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1.

Suoni e musica nell’età di Dante, Petrarca e Boccaccio

Nella Commedia di Dante la presenza del dato sonoro è integrata nella struttura dell’opera
nell’impianto allegorico, morale e spirituale. Ciò è chiaro sin dal silenzio pietrificato del poeta
all’inizio dell’opera. A contrastare il silenzio il risuonare interiore della sua disperazione. Tutti i
suoni nell’inferno sono fatti di pianti e sospiri. Gli strumenti si citano solo per paragoni grotteschi
(liuto accostato al ventre gonfio dell’Idropico). L’unico strumento che risuona è il corno di
Nembrot. Il silenzio della prima cantica è rotto dall’esclamazione “Miserere di me”. Canti come il
Miserere costituiscono il ricco repertorio della liturgia cristiana, intonati nelle diverse occasioni
dell’anno liturgico. La definizione della liturgia della Messa ha avuto cambiamenti importanti con
la riforma di Gregorio Magno e la riforma carolingia (VIII-IX sec.). Il canto è affidato alle scuole di
cantori e si tratta di un canto solistico e corale ma comunque all’unisono, eseguito in ritmo libero.
Il paesaggio della Commedia cambia una volta entrati in Purgatorio. Dante assiste all’arrivo delle
anime intente a cantare. Si tratta un canto ecclesiastico: “In exitu Israel de Aegypto”, dal libro dei
salmi, evoca la liberazione del popolo d’Israele dalla prigionia in Egitto. Tra le anime scese dalla
nave c’è quella di Casella che riconosce il poeta. La canzone da lui intonata è poesia di Dante,
prima canzone del Convivio, dove Dante trattò il rapporto fra parole e melodia così come nel De
vulgari eloquentia dove individua nella “canzone” il genere più elevato. All’epoca di Dante
abbiamo un’esaltazione della letterarietà della produzione poetica rispetto al ruolo del canto e
della musica, più presenti invece negli autori di Provenza, Francia, Penisola Iberica. Nel de vulgari
Danteprende i componimenti del trovatore Arnaut Daniel come esempio di un particolare modo di
comporre la melodia, che evita frasi melodiche e cesure all’interno della strofa. Dante la chiama
“oda continua” e dice di averla imitata egli stesso. Altra oda continua che Dante conosce è quella
di Bernart de Ventadorn. Nel cammino verso il Purgatorio, Dante si ferma nella valle dei principi, in
cui i sovrani sono raccolti in preghiera (Te Deum laudamus). Qui il canto si mescola al rugghiare
della Sacra porta, ma ciò non toglie valore all’esperienza estetica dell’ascolto. Prima dell’ultima
cantica abbiamo l’immagine dell’Eden in cui si registra una polifonia della natura a cui si aggiunge
la voce umana di Matelda. Infine si giunge al paradiso in cui si ascolta la musica mundana
(dell’universo), l’ordinato orbitare dei corpi celesti che si riteneva producessero suoni armoniosi.
In più luoghi dell’ultima cantica si è cercato di trovare riferimenti alla polifonia (canto a più voci),
ma qualora vi fossero realmente, si tratterebbe di forma polifonico molto semplici. Nella stessa
Firenze egli aveva potuto ascoltare forme semplici di polifonia, così come a Padova e Parigi anche
se non gli erano familiari le innovazioni sviluppate nel mondo intellettuale scientifico proprio della
capitale francese. Tra le discipline studiate nelle università dell’epoca c’era la teoria della musica
inquadrata nelle discipline del quadrivio: aritmetica, geometria, musica e astronomia. Nel contesto
carolingio si sarebbero redatti i primi libri musicali europei, libri di canti liturgici a uso delle
scholae. Anche i primi documenti di polifonia risalgono a quest’epoca. Teoria musicale e canto
liturgico sono trattati dagli autori carolingi in modi distinti: da un lato si descrivono i suoni
matematici differenziandoli con una lettera ciascuno e dall’altro le mobili intonazioni della pratica
canora, continue e non aritmetiche. Ma in alcuni testi dell’epoca compare l’idea di suono discreto,
come costituente minimo anche del canto, cui corrisponde una nota. Il monaco Guido d’Arezzo fu
il primo a divulgare metodi pratici per lo studio e la memorizzazione dei canti basati sulla teoria
musicale. La comparsa della prima notazione europea con segni relativi alla durata dei suoni si
collega alle composizioni polifoniche della Scuola della cattedrale di Notre-Dame risalenti al XII sec.
Si tratta di segni esprimenti valori lunghi e brevi: è l’inizio del mensuralismo. Inoltre a Notre-Dame
compare per la prima volta a polifonia a 4 voci. Durante il regno di Filippo Augusto (1180-1223) si
realizza la sua grande fioritura polifonica. Il repertorio si compone di canti liturgici così come di
canti originali che celebrano la monarchia. All’inzio del XIII sec ha inizio la composizione dei
mottetti, in cui le varie linee di canto intonano testi poetici diversi e originali. Dal 1215 ha inizio
l’attività dell’Università di Parigi e il ruolo della scuola di Notre-Dame viene meno. La tradizione
polifonica ne risente. Il mottetto diviene la modalità compositiva prediletta. Nelle trascrizioni del
repertorio di Notre-Dame si trova per la prima volta un sistema di notazione ritmica. Il ritmo si
riporta in termini di durate dei suoni, lunghe o brevi, rappresentate dia “modi” che si possono
paragonare ai piedi della metrica classica. Le lunghe possono corrispondere a 2 o 3 brevi. Si parlerà
di perfectio per la lunga corrispondente a 3 brevi, perfectio quando non raggiunge questo valore,
alteratio per la breve di valore doppio. Le sequenza cantate sono dette ordines e i simboli grafici
ligaturae. Solo a metà del XIII sec verranno introdotti anche segni per la semibreve. Con la nozione
di musica pratica introdotta da Tommaso d’Aquino si apre una spazio di riflessione sulle qualità
estetiche della musica. La bellezza attribuita all’ascolto di un canto diventa ora un criterio di valore
accettabile. All’inizio del XIV sec viene riconosciuta un ulteriore divisione delle durate: la minima,
cui si abbina un simbolo specifico. Si introduce anche il rosso rispetto al nero per indicare il
cambiamento da perfectio a imperfectio.
Philippe de Vitry nasce nel 1291 e ha messo in pratica l’uso della minima. Il Romanzo di Fauvel è
un poema narrativo allegorico in versi che fa satir del mondo contemporaneo. Fauvel è il nome del
cavallo protagonista e ne indica il colore del manto, ma gioca pure sull’affinità con il termine falso.
Philippe de Vitry è stato autore e curatore di poesia e intonazione di alcune composizioni. Il ricco
contenuto musicale rivela un’ambizione enciclopedica, accogliendo repertori diversi. Nell’indice si
distinguono chiaramente i mottetti dal resto del repertorio che non fa uso di polifonia. Motez sono
denomitate le liee principali del canto, tenures quelle che fanno da fondamento alla composizione
e treble è l’altra linea di canto. Ciascuna linea ha un proprio testo letterario che viene udito
contemporaneamente agli altri. Il romanzo è diviso in due libri. Il primo parla dell’ascesa al potere
del cavallo, assistito da Fortuna, e dalle lusighe dei potenti laici ed ecclesiastici. Fauvel domina un
mondo un mondo alla rovescia mentre la Francia è in schiavitù e si avvicin al’era dell’Anticristo di
cui è precursore. Il secono libro presenta Fauvel che chiede a fortuna di sposarlo ma viene rifiutato
e così prende in moglie Vanagloria. Dalla loro unione nascono numerosi fauveux che contaminano
Francia e mondo. Una serie di mottetti del secondo libro sarebbe riconducibile a PDV e vale come
esempio di eccellente intreccio fra composizione lettararia e musicale. Al momento del rifiuto di
Fortuna abbiao il mottetto Heu Fortuna in cui Fauvel si parahona al biblico Aman il quale voleva
sterminare il popolo ebraico per le proprie ambizioni ma finì al patibolo. La figura di Aman rinvia
così ad un personaggio storico, Enguerran de Marigny, nobile di Rouen che giunse a governare
l’amministrazione del regno di Filippo IV per poi finire in disgrazia ed essere impiccato. Abbiamo
così nel romanzo un’intenzione critica verso la gestione del regno di Filippo IV. Altri due mottetti
seguono il primo, sempre rivolti ad Enguerran e composti da PDV. In entrambi i casi abbia o uno
dei primi esempi di composizione musicale che organizza durata e articolazione complessiva in
base e rigorose simmetrie matematiche, successivamente definiti come isoritmia. La notazine
usata nel romanzo di Fauvel è la stessa in tutte le composizioni, quindi anche rondò e ballate sono
notati mensuralmente. Tali varietà liriche sono oggi chiamate formes fixes. Già all’inizio della
tradizione cortese d’oil, fine XII sec, si riscontra una predilezione verso le forme danzanti, associate
ad ambientazioni poco elevate. Il genre della pastorella naravva solitamente l’incontro tra un
cavaliere e una pastora, con esiti diversi a seconda del caso. Le forme coreutiche nel corso del
trecento oltre ad un repertorio leggero, accolgono anche argomenti alti propri del grand chant
courtois. PDV negli anni venti si trova al servizio della corte francese come impiegato,
amministratore, diplomatico, vicino al duca Luigi di Borbone. La sua opera letteraria e musicale si
intreccia con la vita politica francese. Egli appare all’avanguardia nell’uso di isoritmia e hoquetus,
tecnica che genra un serrato intreccio poliritmico fra diverse linee di canto. Nella guerra dei cento
anni ricopre importanti ruoli nell’amministrazione regia.
Avignone, con la sua cappella musicale, ebbe un ruolo fondamentale negli sviluppi musicali
successivi. Con il trasferimento della sede papale nel 1309 ad Avignone si edifica sotto Benedetto
XII e Clemente VII il celebre palazzo dei papi con relativa cappella musicale specializzata. È questo
l’ambiente del Gloria, elaborazione polifonica a tre voci del canto della Messa, presenta nel codice
di Ivrea, composto da PDV e dedicato nella versione musicale a Clemente così come potrebbe
esserlo stato il Kyrie che insieme al Gloria sono canti fissi della liturgia della messa, così come
Credo Sanctus, Agnus Dei. Fanno tutti parte dell’ordinario. Ad inaugurare la Messa come genere di
composizione musicale è Guillaume de Machaut. Nativo dello Champagne entra a servizio del re di
Boemia Giovanni di Lussemburgo nel 1323. Negli anni cinquanta fa parte della cerchia del re di
Navarra Carlo II e dopo l’arresto di quest’ultimo si avvicina alla dinastia di Francia. Fu ecclesiastico
presso la cattedrale di Reims. Nel suo repertorio musicale applica innovative forme di polifonia
misurata. Mentre in PDV si sottolinea soprattutto l’aspetto intellettuale delle sue opere, in
Guillaume risalto l’aspetto estetico. Intorno al 1350 sappiamo di una corrispondenza fra PDV e
Petrarca. Si sancisce la distanza fra i due, il primo legato ad una cultura scientifica mentre il
secondo ad una umanistica. Petrarca risulta estraneo a polifonia e mensuralismo e in generale
nonostante i contatti con diversi musicisti non si esprime riguardo alla musica. Sembrerebbe che i
suio interessi musicali maturino nella prima parte della vita per poi spegnersi successivamente.
L’unico componimento di Petrarca conosciuto con intonazione polifonica trecentesca è il
madrigale “Non al suo amante più Diana piacque”, di cui compose l’intonazione Jacopo da
Bologna. Se Petrarca si dichiara distante dal mondo intellettuale francese, tesse invece le lodi della
corte napoletana di Roberto d’Angiò, a cui il poeta si rivolge affinché sia giudice della propria
incoronazione poetica in Campidoglio. Testimonianza dell’ambiente gioioso della Napoli di quel
periodo sono anche le opere giovanili di Boccaccio, che vi risiedette in un periodo particolarmente
prospero economicamente, anche se successivamente Boccaccio avrebbe cambiato idea su quel
mondo cortese e sulla stessa dinastia angioina. Lo si scopre nella novella del vecchio re Carlo
d’Angiò che si invaghisce di due quattordicenni, in cui la forza dell’amore deve fare i conti con virtù
più confacenti l’etica municipale della borghesia fiorentina. La cornice del Decameron descrive in
apertura le varie reazioni dei fiorentini alla peste. Alcuni restavano in casa, altri non si
preoccupavano e andavano in giro come se nulla fosse e altri ancora facevano una via di mezzo.
Quest’ultima era la via privilegiata di Boccaccio e dell’onesta brigata che lascai la città per cantare,
ballare e raccontare storie in un ambiente sereno. Fiammetta è la suonatrice di viola che
rappresenta l’ideale di temperanza. Alla fine della giornata quinta, la brigata canterà una ballata
sul potere dell’amore, così come in ognuna delle dieci giornate sono introdotte delle ballate, ma
purtroppo in nessuna di queste è nota l’intonazione musicale, semmai ve ne sia stata una.
Sarà l’influenza francese sull’Italia del tempo a suscitare la diffusione degli studi e dei repertori
mensurali nella penisola. Nel Trecento si riconosce una versione autonoma della teoria
mensuralista, l’ars nova italiana. Una prima generazione di compositori mensuralisti si ha nelle
corti del Nord. L’autore più rappresentativo è Jacopo da Bologna. Diverso è il caso di Firenze dove
non c’è corte. Polifonia e mensuralismo compaiono a opera di religiosi collegati a comunità
ecclesiastiche come Gherardello da Firenze e Lorenzo Masini. Tra i manoscritti di polifonia di
questo periodo, il più noto èil Codice Squarcialupi della biblioteca Medicea Laurenziana. Tra i
maggiori compositori del Manoscritto spicca Landini, il quale perse la vista per un vaiolo da
giovane. Il padre Jacopo era membro di una confraternita in cui si praticava il canto delle laude e si
insegnava canto e musica. Qui probabilmente il figlio ricevette un’educazione anche di tipo
musicale. Mise in musica sia versi di altri autori che suoi personali. La sua musica si sviluppa a
partire dalle formes fixes e sono usati raffinati artifici compositivi per sottolineare passaggi testuali
significativi. Le prime ballate italiane polifoniche sono probabilmente le sue. Si tratta del primo
vero compositore della storia italiana.
2. Musica e corti italiane nella prima età moderna

