende più prudenti andranno verso il valore più basso,
quelle meno prudenti andranno verso il valore più alto.

Nelle passività:

o Valore storico si definisce valore nominale, che è passato e certo; è il valore a cui inizialmente si
iscrive quella passività;
o Valore futuro coincide con il valore di presumibile estinzione, sta a rappresentare la cifra che
bisogna pagare per chiudere quella passività, quel debito.

Questa volta essere prudenti vorrà dire sopravvalutare le passività (prima invece ci si riferiva a
sottovalutare le attività).

L’applicazione del principio di prudenza prevede che gli utili sperati non partecipino alla determinazione del
reddito, mentre le perdite temute sì (regola di asimmetria, attività e passività vengono considerate
diversamente). La conseguenza del principio di prudenza è che il reddito deve essere più basso ma sicuro
(modello italiano), invece, l’approccio non prudente dice che è meglio un reddito più alto ma meno sicuro
(modello internazionale).
ESERCIZIO 1:

Rappresentiamo l’asse del tempo, con il valore t0 corrispondente alla nascita dell’azienda e t1
corrispondente al 31/12 del primo anno di vita. Nel primo anno di vita, l’azienda acquista 10 unità e li paga
50 euro l’una e ne vende 5 a 100 euro (prezzo remuneratore). Però al 31/12 avrò la metà delle unità
comprate come rimanenze. I ricavi in questa operazione sono 500 euro e i costi 500 euro, la metà dei costi
sono di competenza e l’altra metà da rinviare al futuro (perché ci sono rimanenze che non devono
partecipare al calcolo del reddito). Per capire il valore del reddito bisogna capire il valore da assegnare a
queste rimanenze. Avremo tre valori da poter assegnare alle rimanenze:

A: valutare le rimanenze a prezzo di costo (50), l’utile ammonterà a 250 euro (IPOTESI PRUDENTE)

B: valutare le rimanenze a prezzo di realizzo (100), l’utile ammonterà a 500 euro (IPOTESI NON PRUDENTE);

C: valutare le rimanenze sottocosto (20), l’utile ammonterà a 100 euro (IPOTESI PESSIMISTA)

L’IPOTESI CHE DOBBIAMO APPLICARE È IL CASO A.


ESERCIZIO 2:

Rappresentiamo l’asse del tempo, con il valore t0 corrispondente alla nascita dell’azienda e t1
corrispondente al 31/12 del primo anno di vita. Nel primo anno di vita, l’azienda acquista 10 unità e li paga
50 euro l’una e ne vende 5 a 100 euro (prezzo remuneratore). Però al 31/12 avrò la metà delle unità
comprate come rimanenze. I ricavi in questa operazione sono 500 euro e i costi 500 euro, la metà dei costi
sono di competenza e l’altra metà da rinviare al futuro (perché ci sono rimanenze che non devono
partecipare al calcolo del reddito). Per capire il valore del reddito bisogna capire il valore da assegnare a
queste rimanenze. Avremo tre valori da poter assegnare alle rimanenze:

A: Valutazione al prezzo di costo (€ 50)

B: Valutazione al prezzo di presumibile realizzo (€ 100)

COSTI E PERDITE FUTURI PRESUNTI


Sappiamo che le operazioni chiuse hanno variazione finanziaria e variazione economica nell’anno, entro il
31/12. Le operazioni aperte, che rappresentano la maggioranza delle operazioni, generano o un rateo o un
riscontro. I ratei e i risconti in senso stretto si possono calcolare in base al tempo, cioè il loro valore è
proporzionale al tempo. I ratei e i risconti in senso ampio o in senso lato non si possono calcolare con la
formula perché non sono proporzionali al tempo. I ratei e i risconti in senso ampio sono riferiti al rischio,
cioè alla probabilità che si verifichi quell’evento per l’azienda. Come si calcola il rischio? Non esiste alcuna
formula certa, sarà sempre un valore ipotetico, perché sono operazioni che si chiuderanno in futuro, eventi
che ancora si devono verificare, possiamo solo fare delle stime ipotetiche.

