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DIRITTO AMMINISTRATIVO

prof. Gaspari
02/07/20
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NOZIONI INTRODUTTIVE
il diritto amministrativo è la branca del diritto pubblico avente ad oggetto la struttura dell‟organo
amministrativo, le modalità di svolgimento delle sue funzioni e gli strumenti di tutela nei
confronti dello scorretto svolgimento di tali funzioni.
il diritto amministrativo fa parte, facendo riferimento al principio della separazione dei poteri, al
potere esecutivo che, in particolare, viene diviso in funzione di governo e funzione
amministrativa; la distinzione tra tali funzioni è fondamentale:
 la funzione di governo consiste nell‟individuazione degli obiettivi da raggiungere, viene
esercitata dagli organi di governo ed è attività insindacabile
 la funzione amministrativa*, raggiungendo gli obiettivi fissati dagli organi di governo, si
occupa della tutela degli interessi pubblici operando sulla base del principio del buon
andamento e dell‟imparzialità; è affidata alla pubblica amministrazione ed è attività
sindacabile;
da queste due funzioni e dunque, rispettivamente, dagli atti politici e dagli atti amministrativi, si
distingue la terza categoria degli atti di alta amministrazione, creata al fine di evitare un abuso
degli atti politici cui si ricorreva per non incorrere nel sindacato del giudice amministrativo; gli
atti di alta amministrazione sono atti politici, ma comunque sussumibili dalla categoria degli
atti amministrativi e per questo sindacabili.
*funzione amministrativa e situazione giuridica soggettiva dell’amministrazione
per comprendere il modo in cui la pubblica amministrazione svolge la sua funzione
amministrativa, è necessario partire dalla sua situazione giuridica, attiva e dinamica, che prende
il nome di potere (giuridico). questo, inizialmente considerato, insieme alla volontà, il nucleo
del diritto soggettivo, ha successivamente raggiunto una sua autonomia a seguito della
discussione sulla nozione del diritto potestativo che la dottrina si è preoccupata di distinguere,
appunto, dal diritto soggettivo.
oggi, il potere può essere considerato come la capacità di determinare uno o più effetti giuridici
previsti in astratto dall‟ordinamento e, in particolare quello della pubblica amministrazione,
presenta dei caratteri peculiari:
o non è attribuito a tutti i soggetti dell‟ordinamento, ma solo a quelli individuati dalle norme –
es. il potere di concludere contratti è attribuito a tutti i soggetti, mentre il potere di espropriazione può
essere esercitato solo dagli organi individuati dall‟ordinamento
o determina gli effetti giuridici previsti dall‟ordinamento senza che sia necessario il consenso
del destinatario di tali effetti – nei rapporti tra soggetti dell‟ordinamento, invece, la trasformazione
delle situazioni giuridiche soggettive è subordinata alla presenza del consenso delle parti
o si esercita attraverso l‟adozione di un atto tipico denominato provvedimento amministrativo,
disciplinato quanto a presupposti, procedimento, oggetto ed effetti – il potere dei soggetti
dell‟ordinamento, invece, si estrinseca in più atti, tipici o atipici.
o si confronta con la situazione giuridica soggettiva del cittadino** denominata interesse
legittimo.
in realtà, l‟aspetto più rilevante del potere dell‟amministrazione è il contenuto che può
distinguersi sotto tre profili:
1) attività di indirizzo e attività di gestione: inizialmente entrambi attribuiti all‟organo politico,
all‟inizio degli anni ‟90 vengono distribuiti tra gli stessi organi politici e gli organi
amministrativi (vedi distinzione tra funzioni di governo e funzioni amministrative)
2) potere discrezionale e potere vincolato: distinzione che possiamo dire essere il clou del diritto
amministrativo, sul piano teorico non dovrebbe neanche esistere; secondo la dottrina, infatti,
la pubblica amministrazione esegue la legge applicandola e per questo il contenuto del
provvedimento amministrativo dovrebbe coincidere con quanto previsto dalla disposizione
normativa (potere vincolato): nella realtà ciò non accade. la pubblica amministrazione, infatti,
opera nel concreto del divenire della realtà fattuale realizzando l‟interesse pubblico che non si
presenta, però, come interesse isolato, bensì insieme ad altri interessi che la legge non riesce a
prevedere; per questo motivo, la norma giuridica non determina il contenuto del
provvedimento amministrativo, lasciando l‟amministrazione libera di scegliere la soluzione
più adatta = potere discrezionale (tecnico, in ordine ad un giudizio economico, sanitario, ecc).
3) effetti giuridici:
 trasformazione: potere che incide nel reale, in quanto comporta la costituzione, modifica o
estinzione di situazioni giuridiche soggettive e dunque la produzione di effetti materiali
(provvedimento amministrativo positivo)
 conservazione: potere con effetti che si esauriscono sul piano giuridico, dunque astratti, in
quanto non comporta alcuna modificazione del reale (provvedimento amministrativo
negativo)
**situazione giuridica soggettiva del privato
con riferimento alle situazioni giuridiche (attive) del cittadino, possiamo dire che questo è
titolare, nei confronti della pubblica amministrazione, di diritti soggettivi e di interessi legittimi:
la pubblica amministrazione può limitare o estinguere i diritti soggettivi del cittadino e questo
può esercitare, al fine di tutela, l‟interesse legittimo.
per molti anni la giurisprudenza ha considerato il fenomeno dell‟estinzione del diritto
soggettivo e della nascita dell’interesse legittimo come affievolimento del diritto soggettivo: il
diritto soggettivo, al momento della sua estinzione, si trasforma in interesse legittimo. ciò, in
realtà, è inconcepibile tanto sul piano cronologico quanto sul piano logico: sul piano cronologico
c‟è da dire che l‟interesse legittimo non nasce dall‟estinzione del diritto soggettivo, ma con
l‟inizio del procedimento della sua estinzione e che il diritto soggettivo non si estingue con
l‟inizio del procedimento estintivo, ma a seguito della sua conclusione (sfavorevole per il
privato); sul piano logico, invece, va sottolineato che il concetto di affievolimento del diritto
soggettivo è totalmente infondato: se il diritto soggettivo è interesse giuridicamente protetto, è
impossibile che la protezione giuridica tipica venga meno proprio nel momento in cui sarebbe
indispensabile.
in questa sede è necessario parlare della categoria dei c.d. diritti resistenti, introdotti alla fine
degli anni ‟70 dalla Corte di cassazione: diritti riconosciuti dalla Costituzione e per questo non
limitabili né estinguibili dall‟attività dell‟amministrazione. una posizione del genere, se possibile
sul piano teorico, è certamente impossibile su quello pratico: innanzitutto la presenza di diritti
resistenti all‟attività amministrativa richiederebbe l‟assenza di poteri amministrativi in grado di
modificarli o estinguerli e inoltre, essendo l‟attività amministrativa finalizzata alla tutela degli
interessi pubblici, spesso confliggenti con quelli privati, è impossibile coordinare ciò con la tutela
degli interessi privati.
la Corte di cassazione ha inoltre affermato che le controversie tra diritti resistenti e potere
pubblico rientrano nella competenza del giudice ordinario (competente sui diritti soggettivi) e
non in quella del giudice amministrativo (competente sui poteri pubblici); ma anche tale
posizione sul piano pratico riscontra dei problemi, in quanto, pur volendo, il giudice ordinario
non avrebbe comunque il potere di annullare i provvedimenti amministrativi eventualmente
illegittimi, ma solo di condannare l‟amministrazione al risarcimento del danno. a ciò si aggiunge
che il legislatore non ha mai dato seguito a queste posizioni, prevedendo anzi la competenza del
giudice amministrativo in materia di diritti costituzionalmente riconosciuti e dunque negando
implicitamente l‟esistenza di diritti resistenti.
nonostante ciò, la Corte di cassazione ha mantenuto fermo il suo orientamento costringendo la
Corte costituzionale ad intervenire: “non è ravvisabile alcun principio o norma nel nostro
ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario – escludendone il giudice
amministrativo – la tutela di diritti costituzionalmente protetti”. dunque, si ritorna allo schema
ordinario: l‟amministrazione può estinguere o limitare i diritti soggettivi dei cittadini e questi,
essendo titolari dell‟interesse legittimo possono esercitarlo non sulla base dell‟incomprimibilità
del diritto soggettivo, ma sulla dimostrazione del cattivo esercizio del potere amministrativo.
EVOLUZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
la formazione politica del regno d‟Italia come stato unitario (1861) ha comportato l‟esigenza di
unificare in un solo modello i diversi apparati amministrativi degli stati preunitari sia con
riguardo alle strutture e alle funzioni, sia con riguardo al loro modo di operare. si è operato, in
particolare, il c.d. processo di piemontesizzazione, in virtù dell‟uniformazione al diritto vigente
in Piemonte. ciò per varie ragioni: innanzitutto era il solo stato costituzionale al momento della
formazione del regno d‟Italia e pertanto i temi fondamentali quali rapporti tra parlamento ed
esecutivo, poteri del sovrano, ecc. non potevano che ispirarsi al quadro piemontese; in secondo
luogo il governo piemontese, approfittando dei pieni poteri attribuitigli dal parlamento in
occasione della seconda guerra d‟indipendenza, aveva rivisto e aggiornato la sua legislazione
tenendo presente la prospettiva di allargamento del suo territorio, aveva riformato
l‟amministrazione centrale secondo il principio dell‟uniformità organizzativa e aveva introdotto i
vari codici - per cui l‟ordinamento piemontese appariva essere senz‟altro il più aggiornato.
la soppressione dei vecchi ordinamenti e la loro sostituzione con il diritto amministrativo
piemontese avvenne a volte in maniera automatica, a volte per fasi, ma, ad ogni modo,
l‟unificazione amministrativa fu definitivamente attuata con l. 2248/1865. il quadro dell‟epoca
risulta essere profondamente diverso rispetto a quello odierno: inizialmente si caratterizzava per
la sua semplicità, uniformità, forte accentramento e accentuata gerarchia, ma l‟aumento delle
funzioni e l‟allargamento del corpo elettorale non si coordinava con un sistema cosi definito e per
questo si è verificato un aumento degli enti pubblici, di nuova creazione o provenienti dal settore
privato.
di notevole importanza è l‟arricchimento, da parte della Costituzione del 1948, degli enti
territoriali e, in particolare, della regione: ente dotato di potere legislativo e di potere statutario,
che avrebbe dovuto delegare a province e comuni le sue funzioni amministrative – ciò al fine di
evitare che la regione divenisse un ente di gestione, rimanendo invece un centro di indirizzo,
promozione e coordinamento delle attività demandate. purtroppo l‟istituzione delle regioni mise
in crisi il disegno costituzionale, per due motivi: innanzitutto, anziché delegare le proprie
funzioni, sviluppò le proprie strutture ed esercitò direttamente; in secondo luogo, il trasferimento
delle funzioni statali alle regioni fu accompagnato dal preconcetto statale di conservare a sé
competenza anche nelle materie attribuite alle regioni oltre che dall‟idea di trasferire competenze
direttamente agli enti locali, sorpassando quindi il livello regionale. si venne dunque a creare un
quadro operativo intrecciato e frazionato in base al quale erano molti gli organi competenti a
decidere, dare pareri e dunque a collaborare in modi e forme diverse al fine di giungere a
concludere una qualsiasi pratica burocratica.
una nota positiva attribuibile alle regioni fu in campo legislativo, in cui spesso hanno preceduto il
legislatore statale nel processo di svecchiamento, razionalizzazione e semplificazione della
disciplina delle materie di loro competenza. in particolare, la riforma del titolo V della
Costituzione operata nel 2001 ha invertito il vecchio sistema di ripartizione delle competenze
legislative tra stato e regioni: se prima le regioni avevano competenza nelle materie
tassativamente indicate dalla legge e lo stato competenza generale e residuale, ad oggi sono le
regioni ad avere una competenza residuale in tutte le materie non espressamente riservate alla
competenza dello stato. un importante impatto pratico, a seguito della modifica, attiene alle
funzioni amministrative: se prima corrispondevano alle materie di competenza delle regioni, ad
oggi si ha una distribuzione tra i vari enti territoriali basata sui principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza (“le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che,
per assicurarne l‟esercizio unitario, siano conferiti a province, città metropolitane, regioni e
stato”).
un‟ulteriore modifica introdotta con la riforma del 2001 riguarda l‟equiparazione di tutti gli enti
territoriali: “la repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle
regioni e dallo stato” = lo stato non coincide più con la repubblica, ossia con l‟ordinamento
complessivo, ma è solo una componente di esso.
ma l‟amministrazione pubblica, oltre che dagli enti pubblici, è composta da soggetti privati e, in
particolare, da società commerciali. questo perché inizialmente lo stato necessitava di intervenire
in economia a seguito della crisi industriale del 1929 e per questo raccolse il pacchetto azionario
di numerose società allo scopo di non farle fallire – in capo all‟IRI (istituto per la ricostruzione
industriale: ente pubblico con compiti di politica industriale) e si determinò la figura dello stato
imprenditore. tale figura ha subito però una profonda evoluzione: mentre originariamente lo
stato e gli enti pubblici investivano in ogni campo dell‟imprenditoria privata, successivamente si
orientarono verso la gestione di servizi pubblici, sia statali che locali, che vennero affidati a
società a partecipazione pubblica, statale, regionale, ma soprattutto locale.
in tempi recenti, soprattutto, la figura dello stato imprenditore è stata trasformata in stato
regolatore: deve limitarsi a dettare le regole per il corretto sviluppo dell‟economia, senza
prendervi effettivamente parte e lasciando dunque che si crei la libera concorrenza tra imprese
private.
come detto dunque, nel corso degli anni si passa da un‟amministrazione tutta concentrata nello
stato, al sistema attuale, caratterizzato dalla larga attuazione del principio autonomistico; sistema
che però sia sotto il profilo della complessità che sotto il profilo dell‟efficienza, risulta
insoddisfacente. all‟art. 1 della l. 165/2001 troviamo un elenco (incompleto) delle
amministrazioni pubbliche e, leggendolo, ci rendiamo conto di quanto sia in realtà sovraccarico:
ciò influisce sull‟efficacia dell’azione amministrativa, appesantita dal frazionamento delle
competenze e dall‟imperfetto funzionamento degli uffici delle varie amministrazioni ed è per
questo motivo che, nel corso degli anni, non sono mancati i tentativi, invani, di eliminare gli
enti ritenuti ormai superflui. è stato tentato un processo di riordinamento degli enti pubblici
nazionali mediante la loro privatizzazione, trasformazione o fusione, che ha comportato la
trasformazione di molti enti pubblici in enti privati, comunque assoggettati in più punti alle
discipline pubblicistiche (per questo si parla di pubblica amministrazione in senso sostanziale –
in opposizione alla pubblica amministrazione in senso formale che fa riferimento al complesso
dei soli organismi aventi natura pubblica). in particolare, con l. 124/2015 è stato elaborato un
disegno di riorganizzazione dell‟amministrazione statale; l‟attuazione di tale legge è in corso,
qualche decreto attuativo è già stato emanato e altri sono già previsti.
ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA
1. L’AMMINISTRAZIONE COME OPERATORE GIURIDICO
se finora abbiamo considerato la pubblica amministrazione dal punto di vista meramente
organizzativo, dobbiamo adesso considerarle come operatori giuridici: alle amministrazioni è
infatti affidato il compito di curare interessi pubblici utilizzando strumenti giuridici, cioè atti
giuridici.
da questo punto di vista le amministrazioni si presentano come figure soggettive, cioè centri di
riferimento di situazioni giuridiche soggettive (poteri, diritti, ecc). nella teoria generale la
soggettività giuridica si distingue dalla personalità giuridica: mentre tutte le persone (fisiche e
giuridiche) sono soggetti giuridici, non tutti i soggetti sono persone. in particolare: il soggetto
giuridico è persona fisica titolare di diritti e dunque centro di azione; la persona giuridica è
insieme di persone fisiche e beni organizzati per il conseguimento di determinati obiettivi di
interesse collettivo e dunque centro di azione e di responsabilità. NB tutte le amministrazioni
sono figure soggettive e, come tali, operatori giuridici; non tutte, invece, sono persone giuridiche.
nel panorama delle strutture organizzative pubbliche sono numerose le amministrazioni aventi
personalità giuridica (stato ed enti pubblici territoriali e funzionali), ma sono più numerose le
amministrazioni che, pur avendo la qualità di soggetti, sono prive di personalità giuridica (le
amministrazioni che compongono lo stato: ministeri, agenzie e autorità indipendenti).
nel corso del tempo si è andato formandosi un dibattito con riferimento alle persone giuridiche:
essendo queste naturalisticamente incapaci di compiere atti in quanto ente e non persona fisica,
come possono essere considerate le amministrazioni con personalità giuridica degli operatori
giuridici? in un primo momento il problema era stato risolto utilizzando il modello della
rappresentanza: l‟atto giuridico compiuto da una persona fisica (preposta all‟ente) produce
direttamente effetto nei confronti della persona giuridica (amministrazione); a seguito poi della
teorizzazione dello stato come persona giuridica unitaria, tale teoria si è mostrata inadeguata: in
primo luogo per la complessità della struttura organizzativa della persona giuridica stato; in
secondo luogo per le limitazioni proprie del modello della rappresentanza che non riguarda, da
un punto di vista quantitativo, tutti i fatti giuridici - ma solo quelli volontari e, in particolare,
negoziali – e, da un punto di vista qualitativo, vede imputare alla persona giuridica solo gli effetti
e non anche la titolarità dell‟atto stesso, che resta invece in capo al rappresentante.
per ovviare a questi inconvenienti venne, dunque, elaborato un diverso modello di imputazione
giuridica, definito rapporto organico: strumento tecnico con cui le persone giuridiche diventano
titolari di atti giuridici. questo porta alla nascita del concetto di organo*, con cui nasce un
rapporto di imputazione diverso e di più ampio contenuto rispetto a quello previsto dalla
rappresentanza e che viene definito di immedesimazione organica: la persona giuridica non è
soltanto il soggetto nei cui confronti si produce l‟effetto, ma è anche il soggetto titolare dell‟atto
che ha prodotto l‟effetto.
*l‟organo è un centro operativo costituito da una persona fisica o da un collegio di persone
fisiche, strumento di imputazione alla persona giuridica. questo per poter trasferire l‟autorità
dell‟atto all‟amministrazione con personalità giuridica, deve necessariamente essere inserito nel
quadro organizzativo della persona giuridica e, sotto questo profilo, si presenta come ufficio di
imputazione. nasce dunque il problema che da tempo impegna la dottrina: il rapporto di
imputazione si radica nell‟organo (ufficio) o nella persona fisica che all‟ufficio è preposta e che
viene indicata come titolare dell‟organo? si propende per la seconda tesi, in quanto è “dato di
realtà incontrovertibile che solo la persona fisica è attore nelle relazioni giuridiche”.
vi è poi una seconda domanda: quali, tra gli atti che la persona fisica compie, sono da imputare
alla persona giuridica? la risposta si trova nella delimitazione funzionale propria di ciascun
organo che corrisponde all‟ambito della competenza funzionale dell‟ufficio: ogni organo può
imputare alla persona giuridica tutti e solo gli atti (e i relativi effetti) che egli compie nell‟ambito
della competenza che gli spetta secondo il disegno organizzativo complessivo della persona
giuridica.