La musica è un valore aggiunto per costumi e cultura della corte. In quanto manifestazione del
potere, la corte è costituita da ambienti (palazzo urbano, villa suburbana) e collettività (cortigiani
accademici, artisti) deputati all’attuazione del potere principesco. Ambienti e persone sono
regolati da norme di etichetta, da gerarchie di valenza socio-politica e rispecchianti l’autorità del
signore stesso. La corte che include l’intrattenimento musicale dà di sé un’immagine di benessere
e prosperità. La musica come sfondo di novelle e cornice di conviti è topos letterario. Si ricorre per
far questo a musicisti professionisti e il compositore viene importato solitamente dal Nord Europa.
Già nel XII sec la musica era prevalentemente praticata da trovatori provenzali nelle corti italiane.
Nel Quattrocento si importano altri musicisti dal Nord Europa che il signore remunera con beni
materiali e rendite stabili derivanti da benefici ecclesiastici. Ad essi si affida il compito di comporre
brani celebrativi. Anche la musica si usa per esaltare la figura del signore con canti che
solennizzano eventi di natura dinastica. Abbiamo in questo periodo diverse composizioni del
borgognone Guillaume Dufay. Ne 1476, uno scritto di Tinctoris, musicista e teorico, offre una
panoramica sulle pratiche musicali del tempo: i principi erano impegnati ad istituire cappelle
musicali, con l’intento di mettere il professionismo musicale al servizio dell’immagine e del ruolo
politico del signore. L’istituzione di cappelle avviene in Francia già un secolo prima, come quella di
Carlo V di Francia o quella avignonese di Clemente VII. Il prestigio e l’importanza di una corte si
misurava anche in base alla qualità della cappella musiclae. In Italia le cappelle musicali furoni
istutuite in primis dagli Este a Ferrara, gli aragonesi a Napoli e gli Sforza a Milano. Leonello d’Este
dota la propria cappela di un gruppo di cantori, mentre il successore Borso favorì maggiormente
gli strumentisti come Pietrobono dal Chitarrino. I signori delle corti fanno a gara nel procacciarsi
musicisti di valore sia in Italia che all’estero. I repertori erano strettamente connessi alla persona
del sovrano. Quando Federico di Montefeltro venne fatto duca di Urbino, diede avvio ad una serie
di iniziative iconografiche nel suo palazzo, fra cui la realizzazione di un’allegoria della musica che
culmina nell’identificazione di Federico col perfetto musico. Con Guidubaldo, Csastiglione sente il
coretgiano, modella di etichetta e comportamento in cui la figura del gentiluomo è elegante, colto,
dazatore e cantore/strumentista. Isabella d’Este fu ispiratrice e poi lettrice del cortegiano.
Divenuta moglie di Francesco Gonzaga, trapiantò a Mantova le sue tradizioni musicali. Si circondò
di musicisti e ne indirizzò il lavoro secondo i propri gusti. Fu pioniera della rinascita polifonica in
Italia. La rivoluzione culturale indotta dall’invenzione della stampa coinvolse anche la musica.
Ottaviano Petrucci da Fossombrone nel 1501 mise appunto nella sua bottega uno specifico sistema
di stampa per la musica e produsse il primo di musica stampata, contenente composizioni profane
su testi francesi e latini e i più importanti polifonisti del momento. Il sistema di stampa prevedeva
l’impressione a torchio sul medesimo foglio, in tre diverse fasi, del rigo musicale, delle note sul
rigo e del testo sotto le note. In un primo momento i testi stampati emulavano la qualità grafica
dei manoscritti, ma negli anni Venti Petrucci sostituì quella tipologia con fascicoli individuali per
ciascuna delle parti coinvolte della polifonia. Questo manufatto era inferiore sul piano estetico
rispetto al primo ma di maggiore rapidità di realizzazione. Il mercato cui si indirizzavano i prodotti
degli stampatori era costituito da musica vocale sacra, musica profana e musica strumentale.
Quella sacra era indirizzata alle istituzioni ecclesiastiche, quella profana era richiesta da elites
nobiliari, aristocratiche. Quella strumentale era rivolta al dilettante. La polifonia profana è la più
cospicua e il madrigale ne è un emblema. Si tratta di una composizione a quattro-sei voci in lingua
italiana. La data di nascita è il 1530, anno di stampa del primo libro di musica che riportasse il
termine madrigale e la sua diffusione è dovuta al petrarchismo. Musicare Petrarca significa
interpretare nuovamente il testo poetico. Il madrigale si è sviluppato stilisticamente ed
esteticamente. Nel 1530 è monopolizzato da musicisti francesi o fiamminghi. L’esame di un
madrigale deve partire sempre dal testo letterario che precede l’intonazione.
1. Arcadelt – il bianco e il dolce cigno – a quattro voci. Arcadelt si formò in Francia e divenne
cantore della cappella Sistina. Il suo è un madrigale libero (libera alternanza di settenari e
endecasillabi). Il testo espone il tema erotico della morte per amore. Qui la morte è
metafora del raggiungimento dell’orgasmo. Il musicista all’epoca di Arcadelt ha lo scopo di
rivestire il testo poetico con una piacevole melodia, esercitando la porpria libertà creativa
nella scelta dei soggetti e nella dispositio di timbri e agogiche nella sottolineatura di singoli
elementi del discorso poetico.
2. Cipriano De Rore – Ancor che col partire – quattro voci. Anch’egli fiammingo, iniziò a
pubblicare i propri madrigali nel 1542, servì gli Este E I Farnese e operò a Venezia. Fu il più
apprezzato madrigalista della sua generazione e fu indicato da Monteverdi come
l’inventore della seconda pratica, cioè in grado non solo di ornare un testo poetico ma
anche rimarcare le implicazioni espressive. Nel madrigale la venatura erotica è più sfumata,
giocando sul contrasto fra dolore della partenza e piacere del ritorno, che Rore sottolinea
musicalmente con contrasti relativi all’ambito timbrico, facendo ad esempio duettare voci
acute e gravi.
3. Adrian Willaert – Amor, fortuna e la mia mente schiva – quattro voci. Tratto dalla musica
Nova, una delle più prestigiose composizioni musicali del Cinquecento. Il madrigale è in due
parti, la prima la fronte del sonetto, la seconda la sirma. Questa suddivisione porta nella
prima parte il discorso musicale verso l’ambito della Dominante e un percorso inverso nella
seconda parte. Il sonetto petrarchesco in in questione appartiene alle rime in vita di Laura
e presenta una malinconia per la sua assenza. Questa melanconia è corrisposta con una
tessitura musicale sobria ed elegante.
4. Cipriano De Rore – Mia benigna fortuna e ‘l viver lieto – quattro voci. Qui di Petrarca si
sceglie una sestina di soli endecasillabi. Rore però sceglie solo le prime due stanza e ne fa
un madrigale in due parti. Qui l’intonazione di Rore è altamente espressiva e in sintonia
con la crudezza emotiva del tema trattato. L’amarezza e il dolore per la morte di Laura
emergono dal testo. Rore organizza il percorso sonoro partendo nella prima parte
dall’armonia di Tonica (Re) verso il quarto grado (Sol) e nella seconda fa il percorso inverso
con finale con terza maggiore (FA#). Ciò che interessa al musicista è la densità emotiva
della terza stanza.
5. Luca Marenzio – Tirsi morir volea – cinque voci. Marenzio è il capofila degli innovativi
madrigalisti di fine Cinquecento. Da ora in poi al madrigalista viene commissionata
l’intonazione di testi recenti o nuovi. Autore del testo in questione e Guarini, poeta di corte
a Ferarara presso Alfonso d’Este. il testo è una madrigalessa (lungo madrigale polimetro) e
vede coinvolti un pastore (Tirsi) e la sua ninfa. Qui la narrazione è esplicita. La ninfa chiede
all’amante di non morire fino a che anch’ella non abbia raggunto l’acme del piacere
sessuale. Marenzio spezza il testo in tre tronconi, dando già così una propria lettura
drammatica dell’incontro. La seconda parte è quella eroticamente più densa, con
l’intonazione musicale che conferisce all’amplesso un realismo che da solo il testo non
avrebbe trasmesso. La terza parte torna ad uno stile madrigalistico più convenzionale.
6. Jacques de Wert – giunto a La tombaa – cinque voci. De Wert originario delle fiandre,fu in
Italia sin da giovanissimo, fu al servizio dei Gonzaga ed ebbe strette relazioni con Ferrara,
razie alle quali fu in contatto con Tasso. Quest’ultimo insieme a GUarini domina la scena
letteraria di fine Cinquecento. Le due ottave in questione sono un esempio delle scelte
tassesche di Wert. Narrano la visita fatta da Tancredi alla tomba di Clorinda, uccisa da lui
stesso in combattimento senza spere chi si celasse sotto le spoglie del suo avversario. Le
due ottave forniscono a Wert materia per due madrigali. Le voci intonano il testo in
simultanea omofonia e il musicista interpreta il testo traducendo la declamazione letteraria
in una più espressiva declamazione musicale. Wert ha presente le peculiarità esecutive dei
cantori della corte estense e in particolare delle dame che condizionarono la composizione
madrigalistica deli anni Ottanta, determinando scelte di virtuosismo canoro soprattutto dei
registri acuti.
7. Claudio Monteverdi – Sì ch’io vorrei morire – cinque voci. Monteverdi rappresenta l’apice
artistico della cultura madrigalistica della prima età moderna e l’autore che rappresenta il
passaggio dall’età della polifonia a quella della monodia accompagnata dal basso continuo,
l’opera in musica. Fu attivo alla corte dei Gonzaga e maestro alla cappella di San Marco a
Venezia. Il madrigale in questione è un esempio del suo avanzato stile. Il testo, un
madrigale libero, è di Moro, un verseggiatore per diletto sollecitato dal petrarchismo.
L’erotismo viene sottolineato da chiare scelte lessicali, mentre il morire, l’acme di quella
fisicità, resta metaforico. La musica è caratterizzata da un continuo sali-scendi dai registri
acuti ai gravi. Le voci si inseguono mimando il gioco erotico dell’amante che sollecita
l’amata a infliggergli le desiderate sofferenze. Il massimo esempio di audacia e libertà è
dato con la terza ripetizione del v.8 in cui compare il basso continuo sotto le due voci
acute. Il v.9 ripete poi l’incipit con enfatica risalita di tutte le voci, conferendo al brano
compiutezza e circolarità inedita per il genere. La polifonia sta qui toccando i limiti estremi
delle proprie potenzialità.
8. Carlo Gesualdo – Moro lasso, al mio duolo – cinque voci. Fu un nobile dilettante di musica
che fece pubblicare comunque i propri lavori dietro anonimato imposto dalla loro
condizione di aristocratici. La qualità della sua musica è dovuta allo studio e alla pratica
presso una compagine di professionisti ed egli appare sperimentale nella ricerca armonica.
Il testo è un brevissimo madrigale libero sul solito tema dell’amore che può dar sia vita che
morte. La brevità favorisce l’espansione dell’invenzione musicale in termini di ricchezza
armonica, ricerca timbrica. La vita contrapposta alla morte, comporta un contrasto
timbrico: dai registri gravi agli acuti con l’entrata del canto.
Da quando a Ferrara, nel Quattrocento, inserti musicali vennero impiegati durante spettacoli
classicheggianti alla corte di Ercole I d’Este, la musica divenne sempre complemento di esecuzioni
teatrali. Fu usata inizialmente per solennizzare eventi di natura dinastica. “Fra li acti” è
l’espressione che segnala luogo e momento della rappresentazione in cui si colloca la musica. Si
tratta dello spazio degli intermedi. Nella produzione di tali rappresentazioni primeggiano i Medici
di Firenze. Nel 1539 si celebrano le nozze fra Cosimo I de’ Medici ed Eleonora di Toledo. Vi furono
per l’occasione spettacoli teatrali con fastosi intermedi allegorici e celebrativi. Furono stampate le
musiche, prima volta per questo genere di spettacoli. La musica degli intermedi rientra nella
produzione madrigalistica. Il pezzo più impressionante fu il madrigale “O fortunato giorno”, parole
di Rinuccini e musica di Malvezzi, brano per trenta voci raddoppiate, divise in sette cori e
accompagnato da un assieme strumentale. Accanto a questo esempio di polifonia furono
presentati anche composizioni monodiche con l’accompagnamento del basso continuo,
quest’ultima tipologia già saggiata da Monteverdi, che dopo un ventennio dedicato alla
composizione madrigalistica, sperimentò l’opera. Un posto particolare occupa il “Combattimento
fra Tancredi e Clorinda” in cui l’autore esplora la contrapposizione e il rispecchiamento fra amore
e guerra. Qui abbiamo il noto episodio tratto dalla “Gerusalemme liberata” di Tasso in cui
Tancredi, campione dell’esercito cristiano, uccide l’amata Clorinda, campione di quello
musulmano, perché incapace di riconoscerla in abiti soldateschi. La riflessione su questi tempi
porta all’esplorazione di nuove risorse stilistiche. Egli attua uno stile concitato ricorrendo alla
divisione della semibreve in sedici semicrome, una sorta di tremolio musicale. Nell’ottava in cui
Tasso riflette sul paradossale scontro dei due guerrieri, Monteverdi concede all’esecutore di
lasciarsi andare all’improvvisazione canora. Agli esecutori impersonanti Clorinda e Tancredi è
richiesta principalmente una rappresentazione mimica di ciò che il narratore espone, al narratore
una pronuncia chiara e ritmicamente precisa. Gli strumenti descrivono musicalmente gli eventi.

3. Il teatro in musica del Seicento

Esistono due principali fasi di sviluppo del teatro in musica. A) una fase aulica e mecenatesca,
caratterizzata da sperimentazione e contiguità tra progetto festivo e spettacolo musicale; B) una
fase veneziana corrispondente all’apertura dei teatri pubblici a pagamento. Le diverse modalità
produttive danno vita a due tipologie spettacolari: l’opera di corte e l’opera impresariale. Le
accademie sono un altro polo di diffusione di progetti culturali oltre a mecenati e impresari. In
questo secolo si assorbono anche tecniche e moduli della commedia dell’arte e della commedia
aurea spagnola. All’inizio del Seicento compare in Italia un nuovo genere drammatico, che stupisce
i contemporanei: l’eloquio interamente cantato. Anche l’opera compare in modo improvviso, in
seguito all’affermazione nel Cinquecento della monodia accompagnata dal canto espressivo e dalla
pratica teatrale che faceva largo uso di musica in scena. Musiche e canti si trovavano in momenti
specifici di tragedie o commedie in cui una o più persone cantavano e ovviamente negli intermedi.
Un genere che si afferma è la tragicommedia pastorale, perché più leggera. Il teatro mira ora al
diletto del pubblico. Due elementi sono rilevanti per la nascita del genere operistico: la forte
attorialità e l’ampio uso di monologhi, alternando repentinamente stati d’animo contrastanti. La
nascita del nuovo genere avviene a Firenze, città con un gran numero di accademie e circoli
intellettuali. Nel panorama fiorentino ricordiamo Jacopo Corsi, ricco aristocratico che raccoglie
intorno a sé diversi artisti fra cui Marino, Monteverdi, Rinuccini. Nel 1600 si festeggiano le nozze di
Maria de’ Medici e il re di Francia Enrico IV. Per questa occasione abbiamo la prima opera in
musica, l’Euridice di Rinuccini e Peri. La notorietà delle prime opere è raggiunta tramite la stampa
e mediante la presenza di invitati provenienti da diverse corti italiane e straniere. La drammaturgia
operistica delle origini predilige trame incentrate su argomenti pastorali e mitologici. La fuga dalla
realtà assicurata da questi soggetti permette all’autore di giustificare la presenza del canto
continuato e della musica in scena. Si scelgono poi azioni il più possibili lineari, l’azione si svolge
nell’arco di 12-24 ore. Le prime opere hanno un prologo cantato da un personaggio allegorico e i
monologhi, utilizzati per raccontare eventi complessi, prevalgono sui dialoghi e mettono in luce le
abilità dell’interprete. Ricorre sempre il lieto fine. Importante è la scelta della scrittura in versi
piuttosto che in prosa. La regolarità del verso con definiti schemi metrici e sistemi di accenti, si
presta meglio al linguaggio musicale. La comunicazione ordinaria avviene per mezzo di
endecasillabi e settenari sciolti, mentre nei luoghi deputati al canto si usano i versi misurati (in
strofe, con sistema fisso di rime) che possono avvalersi anche di ottonario, senario o quinario. Sul
piano vocale esiste dunque un duplice stile:
1. Stile recitativo, che tende a rimanere più aderente all’enunciato poetico. È importante che
in questo caso lo spettatore comprenda bene parole, sintassi e concetti espressi dal testo.
La scansione ritmica è irregolare e sottolinea le sillabe toniche della parola e del verso. Il
basso continuo è poco mobile. Il recitativo può imitare il parlare ordinario o esprimere uno
stato d’animo.
2. Stile cantabile è organizzato in pezzi chiusi (arie o canzoni), modellato direttamente sui
valori della musica. È caratterizzato da un preciso profilo melodico, scansione ritmica
regolare, abbellimenti e colorature e un basso continuo più mosso.
Pur partendo da uno stesso sostrato, diverse erano le strategie compositive dei singoli autori come
merge dal confronto delle due opere più significative d’inizio secolo. L’Euridice di Rinuccini-Peri
andò in scena in una sala di Palazzo Pitti nel 1600 come omaggio privato di Corsi a Ferdinando I per
il matrimonio di sua nipote Maria de’ Medici con Enrico IV re di Francia. Il contesto cerimoniale
spiega alcune scelte compositive, come il lieto fine antitetico rispetto all’originale mito greco
(secondo il quale Orfeo, persa Euridice, ripudia l’amore provocando la reazione delle Baccanti che
lo fanno a pezzi. Qui invece si celebra il ritorno dei due sposi (la missione di Orfeo nell’Ade va a
buon fine) con pastori e ninfe che inneggiano al potere dell’amore. La struttura portante
dell’opera è affidata allo stile recitativo, che però è flessibile e quindi non monotono. Sono poi
presenti una serie di pezzi chiusi inframezzati in circa un’ora e mezzo di musica. L’intero assetto
drammatico risente comunque della tradizione del teatro di parola. L’opera sarebbe la
celebrazione di Corsi/Orfeo, il quale adopera la parola e il canto per convincere il tiranno
Ferdinando/Plutone a liberare Firenze/Euridice dal giogo cattolico e spagnola, ridandole nuova
vita. La configurazione dell’opera era nota a Striggio e Monteverdi quando composero l’Orfeo,
rappresentata nel 1607 nel palazzo ducale di Mantova. Fu destinata ad una ristretta cerchia di
intellettuali. Quest’opera presenta una patina tragica che la distanzia dall’Euridice. Emerge con
chiarezza già dal prologo allegorico in cui si sottolinea il potere della musica di muovere l’animo
umano e allo stesso tempo sul suo potere catartico. Il prologo è accompagnato da un ritornello a
cinque parti affidato agli archi, eseguito prima e dopo il brano e tra le strofe, quindi ben
memorizzato dagli spettatori. Il testo ha un taglio più drammatico e lirico rispetto all’Euridice, si
riducono monologhi narrativi per la maggior presenza di situazioni agite. Maggiore è lo spazio
riservato alla musica. Monteverdi usa più pezzi chiusi, principalmente canto realistico. Ad essi
aggiunge anche numerosi brani strumentali. Il loro inserimento risponde a motivi scenici, così
come voci e timbri sono al servizio della situazione drammatica. Un’altra caratteristica è il disegno
simmetrico della struttura drammatico-musicale. L’azione è suddivisa in due sequenze principali:
fase campestre e fase infernale, che presentano al loro interno lo stesso passaggio da una
situazione stabile a un evento catastrofico. Nella fase conclusiva si rovescia tale schema,
presentando ora una situazione iniziale d’infelicità seguita dal lieto fine. Anche i brani sono
disposti simmetricamente. L’Orfeo si configura come un viaggio all’interno della psiche e come
percorso di purificazione. A Roma nel Seicento si ebbe una svolta con l’elezione del papa Barberini,
che insieme ai due nipoti cardinali promuove memorabili spettacoli musicali, scritti tutti da
Rospigliosi. Le opere dei Barberini impiegano i maggiori musicisti del tempo, la produzione è
compatta per via della presenza di un solo compositore. Si predilige il racconto della storia dei
santi e la letteratura epica moderna. Si abbandona il tono della pastorale inserendo personaggi
comici e di basso rango. Acquista più spessore l’intreccio e si dà risalto all’elemento visivo. In
questo periodo prosperano il teatro delle accademie che diffondono le opere di comici e dilettanti.
Un ambito importante, legato all’origine fiorentina della famiglia Barberini, è quello del teatro
sacro fiorentino. Il teatro di Cicognini è incentrato proprio sul tema biblico che serve da cornice a
un tessuto drammatico intricato che non esita ad impiegare elementi tipici della commedia.
Tramite la figura di Cicognini si stabilisce un legame tra accademie fiorentine e romane. Infatti
oltre alle rappresentazioni a Firenze, soggiorna anche a Roma dove insegna recitazione e
rappresenta i suoi spettacoli. Un sottogenere che si afferma in questo periodo è la ridicolosa,
commedia praticata per puro svago. Si coniuga l’ossatura della commedia regolare cinquecentesca
con le maschere e dialetti del teatro dell’arte. Un altro tipo di teatro connesso all’ambito romano è
quello sacro di seminari e collegi gesuitici. Rospigliosi si formò nel seminario romano, dove
insegnava Galluzzi il quale opera una rilettura critica della poetica di Aristotele. Per Galluzzi, a
differenza di Aristotele, lo spettacolo è uno strumento di persuasione religiosa e politica. Ad
influenzare le opere di Rospigliosi ha certamente contribuito la comedia de santos, affermatasi in
Spagna e fra i cui autori spicca di il nome di Lope de Vega. Opere come il Sant’Alessio, Teodora,
San Bonifazio sono esemplificative dello stile di Rospigliosi. Presentano tutte un’architettura
rigorosa, con perni fissi costituititi dalla tappe della vita del santo.
1. Fase espositiva in cui il santo rinuncia ai beni terreni, bilanciata dalla sequenza che enunci il
punto di vista del demonio, antagonista principale.
2. Fase centrale in cui il demonio ordisce uno o più inganni e anche qui simmetricamente
arriva l’angelo in soccorso del santo predicendogli una morte gloriosa.
3. Scioglimento in cui un nunzio annuncia la morte del santo e le modalità con cui è avvenuta.
I pezzi chiusi sono i più convenzionali, che rendono i personaggi simili a maschere. I soliloqui dei
personaggi producono una sospensione temporanea dell’azione, in cui l’interprete mette in
evidenza le abilità canore. Questi moduli di base si ritrovano spostati e ricombinati nelle diverse
opere. Con il passare degli anni si introducono delle modifiche. Nella Teodora i santi diventano
due, con più personaggi a circondarli; maggiori effetti spettacolari; ispessimento dell’intrigo con
una duplice linea d’azione, una derivata dalle fonti agiografiche e l’altra inventata. Nel san
Bonifazio i santi diventano tre, si inseriscono personaggi comici che danno vita a un mini intrigo
secondario.
Grazie ai drammi di Rospigliosi lo spirito della commedia può entrare nel teatro in musica.
Lo spettacolo operistico romano si diffonde presto grazie alle compagnie di musicisti girovaghi che
mettono in vendita i propri spettacoli presso gli spazi teatrali che prima appartenevano alla
commedia dell’arte. A Venezia già dal Cinquecento il teatro parlato godeva di vantaggi, per la
presenza di famiglie facoltose disposte ad investirvi, per l’afflusso durante il carnevale di molti
forestieri e per l’assenza di una tassazione. L’opera a pagamento si diffuse rapidamente. Il mercato
impresariale veneziano trasforma il prodotto di principi e cardinali in uno spettacolo vendibile al
vasto pubblico. Nell’impresa operistica veneziano troviamo i proprietari dei teatri che li danno in
gestione ad un impresario che gestisce l’impresa teatrale per una o più stagioni investendo il
proprio denaro per ricavarne degli utili. Troviamo poi gli artisti che possono anche intervenire
finanziariamente nell’impresa (ma diventano ben presto semplici professionisti ingaggiati su base
contrattuale). Infine c’è il librettista, che pubblica il testo a sue spese ricavandone direttamente
degli utili dalla vendita. S’istituiscono le stagioni teatrali e il repertorio viene costantemente
aggiornato per riportare il pubblico a teatro. Come temi si introducono quelli mutuati dall’epica
classica e altri derivati dalla storia romana. Come riferimento sono presi la commedia dell’arte e la
commedia aurea spagnola. Si impone una drammaturgia con una serie di convenzioni fisse:
1. Dramma in tre atti con prologo iniziale e inserimento di balli alla fine dei primi due atti.
2. Frequenti cambiamenti di scena.
3. Fabula con sistema fisso di ruoli (doppia coppia di innamorati, di rango elevato, circondati
da parti comiche di basso rango.
4. Svolgimento dell’azione organizzati in blocchi di scene (d’amore, del lamento, della follia)
A Roma l’inserimento di personaggi bassi non va mai ad intaccare l’integrità morale di quelli alti,
mentre a Venezia, la finalità puramente ricreativa, porta ad un clima di trasgressione che si riflette
sui personaggi. Esiste poi una differenza a Venezia fra accademici o semplici professionisti del
teatro. Fra i primi un certo numero è affiliato all’accademia dei Incogniti che allargò i temi
operistici a temi politici e patriottici. Si celebra Venezia come reincarnazione della repubblica
romana. Avviò poi una riflessione sui problemi letterari e drammaturgici posti da questo nuovo
genere. si afferma la necessità di superare i precetti aristotelici per venire incontro alle esigenze
degli spettatori. L’industria veneziana favorisce anche la figura del librettista fra cui ricordiamo
Ferrari e Faustini. Quest’ultimo a differenza degli accademici che tendevano a manipolare il
messaggio operistico in chiave politica, è più interessato al semplice gioco delle coppie. Si può
avere un’idea della complessa strategia compositiva dell’epoca attraverso l’analisi di uno dei
drammi più fortunati del tempo: il Giasone di Cicognini e Cavalli. Sono numerose le licenze e
infrazioni inserite dall’autore rispetto alle fonti antiche. Giasone è per esempio un eroe
effeminato, assorto in vicende amorose. Anche Medea viene descritta come una donna che si dà a
Giasone in incognito per un anno. La fabula è incentrata sulla doppia coppia di innamorati Egeo-
Medea e Giasone-Isifile. Giasone amato da Isifile, ama Medea che è amata da Egeo. Lo squilibrio
dà origine all’azione che porterà ad un equilibrio finale. La presenza di personaggi di basso rango
permette l’introduzione di arie e pezzi chiusi e contribuisce al repentino cambio di registro del
dramma. L’azione è frammentaria anche in funzione dell’asseto musicale. Da un punto di vista
della versificazione troviamo sia versi sciolti che misurati, i primi destinati al recitativo e i secondi
alle arie. Il recitativo è la struttura portante mentre le arie sono usate per situazioni particolari, il
cui stile è condizionato dalla caratterizzazione dei personaggi e della situazione. Ci sono alcune
convenzioni: il duetto d’amore, in metro ternario, è accompagnato da archi ed espande il testo con
ripetizioni e ed estensioni melismatiche; la scena lamento può essere un unico recitativo con
contrasti di melodia e armonia a seconda dello stato d’animo dei personaggi, oppure può
contenere una sezione in recitativo seguita o preceduta da una forma chiusa; la scena comica è
suddivisa in sezione recitativo e forma strofica. Monteverdi arriva al teatro impresariale
ultrasettantenne. Si è dimostrato molto esigente in fatto di testi da musicare. Quando trova quelli
adeguati li ritocca sempre. Cavalli è il compositore che meglio rappresenta il linguaggio di questo
periodo, ma delle sue opere non si è conservata sufficiente documentazione. Le partiture nel
sistema impresariale non giungevano mai alle stampe e quelle conservate contengono molte
manomissioni eseguite dallo stesso compositore. Il teatro in musica si diffonde anche nelle piccole
città e nei maggiori centri del Nord - Europa. A Parigi Mazzarino, primo ministro del regno, tenta di
italianizzare la cultura della corte. La finta pazza di Strozzi e Sacrati fu la prima opera italiana
importata in Francia ma ebbe un’accoglienza tiepida, l’opera italiana non riesce ad attecchire in
Francia perché l’orgoglio nazionale in quel periodo stava dilagando e perché l’apprezzata estetica
razionalistica di Corneille e Racine andava in contrasto con i complessi intrighi delle opere italiane.
Jean - Baptiste Lully (fiorentino di nascita) intuisce quale strada seguire per creare una nuova
opera nazionale. Unisce insieme generi come la tragedia recitata, il ballet de cour, l’opera italiana
che convergono tutti verso la glorificazione della monarchi di Luigi XIV.
Nell’opera veneziana sul fine del secolo avvengono dei cambiamenti. L’intrigo generato dalla
doppia coppia di innamorati si inserisce in un intreccio più ampio di natura politica, come è
evidente nell’opera Giulio Cesare in Egitto di Bussani e Sartorio. La trama è incentrata sulla rivalità
fra Tolomeo e Cleopatra per la conquista del trono egizio. Entrambi desiderano ingraziarsi Cesare
per i loro scopi, il primo offrendogli la testa del nemico Pompeo, la seconda seducendolo sotto
false sembianze. I quattro interpreti principali non si muovono più come coppie ma come singoli
che possono mettere in moto più linee d’azione. Di solito dei due uomini, uno è un tiranno che
mira al potere e l’altro è un innamorato soggiogato dai sentimenti. Le due donne invece sono una
bella e virtuosa oggetto delle mire del tiranno e l’altra sempre seducente ma scaltra, mette in
moto l’azione. Si apre così un nuovo ventaglio di arie, con molteplici funzioni. Questo fa sì che per
non disturbare il rapido scorrimento drammatico si collochino all’inizio o alla fine di una scena. Per
attutire l’effetto di discontinuità si opta per un meccanismo di entrata e uscita dei personaggi che
consiste nel tenere sul palco uno o più personaggi nel passaggio da una scena all’altra. Sul piano
musicale lo spazio destinato al recitativo (che si riduce a declamato veloce) si restringe per far
spazio al maggior numero di arie. L’orchestra assume maggior peso si introduce la tromba nelle
arie guerriere. La scrittura vocale caratterizza meglio i personaggi. A fine secolo tramonta la moda
dei soggetti spagnoli e subentra quella del teatro francese (influenza del Re Sole in Europa). Nel
1690 nasce l’accademia dell’Arcadia, consesso di letterati che mira a regolarizzare poesia e teatro
dopo il disordine barocco. Si critica perciò l’opera in musica per via dei suoi intrecci.
4. Senza parole. Strumenti e musica strumentale dall’Italia all’Europa