Rateo in senso lato: è un rateo la cui variabile chiave è il rischio, ovvero, un fenomeno incerto difficile da
prevedere e che necessita di una stima, ma che non ci può mai dare la certezza del valore che vado ad
iscrivere nel reddito (Il denaro non si muove). La stima, essendo un valore incerto, potrebbe essere sia un
valore sovrastimato o sottostimato.

Risconto in senso lato: il risconto, al contrario del rateo, ha un elemento di certezza: ha una manifestazione
finanziaria certa e ha due elementi fondamentali: conosciamo già la data e soprattutto ne conosco
l’importo.

Quando abbiamo un rateo, non c’è stata ancora la variazione finanziaria. Nei ratei in senso ampio non
sappiamo neppure se ci sarà mai la variazione finanziaria, potrebbe non verificarsi (primo elemento di
incertezza assoluta), non possiamo prevederlo con certezza. Se la variazione finanziaria si verifica, non
sappiamo in che misura questa c’è stata. Siamo nella totale incertezza, ma bisogna obbligatoriamente
andare a mettere un valore per quell’operazione in bilancio. Dobbiamo applicare contemporaneamente il
principio di competenza (ci dice che quest’operazione deve effettivamente andare nel calcolo del reddito) e
il principio prudenza (come deve andare quest’operazione nel reddito).

ESEMPIO: un’azienda vende, in un periodo, 100 telefonini offrendo la garanzia per un anno. A quanto
ammontano i costi di competenza?

Per l’azienda, la garanzia è un costo, anche di competenza perché questo costo eventuale e futuro è
collegato al momento in cui ho fatto la vendita (causa-effetto). Questo costo non è di competenza di
quando si verifica la variazione finanziaria, ma di quando si effettua la vendita. Il valore che devo mettere al
31/12 in bilancio deriva dal rischio, cioè dalla probabilità che si verifichi l’evento in questione (in questo
caso la garanzia). È sempre un rateo perché la variazione finanziaria è posticipata, mentre la variazione
economica è di competenza. Non avendo alcun riferimento temporale, in qualsiasi modo opero, metterò
nel bilancio sempre un valore ipotetico, generico, non arriverò ad alcuna certezza. Esistono due metodi
fondamentali:

1. METODO STORICO: vedere in passato cosa si è verificato rispetto alla garanzia dei prodotti
dell’azienda. Più la serie storica è lunga, più il dato diventa affidabile.
2. METODO DI MERCATO: vedere che fanno i concorrenti, i produttori degli stessi produttori che si
stanno considerando.

Non abbiamo un metodo diretto che ci consente di arrivare alla risoluzione; quello vale solo per ratei e
risconti in senso stresso, ma non per quelli in senso ampio. Bisogna prima ragionare sul principio di
competenza, poi il principio di prudenza grazie al quale si comprende quale valore bisogna inserire in
bilancio.
Si stima che per il 20% dei telefonini sia richiesto l’intervento della garanzia e che ogni intervento costi
mediamente 30€.

Bisogna andare ad aggiungere ai costi di competenza altri 600€: costo del telefonino + 600€ (30 x 20) costi
per garanzia

I costi futuri presunti derivano dal reddito. Le perdite future presunte derivano da elementi del capitale
aziendale. In termini economico-finanziari sono la stessa cosa, possiamo osservarli allo stesso modo.

ESEMPIO: un’azienda concede, in un periodo, 100 crediti di funzionamento a diversi clienti. A quanto
ammontano i costi di competenza, in caso di “insolvenza” di qualche debitore?