2. STRUTTURA ORGANIZZATIVA
il tema dell‟organizzazione dell‟amministrazione e, in generale, di tutte quelle figure operative
non elementari, investe il diverso problema della divisione, coordinamento e razionalizzazione
del lavoro di più persone.
le strutture organizzative pubbliche sono organizzazioni formali, in quanto costituite per
raggiungere determinati scopi sulla base di atti formali di costituzione, modificazione ed
eventualmente estinzione, alla stregua del principio di legalità che le avvolge; e sono
organizzazioni burocratiche, in quanto l‟attività lavorativa fondamentale, per il principio
dell‟articolazione procedimentale, è costituita da assunzione dell‟iniziativa, acquisizione e
valutazione dei dati di conoscenza, decisione ed esternazione degli atti giuridici, nonché di tutte
le attività a queste strumentali.
il disegno organizzativo: il disegno organizzativo di una qualunque struttura organizzativa, e
dunque anche quello della pubblica amministrazione, si articola in centri di lavoro che ne
costituiscono le unità strutturali elementari che vengono denominate uffici e in cui non conta
solo la loro mera esistenza in quanto articolazione della struttura organizzativa, ma anche i
compiti ad essi assegnati e la rete di relazioni tra loro esistente.
composizione dell‟ufficio: l‟ufficio è composto di persone che prestano la propria attività
lavorativa: gli addetti, da cui si distingue il titolare dell‟ufficio - persona fisica che, assegnando i
compiti specifici agli addetti, dirige l‟ufficio e ne è responsabile = gerarchia.
rapporto d‟ufficio: l‟attività degli addetti all‟ufficio è giuridicamente dovuta e, più propriamente,
rappresenta l‟obbligo di prestare il proprio lavoro professionale, consistente nel compimento
delle attività che, secondo il disegno organizzativo generale, sono demandate all‟ufficio - a fronte
di tale obbligo troviamo il diritto della figura giuridica soggettiva (la pubblica amministrazione)
a ricevere la prestazione lavorativa.
il rapporto d‟ufficio si instaura con l‟atto di investitura del titolare* a seguito di un
procedimento di nomina o mediante sistema di elezione: la nomina può derivare da una scelta
basata sulla fiducia, effettuata tra una serie di aspiranti indicati dalla legge o da categorie di
interessati o da un‟altra autorità amministrativa sulla base di requisiti ritenuti maggiormente
idonei per quello specifico ufficio; quando invece l‟investitura consegue ad un procedimento
elettorale, è spesso preceduto dalla presentazione della candidatura da parte dell‟interessato e
l‟elezione investe i rappresentanti del corpo elettorale.
quando il titolare d‟ufficio si trovi, nel corso del rapporto, in situazioni di temporanea incapacità
di prestare la propria attività lavorativa l‟ordinamento prevede, per assicurare, in ossequio al
principio costituzionale del buon andamento, la necessaria continuità dell’esercizio dell’ufficio,
strumentale al perseguimento della funzione, due istituti: la supplenza e la reggenza. la
supplenza richiede che il supplente, individuato di regola nel titolare di un altro ufficio
dell‟amministrazione o altrimenti specificamente designato, subentra automaticamente nella
titolarità dell‟ufficio al verificarsi della vacanza, senza uno specifico atto di nomina; la reggenza,
invece, cui si ricorre in mancanza di previsione della supplenza, presuppone la nomina interinale
di un altro titolare dell‟ufficio, specificamente individuato secondo procedure stabilite. l‟incarico
temporaneo, comunque affidato, conserva la medesima ampiezza dell’incarico assegnato ab
origine al titolare, anche se a volte sono previste limitazioni per evitare un ingiustificato
svuotamento delle funzioni in capo al titolare una volta cessata la causa della vacanza
temporanea dell‟ufficio.
sul rapporto d‟ufficio si radica la responsabilità amministrativa, demandata alla giurisdizione
della Corte dei conti, quale ipotesi di responsabilità nei confronti della persona giuridica.
la cessazione del rapporto d‟ufficio, derivante da cause molteplici attinenti alla persona del
titolare o alla cessazione del rapporto di lavoro, ha assunto contorni problematici: in passato, al
fine di assicurare la continuità di funzionamento degli uffici, si consentiva al titolare di
continuare ad esercitare il proprio ruolo anche dopo la scadenza del tempo dell‟investitura e fino
all‟insediamento del successore (prorogatio); ma, a seguito di un incisivo intervento della Corte
costituzionale, il legislatore è intervenuto con una disciplina che, nel ribadire il principio secondo
cui gli organi amministrativi svolgono “le funzioni loro attribuite secondo il termine di durata
per ciascuno di essi previsto ed entro tale termine debbono essere ricostituiti”, consente al titolare
scaduto, in caso di mancata ricostituzione, di operare in regime di prorogatio per non più di 45
giorni decorrenti dalla scadenza, adottando solo atti di ordinaria amministrazione, nonché quelli
urgenti e indifferibili specificamente motivati – al di fuori di questi confini e oltre i 45 giorni, gli
eventuali atti assunti sono sanzionati con la nullità.
distinta dalla figura del funzionario di fatto, rispondente all‟esigenza di continuità dell‟esercizio delle funzioni
amministrative, è l‟usurpatore di ufficio: colui che, con coscienza e volontà, assume, prescindendo da una valida
investitura, la titolarità dell‟ufficio.
*il collegio: quando la titolarità dell‟ufficio è assegnata ad una pluralità di persone fisiche, si parla
di collegio, con cui nascono problemi inerenti il raggiungimento, da parte dei componenti, di una
decisione unitaria, riferibile al collegio e non a tutti o ad alcuni dei componenti.
fondamentale nel concetto di collegio è la posizione paritaria di tutti i componenti.
per la costituzione formale del collegio è necessaria la presenza fisica di un certo numero di
componenti (quorum strutturale) stabilito dalla legge che, in assenza di specifiche diverse
previsioni, si ritiene integrato con la presenza della metà dei componenti il collegio +1 e che deve
permanere per tutta la durata della seduta. una volta costituitosi, il collegio delibera secondo i
punti indicati nell‟ordine del giorno della seduta. la proposta di delibera acquista la dignità di
deliberazione del collegio quando si sono espressi favorevolmente su di essa i componenti nel
numero richiesto dalla norma, variabile a seconda del tipo di collegio o del tipo di delibera
(quorum funzionale) ma che, in assenza di precise disposizioni, corrisponde alla metà dei
membri votanti +1 (maggioranza semplice) – sebbene spesso siano previste maggioranze
qualificate.
la deliberazione del collegio si ritiene assunta quando i componenti del collegio esprimono la
loro volontà e non già quando viene approvato il verbale della relativa seduta; la verbalizzazione
integra, infatti, un‟attività successiva, affidata ad un segretario, volta a tradurre per iscritto lo
svolgimento della discussione e il contenuto preciso della determinazione assunta.

3. L’AMMINISTRAZIONE PER L’ECONOMIA


un discorso a parte va fatto in riferimento alle ipotesi in cui lo stato ha assunto il ruolo di
operatore economico, diretto erogatore di servizi in favore della collettività, rispetto alle quali nel
tempo si è registrata una molteplicità di formule organizzative: enti pubblici economici, imprese
pubbliche e aziende autonome.
 gli enti pubblici economici rappresentano la figura cardine attraverso cui è stato realizzato
l‟intervento pubblico nell‟economia. la caratteristica fondamentale è che il personale
dipendente, a differenza di quello degli altri enti pubblici, è soggetto ad un rapporto di
impiego di diritto privato, ma nonostante questo non mancano legami con la pubblica
amministrazione - essendo gli organi di vertice nominati, in tutto o in parte, dai ministeri
competenti per il settore in cui l‟ente svolgeva la propria attività) NB da ricordare che sono
soggetti a partecipazione pubblica, per cui operano secondo le direttive impartite dagli organi
statali; sono poi enti pubblici dotati di una propria personalità giuridica e di un proprio
patrimonio, la cui attività consiste nell‟esercizio di un‟impresa commerciale.
 la nozione di azienda autonoma indica una struttura organizzativa, di norma nata dallo
scorporo di una direzione del ministero territoriale, la cui autonomia riguardava il profilo
strutturale e non quello funzionale.
 le imprese pubbliche vengono definite, in sede comunitaria, come quelle “entità che svolgono
un‟attività economica sotto l‟influenza dominante delle autorità pubbliche, ma nel rispetto dei
principi della normale gestione commerciale e cioè sopportandone tutti i rischi, tra cui quello
di fallire”.
da queste occorre differenziare gli organismi di diritto pubblico: “qualsiasi organismo, anche
in forma societaria, istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi
carattere non industriale o commerciale, dotati di personalità giuridica, la cui attività è
finanziata in modo maggioritario dallo stato, dagli enti pubblici territoriali o da organismi di
diritto pubblico, oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui
organo d‟amministrazione, direzione o vigilanza, sia costituito da membri più della metà dei
quali è designata dallo stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico”. sono
dunque tre gli elementi che caratterizzano gli organismi di diritto pubblico: soddisfazione di
bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, personalità
giuridica e vari elementi che fanno presumere che le decisioni dell‟ente siano sotto l‟influenza
determinante di un soggetto pubblico e che, di conseguenza, seguano logiche diverse da
quelle dell‟imprenditore privato.
verso la fine degli anni ‟90, per far fronte al debito pubblico ormai insostenibile, lo stato inizia a
rinunciare al proprio ruolo di imprenditore: vengono dunque abbandonate le formule di ente
pubblico economico e di azienda autonoma. inizia cosi un processo che si divide in due tappe:
trasformazione in spa dei soggetti (privatizzazione formale) e collocamento sul mercato del
pacchetto azionario delle società in mano pubblica (privatizzazione sostanziale).
il primo settore ad essere interessato dal processo di privatizzazione fu quello bancario, con l. 812/1990:
gli enti pubblici creditizi furono trasformati in spa controllate dagli enti pubblici conferenti titolari
dell‟azienda bancaria. preliminare alla trasformazione in spa era lo scorporo dell‟azienda che rimaneva
cosi distinta dall‟ente originario, titolare delle azioni della spa, che continuava a svolgere le tradizionali
funzioni pubblicistiche – tale scorporo non era necessario per gli enti che già presentavano una struttura
associativa, per i quali la trasformazione in spa è avvenuta semplicemente trasformando il fondo di
dotazione dell‟ente in capitale della spa e attribuendo la titolarità delle azioni ai possessori del fondo di
dotazione. negli anni successivi poi, il processo di privatizzazione venne gradualmente esteso anche agli
altri settori.
accanto a tutto questo si collocano le amministrazioni indipendenti, espressione di un rinnovato
ruolo dello stato: si passa dalla figura dello stato imprenditore, soggetto operante direttamente
nel mercato, alla figura dello stato regolatore, garante del corretto funzionamento e della stabilità
del mercato. la caratteristica dell‟indipendenza di tali amministrazioni attiene all‟indipendenza
nello svolgimento della propria attività di regolazione da qualunque influenza politica,
assicurata a livello funzionale attraverso l‟esclusione di qualsiasi previsione tesa ad assoggettare
l‟amministrazione a possibili influenze da parte del governo e a livello strutturale attraverso la
previsione di regole che garantiscono che la scelta dei vertici della stessa avvenga tra soggetti
dotati di una competenza specifica, altra professionalità ed indipendenza; altra caratteristica è la
neutralità dell‟amministrazione indipendente rispetto al settore nel quale opera o che è chiamato
ad operare; l‟ultima attiene alla titolarità del potere normativo, esecutivo e di soluzione dei
conflitti.
in ultimo, analizziamo i soggetti privati esercenti le pubbliche funzioni: le fondazioni. queste si
caratterizzano per la prevalenza dell‟elemento patrimoniale, fortemente legato allo scopo:
altruistico, non di lucro e, soprattutto, di pubblica utilità. in particolare, per quanto riguarda il
requisiti della non lucratività dell‟attività svolta dalla fonazione, è bene sottolineare che sebbene
la realtà conosca fondazioni il cui scopo altruistico implica l‟esercizio di attività economica o
meglio, imprenditoriale, questo non attribuisce automaticamente la qualità di imprenditore
commerciale alla fondazione. a tal proposito la giurisprudenza ha introdotto precisi limiti
all’ammissibilità dello svolgimento di attività imprenditoriale da parte delle fondazioni: queste
possono conseguire i propri fini anche svolgendo attività imprenditoriali a condizione, però, che
tali siano strumentali alla realizzazione degli scopi istituzionali delle fondazioni stesse e che
siano comunque esercitate in via accessorie rispetto all‟attività principale della fondazione.
ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA
1. ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA E DISCIPLINA
evoluzione della disciplina dell’azione amministrativa: dall‟unità d‟Italia (1861) alla fine del
XIX secolo, la dottrina e la giurisprudenza ritenevano che la sola disciplina giuridica applicabile
agli atti dell‟amministrazione fosse il diritto privato e che dunque gli atti che comportavano il
consenso dei soggetti privati o che interferivano con i loro interessi, non potevano che essere
costruiti come atti consensuali.
l‟assenza di una disciplina speciale per la pubblica amministrazione affondava le sue radici della
teoria dello stato assoluto, poi stato di polizia: lo stato sovrano è legibus solutus, perciò in
mancanza di regole giuridiche si applicavano atti sovrani; ove richiesti atti consensuali si
applicava il diritto privato.
l‟attività di diritto privato svolta dallo stato veniva giustificata in due diversi modi: in un primo
tempo con lo sdoppiamento della personalità tra stato, ente sovrano, e fisco, ente privo di
attributi di sovranità e idoneo ad operare solo su base paritetica; in un secondo tempo,
ricomposta l‟unità della personalità dello stato, gli si riconobbe la doppia capacità di diritto
pubblico e di diritto privato. senonchè, la dottrina mise in dubbio la possibilità di ricondurre
l‟attività amministrativa al diritto privato, con particolare riferimento agli atti ablatori:
esprimendo un potere imperante dell‟autorità che comporta la soppressione della proprietà ai
privati, era impossibile potessero basarsi su un atto consensuale tra amministrazione e privato.
a seguito di ciò, dunque, furono elaborati alcuni interventi normativi che mutarono il quadro
dottrinale e giurisprudenziale fino a quel momento considerato: si cominciò ad affermare che
l‟amministrazione, nel perseguimento dell‟interesse pubblico, è titolare di poteri unilaterali, da
esercitare senza bisogno del consenso dei destinatari dei provvedimenti stessi; a ciò si aggiunse
l‟affermazione del principio di legalità, in base al quale l‟amministrazione viene dotata di poteri
unilaterali previsti dalla legge e da esercitare nel rispetto della legge. è cosi che nacque il diritto
speciale dell‟amministrazione, universalmente riconosciuto come diritto amministrativo.
la nascita del diritto amministrativo: la nascita del diritto amministrativo, disciplina dell‟azione
amministrativa dunque distante dal diritto privato, non comporta tuttavia un distacco
incolmabile tra le due discipline: l‟atto amministrativo, infatti, viene per lungo tempo considerato
un negozio giuridico, seppur con caratteri peculiari, la cui disciplina si basava, inevitabilmente,
sul diritto privato; continuavano a sussistere, inoltre, accanto agli atti unilaterali tipici della
pubblica amministrazione, contratti disciplinati dalle diverse leggi sulla contabilità di stato
susseguitesi nel tempo. ciò significa che l‟attività amministrativa è, ai suoi inizi, soggetta in parte
al diritto pubblico e in parte al diritto privato. in particolare, mentre per l‟attività amministrativa
di diritto pubblico l‟attenzione si posa sulla nozione del provvedimento amministrativo e sulle
sue caratteristiche, per l‟attività amministrativa di diritto privato si pone il problema della sua
rapportabilità alla nozione di diritto privato e dunque: la posizione dell‟amministrazione che
agisce nelle forme del diritto privato è identica a quella di qualsiasi soggetto privato? si sono
susseguite diverse impostazioni: da un lato la dottrina sostiene la tesi dell‟assoluta possibilità di
identità di posizione, e questo riprendendo il pensiero del giurista Giannini secondo cui ogni
ente pubblico ha autonomia privata solo per il fatto di essere persona giuridica; dall‟altro, la
giurisprudenza segue una strada del tutto diversa, definita del “doppio grado”: riconosce che
esiste una doppia serie di atti che si distinguono in precedenti la conclusione del contratto e
riconosciuti come atti amministrativi, e relativi alla stipulazione ed esecuzione del contratto,
riconosciuti invece come atti di diritto privato. per quanto lodevole sia il compromesso
raggiunto dalla giurisprudenza, nel corso degli anni non sono mancate ulteriori teorizzazioni: da
un lato, quelle relative alla compatibilità tra l’autonomia privata dell’amministrazione e lo
statuto dell’azione amministrativa; dall‟altro, la tematica del contratto di diritto pubblico. sotto
il primo profilo si è andata sempre più consolidando l‟idea dell‟incompatibilità tra autonomia
privata e statuto speciale dell‟azione amministrativa: pur trattandosi di attività di diritto privato
è comunque svolta dalla pubblica amministrazione, dunque assoggettata allo statuto speciale
della sua azione e per questo comunque esercizio di poteri amministrativi e non di autonomia
privata – la legge può comunque creare spazi di autonomia privata, ma occorre che vi sia una
disposizione che lo permette; con riferimento al secondo profilo e cioè alla figura del contratto di
diritto pubblico, possiamo dire essere espressione di due poteri, uno di diritto pubblico e l’altro
di diritto privato: da un lato avremo l‟esercizio di poteri autoritativi della pubblica
amministrazione, dall‟altro l‟esercizio di poteri non autoritativi espressione dell‟autonomia
privata.
l’attuale attività amministrativa: innanzitutto occorre specificare che il concetto di autorità,
proprio del potere dell‟amministrazione, viene concepito come eteroregolazione e dunque come
potere di disciplinare interessi altrui anche senza il consenso dei titolari degli interessi da
disciplinare (atti precettivi unilaterali); ma il potere autoritativo può anche non esprimere
eteroregolazione, come accade negli atti consensuali bilaterali, senza comunque cessare di essere
potere amministrativo. questo in quanto in tutti gli atti consensuali il potere che
l‟amministrazione esercita non è mai un potere libero, qualificabile come autonomia privata, in
cui “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto” (art. 1322 cc), ma è
sempre e comunque soggetto allo statuto tipico dell‟azione amministrativa che non si limita ad
imprimergli il vincolo di scopo (soddisfazione dell‟interesse pubblico), ma lo sottopone ad una
serie di regole rinvenibili nel principio del procedimento e nel principio del rispetto degli
amministrati.
a proposito dello statuto speciale dell‟azione amministrativa, possiamo introdurre una
distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale: il potere amministrativo è vincolato nel
momento in cui la norma disciplina in modo compiuto l’azione amministrativa, senza lasciare
spazi di scelta; il potere amministrativo è discrezionale quando la norma non disciplina in
maniera precisa o quando la realtà pone un’evenienza non prevista dalla norma. in particolare,
con riferimento al potere discrezionale, possiamo dire che se non si perviene ad una disciplina
sull‟azione amministrativa attraverso interpretazioni analogiche, estensive, il richiamo
all‟intenzione del legislatore o ai principi ricavabili dall‟ordinamento, si apre l‟alternativa di
renderlo insindacabile individuando un metro di giudizio che non è nelle norme, ma in altri
valori. in realtà, però, la storia del potere discrezionale è proprio nel passaggio
dall‟insindacabilità alla sempre più incisiva sindacabilità: secondo una dottrina per lungo tempo
dominante, l‟amministrazione, dovendo agire per il soddisfacimento dell‟interesse pubblico
primario, in mancanza di norme deve valutare comparativamente tutti gli interessi pubblici,
collettivi e privati, per poi decidere l‟assetto degli interessi a seconda di quello ritenuto
prevalente nel singolo caso.

