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Marina Bellegrandi, opera di Giuseppe Sartorio del 1888

Gli angeli sono le sculture più utilizzate in ambito funerario, solitamente raffigurati con
un’espressione festosa, quale auspicio di una felice vita oltremondana; a volte sono rappresentati
mentre suonano la tromba, suono che nella tradizione popolare annuncerà il giorno del giudizio
universale.
Nella seconda metà dell’Ottocento si assiste ad un cambiamento della rappresentazione delle figure
angelicate e si tenderà a mettere in evidenza una personificazione delle stesse, a volte con un crudo
realismo (citare Ara Ciarella ma solo il nome).
Nella penisola, il geniale scultore Monteverde aveva iniziato a rielaborare questo tipo di scultura,
umanizzandola secondo la moda dell’epoca e creando un punto di rottura con l’iconografia
tradizionale, puramente Cristiana, dell’Angelo come figura eterea, d’aspetto maschile, confortante e
protettrice. Il suo angelo, infatti, è una figura androgina che appare quasi smarrita, è ferma con le
spalle rivolte alla tomba che custodisce, o che dovrebbe custodire, quasi come volesse cercare di
trovare una sua strada, capire dove andare: in ciò è chiara l’intenzione dello scultore di
rappresentare un’anima che è ancora sospesa tra la Vita e la Morte, indecisa sul cammino che sta
per intraprendere. È pur vero che l’Angelo regge in una mano la Tromba del Giudizio, ma il suo
gesto mostra esplicitamente l’intenzione di non suonarla: non solo la tiene parallela al fianco,
rivolta verso il basso, ma con un dito ne chiude il bocchino, come a voler evitare che anche un
soffio d’aria possa involontariamente far scaturire un suono dal suo strumento. Da subito l’Angelo
di Monteverde si impose come una delle immagini più forti e suggestive tra le sculture funebri e
venne elogiato per la sua bellezza e l’armonia e per il dialogo silente che sembra instaurarsi con
l’osservatore che, a sua volta, si ritrova coinvolto nello smarrimento della splendida scultura. Con
queste premesse, non poteva non diventare un modello replicato in tutto il mondo e non solo a
scopo funebre.
Cagliari non fece eccezione e nel Cimitero di Bonaria è possibile osservare alcune opere derivate
dal capolavoro di Monteverde, una delle quali è l’angelo del monumento funebre di Marina
Bellegrandi.
L’Angelo di Marina Bellegrandi, opera del 1888, è una delle opere realizzate dal Sartorio per il
Cimitero Monumentale di Bonaria, ma, a differenza dell’Angelo di Monteverde, non è un esemplare
unico, bensì un’opera che lo scultore replicò in diverse occasioni per altri Cimiteri Sardi e Italiani.
Si tratta, dunque, di un’opera pantografata.
(Sartorio giunse in Sardegna nella metà degli anni ’80 dell’800 e il primo lavoro che gli venne
commissionato fu il Monumento a Quintino Sella per la piazza dedicatagli ad Iglesias, nel 1885: da
quel momento si impose come uno dei massimi protagonisti della scultura Sarda nel periodo di
transizione dal classicismo all’epoca Liberty.) Sartorio, ormai sull’onda dell’opera realizzata dal
Monteverde, interpreta anche lui lo smarrimento dell’Angelo che è rappresentato in un momento di
riflessione. È difatti seduto, ha deciso in modo esplicito di non proseguire quel cammino e la posa
della testa, poggiata sulla mano, mostra chiaramente la volontà di fermarsi a pensare. Al pari
dell’Angelo di Monteverde, l’Angelo del Sartorio non ha intenzione di suonare la Tromba del
Giudizio, si limita a posarvi sopra lo sguardo mentre è immerso nei suoi pensieri. Non ne tappa il
bocchino, ma al tempo stesso l’apertura è occlusa dalla fluente capigliatura e, anche in questo caso,
nessun suono verrà proferito in modo involontario. Se è chiaro che il Sartorio non ha voluto creare
un’opera identica a quella del Monteverde, è però evidente il fatto che ne abbia tratto ispirazione
sull’onda di quella rottura con l’iconografia angelica classica, a dimostrazione del fatto che Cagliari
non restò mai estranea alle correnti artistiche che andavano manifestandosi nel “continente” anzi,
proprio in quegli anni la Città si preparava a diventare una delle protagoniste italiane dell’epopea
Liberty.