Ogni vendita a dilazione porta con sé associato un rischio, l’insolvenza del creditore, il mancato incasso di
questa fattura di vendita. Il rischio dell’insolvenza deriva dal tempo e dalla quantità; il rischio è un costo di
competenza. L’evento negativo coincide con la variazione finanziaria, cioè la perdita. La perdita su crediti è
un costo di competenza da aggiungere a sinistra nel reddito; la variazione finanziaria non c’è stata ancora e
non so se ci sarà mai, quindi è un RATEO PASSIVO. Che valore bisogna mettere in bilancio? Bisogna andare a
stimare il rischio. Non abbiamo formule matematiche, non possiamo utilizzare il tempo, dunque bisogna
affidarsi a metodi incerti e ipotetici:

1. METODO STORICO: percentuale di insolvenza degli anni scorsi. Più è lunga la serie storica, più sarà
precisa e affidabile. (valutazione forfettaria)
2. METODO DI MERCATO: come si comportano i concorrenti. (valutazione analitica)

Si stima che il 10% dei crediti sia inesigibile per un importo complessivo di 1000€. Bisogna aggiungere ai
costi di competenza altri 1000€.

Il massimo che fiscalmente puoi scaricare dalle tasse come perdita su crediti è lo 0,5.

I ratei in senso ampio sono solo passivi, i risconti in senso ampio sono solo attivi.

I risconti attivi in senso ampio sono le rimanenze dei fattori a fecondità semplice e ripetuta: sono risconti
perché questi fattori già sono stati pagati (variazione finanziaria anticipata), ma l’azienda li sta ancora
usando. Per calcolare il valore di questi beni, bisogna basarsi sul principio di prudenza. Il valore dei risconti
attivi in senso ampio non lo so mai con certezza, mi devo affidare a delle ipotesi.

Le rimanenze di fattori a fecondità ripetuta, premesso che siano sempre risconti attivi, possono essere
calcolate in base al tempo; per definizione il loro valore è proporzionale al tempo (questo si chiama
AMMORTAMENTO). L’ammortamento è un costo pluriennale che si ricava dividendo il valore del bene per il
numero di anni di utilizzo. Il valore del risconto finale è collegato al tempo e posso calcolarlo con certezza.

Il risconto attivo è un costo anticipato, che quindi va nei ricavi nel prospetto del reddito.

Nel prospetto del capitale, nelle attività avremo i risconti attivi e i ratei attivi; nelle passività avremo i
risconti passivi e i ratei passivi. Nel prospetto del reddito, nelle componenti negative avremo i ratei passivi e
i risconti passivi (ricavo ma sta in mezzo ai costi); nelle componenti positive avremo i ratei attivi e i risconti
attivi (costi anticipati, che al 31/12 va nei ricavi). Nel bilancio non facciamo differenza se sono in senso
stretto o senso lato.
SIMULAZIONE ESAME FINALE

DOMANDE APERTE

1. La prospettiva di osservazione dell’economia aziendale nell’ambito dell’economia generale, con


particolare riferimento al concetto ed alle caratteristiche dell’azienda:

Cosa studia l’economia generale e differenza tra economia generale ed economica aziendale (oggetto:
l’economia studia il sistema economico e noi studiamo l’azienda; metodo: il metodo economico è un
metodo matematico basato sulla razionalità assoluta, il metodo aziendale è basato sulla razionalità
limitata). Rapporto tra istituto e azienda, concetti di azienda e caratteristiche.

2. Reddito di periodo e reddito totale: modalità di calcolo e significatività:

Definizione di reddito totale, formule di calcolo del reddito totale, definizione del reddito di periodo,
formule di calcolo del reddito di periodo, utilità del concetto di reddito di periodo (importante ma ha dei
limiti, alcuni valori sono incerti ed ipotetici tipo ratei e risconti).