2. PRINCIPI E AZIONE AMMINISTRATIVA


l‟art. 1 comma 1 della l. 241/1990 sul procedimento amministrativo, sin dalla sua prima
formulazione, ha enunciato i principi ispiratori dell‟attività amministrativa: “l‟attività
amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di
efficacia e di pubblicità secondo le modalità previste dalle presente legge e dalle altre
disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti”. tale elencazione è stata ribadita, con
qualche chiarimento terminologico, dalla novella recata dalla l. 15/2005 che, tra l‟altro, ha
affiancato quegli originari principi a principi dell‟ordinamento comunitario; ulteriore
integrazione è dovuta poi alla l. 69/2009 che introduce il principio di imparzialità.
si tratta di lievi modifiche, con una portata innovatrice estremamente limitata:
 il richiamo ai principi dell’ordinamento comunitario appare ovvio, in quanto i principi
dell‟attività amministrativa non possono che trovare fondamento in previsioni normative più
risalenti della legge in questione
 l‟introduzione dei principi di trasparenza e imparzialità, infatti, non rappresentano una
novità, in quanto il primo era già rinvenibile nella legge del 1990; il secondo è principio
consacrato a livello costituzionale, seppur espressamente enunciato solo per l‟organizzazione,
ma da tempo considerato riferibile anche all‟attività amministrativa
 l‟introduzione poi del disposto secondo lui “i soggetti privati preposti all‟esercizio di attività
amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1” non fa altro
che fornire sanzione legislativa ad un preciso orientamento che la giurisprudenza
amministrativa aveva da tempo fatto proprio.
la crisi del principio di legalità: in realtà, l‟art. 1 della l. 241/1990 fa emergere una crisi del
principio di legalità: sia sotto il profilo del primato della legge sia sotto il profilo dell‟ambito di
applicazione del principio. per questo motivo la dottrina, per lungo tempo, ha tentato di
delineare una portata più ampia del suddetto principio: da un punto di vista la legittimità si
riteneva risolta nella conformità del provvedimento a precostituiti parametri normativi o meno,
dall‟altro designa un valore della cultura giuridica, contrapposto all‟autodeterminazione
dell‟autorità.
l‟accezione espansiva del principio di legalità ha portato a percorrere due strade principali: da un
lato l‟individuazione di criteri e regole utili a guidare l‟azione amministrativa e che trovano nella
legge la loro giustificazione, dall‟altro la tendenza a colmare le lacune del sistema e l‟assenza di
specifici canoni di condotta con principi generali dell‟ordinamento giuridico. questi ultimi, in
particolare, sono estremamente dibattuti: alcuni non li considerano norme giuridiche, in quanto
si limitano ad assicurare l‟adeguatezza della scelta dell‟amministrazione; altri, al contrario,
affermano siano delle vere e proprie norme in quanto legati alla giustizia sostanziale, alla
ragionevolezza e ai principi dell‟organizzazione amministrativa. diventano così, insieme alla
legge, guida e orientamento sicuro per il raggiungimento del fine pubblico positivamente
determinato.
i principi di buona amministrazione in particolare: tra i principi generali dell‟ordinamento
giuridico, meritano un discorso a parte i principi di buona amministrazione: una parte della
dottrina non le riconduce ai principi generali dell‟ordinamento, ma a regole e criteri di esperienza
che, a prescindere dalla loro rilevanza giuridica, disciplinano alcuni aspetti settoriali del merito
amministrativo; altri, con orientamento più verosimile, lo considerano un principio giuridico,
trasformandolo, più in generale, in principio di buon andamento. è stato infatti cosi recepito dalla
nostra Costituzione che, all‟art. 97 dispone che siano assicurati nell‟amministrazione “il buon
andamento e l‟imparzialità”: il buon andamento si riferisce all‟organizzazione
dell’amministrazione con riferimento al suo fine primario (l‟interesse pubblico); l‟imparzialità
riguarda il rispetto degli interessi secondari e si atteggia più a limite che a criterio positivo.
ulteriori principi: tornando all‟insieme dei principi che governano l‟azione amministrativa,
possiamo dire che, per quanto mutevoli nel tempo, possono essere considerati da due diverse
prospettive: da un lato troviamo i principi che presidiano e garantiscono il raggiungimento del
pubblico interesse; dall‟altro principi che assicurano i rispetto degli interessi dei privati.
in particolare, tra i principi riferiti al raggiungimento del pubblico interesse, troviamo il principio
di economicità e il principio di efficacia: il primo indica l‟obbligo di fare un uso diligente delle
proprie risorse e per questo, suoi corollari, sono inevitabilmente i principi di semplicità e celerità;
il secondo concerne la funzionalità delle scelte e, in particolare, viene valutato con riferimento al
rapporto tra risorse impiegate e risultati ottenuti.
tra i principi che assicurano il rispetto degli interessi privati, invece, troviamo il principio di
imparzialità e i principi di ragionevolezza, proporzionalità, trasparenza e tempestività
dell‟azione amministrativa: il principio di ragionevolezza si pone quale proiezione dei principi
costituzionali di imparzialità ed eguaglianza e assurge a canone generale dell‟azione
amministrativa i cui esiti devono risultare coerenti e congrui rispetto alle premesse fattuali e di
diritto poste alla base della stessa decisione – che deve dunque risultare adeguata rispetto ai fini
perseguiti; a ciò si lega il principio della proporzionalità della scelta, considerato proprio come
adeguatezza della misura rispetto al fine perseguito avuto riguardo anche al sacrificio importo
agli interessi dei privati coinvolti nel concreto esercizio di potere (garanzia del massimo
contemperamento dei diversi interessi in gioco); abbiamo poi il principio della trasparenza, che
trova fondamento nella Costituzione e, in ultimo, completa il quadro il principio
dell‟affidamento: esprime l‟obbligo di correttezza e buona fede nel quadro dei rapporti tra
amministrazione e cittadino rispondendo all‟esigenza di tutelare gli interessi privati coinvolti
soprattutto quando alcuni elementi abbiano ingenerato nel privato un legittimo affidamento circa
una determinata regolamentazione dei propri interessi da consacrare nel provvedimento
amministrativo.

3. IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO
le amministrazioni pubbliche perseguono i fini pubblici previsti nella legge; quando il
perseguimento di tali fini avviene attraverso strumenti autoritativi, quali l‟esercizio di poteri e
potestà, le pubbliche amministrazioni devono porre in essere un procedimento amministrativo:
serie di atti ed attività funzionalizzati all‟adozione del provvedimento amministrativo che
rappresenta l‟atto finale di tale sequenza, nonché processo decisionale formalizzato attraverso cui
le amministrazioni pubbliche esercitano i poteri ad esse attribuiti dalla legge.
tale formalizzazione è legata ad una motivazione molto semplice: essendo il provvedimento
amministrativo, come detto precedentemente, espressione di potestà, ed essendo questa
attribuita all‟amministrazione dalla legge per il perseguimento di fini stabiliti dalla stessa e non
liberamente dalle amministrazioni, è ovvio come il suo esercizio avvenga nel rispetto di norme e
principi e, in quanto incidente sulle situazioni giuridiche dei destinatari, è altrettanto ovvia la
necessarietà che assume la controllabilità della decisione presa tramite provvedimento.
pur esistendo, fin dall‟unità d‟Italia, leggi che disciplinavano i procedimenti, è mancata, fino al
secolo scorso, una disciplina generale per il procedimento amministrativo, introdotta poi con l.
241/1990.
competenza legislativa e normativa in materia procedimentale: per espressa previsione
contenuta nell‟art. 29, comma 1, della suddetta legge, le disposizioni in essa contenute si
applicano esclusivamente ai procedimenti amministrativi che si svolgono nell‟ambito delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali; tuttavia, vi sono alcune specifiche
disposizioni applicabili invece a tutte le amministrazioni pubbliche.
sempre ai sensi dell‟art. 29, comma 2, le regioni e gli enti locali regolano, nell‟ambito delle
rispettive competenze, le materie disciplinate dalle legge in questione nel rispetto del sistema
costituzionale e delle garanzie del cittadino cosi come definite dai principi contenuti nella legge
stessa.
l‟art. 29 possiamo dunque considerarlo come conseguenza naturale della riforma del titolo V
della Costituzione che ha ridefinito il riparto di competenze legislative tra stato e regioni nonché
il ruolo e le funzioni degli enti locali: il legislatore ha espressamente attribuito la materia
dell‟ordinamento e dell’organizzazione amministrativa dello stato alla competenza esclusiva
statale – e di conseguenza alle regioni resta la competenza residuale in materia di ordinamento
e organizzazione amministrativa regionale e degli enti pubblici che ad essi fanno capo –
nonché ha attribuito a comuni, province e città metropolitane la titolarità di funzioni
amministrative proprie e la potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
struttura e funzione del procedimento amministrativo:
nella legge 241/1990 non vi è alcuna indicazione espressa in merito alla struttura del
procedimento amministrativo. ciononostante, in dottrina il procedimento viene tradizionalmente
suddiviso in fasi: iniziativa procedimentale, istruttoria e decisione finale. NB la suddivisione in
fasi ha il solo fine semplificativo; l‟elemento intorno al quale ruota ogni ricostruzione della
struttura del procedimento sia la decisione finale della pubblica amministrazione assunta nel
provvedimento amministrativo. è infatti questo il risultato cui tende ogni procedimento
amministrativo, per cui gli atti che precedono la fase finale sono da considerarsi preparatori
rispetto a quest‟ultima, con rilevanza meramente procedimentale e che per questo esauriscono la
loro portata giuridica nell‟ambito del procedimento stesso in quanto esclusivamente
funzionalizzati all‟emanazione della decisione finale.
dal punto di vista funzionale, invece, possiamo dire che il procedimento amministrativo serve a*:
a) rendere palese il fatto di realtà da cui si ricava l‟esigenza di cura dell‟interesse pubblico
b) acquisire gli altri interessi presenti nel fatto
c) accertare l‟esistenza e le caratteristiche del fatto
d) valutare correttamente la consistenza ed il peso di tutti gli interessi coinvolti e la misura in cui
essi dovranno essere o meno sacrificati o avvantaggiati in ragione della necessità di cura
dell‟interesse pubblico
e) individuare ed interpretare correttamente le norme che disciplinano il caso concreto
f) assumere la decisione che verrà formalizzata nel provvedimento a mezzo della quale si passa
dalla situazione giuridica iniziale ad una nuova situazione giuridica.
1. apertura del procedimento e iniziativa procedimentale: il procedimento si apre con il primo
atto della serie che viene denominato atto di iniziativa. dall‟art. 2 della l. 241/1990 si ricava che
l‟avvio del procedimento può avvenire ad istanza di parte ovvero d’ufficio. nel primo caso
l‟amministrazione pubblica competente viene sollecitata a procedere da un privato o da altra
amministrazione pubblica - di solito i procedimenti ad istanza di parte sono quelli destinati a
concludersi, ove ne ricorrano i presupposti, con un provvedimento che amplia la sfera giuridica del
destinatario; nel secondo caso l‟impulso procedimentale proviene dalla medesima
amministrazione cui spetta il compito di svolgere il procedimento e dunque di emanare il
provvedimento finale.
con particolare riferimento ai procedimenti ad istanza, la l. 15/2005 ha introdotto, nell‟originario
corpo della l. 241/1990, l‟art. 10bis: il responsabile del procedimento, prima della formale
adozione del provvedimento di diniego, comunica tempestivamente a coloro che hanno
determinato l‟avvio del procedimento con la propria istanza, i motivi che ostano
all‟accoglimento dell‟istanza; gli istanti hanno diritto di presentare per iscritto le loro
osservazioni e dell‟eventuale mancato accoglimento di queste è data ragione nella motivazione
del provvedimento finale - tali disposizioni non si applicano nei procedimento concorsuali né nei
procedimenti in materia previdenziale e assistenziale. nel momento in cui si innesta tale fase di
diniego dell‟istanza si può dire che il procedimento si conclude, in quanto se la pubblica
amministrazione ritiene di negare l‟inizio di un procedimento richiesto dal privato, è evidente
come essa ritenga di avere già sciolto e chiarificato tutti i profili problematici presenti nella
vicenda. di fronte a tale negazione la tutela offerta al privato consiste nella possibilità di
confutare e contestare il diniego al fine di indurre l‟amministrazione ad assumere una decisione
diversa.
sempre con riguardo ai procedimenti ad istanza, nella pratica può capitare che, a fronte di questa
da parte di un privato, la pubblica amministrazione non dia corso al procedimento ovvero, pur
dandovi corso realizzando attività istruttorie, non lo conduca alla sua naturale conclusione
generando, dunque, la non adozione del provvedimento finale. tale fenomeno viene qualificato
in termini di silenzio della pubblica amministrazione (inerzia) e può essere disciplinato
dall‟ordinamento giuridico prevedendo che al silenzio sia attribuito, decorso il termine per la
conclusione del procedimento, o il significato di assenso all’istanza del privato o di diniego
della medesima; in mancanza di una specifica previsione legislativa si determina una situazione
particolarmente grave e delicata perche l‟istanza del privato rimane inevasa. si parla dunque di
silenzio inadempimento, per rimarcare la circostanza in cui la pubblica amministrazione, pur in
presenza di un‟istanza del privato che vale come atto di apertura del procedimento, viene meno
all‟obbligo di svolgere il procedimento e di concluderlo entro il termine con un provvedimento
espresso di accoglimento o diniego della suddetta istanza. tale fenomeno, dal punto di vista del
privato, gli reca pregiudizio per due motivi: mantiene il privato in una situazione di incertezza
ed impedisce allo stesso di realizzare quando si proponeva di fare nell‟ipotesi in cui versi in una
situazione che legittima l‟adozione di un provvedimento di accoglimento dell‟istanza. per questo
per lungo tempo si è cercato di disciplinare il fenomeno dell‟inerzia; in particolare, all‟art. 2 è
stato aggiunto il comma 9bis: l‟organo di governo deve individuare, nell‟ambito delle figure
apicali dell‟amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia; sul
piano processuale il fenomeno viene regolato dall‟art. 31 del codice del processo amministrativo:
decorso il termine per la conclusione del procedimento, finchè perdura l‟inadempimento e
comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per la conclusione, il soggetto
interessato può chiedere l‟accertamento in sede giurisdizionale dell‟obbligo di provvedere; resta
salva in ogni caso la riproponibilità dell‟istanza del privato alla pubblica amministrazione. oltre
ciò, il privato gode di tutele ben precise: il giudice amministrativo potrà pronunciarsi sulla
fondatezza dell‟istanza, ma solo quando non si tratti di attività vincolata o quando risulti che non
vi siano margini di esercizio della discrezionalità da parte dell‟amministrazione; in situazioni
diverse, il giudice accerterà l‟inadempimento e condannerà l‟amministrazione a concludere il
procedimento con un provvedimento espresso. in ogni caso il privato avrà diritto alla tutela
risarcitoria a ristoro del danno subito.
2. istruttoria procedimentale e responsabile del procedimento: all‟atto di iniziativa
procedimentale segue la fase dell’istruttoria, in cui si svolgono tutte le attività necessarie a
chiarire le questioni rilevanti per la decisione finale ed è proprio in questa fase che la pubblica
amministrazione (anche con l‟ausilio di privati e di altre pubbliche amministrazioni), esplicherà
alcune delle funzioni del procedimento amministrativo*: accerta, valuta e qualifica il fatto di
realtà e la sua rilevanza per l‟interesse pubblico; accerta e interpreta le norme che disciplinano
l‟esercizio del potere rispetto al caso concreto; acquisisce compiutamente tutti gli interessi
coinvolti; effettua la valutazione comparativa dell‟interesse pubblico primario con gli altri
interessi in gioco.
nell‟ambito dell‟istruttoria un ruolo decisivo è svolto dal responsabile del procedimento. ai sensi
dell‟art. 4 le pubbliche amministrazioni, ove non sia già direttamente stabilito per legge o per
regolamento, sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro
competenza, l‟unità organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento
procedimentale; ai sensi dell‟art. 5, poi, il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad
assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all‟unità il ruolo di responsabile del procedimento.
i compiti di questa figura vengono esplicitati nell‟art. 6 e sono proprio i compiti di cui parlavamo
pocanzi*: accertamento e qualificazione dei fatti, individuazione delle norme che disciplinano il
caso concreto e acquisizione dei diversi interessi coinvolti. quali sono gli interessi coinvolti? sia
privati che pubblici (di altre amministrazioni**). in questo ambito la l. 241/1990 muta
radicalmente il rapporto tra pubblica amministrazione e soggetti titolari degli interessi coinvolti
nel procedimento: mentre prima di questa il procedimento amministrativo era svolto
dall‟amministrazione pubblica competente senza che fosse previsto, salvo alcune eccezioni, il
coinvolgimento attivo dei soggetti interessati, oggi la partecipazione di questi ultimi è
pienamente garantita in via generale. le finalità cui risulta preordinata la partecipazione sono di
due tipi: migliore cura dell’interesse pubblico, attraverso l‟arricchimento delle informazioni
dell‟amministrazione competente con quelle del partecipante al fine di adottare una decisione
meditata; tutela del partecipante e dell’interesse di cui è titolare. possiamo dunque dire che la
partecipazione procedimentale ha una duplice funzione: collaborazione e garanzia (nei confronti
del partecipante).
la disciplina giuridica della partecipazione procedimentale e, in particolare, l‟ambito della sua
applicazione, è contenuta nell‟art. 13: esclude l‟applicazione della partecipazione ai procedimenti
diretti all‟emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e
programmazione, nonché ai procedimenti tributari; a questi, la giurisprudenza amministrativa
ha aggiunto ulteriori ipotesi di non applicazione della partecipazione procedimentale: tra queste
troviamo i procedimenti nei quali le esigenze di segretezza prevalgono su quelle di pubblicità.
la partecipazione in questione richiede, innanzitutto, che i soggetti interessati siano messi nella
condizione di avere contezza dell‟avvio del procedimento medesimo; ciò viene garantito dalla
comunicazione di avvio del procedimento previsto dall‟art. 7 della l. 241/1990, che introduce un
vero e proprio obbligo gravante sulla pubblica amministrazione. i soggetti destinatari della
comunicazione di avvio del procedimento sono indicati nello stesso articolo in questione: coloro
nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti (destinatari
veri e propri), coloro che per legge devono intervenire nel procedimento e coloro nei confronti
dei quali potrebbe derivare un pregiudizio dall‟adozione del provvedimento finale.
tale obbligo di comunicazione subisce delle deroghe: nel caso di ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento stesso e dunque dell‟urgenza del
provvedere (art. 7) – la giurisprudenza amministrativa su questo punto ha precisato che non è
sufficiente una qualunque urgenza per derogare all‟obbligo di comunicazione, essendo invece
necessaria un‟urgenza qualificata, cioè tale da non consentire l‟adempimento dell‟obbligo senza
che ne risulti compromesso il soddisfacimento dell‟interesse pubblico cui il provvedimento finale
è rivolto; la giurisprudenza amministrativa ha poi individuato altre deroghe: in primo luogo, a
seguito di un‟interpretazione non formalistica delle regole sulla partecipazione e, in particolare,
della disposizione che prevede l‟obbligo di comunicazione dell‟avvio del procedimento, ha
affermato l‟irrilevanza della violazione dell‟obbligo ai fini dell‟annullabilità del provvedimento
finale tutte le volte in cui il soggetto si è trovato nella condizione di poter comunque partecipare
al procedimento; in secondo luogo, ha ritenuto irrilevante la violazione dell‟obbligo di
comunicazione ai fini dell‟annullabilità del provvedimento finale tutte le volte in cui attraverso il
procedimento la pubblica amministrazione deve esercitare una potestà interamente vincolata,
nella quale dunque non sono necessarie né valutazioni di tipo tecnico-scientifico, ne valutazioni
di tipo discrezionale (cioè in tutti quei casi in cui la partecipazione del privato risulta essere
ininfluente) – su questo punto non sono mancati orientamenti contrari del giudice
amministrativo, ma la l. 15/2005 di modifica all’originario testo della l. 241/1990, ha confermato
quanto affermato dalla giurisprudenza amministrativa. in ogni caso si dice che seppur
l‟inadempimento dell‟obbligo di comunicazione non conduce all‟illegittimità del provvedimento
finale, costituisce pur sempre violazione di una norma di legge e per questo comportamento
sanzionabile.
con riguardo alla comunicazione destinata ai soggetti previsti dall‟art. 7, i suoi contenuti sono
previsti dall‟art. 8: indicazione dell‟amministrazione competente, oggetto del procedimento,
ufficio e persona responsabile del procedimento, l‟ufficio in cui si può prendere visione degli
atti e, a seguito della l. 15/2005, anche il termine di conclusione del procedimento e, nei
procedimenti ad iniziativa di parte, la data di presentazione dell’istanza.