1. Cambiamento visualizzazione Angeli


2. Angelo di Monteverde
3. Angelo di Sartorio (Marina Bellegrandi)
Sorelle Mulas

Tra gli artisti che più di altri hanno arricchito il cimitero di Bonaria, vi è Giovanni Battista Troiani,
nato a Villafranca di Verona nel 1844 e morto nello stesso luogo nel 1927.
Rimasto orfano, viene preso in affido da un sacerdote di Villafranca che gli insegnò le prime
nozioni scolastiche e lo indirizzò verso la carriera artistica. Studiò all'Accademia di pittura e
scultura di Verona specializzandosi, a Venezia, all'Imperial Regia Accademia di Belle Arti.
La sua opera maggiore è una statua raffigurante il celebre architetto Michele Sanmicheli, esposta in
una piazza, nel centro di Verona.
Altre sue opere sono esposte a Boston, New York e Londra.
Trascorse gran parte della sua vita nella città di Cagliari dove giunse nel 1893 quale vincitore di
cattedra presso il locale Istituto tecnico. Allievo di Giovanni Duprè, unì all’attività di insegnante
anche quella di artista.
La sua prima realizzazione cagliaritana, nello stesso anno che lo vide arrivare in città, fu il busto di
Clotilde Manca, nella cappella Manca lungo il perimetro meridionale del Vecchio camposanto.
Del 1910 è invece il monumento da lui scolpito per Angelina (1908-1909) ed Elisa Mulas (1883-
1896). Le due sorelline sono sollevate nella spirale di un abbraccio tra cuscini di nubi, su una base
fatta di roccia viva che sembra una pila di libri su cui crescono rampicanti e fiori in stile Liberty.
Per quanto di accurata esecuzione e, secondo le testimonianze dell’epoca, assai rassomiglianti alle
due sorelline, questi ritratti appaiono tuttavia di greve plasticismo (è quella bravura nello sfruttare al
meglio la possibilità di sviluppare una forma nello spazio, in più di una direzione, greve nel senso
che è pesante) e tali da giustificare l’accusa di freddezza che Cosimo Fadda, sotto lo pseudonimo di
Cosmos, rivolse alle sculture cimiteriali del Troiani dalle colonne de “L’Unione Sarda”. Il
monumento alle sorelle Mulas è interessante anche per l’epitaffio che lo contrassegna, dettato in
versi.

…figlie dilette
esse non morirono
volarono alla scuola eterna
ove d’uopo non han d’esser
Giuseppina Ara dei conti Ciarella

Una delle tombe più antiche del cimitero è il monumento a Giuseppina Ara dei conti Ciarella,
realizzata dallo scultore Agostino Allegro.
Architetto e scultore, Agostino Allegro nacque a Genova l'8 giugno 1846. In tutta la sua vita
mostrò di essere uomo di sani principi, di carattere fermo e di cuore sensibile. Come artista fu
studioso del
vero e in ogni suo lavoro manifestava il pensiero profondo che l’aveva ispirato. Quando da piccolo
decise di dedicarsi all’arte capì che per fare questo nel modo migliore era necessario studiare tanto,
compiendo, se necessario anche sacrifici.
Fu allievo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova e lì scoprì la sua predilezione per la
prospettiva e l’anatomia. Ebbe una Borsa di Studio che gli consentì di trasferirsi a Roma per
continuare i suoi studi. Tornato a Genova lavorò come scultore, ma anche come architetto.
Fu considerato un uomo d’ingegno non comune e un innovatore nel rappresentare il vero; ebbe
successo, ma fu anche criticato e questo fatto gli procurò grande amarezza negli ultimi anni della
sua vita. Morì a Genova il 19 marzo 1889.