3. Il circuito dei finanziamenti. Relazione tra fonti e fabbisogni:

Il circuito dei finanziamenti è la somma di circuito dei finanziamenti attinti con titolo di capitale di credito e
circuito dei finanziamenti con titolo di capitale proprio. Andamento economico e finanziario (da entrate a
uscite). Definizione di circuito dei finanziamenti, classificazione delle fonti, definizione di fabbisogno di
finanziamento, relazione tra fonti e fabbisogno. Esempi.

4. Utilità delle diverse concezioni inerenti il significato e le caratteristiche dell’azienda:

Concetto di azienda e definizioni a confronto: azienda come istituto economico, azienda come ordine
economico dell’istituto. Utilità delle diverse definizioni (perché sono importanti, visione più ampia o meno),
caratteristiche delle aziende. Esempi.

5. I principi di competenza e prudenza e l’attendibilità dei valori di bilancio:

Definizione del principio di prudenza, definizione del principio di competenza. (In funzione di come applico
competenza o prudenza, avrò più o meno un certo utile, che è sempre un valore soggettivo, incerto proprio
perché deriva dall’applicazione di questi due principi. In funzione dell’applicazione di questi principi, ci sono
questi limiti, valori incerti nelle operazioni aperte). Soggettività del reddito di esercizio, significatività dei
valori di bilancio. Esempi (ratei e risconti).

6. Il circuito degli investimenti. Andamenti economici e finanziari:

Il circuito degli investimenti è la somma del circuito della produzione e circuito dei finanziamenti concessi:
definizione di circuito della produzione, definizione di circuito dei finanziamenti concessi, definizione di
circuito degli investimenti. Andamento finanziario (prima uscita e poi entrata) e andamento economico
(prima costo e poi ricavo).

7. La relazione tra investimenti e finanziamenti:

Definizioni e collegamento
ESERCIZIO:

Durante il periodo Tn-1/Tn, l’azienda X svolge le seguenti operazioni:

a) Acquisto di servizi per un valore di 800, con pagamento metà in contanti e metà ad un anno;
b) Vendita di prodotti finiti per un valore di 4000, pagamento per metà in contanti e per metà
dilazionato ad un anno;
c) Pagamento di salari e stipendi in contanti per un valore di 500;
d) Pagamento in contanti della rata del mutuo per un valore di 200 (150 quota capitale, 50 quota
interessi);
e) L’1/11 viene sottoscritta una polizza assicurativa per l’importo complessivo annuale di 1200. Il
pagamento della polizza è posticipato;

è un rateo passivo, quindi un costo d’integrazione. Al 1 novembre in bilancio non metto nulla, ma devo
integrarlo al 31/12. Calcolo: 2 mesi di competenza, quindi il rateo sarà 200.

f) Si ritiene di non incassare una parte dei crediti per un valore di 100;
g) Si ritiene di dover sostenere costi futuri per interventi in garanzia per un valore di 200;

è un costo di competenza e va nelle componenti negative (rateo passivo in senso ampio)

h) L’1/9 viene sottoscritto un contratto annuale di manutenzione del macchinario per l’importo
complessivo di 2400. Il pagamento è anticipato.

È un risconto attivo, quindi si rettifica 2400/12 x (12-4)=1600

Inoltre a fine esercizio si valutano:

• Gli immobili e macchinari per un valore di 3500

• Le rimanenze di materie prime per un valore di 900

• Le rimanenze di prodotti finiti per un valore di 500

Si proceda al completamento dei prospetti di reddito e capitale e si calcoli l’autofinanziamento con il


metodo Reddituale Indiretto, evidenziando Capitale Autogenerato e Capitale Rigenerato.
1 a 2 b (a risconto attivo c risconto passivo d rateo passivo) 3 c 4 a