**con particolare riferimento al coinvolgimento degli interessi pubblici, si fa riferimento al
coinvolgimento di altre pubbliche amministrazioni: è obbligatorio quando una norma prevede
che non si possa prescindere dalle valutazioni effettuate da un‟altra amministrazione e
facoltativo quando sia la pubblica amministrazione procedente a ritenere necessaria/opportuna
l‟acquisizione di date valutazioni.
tali valutazioni vengono disciplinate in via generale dagli artt. 16, 17 e 17bis. in particolare, l‟art.
17bis in tema di coinvolgimento obbligatorio appare essere il più rilevante, prevedendo
l‟inserimento di due novità, entrambe finalizzate ad accelerare la conclusione dei procedimenti:
introduzione di un meccanismo generalizzato di silenzio-assenso - in base al quale l‟assenso, il
concerto e il nulla osta si intendono rilasciati dalle amministrazioni coinvolte una volta superato
il termine previsto per l‟adozione degli stessi – e introduzione di un meccanismo di risoluzione
dei dissensi e dei conflitti tra amministrazioni affidato al presidente del consiglio dei ministri
previa delibera del consiglio dei ministri.
NB possono partecipare al procedimento una cerchia di soggetti in realtà più ampia rispetto a
quella nei confronti dei quali vi è l‟obbligo, da parte della pubblica amministrazione, di
comunicazione di avvio del procedimento: ai sensi dell‟art. 9, infatti, la facoltà di intervento è
assicurata anche a qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati e ai portatori di
interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare pregiudizio dal
provvedimento.
in ogni caso, tutti i soggetti legittimati ad intervenire, e dunque sia quelli indicati nell‟art. 7
(soggetti con diritto di comunicazione dell‟avvio del procedimento) sia quelli indicati dall‟art. 9
(vedi sopra), possono esercitare le medesime pretese, indicate dal legislatore in termini di diritti
e contenute nell‟art. 10: diritto di prendere visione degli atti del procedimento (1) e diritto di
presentare memorie scritte e documenti (2).
(1) il diritto di prendere visione degli atti del procedimento viene disciplinato dall‟art. 22 della
l. 241/1990 in materia, più precisamente, di diritto di accesso alla documentazione
amministrativa. il partecipante ha diritto di accesso ai documenti amministrativi al fine di
acquisire dati e informazioni necessarie per poter interloquire a ragion veduta con la pubblica
amministrazione procedente.
 qual è la natura di questo diritto? è stata per molto tempo dibattuta, oscillando tra diritto
soggettivo e interesse legittimo. se in un primo momento, nonostante numerosi contrasti, si è
optato per considerarlo come interesse legittimo, in un secondo momento si è andata
sostenendo la tesi contraria.
 cosa si intende per “atti del procedimento”? si intendono i documenti amministrativi: ogni
rappresentazione grafica, foto cinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie
del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da
una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente
dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.
 chi sono i soggetti interessati all‟accesso? vengono individuati dallo stesso art. 22 nei soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso - è ovvio che l‟esigenza di individuare
determinati soggetti è funzionale ad escludere un controllo generalizzato del pubblico
all‟attività amministrativa, ma vi sono delle eccezioni (in materia ambientale, di “accesso
civico” e in riferimento agli enti locali).
limitazioni all‟esercizio del diritto di accesso, art. 24: può essere escluso per esplicita volontà
del legislatore (documenti coperti da segreto di stato e nei casi di segreto o di divieto di
divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo limitativo e
dagli atti con i quali le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie da esse
formati o comunque rientranti nella loro disponibilità; procedimenti tributari; attività della
pubblica amministrazione diretta all‟emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione; nei procedimenti selettivi, nei confronti di documenti
amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi), per
decisione dell’amministrazione con riferimento agli atti individuati mediante regolamento
(atti dalla cui divulgazione possa derivare una lesione alla sicurezza e alla difesa nazionale;
quando siano in pericolo i processi di formazione della politica monetaria o valutaria; quando
intercetti documenti strumentali alla tutela dell‟ordine pubblico, alla prevenzione e alla
repressione della criminalità; quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza
di persone fisiche o giuridiche) o può essere differito (per assicurare temporanea tutela agli
interessi precedentemente indicati o per salvaguardare specifiche esigenze
dell‟amministrazione, specie nella fase preparatoria dei provvedimenti, in relazione a
documenti la cui conoscenza possa compromettere il buon andamento dell‟azione
amministrativa). in ogni caso deve comunque essere garantita ai richiedenti la visione degli
atti dei procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per
difendere i loro stessi interessi giuridici = l‟interesse alla riservatezza, tutelato mediante una
limitazione del diritto d‟accesso, recede quando l‟accesso stesso sia esercitato per la difesa di
un interesse giuridico.
 chi sono i soggetti passivi? le pubbliche amministrazioni, le aziende autonome e speciali, gli
enti pubblici e i gestori dei pubblici servizi.
(2) con riferimento al diritto di presentare memorie e documenti, possiamo dire che permette al
soggetto interessato di tutelare la propria posizione nel corso del procedimento attraverso la
prospettazione di fatti e circostanze che risultano utili anche all‟amministrazione procedente ai
fini dell‟assunzione della decisione – in particolare su questi (memorie e documenti) la pubblica
amministrazione dovrà esercitare un giudizio sulla pertinenza rispetto all‟argomento in
questione, nonché la rilevanza del contenuto di quanto riportato dal soggetto rispetto alla
decisione finale.
a proposito della partecipazione in generale, una delle questioni più rilevanti è sorta con
riferimento alla legittimazione ad intervenire nel procedimento: ove concretamente esercitata
attraverso l‟intervento, determina una corrispondente legittimazione processuale al fine di
impugnare il provvedimento finale in sede giurisdizionale? la giurisprudenza amministrativa ha
affermato che la possibilità di intervenire concretamente nel procedimento non determina
un’automatica capacità di ricorrere in via processuale contro il provvedimento, dovendo tale
capacità essere valutata e riconosciuta sulla base dei criteri ricavabili dalla disciplina processuale
e, dunque, sulla base della titolarità di un interesse legittimo = potrà far valere in sede
processuale la lesione derivante dall‟eventuale illegittimità del provvedimento solo il
partecipante, in quanto titolare di una situazione di interesse legittimo rispetto all‟esercizio del
potere amministrativo.
3. decisione finale: compiuta l‟istruttoria procedimentale, l‟amministrazione è tenuta a decidere e
formalizzare la decisione in un provvedimento amministrativo (art. 2) attraverso il suo organo
competente - ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze
dell‟istruttoria condotta da quest‟ultimo se non indicandone i motivi nel provvedimento finale
(art. 6). tale obbligo subisce delle deroghe: la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la
pubblica amministrazione non è tenuta a dare corso al procedimento, e dunque ad adottare un
provvedimento, in presenza di reiterate richieste aventi il medesimo contenuto, qualora sia stata
già adottata, rispetto al caso concreto, un precedente provvedimento inoppugnato e non siano
sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di diritto, in presenza di domande
manifestamente assurde o totalmente infondate e, in ultimo, in presenza di domande illegali.
ai sensi dell‟art. 2 lo svolgimento dell‟iter procedimentale, dall‟avvio fino all‟adozione del
provvedimento finale, deve essere contenuto in un preciso limite di tempo che può essere
determinato dalle stesse amministrazioni in misura non superiore ai 90 giorni e che può essere
aumentato fino ad un massimo di 180 nei casi in cui ciò risulti indispensabile in ragione della
natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento; in
mancanza di una determinazione in questo senso, lo stesso articolo prevede che i procedimenti
amministrativi debbano concludersi entro 30 giorni.
recentemente è stato introdotto l‟art. 2bis: nell‟ipotesi in cui il procedimento non si concluda nel
termine con un provvedimento espresso è previsto che la pubblica amministrazione sia tenuta al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell‟inosservanza dolosa o colposa
del termine; integrato in un momento successivo dal comma 1bis, questo prevede che nel caso di
inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, per il quale
sussiste l‟obbligo di pronunziarsi, l‟istante ha diritto di ottenere un indennizzo per mero ritardo.

4. CONFERENZA DI SERVIZI
la l. 241/1990 sull‟azione amministrativa include, all‟art. 14, tra gli strumenti di semplificazione,
la conferenza di servizi: valutazione contestuale di più interessi pubblici coinvolti nella
soluzione di un problema amministrativo attraverso una riunione di persone qualificate a trattare
e decidere il problema stesso. sono previste diverse figure di questo istituto: conferenze dedicate
all‟esame contestuale di più interessi pubblici coinvolti in un unico procedimento
amministrativo, conferenze aventi ad oggetto l‟esame contestuale di interessi coinvolti in più
procedimenti amministrativi connessi e conferenze per l‟acquisizione di pareri, intese, concerti,
nulla osta o altri atti di assenso, resi da diverse amministrazioni; si aggiungono poi la conferenza
sull‟istanza e la conferenza preliminare. con riferimento alle ultime due: la conferenza sull‟istanza è
una particolare modalità di indizione della conferenza che ricorre nel caso in cui il privato si rivolga alla
pubblica amministrazione per ottenere più atti di consenso, di competenza di diverse amministrazioni,
necessari per lo svolgimento di un‟attività; la conferenza preliminare viene utilizzata nelle fattispecie in
cui l‟amministrazione è chiamata a decidere in ordine a progetti di particolare complessità e serve ad
evitare aggravi inutili e sprechi di risorse offrendo agli interessati la possibilità di consultare
l‟amministrazione prima di presentare un progetto definitivo e rischiando dunque di incorrere in un
diniego formale. è previsto infatti che tutte le amministrazioni coinvolte nella realizzazione del progetto in
esame indichino le condizioni che, se rispettate, consentirebbero di ottenere il loro assenso definitivo alla
realizzazione dell‟intervento – con la conseguente impossibilità di esprimere successivamente ragioni di
dissenso non emerse in sede di conferenza preliminare e questo al fine di tutelare l‟affidamento dei privati
nei confronti delle amministrazioni. tuttavia, lo stesso art. 14 prevede che le determinazioni espresse in
sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente modificate o integrate solo in presenza di
significativi elementi emersi nel successivo procedimento.
qual è la natura giuridica della conferenza di servizi? il dibattito esiste fin dalla nascita
dell‟istituto in questione e fin dall‟inizio la dottrina ha oscillato tra due posizioni: strumento
rilevante sul piano delle strutture organizzative o mera riunione di organi che collaborano tra
loro al fine di coordinare le rispettive azioni, senza però dar vita ad un organismo ulteriore.
inizialmente non si riuscì a dare una risposta certa, più facile in un secondo momento, quando si
iniziò ad impiegare lo strumento in maniera consistente. in tale fase si affermò infatti l‟idea
secondo cui l‟applicazione della conferenza di servizi fosse da mettere in relazione a procedure
derogatorie, funzionali alla realizzazione di opere ed interventi dichiarati necessari e urgenti.
fu con l‟introduzione dell‟istituto nella l. 241/1990 sul procedimento amministrativo, che la
conferenza di servizi inizia ad essere considerata istituto di carattere generale dell‟attività
amministrativa; ma tale disciplina originaria risultava essere estremamente scarna ed incompleta,
prevedendo un modello puro: veniva configurata quale modulo di collaborazione volontaria tra
amministrazioni e in cui le decisioni potevano essere concordate solo all’unanimità dei
partecipanti – questo significava che la facoltà di dissentire dalla proposta dell‟amministrazione
procedente si risolveva in un vero e proprio potere di veto in capo a ciascuna delle
amministrazioni partecipanti.
tali limiti vennero risolti, a più riprese, fino ai tempi più recenti. si iniziò il perfezionamento dalla
disciplina sui dissensi: si eliminò il riferimento al criterio dell‟unanimità e fu introdotto un
meccanismo di superamento del dissenso facente leva su poteri sostitutivi - regolati con
maggiore precisione in un secondo tempo - e la conferenza di servizi, da eccezionale e facoltativa,
divenne strumento ordinario e obbligatorio.
con queste premesse e con una disciplina, dunque, più completa, possiamo tentare di ricostruire
gli snodi più importanti del dibattito sulla natura giuridica della conferenza di servizi al fine di
giungere ad una conclusione: la conferenza di servizi non si inserisce in nessuna delle tipologie
di organi conosciute, in quanto non può essere considerata organo permanente, data la
mancanza del carattere della stabilità, né organo temporaneo, mancando in questo caso il
carattere temporaneo delle funzioni esercitate; non può essere considerata neanche organo
straordinario, costituendo momento fondamentale dell‟attività amministrativa e non strumento
per supplire a situazioni di scarsa funzionalità dell‟amministrazione stessa; non può essere
considerata, inoltre, neanche un organo collegiale e, in realtà, non è nemmeno un organo, non
avendo rilievo sul piano organizzativo; possiamo dunque dire che la conferenza di servizi è
semplicemente un‟attività amministrativa e in un primo momento la dottrina la qualificava come
strumento idoneo a concludere un accordo tra le amministrazioni coinvolte – opinione
confermata dall‟art. 15 della l. 241/1990.
la conferenza di servizi è, più un particolare, strumento procedimentale e operativo: riunione in
un solo luogo di discussione di uffici diversi o di diverse amministrazioni; sul piano funzionale è
un metodo di coordinamento dei poteri e di raccordo delle competenze; rappresenta una risposta
ai problemi connessi al pluralismo istituzionale e alla frammentazione delle competenze o, in
altri termini, un modulo di coerentizzazione ed armonizzazione della pluralità e pluriformità
degli interessi pubblici, scomposti e frazionati in una molteplicità di centri organizzativi di
imputazione, tendenzialmente equiordinati. sancisce pertanto il passaggio dallo schema
tradizionale della decisionalità solitaria al modello generale dell‟esercizio congiunto e contestuale
di tutti i poteri necessari per la soluzione di un problema amministrativo unitario o per il
conseguimento di un unico risultato. in particolare, essendo tale istituto un metodo di
semplificazione dell‟attività amministrativa, ai sensi dell‟art. 14 risulta essere obbligatorio
quando, data la complessità della vicenda procedimentale, l‟amministrazione procedente non
abbia ottenuto altrimenti pareri, intese, concerti, nulla osta o assensi = di fronte a decisioni di
routine l‟amministrazione procederà secondo il procedimento tradizionale, isolato; in presenza di
decisioni complesse sarà chiamata ad esercitare i poteri amministrativi in conferenza di servizi.
PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO
1. IL PROVVEDIMENTO
nozione di provvedimento amministrativo
nello studio degli atti amministrativi, vennero in un primo tempo affiancati a negozi giuridici
privati. sulla scia di questo, furono suddivisi in meri atti amministrativi e negozi di diritto
pubblico – l‟elemento discretivo era individuato nell‟elemento psichico della volontà*. in
particolare, i negozi di diritto pubblico venivano definititi come dichiarazioni di volontà della
pubblica amministrazione diretta a conseguire fini determinati, riconosciuti e protetti dal diritto.
tuttavia, tale impostazione è stata superata da una serie di considerazioni: in primis l‟atto
amministrativo ha perso l‟elemento della volontà* ed è stato costruito come atto di
autoregolamento di interessi, caratterizzato dunque dalla precettività del contenuto dell‟atto –
finalizzato a realizzare un nuovo assetto di interessi – anziché dalla volontà; in secondo luogo è stata
evidenziata l‟impossibilità di parlare di negozio, atto di autonomia privata, a proposito di atti che
costituiscono esercizio di potere discrezionale; in ultimo possiamo dire che vi è una divergenza
in tema di struttura, validità ed efficacia tra negozio giuridico privato e atto amministrativo
precettivo.
a partire dagli anni ‟40 quello che fino ad ora abbiamo definito come atto precettivo
dell‟amministrazione, viene denominato provvedimento, per esprimere l‟idea del provvedere al
soddisfacimento degli interessi collettivi. il provvedimento è atto autoritativo, nel senso di atto
idoneo a modificare situazioni giuridiche altrui, senza necessità dell‟altrui consenso (Giannini);
da un punto di vista strutturale è un atto unilaterale in quanto esercizio di un potere unilaterale;
da un punto di vista funzionale è un atto di cura degli interessi pubblici; dal punto di vista della
formazione è l‟atto terminale del procedimento amministrativo; dal punto di vista della
disciplina è un atto la cui validità è parametrata su profili funzionali e la cui efficacia è
caratterizzata dalla esecutività. vi sono tuttavia alcune considerazioni da fare: innanzitutto si è
posto il dubbio che possano essere considerati provvedimenti in senso proprio i provvedimenti
che abbiano effetti favorevoli per i loro destinatari e, in effetti, ci si rende conto di come non vi
sia autoritarietà nei confronti dei destinatari degli stessi; tuttavia possono esservi soggetti per cui
il rilascio di un determinato provvedimento favorevole per uno, risulta essere sfavorevole – e
allora diremo che l‟autoritarietà è presente nei loro confronti, così come in quelli del destinatario
di un diniego di provvedimento favorevole o, in altri casi, quando l‟amministrazione risulta
silente.
una seconda considerazione va poi fatta con riferimento agli atti totalmente vincolati, in cui
quindi l‟amministrazione non ha poteri discrezionali: possono essere considerati atti autoritativi
atti di semplice attuazione di disposizioni di rango superiore – che dunque si impongono
all‟amministrazione? ragionando, possiamo dire che da un lato anche i provvedimenti totalmente
vincolati richiedono l‟esercizio del potere dell‟amministrazione attraverso la verifica della
sussistenza dei presupposti di fatto cui la disposizione collega l‟adozione del provvedimento;
d‟altro lato, tuttavia, l‟atto dell‟amministrazione risulta comunque essere atto necessario in
quanto permette agli effetti disposti dalla disposizione vincolati di esplicarsi.