L’opera, firmata nel 1870 dallo scultore genovese Agostino Allegro, fu realizzata in Liguria. Su un
alto basamento, recante le epigrafi appena ricordate, un giovane angelo che sparge fiori è posto
come custode del sepolcro. La storica dell’arte Maria Grazia Scano pone l’accento sull’equilibrata
definizione anatomica della figura, che, nel suo naturalismo, con connotati veristici, emana
un’ambigua grazia anticlassica tipicamente romantica. In effetti la scultura sotto certi aspetti può
ritenersi inquietante in quanto il modello, con ogni verosimiglianza, può essere individuato nel
corpo nudo di un bambino disteso sul tavolo di un obitorio. Lo indicherebbero i lunghi capelli a
boccoli pieni, disordinatamente disposti a raggiera attorno al volto, come se posassero su una
superficie orizzontale; gli occhi e la bocca socchiusi e ormai inespressivi; il ventre teso, già gonfio
dei gas della decomposizione. Né bastano a spiritualizzarla, elevandola verso il cielo e la sua
speranza di vita eterna, le ali turgide e una stella metallica un tempo collocata tra le chiome
scomposte, come si vedeva in una fotografia del 1872. Perfetta emanazione del gusto gotico,
all’epoca dominante, il monumento suscitò l’universale plauso della cittadinanza, tanto che anni
dopo nel giornale “L’Avvenire di Sardegna” si parlava di questo angelo definendolo il più bello del
cimitero di Bonaria, anche se improntato ad un crudo verismo.

La colonna presente nel cimitero è di lumachella, roccia costituita da gusci di esseri viventi fossili, proveniente dall’Egitto. Proveniente dalla
zona in cui oggi si trova piazza del Carmine, dove era posta a indicare la giurisdizione del convento dei Carmelitani, nel 1867 fu collocata
all’incrocio dei
viali dei quattro vecchi quadrati del cimitero, poi spostata dove si trova attualmente (davanti al cancello mediano che si apre verso il viale
Cimitero). Secondo il Canonico Spano questa colonnina aveva un capitello con sopra una croce, capitello che in un secondo tempo fu
sostituito e solo negli
anni Novanta fu ritrovato.
Il monumento a Giuseppina Ara dei Conti Ciarella, è contrassegnato da ben quattro
iscrizioni:
Lato anteriore:

GIUSEPPINA ARA DE’ CONTI CIARELLA

COMPIUTO APPENA IL 5° LUSTRO SI RIPOSO’ NEL BACIO DI DIO

IL 10 GIUGNO 1869

Lato destro:

DI LEGGIADRE FORME
PER MODI GENTILI, PER NOBIL SENTIRE
PER SQUISITA BONTA’ DI CUORE
FU CARA A TUTTI CHE LA CONOBBERO

Lato sinistro:

AMOREVOLE SPOSA AFFESIONATISSIMA MADRE


ALLE DOMESTICHE GIOIE A’ DESIDERI DI CHI TANTO L’ AMAVA

AHI! TROPPO PRESTO


MANCATA

Lato posteriore:

IL MARITO ONORATO L’UNICA FIGLIA CAROLINA


PIANGENDO LA DOLOROSA PERDITA
DI SI’ OTTIMA CONSORTE DI SI’ TENERA MADRE

QUESTO MONUMENTO POSERO


Cappella sorelle Nurchis
Furono le prime donne a Cagliari a conseguire la licenza ginnasiale, aprendo la strada
dell’istruzione pubblica superiore a tutte le donne sarde.
Jenny e sua sorella minore Amina, fin da bambine coltivavano una smisurata passione
per gli studi classici, la musica e la lettura. Consapevoli di avere le capacità per
conseguire il diploma e, successivamente, la laurea, decisero di iscriversi al Ginnasio e
ci riuscirono anche grazie al sostegno dei loro genitori. Suo padre era un noto
avvocato.
Jenny fu la prima a concludere gli studi e quasi immediatamente un giovane la chiese
in sposa. Anche Amina, non tanto tempo dopo, concluse i suoi studi con magnifici
risultati. La strada che si prospettava per le due sorelle però non era semplice:
nell’800 nessuna ragazza sarda frequentava le scuole pubbliche e l’istruzione era
riservata solamente agli uomini. Solo nelle famiglie aristocratiche le giovani potevano
studiare, ma rigorosamente a casa, con insegnati privati. Per questo la città, anziché
riconoscere il loro valore, ne rovinò la reputazione: poiché avevano frequentato una
scuola di soli maschi vennero etichettate come poco di buono e nel caso di Jenny, si
ipotizza che sia stata ripudiata dal giovane che l’aveva chiesta in sposa. L'isolamento
portò Jenny al suicidio e dieci mesi dopo sua sorella Amina morì forse per il dispiacere.
“Sicuramente Jenny avrebbe proseguito gli studi e avrebbe continuato a suonare il
violino”.
Jenny morì alle 21:00 e venne deposta in questa cappella alle 8:00, senza sacramenti.
Una leggenda racconta che il fantasma di Jenny vestito da sposa percorra il cimitero
senza pace. Qualche anziano sostiene addirittura di averla vista e di aver udito queste
parole “quanto mi piacciono i girasoli”.
La madre Giuseppina volle la croce della speranza affinché giungesse in paradiso.
Le due sorelle diedero il via alla parità di genere.