La presenza della musica strumentale nella storia della prima età moderna è determina dal credito
che la cultura del tempo ha attribuito al fascino prodotto dall’esecuzione meccanica del virtuoso.
Si ricorda Francesco Landini, celebre organista, ammirato anche perché cieco. Anche Pietrobono
dal Chitarrino fu molto ammirato e conteso dalle corti italiane del 1400 come liutista. Nel Seicento
si impose il violino come strumento solistico principe e venne ammirato fra i violinisti Arcangelo
Corelli, anche apprezzato direttore d’orchestra. Stesso discorso di ammirazione non vi era nei
confronti dei cantori, la cui abilità canora risultava subordinata alla veicolazione del testo
letterario. Nel repertorio liutistico esistevano due generi: canzone e ricercata. La diminuzione
consente all’esecutore di esibire le proprie capacità virtuosistiche. A partire dal Cinquecento si
iniziano a diffondere manuali didattici per l’apprendimento del liuto, diffuso anche fra i non
professionisti. La musica per tastiera, a differenza di quella liutistica, vanta una radicata tradizione
anche fuori dall’Italia, dove si afferma Marcantonio Cavazzoni (1485-1569), che pubblica in Italia la
prima intavolatura d’organo. Egli esemplifica le caratteristiche stilistiche della musica per tastiera
europea fino all’epoca di Bach. Pezzi dal carattere improvvisativo e virtuosistici. I brani sembrano
destinati sia all’organo che al cembalo, ma quelli di natura ecclesiastica prediligono l’organo
mentre quelli profani, il cembalo. Nel regno di Napoli importanti istituzioni ecclesiastiche
favorirono sul finire del Cinquecento lo sviluppo di una florida stagione cembalo-organistica. Jean
de Macque, fiammingo, ebbe la possibilità di sperimentare nuove forme armoniche. Il culmine
dell’arte organistica italiana si registra in Frescobaldi, musicista dalla carriera irrequieta
(paragonato a Caravaggio). Nella Ferrara appena riacquistata dallo stato Pontificio, egli entra nella
grazia della famiglia dei Bentivoglio e del cardinale Aldobrandini. Opera anche a Firenze e a Roma
(a più riprese) dove cura l’edizione delle sue raccolte più celebri al servizio del cardinal Francesco
Barberini. Egli curò le proprie edizioni con cura maniacale, preferendo l’incisione xilografica su
rame. La sua professione gli dava comunque ottimi guadagni. Nasce così una figura più autorevole
e incisiva rispetto al passato, che si fonda su peculiarità performative e manuali piuttosto che
sull’idea del testo musicale come sarà invece più avanti.
Nella musica d’assieme manca invece l’individualismo dei personaggi citati fino ad ora. Questa
viene usata in ambiti cortesi e contesti cerimoniali. Vi è distinzione estetica e sociale negli
strumenti. Testiere e strumenti ad arco sono appropriati per un gentiluomo. Sono banditi quelli a
percussione o a fiato, soprattutto alle donne. La musica d’assieme nel Cinquecento tende ad avere
un proprio repertorio. Gruppi strumentali eseguono polifonia scritta in origine per le voci come
madrigali, mottetti e chansons francesi.
Brescia è patria di liutai e notevole fu il suo apporto alla stagione del violinismo italiano. Il violino
vanta duttilità timbrica ed esecutiva, tanto da renderlo vicino alla vocalità solistica. Nel 1617 Biagio
Marini associa il moderno violinismo, di cui egli era un esponente a Venezia, alle prerogative della
vocalità, pubblicando la raccolta Affetti musicali. In questo periodo si assiste ad un tipo di
composizione strumentale di episodi che mirano a sollecitare l’attenzione dello spettatore
mediante continua sorpresa. Con il tempo subentrano sempre di più strategie compositive che
mirano a sollecitare la memoria dell’ascoltatore. Legrenzi, bergamasco, pubblicò un libro in cui si
espongono le caratteristiche del suo linguaggio musicale.
Dopo il predominio lombardo-veneto emergono Bologna e Roma come centri di produzione.
Bologna contese il primato nella Stampa musicale a Venezia. A Roma la musica strumentale
violinistica e le iniziative editoriali sono legate alla committenza della regina Cristina di Svezia che
scelse Roma come residenza dopo la rinuncia al trono di Svezia. Arcangelo Corelli, originario della
Romagna, percorre a Roma dal 1671 una carriera musicale prestigiosa, fino a diventare il musicista
più rappresentativo della musica strumentale italiana e fu il primo strumentista ad essere
considerato degno dell’ingresso in Arcadia e raggiungere una condizione economica paragonabile
a quella di un gentiluomo di rango. L’ascesa della sua fama ha inizio nel 1681 con la pubblicazione
della sua opera I che fu la prima stampa musicale alla quale la regina abbia concesso il proprio
patrocino. Fu un notevole successo editoriale. A questa pubblicazione ne seguirono altre tre di
sonate a tre. Le composizioni nelle opere corelliane di numero dispari sono annoverate al genere
“sonata da chiesa” mentre quelle di numero pari alla “sonata da camera”. La musica strumentala a
quei tempi aveva acquisito un lessico e una grammatica tali da poter essere declinati in modi
diversi. Anche in Corelli ritroviamo il principio di scelte compositive e risorse tecniche contrastanti
(lento-veloce, mesto-allegro, forte-piano) che serviva a catturare l’attenzione del fruitore, con
l’aggiunta ora dell’alternanza stilistica fra musica ecclesiastica e da camera. Nella Sonata n. 3
dell’opera I abbiamo quattro movimenti, i primi due in tempo binario, i secondi due in tempo
ternario. Troviamo un Grave, seguito da un Allegro, poi Adagio e infine l’Allegro conclusivo. La
solidità della sonata è data dalle differenziazioni stilistiche dei quattro movimenti. L’ultimo
movimento in particolare è sviluppato in quattro configurazioni ritmiche in cui abbiamo un
processo contrappuntistico nelle enunciazioni di soggetto e risposta. Alle quattro sonate a tre
seguono quelle a violino solo e l’opera di concerti grossi. La prima rappresenta il culmine dell’arte
violinistica di Corelli e contiene dodici sonate sia nello stile da chiesa che da camera. L’ultima
opera, i dodici concerti, lo vede imporsi anche come direttore di numerose orchestre, collocandosi
così ai primordi della storia della direzione d’orchestra. Anche il concerto avviene per contrasti fra
pochi e molti ma anche fra forte-piano, lento-veloce, acuto-grave. Questa architettura della
musica di Corelli permise alla musica strumentale di essere decifrata a compreso dall’ascoltatore e
e di conseguenza di essere avvicinata alle altre arti razionali.
Per certi versi la Germania ha un assetto territoriale simile all’Italia, divisa da regioni politicamente
e dinasticamente indipendenti e da metà Cinquecento anche religiosamente divise (cattoliche,
luterane). L’influenza italiana fu più forte nelle regioni cattoliche del sud, piuttosto che al nord che
invece fu forte l’influsso francese e in particolare della corte di Versailles. Il frazionamento
territoriale favorì la creazione di cappelle musicali rispondenti a diverse esigenze (corte,
intrattenimento privato, religiose). Crebbe così la domanda di professionismo musicale. Furono
numerosi i musicisti italiani attivi in Germania, così come quelli tedeschi inviati in Italia ad
assimilare la musica italiana. Fra gli esportatori ricordiamo Padovano, Marini, Farina e fra gli
importatori Froberger. Fra i maggiori responsabili dell’italianizzazione della musica germanica fu il
veneziano Vivaldi. Insegnò prima violino alle putte dell’ospedale della pietà di Venezia, tentò la
strada del compositore d’opera e dell’impresario, attività che gli causò perdite finanziarie che
tentò di recuperare componendo musica soprattutto di concerti che vendeva a turisti o musicisti di
passaggio a Venezia. Non ottenne mai impieghi stabili e non raggiunse fama internazionale e morì
a Vienna dove si era recato sperando di ottenere l’appoggio dell’imperatore Carlo VI. Vivaldi come
compositore di musica strumentale non ha inventato nulla. Il suo concerto è in soli tre movimenti:
veloce-lento-veloce. Raramente usa fugato o contrappunto. Già questo lo differenzia da Corelli.
L’incipit è quasi sempre anche l’explicit del movimento. Il movimento centrale è il più semplice,
mentre quello finale ternario è più spigliato e complesso di quello iniziale binario. L’Estro armonico
f una delle pubblicazioni più influenti del Settecento. La struttura semplice delle sue composizioni
permise a Vivaldi di produrre grosse quantità di concerti e gli permetteva di smerciarli più
facilmente in forma manoscritta. Molti dei titoli dei suoi concerti sono descrittivi (concerti delle
stagioni, il cardellino, la notte, la caccia) e oltre ad avere richiamo commerciale indicano che
Vivaldi credeva che la musica potesse rappresentare realtà extramusicali, associando nelle sue
composizioni i fenomeni sonori con quelli atmosferici e ambientali. I suoi concerti vennero
stampati ad Amsterdam dagli editori La Cène, i quali con una moderna tecnica di incisione su lastra
di rame garantivano maggiore esattezza e leggibilità, sottraendo mercato ai veneziani. Lo scarso
guadagno che gli veniva dall’affidarsi all’imprenditoria della stampa lo convinse a proseguire
personalmente la vendita.
Johann Sebastian Bach, sommo esponente della musica tedesca, ha avuto un ruolo fondamentale
nel fondere insieme alcuni tratti dello stile tedesco e italiano per creare un distinto stile tedesco.
Era figlio e nipote di musicisti, si formò quindi in famiglia e si perfezionò come organista e violinista
nella Germania del nord, dove prevaleva il gusto per lo stile francese. Ebbe i suoi primi incarichi
come organista. Da qui la sua produzione tastieristica giovanile in cui emergono stile italiano e
francese (Frescobaldi, Couperin). Qui Bach si distanzia dal descrittivismo francese per applicare la
teoria degli affetti e delle relative figure musicali. Questa teoria mira a fissare precise
corrispondenze fra figure musicali e affetti suscitati. Nel periodo trascorso a Weimar, presso
Wilhelm Ernst, affronta uno studio scientifico delle opere francesi ed italiane, copiandone per
intero alcune di esse. L’interesse del fratello del conte per Vivaldi lo fecero inoltre familiarizzare
con la musica di quest’ultimo. Lasciata Weimar per dissapori con il duca Ernst, passa a Cothen con
l’incarico di kapellmeister. Qui l’attività di Bach compositore raggiunge l’apice. I sei anni a Cothen
produssero complessivamente il corpus di musica strumentale più consistente di Bach. In questo
periodo entrò in contatto con il margravio del Brandeburgo, Christian Ludwig, a cui dedicò i celebri
concerti brandeburghesi, una sintesi di concertismo francese alla Couperin (il numero degli
strumenti richiesti non eccede quello delle parti strumentali e quindi non servono raddoppi) e
italiano (forma complessiva in tre movimenti del veloce-lento-veloce). Rispetto all’italiano però
viene arricchito da elementi timbrici e linguistici che ne aumentano la durata. Più semplici e
apertamente italiani sono invece i concerti per violino e per altri strumenti solistici, mentre
francesi sono le overtures per orchestra. A Lipsia, dove risiedette dal 1723 alla morte, Bach
continuò a cimentarsi con la musica concertistica. Nella fase conclusiva della sua attività recupera
forme prima trascurate come la variazione, a partire dalle variazioni Goldberg.

3. Il sacro in musica. Da Palestrina a Bach

La musica sacra si sviluppa dal tardo medioevo alla prima età moderna al crescere del potere
politico ed economico delle istituzioni deputate all’amministrazione della vita religiosa. La liturgia
è fissa e ciò conferisce alla musica sacra un ruolo meno autoriale e una condizione stilistica più
statica e ripetitiva, almeno fino a quando la nascita di repertori paralleli come l’oratorio non hanno
aperto alla contaminazione con stili dell’ambito profano. Nell’ambito della musica sacra del
Cinquecento, Roma fu al centro delle produzioni. Fra le cappelle musicali romane spiccava la
Cappella Pontificia, privata del Papa, costituita da cantori di altissima qualità di provenienza
francese, fiamminga e spagnola. Si creò nel XVI sec una scuola romana, rafforzata dalla nascita
della congregazione dei musici di Santa Cecilia, dalla tendenza conservatrice. Quest’ultima dovette
confrontarsi con una realtà linguistico-musicale in pieno sviluppo. Il risultato fu un repertorio
diviso fra conservazione stilistica e ibridazione. In questo contesto fu attivo Giovanni Pierluigi da
Palestrina, la cui opera divenne modello per compositori e musicisti d’Europa. Il suo successo
derivò soprattutto dalle strategie che seppe adottare per promuovere le sue opere. Il suo stile,
detto “osservato”, consiste nel semplificare complessi procedimenti compositivi franco-
fiamminghi in favore di maggiore linearità. A questo si aggiungono elementi tipicamente italiani
come varietà armonica e cantabilità delle linee melodiche. Ascoltando il Kyrie I del Missa Papae
Marcelli a sei voci si possono enucleare le qualità principali dello stile di Palestrina. Si evince
l’equilibrio nelle linee melodiche, il discorso musicale che si sviluppa in un flusso continuo (la
sezione finale di ogni episodio si allaccia con l’inizio della seguente). Ritroviamo poi due operazioni
stilistiche: imitazione che è il tessuto connettivo dell’intera architettura e consiste nel riutilizzare
un brano polifonico preesistente come base per comporre canti della messa, alternata in alcuni
momenti da omofonia. Per accrescere la propria reputazione, il Palestrina curò sempre molto la
presentazione grafica delle proprie opere a stampa.
La messa polifonica è una forma musicale strettamente connessa con l’omonima celebrazione.
Con il termine messa in ambito musicale s’intende l’intonazione dell’insieme dei cinque canti
dell’ordinarium missae: kyrie, gloria, credo, sanctus, agnus dei. Essi costituiscono la parte della
liturgia eucaristica il cui testo rimane immutato a differenza del proprium missae. Il primo esempio
di messa completa composta da un solo autore si deve al francese Guillaume di Machaut con la
Messe de Notre Dame a quattro voci. Nel Cinquecento la messa fu palestra per l’esercizio della
maggior parte dei musicisti. Il motetto è un’altra forma tipica della polifonia sacra. Il termine
deriva da mot (testo) e originariamente era destinata a due voci. È quindi più breve della messa e
può avere funzioni diverse. Nonostante la musica sacra più rappresentativa sia quella polifonica,
nel 500 e nei due secoli successivi, la forma di canto più diffusa nelle chiese è il monodico liturgico
conosciuto come canto gregoriano (così denominato perchè si credeva erroneamente che fu
creato da Papa Gregorio Magno). Questo cantus planus è costituito da una singola linea melodica
le cui note (neumi) hanno un ritmo determinato dal testo verbale. Tra 500 e 600 la musica da
chiesa conobbe degli sviluppi in seguito alla riforma di Lutero che prevedeva l’attiva
partecipazione dei fedeli alle funzioni liturgiche. Da qui l’impiego del tedesco al posto del latino e il
canto come partecipazione attiva dei praticanti al culto attraverso canti monodici molto semplici.
Da questa spinta riformistica tedesca seguì quella della Chiesa DI Roma Che per respingere le
posizioni luterane diede avvio al concilio di Trento, in cui si vietò l’utilizzo di melodie improprie, di
origine profana e si impose che il testo fosse comprensibile ai fedeli. Tuttavia il concilio non
produsse effetti significativi nello sviluppo del linguaggio musicale. Lo stesso Palestrina continuò a
comporre secondo il suo stile anche dopo. La riforma cattolica invitarono anche a porre attenzione
alla didattica nella musica nei seminari e nei collegi tenuti soprattutto dai Gesuiti, così come nelle
istituzioni laiche e clericali fra le quali ebbe un ruolo fondamentale la Congregazione dell’Oratorio,
che con il tempo si avvicinò sempre più al coevo melodramma per l’utilizzo di forme dialogiche in
recitativo. La funzione dell’oratorio è quella di divulgare Bibbia e Vangelo nei testi musicati. Dilagò
l’oratorio in volgare piuttosto che che quello in latino. A partire dal 600 si diffondono nuovi stili
compositivi nella musica sacra, accomunati dalla presenza del basso continuo, di dissonanze,
fioriture e alterazioni. Si afferma poi il principio del concertato: le diverse parti che compongono la
polifonia alternano organici variabili, sia vocali che strumentali. A questo stile si contrappone
quello pieno, in cui ogni parte della composizione appare compatta e densa. Nel primo caso, il
concertato porta ad accrescere il numero delle parti e in questo caso si parla di policoralità (più
parti suddivise in più cori). La basilica vaticana, in occasione di festività straordinarie, riempiva gli
spazi architettonici con numerose compagini corali (anche oltre cento cantori). Venezia fu un altro
centro rilevante per le attività di musica sacra. Qui si sviluppò una polifonia che faceva uso di cori
combinati a strumenti musicali. La policoralità in San Marco raggiungeva effetti stereofonici per la
distribuzione dei cori in punti diversi degli edifici. Vi operò fra gli altri Monteverdi. Oltre a san
Marco, altre istituzioni produssero musica. Un ruolo in questo senso lo ebbero i quattro ospedali
della città, nei quali erano ospitate le putte, orfane o provenienti da famiglie povere, alle quali si
insegnava musica. Fra gli altri compose per queste istituzioni anche Vivaldi. Anche a Napoli si
conobbe nel 600 un incremento delle attività musicali. Qui ebbero un ruolo rilevante i
conservatori, l’equivalente degli ospedali veneziani, dove però si accoglievano maschi.
Negli stati con monarchia come Francia e Inghilterra, si manifesta una resistenza ad accogliere gli
stilemi della musica sacra italiana mentre in quelli con frammentazioni locali come Germania si
realizza un’osmosi fra tradizione locale e musica italiana. Nella musica sacra di corte, in Francia e
Inghilterra, si sviluppa un apparato cerimoniale che si distacca dalla chiesa romana. Il culto viene
officiato alla presenza del re con la cosiddetta messe basse solennelle: messa bassa perché
celebrata sotto voce, solenne perché con un apparato corale e strumentale sfarzoso. L’esecuzione
è affidata alla Chappelle du Roy, guidata da un ecclesiastico di alto rango. La messa bassa solenne
comprendeva in successione tre composizioni. Dapprima il grand motet, concepito per l’organico
completo della cappella. A questo seguivano il petit motet e la piere pour le roi, più brevi e
demessi. Fra i grandi compositori di grads motets figurano Henry Du Mont fra quelli in servizio
nella cappella e Jean Baptiste Lully fra gli esterni.
In Inghilterra con l’instaurazione della Repubblica di Cromwell la musica fu bandita dalle chiese.
Con la restaurazione di Carlo II Stuart la musica sacra tornò in auge ma avviata in direzioni diverse.
Da una parte il repertorio polifonico a cappella fu ripreso e accresciuto: diverse raccolte di
anthems (equivalente del mottetto) vennero ristampate con l’aggiunta di composizioni più
moderne; dall’altra si attuò una riforma stilistica sul modello francese promossa da Carlo II che
costituì una Royal Chapelle e sollecitò la produzione di un nuovo tipo di anthme con finalità
celebrative. L’autore di riferimento in questo ambito fu Henry Purcell così come il tedesco Handel
che completò la propria formazione in Italia e si trasferì in Gran Bretagna dove rimase tutta la vita.
Qui ebbe successo per i suoi oratori in lingua inglese, che conferiscono particolare rilievo alle parti
corali, le quali diventano rappresentazione della comunità stessa. I soggetti del vecchio
testamento si prestavano perfettamente a questa identificazione. L’oratorio handeliano è pensato
per essere eseguito in teatro, così come l’opera in musica. A differenza del melodramma,
nell’oratorio l’azione non è rappresentata. L’oratorio più celebre di Handel è il Messiah che si
caratterizza per l’assenza di dialoghi e personaggi. Sono giustapposti invece diversi brani tratti dal
vangelo.
In Germania troviamo invece un amalgama della musica sacra italiana con quella luterana e
cattolica del territorio tedesco. Si ricordano Hassler e Shutz.
Bach compose la maggior parte della sua musica sacra nel periodo in cui si era trasferito a Lipsia,
quando ricoprì il ruolo di Cantor della chiesa di San Tommaso. Molta della produzione di questo
periodo è il frutto di una rielaborazione di composizioni precedenti. Nelle numerose cantate
bachiane (brano destinato al domenicale servizio liturgico), troviamo un campionario di tecniche e
stili compositivi. Vi è un legame tra pensiero musicale e significato dei testi con simboli, immagini e
figure retoriche musicali. Fondamentale della cantata è la presenza del corale collocato agli
estremi della composizione. Tra le due sezioni di corale di inseriscono due coppie di brani, ognuna
costituita da recitativo e duetto. Sono momenti in cui si lascia spazio al virtuosismo vocale e
strumentale. I due recitativi approfondisco i temi delle strofe e introducono le sezioni chiuse.
La partecipazione del fedele è ancor più sollecitata delle Passioni, immense cantate destinate alla
liturgia del venerdì santo. Delle cinque che Bach compose ce ne restano solo due. La Passione
secondo Giovanni, che fu ripresa in altre quattro occasioni nel corso delle quali Bach modificò di
volta in volta testo e musica. Successivamente eseguì la Passione secondo Matteo, di dimensioni
più ampie. Nel 600 con l’introduzione di recitativi e arie direttamente mutuati da generi operistici,
si delinearono le due forme di passione più conosciute: la Passione-oratorio, di stampo
devozionale e la Passione oratoriale di ambiente luterano e connessa alla pratica liturgica.
Entrambe le passioni di Bach sono di stampo oratoriale. Nell’ambito della produzione sacra di Bach
un ruolo di rilievo ha la Messa in Si minore, una delle sue poche composizioni in latino. I 25 numeri
di cui sono composti i 5 canti vennero composti in momenti diversi e con diverse finalità. Solo negli
ultimi anni della sua vita furono riunificati in un unico corpus. Nonostante questo l’opera mantiene
un grande senso di coesione. Il suo processo compositivo prevede l’utilizzo di musica preesistente
adattata all’occasione secondo la tecnica della parodia, pratica diffusa al tempo. Molte teorie
definiscono quest’opera come multifunzionale, può essere considerata cioè sia evangelico-
luterana che cattolica. Rivolta cioè a tutti i cristiani. Sul piano musicale questo avviene tramite
l’integrazione di elementi stilistici e formali diversi.
4. L’Italia in Europa: il Settecento operistico