recentemente, poi, è stata condotta una critica molto forte nei confronti del carattere imperativo
del provvedimento: la caratteristica del provvedimento non è l‟idoneità a modificare
unilateralmente situazioni giuridiche altrui senza l‟altrui consenso, né lo sono la sua esecutività e
il regime della sua invalidità, concludendo che il provvedimento, come atto di esercizio del
potere, non si differenzia in alcun modo dai consimili atti privati. tale impostazione appare
tuttavia non condivisibile per due ragioni: in primis i poteri privati (diritti potestativi)
presuppongono la preesistenza di un rapporto giuridico tra titolare del potere e colui che è ad
esso soggetto; in secondo luogo è diversa la disciplina del potere (autoritativo) e del diritto
(potestativo) nonché la situazione soggettiva che fronteggia l’uno e l’altro – il potere
autoritativo, funzionalizzato, si contrappone all‟interesse legittimo; il diritto potestativo, invece,
si torva di fronte ad una mera soggezione.
struttura del provvedimento
manca, nella disciplina legislativa, l‟indicazione degli elementi costitutivi del provvedimento
amministrativo. seppur è chiaro che tali elementi non possono mancare, pena la nullità del
provvedimento, non è facile individuarli con precisione, tanto che in dottrina esistono opinioni
molto differenziate. tuttavia, possiamo dire che la difficile individuazione degli elementi
costitutivi del provvedimento amministrativo, non è un grave problema: la sua validità, infatti, si
basa su profili funzionali e non strutturali.
nelle trattazioni istituzionali tali elementi essenziali vengono fatti coincidere con: soggetto,
oggetto, contenuto, forma e motivi.
 con riferimento al soggetto, cioè l‟organo amministrativo che adotta il provvedimento, non
può essere considerato propriamente elemento dell‟atto quanto più suo autore; ne deriva
dunque che se il provvedimento non proviene dall‟organo che ha il potere di adottarlo, esso
può essere si nullo, ma non per mancanza di un elemento essenziale, bensì per difetto assoluto
di attribuzione.
 anche l‟oggetto crea i suoi problemi: anche ammettendo che sia un elemento essenziale del
provvedimento, non è la sua mancanza a determinare la nullità dell‟atto, quanto la mancanza
o l‟impossibilità di individuarlo o determinarlo.
 quanto alla forma, per i provvedimenti amministrativi, tranne eccezioni, vige la regola della
forma scritta; non vige alcuna regola vincolate di forme solenni per cui, anche qualora sia
prevista una determinata forma, l‟importante è che, qualunque essa sia, sia scritta (libertà delle
forme).
 passando in ultima analisi ai motivi del provvedimento amministrativo, questi risultano essere
intrinseci alla causa dell‟atto stesso e, al contrario della loro irrilevanza nei negozi privati (in
cui invece viene data rilevanza solo alla causa), negli atti dell‟amministrazione questi rilevano
in quanto serie di rappresentazioni di fatto e delle ragioni giuridiche che determinano in
concreto la decisione dell‟amministrazione – devono peraltro, per legge, essere esternati nel
provvedimento o desumibili da altri comunicati insieme al provvedimento.
la decisione dell‟amministrazione di cui sopra, in particolare, esiste in quanto la legge afferma
che questa debba perseguire l‟interesse pubblico, ma è l‟amministrazione poi, di volta in
volta, a determinarlo concretamente tenendo conto dei vari interessi coinvolti.
peraltro, la carenza o insufficienza della motivazione non determina la nullità del contratto,
ma solo la sua annullabilità: per questo motivo neanche la motivazione può essere considerata
elemento essenziale del provvedimento.
= perché il provvedimento esista è necessaria che vi sia un regolamento di interessi in forma
conoscibile e riferibile ad un organo attributario del potere di adottarlo.
tipologia di provvedimenti
l‟autorevole giurista Giannini aveva inizialmente sostenuto che le classificazioni non
riguardassero i provvedimenti veri e propri, quanto più il procedimento che portava a quei
provvedimenti; ma la dottrina non ha accolto tale impostazione, affermano invece che la
distinzione dipende dal contenuto e dagli effetti dell‟atto e non dalle modalità di svolgimento
del procedimento: i procedimenti sono disciplinati in modo sostanzialmente unitario, pur
concludendosi con provvedimenti profondamente diversi tra loro.
a seconda del criterio che si utilizza per effettuare la distinzione – fermo restando che talvolta si
intrecciano, troviamo:
 provvedimenti costitutivi*: determinano la nascita, la modificazione o l‟estinzione di
situazioni giuridiche soggettive
 provvedimenti dichiarativi: verificano o certificano situazioni di fatto, requisiti e
qualificazioni personali e reali, con effetti di certezza giuridica
 provvedimenti generali: il contenuto consiste in precetti non specifici e particolari – si
rivolgono a gruppi indifferenziati di destinatari
 provvedimenti particolari: si riferiscono a situazioni singolari – si rivolgono a destinatari
individuati
 provvedimenti normativi: contengono precetti astratti, meramente ipotetici (norme)
 provvedimenti precettivi: contengono precetti concreti, che disciplinano situazioni reali e
identificate (disposizioni).
*con particolare riferimento ai provvedimenti costitutivi, possiamo dire che le modificazioni
delle situazioni giuridiche soggettive preesistenti possono essere favorevoli – che quindi
ampliano il patrimonio giuridico del destinatario del provvedimento – oppure sfavorevoli; i
provvedimenti favorevoli sono iniziati su domanda del privato, mentre i provvedimenti
sfavorevoli sono iniziati con atti della stessa amministrazione competente ad adottare il
provvedimento, ovvero di altra amministrazione che sia interessata al provvedimento
sfavorevole per il suo destinatario.
mentre i provvedimenti sfavorevoli vengono inclusi nell‟unica ma variegata categoria dei
provvedimenti ablatori**, i provvedimenti favorevoli sono suddivisi in due categorie:
autorizzazioni e concessioni. la ragione di tale distinzione è semplice: le autorizzazioni
rimuovono un ostacolo che impedisce l‟esercizio di diritti di cui il privato è già titolare, mentre le
concessioni conferiscono al privato nuovi diritti. in realtà, la distinzione è molto più articolata, in
quanto non è sempre vero che il privato, prima di chiedere l‟autorizzazione, sia sempre già
titolare del diritto soggettivo, né è sempre vero che la concessione crea nuovi diritti, potendo
determinare l‟acquisto anche di utilità diverse.
**i provvedimenti ablatori sono quei provvedimenti con cui l‟amministrazione priva il privato di
una utilitas per esigenze di interesse pubblico – avendo ad oggetto la privazione al privato
possiamo dire che i provvedimenti ablatori costituiscono l‟archetipo dei provvedimenti
autoritativi. a seconda dell‟oggetto sul quale tali provvedimenti incidono possiamo distinguere:
provvedimenti ablatori personali, se in incidono su libertà, diritti personali o su comportamenti
leciti; provvedimenti ablatori reali, se estinguono o limitano diritti reali; provvedimenti ablatori
obbligatori, se fanno sorgere obbligazioni a carico dei loro destinatari. se il carattere comune a
tutti i provvedimenti ablatori è l‟imposizione di una privazione, occorre effettuare una
distinzione: mentre i provvedimenti ablatori personali sono funzionali alla cura diretta di
interessi generali, i provvedimenti ablatori reali e obbligatori sono funzionali all‟appropriazione
da parte dell‟amministrazione della utilitas sottratta al privato.
 con riferimento ai provvedimenti ablatori personali possiamo dire che consistono in ordini che
l‟amministrazione emana nei confronti di singoli o di gruppi di individui; possono consistere
in comandi o divieti e possono incidere su quasi tutte le libertà e i diritti personali – alcune
libertà non possono tuttavia essere oggetto di limitazioni, altre possono essere limitate solo
con atti del giudice e quindi non con provvedimenti amministrativi, altre ancora possono
essere limitate con atti giudiziari ma solo in casi di necessità e urgenza.
 i provvedimenti ablatori reali sono stati considerati come l‟inverso speculare dei
provvedimenti concessori: estinguono o limitano diritti reali di privati e ne determinano
l‟acquisto da parte dell’amministrazione o di beneficiari, anche privati – essendone esempi
l‟espropriazione o la requisizione, si ritiene che siano funzionali alle esigenze del governo del
territorio.
 in ultimo, i provvedimenti ablatori obbligatori: si caratterizzano per l‟effetto della nascita di
un rapporto obbligatorio tra amministrazione e privato, avente ad oggetto somme di denaro
o attività personali, in cui il privato è il debitore e l‟amministrazione è il creditore.
a questi provvedimenti si applica l‟art. 23 Cost, considerato puntuale manifestazione del
generale principio di legalità: “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere
imposta se non in base alla legge”.
2. IL REGIME DEI PROVVEDIMENTI: L’EFFICACIA
l’efficacia dell’atto giuridico esprime la sua idoneità a produrre effetti nell’ordinamento, la sua capacità di
incidere nei rapporti fra parti definite o anche nei confronti di terzi mediante la produzione di effetti
costitutivi, modificativi, estintivi o meramente dichiarativi.
dal punto di vista temporale l’efficacia è, di regola, istantanea; ma vi sono anche fattispecie ad efficacia
retroattiva o differita: quest’ultima paralizza gli effetti dell’atto senza pregiudicarne la validità.
la differenza sostanziale tra inefficacia e invalidità degli atti consiste, infatti, nella circostanza per cui
mentre l’inefficacia dipende da elementi esterni al negozio e, in particolare, alla volontà delle parti,
l’invalidità dipende da vizi intrinseci all’atto stesso. tra l’altro, il rapporto tra validità ed efficacia non è
biunivoco: se è vero che l’efficacia di un atto presuppone la sua validità, allo stesso modo non è detto che un
atto valido sia necessariamente efficace.
l’efficacia si distingue in costitutiva, dichiarativa e preclusiva.
l‟efficacia dell‟atto amministrativo esprime l‟attitudine a produrre un effetto giuridico e non la
materiale produzione dello stesso che, invece, può derivare dall‟esecuzione del provvedimento
amministrativo o richiedere l‟adozione di ulteriori atti piuttosto che essere sospesa* per volontà
della stessa amministrazione o del giudice.
efficacia spaziale e temporale: lo spazio e il tempo costituiscono coordinate direttamente incidenti
sull‟efficacia degli atti amministrativi: lo spazio si correla alla competenza amministrativa per
territorio, delimitandola – tuttavia vi sono casi di atti i cui effetti abbiano efficacia anche al di
fuori del territorio dell‟ente e, talvolta, dello stesso territorio nazionale (es. carta d‟identità); per
quanto riguarda il tempo possiamo dire che questo rileva sotto un duplice profilo: decorrenza
degli effetti e durata. possono infatti aversi atti ad effetto istantaneo, prolungato o permanente –
in caso di atto con efficacia a tempo questa può essere, qualora ricorrano i presupposti, prorogata
o rinnovata.
con riferimento all‟efficacia nel tempo possiamo far riferimento al discorso, già affrontato in
precedenza, dell‟istituto della prorogatio con riferimento alla permanenza di un organo
nell‟esercizio delle sue funzioni anche successivamente al termine della carica e finchè non sia
nominato o eletto il suo sostituto. giustificato sulla base di esigenze di continuità dell‟esercizio
delle funzioni, l‟uso improprio dell‟istituto ha talvolta consentito la proroga sine die della
titolarità di organi; è per questo che il legislatore ha sanzionato mediante nullità tutti gli atti
posti in essere a seguito della scadenza del termine di permanenza in carica dell‟organo.
il provvedimento amministrativo comincia a produrre i suoi effetti nei confronti dei destinatari
dal momento della sua comunicazione; tale principio risulta essere molto importante, facendo
cadere, implicitamente, il mito dell‟amministrazione unilaterale che si impone ai destinatari. in
particolare, l‟art. 21bis della l. 241/1990 sancisce tale principio con riferimento ai provvedimenti
limitativi della sfera giuridica dei destinatari; la mancata comunicazione del provvedimento
determina la sua inefficacia ma non la sua invalidità. il motivo per cui l‟obbligo di
comunicazione grava sull‟amministrazione solo nel caso di provvedimenti sfavorevoli nei
confronti dei destinatari, nasce dall‟evidente inutilità di comunicazione di un provvedimento
favorevole non essendovi alcuna esigenza di tutela dei destinatari nei confronti
dell‟amministrazione stessa; tuttavia, è stato rilevato che se l‟atto non incide negativamente sulla
sfera giuridica del destinatario diretto, tuttavia può risultare sfavorevole per i terzi. è stato per
questo stabilito che in tutte le ipotesi di conflitto necessariamente coinvolte da un
provvedimento, rientra l‟obbligo di comunicazione. sfuggono invece all‟obbligo in questione, per
espressa previsione normativa, sia i provvedimenti aventi carattere tutelare ed urgente, sia quelli
contenenti una motivata clausola di efficacia immediata.
la comunicazione avviene di norma a ciascun destinatario; ove questi sia irreperibile vanno
applicate le speciali disposizioni previste dal codice di procedura civile; nel caso in cui il numero
dei destinatari sia tale da rendere impossibile ed estremamente gravosa la comunicazione
personale, questa ha luogo mediante idonee forme di pubblicità.
con riferimento alle forme di comunicazione l‟amministrazione è libera di individuare quelle
che ritiene più adeguate.
l‟art. 21quater della l. 241/1990 sancisce il principio per cui i provvedimenti amministrativi
efficaci sono eseguiti immediatamente, al fine di evitare un‟inutile interruzione tra l‟efficacia
giuridica e la sua esecuzione. ciononostante esistono comunque, come detto precedentemente*,
provvedimenti la cui efficacia è sottoposta a condizione sospensiva o a termine iniziale: la
prima si ha quando il provvedimento è sottoposto ad un apposito procedimento di legittimità dal
cui esito positivo dipende l‟attribuzione di efficacia allo stesso; il termine iniziale si ha invece
quando viene indicato un momento futuro e certo a partire dal quale gli effetti del
provvedimento si producono. lo stesso art. 21quater dispone che l‟efficacia o l‟esecuzione del
provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente
necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge; la
sospensione va accompagnata dall‟indicazione esplicita del termine, che risulta prorogabile o
differibile per una sola volta, anche riducibile per sopravvenute esigenze.
un caso a parte sono i provvedimenti con efficacia retroattiva, quali annullamento, convalida e
regolarizzazione; non sono certo ammessi provvedimenti retroattivi che incidano negativamente
sulla sfera giuridica dei destinatari. tuttavia, alla retroattività degli effetti del provvedimento
amministrativo si oppongono due principi di notevole portata: il fatto compiuto si oppone alla
sua rimozione + buona fede e legittimo affidamento del destinatario di un precedente
provvedimento. per questo può dirsi che di regola vale il principio dell‟irretroattività dei
provvedimenti amministrativi, salvo i casi in cui vi sia il consenso dei destinatari del
provvedimento e in cui questo produca solo effetti favorevoli.
efficacia soggettiva ed efficacia oggettiva: l‟efficacia soggettiva deriva, possiamo dire,
dall‟efficacia spaziale di un provvedimento in quanto, essendo l‟efficacia di questo limitata ad
un determinato territorio, lo sarà anche con riferimento ai destinatari (di quello specifico
territorio). in particolare, i provvedimenti amministrativi possono rivolgersi ad una pluralità di
soggetti, che determinano la produzione di un‟efficacia differenziata: avremo quindi atti
collettivi, riguardanti fatti relativi ad ordinamenti particolari, uffici collettivi, ecc; atti plurimi,
con cui in un‟unica dichiarazione si raccolgono atti rivolti a molteplici figure soggettive; atti
generali, con effetti nei confronti di gruppi indeterminati di persone.
con riferimento all‟efficacia oggettiva, in generale il provvedimento può produrre effetti reali od
obbligatori: i primi vengono semplificati con la costituzione di una nuova proprietà a seguito
dell‟espropriazione di un bene; i secondi con l‟imposizione di un tributo.
esecutorietà del provvedimento amministrativo: la riforma della l. 241/1990 ha sottoposto al
principio di legalità anche la fase esecutiva del provvedimento mediante la predisposizione di
una disciplina legislativa dell‟esecuzione.
l‟esecutorietà, innanzitutto, indica l‟attitudine di un provvedimento ad essere portato in
esecuzione, anche contro la volontà del soggetto obbligato, senza necessità di una pronunzia del
giudice. l‟art. 21ter stabilisce che le pubbliche amministrazioni, nei casi e con le modalità stabiliti
dalla legge, possono imporre coattivamente l‟adempimento degli obblighi nei loro confronti,
indicando ai destinatari tempi e concrete modalità esecutive.

3. INVALIDITA’ DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO


in linea generale può dirsi che la validità e l‟invalidità indicano una qualità di un oggetto che
scaturisce da un giudizio di conformità di tale oggetto con il proprio modello o schema di
riferimento: se il giudizio di conformità è positivo si avrà una fattispecie valida, se il giudizio è
negativo risulterà integrata una fattispecie invalida. dal punto di vista giuridico, quindi, avremo
un atto valido o invalido a seconda che vi sia conformità o difformità dal modello legale di
riferimento.
secondo una distinzione tradizionale all‟interno della figura dell‟invalidità si hanno ipotesi di
annullabilità e di nullità.
annullabilità
il sistema delle invalidità di diritto amministrativo si è formato sulla base della disciplina
processuale contenuta in due norme: l‟art. 26 del testo unico del consiglio di stato, che
individuava tre vizi* (incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere) e l‟art. 45, che sul
piano della reazione processuale prevedeva l‟annullamento dell‟atto impugnato; tali
disposizioni sono ora confluite negli artt. 29 e 34 del codice del processo amministrativo e, a
seguito della riforma del 2005, nella legge sul procedimento amministrativo 241/1990 all‟art.
21octies.
la riforma in questione non modifica la regola generale della retroattività dell’annullamento a
prescindere dal tipo di vizio accertato, con l‟obbligo dell‟amministrazione di porre in essere tutte
le attività necessarie per ripristinare, per quanto possibile, lo status quo ante.
*incompetenza: deriva dalla violazione della disposizione che assegna poteri ad organi,
all‟interno di un‟amministrazione. si tratta dunque di una violazione di legge che assume un
rilievo preminente in quanto il rispetto di queste norme è funzionale all‟ordinato svolgimento
delle funzioni amministrative e costituisce una garanzia per i destinatari dell‟atto.
*violazione di legge: raccoglie ogni altra violazione di norme giuridiche non riguardanti
l‟attribuzione di poteri.