AUTOFINANZIAMENTO

L’unica fonte di finanziamento interna dell’azienda è l’autofinanziamento, il denaro arriva direttamente


dall’azienda stessa, l’azienda lo autoproduce, si autofinanzia. Questa forma di autofinanziamento è molto
importante perché garantisce l’autonomia dell’azienda. L’autofinanziamento deriva dal reddito.
L’autofinanziamento deriva dai ricavi e quindi dalla vendita, cioè dagli utili che l’azienda ha generato e che
saranno reinvestiti in un altro circuito della produzione. Se l’autofinanziamento si ottiene nella terza parte
del circuito della produzione vuol dire che non è una fonte primaria, ma derivata, quindi l’azienda non può
nascere con l’autofinanziamento, quindi ogni azienda dovrà cercare necessariamente una fonte esterna per
avviare il circuito della produzione. Abbiamo due categorie di autofinanziamento: autofinanziamento in
senso stretto e in senso lato.

L’autofinanziamento in senso stretto deriva dall’utile di esercizio, corrisponde ai profitti (agli utili)
dell’azienda. Esso può essere:

 permanente - durevole: se gli utili ottenuti vengono reinvestiti in azienda e non vengono prelevati
dai soci, quindi permangono in azienda (UTILE RISPARMIATO o A RISERVA). (ammortamento);
 temporaneo: si ha l’autofinanziamento fino al momento in cui gli utili non si trasformano in
dividendi e vengono distribuiti ai soci. (costi futuri presunti e perdite future presunte sono
finanziamento temporaneo perché sono finanziamento finché non si verifica l’uscita, cioè la
variazione finanziaria negativa).

Inoltre, l’autofinanziamento in senso stretto si può dividere in:

 Statico: rappresenta il momento in cui si calcola l’autofinanziamento (cioè al 31/12, come se fosse
la fotografia dell’autofinanziamento);
 Dinamico: rappresenta il momento in cui si genera l’autofinanziamento, cioè continuamente
durante l’anno. Si manifesta ogni volta che si chiude un circuito di produzione: è il flusso degli utili
derivante dai ricavi di vendita e si sviluppa con la gestione dell’azienda.

L’autofinanziamento in senso lato deriva dal reintegro degli investimenti e dai ratei e risconti in senso lato.
L’autofinanziamento in senso ampio fa riferimento al beneficio complessivo dell’azienda considerando tutti
gli elementi che generano risparmio. Esso è composto:

o dall’autofinanziamento in senso stretto;


o dal capitale autogenerato: (UTILI + COSTI FUTURI PRESUNTI) nuova ricchezza generata dalla
gestione dell’azienda, composto dalla somma degli utili e dei costi futuri presunti. L’utile, cioè
incremento del capitale, è autogenerato perché l’azienda da sola ha generato quel determinato
utile; i costi futuri presunti sono autogenerati perché è l’azienda che in autonomia stabilisce la
misura di questi costi, a quanto essi ammontano. (perché le risorse finanziarie che coprono tali
costi restano a disposizione dell’impresa fino al momento in cui eventualmente si verificano tali
eventi);
o dal capitale rigenerato: (AMMORTAMENTO, cioè la quota di competenza dei costi a fecondità
ripetuta, + PERDITE FUTURE PRESUNTE) somma di ammortamento e perdite future presunte.
Rappresenta la rigenerazione del capitale precedentemente investito in fattori a fecondità ripetuta
che può essere temporaneamente utilizzato fino al momento del rinnovo di tali fattori a fecondità
ripetuta per finanziare altri investimenti. È uguale allora ai mezzi monetari investiti in fattori a
fecondità ripetuta e recuperati attraverso i ricavi, ammortamento e perdite future presunte.
Esistono due metodi per calcolare l’autofinanziamento: metodo reddituale (aspetto economico) e metodo
patrimoniale (aspetto finanziario), entrambi si dividono in diretto e indiretto.

Metodo reddituale diretto: A = (V − CFFS)

- V = ricavi inerenti alla produzione venduta nel periodo (per semplicità aventi tutti manifestazione
finanziaria);

- CFFS = consumo dei fattori a fecondità semplice (per semplicità aventi tutti manifestazione finanziaria).