L’opera italiana beneficia nel XVIII sec di ampia diffusione (tranne che in Francia). La visione di
spettacoli operistici divengono parte dei tours che richiamano in Italia viaggatori d’oltralpe. Lo
spettacolo d’opera italiano fra 600 e 700 necessitava di trovar soddisfatte alcune condizioni per
essere concepito e realizzato. Prima di tutto serviva un teatro detto all’italiana, costituito da
platea, distinta dal palcoscenico e palchetti divisi su più ordini e all’epoca illuminato dalla luce
delle candele durante lo spettacolo. Era un evento sociale che permetteva l’interazione del
pubblico in sala durante lo spettacolo. Vi sono poi casi di opere concepite per altri luoghi teatrali. È
il caso dell’Olimpiade di Metastasio, dato in prima a Vienna nel giardino della Favorita,
ambientazione non casuale perché richiama la sostanza drammatica dell’opera.
Lo spettacolo d’opera era nel suo complesso costituito anche da intermezzi comici e da balli e la
lunghezza era dunque complessivamente considerevole. Nel 700 l’opera comprende sia voci
femminili (contralto e soprano), per ruoli femminili ma anche per giovani en travesti (ossia con
abiti di sesso opposto), da voci maschili (basso e tenore), assegnate ai ruoli maschili di personaggi
autorevoli, attempati, crudeli e nel genere serio da voci di castrato (sopranili e contraltili) portatori
di valori positivi quali sincerità e generosità. In alcuni casi ai cantori evirati furono anche assegnate
parti femminili en travesti.
Nel 700 il testo verbale viene steso dal poeta di teatro autonomamente rispetto al compositore
musicale e assume subito la forma id libretto finalizzato alla lettura già durante lo spettacolo. I
grandi divi del genere serio venivano scritturati individualmente e potevano inserire a forza nelle
opere alcuni brani particolarmente riusciti di interpretazioni precedenti. Il compositore resta un
prestatore d’opera e non manifesta orientamenti politico-dinastici che non derivassero dai
vantaggi professionali. Melodramma e composizione musicale non potevano garantire da soli
sicurezza economica. Nessuno nasce operista: molti compositori iniziano come strumentisti o
cantanti e si affermano come vicemaestri e poi maestri da camera o di cappella. L’operista
settecentesco è una figura non statica ed estranea a rapporti professionali duraturi. Vivaldi riuscì a
limitare i propri spostamenti, operando principalmente a Venezia, Mantova o Verona e Haydn che
scrisse perlopiù nella reggia di Esterhaza. Vi sono poi centri di attrazione per i compositori: Napoli,
capitale mediterranea durante la reggenza asburgica e di quella borbonica, rappresenta un centro
formativo d’eccellenza con i suoi conservatori; Roma, collocata nel cuore della penisola, era tappa
obbligata per numerosi artisti; Venezia al pari di Napoli è centro formativo d’eccellenza per i suoi
ospedali. Il centro elettivo dell’opera italiana è Vienna, capitale dell’Impero. Presso la corte
asburgica operano i massimi librettisti come Zeno e Metastasio, sui cui testi si formarono
generazioni di operisti, ma pochi trovarono consacrazione a Vienna che aveva principalmente
ruolo propulsivo. Le cose cambiarono negli anni Sessanta quando si consolidarono gli influssi del
teatro francese determinando la cosiddetta riforma: Vienna fu lo scenario del sodalizio Da Ponte –
Mozart. Al tempo capitava che si replicassero in stagioni o luoghi diversi opere nella forma
originaria o frammiste a musiche di altri compositori, motivo per cui si poteva riproporre ad uno
stesso pubblico un titolo che già conosceva. Il concetto di “opera di repertorio” non può quindi
essere impiegato in questo caso, per la rapidità con cui le partiture dell’opera seria passassero di
moda velocemente.
La struttura del libretto d’opera italiano è standardizzata a livello editoriale. Negli ultimi decenni
del secolo si raggiunse il più ampio numero di pagine, per via dei diversi componimenti presenti in
uno stesso spettacolo. Sul frontespizio abbiamo titolo, genere e nome del librettista del dramma,
occasione e luogo. Abbiamo poi stampatore e anno di pubblicazione. Nelle due pagine successive
la dedica all’impresario e ai sovrani, quindi l’argomento, a volte indispensabile per la
comprensione del dramma. Poi scenografo, macchinista, costumista, corpo di ballo e prima della
descrizione del ballo, l’indicazione dell’autore delle musiche.
L’opera italiana del 700 non raggiungeva quasi mai la stampa, troppo costosa. Ci si avvaleva di
manoscritti. Al pari dei libretti, la struttura del manoscritto operistico e più o meno la stessa. In
frontespizio i dati principali dell’opera e a seguire la sinfonia introduttiva, quindi primo recitativo,
prima aria e via dicendo.
La drammaturgia dell’opera seria prevede un testo verbale stilato autonomamente da poeti di
teatro rispetto al musicista. Questo comporta un testo che potrebbe anche essere esclusivamente
recitato. Quindi il poeta è un drammaturgo di primo livello, mentre il musicista uno di secondo
livello, responsabile della resa finale e del successo.
Nel corso del 700 il dramma per musica affronta una fase di rinnovamento. Il melodramma ne esce
semplificato nelle forme poetiche e più lineare nella trama dei drammi. Fu ripudiata anche la
commistione di comico e tragico che caratterizzava il secolo precedente. L’impianto fissato da
Metastasio, celebre quello dell’Olimpiade, manterrà validità per molti decenni. La scelta del
soggetto è la prima mossa effettuata dal poeta. Il genere serio trova fondamento negli storici
classici, nei tragici moderni (Corneille, Racine), nell’epica di lingua italiana. In goni caso il soggetto
deve adattarsi alle circostanze politico-dinastiche, ambientali (teatri di palazzo, di corte, pubblici) e
stagionali (clima e ore di luce). Nella stesura dell’argomento si illustrano antefatto, peripezie, non
di rado epilogo. La struttura prevede:
1. Antefatto remoto
2. Antefatto recente
3. Nuovo antefatto
Abbiamo la presenza di rapporti affettivi incrinati e dall’esito incerto ai quali seguono altri nodi
drammatici. Si anticipa poi l’epilogo che paradossalmente incrementa l’interesse nel dramma.
L’attenzione dello spettatore è infatti rivolta allo svolgimento. Il lieto fine è l’esito prevalente
perché bilancia le peripezie del dramma e consegue al raggiunto dominio delle passioni. Il
dispositivo metrico-poetico più rappresentato nel dramma di tipo metastasiano è il recitativo,
ossia libera alternanza di endecasillabi e settenari non vincolati da rime, né raccolti n strofe. Non
per questo queste sezioni risultano scarsamente musicali. Il registro vocale dei diversi ruoli risulta
subito identificato e garantisce immediata riconoscibilità ai personaggi. I pezzi chiusi strofici si
trovano perlopiù a fine scena. In Metastasio le arie hanno prevalentemente la consistenza di due
strofe isometriche e rappresentano la sostanza musicale-drammatica di ogni opera, dove il
cantante sfoggia le proprie abilità e il musicista vi esercita il proprio estro, nel rispetto di una solita
forma musicale adottata a partire dalla fine del 600: l’aria col da capo, caratterizzata dalla
ripetizione con articolazione diversa della prima strofa (A A’), dalla rapida e contrastante singola
intonazione della seconda (B), seguita dalla ripresa della prima parte (A A’), appunto il “da capo”.
Il poeta, nella creazione di immagini poetiche e costrutti retorici indirizza l’estro del musicista. Le
arie, non meno dei recitativi, a livello di finzione drammatica mantengono la finalità di trasmettere
un messaggio agli altri interlocutori in scena che verrà poi messo a frutto nelle scene seguenti.
Duetti e terzetti sono rari per via del meccanismo di uscita dei personaggi e avvengono se un
personaggio non rientra in quinta perché trattenuto da affetti o quesiti irrisolti. Ne deriva un alto
confronto drammatico e musicale. Il compositore in questo caso può avvalorare la distanza fra i
due personaggi distribuendo materiale motivico differenziato o attenuare la distanza lasciando
trapelare affinità tramite impiego di forme melodiche simili o rispondenti.
Dagli anni Trenta ai Sessanta, la drammaturgia di Metastasio gode di predominio nei teatri italiani.
Esistono però alternative. Quello di Zeno, più irrazionale, poeticamente discontinuo o quello di
Handel, che frequentò i grandi centri italiani e fu autore dell’Agrippina, in cui si trattano di vizi e
macchinazioni politiche e del Rinaldo. L’esordio londinese è invece di carattere epico con Rinaldo,
su libretto di Giacomo Rossi, che rielabora episodi tasseschi della Gerusalemme liberata. Ma la sua
strada prediletta è quella favolistica. Una delle sue ultime opere, Serse, è fra le più retrograde in
quanto a scelte librettistiche: ad apertura di sipario quando lo spettatore si attenderebbe un
recitativo e l’avvio di una peripezia, si ha invece una scena a solo con Serse. Lo si spiega anche per i
gusti del pubblico inglese, poco avvezzo all’opera italiana. Le costanti delle opere di Handel
risultano quindi essere:
1. Configurazione formale standard nei pezzi chiusi
2. Numerose arie
3. Impiego nelle arie di uno strumentario di soli archi o anche di violino e basso
Ogni aria ha una propria connotazione, per andamento e ritmo, per l’uso del contrappunto (a volte
assente) e per trattamento della voce. Nonostante ciò, l’aspetto delle opere di Handel è
disomogeneo e fu questo l’elemento che rigenerò l’interesse del pubblico.
Altro scenario con Gluck. Nasce e si afferma come compositore metastasiano e la sua svolta è
determinata dall’incrocio professionale a Vienna col poeta Ranieri de’ Calzabigi, anch’egli dai
trascorsi metastasiani ma determinato a dare una svolta al teatro musicale. Con Orfeo e Euridice e
Alceste, si delinearono i tratti di una nuova concezione operistica:
1. Preferenza per soggetti greco tragici e quindi maggiore partecipazione del coro.
2. Impiego preferenziale dei recitativi strumentati a vantaggio di una maggiore continuità
drammatica.
3. Scrittura vocale rispettosa del testo poetico con conseguente limitazione di colorature
4. Partecipazione della danza all’azione e coinvolgimento dei massimi coreografi dell’epoca.
Le opere di Gluck trovano scarsa circolazione in Italia ma buona in Francia. Abbandonato
l’avvicendamento dei personaggi in scena metastasiano, nelle opere gluckiane prevale una
focalizzazione assoluta sull’azione principale. Nell’Alceste non vi è intreccio da sbrogliare. La
vicenda è essenziale: Admeto, re di Fera in Tessaglia, morirà se qualcuno non si offrirà al suo osto.
Alceste si immola per il marito, è risucchiata nell’Averno ma viene riportata in vita da Apollo deus
ex machina. Ai personaggi principali si aggiungono delle figure di contorno sotto forma di coro o
semplici figuranti. Una collettività sempre partecipe e solidale che faceva buon gioco anche
all’establishment imperiale. Rispetto a un dramma italiano, che nello scorrimento del testo vive
accelerazioni (recitativi) e rallentamenti (arie), qui prevale una maggiore uniformità. In tutta la
tragedia aleggia la morte, inusuale invece nel teatro settecentesco italiano.
Per quel che riguarda il comico, intermezzo e commedia per musica napoletana maturarono in
ambienti elitari e colti, mentre il comico toscano si diffuse nell’ambiente accademico degli
Infuocati. Nel 700 l’elemento comico è confinato alla chiusa degli atti, affidato a duetti di coppie
specializzate. Da lì all’ideazione dell’intermezzo, oggetto agile e minimale. La costituzione di
spettacoli integralmente comici fu tradizione parallela e indipendente dagli intermezzi. Il dialetto
ebbe il sopravvento o fu impiegato come elemento di caratterizzazione individuale o sociale. Nel
comico il poeta può usare antecedenti commedie di parola (Nozza di Figaro mozartiane), testi di
narrativa o montare vicende originali. Gli elementi distintivi del comico sono:
1. Ambientazione che privilegia l’attualità, soprattutto però contesti borghesi.
2. Intreccio semplificato rispetto al genere serio.
3. Aspirazioni dei singoli come motore dell’azione
4. Tema della falsità e menzogna.
5. Elementi farseschi, lasciti della commedia dell’arte.
Il librettista tiene conto dei ruoli per fissare lo stile della scrittura poetica di recitativi e arie che
risultano molto libere metricamente. Infatti le compagnie comiche erano costituite da attori di
teatro non virtuosi del canto
7. Geografia e pratiche del classicismo musicale