*eccesso di potere: secondo l‟opinione dominante l‟eccesso di potere si presenta come un vizio
composito, che raccoglie in sé ipotesi tra di loro eterogenee emerse a seguito di una lunga
elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale : nell‟idea originaria del legislatore del 1889 che ha creato
il giudice amministrativo, l‟eccesso di potere indicava lo straripamento di potere, ossia l‟ipotesi in cui
l‟amministrazione, nell‟adozione del provvedimento, superava i limiti del potere che la legge le
riconosceva; sin dalle prime decisioni, però, il giudice amministrativo ne individuò il nucleo originario
nella contrarietà allo spirito della legge, ovvero nella difformità tra scopo legale e scopo reale del
provvedimento; sulla scia poi delle suggestioni privatistiche, l‟eccesso di potere venne accostato al vizio
della volontà, inteso come patologia del procedimento interno di formazione del volere
dell‟amministrazione; è stato considerato poi vizio della funzione, cioè forma di invalidità correlata all‟uso
non corretto del potere discrezionale. nell‟esperienza che si è andata poi consolidando, giungendo
fino ai tempi più recenti, si è affermata la natura indiretta del vizio, conoscibile non direttamente
attraverso il mero riscontro tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, ma attraverso quelle che
vennero definite figure sintomatiche. tra le classificazioni più diffuse troviamo quelle inerenti
l‟irragionevolezza dell‟agire amministrativo (contraddittorietà palese tra due atti del
procedimento o tra due provvedimenti aventi medesimo oggetto, illogicità all’interno del
medesimo provvedimento o tra provvedimento e atto a contenuto generale o di
autolimitazione o di interpretazione) e quelle inerenti il risultato sostanziale dell‟azione
amministrativa (disparità di trattamento, erroneità o travisamento dei fatti, incompletezza
dell’istruttoria e ingiustizia manifesta).
l‟evoluzione dell‟eccesso di potere è proseguita: vanno ricordati i mutamenti intervenuti negli
ultimi decenni tra le figure asintomatiche, che figurano oggi ridimensionate e che hanno portato
con sè il mutamento della natura dell’eccesso di potere: da vizio di accertamento sintomatico si è
andato trasformando in violazione di principi generali. ci si chiede, dunque, quale sia la
differenza tra eccesso di potere in questo senso e violazione di legge: la risposta è che mentre
quest‟ultima deriva dall‟inosservanza di regole scritte e puntuali, l‟eccesso di potere si ha quando
la disciplina che si assume violata va ricavata da principi.
nullità
a seguito della riforma del 2005, nella l. 241/1990 viene inserito il capo IVbis, dedicato
espressamente all‟efficacia e all‟invalidità del provvedimento amministrativo, che introduce, per
la prima volta in un testo legislativo, disposizioni generali in materia di nullità del
provvedimento.
accanto alle primissime ipotesi testuali, troviamo le previsioni di una legge del 1994 che, nel
disciplinare il regime degli organi in prorogatio, dispone la nullità di tutti gli atti adottati da
organi la cui nomina sia scaduta, salvo quelli di ordinaria amministrazione o con il carattere
dell‟indifferibilità ed urgenza adottati nel periodo di 45 giorni di proroga dei poteri. dinanzi al
reiterato utilizzo, da parte del legislatore, di tali formule relative alla nullità, il consiglio di stato,
con una serie di sentenze del 1992, si è piegato al formale riconoscimento dell‟esistenza, nel
nostro ordinamento, di ipotesi di provvedimenti nulli cui applicare, in assenza di una specifica
regolamentazione, la disciplina codicistica.
in particolare, l‟art. 21septies in materia, prevede la nullità nei seguenti casi: mancanza degli
elementi essenziali**, difetto assoluto di attribuzione*, provvedimento adottato in violazione o
elusione della sentenza e altri casi previsti dalla legge.
**per quanto riguarda la mancanza degli elementi essenziali, come detto precedentemente, non
esiste uno schema legale degli elementi essenziali del provvedimento normativo ed è per
questo che, con riferimento alla disciplina codicistica, sono ricondotte a tale categoria le ipotesi
di indeterminatezza/impossibilità/illiceità del contenuto del provvedimento, difetto o illiceità
della causa, di vizi relativi all’investitura o alla costituzione del soggetto che ha adottato il
provvedimento amministrativo, di mancanza della volontà dell’amministrazione, difetto della
forma essenziale del provvedimento e di inesistenza dell’oggetto.
*per quanto riguarda poi il difetto assoluto di attribuzione ci si chiede se questo possa essere
considerato differenziato dal vizio di incompetenza che, al contrario di questo, determina
l‟annullabilità del provvedimento amministrativo: si risponde affermando che, mentre il difetto
assoluto di attribuzione si ha quando l’organo che emana l'atto non ha assolutamente la
competenza per emanarlo, in quanto appartiene ad un potere o settore dell'amministrazione
pubblica, completamente diverso, l‟incompetenza opera nel caso di intervento di un diverso
livello territoriale di governo, nel caso di inosservanza della ripartizione di funzioni
all’interno di una branca organizzativa e nel caso di mancato rispetto della distinzione
funzionale tra organi di governo e organi dirigenziali.
vizi che non determinano l’annullabilità
sono previsti dall‟art. 21octies della l. 241/1990: stabilisce, in primo luogo, che non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti
qualora, per la natura vincolata dello stesso, sia palese che il suo contenuto dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; al secondo comma prevede poi che
il provvedimento non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento
qualora l‟amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
irregolarità
da tutto ciò si distingue poi l‟irregolarità: difformità che non comporta conseguenze sul regime
giuridico dell‟atto, che resta valido; può determinare dunque, anziché l‟annullabilità o la nullità
del provvedimento, conseguenze di tipo sanzionatorio in capo agli autori dell‟atto stesso.
l‟irregolarità si verifica nel caso di violazione delle regole formali sulla corretta redazione
dell’atto, sulla data, sulla sottoscrizione non decifrabile nonché l‟omessa indicazione del
responsabile del procedimento.
in ossequio al principio del buon andamento e correttezza dell‟azione amministrativa
l‟irregolarità deve essere sanata per evitare che possano ricadere sul cittadino gli effetti
eventualmente sfavorevoli di errori ascrivibili all‟amministrazione.

4. PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI DI SECONDO GRADO


i provvedimenti amministrativi di secondo grado sono quei provvedimenti che hanno ad oggetto
un precedente provvedimento amministrativo (o il silenzio assenso, previsto dall‟art. 20 della l.
241/1990).
il nostro ordinamento conosce diversi tipi di provvedimento di secondo grado: sospensioni,
proroghe, revoche, recessi, annullamenti d’ufficio, convalide, conferme, conversioni, sanatorie
in senso stretto e riforme. si differenziano per il fatto che alcuni incidono sugli effetti di un
precedente provvedimento (o di un accordo) sospendendoli, prorogandoli o eliminandoli
(sospensione, proroga, revoca); altri incidono sul provvedimento precedente eliminando o il
provvedimento stesso o il vizio di legittimità che lo inficia (annullamento); altri ancora incidono
sul contenuto confermandolo o modificandolo (conferma e riforma).
il presupposto dell‟utilizzo dei provvedimenti di secondo grado è che il potere nel cui esercizio è
stato emanato il precedente provvedimento, non deve essersi esaurito: l‟amministrazione può
riesercitarlo quando il provvedimento è illegittimo o inopportuno - i provvedimenti di secondo
grado non possono essere emanati nei casi in cui, con l‟emanazione del primo atto,
l‟amministrazione ha consumato il relativo potere (atti di controllo, atti della funzione consultiva,
ecc). tuttavia, l‟invalidità del primo provvedimento non giustifica da sola il riesercizio del potere,
dovendo infatti l‟autorità competente valutare se le esigenze di cura dell’interesse pubblico ne
richiedono un nuovo esercizio.
il fondamento giuridico
nei provvedimenti amministrativi di secondo grado si pone il problema del fondamento
giuridico, nel corso del tempo risolto facendo ricorso a vari principi risultati però, non adatti;
l‟unico orientamento che rende i poteri in questione compatibili con il principio di legalità è
quello che li configura come espressione di quello stesso potere nel cui esercizio è stato
emanato l’atto oggetto del provvedimento di secondo grado e, in quest‟ottica, ne rinviene il
fondamento giuridico nella stessa norma attributiva del potere di primo grado.
atti di riesame e revisione, atti ad esito eliminatorio e ad esito conservativo
parte della dottrina, basandosi sul profilo funzionale, distingueva i provvedimenti di secondo
grado in atti di riesame e atti di revisione: gli atti di riesame hanno ad oggetto il provvedimento
sotto il profilo della validità (annullamento, convalida, conferma e ratifica); gli atti di revisione
incidono sull‟efficacia del precedente provvedimento o sul rapporto giuridico scaturito dal
provvedimento di primo grado (revoca, recesso, proroga e sospensione).
ad oggi, invece, la distinzione originaria non esiste più, essendo considerati tutti manifestazione
di un potere di riesame e, dividendoli, in questo ambito, in atti ad esito conservativo (conferma,
convalida, ratifica, riforma, conversione e proroga) e atti ad esito eliminatorio (annullamento,
revoca e recesso).
annullamento d‟ufficio: rientra negli atti ad esito eliminatorio e comporta l‟eliminazione del
provvedimento illegittimo e in contrasto con l‟interesse pubblico. per molto tempo è stato legato
all‟altra figura di atto ad esito eliminatorio, la revoca, che comporta la cessazione degli effetti di
un provvedimento che, pur essendo legittimo, non è più idoneo alla cura dell’interesse
pubblico in concreto perseguito: le due figure sono state studiate in contrapposizione l‟una
all‟altra per poi essere considerate, lentamente, in maniera autonoma. tale distinzione, tuttavia, si
è attenuata con la riforma del 2005 che, disciplinando l‟annullamento d‟ufficio (art. 21nonies), ne
ha accentuato il profilo discrezionale rafforzandone cosi il carattere di strumento funzionalizzato,
come la revoca, alla cura dell‟interesse pubblico. non si tratta però, di una novità: la
giurisprudenza, infatti, aveva affermato che l‟annullamento d‟ufficio oltre che l‟illegittimità del
provvedimento, richiedeva anche l‟inopportunità dell‟atto.
 discrezionalità: se è vero che il potere di annullamento viene configurato come un potere
ampiamente discrezionale, è altrettanto vero che per questo motivo si richiede un‟attenta
valutazione dei fatti e delle circostanze in relazione al perseguimento dell‟interesse pubblico
per la cui cura il potere è stato attribuito, sia in relazione agli interessi dei destinatari e dei
controinteressati.
 prescrizione: tale potere, fino a prima della riforma del 2005, non era soggetto ad alcuna
prescrizione, ma solo ad un “termine ragionevole” la cui valutazione era resa
all‟amministrazione; successivamente, l‟art. 21nonies è stato modificato prevedendo un termine
non superiore a 18 mesi; il superamento di tale termine è consentito solo nelle ipotesi in cui i
provvedimento siano conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti, ecc.
 decorrenza temporale degli effetti: se ne è da sempre predicata la retroattività con il solo limite
del principio factum infectum fieri nequit (il fatto compiuto non può considerarsi come non
avvenuto).
 modalità di svolgimento: il potere di annullamento deve svolgersi secondo le forme e le
garanzie del procedimento che aveva portato all’emanazione dell’atto annullando.
l‟annullamento d‟ufficio, a differenza della revoca, non dà luogo ad indennizzo a favore del
privato eventualmente pregiudicato.
revoca: rientra negli atti ad esito eliminatorio e comporta la cessazione degli effetti di un
provvedimento che, pur essendo legittimo, non è più idoneo alla cura dell‟interesse pubblico in
concreto perseguito - è dunque uno strumento finalizzato a garantire l‟adeguatezza costante della
scelta amministrativa con l‟interesse pubblico in concreto perseguito.
 soggetti attivi: la revoca può essere disposta dall‟organo che ha emanato l‟atto o da altro
indicato dalla legge; secondo la Corte costituzionale può essere legittimamente disposta, oltre
che con atto amministrativo, anche con legge.
 presupposti: l‟esercizio del potere di revoca è ammesso in tre ipotesi: sopravvenuti motivi di
pubblico interesse, mutamento della situazione di fatto che rende il provvedimento
incompatibile con l‟assetto di interessi originariamente definito, diversa valutazione delle
ragioni di pubblico interesse in base alle quali l‟amministrazione aveva adottato il
provvedimento. oggi, tuttavia, nell‟ottica di una maggiore tutela dell‟affidamento del privato
sulla stabilità del rapporto, a seguito delle modifiche introdotte nel 2014, nel caso di
mutamento della situazione di fatto il provvedimento non è revocabile se tale mutamento è
prevedibile al momento della sua adozione. ad ogni modo, le tre ipotesi prima richiamate
vengono ricondotte, da dottrina e giurisprudenza, a due categorie: revoca per sopravvenienza
(che ricomprende i sopravvenuti motivi di pubblico interesse e il mutamento della situazione
di fatto) e revoca ius poenitendi (che ricomprende la diversa valutazione delle ragioni di
pubblico interesse in base alle quali l‟amministrazione aveva adottato il provvedimento).
con particolare riguardo allo ius poenitendi, che si fonda su un ripensamento
dell‟amministrazione, la dottrina già in passato aveva cercato di limitarne l‟ambito di
operatività alla sola ipotesi di atti non ancora efficaci e richiedendo, per la sua legittimità,
oltre ad una puntuale motivazione e alla liquidazione di un indennizzo, anche una
previsione legislativa. la limitazione dell‟operatività di tale istituto, secondo la dottrina, si
basava sull‟affidamento alle situazioni giuridiche nate dall‟atto revocando: si propose cosi
l‟ancoraggio del ripensamento alla conoscenza successiva di fatti e circostanze che, pur
esistenti, erano sconosciuti al momento dell’emanazione dell’atto oggetto della revoca.
 oggetto: secondo quanto previsto dall‟art. 21quinquies può avere ad oggetto solo
provvedimenti ad efficacia durevole, per cui si ritengono irrevocabili gli atti i cui effetti si
sono realizzati ed esauriti, quelli dei cui effetti l‟amministrazione non ha più la disponibilità e
quelli i cui effetti siano divenuti irreversibili cosi come i provvedimenti costitutivi di status;
sono inoltre esclusi, data la discrezionalità del potere di revoca, i provvedimenti vincolati, le
valutazioni tecniche, gli accertamenti, ecc.
 aspetti temporali: nel silenzio del legislatore del 2005 trova conferma il consolidato
orientamento giurisprudenziale che considera il potere di revoca esercitabile in ogni tempo,
con il solo limite dell’attualità dell’interesse pubblico sotteso all‟esercizio del potere stesso.
 conseguenze patrimoniali: è previsto un indennizzo in funzione compensativa del
pregiudizio economico subito dal privato destinatario di un legittimo atto di revoca. con
riferimento al problema del quantum dell‟indennizzo, nel silenzio del legislatore del 2005,
sono state prospettate due soluzioni possibili: ritenere che esso vada commisurato alla perdita
subita con esclusione del lucro cessante oppure legarlo ad un dato di diritto positivo che
prevederebbe un indennizzo per danno emergente nonché una quota per del lucro cessante.
tale problema è stato risolto in via definitiva dal legislatore, che all‟art. 21quinquies ha
aggiunto il comma 1bis: l‟indennizzo deve essere parametrato al solo danno emergente.
AMMINISTRAZIONE CONSENSUALE: GLI ACCORDI
con l‟art. 11 della l. 241/1990, cosi come modificato dalla l. 15/2005, il legislatore ha disciplinato
l‟istituto degli accordi tra amministrazione e privati, consentendo alla parte pubblica di
avvalersi di moduli consensuali per l‟esercizio della funzione amministrativa.
anche se gli accordi erano già previsti in normative di settore che disciplinavano specifiche
tipologie di provvedimenti, è indubbia la portata innovativa dell‟articolo in questione: al
principio tradizionale del binario unico e, dunque, dell‟esercizio del potere unilaterale da parte
dell‟amministrazione, si sostituisce il principio del doppio binario, per cui l‟amministrazione ha il
potere di scegliere (e l‟interessato ha il potere di pretendere) sia la tradizionale linea autoritativa,
sia la nuova linea convenzionale.
da un punto di vista funzionale possiamo dire che gli accordi costituiscono una modalità di
esercizio del potere amministrativo; sono disciplinati dalla legge sul procedimento e possono
concludersi, per espressa previsione normativa, esclusivamente nell’ambito di un procedimento
amministrativo avviato o nell’ambito del concreto esercizio del potere autoritativo
dell‟amministrazione: gli accordi si distinguono, infatti, in accordi integrativi* e accordi
sostitutivi*. ciò consente di affermare che gli accordi amministrativi possono essere utilizzati solo
sul presupposto del procedimento e del potere autoritativo e che devono considerarsi esclusi
nell’ambito dell’attività di diritto privato dell’amministrazione – in cui manca il potere
autoritativo della stessa. questo porta ad un‟ulteriore conclusione, con riferimento alla natura
giuridica degli accordi: non possono essere ricondotti all’istituto dei contratti, che non possono
essere ridotti al mero accordo, e dai quali si discostano quanto a disciplina legislativa: secondo
l‟art. 11, infatti, agli accordi non si applica la disciplina codicistica sui contratti, ma solo i principi
codicistici in materia di obbligazioni e contratti.
*gli accordi si dividono in accordi integrativi e accordi sostitutivi: i primi intervengono nel
procedimento e si concludono al fine di determinare il contenuto del provvedimento finale,
dunque vincolato a quanto stabilito nell‟accordo; i secondi concludono il procedimento e
determinano la produzione di effetti giuridici per cui sarebbe necessaria l‟emanazione del
provvedimento unilaterale, che dunque sostituiscono.
il recesso dell’amministrazione
l‟art. 11 dispone che per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l‟amministrazione può
recedere unilateralmente dall‟accordo, salvo l‟obbligo di provvedere alla liquidazione di un
indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno al privato.
tale potere di recesso è, tuttavia, limitato: innanzitutto, deve essere funzionalizzato alla cura del
pubblico interesse – e ciò comporta non solo l‟obbligo di motivazione e la soggezione al
sindacato giurisdizionale, ma anche che la determinazione di recedere deve essere preceduta da
un procedimento assistito dalle garanzie del contraddittorio; un secondo limite è dato poi dalla
stessa previsione legislativa, per cui i motivi di pubblico interesse devono essere sopravvenuti:
deve cioè trattarsi di esigenze che, al momento della stipula dell‟accordo, non erano conosciute
né conoscibili.
il recesso sembra un po‟ ricalcare la disciplina della revoca del provvedimento ex art. 21quinquies:
entrambi prevedono la liquidazione di un indennizzo e il perseguimento dell‟interesse pubblico;
differiscono, invece, per l‟intensità della tutela dello stesso interesse pubblico: mentre il recesso è
legato a sopravvenuti motivi di pubblico interesse, la revoca richiede sopravvenuti motivi di
pubblico interesse, mutamento della situazione di fatto o nuova valutazione dell‟interesse
pubblico originario.
inadempimento dell’amministrazione
una prima ipotesi di inadempimento dell‟amministrazione può aversi nel caso di recesso
illegittimo, quando cioè non ne esistono i presupposti o quando non sia adeguatamente
motivato. in questo caso il privato potrà proporre un‟azione per il risarcimento del danno, al
contrario di quanto accade nel caso di recesso legittimo per cui al privato spetta un indennizzo.
una seconda ipotesi di inadempimento da parte dell‟amministrazione si può avere nella fase
esecutiva dell‟accordo integrativo: il provvedimento finale potrebbe provvedere in senso
difforme dall‟accordo**, oppure non tenerne conto, oppure il provvedimento finale potrebbe non
essere emanato.
a proposito di questa categoria di inadempimento la dottrina ha proposto diverse ricostruzioni:
una prima ricostruzione, largamente condivisibile, afferma che il privato è titolare di una
situazione di interesse legittimo tutelabile attraverso il ricorso nel caso di silenzio della pubblica
amministrazione; la seconda ritiene possibile l‟esperimento dell’azione forzata in forma
specifica a tutela del contratto preliminare ex art. 2932, cosi rappresentando la sequenza
accordo-provvedimento in termini sovrapponibili alla sequenza contratto preliminare-contratto
definitivo e per questo scarsamente condivisibile.