Metodo reddituale indiretto: A = (RN + CFFR + CFP + PFP)

Reddituale perché deriva dal reddito (costi e ricavi di competenza), indiretto perché va a calcolare
l’autofinanziamento in senso ampio a partire dall’utile sommando i costi non monetari.

L’autofinanziamento con questa formula coincide con quello in senso ampio che è una somma di:

- RN = reddito netto (utile di periodo);

- CFFR o AMM = consumi fattori a fecondità ripetuta (ammortamento, riguarda solo ed esclusivamente i
FFR);

- CPF = costi futuri presunti;

- PFP = perdite presunte future

ESERCIZIO

1. Determinare l’autofinanziamento dell’azienda Alfa, la cui struttura del reddito è riportata nella tabella
seguente, utilizzando i Metodi Reddituali diretto ed indiretto.

2. Determinare inoltre le due componenti rappresentate dal Capitale Autogenerato e Rigenerato.


AUTOFINANZIAMENTO= UTILE 15 + COSTI FUTURI PRESUNTI 29 + PERDITE FUTURE PRESUNTE 10 +
AMMORTAMENTO (235+16-215) 36 = 90

CAPITALE AUTOGENERATO: CFP+RN=36 + 10=44

CAPITALE RIGENERATO: CFFR+PFP=29+15=46

BREAK EVEN POINT

Il break even point indica il perfetto equilibrio tra i costi ed i ricavi della produzione. Il break even point,
anche detto in italiano punto di pareggio, può essere definito come il momento in cui i costi e ricavi
coincidono. È sia una condizione di sopravvivenza per l’azienda, ma anche uno strumento di
programmazione per quest’ultima. Per avere un buon break even point bisogna analizzare i costi
(recentemente anche i ricavi).

Introduciamo un nuovo criterio di classificazione dei costi. I costi si classificano in:

 Variabili: costi il cui valore complessivo varia in misura direttamente proporzionale al variare del
volume della produzione (costi che dipendono proporzionalmente dal volume produttivo) (esistono
anche costi inversamente proporzionali, ovvero, diminuisce il volume di produzione e aumentano i
costi). Esempio: materie prime;
 Fissi: costi il cui valore complessivo non varia al modificarsi del volume della produzione,
indifferenti rispetto al volume della produzione. La curva dei costi fissi, a differenza di quelli
variabili, non parte da zero, dall’origine degli assi. Sono costi che sostengo anche quando la
produzione è pari a zero. A = (V − CFFS) A = (Rn + CFFR + CFP + PFP).

Non esiste un costo sempre fisso o variabile, ma sono tali se considerati in un determinato intervallo.
Esistono costi semifissi e semivariabili. (Es. se il volume della produzione aumenta all’infinito, anche i costi
fissi aumentano). Nessun costo fisso è un costo fisso per sempre, questo vale solo in un determinato
intervallo.

Inoltre, è possibile classificare anche i cosiddetti “costi fissi a scalino”, ovvero quei costi che variano ma che
restano proporzionalmente fissi in riferimento all’unità del volume di produzione.

Diagramma del punto di pareggio

In questo diagramma sull’asse delle x troviamo le quantità prodotte e vendute, sull’asse delle y troviamo i
costi e i ricavi.

- Q : poche vendite (ricavi < costi)


0

= perdite

- Q : quanti prodotti devo vendere


1

per coprire i costi (break even


point)
- Q2: molte vendite (ricavi > costi) = utile

Per calcolare il BEP, occorre determinare il totale dei costi della produzione, sommando i costi fissi e quelli
variabili. Bisogna poi porre l’equazione con il totale dei ricavi, ipotizzando che tutti prodotti realizzati siano
venduti e che quindi non esistano rimanenze. La formula classica prevede l’individuazione della quantità di
pareggio, ossia del numero fisico di beni da vendere per eguagliare i costi totali.