Il concetto di classicismo inquadra la musica in un orizzonte estetico più che storico, ma dalla
critica finisce per essere attribuito ad un’epoca abbastanza definita: musica di area viennese fra
fine 700 ed inizio 800. Si impiega il termine classico anche per indicare qualità del componimento
quali equilibrio, esemplarità, ricercatezza, immediatezza espressiva. Esistono però ambiguità e
approssimazioni al riguardo che si possono riassumere in cinque punti:
1. Periodizzazione – l’estensione cronologica del classicismo viennese non è mai stata
unanimemente condivisa. Da alcuni studiosi vengono posti come estremi i quartetti op. 33
di Haydn (1781) e l’Ottava sinfonia di Beethoven (1812), ma alcuni lo fanno partire da Bach.
Inoltre seppur i fondamenti compositivi di Beethoven risultano di estetica classica, non lo è
la configurazione complessiva della sua produzione.
2. Applicazione ai diversi generi – di solito si individua nella produzione strumentale dei
maggiori musicisti del periodo l’emblema del classicismo. Rimane quindi incerto che ruolo
attribuire alla produzione sacra o all’opera in musica dello stesso periodo.
3. Applicazione ad altre culture musicali – il classicismo viennese dialoga con altri scenari
antecedenti o coevi, come lo strumentale italiano di primo e medio 700, il pianismo di
Clementi, il sinfonismo tedesco e le stagioni dei concerti a Londra, Parigi, Francoforte,
Amburgo, Madrid.
4. Autocoscienza e storiografia – il compositore settecentesco non prende parte a riflessioni
estetiche o filosofiche come quello dell’800. Non glielo consente l’inquadramento sociale
nella sfera delle maestranze professionali, distanti un libero esercizio intellettuale.
L’accezione di classico viene tributata ad Haydn o Mozart da intellettuali romantici che ne
riconoscono il valore.
5. Rapporti con l’orizzonte culturale e filosofico – qui la cosa va considerata da due lati: la
musica è sia presente nella riflessione filosofica, che risultato del pensiero illuminista.
Quindi nel primo caso il filosofo illuminista studia le origini del canto, della parola, del
linguaggio; nel secondo caso bisogna considerare l’eventualità che alcuni musicisti
dell’epoca attingessero a letture filosofiche. In effetti la musica del tempo condivide con
l’illuminismo alcuni tratti somatici. Al razionalismo del contrappunto subentra un pensiero
musicale lineare. Anche a livello di contenuti, in Haydn e Mozart sono forti i nessi con
aspetti del pensiero illuminista, ad esempio con Kant, nella diffidenza verso la metafisica.
Così come in Beethoven, nella dimensione morale della sua arte dichiarata più volte da egli
stesso, frutto anche delle letture kantiane giovanili.
L’allontanamento rapido dai principi fondanti della scrittura barocca avviene in area tedesca giusto
a ridosso della morte di Bach ad opera dei tre figli maggiori: Wilhelm Friedemann, Carl Philipp
Emanuel, Johann Christian. I caratteri del periodo preclassico si possono cogliere già nel primo
movimento (Allegro) della sinfonia in Re di Carl Philipp Emanuel. La discontinuità degli eventi
sonori non consente di prefigurarsi in anticipo lo svolgimento del brano e mantiene vigile
l’attenzione. Mentre nel primo movimento di una delle sinfonie del fratello Johann Christian, il
discorso scorre fluido. In entrambi i casi comunque non si ordisce un intreccio fra parti simultanee
come nel caso del genitore, ma si basa tutto su un discorso lineare. Nella musica del tardo 700 i
motivi tendono ad estendersi secondo una fraseologia regolare. Ciò è evidente all’inizio
nell’Allegro con brio con cui ha iniziola sonata per pianoforte in Do maggiore di Haydn. Le prime 16
batt mostrano un accurato bilanciamento interno. I motivi si concatenano in base a rapporti di
similitudine o olterità fino ad una conclusione cadenale che conferisce stabilità e viene ad essere il
tema del componimento. Tsabilito il tema, altri si susseguono innescando un processo dialettico.
La condizione più comune per l’epoca, che segue l’esposizione di una serie di temi, è che ci si
diriga dalla Tonica verso la Dominante se la composizione è di modo maggiore, o alla relativa
maggiore se è di modo minore. Una volta posti tali argomenti musicali, il compositore è orientato
a rielaborarli (si parla di elaborazione motivica), e nel contempo procura un tragitto di ritorno dalla
tonalità della Dominante alla tonalità originaria, processo ineludibile per concludere la
composizione. Lo schema illustrato, costituito da esposizione e ritornello, sviluppo e ripresa,
prende modernamente la definizione di forma-sonata e risulta una delle composizioni di più lunga
durata nella storia delle forme compositive. Ciò che rende la forma-sonata ne distinta è la sua
natura processuale. Questo spiega la sua collocazione iniziale e/o finale in generi contraddistinti da
più movimenti.
Nel corso del 700 nascono e prosperano stagioni concertistiche soprattutto a Londra e Parigi, per
un pubblico aristocratico o borghese che ascolta musica in modo consapevole. Ora al concerto
pubblico si va per ascoltare musica, diversamente dal passato in cui era più un evento sociale. Il
pubblico partecipa all’esecuzione della sinfonia con applausi. Il compositore cerca di prevedere le
aspettative del pubblico, collocando passi avvincenti in punti strategici per strappargli l’applauso.
Sinfonia e concerto acquistano così senso alla presenza di un pubblico, la sonata per pianoforte o
per pianoforte e altro strumento è destinata a professionisti o dilettanti che la eseguono solo per
loro stessi. Il quartetto per archi ha un assetto comunicativo intermedio, la sua fruizione può
essere domestica ma il linguaggio adotta uno “stile di conversazione” e quindi può prevedere un
piccolo pubblico. Nel quartetto op. 77 n.1 in Sol maggiore di Haydn, il primo violinino sceglie gli
argomenti di conversazione, mentre il secondo segue gli argomenti del primo. Gli altri due
strumenti scandiscono il tempo. Il canale di comunicazione fra compositore e ascoltatore predilige
il registro dell’ironia, tratto peculiare dello stile di Haydn che sconcertava quanti si attendessero
contenuti più spirituali. Il finale del quartetto op. 33 n.2 disattende le aspettative nella sua
irrazionalità: le ultime frasi sono interrotte da lunghe pause e il motivo conclusivo è uguale a
quello iniziale, tanto da essere scambiato per un ritornello. Così una volta finito scatta l’applauso.
L’indole esperienziale della musica d’epoca classica trova conferma nella programmazione di un
concerto pubblico. Ad esempio in un famoso concerto mozartiano al Burgtheater di Vienna alla
presenza di Giuseppe II, rispetto alle convenzioni odierne lo spettacolo dura il triplo. Musica
orchestrale si alterna a musica pianistica, solistica e ai brani vocali d’opera. La disomogeneità delle
composizioni costituiscono un valore aggiunto finalizzato ad arricchire l’esperienza di ascolto.
L’importanza crescente che il compositore dà al consenso del pubblico va di pari passo con la sua
condizione sociale in mutamento. I compositori tendono ora ad assecondare i propri talenti. Lo
scenario lavorativo dei compositori era flessibile e incerto. Poteva cercare stabilità alle dipendenze
di qualche corte, oppure dedicarsi alle stagioni concertistiche, che non sempre mantenevano le
aspettative dei musicisti. Per alcuni la notorietà acquisita attraverso i concerti fu anche superiore
rispetto alla diffusione della propria produzione compositiva. Con questo scenario in bilico fra
vecchio e nuovo, si confrontano anche i due massimi artisti dell’epoca, Mozart e Haydn, che
giungono a risposte diverse. Haydn, proveniente da una provincia della bassa Austria, compone
soltanto. Si forma con Nicola Porpora di scuola napoletana e raggiunge la svolta professionale nel
1761 quando viene reclutato come vicemaestro di cappello da parte di Esterhazy. Partono così
trent’anni di carriera in cui ebbe una graduale progressione. Con il tempo semplificò la sua musica
per raggiungere un più alto numero di persone. Nel 1786 si raggiunge il culmine nella produzione
di opera in musica. Dall’editoria privata derivarono le migliori occasioni per superare il suo stato
isolamento nella corte. Si inserì così nel florido mercato di stampe non autorizzate di musica sua e
altrui, diffuse soprattutto a Londra e Parigi. L’assenza di una normativa per il copyright è
generalmente vista come un danno per i compositori, ma Haydn seppe convertirla in vantaggio. La
diffusione della sua musica, rese indolore il successivo allontanamento dalla corte. Fu infatti
scritturato dal violista e organizzatore musicale Salomon per i suoi concerti di Londra. I suoi
guadagni complessivi per i due tour fatti gli fruttarono circa venti anni di stipendio presso gli
Esterhazy. Le dodici sinfonie londinesi restano la massima espressione di quella sua fase
produttiva, un intero blocco sinfonico omogeneo ma diversificato, concepito in anni ravvicinati per
uno stesso pubblico. Tutte le sinfonie impiegano trombe e timpani, manifestando un’inclinazione
alla spettacolarità. Lo stile sinfonico è qui moderno lasciando da parte gli elementi descrittivi e va
incontro all’atmosfera di sicurezza e ottimismo della Londra di quegli anni. Per istituire un canale
di comunicazione ogni sinfonia è dotata di propri contrassegni stilistici che permettono di farsi
riconoscere dagli spettatori. L’ultimo periodo trascorso a Vienna prima della morte, pose Haydn
nella posizione sia di grande vecchio vicino all’aristocrazia, sia vicino al nuovo mercato
internazionale.
Mozart ebbe una storia professionale diversa. Trascorse in viaggio buona parte della sua infanzia,
conoscendo il pubblico di mezza Europa. L’epistolario con il padre Leopold registra come il giovane
Mozart intendesse costruire la propria dinamica carriera da musicista, mentre il padre lo vuole
come sottoposto in grado di assicurargli un salario che salvaguardasse il bilancio familiare. La
proposta. La proposta di un posto da organista a Versailles è raccolta con entusiasmo da Leopold.
La svolta avvenne quando fu congedato dall’arcivescovo di Salisburgo Colloredo, dalla sua
posizione di konzertmeister, e fu costretto così a lamciarsi nella libera professione. Seguì il
decennio viennese, in cui fra accademie e opere teatrali di successo variabile, finì per accettare un
incarico secondario a corte, finalizzato alla musica di danza e intrattenimento. Sul piano editoriale
Mozart non sfoggiò l’abilità di Haydn e la sua musica non fu mai semplice n da eseguire né da
comprendere. Haydn pubblica in vita quasi tutte le sue sinfonie, Mozart solo 4 delle 41, per altro
con scarso ritorno economico. Mozart frequenta quasi tutti i generi, a seconda delle opportunità
che gli si profilano. Abbiamo quindi dramma per musica, festa teatrale, opera seria di ispirazione
francese e anche opera comica. L’incontra a Vienna con Lorenzo Da Ponte segna all’inizio di un
sodalizio. I loro drammi si impongono subito con risultati duraturi. Si ritrovano i temi della
dialettica fra libertà individuale e coscienza collettiva, rapporto fra ragione e sentimento, dialogo
fra classi sociali diverse. Da Ponte godeva delle simpatie di Giuseppe II, così l’imperatore chiuse un
occhio persino sui divieti da lui stesso formulati pur di ascoltare le nozze di Figaro, tratta dalla
commedia di Beaumarchais. Da Ponte nel libretto tagliò alcune delle tirate più taglienti verso
l’aristocrazia senza però mutare i contenuti. Il tradizionale assetto del comico viene qui amplificato
in un’opera di più ampio respiro. La struttura è in quattro atti, anziché due o tre e gli undici
personaggi sono tutti utili alla condotta dell’azione. Come nella vita reale prevalgono l’azione
concreta e il confronto interpersonale. Le scene a solo, in cui l’azione tende a rallentare, sono
poche e memorabili. Si realizza con Da Ponte un ideale drammaturgico che Mozart aveva già
concepito con l’Idomeneo, quando gli sembrò illogico che mentre un personaggio canta gli altri si
fermano ad ascoltarlo. Contenuti e personaggi appaiono più innovativi nella caratterizzazione
individuale. Nell’opera non esistono buoni o cattivi, tutti sono in qualche modo vincenti e perdenti.
Il conte viene perdonato dalla contessa per i suoi tradimenti, ma perde di credibilità davanti alla
corte. La contessa perdona il coniuge, ma la grandezza del gesto è attenuata dalle motivazioni:
conscia di possedere una bellezza sfiorita, preferisce accettare il marito pur di non rimanere sola.
Quest’opera ebbe più successo a Praga che a Vienna e infatti nella prima verrà proposto
successivamente il don Giovanni ossia il dissoluto punito, che rilegge in chiave libertina un tema
concepito in ambiente controriformistico come parabola morale per la ricorrenza dei defunti.
Molti critici hanno considerata visionaria l’ibridazione tra tragico e buffonesco. Tramite l’overture,
con i cosiddetti accordi del commendatore, Mozart preannuncia il destino ineluttabile del
protagonista. Lo spettatore di certo non si sarà atteso una tale deviazione dallo stile comico.
Questa atmosfera tragica trova conferma nella prima scena dell’opera, con l’uccisione in duello del
commendatore, giunto in soccorso della figlia Anna che Don Giovanni travestito aveva tentato di
insidiare. Questo clima però viene spazzato via dalle donnesche imprese di Don Giovanni, con un
accumulo di beffe, travestimenti, inganni in un contesto astratto. Il registro comico è garantito da
Leporello, partner di Don Giovanni, nonché dalla coppia Zerlina e Masetto. Il lato sentimentale è
invece assegnato alla coppia seria Donna Anna/Don Ottavio. L’ibridazione dei generi è evidente
anche a livello musicale, con ad esempio la declamazione lenta e solenne del commendatore e
quella più ostentata e spavalda con cui risponde Don Giovanni, mentre Leporello balbetta sotto il
tavolo nel suo registro comico. L’epilogo dell’opera è ulteriormente ambiguo, perché nessuno dei
superstiti si è fatto giustizia e Don Giovanni risulta eroe negativo. Nella tradizione successiva del
dramma, Mozart fa concludere l’opera con la morte del protagonista, soluzione tragica più
moderna che fa credere che il tema di fondo dell’opera sia la condanna del colpevole.
L’ultima opera dei due, Così fan tutte o sia la scuola degli amanti, prova l’eclettismo del dramma
giocoso, giunti al tramonto della sua pluridecennale tradizione. Da Ponte preleva dal Furioso
dell’Ariosto i nomi di alcuni personaggi e il tema della scommessa sulla fedeltà femminile. Don
Alfonso è personaggio centrale della vicenda, misantropo e filosofo che quasi non canta,
affidandosi quasi unicamente al recitativo. La sua lucidità illuministica fa da contraltare all’illusione
dei due giovani Guglielmo e Ferrando pronti a scommettere sulla fedeltà delle loro amanti. Così
faranno finta di andare in guerra per ripresentarsi dalle fanciulle travestiti da soldati albanesi per
vagliarne la fedeltà, in luoghi poco caratterizzati e irrealistici. Al successo a Vienna, seguì una storia
rappresentativa fatta di perplessità, in un mondo teatrale sempre più romantico e che respingeva
l’immoralità dell’opera. Non si tratta però di misoginia, ma di un invito ad accettare una
condizione naturale che vede uomini e donne sottomettersi alle passioni. Si è visto in questo
l’esaltazione dell’illuminismo.
Rispetto all’opera in musica, che per sopravvivere deve godere di successo presso un pubblico,
l’oratorio ha una veste più conservativa, derivata dalle fonti bibliche. Né Mozart né Haydn furono
prolifici compositori di oratori. Haydn vi si dedicò solo sul finire della propria carriera, quasi in una
riconversione accademica dopo i successi internazionali. L’impianto di base era per soli strumenti:
dopo la declamazione del testo in latino e il sermone dell’officiante, le sonate accompagnavano
l’adorazione del vescovo davanti alla croce. All’orchestra è affidato il compito di amplificare e
riecheggiare i motti di Cristo. Il testo della Creazione è prodotto di sintesi: mette insieme la Genesi,
il libro dei salmi e il Paradiso perduto di John Milton. Il lavoro termina prima della tentazione di
Eva e la vicenda biblica adottata da Haydn finisce così per raffigurare in chiave spirituale alcuni
ideali dell’epoca quali l’assimilazione dell’uomo alla natura, la sua aspirazione alla luce.

8. Beethoven

Beethoven è una figura centrale del panorama musicale europeo nei primi decenni dell’800. Pochi
artisti hanno incarnato l’idea dell’artista che ricerca originalità in ogni sua opera e che concepisce
la creazione come processo di incessante crescita. Haydn, suo maestro nei primi anni viennesi,
comporrà 104 sinfonie, Mozart in soli 35 anni di vita be 41, Beethoven solo 9. Mai nessuno aveva
avuto tempi di gestazione così lunghi nella creazione musicale. La sua unica opera, Fidelio, avrà tre
diverse versioni e l’intero processo creativo copre oltre dieci anni. Questo dimostra la concezione
problematica del comporre per Beethoven, l’idea che l’atto creativo non sia solo estetico o
funzionale al al tempo stesso conoscenza. Wilhelm von Lenz, suddivise l’opera beethoviana in tre
stili: una fase giovanile (dagli esordi al 1801-02); la fase della maturità che molti studiosi chiamano
periodo eroico; lo stile tardo, ultimo decennio di attività del compositore, in cui il suo stile si fa
quasi esoterico. Beethoven affronta quasi tutti i generi musicali della sua epoca e la volontà di
sperimentare si manifesta sin dalle prime pubblicazioni: le due opere d’esordio, i tre Trii op.1 e le
Tre sonate per pianoforte op.2, sono in quattro movimenti, suddivisione che nella musica viennese
era stata riservata solo ai generi più nobili di quartetto per archi e sinfonia. Molti studiosi si sono
soffermati sul fatto che Beethoven spesso utilizzi forme e tecniche tipiche della musica operistica
nelle proprie composizioni strumentali e recuperi a volte forme strumentali o vocali del passato
coma la fuga o la canzona. La ricerca beethoviana è quindi anche soprattutto quella di sintesi,
storica nel rifarsi a forme e tecniche arcaiche, estetica nella trasfigurazione di forme e linguaggi,
sociale nella fusione di generi diversi. La sonata per pianoforte è il suo terreno d’esplorazione
privilegiato, componendone 32, molte di più delle composizioni orchestrali. Spinse per questo i
costruttori viennesi ad ampliarne le sonorità e l’estensione. Con lui ha inizio il secolo del
pianoforte, che da principalmente privato diventa pubblico. Le nove sinfonie rappresentano un
corpus monumentale, caratterizzato dall’innovativa idea di alternare sinfonie di carattere
contrastante, a coppie. Beethoven nel presentare al pubblico due sinfonie in una stessa serata,
voleva mostrare due facce contrastanti e complementari di uno stesso pensiero compositivo. Nel
corso della carriera del musicista si registra inoltre l’ampliamento progressivo dell’organico
strumentale, con l’introduzione di tromboni, ottavini, controfagotti. Si tratta di innovazioni
pioneristiche. Nell’ambito cameristico troviamo un corpus monumentale che tiene testa alle
sonate per pianoforte. I diciassette quartetti per archi sono la parte più pura dell’opera
beethoviana. L’autore si avvicinò ai quartetti per archi con cautela, dopo essersi fatto le ossa nel
trio per archi. Nel campo della musica vocale ci ha lasciato meno opere. Ricordiamo il Lieder e la
Missa Solemnis. Compose inoltre numerosi canti popolari su commissione dell’editore scozzese
George Thomson.
Le opere del compositore sono state spesso associate alle sue vicende extramusicali: la sordità,
l’isolamento, difficoltà nella vita o nei rapporti con le donne, rivoluzione francese e guerre
napoleoniche. Questo perché Beethoven è il primo compositore che concepisce ogni singola opera
come espressione individuale. Ebbe un rapporto difficile, soprattutto con il padre, difficile anche il
carattere altezzoso e difficili anche le scelte di vita, in quanto volle essere libero professionista
senza mai mettersi al servizio di un signore o di una corte. La sua musica risolveva tutti i conflitti
che la sua vita lasciava invece aperti. Lo si nota in molte delle sue opere, questo forte conflitto che
va a risolversi. L’utopia beethoviana, che proseguiva quella di Haydn e Mozart, era quella di darci
con la musica un’immagine ideale del mondo. Lo stile classico è basato quindi sulla convinzione
che si possa rappresentare attraverso i suoni un mondo in grado di raggiungere un equilibrio.
Il credo illuminista accompagnò Beethoven per tutta la sua vita, come dimostra l’ode alla gioia di
Schiller che Beethoven mise in musica nella nona sinfonia. Egli volle comunicare che tutti gli
uomini saranno fratelli, un messaggio utopico che voleva mettere in musica da tutta la vita. La più
illuminista delle sue composizioni è il Fidelio, che sembra una critica al sistema carcerario
settecentesco. Modelli tratti dalla musica rivoluzionaria francese sono spesso identificati come
fonte d’ispirazione di molte opere beethoviane del secondo stile: segnali militari, squilli di tromba
e rulli di tamburo vengono anche usati come temi o interiezioni di molte celebri sue composizioni.
Nonostante l’aggancio con il presente si può comunque dire che Beethoven fu il primo
compositore a comporre più per i posteri che per i contemporanei. L’idea di frattura con il proprio
tempo e di lavorare per le generazioni future è del tutto innovativa. Dal 1814 attraversò una crisi
fino al 1817, periodo durante il quale smise di comporre, fatto di assoluta novità. La crisi può
essere messa in relazione con la situazione politica, la restaurazione e il crollo degli ideali liberali e
illuministici, il cambiamento nei gusti musicali del pubblico viennese.
Beethoven arriva a Vienna nel 1792, un anno dopo la morte di Mozart. Analogie e differenze fra i
due si posso individuare negli incipit della Sonata op.2 n.1 che cita la Sinfonia K 550 di Mozart. La
sonata beethoviana inizia con due battute di tonica a cui rispondono due di dominante. Un gesto
simmetrico mozartiano che però viene reso dinamico inserendolo in un processo di accumulo e
accelerazione. Questa caratteristica è presente in molti brani del musicista. Lo slancio che riesce ad
ottenere è quindi dovuto unicamente all’alternanza di due accordi. La prima sinfonia invece
ottiene questo processo di accumulo della tensione attraverso la strumentazione, con la divisione
dell’orchestra in due gruppi che si alternano e contrappongono. Abbiamo a che fare in entrambi i
casi con l’idea della forma musicale come processo, tipica di Beethoven.
La grande novità dello stile beethoviano sta proprio nella capacità di rimettere in gioco tutti gli
elementi del linguaggio musicale classico, volutamente semplificati per raggiungere quello stile
denso e drammatico del Beethoven eroico. L’oggetto principale di semplificazione è la melodia.
Raramente assistiamo in Beethoven e grandi temi. Gli elementi del linguaggio sono invece molto
più immediati e semplici. Per questo i musicisti parlando delle opere di Beethoven utilizzano il
termine gesto: si parla di semplice gesto, una successione di accordi, una scala, un arpeggio. Da
questa semplicità espressiva nasce la potenza del suo linguaggio. Alla semplificazione della
melodia, fa da contraltare un arricchimento degli altri elementi musicali. Beethoven riflette su
risonanze, timbri, durate e ne analizza le possibilità di interazione. Boucourechliev descrive con
incisività la novità beethoviana: la gerarchia dello stile classico vede armonia e melodia come
colonne portanti e gli altri elementi del linguaggio musicale come durate, intensità e timbri
organizzati in importanza decrescente. In Beethoven invece questi elementi assumono ruolo di
primaria importanza. Attraverso questi elementi egli saprà comunicare nei suoi gesti drammatici
un senso si alto, basso, pieno, vuoto, largo, lungo, profondo. Tutto ciò mette in evidenza un’altra
categoria del suo pensiero musicale: il contrasto. L’Appassionata (Sonata op.57) inizia proprio con
una successione di gesti, di elementi musicali che grazie alla loro differenziazione avviano il
processo musicale.
L’aspetto più noto del linguaggio musicale beethoviano è la cosiddetta elaborazione motivica. Il
modo in cui egli costruisce molte delle sue composizioni partendo dall’elaborazione di gruppi di
tre, quattro, cinque note che si presentano nelle forme più varie. Molti dei temi beethoviani non si
presentano come avvincenti, ma ciò che conta è la loro possibilità di elaborazione. La teoria dice
che un tema deve essere costruito in maniera tale da poter essere frammentato in motivi. Nelle
opere di Beethoven i motivi non sono semplicemente elaborati, ma cambiano funzione dando di
volta in volta un significato diverso. Le stesse quattro note possono presentarsi sotto forma di
tema, di accompagnamento, di gesto introduttivo o di elemento di chiusa. Abbiamo ancora il
concetto di forma come processo. L’elaborazione motivica della sonata Les Adieux è uno degli
esempi più illuminanti. La sonata f scritta fra il 1809 e il 1810 e prende spunto dall’allontanamento
della nobiltà di Vienna dalla città in seguito al bombardamento francese. Il motivo di base del
primo movimento è costituito dalle tre note discendenti Sol-Fa-Mib, sulle quali il compositore
scrive le tre sillabe che compongono la parola addio (Le-be-wohl). Quindi il brano si apre con un
motivo che è un vero e proprio topos. Lo stesso secondo tema è costituito dal motivo, trasposto
dalla dominante (Re-Do-Sib). Lo sviluppo presenta poi un altro procedimento tipico beethoviano:
la “riduzione del motivo” che passa da tre note, a due e infine a una sola nota ripetuta. Infine nella
coda prima il motivo si presenta isolato e infine diviso.
La forma sonata è logica. Nel brano succede qualcosa, i materiali musicali si trasformano mano a
mano. La forma-sonata è quindi un processo. Il potenziale drammatico in questa forma viene
sfruttato a pieno da Beethoven.
Le ultime opere di Beethoven vanno dal 1817 alla morte e sono considerate una fase a sé. Nel
corso dell’800 queste opere sono state spesso considerate incomprensibili. L’individualità del
singolo componimento si fa ancora più accentuata. Gli ultimi quartetti per archi costituiscono l
corpus più complesso e di questa fase. L’inizio del terzo stile si ha però con le cinque sonate per
pianoforte. Il movimento iniziale, in quattro casi su cinque, è contratto e sintetico. La contrazione
non riguarda però l’estensione delle sonate di per sé, che si presentano infatti tutt’altro che
ridotte. In queste sonate mancano quasi del tutto grandi gesti enfatici, dirompenti, tipici dello stile
eroico. Manca anche quel senso di movimento, di tensione che si accumula verso un punto
risolutivo. Altro elemento di novità è che sempre quattro composizioni su cinque non si
presentano suddivise in quattro movimenti e assumono ruolo centrale fuga e contrappunto, due
tecniche solitamente estranee alla sonata.
Se le opere del periodo eroico sembrano un processo indirizzato verso una meta, quelle del
periodo tardo si muovono in uno spazio circolare. Ciò che attraeva Beethoven nella fuga e
contrappunto è probabilmente il fatto che rappresentassero un’alternativa alla tecnica di sviluppo
ed elaborazione motivica. Veniva così meno quel senso di movimento dinamico, ma non la
drammaticità delle opere. L’altra tecnica che Beethoven usa nelle ultime composizioni è la
variazione, non a caso un’altra tecnica che dà vita e forme simmetriche e circolari. La variazione è
per certi versi antitetica rispetto all’elaborazione motivica: in quest’ultima vi è una progressione
lineare del tempo, nella prima invece il tempo si arresta e si avvia una riflessione sul materiale
musicale che porta costantemente a modificare il tema. Ciò nonostante, le variazioni di Beethoven
tendono comunque a contrastare questa loro natura statica, attraverso accelerazioni ritmiche. Le
variazioni Diabelli ci mostrano l’idea rivoluzionaria del compositore, nel voler scrivere 33 brani
diversi fra loro che risuonano però con lo stesso schema di base.