**con particolare riguardo all‟ipotesi di difformità tra provvedimento finale e accordo, il privato
vanterà un interesse legittimo all‟annullamento del provvedimento nella parte difforme o
dell‟intero provvedimento nel caso di difformità particolarmente grave ed incidente sul
complesso della regolamentazione adottata; il privato potrà inoltre agire per il risarcimento dei
danni.
patologia del rapporto
potranno essere fatti valere in giudizio tutti i vizi di legittimità che riguardano i provvedimenti
amministrativi (annullabilità: incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere; nullità:
mancanza degli elementi essenziali, difetto assoluto di attribuzione, provvedimento adottato in
violazione o elusione della sentenza e altri casi previsti dalla legge).
potranno essere fatti valere, inoltre, le disposizioni del diritto civile, applicabili all‟accordo, con
riferimento all‟istituto della nullità del contratto ex art. 1418: contrarietà a norme imperative di
legge, mancanza dei requisiti richiesti dall‟art. 1325, illiceità della causa, illiceità dei motivi e
mancanza dei requisiti dell‟oggetto.
LA RESPONSABILITA’ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
dall’immunità alla responsabilità diretta
in Italia, come anche in altri paesi, ai pubblici poteri è stata a lungo riservata, sul piano della
responsabilità civile, una posizione di privilegio, ossia di parziale esenzione dal diritto
comune.
la responsabilità della pubblica amministrazione per fatti illeciti dei propri dipendenti si è
affermata progressivamente a cavallo tra „800 e „900, in dipendenza della prima affermazione
dello stato di diritto. in particolare, in Europa, tale fase evolutiva è stata gestita dalla
giurisprudenza che, spesso, si è mostrata sensibile all‟esigenza di salvaguardia del bilancio
dello stato e degli enti pubblici e, di conseguenza, ha tardato l‟affermazione, a favore dei privati,
di mezzi di tutela che potessero comportare esborsi monetari da parte dello stato.
anche la dottrina, con argomentazioni diverse, negava l‟assoggettabilità dell‟amministrazione
alla responsabilità civile: si ammetteva la responsabilità dello stato limitatamente agli atti di
gestione privata, ma quando lo stato agiva nello svolgimento della sua posizione di supremazia,
poneva in essere atti di imperio e godeva quindi di una sostanziale irresponsabilità.
in realtà, quello che si considerava come ostacolo al riconoscimento della responsabilità civile
della pubblica amministrazione, era rappresentato dall‟oggettiva problematicità di applicare
alla stessa la disciplina codicistica della responsabilità civile ordinaria basata sulla colpa
(umana). ma la migliore dottrina dell‟epoca rimarcava il paradosso dell‟amministrazione
irresponsabile: attribuire ad una persona o ad un ente la possibilità di violare ogni diritto senza
che il diritto stesso sia capace di una reazione, significa negare la stessa esistenza obiettiva del
diritto che, se violato impunemente, cessa di essere diritto.
per ovviare a tale inconveniente, dunque, si iniziò la costruzione di un‟autonoma e diversa
fattispecie di responsabilità: una responsabilità di diritto pubblico, disancorata dall‟elemento
soggettivo del dolo e della colpa, ma fondata sull‟elemento dell‟illegittimità della condotta.
a questo punto, una volta elaborata una teoria della responsabilità speciale dell‟amministrazione,
il dibattito si incentrò sul carattere diretto o indiretto di questa: alcuni la qualificarono come
indiretta e, dunque, sottoposta alle regole del codice civile relative alla responsabilità per fatto
altrui – e questo perché l‟amministrazione è persona giuridica e dunque incapace di volere e
agire se non attraverso l‟attività delle persone fisiche, diretti responsabili; ma con l‟affermarsi
della teoria organica, l‟ente pubblico iniziò ad essere considerato capace di integrare la fattispecie
dell‟illecito civile proprio in virtù del rapporto organico intercorrente tra esso e il dipendente.
dunque, viene fatto un passo importante: la responsabilità dell‟amministrazione viene ritenuta
responsabilità diretta, dando al terzo danneggiato un grande vantaggio nella possibilità di agire
contro l‟amministrazione senza dove individuare in modo puntuale l‟agente responsabile
all‟interno della stessa.
nella Costituzione nel 1948, all‟art. 28, viene elaborata una norma che prende in specifica
considerazione la responsabilità dell‟amministrazione e dei suoi agenti: “i funzionari e i
dipendenti dello stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi
penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. in tali casi la
responsabilità civile si estende allo stato e agli enti pubblici”. dunque, tale disposizione,
sembrerebbe affermare la natura diretta della responsabilità del funzionario e quella indiretta
della responsabilità dell‟ente pubblico; tale lettura, tuttavia, non è stata accolta dalla
giurisprudenza, che ha invece affermato che con l‟art. 28 non si è inteso snaturare la
responsabilità diretta della pubblica amministrazione per fatti illeciti dei suoi funzionari per
affermare il principio della responsabilità indiretta dell‟amministrazione: si è inteso sancire,
accanto alla responsabilità dell‟ente, anche quella del singolo funzionario autore del fatto
dannoso, che in passato era ritenuta assorbita dalla responsabilità dell‟amministrazione stessa.
vista l‟ambiguità dell‟articolo in questione, la dottrina ha cercato un modo per ritornare ad
affermare la responsabilità diretta dell’amministrazione, trovandola nei disposti degli artt. 103
e 113 Cost. e, tra l‟altro, andando incontro alle intenzioni dell’assemblea costituente:
responsabilizzare maggiormente i dipendenti pubblici e costruire una responsabilità di rango
costituzionale volta a rafforzare la tutela dei diritti di libertà sanciti dalla Costituzione stessa.
peraltro, in caso di condanna dell‟amministrazione pubblica, la giusta ripartizione dell’idem
debitum nei rapporti interni tra agente e soggetto pubblico viene garantita dall‟esercizio
dell‟azione di regresso che l‟ente pubblico può effettuare nei confronti del soggetti agente: non a
titolo di responsabilità civile solidale, bensì a titolo di responsabilità amministrativa.
la responsabilità per i danni da lesione dell’interesse legittimo
dopo l‟affermazione della responsabilità diretta dell‟amministrazione, si pose un diverso
problema: l‟irrisarcibilità dei danni derivanti dalla lesione degli interessi legittimi.
il punto principale della questione, in particolare, si incentrava sulla nozione di illecito o, più
precisamente, di quel “danno ingiusto” riportato nell‟art. 2043 come elemento costitutivo del
risarcimento per fatto illecito.
inizialmente era diffusa in dottrina l‟opinione secondo cui il danno era da considerare ingiusto
solo qualora andasse ad incidere su un diritto soggettivo; mentre per la lesione dell‟interesse
legittimo si riteneva adeguata e sufficiente la tutela offerta dall‟annullamento dell‟atto
amministrativo impugnato. si aveva dunque una situazione nella quale il titolare di un diritto
soggettivo leso aveva a disposizione due mezzi di tutela: l‟annullamento del provvedimento e il
risarcimento; il titolare di un interesse legittimo, invece, aveva a disposizione l‟unico mezzo di
tutela dell‟annullamento del provvedimento.
tuttavia, la giustificazione all‟idea dell‟irrisarcibilità dei danni derivanti dalla lesione di
interessi legittimi, si basava su ragioni e preoccupazioni di ordine economico e finanziario poste
a salvaguardia dei bilanci pubblici. oltre questo, vi erano anche altre ragioni: l‟interesse
legittimo, infatti, veniva ricostruito come situazione giuridica soggettiva avente ad oggetto la
mera legittimità dell’azione amministrativa, per cui la risarcibilità in questi termini era
certamente da escludersi; il danno ingiusto, invece, veniva considerato proprio come danno
derivante dalla lesione di un diritto soggettivo, per cui l‟esclusione dell‟interesse legittimo era
ovvia. vi erano poi ragioni di carattere processuale che impedivano la risarcibilità del danno
derivante da lesione di interesse legittimo: infatti, anche a voler ritenere ingiusto, e dunque
risarcibile, un danno del genere, si riteneva che non vi fosse un giudice fornito della
giurisdizione, nonché dei poteri idonei a pronunciarsi sulla controversia relativa a tale
categoria di danno – il giudice ordinario, in quanto giudice delle controversie aventi ad oggetto
diritti soggettivi, era chiaramente impossibilitato ad entrare nel merito; ma anche il giudice
amministrativo non poteva in quanto privo, di regola, dei poteri idonei a condannare la pubblica
amministrazione al risarcimento di un danno.
il legislatore ha dunque tentato di dare maggiore effettività alla tutela risarcitoria: con la l.
80/1998 si previde che il giudice amministrativo*, nelle controversie devolute alla sua
giurisdizione esclusiva, potesse disporre il risarcimento del danno ingiusto. con questa
disposizione fu dunque conferito al giudice amministrativo, innovando sul punto, un ampio
potere: non più limitato alla condanna dell‟amministrazione al pagamento di somme di denaro
di cui risulti debitrice, bensì esteso alla possibilità di condannare la pubblica amministrazione al
risarcimento di qualsiasi danno ingiusto.
a questo punto, anche la corte di Cassazione, dopo molti decenni di giurisprudenza consolidata
in senso contrario alla risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi, con due sentenze (in
particolare la 500/1999) ammise la risarcibilità di danni che derivavano dalla lesione di situazioni
giuridicamente rilevanti e, quindi, anche di quelle da lesione di interessi legittimi, a condizione
che vi fossero i seguenti presupposti: concreto ed effettivo pregiudizio per il ricorrente,
ingiustizia del danno, elemento soggettivo della colpa o del dolo dell’amministrazione come
apparato e nesso di causalità tra danno cagionato e condotta dell‟amministrazione. la Cassazione
ha poi precisato che con tali sentenze non ha inteso ammettere una indiscriminata risarcibilità
degli interessi legittimi, bensì solo di quegli interessi meritevoli di tutela. dunque, la lesione
dell‟interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per pervenire al risarcimento
del danno ex art. 2043 poiché occorre anche che l‟attività illegittima dell‟amministrazione
determini la lesione dell‟interesse al bene della vita, meritevole di tutela, al quale l‟interesse
legittimo effettivamente si collega. si vede in realtà come la lesione dell‟interesse legittimo non
solo non è condizione sufficiente per accedere alla tutela risarcitoria, ma neanche condizione
necessaria, in quanto l‟ingiustizia, e dunque la risarcibilità del danno, si parametra sulla lesione
del bene della vita cui l‟interesse legittimo si collega: è dunque la lesione (indiretta) del bene della
vita ad essere risarcita e non la lesione (diretta) dell‟interesse legittimo.
la sentenza 500/1999 ha tentato di risolvere anche i problemi legati ai profili processuali. in
particolare ha stabilito che: la controversia avente ad oggetto la tutela risarcitoria (anche del
danno da lesione dell‟interesse legittimo), ove non rientrante in una materia devoluta per legge
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, deve rientrare nella giurisdizione
dell‟autorità giudiziaria ordinaria*; il giudice ordinario può pronunciarsi sulla domanda di
risarcimenti dei danni (da lesione di interesse legittimo) senza dover attendere l‟esito del giudizio
di annullamento (del giudice amministrativo).
tutto questo ha subito delle profonde modifiche a partire dal 2000, quando si stabilì che la tutela
risarcitoria dell‟interesse legittimo va richiesta al giudice amministrativo*, essendo questa
ulteriore strumento di tutela rispetto a quello classico demolitorio.
quali sono le condizioni sostanziali e processuali che regolano la tutela risarcitoria degli interessi
legittimi? il dibattito è stato lungo e complesso, al centro del quale troviamo il tema della
pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all‟azione di danno. a favore della tesi
dell‟autonomia delle due azioni si è pronunciata la stessa corte di Cassazione che ha affermato
che la domanda di risarcimento può essere proposta innanzi al giudice amministrativo anche in
difetto della previa domanda di annullamento dell‟atto lesivo – e questo perché, affermava la
Cassazione, la necessarietà della previa richiesta dell‟annullamento del provvedimento rispetto
alla richiesta di risarcimento non era previsto in alcuna norma di diritto positivo; di pensiero
contrario è invece il consiglio di stato. una risposta definitiva viene data con l‟emanazione del
codice del processo amministrativo: l‟art. 30 prevede espressamente che l‟azione di condanna al
risarcimento del danno può essere proposta in via autonoma entro il termine di decadenza di 120
giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato o dal giorno della conoscenza del
provvedimento se il danno deriva direttamente da questo.
responsabilità della pubblica amministrazione
la sentenza 500/1999 ha portato rilevanti innovazioni anche con riguardo all‟elemento
soggettivo della responsabilità della pubblica amministrazione.
la Cassazione, infatti, si è discostata dal proprio precedente orientamento consolidato sul punto,
che riteneva sussistente in capo alla pubblica amministrazione la culpa in re ipsa nel caso di
adozione o esecuzione di un atto amministrativo illegittimo, ed ha affermato la necessità
dell‟accertamento della colpa della pubblica amministrazione, non coincidente con la mera
illegittimità del provvedimento, né con la colpa individuale del singolo funzionario agente, ai fini
dell‟integrazione dell‟art. 2043 (“qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno
ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”).
natura della responsabilità dell’amministrazione
qual è la natura della responsabilità della pubblica amministrazione? per quanto analizzato fino a
questo momento sembrerebbe potersi parlare di responsabilità extracontrattuale, proprio con
riferimento all‟art. 2043, ma le problematiche nascenti da questa tesi sono legate proprio
all‟inquadramento della responsabilità amministrativa nell‟ambito della responsabilità
extracontrattuale. questo perché tale schema appare inadeguato: il danno che caratterizza la
responsabilità extracontrattuale, infatti, è l‟estraneità tra soggetto danneggiante e danneggiato,
che ovviamente non risulta essere propria del danno causato dall‟amministrazione al privato a
seguito dell‟emanazione (o meno) di un determinato provvedimento amministrativo – che fa
dunque sorgere tra loro un rapporto giuridico da cui discendono precisi e definiti dover in capo
all‟amministrazione e interessi legittimi in capo ai privati. questo, dunque, basterebbe a far
parlare di responsabilità contrattuale o, se si preferisce, di responsabilità da rapporto
procedimentale – visti i contenuti del rapporto tra amministrazione e privato.
accanto a queste due tesi, poi, se ne collocano altre elaborate nel tempo: responsabilità
precontrattuale e responsabilità oggettiva senza colpa.
ancora oggi la questione resta aperta.
responsabilità da attività lecita
l‟interesse pubblico, in determinate situazioni, non può essere soddisfatto se non attraverso
l‟esercizio di poteri che comportano il sacrificio di interessi particolari dei privati; peraltro, in
alcuni casi la Costituzione e le leggi prevedono espressamente questa possibilità, alla quale
affiancano la previsione di un diritto al pagamento di una somma di denaro, usualmente
chiamata indennizzo, con finalità di ristoro del sacrificio legittimamente arrecato all‟interesse del
privato.
tali ipotesi vengono tradizionalmente ricondotte nell‟ambito della categoria della responsabilità
da attività lecita, per la quale sorge un dibattito intorno alla seguente alternativa: il diritto
all‟indennizzo da sacrificio è riconosciuto dall‟ordinamento nelle sole ipotesi espressamente
previste oppure è un principio dal quale, in linea generale, discende un obbligo indennitario
anche al di là delle espresse previsioni? alcuni recenti studi propendono per questa seconda
ipotesi, ravvisando il fondamento di tale obbligo in irrinunciabili esigenze di equità e di giustizia
distributiva e nei principi di solidarietà ed uguaglianza, previsti dalla Costituzione.
POTERI PUBBLICI ED ECONOMIA: I SERVIZI PUBBLICI
la ricerca di una definizione di servizio pubblico valida ai fini di una configurazione più precisa
del fenomeno non è un‟operazione di carattere meramente classificatorio, ma anzi momento
preliminare indispensabile soprattutto ai fini di una corretta applicazione della normativa sia
interna che comunitaria, carente di una diretta definizione della categoria.
la dottrina nel corso del tempo ha elaborato varie tesi sostanzialmente riconducibili a due più
generali categorie: concezione soggettiva e concezione oggettiva.
concezione soggettiva
l‟esigenza di elaborare una definizione di servizio pubblico si pose alla dottrina italiana a fronte
della necessità di individuare una categoria comune sotto la quale ricondurre una parte
dell‟attività amministrativa, non autoritativa, che andava diffondendosi in modo esponenziale in
ragione dell‟assunzione di nuovi compiti da parte dello stato. l‟occasione per una tale riflessione
fu la legge sulle municipalizzazioni, che qualificava come servizi pubblici una serie di attività
eterogenee, per cui si poneva il problema di capire se i comuni dovessero assumere la gestione
delle sole attività presenti in quella lista o se potessero estenderla anche a quelle attività non
espressamente previste, ma comunque riconducibili al genus del servizio pubblico. in altre parole,
occorreva individuare un criterio che si ponesse come identificativo della categoria ed elaborare,
dunque, una nozione più generale.
fu in questa occasione che nacque la concezione nominalistica, prima espressione della
ricostruzione in chiave soggettiva del servizio pubblico: un servizio è pubblico quando l‟attività
in cui esso si esplica è riconducibile allo stato o ad altro ente pubblico (concezione soggettiva)
che lo dichiari tale in forza di un provvedimento legislativo o amministrativo (carattere
nominalistico).
nonostante la tesi formulata si prestasse a diverse critiche, le conclusioni raggiunte divennero
ben presto cosi salde da far si che la dottrina non avvertisse più alcun disagio anche di fronte a
fenomeni che sin da allora sembravano apertamente contraddire la concezione stessa. tra questi,
in particolare: l‟insufficienza del carattere pubblico del soggetto che assumeva la gestione del
servizio; il fatto che si basasse su un criterio di individuazione del servizio come pubblico valido
solo ex post, a seguito cioè della qualificazione come tale da parte dell‟amministrazione che
avesse provveduto alla sua assunzione – era invece necessario un criterio valido ex ante, che
riassumeva le caratteristiche necessarie per considerare un servizio come pubblico.
per questi motivi si diede il via ad una rielaborazione: in primis il carattere pubblico fu trasposto
dal soggetto alla collettività, nel senso che è pubblico quel servizio che soddisfa un interesse
della collettività la cui cura rientra nell‟ambito dei compiti dell‟amministrazione, ora funzionale
alla nozione e non centrale.
concezione oggettiva
se nella concezione soggettiva abbiamo descritto i tratti salienti senza fare alcun riferimento a
particolari autori, nell‟analisi della concezione oggettiva questo è impossibile, in quanto tale
concezione si risolve tutta nell‟opera del giurista italiano Pototschnig.
la concezione oggettiva dell‟autore prende le mosse dall‟art. 43 Cost. secondo cui “a fini di utilità
generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione salvo
indennizzo, allo stato, a enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate
imprese o categorie di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di
energia o situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” =
possono esistere servizi pubblici essenziali gestiti legittimamente da privati e che la legge non
conferisce in mano pubblica. non solo, quindi il momento soggettivo viene meno quale elemento
dell‟individuazione del servizio pubblico, ma addirittura la legge può sottrarre ad un ente
pubblico un’impresa riferita a servizi pubblici essenziali per trasferirla, a fini di utilità
generale, a comunità di lavoratori o utenti.
da ciò derivano i principi essenziali della concezione oggettiva: l‟attività d‟impresa riferita ad un
servizio pubblico non è necessariamente ascrivibile ad un soggetto pubblico e, pur rimanendo
privata, rimane comunque assoggettata alla medesima disciplina prevista per l’attività
economica pubblica (art. 41 Cost.: “l'iniziativa economica privata è libera. non può svolgersi in
contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana. la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica
pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”).
nonostante i grandi meriti di Potoschnig nell‟aver superato i limiti del principio nominalistico,
nella sua teoria troviamo comunque un punto discutibile: se applicata rigidamente, la stessa
teoria rischiava di non ricomprendere a pieno le varietà del fenomeno dei servizi pubblici.
tuttavia, tale concezione sembra essere, ad oggi, quella prevalente in dottrina; inoltre, anche il
nostro ordinamento, sotto l‟influenza del diritto comunitario, sembra muoversi in tale direzione.