Rt= P x Q

Ricavi totali = prezzo unitario di vendita ⋅ quantità

Ct= CF + CV

Costi totali = costi fissi + costi variabili

CV= C x Q

Costi variabili= costo unitario ⋅ quantità

Siccome sappiamo che il Break even point si ha quando Rt=Ct, utilizzando formule inverse possiamo
CF
trovarci anche un’altra formula: Q=
( P−CV )

Q sta per break even point. (P – CV) è definito come margine di contribuzione unitario (coefficiente
angolare della curva dei ricavi). Questa differenza è positiva quando ogni prodotto contribuisce all’utile
aziendale. Se l’azienda riuscirà a vendere più unità del prodotto sarà nell’area degli utili, se non dovesse
riuscirci, subirebbe delle perdite.

Quando si può applicare il modello del break even point? Lo strumento ha alcuni limiti applicativi:

 che vi sia identità tra quantità prodotta e venduta;


 che il prezzo unitario di vendita rimanga costante qualunque sia la quantità venduta;
 che i costi variabili siano proporzionali;
 che la produzione sia omogenea nel tempo e nello spazio;
 che si trascuri ogni riferimento qualitativo della produzione;
 che i costi fissi rimangano assolutamente invariati;
 che i valori di costo e di prezzo previsti assumano “condizione di certezza”;
 che la capacità massima degli impianti sia individuata.
 vale per un solo prodotto alla volta.
COLLEGAMENTO DEL PUNTO DI PAREGGIO CON L’AUTOFINANZIAMENTO:

Q2corrisponde al break even point (da Q2a +∞ ho l’area dell’utile). A sinistra abbiamo l’area delle perdite.

In Q1i ricavi sono intersecati ai costi finanziari e ammortamenti: l’azienda è in perdita, ma c’è
l’autogenerazione del capitale (capitale autogenerato= utile + costi futuri presunti).

In Q0i ricavi sono intersecati ai costi finanziari: l’azienda è in perdita, riesce a coprire solo i costi monetari. È
nell’area dell’autofinanziamento, può sopravvivere nel breve periodo.

Q0è il punto di fuga.

Il punto di fuga indica la condizione minima essenziale di permanenza nel mercato di un’azienda (punto
minimo in cui si genera autofinanziamento). Nella determinazione del punto di fuga è importante
suddividere i costi di competenza in:

 Monetari (finanziari): costi a cui corrisponde un’uscita di denaro durante l’anno (costi dei fattori a
fecondità semplice, materie prime);
 Non monetari (non finanziari): costi a cui non corrisponde un’uscita finanziaria durante l’anno,
come: ammortamento (costo che non genera uscita), costi futuri presunti (non ho certezza, rateo in
senso lato), perdite future presunte (non ho certezza).

Il punto di fuga è una sorta di sottoinsieme del BEP, da cui però sottrae i cosiddetti costi monetari: si ha
allora quando l’azienda è in pareggio solo dei costi monetari, per cui è ancora in grado di autofinanziarsi.
Fino a che si è nel punto di fuga, si può rimanere nel settore, altrimenti bisogna uscire. Se l’azienda non
riesce nemmeno a coprire i costi di cui sopra dovrà abbandonare immediatamente il mercato. Se invece,
pur essendo in perdita, almeno i costi monetari fossero coperti, può restare nel mercato, sperando di
recuperare nel medio-periodo una posizione migliore.

Un’azienda che non ha utili, che è in


perdita, può autofinanziarsi?

L’azienda pur essendo in perdita


riesce ad autofinanziarsi
quando si trova nel punto di fuga,
ossia quando riesce a ricoprire i
costi monetari.

Come si fa a dire che un’azienda si sta


autofinanziando?
Un’azienda si autofinanzia se ha un bilancio equilibrato, ha quindi un prezzo remuneratore che gli permette
di avere un utile che non restituisce interamente ai soci, ma che reinveste in azienda per autofinanziarsi.

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