5. L’opera italiana nel primo 800

Nei decenni iniziali dell’800 il melodramma rimase il genere più importante sia della musica che
del teatro. D’altro canto, la musica strumentale vide crescere il suo prestigio artistico e diffusione
sociale. In Italia tuttavia, l’opera in musica era ritenuta il genere più prestigioso. Il fatto che il
melodramma fosse un’invenzione italiana e che continuasse ad avere diffusione all’estero, ne
faceva l’espressione principe della cultura italiana. Nel 700 l’architettura teatrale aveva avuto
un’importante fioritura in Italia, con l’affermazione della sala detta “all’italiana”. Si ricordano il San
Carlo di Napoli, il teatro alla Scala di Milano, La Fenice a Venezia. L’arrivo di Napoleone in Italia nel
1796 diede un primo impulso alla promozione del teatro come luogo di formazione. Il passaggio
alla fase della Restaurazione determinò ancora un aumento della costruzione di nuovi teatri. La
loro distribuzione sul territorio era però disomogenea. Non si trovano infatti nei centri laziali, sardi
e tutti quelli che appartenevano al Regno di Napoli tranne Sicilia e Puglia. Vi erano poi teatri che
commissionavano direttamente opere e quelli che invece le replicavano in un secondo momento.
Le rappresentazioni operistiche non erano distribuite equamente, ma erano raggruppate nelle
cosiddette stagioni: vi erano quella di carnevale, di primavera, di giugno/luglio in occasione di fiere
agricole, di autunno. L’impresario era la figura fondamentale del sistema produttivo
melodrammatico. Egli prendeva in appalto il teatro dai proprietari e organizzava la produzione per
una o più stagioni (con almeno due titoli a stagione). Nei teatri maggiori si metteva sotto contratto
un compositore e un librettista. Il numero di rappresentazioni variava dall’apprezzamento del
pubblico. Tra gli impresari più celebri si ricorda Domenico Barbaja, che operò a Napoli e a Milano.
Un’altra figura che segnò la produzione operistica del periodo fu Alessandro Lanara, legato alla
Pergola di Firenze e Bartolomeo Merelli alla Scala di Milano.
Una decisione fondamentale sulla riuscita di una stagione era quali cantanti scritturare. Se si
trattava di mettere in scena un’opera nuova anche compositore e librettista avevano voce in
capitolo. Il pubblico di primo 800 andava a teatro principalmente per vedere i cantanti e nel
giudicarli si prestava attenzione tanto alla recitazione quanto alla vocalità. Isabella Colbran,
soprano spagnolo, era famosa come interprete di parti regali e fu primadonna al teatro San Carlo e
legata sentimentalmente prima a Barbaja e poi al compositore Rossini. Giuditta Pasta non aveva
una bellissima voce ma un’ottima estensione oltre che delle straordinarie capacità interpretative.
Giovanni Battista Rubini, tenore, è legato soprattutto alle opere di Bellini ed era famoso per il
timbro dolcissimo, elegante e morbido. Fino ad allora la tradizione melodrammatica italiana era
dominata dai soprani, ma nel giro di poco fu data maggiore considerazione ai tenori. Questo
perché incarnavano meglio la nuova concezione dell’ideale maschile che caratterizza la modernità.
Nei primi due secoli di storia dell’opera italiana, il genere si era diffuso fuori dai teatri prima di
tutto attraverso il libretto a stampa. Ma aver accesso alla musica d’opera importava più che altro
ai compositori, cantanti e strumentisti. Nell’800 invece si iniziò a mettere in vendita la musica
stampata. Questo fenomeno è legato alla diffusione del pianoforte come strumento principe
dell’attività musicale privata, strumento che non poteva mancare nei salotti degli aristocratici, con
il quale intrattenevano ospiti. Saperlo suonare era un segno di distinzione culturale. Il protagonista
della diffusione della musica operistica fu Giovanni Ricordi. Dapprima violinista, iniziò l’attività di
copista a Milano nel 1803 e nel 1808 divenne editore di musica fino a diventare nel 1811
stampatore ufficiale del conservatorio della sua città. Grazie ad accordi con editori di altre città, la
ditta Ricordi si affermò in tutta Italia.
Milano fu nell’800 un centro importante di produzione e consumo operistico, oltre che dal punto
di vista della stampa periodica. Sul finire del 700 si potevano leggere notizie operistiche in giornali
generalisti e l’attenzione era rivolta quasi del tutto alla rappresentazione, mentre di parole e
musica non si discuteva. Nel 1804 nascono due periodici che riservano attenzione al melodramma:
il Giornale italiano e il Corriere delle dame. Il primo, tri settimanale, era l’organo ufficiale del
governo, mentre il secondo, pubblicato ogni cinque giorni, si rivolgeva ad un pubblico femminile.
In questi giornali le recensioni, più lunghe, affrontano anche parole e musica delle opere. Nasce
sempre in questo periodo la stampa specializzata. I giornali teatrali si occupavano di melodramma
principalmente.
Nel primo 800 nasce il repertorio. La possibilità di rivedere più volte la stessa opera a distanza di
anni fu la svolta del nuovo secolo. Questo fenomeno è legato al successo delle opere di Rossini tra
1810 e 1823. La prima opera ad essere rappresentata con regolarità e frequenza è il barbiere di
Siviglia.
Già dalla fine del 700 l’autore di un’opera era considerato in primo luogo il librettista, mentre il
compositore rivestiva di note il dramma. Il termine librettista non esisteva, si parlava di poeta.
Questo termine emerse all’inizio dell’800 ma aveva intento spregiativo inizialmente, che indicava
chi metteva insieme versi sgraziati. Già dalla fine del 700 il librettista lavorava con il compositore
nella stesura del testo. La maggior parte delle opere di Rossini hanno libretti originali e nessuno di
questi fu mai reimpiegato da altri compositori, cosa che invece accadeva spesso nei decenni
passati. Tale cambiamento è legato al dominio che le opere di Rossini ebbero sui palcoscenici
italiani. Nel terzo decennio del secolo più del 40% dei titoli rappresentati erano di Rossini. Altri
compositori del periodo sono Donizetti e Bellini.
Il più famoso librettista italiano di primo 800 è Felice Romani che scrisse quasi tutti i libretti di
Rossini per Milano. Il musicista con cui però stabilì maggiore intesa fu Bellini. Cammarano fu poi
un importante librettista amato particolarmente da Donizetti.
Le scene delle opere dovevano coinvolgere lo spettatore. Lo scenografo più noto dell’epoca fu
Sanquirico. La sua fama fu dovuta anche alla pubblicazione di immagini delle scene ritenute più
belle per gli allestimenti operistici milanesi.
In questo periodo l’opera italiana era articolata in opera seria, opera semiseria e opera buffa, in
ordine gerarchico. L’appartenenza di genere di ogni opera era solitamente chiara a tutti per via del
sottotitolo presente nel libretto a stampa. Nell’800 si affermò il finale tragico, diventano a partire
dagli anni ’20 praticamente d’obbligo.
L’opera è suddivisa in primo luogo in atti, solitamente due o tre. Questi sono a loro volta composti
da numeri (arie, duetti, terzetti, cori). Le arie, pezzi solistici, possono a loro volta avere nomi
specifici (cavatina, quella di uscita di scena). Molte opere sono precedute da un pezzo puramente
strumentale, la cosiddetta “sinfonia”, seguita da un numero chiamato “introduzione”, il numero
più esteso è il “finale centrale”, posto alla fine del penultimo atto, in cui s trovano in scena nello
stesso momento personaggi principali e coro in un momento di massima complicazione narrativa
ed emotiva. Ogni numero è articolato in sezioni o movimenti che possono essere cinetici o statici.
L’opera di primo 800 manifesta una forte differenza fra tempo rappresentato e tempo della
rappresentazione. Nelle sezioni cinetiche il tempo della rappresentazione si avvicina a quello
rappresentato. L’ultimo movimento deve essere più veloce di quelli che vengono prima in modo
da aumentare la tensione drammatica. Le arie sono i numeri con minor numero di movimenti.
Solitamente ne hanno tre, mentre il finale centrale e quello composto da più movimenti che
arrivano fino ad otto. I movimenti cinetici hanno solitamente forme meno prevedibili di quelli
statici, più regolari. La forma lirica è un tipo di movimento statico che ritroviamo ad esempio nel
prologo della Lucrezia Borgia di Donizetti. Qui abbiamo una melodia strutturata in quattro sezioni
da quattro battute ciascuna, A A’ B A’’, in cui A è esposizione di un’idea musicale, A’ sua ripresa
variata, B introduzione di materiale diverso, A’’ ripresa diversamente variata dell’idea iniziale. La
forma lirica è la soluzione strutturale più frequente per movimenti statici di arie e duetti nell’opera
italiana.
L’opera buffa mette in scena amori contrastati da conflitti di generazione e/o di classe. Il suo
prestigio diminuì con il passare dei decenni. L’opera semiseria mette in scena una visione ingenua
e ottimista dei rapporti umani, con tono più realistico e sentimentale dell’opera buffa. L’opera
seria fu quella che acquistò un predominio estetico e numerico. La pazzia, specialmente
femminile, è tema ricorrente. Esse impazziscono perché schiacciate da strutture sociali e pressioni
psicologiche. Gli uomini sono di solito più razionali, ma anch’essi sono sconfitti dalla vita. Se
guardiamo ai modi, Rossini causò un sabotaggio della funzione significante della parola, ad
esempio facendo cantare ai personaggi la loro tristezza su allegri ritmi di valzer. Donizetti e Bellini
cercarono invece di far combaciare maggiormente più strettamente testo verbale e musica.