RISORSE
1. RISORSE UMANE
per lo svolgimento delle loro funzioni, le amministrazioni pubbliche si sono sempre avvalse
dell‟opera di persone fisiche; del resto, come per tutte le persone giuridiche, anch‟esse non
avrebbero potuto funzionare altrimenti.
in particolare, fino al XVIII secolo la gran parte degli uffici pubblici era affidata al personale
onorario (appartenenti ad un ristretto ceto sociale e con un rapporto fiduciario con il monarca) e
non professionale e ciò non cambiò fino alle moderne monarchie assolute, nonostante mutarono
la durata delle cariche pubbliche e le forme di retribuzione. fu solo con il regno di Luigi XIV in
Francia che si avviò quel lento processo di avvicendamento della c.d. noblesse de robe (nobiltà di
toga) con una burocrazia professionale in senso proprio: è in questo momento che si può
iniziare a parlare di rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche:
rapporto in forza del quale un soggetto pone volontariamente la propria prestazione
professionale in modo continuativo ed esclusivo al servizio di un ente pubblico per il
conseguimento dei fini istituzionali di quest‟ultimo, ricevendo come corrispettivo una
retribuzione predeterminata.
se non è stata difficile l‟individuazione storica del momento in cui sono sorti i rapporti di lavoro
alle dipendenze della pubblica amministrazione, molto più complessa risulta essere la
qualificazione di tali rapporti nonché l‟individuazione delle norme e dei principi che tali
rapporti governano: i rapporti di lavoro in questione, infatti, non sono mai stati interamente
disciplinati dalle norme di diritto comune che regolano invece i rapporti di lavoro tra privati, in
quanto la specialità e i privilegi propri dell’amministrazione non potevano non incidere anche
sulla loro disciplina. è per questo che il legislatore si è preoccupato di elaborare per loro una
disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella di diritto comune. vediamone l‟evoluzione:
partendo dall’unificazione del regno d’Italia possiamo affermare che il rapporto di impiego con
lo stato e con gli enti pubblici veniva considerato alla stregua dei rapporti di lavoro di diritto
privato. con l‟avvento del XX secolo, però, la qualificazione dei rapporti di impiego pubblico in
termini di rapporti di diritto privato viene lentamente abbandonato, facendo spazio ad una
sostanziale pubblicizzazione di quei rapporti, che finalmente iniziavano ad avere una disciplina
speciale – ricordiamo in particolare i ddllgs 2395/1923 e 2960/1923, rispettivamente
sull‟ordinamento gerarchico delle amministrazioni statali e sullo stato giuridico degli impiegati
dello stato, che rappresentano il momento di definitiva pubblicizzazione dei rapporti di lavoro
con le amministrazioni pubbliche.
nasce poi la Costituzione, che non si occupa direttamente del tema, ma fa varie menzioni con
riferimento ai rapporti di lavoro in questione: troviamo in primo luogo la prescrizione relativa
alle modalità di accesso ai pubblici uffici (art. 51), che deve avvenire per tutti i cittadini in
condizioni di uguaglianza e mediante concorso (art. 97); vi è poi l‟art. 28 in materia di
responsabilità degli impiegati pubblici nei confronti di terzi, nonché le varie garanzie
costituzionali poste in generale per la tutela dei lavoratori (art. 35), per il corretto svolgimento
della contrattazione collettiva (art. 36) e per il libero svolgimento dell’azione sindacale (art.
39).
a seguito della nascita della Costituzione, nonostante la disciplina del pubblico impiego venne
rimaneggiata per ben tre volte, non si riusciva a disancorarsi dalla tradizionale distinzione tra
rapporti di impiego pubblico e rapporti di lavoro privato: non si mise mai in discussione la
natura pubblicistica dei rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche.
le riforme degli anni ’80, se nel disegno politico segnavano un momento di discontinuità
rispetto al passato, in realtà non riuscirono nel tempo a mantenere fede all‟ispirazione iniziale e,
comunque, anche i segnali di discontinuità non risultarono essere poi così incisivi. nonostante ciò
segnarono comunque un momento importante: ci si rese conto, infatti, che una marcata
distinzione tra impiego pubblico e impiego privato non avesse in realtà alcuna giustificazione. in
particolare, il dlgs 165/2001 determinò: sul piano delle fonti la prevalenza della disciplina
dettata dalla contrattazione collettiva*; sul piano degli atti l‟affermazione della natura
privatistica degli atti di costituzione, disciplina, modificazione ed estinzione del rapporto di
lavoro; sul piano dei poteri l‟assenza di poteri pubblicistici delle amministrazioni, che operano
con i poteri del datore di lavoro privato; sul piano dei controlli la non soggezione degli atti
relativi ai rapporti individuali di lavoro al controllo della Corte dei conti; in ultimo, sul piano
processuale la giurisdizione del giudice del lavoro.
NB la privatizzazione dell‟impiego pubblico non fu comunque generalizzata, continuando a
sussistere, anche dopo la riforma, una serie di rapporti di impiego che avevano (e hanno)
conservato il regime di diritto pubblico; inoltre, non vi era stata una completa
contrattualizzazione della disciplina dei rapporti di impiego pubblico e, dunque, un‟effettiva
equiparazione di questi alla disciplina dei rapporti di lavoro privato, essendo invece
sopravvissuta una serie importante di previsioni di diritto speciale che comunque
differenziavano (e ancora differenziano) la disciplina del lavoro con le amministrazioni rispetto
alla comune disciplina di diritto privato.
*in base al dlgs 165/2001 spetta alla contrattazione collettiva disciplinare, in coerenza con il
settore privato, la struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti
collettivi nazionali e integrativi.
per quel che concerne il procedimento volto a stipulare i contratti collettivi nella materia del
pubblico impiego, la fase della contrattazione vede come parti, da un lato l‟agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), dall‟altro le organizzazioni
sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
le vicende e i contenuti del rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche
 accesso: secondo l‟art. 97 Cost. deve avvenire attraverso un concorso pubblico aperto a tutti i
cittadini in possesso dei requisiti partecipativi previsti dalla legge; secondo quanto previsto
dal dlgs 165/2001 l‟assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene anche mediante
avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento oppure per chiamata numerica degli
iscritti nelle liste di collocamento.
nello svolgimento delle procedure selettive i singoli enti pubblici devono osservare i seguenti
principi stabiliti dalla legge: adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento
che garantiscano l‟imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento ricorrendo,
ove opportuno, all‟ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme di
preselezione; adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso
dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire;
rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori; composizione delle commissioni
esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso.
 diritti e doveri: come ogni rapporto di lavoro subordinato, anche l‟impiego pubblico genera
diritti e doveri in capo ai dipendenti delle varie amministrazioni. i diritti, in particolare, si
dividono in diritti patrimoniali e diritti non patrimoniali: nei primi troviamo sicuramente il
diritto alla retribuzione che, ai sensi dell‟art. 36 Cost. deve essere proporzionale alla quantità e
alla qualità del lavoro e sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un‟esistenza
libera e dignitosa - l‟art. 45 del dlgs 165/2001 rimette alla contrattazione collettiva il compito
di definire il trattamento economico fondamentale e accessorio dei dipendenti pubblici; con
riferimenti invece ai diritti non patrimoniali la legge disciplina solo il diritto alla mansione,
precisando che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle
mansioni equivalenti nell‟ambito dell‟area di inquadramento o a quelle corrispondenti alla
qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive.
nell‟impiego pubblico, cosi come in quello privato, il dipendente non può mai essere adibito a
funzioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua posizione giuridica; l‟esercizio di mansioni
superiori è invece possibili in ipotesi tassative legate a obiettive esigenze del servizio.
altro diritto non patrimoniale è il c.d. diritto sindacale, nel quale rientra il diritto di
associazione e di assemblea, nonché il diritto di sciopero.
con riferimento invece ai doveri dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, il codice di
comportamento nazionale definisce i doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona
condotta; a questo codice si aggiunge quello specifico di ogni pubblica amministrazione. la
violazione degli obblighi in capo al dipendente determina la sua responsabilità disciplinare.
 modifiche: anche il rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione può
subire modificazioni: progressione economica e giuridica, sede di lavoro, amministrazione o
contenuto del rapporto di lavoro.
 estinzione: l‟estinzione del rapporto di pubblico impiego tende a coincidere con l‟età
lavorativa del dipendente, ma può anche conseguire ad altri eventi come dimissioni
volontarie del dipendente, collocamento a riposo d’ufficio, dispensa per inidoneità
psicofisica, decadenza per ingiustificato abbandono del servizio e licenziamento per motivi
disciplinari, condanna penale o mancato raggiungimento degli obiettivi.
dirigenza pubblica
la materia della dirigenza pubblica è stata riorganizzata, a seguito di vari interventi, nel dlgs
165/2001.
il ruolo attribuito dalla legge a tale figura professionale si basa, soprattutto, sulla separazione tra
la sfera politica e quella amministrativa: secondo l‟art. 4 del decreto in questione gli organi di
governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo definendo gli obiettivi e i
programmi da attuare, adottando gli atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni e
verificando la rispondenza dei risultati dell‟attività amministrativa e della gestione agli indirizzi
impartiti; i dirigenti pubblici, invece, sono responsabili dell‟attività amministrativa e del relativo
risultato: la cura degli interessi pubblici nel rispetto degli indirizzi e degli obiettivi fissati dagli
organi politici. NB l‟attribuzione all‟organo politico del potere di conferimento e revoca degli
incarichi dirigenziali di vertice ha conservato alla sfera politica un forte potere di
condizionamento sulla dirigenza pubblica.
in base all‟art. 15 del dlgs 165/2001 la dirigenza pubblica si divide in prima e seconda fascia, cui
corrispondono ruoli di dirigenti generali e non generali.
per quanto riguarda la revoca dell‟incarico dirigenziale l‟attuale disciplina distingue due
discipline differenti: la prima applicabile ai c.d. dirigenti apicali è costituita dallo spoils system
(affidamento di cariche pubbliche a persone indicate dai partiti o dalle coalizioni usciti vittoriosi
alle elezioni) entro un certo termine dal voto di fiducia al governo; la seconda, valida per gli altri
dirigenti prevede che gli incarichi dirigenziali possono essere revocati esclusivamente nei casi e
con le modalità di cui all‟art. 21 in materia di responsabilità dirigenziale; il mancato
raggiungimento degli obiettivi o l‟inosservanza delle direttive impartite al dirigente
determinano l‟impossibilità di rinnovo dell‟incarico dirigenziale; la colpevole violazione del
dovere di vigilanza sul rispetto degli standard qualitativi e quantitativi fissati
dall‟amministrazione è suscettibile di determinare una decurtazione della retribuzione fino
all‟80%.
in tutte le ipotesi appena descritte, ovviamente, la legge consente al dirigente pubblico di tutelare
i propri diritti innanzi al giudice del lavoro.

2. BENI PUBBLICI
i beni pubblici vengono tradizionalmente definiti come quei beni appartenenti alle
organizzazioni pubbliche e funzionalmente destinati, in via immediata o mediata, alla cura in
concreto di interessi pubblici.
rinvengono la propria disciplina, innanzitutto, nella Costituzione. in particolare, l‟art. 42
nell‟affermare che la proprietà può essere pubblica o privata e che i beni economici appartengono
allo stato, ad enti o a privati, pone, secondo una tesi largamente condivisa, il fondamento per la
distinzione tra il regime giuridico dei beni privati e quello dei beni pubblici: mentre i soggetti
privati possono godere e disporre liberamente, nei limiti consentiti dall‟ordinamento, dei beni di
cui sono titolari, le organizzazioni pubbliche risultano titolari di beni affinchè li utilizzino per il
perseguimento dei propri fini istituzionali fissati dalla legge. in conseguenza questa
distinzione, dunque, tra proprietà pubblica e proprietà privata, il legislatore si è sempre
preoccupato di dettare, in riferimento ai beni pubblici, una serie di disposizioni speciali rispetto a
quelle relative ai beni privati – non a caso la loro disciplina codicistica è collocata in un ambito
diverso rispetto a quello dedicato alla proprietà privata.
beni demaniali e beni patrimoniali
dalle disposizioni codicistiche in materia di beni pubblici è possibile ricavarne una bipartizione
in beni demaniali e beni patrimoniali.
con riferimento ai beni demaniali, l’art. 822 dispone un elenco di questi beni (lido del mare,
spiaggia, rade e porti, fiumi, torrenti, laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in
materia, le opere destinate alla difesa nazionale; se appartenenti allo stato, anche le strade, le
autostrade e le strade ferrate, gli aerodromi, gli acquedotti, gli immobili riconosciuti di interesse
storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle
pinacoteche, degli archivi e delle biblioteche, nonché gli altri beni che dalla legge sono
assoggettati al regime del demanio pubblico), da cui si può ricavare che i beni demaniali sono
sempre beni immobili o universalità di beni, e mai beni mobili, e che appartengono ad enti
pubblici territoriali.
all‟interno di tale categoria di beni è possibile effettuare una distinzione tra beni del demanio
necessario e beni del demanio eventuale: tra i primi rientrano quei beni che, per le caratteristiche
che presentano, non possono non essere beni demaniali (lido del mare, spiaggia, rade e porti,
fiumi, torrenti, laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia, le opere destinate
alla difesa nazionale); dei secondi fanno invece parte tutti gli altri e la caratteristica che li
distingue dal demanio necessario è che possono appartenere, oltre che agli enti pubblici
territoriali, anche a soggetti diversi.
altra distinzione in questo ambito è tra beni del demanio naturale e beni del demanio artificiale: i
primi acquistano e perdono la propria identità fisica per fatti naturali; i secondi, invece, per opera
dell‟uomo.
la condizione giuridica dei beni demaniali in generale è prevista dall‟art. 823, che afferma che
sono inalienabili e che non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi
e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano: sono, dunque, beni incommerciabili. al di fuori
di queste ipotesi qualunque atto di disposizione dei beni demaniali è da considerarsi nullo per
impossibilità dell‟oggetto (ai sensi dell‟art. 1418).
per quanto concerne, infine, l‟inizio e la cessazione del carattere demaniale dei beni pubblici,
occorre distinguere: i beni del demanio necessario naturale acquistano tale qualità per il solo fatto
di venire ad esistenza con le caratteristiche fisiche loro proprie, corrispondenti a quelle descritte
dalla legge (cosi una spiaggia acquista la qualità di bene demaniale per il solo fatto di essere
venuta ad esistenza come tale); i beni del demanio necessario artificiale, invece, acquistano tale
qualità al verificarsi di una duplice condizione: venire ad esistenza e risultare effettivamente
destinati al soddisfacimento delle esigenze di interesse pubblico previste dalla legge. analogo
meccanismo vale anche per l‟acquisto del carattere demaniale eventuale, con l‟ulteriore requisito
della loro appartenenza ad un ente pubblico territoriale.
simmetricamente, con riferimento invece alla cessazione del carattere demaniale dei beni
naturali, questa avviene per il solo fatto che essi abbiano perduto le caratteristiche fisiche loro
proprie, corrispondenti a quelle stabilite dalla legge (cosi una spiaggia cessa di essere un bene
demaniale per il solo fatto di non essere più configurabile come tale dal punto di vista fisico); per
i beni del demanio artificiale, invece, la cessazione della demanialità avviene non soltanto nelle
ipotesi di perdita delle caratteristiche obiettive stabilite dalla legge, ma anche nelle ipotesi in cui
non risultino più effettivamente destinati al soddisfacimento delle esigenze di pubblico
interesse.
accanto ai beni demaniali, abbiamo detto esservi i beni patrimoniali che, a loro volta, si
distinguono in beni patrimoniali indisponibili e beni patrimoniali disponibili: i primi sono
individuati dall‟art. 826 e sono individuati nelle foreste che a norma delle leggi in materia
costituiscono il demanio forestale dello stato, le miniere, le cave e torbiere quando la
disponibilità ne è sottratta al proprietario al fondo (nel 1970 trasferite alle regioni), le cose di
interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in
qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della presidenza della
repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra; fanno inoltre
parte del patrimonio indisponibile dello stato ovvero, rispettivamente, delle province e dei
comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di pubblici uffici, con i loro
arredi, e gli altri beni destinati ad un pubblico servizio.
il regime giuridico dei beni patrimoniali indisponibili è dettato dall‟art. 828: non possono essere
sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. come si
vede, dunque, vi è una differenza con i beni demaniali, assolutamente incommerciabili: i beni
patrimoniali, al contrario, sono commerciabili purchè rimanga sempre e comunque fermo il
loro vincolo di destinazione a finalità pubbliche.
per quanto riguarda l‟acquisto e la perdita del carattere indisponibile dei beni in questione
valgono gli stessi meccanismi dei beni demaniali, sempre con la distinzione tra beni naturali e
beni artificiali, ma evidenziando che per la maggior parte di essi rileva in maniera decisiva la
ricorrenza o meno di una loro effettiva destinazione a finalità pubbliche.
passando all‟esame dei beni patrimoniali disponibili, c‟è da dire che l‟attributo di “pubblici”
serve, in realtà, solo ad indicare l‟appartenenza a soggetti pubblici in quanto, in realtà, il loro
regime giuridico è in linea di principio lo stesso dei beni privati. infatti, la loro individuazione
avviene mediante criterio di residualità: sono beni patrimoniali disponibili tutti i beni che non
sono né demaniali né patrimoniali indisponibili.
uso dei beni pubblici
le modalità di uso dei beni pubblici variano a seconda della funzione di cura in concreto
dell‟interesse pubblico che si stessi sono chiamati ad assolvere. tradizionalmente si distingue tra
uso diretto, uso promiscuo, uso generale e uso particolare: l‟uso diretto riguarda quei beni che
vengono utilizzati direttamente dalle organizzazioni pubbliche proprietarie per lo svolgimento
delle proprie attività (es. uffici); l‟uso promiscuo si caratterizza per la presenza, accanto all‟uso
diretto, di una funzione secondaria, consistente nel possibile utilizzo da parte di altri soggetti,
pubblici o privati; l‟uso generale si riferisce a quei beni che posseggono un‟immediata e
intrinseca vocazione alla cura in concreto dell’interesse pubblico e, per questo, il loro uso è
consentito a tutti i membri della collettività; in ultimo, l‟uso particolare, nel quale rientrano quei
beni che sarebbe in sé suscettibili di uso generale ma che, per la loro scarsità, vengono assegnati
tramite provvedimenti amministrativi concessori e a fronte della corresponsione di un canone, a
singoli soggetti privati.
vediamo dunque come il ruolo dell‟amministrazione cambi a seconda della ricorrenza dei vari
usi: nell‟uso diretto e promiscuo l‟amministrazione si occupa della gestione e utilizzo di beni di
sua proprietà, mentre nell‟uso generale e particolare si occupa di organizzare e regolare l‟uso di
beni di cui la collettività è beneficiaria.
diritti demaniali su beni altrui e usi civici
l‟art. 825 assoggetta allo stesso regime giuridico dei beni demaniali anche i diritti reali che
spettano allo stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti. in particolare
distinguiamo: diritti demaniali su beni altrui quando i diritti spettanti allo stato sono costituiti
per l’utilità dei beni demaniali; diritti di uso pubblico quando sono costituiti per il
conseguimento di fini di pubblico interesse.

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