6. Musica non operistica nell’800

Secondo alcuni principi dell’arte romantica, individualismo, originalità, ogni opera è difficilmente
riconducibile in una cornice comune. Ma se nell’800 ogni composizione vuole essere originale e
unica, al tempo stesso vive in una dimensione storica. Gli storici affrontano questa contraddizione.
Wilhelm con Humboldt pone le idee al centro della storia: per lui la sostanza storica non è
costituita da accadimenti ma da grandi idee portate avanti da brandi individualità. Ma raccontare
la musica romantica per opere, autori e stili non è semplice. Questo perché la storiografia musicale
ha posto come elementi di indagine anche costruzioni identitarie di genere e classe. Si possono
individuare a tal proposito due tipi di storiografie musicali: una monodimensionale, fatta di autori,
opere, stili e tecniche e una pluridimensionale fatta di pratiche sociali e comportamenti. Con
l’indirizzo pluridimensionale tende perciò a scomparire il concetto di musica romantica in favore di
musica dell’800, che indica una musica che non può ridursi ai concetti di individualismo e unicità,
ma anche ad altri principi che hanno avuto la stessa rilevanza. Si possono riassumere alcune
tendenze che attraversano tutto il secolo:
1. Democratizzazione della cultura e della musica fino al 1850, mentre dal 1860 si va verso
una nuova elitarizzazione della musica strumentale d’arte.
2. Diffusione della cultura del concerto pubblico.
3. Distinzione del campo concettuale “musica” in più livelli estetici.
4. Commercializzazione vs autonomizzazione della musica.
5. Professionalizzazione della musica e divisione del lavoro musicale (diffusione bande).
6. Storicismo idealista volto al progresso nella prima metà del secolo e inversione di tendenza
nella seconda metà, con concezione della storia come recupero del passato.
7. Affermazione della mentalità storicistica nella pratica e teoria musicale: formazione di un
repertorio storico.
Secondo Adolf Bernhard Marx, l’unità della storia è garantita dalla figura di Beethoven, come
vertice dello sviluppo storico, e su questa centralità trasferisce nella storia della musica i
fondamenti dello storicismo idealistico (unità e unicità, grandi idee e grandi individualità). Secondo
Koselleck la storia è un concetto moderno che si forma fra Rivoluzione francese e positivismo
(1790-1830), che corrisponde al periodo in cui si colloca la musica romantica e tardoromantica da
Schubert a Mahler. Koselleck aggiunge al concetto di storia la percezione del presente come
movimento fra passato e futuro, secondo lui caratteristica della borghesia colta mediottocentesca.
Aggiunge poi il principio di unicità: ogni esperienza storica nell’età romantica è concepita come
unicum irripetibile. Il risultato è un rallentamento nelle produzioni dei compositori del periodo. Ma
d’altra parte l’800 ha anche prodotto molta musica che non è entrata nel canone perché non
rispondeva a quei principi di unicità e si rivolgeva invece al consumo immediato. Dal 1850 lo
scenario cambia e viene superato il nuovo concetto di storia. Brahms incarna questo nuovo ideale
basato sul conservatorismo, della tradizione puramente germanica. Si presenta la tradizione come
eterno presente. Il principio non è più il progresso con per Schumann e Liszt, ma il valore estetico
sovratemporale. È la fine di quello che gli storici chiamano liberalismo classico. L’unicità della
musica scompare, per far spazio ad un universo musicale diviso in molti aggettivi. Abbiamo così
una musica romantica, classica, assoluta, a programma, poetica, ideale, filosofica. Il bisogno di
distinguere i livelli musicali è conseguente all’aumento del numero di ascoltatori, esecutori e
compositori. Si divide il campo fra musica d’arte e non. Si cerca di differenziare la musica d’arte da
quella di livello inferiore. Marx divide la musica virtuosistica descrittiva da quella assoluta, in cui la
prima rappresenta un livello inferiore. Hanslick invece ritiene simmetrie e ordine interni alle
composizioni il tratto distintivo del livello d’arte. La musica romantica impone un ascolto non
distratto, esclusivo. La definizione di musica classica è entrata in circolo nell’800. Costituisce un
repertorio di capolavori che la musica romantica cerca di rinnovare. La musica romantica è anche
oggetto di riflessione filosofica. Hegel nell’Estetica propone la tripartizione tra arte simbolica,
classica e romantica assegnando alla musica posizione centrale in quest’ultima categoria. Secondo
lui nell’arte romantica il contenuto spirituale non si esaurisce nella forma esteriore, per cui
un’opera d’arte è aperta all’eterna continuazione.
Il concetto di musica assoluta si sviluppa in ambito germanico e nasconde due accezioni distinte:
1. È assoluta quella musica che nasce libera nelle forme e nei contenuti dal rapporto con il
testo poetico o con altri vincoli descrittivi.
2. La musica assoluta non è imitazione di fenomeni, non ha un contenuto attingibile dalla
realtà fenomenica.
Il sintagma musica assoluta è introdotto da Wagner nella recensione alla nona sinfonia
beethoviana, in merito alla quale chiarisce che la musica assoluta è un ostacolo alla realizzazione
dell’opera d’arte totale perché separata dalle parole ma musica autonoma è vuota di senso. qui di
Beethoven avrebbe commesso un errore nelle prime otto sinfonie, ma non nella nona con la
reintroduzione delle parole. Ma anni dopo Wagner giunge ad una posizione assolutista,
considerando la musica come autosufficiente. Questo tipo di musica deve combattere contro
l’influenza del nuovo mercato legato a tecniche imprenditoriali, contro l’incidenza del nuovo
consumatore di musica, contro l’incidenza del positivismo.
Si parla poi di musica a programma o programmatica e il prodotto più rappresentativo di questa
concezione è il poema sinfonico, termine e genere inaugurati da Franz Liszt nel 1849, quando
abbandona l’attività sistematica di pianista concertista per ritirarsi a Weimar. La concezione della
musica a programma parte dalla convinzione che la struttura musicale si possa comunicare meglio
fornendo all’ascolto una traccia narrativa o una serie di analogie pittorico-visuali. L’idea del poema
sinfonico è che la musica abbia un contenuto spirituale manifestato attraverso la struttura della
composizione, mentre il programma è una delle possibili tracce che consentono la verbalizzazione
di ciò che è realizzato a livello sonoro.
La musica ben scritta secondo le regole o secondo la funzione occasionale viene screditata come
musica da maestro di cappella, perché risponde a principi non assoluti ma pratici. È triviale poi
quel tipo di produzione che non richiede un tipo di ascolto attento.
Dopo gli aggettivi, parliamo ora dei sostantivi che sono entrati nel discorso musicale: ironia, humor
(umoristico), witz (estro), riflessione. Ancor oggi vige il luogo comune che il romantico sia
esaltazione incontrollata, invece per la maggior parte degli artisti romantici vale il discorso
opposto. Ironia, humor e witz sono atteggiamenti di autocontrollo che favoriscono la riflessione.
Ironia qui non indica lo scherzoso, ma uno strumento di autoconsapevolezza dell’artista.
Schlegel è il teorico del frammentismo romantico e sperimenta un modo di esporre il pensiero per
illuminazioni, tessere di un mosaico, quello che lui chiama sistema di frammenti. Dopo il 1830 la
poetica del frammentismo trova applicazione anche nella musica. Frammento e aforisma sono
solo apparentemente sinonimici. L’aforisma è un’illuminazione che in sé contiene una verità
intuita e immediatamente espressa. L’aforisma è la negazione del pensiero sistematico. Al
contrario il frammento è ciò che resta di un intero e in sé non contiene nulla di compiuto. Il
frammento necessita di legarsi ad altri pezzi. Schumann, Chopin e Liszt scrivono diverse raccolte di
pezzi brevi.
Victor Hugo introduce il concetto di brutto e grottesco nel secolo romantico, categorie che hanno
poi una diffusione sovranazionale, arrivando anche a Verdi (ad esempio nel Rigoletto).il brutto si
trova anche nella musica non teatrale, strumentale. Schumann lo usa per creare un contrasto
umoristico con le parti più sognanti. L’origine del grottesco è letterario-filosofica. Il genio grottesco
è Shakespeare. Hoffmann inventò il personaggio grottesco del musicista Kreisler, protagonista di
diversi suoi racconti. Quando si esibiva al pianoforte Kreisler portava i suoi spettatori alla
commozione più alta, per chiudere poi in modo stridente il pianoforte. Ecco il contrasto, l’ironia
che Schumann tradusse per primo nelle sue composizioni. Schlegel afferma che il principio
dell’arte moderna non è il bello ma l’interessante. L’arte romantica è sempre incompiuta e
sollecita l’interesse e la partecipazione dello spettatore, senza la quale risulterebbe incompiuta.
Con tutti questi principi estetici l’artista si trova davanti al problema della forma e dello stile. Ogni
composizione deve avere la sua forma. Ancor più incisivo è il problema dello stile personale. Prima
con stile si intendeva ad esempio quello da chiesa. Ora invece con stile ci si riferisce all’impronta
distintiva di ciascun autore. Schumann porta vanti l’idea di una musica che si opponga al presente,
attraverso il gruppo d’avanguardia che lui chiama Davidsbund (lega dei fratelli di Davide). L’idea
che esista una musica non destinata all’intera umanità, maa una cerchia eletta per naturale
predisposizione è tipica della cultura tedesca. Wagner quando termina il suo Tristan, pensa che
l’opera sia ineseguibile è che la apprenderanno solo in pochi. Mahler non oensa di comporre per
un pubblico che lo acclama come direttore, ma per un tempo futuro che verrà molto dopo la sua
morte.
Il superamento della dimensione superficiale, in favore della profondità, attingibile solo
dall’intelletto è un altro principio dell’arte romantica. Musica da interpretare (ermeneutica) e
musica da studiare (analisi) sono due nuovi approcci ala musica “profonda”. La nuova estetica
romantica è basata sul rifiuto del principio di imitazione: l’arte non ritrae questo mondo, ma parla
di altri contenuti, porta a manifestazione il mondo delle idee. Per questo la musica strumentale
passa dall’ultimo posto della gerarchia che occupava nel 700, al primo. Si parla così nell’800 più
che di estetica della musica, di filosofia della musica.
Il rapporto fra musica e società, muta con lo sviluppo demografico del primo 800, legato
all’affermazione delle classi medio-borghesi. Inizia la pratica del concerto pubblico a pagamento, la
cosiddetta età del concerto, in cui vi è un grande giro di affari legato alla commercializzazione della
musica. Si tratta di una delle grandi contraddizioni del secolo romantico, che da una parte
promuove la musica assoluta e dall’altra commercializza un altro tipo di musica. Si possono
distinguere tre tipologie di concerto:
1. Istituzione fissa, cioè società concertistica guidata da professionisti.
2. Concerti a beneficio, ossia organizzati direttamente dal musicista spesso rischiando in
proprio.
3. Concerti organizzati da associazioni amatoriali.
Dopo la metà del secolo si sviluppano altre forme di concerto, caratterizzate dal repertorio e
dall’uditorio a cui si rivolgono: il concerto popolare e quello storico. Il primo si caratterizza per un
prezzo del biglietto ridotto e per un repertorio che comprende sinfonismo storico di repertorio,
sinfonismo più leggero e attualità anche di grande impegno. Il concerto storico invece prevede
classici passati a discapito delle novità. Oltre a queste forme di concerto tradizionale esistono poi
occasioni di ascolto effimero come le sale da ballo a Vienna.
Nei decenni centrali del secolo, alcune grandi orchestre europee gestite da organi istituzionalizzati,
hanno determinato la selezione del repertorio di capolavori da rieseguire. Si è così imposto il
canone sinfonico ancor oggi conosciuto. Questa restrizione del canone sul concetto di classico
determina una egemonia culturale, con crescente limitazione e uniformità di repertorio. In questi
anni nasce il concetto di orchestra sinfonica, che indica un ampliamento degli organici che va di
pari passo con il miglioramento della tecnica di costruzione degli strumenti.
A Parigi inizia il moderno recital pianistico. Nel 1828 arriva Liszt, nel 1832 Paganini e nel 1836
Thalberg, tutti e tre grandi pianisti. Loro iniziano il nuovo concerto virtuosistico che si basa su un
rapporto di fascinazione tra musicista e uditore. Liszt è l’iniziatore del moderno recital per
pianoforte solo, presentandosi da solo come uomo-orchestra che si identifica con le figure di eroi
create dalla letteratura e con il concertista imprenditore affermato nel nuovo mercato. Il successo
della figura del virtuoso si strumento in età romantica fa leva sulla componente visuale, sulla
presenza fisica, un dominatore di suoni con un corpo concreto e visibile che nell’esibizione porta
una gestualità quasi teatrale. Se da una parte abbiamo la virilizzazione del virtuoso, dall’altra
abbiamo una femminilizzazione dell’uditorio. Il concerto storico invece resta una pratica
puramente intellettuale.
Dopo gli anni ’30 e ’70, due fasi di benessere, gli editori arrivano a numeri altissimi di nuove
pubblicazioni. Si tratta di lavori adeguati allo smercio immediato.
Un nuovo mestiere della musica è quello del critico specializzato. Il tono della critica ottocentesca
è retorico, formale e polemico, il che espone il giornalista a dispute. Per tutti questi motivi il
giornalismo esclude le donne, cosa singolare dato che il destinatario sono proprio principalmente
lettrici. In questo secolo pe testate portano la firma, il nome del giornalista, che diventa tanto
importante quanto il soggetto della recensione nell’orientare le attese del pubblico. Nella Parigi
borghese la stampa specializzata ha particolare espansione nel 1833-34 quando Luigi Filippo
consentì, per poi abolirla nuovamente nel 35, la libertà di stampa. Nascono in questo periodo
numerosi giornali musicali, sia di natura ibrida che più settorializzati.
La professione del musicista cambia radicalmente attraverso il secolo romantico. Uno strumentista
si forma perlopiù in scuole musicali. Il corso di studi prepara a una professione, a fornire
strumentisti per le orchestre e bande della nazione. In questo secolo proliferano i metodi, cioè libri
che insegnano l’esecuzione strumentale. Per il solista di strumento le cose possono essere diverse.
Paganini, il più grande violinista italiano, è autodidatta. Tuttavia Liszt, Thalberg e Chopin crescono
come autodidatti e sentono poi il bisogno di formare allievi e istituire scuole. Per il compositore il
discorso è più complesso. Egli cerca la propria strada fuori dalla scuola, formandosi come
autodidatta. Ma dopo la metà del secolo anche in questo settore si avvia un processo di
regolarizzazione degli studi. Il modello formativo moderno è ancora quello del Conservatoire de
Paris (del 1795) che nasce dallo spirito democratico post rivoluzionario: il musicista è un cittadino
che assume una funzione sociale precisa e il ruolo del Conservatoire è di fornire personale ai teatri
della capitale e creare altri docenti che espandano il modello centrale su tutto il territorio
francese. Se si crede che il musicista svolga un’utilità sociale, lo Stato deve garantire la funzionalità
dell’istituzione didattica. Il modello viene replicato a Milano e Bruxelles e nella seconda metà del
secolo fra le materie insegnate nei conservatori entrano anche la storia e l’estetica della musica.
L’800 vede anche figure professionali minori come il maestro delle filarmoniche di provincia
(bande) che doveva insegnare ogni strumento (perlopiù a fiato) e le basi della grammatica
musicale oltre che dirigere la banda. Nelle grandi metropoli si diffonde invece la figura del maestro
di musica privato, già presente nella vita della casa aristocratica di ancien regime, che ora si rivolge
alle famiglie delle classi medie. La figura del direttore d’orchestra è tipicamente ottocentesca. Data
la sacralità dell’estetica musicale romantica, egli rappresenta il sacerdote musicale e l’abito nero
rimanda a questa vocazione spirituale. Questa nuova figura rappresenta anche il nuovo culto
borghese dell’individualità. A lungo la direzione non ha una didattica, essendo considerata una
vocazione ed è il solo ruolo musicale in cui non ci sia alcuna donna, neppure a livello amatoriale. La
moderna arte direttoriale ha almeno tre aspetti radicati nella cultura ottocentesca:
1. Rapporto con il compositore nel cercare di interpretarne le intenzioni.
2. Rapporto con l’orchestra.
3. Rapporto con il pubblico e la capacità di colpire anche visivamente.
Habeneck rappresenta il prototipo del direttore d’orchestra.
Cambia in questo secolo anche il modo di comporre musica. Nel produrre musica d’arte il
compositore non segue modelli né la semplice ispirazione. Egli non sa dove il suo comporre lo
porterà. Questo genera un modo di comporre a strati, il compositore porta avanti l’opera in fasi
progressive, attraverso tentativi. È quello che gli storici definiscono processo creativo. Brahms ad
esempio distruggeva i suoi materiali preparatori, perché nella sua estetica di forma perfetta non
potevano sopravvivere fasi preparatorie. Chopin invece realizzava anche versioni multiple della
stessa opera per poterla vendere contemporaneamente a più editori di nazioni diverse. Liszt
sembra girare intorno ad alcune composizioni, rivedendole per tutta la vita. Anche in questo caso
abbiamo delle versioni multiple della stessa opera, principio che apparentemente contrasta con
l’unicità dell’opera ma che invece lo rafforza, perché va considerata l’intenzione dell’autore nel
comunicare un certo ideale unico. Diverso è il discorso per la musica per il consumo, come la
produzione di Emile Prudent, che difficilmente aveva bisogno di schizzi.
I generi centrali nella nuova cultura sono la composizione sinfonica, l’oratorio, la musica da
camera. I due generi che più si distinguono in questo secolo sono il lied romantico e la musica per
pianoforte, che spesso vengono raccolti in cicli. Questa differenza fra forma organica (sonata,
sinfonia) e forma episodica (lied, musica per pianoforte) è il parallelo musicale della distinzione in
filosofia del pensiero sistematico-dialettico di Hegel e quello del sistema di frammenti di Schlegel.
Il lied (canto) era originariamente un genere popolare tedesco. Il lied romantico si estende dal 700
al 900 ed è una lirica per voce e pianoforte su testo prevalentemente tedesco dotato di autonomia
estetica. Schumann indica nei fondamenti del lied romantico:
1. Abbandono della semplicità del 700.
2. Importanza della parte pianistica.
3. Scelta di testi poetici di valore.
4. Sviluppo del lied nella direzione della musica assoluta.
L’austriaco Schubert è un compositore spartiacque nella storia del lied romantico. Dopo di lui
Schumann investe tutto il genere di un’importanza pari alla sonata o alla sinfonia. Sono cinque gli
aspetti del moderno lied che Schubert trasmette ai posteri:
1. Utilizzo dei massimi poeti tedeschi.
2. Declamazione intonata, più prossima alla recitazione per l’attenzione data al testo.
3. Importanza del pianoforte.
4. Soggettivismo nella scelta di correlativi oggettivi che sono espressioni liriche del
compositore.
5. Sistemazione in cicli di Lieder.
Nel lied Der Doppelganger, abbiamo l’immagine di un’ossessione che annulla gli impulsi vitali. La
declamazione è appena intonata, fissa sulla sulla stessa nota, con fissità data anche dal basso
ostinato, procedimento che ricorda quello della passacaglia (ripetizione seriale di una stessa liena
o sequenza armonica). Quando l’io lirico si rivolge al suo doppio il procedimento di passacglia
viene rotto dal cromatismo di armonie discendenti. L’io lirico però non trova la sua strada e il lied
termina con una tonalità ambigua.
Schumann nella sua attività giornalistica non parla mai dei lied di Schubert perché considera il
genere radicato nella cultura tedesca. Egli si differenzia dal lied viennese per un più incisivo
intervento sui testi poetici e per un diverso ruolo del pianoforte, che può dilungarsi in preludi,
interludi e postludi.
Nella ballata di Suleika di Schumann su testo di Goethe, egli modifica il testo per svilupparne
musicalmente i contenuti. Il testo originale è bipartito (due quartine ripetute): l’io celebra la
fedeltà dell’amore nei primi otto versi, mentre gli altri otto sono il dialogo con il proprio cuore.
Schumann genera una ciclicità non prevista da Goethe, ripetendo la quartina iniziale al termine. Il
lied risale all’anno del matrimonio tanto atteso da Schumann che realizza questo contenuto
autobiografico attraverso due livelli: la struttura armonica, in cui le tre strofe melodiche terminano
con cadenza sospesa tranne l’ultima che giunge a cadenza perfetta quando nel testo si raggiunge
la meta tanto attesa; il tema ricorrente che dopo sei apparizioni torna nella coda pianistica, che
spesso in Schumann contiene il significato del lied. Qui riporta l’immagine della sua amata.
La musica per pianoforte solo rappresenta il secolo romantico. Nella musica pianistica possiamo
rintracciare una forma che rimanda alla tradizione della sonata e un’altra forma che rimanda al
frammento romantico teorizzato da Schlegel. Il pianoforte ha acquisto la sua importanza in età
romantica anche per la sua collocazione domestica, posto al centro della mentalità borghese.
Chopin è il testimone più rappresentativo del pianoforte romantico. Non mostra aspetti di
avanguardia, non conquista un uditorio femminile con tratti di virilità (Liszt, Wagner), né lo
colpisce con l’ironia (Schumann, Berlioz), ma la sua musica rappresenta un forte fenomeno di
rinnovamento. Fra i generi che pratica, il valzer sembra essere il più consumistico. Ma qui siamo
distanti dalla sua funzione d’uso originaria, nella danza, perché siamo nel campo della musica
assoluta. Chopin ha particolare interesse per il timbro assoluto, espressione immediata, non
grammaticalizzata. La sua armonia unisce i registri grave e medio, con largo impiego del pedale di
risonanza. Il tutto determina la profondità della sua melodia immediatamente riconoscibile.
Brahms a Vienna è invece il maggior esponente della musica privata e borghese cameristica. Da un
la musica cameristica risponde alle esigenze culturali della borghesia colta, perché attività
intellettuale non finalizzata al guadagno; dall’altro è in opposizione alle esigenze economiche di
quella stessa mentalità borghese. Qui di è al tempo stesso borghese e antiborghese. Quando
compare anche il pianoforte in questo ambito, la situazione cambia, perché diventa tutto più
concertante, pubblico. La musica cameristica di Brahms è l’elemento rappresentativo della
corrente conservatrice, opposta a Wagner e Liszt che la considerano antiquata e non in grado di
creare progresso. Schumann la ritiene un genere meno soggettivo rispetto al pianoforte solo.
D’altra parte il quintetto offre soluzioni diverse come il cosiddetto impianto ciclico che Schumann
impiega in tutte le sue sinfonie. Consiste nel dedurre un tema un altro precedente, legando a
questa derivazione altre parti dell’organismo complessivo. Brahms rende poi più sistematica
questa tecnica che poi Schonberg chiamerà variazione-sviluppo. Essa consiste nel derivare da un
minimo segmento, un’ampia sezione o anche un intero movimento.
Carl Dahlhaus definisce la sinfonia dopo Beethoven un problema storiografico per la presenza di
quel monumentale modello. La composizione sinfonica post Beethoven si può suddividere in tre
momenti:
1. Sinfonia romantica strettamente intesa (Schumann, Berlioz) 1830-50
2. Poema sinfonico e musica a programma (Liszt, strauss) 1850-900
3. Seconda fioritura della sinfonia (Brahms, Mahler) 1875-900
L’imperativo è andare oltre Beethoven. Un esempio si ritrova nel movimento iniziale della prima
sinfonia di Schumann op.38 in Sib maggiore. Abbiamo introduzione lenta, poi l’allegro con i due
canonici temi contrastanti. Fin qui tutto nella norma. Ma nella ricapitolazione dei temi, il primo
tema risuona nella sua forma dell’introduzione lenta, fortissimo e maestoso, non piano e rapido
come nell’avvio dell’allegro. Ci si chiede quindi se il tema principale fosse quello dell’introduzione.
Il fortissimo però si interrompe di colpo e riprende in piano il tema dell’allegro. Qui il
rinnovamento è contradditorio e ambiguo.
Altrettanto rappresentativo è il problema della sinfonia di Berlioz della Symphonie fantastique. In
questo lavoro troviamo:
1. Ciclicità del materiale motivico, stesso impianto ciclico presente in Schumann.
2. Lunghezza del tema, che Berlioz chiama idée fixe (identità riconoscibile). Ne scrive uno dei
più lunghi del repertorio.
3. La sinfonia diventa una narrazione in prima persona.
La quarta sinfonia di Mendelssohn (1851) e la quarta sinfonia di Schumann (1853) concludono la
prima fase post-beethoviana. Si verifica un cambio di orientamento rappresentato dal poema
sinfonico. Negli in cui Liszt risiede a Weimar compone 12 poemi sinfonici, che dirige davanti ad un
élite d’avanguardia. Propone una musica recentissima, a contrario di Brahms che invece a Vienna
compone sinfonie legate alla musica del passato per una classe medio-alta. Liszt segue i principi
dell’estetica neo tedesca, secondo cui il progresso bloccato del sinfonismo può ripartire solo con la
soluzione poetica. Nel “Tasso. Lamento e trionfo”, quasi venti minuti di musica scaturiscono da un
solo motivo d’origine. È una tecnica di deduzione motivica, non del tutto diversa dalla variazione-
sviluppo di Brahms, ma due cose la distinguono:
1. Liszt collega i temi iniziali a riferimenti intertestuali, attribuendo a ciascun tema un diverso
livello di significato, ciò che Brahms e Hanslick non volevano.
2. Liszt non costruisce il discorso musicale con frasi, periodi e sezioni intesi come parte di una
struttura, ma concepisce la linea complessiva come una prosa musicale.
Brahms compone le sue sinfonie in un contesto completamente diverso. Egli compone per un
ascoltatore educato sul canone sinfonico storico (Beethoven, Schubert, Mendelssohn, Schumann)
ma è anche dotato di conoscenze di musica da camera. La tecnica di variazione-sviluppo che già si
trovava nella musica cameristica diviene ora la principale tecnica di costruzione anche nel
sinfonismo. La deduzione logica dell’intero organismo musicale da un semplice motivo è stata letta
come la proiezione della morale del lavoro, il principio della nuova borghesia imprenditoriale
germanica. Un indirizzo ancora diverso è infine rappresentato dalle sei sinfonie di Cajkovskij,
compositore che si inserisce nella cornice culturale del decadentismo. La conclusione della sinfonia
non è un punto di arrivo, ma un ritorno all’inizio, al tema principale del movimento: espressione
del ripiegamento sulle memorie e rifiuto del futuro, che accomuna la cultura decadente di fine
secolo.
In questo contesto storico, se l’opera e la sinfonia vengono considerati espressioni di una cultura
nazionale, l’oratorio, la cantata profana, la messa in generale e il canto sinfonico-vocale sono
considerati generi cosmopoliti e sovranazionali.

11.Verdi e Wagner: musica e mentalità del secondo 800

L’arco biografico di Verdi (1813-1901) e Wagner (1813-1883) abbraccia i maggiori rivolgimenti


dell’Europa ottocentesca. Nonostante l’alta produzione di opere del secolo, si afferma
precocemente l’idea che i due riassumano al meglio la loro epoca. Il primo sostenne a lungo l’idea
del melodramma come strumento di formazione civile per la nazione italiana, mentre il secondo fu
acceso sostenitore dei movimenti democratici nel biennio 1848-1849, impegnandosi in prima linea
nei giorni della rivoluzione di Dresda. Ma entrambi dopo il fallimento dei moti del 48, si
chiuderanno sempre più, in modi diversi, al dialogo con la società. La loro inattualità ed estraneità
al loro tempo, si vede anche dal rapporto con i loro rispettivi stati, che emergono dal processo di
formazione delle nazioni. Ciò che li distingue dai compositori antecedenti è la presa di coscienza
sul piano politico. Ma le loro posizioni politiche solo in parte hanno influenzato la produzione
artistica. Il Wagner nazionalista e il Verdi risorgimentale sono perlopiù luoghi comuni. L’armonia
cromatica wagneriana non è affatto simbolo del germanesimo, altri prima di lui ne avevano fatto
uso. A Verdi invece è stato attribuito il ruolo di rappresentante del carattere nazionale per la
qualità della sua melodia, ma è difficile stabilire in cosa esattamente consista questa italianità. Così
se il materiale musicale non è caratterizzato nazionalmente, meno ancora lo sono i soggetti che
egli sceglie per le sue opere, attingendo da una cultura cosmopolita. Il carattere nazionale dei due
non è dunque una qualità tecnico-formale, né una questione di soggetti, riguarda più la loro figura
storica e la loro ricezione. Il loro carattere nazionalista ha valenza sul piano della storia, in quanto
rappresentativi di una mentalità.
I censimenti dell’epoca registrano oltre la diffusione degli edifici teatrali, anche quella di corpi di
banda e di società di concerti pubblici, che si pongono come obbiettivo la divulgazione e
l’ampliamento dell’uditorio. Qui abbiamo una contraddizione della nuova Italia, perché
nonostante il contesto musicale fosse tanto vivace, con l’istituzione della scuola statale
obbligatoria, nei primi anni dell’Unità, i programmi ministeriali escludono la musica
dall’insegnamento.
Nel 1867 poi lo Stato taglia le sovvenzioni ai teatri e molti sono così costretti a chiudere. Emerge
così la centralità dei maggiori teatri e l’attenzione ricade solo su poche grandi opere. Il Napoleone
degli impresari fu un epiteto usato per i tre che più hanno inciso nella gestione teatrale italiana
dagli anni 20 ai 50: Domenico Barbaja, Alessandro Lanari e Bartolomeo Merelli. Diversamente dal
più vecchio Barbaja, i due più giovani investono grandi capitali propri con un alto rischio di impresa
parzialmente protetto dalla crescente partecipazione dello Stato. I teatri tedeschi continuano
invece ad essere gestiti non da imprese ma da intendenti, ossia funzionari di governo,
prolungando la concezione del teatro come attività di una corte. Se Barbaja entrava solo
marginalmente nelle scelte di Rossini o Donizetti, Lanari e Merelli influenzano incisivamente le
scelte dei lor autori, in base alle loro strategia commerciali. Lanari, impresario della Pergola,
assegna grande rilievo alla componente visuale della messinscena. Il suo maggiore concorrente è
Merelli, appaltatore della Scala e del teatro di corte viennese, che per distinguersi dal primo e per
seguire le direttive del governo di Vienna, punta a realizzare al suo primo appalto scaligero la più
grande orchestra d’Europa. Per questo quando Verdi compone Nabucodonosor per Merelli, scrive
un’opera che valorizzasse l’orchestra e stessa cosa fa quando compone per Lanari riservando
grande attenzione alla componente visuale in questo caso, come ne I due Foscari, in cui è forte
l’impatto visivo dato dai dipinti di Hayez. Quest’attenzione agli aspetti materiali e commerciali è
assente in Wagner, in cui è nullo il rapporto con gli impresari.
Nell’anno del Nabucodonosor, il 1842, vige ancora il sistema dell’età rossiniana. Nelle grandi città il
governo sovvenziona due teatri, uno maggiore e l’altro minore, e alla frequenza assidua delle
rappresentazioni indica come l’opera sia un bene di consumo quotidiano. Abbiamo la stagione del
Carnevale/Quaresima (26 dicembre-fine marzo), di Primavera (dopo Pasqua- luglio), di Autunno
(agosto-30 novembre). Verdi debutta in un sistema nel quale un compositore affermato produce
due-tre opere l’anno, ma con lui il ritmo produttivo rallenta e dal 1860 al 1900 scrive solo cinque
nuove opere. Mentre fissava il cast dei cantanti, l’impresario proponeva il contratto ai compositori
circa un anno prima della premiere. Si sceglieva l’argomento del libretto solo dopo la scelta dei
cantanti. Già su questa fase preliminare Verdi intende imporre le sue idee drammaturgiche ai
cantanti. Verdi è il primo compositore in Italia a entrare personalmente in tutti gli ambiti della
produzione operistica. La sua carriera è disseminata di tensioni e cause legali per la tutela delle sue
creazioni, fino al riconoscimento del diritto d’autore, che lo vede fra i firmatari del progetto del
1865, divenuto legge nel 1882. Anche Wagner combatte una stessa battaglia, muovendosi in modo
diverso. Arriverà alla costruzione del teatro di Bayreuth gestito da adepti e sul quale avrà pieno
controllo. Dagli anni 60 in Italia inizia un processo di riduzione d’autonomia gestionale
dell’impresario. A fine secolo le funzioni artistiche vengono delegate ad altre figure. Dopo l’unità
sarà l’editore il vero centro dell’attività produttiva. Si ricordano a tal proposito Giulio Ricordi,
Giovannina Lucca ed Edoardo Sonzogno. Questi tre editori creano l’industria teatrale italiana, che
si sviluppa nel più generale processo di industrializzazione della sinistra storica del 1876. Ognuno
di questi editori pubblica un periodico specializzato che contribuisce a formare una sociabilità del
teatro musicale nella nuova Italia. Sociabilità estranea a Wagner che nel corso dell’esilio a Zurigo
dal 49 al 61, è sempre più estraneo al mondo.
Nel 1867, con la prima crisi economica del nuovo regno d’Italia, molti teatri subiscono dei tagli
delle sovvenzioni. In questo momento si avvia la formazione di un gusto storico, la consapevolezza
che alcuni titoli sono più importanti di altri, non solo perché immediatamente godibili, ma perché
con contenuti morali sociali e politici di maggiore impegno. Il teatro tedesco si differenzia da
quello italiano per quattro aspetti:
1. Gestione dei teatri pubblica.
2. Sistema del teatro a repertorio che si sviluppa precocemente, con titoli ripetuti
ciclicamente e compagnie stabili.
3. Teatro spesso condotto da un musicista.
4. Bisogno ricorrente di creare un repertorio autonomo in lingua.
In Italia dal 48 sono poche le opere non di Verdi che si fissano nel repertorio.
Dopo la proclamazione di Roma capitale, si ha un’apertura verso il repertorio internazionale. Nel
1871 va per la prima volta in scena a Bologna un’opera di Wagner. Ma questo fenomeno anziché
ampliare il repertorio, porta a restringerlo. Si afferma il concetto di teatro come museo ideale di
capolavori.
Sia Verdi che Wagner, una volta raggiunta l’autorevolezza necessaria, sentono l’esigenza di avere
una supervisione unica sulle proprie opere, ciò che verrà chiamata nel 900 regia a concertazione
stilistica. I due estremizzano questo concetto costruendo Wagner il teatro di Bayreuth e Verdi
facendo apportare alcune modifiche costruttive alla Scala.
Nel secolo emerge anche la figura del direttore d’orchestra, che riassume in sé gli aspetti della
mentalità borghese e le esigenze della drammaturgia musicale. Egli rappresenta la professione, la
cultura e il rilievo sociale attribuito alla musica. È poi il depositario del repertorio in formazione
perché è delegato alla scelta dei titoli da eseguire. Infine, in quanto guida di ogni aspetto
performativo, diviene l’unico interprete delle intenzioni dell’autore. Questo concetto di autorialità
e l’emergere del direttore riducono la libertà esecutiva dei cantanti.
I percorsi che Verdi e Wagner seguono dalla prima idea alla messinscena sono molto diversi.
Wagner scrive da sé i libretti, compone senza contatti con i cantanti e porta in scena le opere in
teatri a lui subordinati. Verdi invece segue una diversa prassi:
- Nella stesura del libretto segue tre fasi: scelta del soggetto, stesura del programma,
versificazione. Ma dopo la scelta del soggetto, che sta solo a lui, la scrittura del libretto
avviene sotto la sua supervisione, non scrive mai i propri libretti. Inoltre Verdi acquista il
libretto pagando il poeta con un contratto privato. Così rimane proprietario della poesia,
per poterla eventualmente modificare e trarne il profitto economico.
- Verdi esige cantanti dotati di elevate qualità attoriali. Egli non apprezzava cantanti che
seguivano variazioni estemporanee, giudicate fuori moda e stilisticamente inadeguate alla
sua idea di canto-recitazione.
- Acquisì potere decisionale anche sula messinscena, che lo portò anche alla rottura con
Merelli. Dagli anni 60 con Ricordi si dedica alla creazione di manuali per la messinscena
delle opere che fornivano indicazioni su costumi, attrezzeria, movimenti delle masse corali,
gestualità.
Wagner nel preparare il festival di Bayreuth mostra stessa autorità in messinscena, attorialità e
illuminotecnica. Entrambi si collocano all’inizio del processo della moderna regia teatrale.
Il termine di Wagner Gesamtkunstwerk significa opera d’arte totale e rappresenta, fatte le debite
distinzioni, entrambi i drammaturghi. Si tratta di integrazione dei sistemi poetico, visivo e musicale
in una subordinazione della musica all’efficacia drammatica e narrativa. In Opera e Dramma,
Wagner fa una metafora sessuale, in cui la musica-amante, elemento femminile emozionale, in sé
non avrebbe la qualità comunicativa sufficiente e debba ricevere a fecondazione del significato
della parola, elemento maschile-razionale.
Per Verdi il conflitto drammatico è dato dalla contrapposizione fra aspirazione degli individui e
realtà circostante, mentre per Wagner non è né storico, né sociale, ma è dentro l’uomo: conflitto
nella volontà di rinuncia alle attrazioni dei sensi e di allontanamento dai conflitti del mondo. La
forma a sezioni chiuse di Verdi e del melodramma italiano risponde ad una concezione del
conflitto reale, concreto fra entità ed idee. La forma continua di Wagner risponde all’assenza di
questa contrapposizione. Wagner non porta in scena i contrasti musicali, ma realizza l’arte della
transizione graduale.
Per quel che riguarda la forma del dramma, Verdi è legato alla forma chiusa, mentre Wagner a
quella aperta. Nella forma chiusa l’azione è consequenziale, il tempo rettilineo e gli eventi ordinati
in relazione causale. Nella forma aperta l’azione è frammentaria e svolta in un tempo discontinuo.
Per forma si intende poi quella del numero chiuso, della singola sequenza drammatica. Verdi
conserva in Aida la solita forma, che comprende una divisione dell’azione in due tematiche
principali che delineano il percorso dalla contemplazione alla decisione finale. Seguendo questa
impostazione Verdi scioglie i numeri chiusi nella continuità dell’azione. Sia nell’aria solistica, che
nei duetti, le due principali sezioni sono cantabile e cabaletta, distinte da contenuto melodico,
tonalità, situazione psicologica, andamento. Spesso il cantabile è più lento della cabaletta
conclusiva e più rapida. Le parti sono intramezzate da una sezione intermedia che si differenzia per
un materiale eterogeneo meno melodico, che contiene spesso un colpo di scena. Verdi andrà via
via aumentando sia il segmento inziale d’attacco, sia il materiale di mezzo. Le grandi scene
d’assieme sono invece costituite da largo concertato e stretta finale al posto di cantabile e
cabaletta.
Un esempio di scontro di due visioni del mondo nelle opere verdiane è rintracciabile nel II atto
della Traviata fra Violetta e Germont, e nel Don Carlo tra Filippo II e il grande inquisitore. Il primo
viene definito duetto nella partitura, in quanto conserva architettura musicale, versificazione
metrica e percorso psicologico emotivo della tradizione italiana. Le parti melodiche, cantabile e
cabaletta segnalano il momento in cui i conflitti degli interlocutori giungono ad un punto di
incontro. Il secondo invece viene definito scena e non duetto, in quanto si sviluppa per segmenti
più brevi e frammentari, seguendo passo dopo passo lo scontro fra i due bassi. Il senso della scena
è la denuncia del potere assoluto e conservatore esercitato dalla chiesa mediante l’esercizio del
terrore. Verdi pone al pubblico l’immobilità imposta forzatamente da quel potere e così in musica
non si verifica una reale azione.
La tipica forma lirica, l’architettura della melodia all’interno delle due sezioni, può avere una
variante, che si definisce Barform spesso usata da Verdi. Consiste in una struttura tripartita, con
due segmenti brevi e isometrici seguiti da uno più lungo, solitamente emotivamente caricato.
Anche Wagner segue un’evoluzione delle forme chiuse, verso la forma continua della melodia
infinita. Ma gli storici Wagneriani hanno chiarito come anche nelle opere più mature come il Ring
o il Parsifal, il declamato continuo nasconda sezioni di maggiore formalizzazione. In queste sezioni
ricorre spesso alla forma ad arco (A B A’) e ancor più Barform (A A’ B), stesso schema di Verdi. In
entrambi gli autori poi influenzano profondamente la scena l’irruzione di segnali sonori realistici,
come l’uso del corno in Ernani e in Tristan. Nel primo caso, Verdi lo utilizza come segnale per
Ernani di togliersi la vita, secondo un accordo stretto precedentemente. Così sia il protagonista che
l’uditorio sono riportati indietro nel tempo e quest’ultimo viene gettato nello stesso spazio sonoro
del protagonista. Nel Tristan di Wagner invece, Isolde con Brangane sta attendendo l’amato
Tristan nel giardino del re Marke, suo sposo, fuori per la caccia. I corni dei cacciatori, sono prima
ascoltati in lontananza dallo spettatore, ma subito dopo questo entra nella psiche di Isolde e così
non è più suono della realtà ma viene percepito dallo spettatore filtrato attraverso la psiche di
Isolde, i suoi desideri e le sue pulsioni. Quindi non viviamo qui il suo spazio fisico, ma quello
psicologico. Altrettanto significativo è il modo di rappresentare la reazione dei personaggi agli
eventi esteriori da parte dei due autori. La Desdemona di Verdi ad esempio ha un presentimento
indotto da un colpo di vento, colpo di scena che dà l’avvio alla cabaletta. Si però tratta di una sola
frase in grado di segnalare il mutato stato d’animo di Desdemona. Wagner nel Tristan non porta in
scena eventi. L’unico evento è l’entrata in scena di Marke che sorprende Isolde e Tristan, ma la
reazione non si concretizza fisicamente, non compiono alcun atto e la loro psiche sembra tornare
al mondo del sogno. La realtà fenomenica non entra nel mondo interiore e il ritorno alla reatà
avviene per transizioni lente e graduali.
Alcuni tratti essenziali in Verdi:
1. La ricerca di concisione sta alla base di quella Verdi chiama parola scenica (parola che
scolpisce una situazione), declamata con chiarezza e dopo la quale nulla nell’animo dei
personaggi sarà più lo stesso, come il celebre “non so più re, ma Dio” nel Nabucodonosor,
a cui segue il fulmine vendicatore che toglie la ragione al protagonista.
2. Verdi per indicare il carattere e quadro psicologico di un’opera usa la parola tinta, che è
l’atmosfera che fa da sfondo ad una vicenda.
3. C’è anche un forte uso del brutto e grottesco in Verdi che può essere sia oggetto di
compassione che di repulsione.
4. Forte alternanza fra spazi imitati e spazi grandi.
5. In Verdi il coro assume funzione rigenerante del melodramma. Celebre il coro della patria
oppressa in Macbeth.
Verdi rappresenta la storia italiana ottocentesca ma si possono individuare diversi problemi di
interpretazione riguardo a tale questione:
1. Problema della patria: Nabucodonosor contiene il più celebre coro della storia dell’opera, il
coro degli Ebrei in cattività Va Pensiero, considerato colonna sonora del risorgimento
italiano. Ma questo significato non era nelle intenzioni dell’autore. Si tratta di una
preghiera, un coro di prostrazione dei deportati che subito dopo inizieranno il processo di
rinascita. Strano dunque che simbolo del risorgimento sia diventato proprio il coro di
massima prostrazione in un’opera di pace universale. In Ernani l’appartenenza al canone
risorgimentale è ancora più problematica. Il messaggio politico dell’opera potrebbe
risiedere nell’antagonismo fra un codice morale anacronistico, legato a vecchi pregiudizi di
casta, e le leggi del cuore di Ernani, nobile decaduto diventato bandito per ribellione. Nello
scontro fra i due codici morali quello del giovane è destinato a soccombere. Così Verdi si
schiera dalla parte della giovane Italia ribelle e senza speranze.
2. Problema della morale individuale – dopo il 1849 Verdi si concentra su soggetti più intimi,
sui drammi degli individui. Ballo in maschera ha un’efficace sovrapposizione di più registri,
ironico, grottesco, amoroso, tragico. Eppure proprio in quest’opera abbiamo un legame
con vicende politiche-risorgimentali, così come in Vespri siciliani. In entrambe le opere
Verdi raffigura dei congiurati che tramano per rovesciare il potere costituito, però nei
congiurati dei Vespri si può cogliere ancora quella figura del cospiratore segreto
mazziniano, mentre in Ballo in maschera i congiurati cantano e scherzano, per loro tutto è
oggetto di scherno. Si tratta della raffigurazione negativa e irridente dei mazziniani. Il
messaggio è che la congiura segreta porta a tragici errori. Il tutto avvien in fatti dopo che il
veneziano Manin, in cerca di diffondere il consenso intorno a Vittorio Emanuele II, accusa
Mazzini e la sua fallimentare teoria del pugnale.
3. Il problema dello stato – Don Carlos e Aida sono due denunce dell’influenza della chiesa
sulla vita civile dello Stato. Nel don Carlos i due duetti fra Filippo II e il marchese di posa e
fra Filippo II e il grande inquisitore rappresentano l’opposta voce del conservatorismo
potere intimidatorio della chiesa che si scontra con il liberalismo che finisce col
soccombere.
Per quanto riguarda Wagner, egli attraversa tre periodi: quello dei grand operas, influenzati dal
modello francese di Meyerbeer, quello delle opere romantiche e quello dei drammi musicali.
Vediamo per punti il Gesamtkunstwerk:
1. Puramente umano: oggetto della rappresentazione deve essere il profondo sentimento
umano.
2. Sogno: il puramente umano fa scoprire una connessione con il mondo come in un sogno.
3. Mito: per parlare del sogno, Wagner usa soggetti tratti dalla mitologia nordica o dalla
leggenda popolare. In questo modo non è costretto ad una rappresentazione realistica
degli eventi.
4. Profondità: Wagner utilizza il concetto di profondità che scredita la forma sensibile, che
coglie solo il superficiale.
5. Melodia infinita, leitmotiv, corrente di motivi. La prima è la forma della musica, torrente
continuo di leitmotiv che combinandosi con vari motivi nel corso del dramma assumono
significati diversi. Ad esempio nel Tristan abbiamo un primo motivo che compare nel
preludio, con carattere di angoscia, si ripresenta nel rimo incontro fra Isolde e Tristan con
carattere teso e violento, come amore convertito in odio e si ritrova in senso capovolto
nello monologo finale di Marke, quando egli scopre il tradimento e il capovolgimento
coincide con il modo opposto con cui Marke guarda Tristan rispetto a Isolde. Abbiamo poi
la corrente di motivi in cui abbiamo un flusso di motivi interrotto ed omogeneo.
Considerando l’intera tetralogia vediamo come nell’oro del Reno i leitmotiv siano chiari e
definiti, nel Crepuscolo acquistano molteplici significati e diventano polisemici, indefinibili.
6. Sonoro silenzio: come il dialogo è lo strumento principe per esporre un conflitto nel
dramma classico, all’opposto il silenzio sonoro è lo strumento espressivo della forma
aperta del dramma epico-mitologico wagneriano.
7. Assenza di dialogo: nel dramma wagneriano, i duetti non sviluppano un vero dialogo, sono
più monologhi a due.
8. Arte della minima transizione, Wagner miniaturista: la definizione miniaturista è coniata da
Nietzsche e indica come le grandi sequenze wagneriane siano in realtà formate da minimi
frammenti, quasi un mosaico.
9. Sistema armonico, cromatismo fino alle soglie dell’atonalità: la liberazione del discorso
armonico dalle periodiche cadenze tonali è necessario a tutto ciò che si è finora esposto. Il
cosiddetto Tristan-akkord che risuona all’inizio del Tristan è un aggregato armonico di
quattro suoni che non ha una netta direzione tonale e ricorre infinite volte fino a risolversi
nel Si maggiore. Questo approdo rimandato rappresenta l’annegamento nella
inconsapevolezza di sé.
10. Orchestra: melodia infinita e corrente di motivi sono assegnati all’orchestra, che in Wagner
assume funzione analoga a quella del coro della tragedia greca. Inoltre l’orchestra di
Wagner è più ampia.
11. Testo poetico: con la subordinazione della parola alla musica. Per Wagner si apre il
problema del testo poetico, che scrive sempre lui stesso. La costruzione poetica deve
seguire la mobilità del sentimento umano. Nel libretto egli opera un capovolgimento della
tradizione. Alla rima sostituisce l’allitterazione consonantica della radice semantica della
parola, lo stabreim.
12. Gestualità e attorialità: Wagner tende a minimizzare la gestualità. Il profondo sentimento
umano richiede una marginalizzazione dell’azione fisica concreta.

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