2
L’opera di Amina è stata realizzata da Ambrogio Celi.
Sotto l’angelo di marmo che veglia sulla tomba di Amina Nurchis si legge l’epitaffio:

AD AMINA NURCHIS NONNIS DICIASSETTENNE

RAPITA
ALL’ AMORE DEI PARENTI
IL XIX FEBBRAIO MDCCCLXXXIV.
A XV ANNI

COMPAGNA ED EMULA DELL’AMATA SORELLA


MERITO’ LA LICENZA GINNASIALE
PRIMO ESEMPIO IN SARDEGNA
DI QUANTO POSSANO NEGLI STUDI
MENTE E CUORE DI DONNA.

Alla memoria della defunta, che aprì la strada dell’istruzione superiore a tutte le
donne sarde, fu innalzato questo monumento costituito da un angelo piangente sotto
una croce, scolpito nel marmo bianco da Ambrogio Celi, artista originario di Massa
Carrara. Per quanto tecnicamente tutt’altro che eccelso, fu piuttosto apprezzato dalla
committenza locale che gli affidò la realizzazione di numerose opere.
Sprezzante, invece, fu il giudizio espresso nei confronti di questa scultura nel 1886,
dall’articolista G.S. di “L’Avvenire di Sardegna”, che la riteneva indegna di
considerazione e opera maldestra di uno «scalpellino lucchese». Il monumento ad
Amina Nurchis fu da lui definito «un angiolo dormiente che pare un salame, uscito dai
soliti magazzini di Massa e Carrara».
Il ritratto a figura intera di Jenny Nurchis è dello scultore piemontese
Giuseppe Sartorio, cui si deve anche il busto del fondatore Antonio Nurchis.

La versione marmorea del monumento a Jenny Nurchis (1865-1886) fu


collocata dal Sartorio nel 1890, sostituendo il modello in gesso che era stato da
lui approntato ed esposto già dal 1888, a indicare con quanto interesse la
cittadinanza seguisse la progressiva realizzazione di queste sculture. La
giovane, in ginocchio, alza implorante verso il cielo le mani giunte: davanti a lei,
per terra, giacciono alla rinfusa il violino e gli spartiti che aveva amato suonare,
mentre la grande croce al suo fianco ne simboleggia la sofferenza e al tempo
stesso la speranza. L’opera restituisce con grande efficacia l’immagine di una
ragazza, bella e sensibile, vestita secondo la moda dell’epoca in abiti resi
dall’artista molto realisticamente, la cui innocenza buona e confidente – come
recita l’epitaffio – era stata ingannata e uccisa da una promessa menzognera.
L’amore e il matrimonio, infatti, all’epoca rimanevano generalmente l’ideale di
ogni donna che, se tradito, poteva portare alla disperazione e alla morte:

BUONA E CONFIDENTE JENNY


SPENTA ANZI TEMPO DA CRUDELI DISINGANNI
TI SIA REFRIGERIO NELLA TOMBA SCONSOLATA
L’ AFFETTO IMMENSO ED INESTINGUABILE
DI CHI NON PUO’ MENTIRE
LA MADRE

GIUSEPPINA NONNIS IN NURCHIS

POSE.

(È curioso, per la storia del gusto, mettere a confronto i giudizi attuali, che
sottolineano i «forti accenti di sensualità nell’evidenziazione delle solide forme»

della scultura (Maria Grazia Scano), con quello dei contemporanei per i quali,
invece, «la linea, la trovata, l’esecuzione costituiscono un complesso armonico
da cui emana un profumo d’arte e di poesia che commuove e tradisce la ricerca
appassionata del bello e lo studio indefesso del nuovo nell’assenza di ogni
volgarità» Miles, “L’Avvenire di Sardegna”, 1888.)

Con loro inizia il processo che ha portato alla progressiva conquista dell’emancipazione
femminile.
Adelina Sbragia e sua madre, Ersilia Benetti

Dal 1861 sino al primo decennio del Novecento in Sardegna si registrò una media di
circa 167 bambini deceduti ogni mille abitanti.
La maggior parte delle tombe che troviamo nel cimitero di Bonaria appartengono a
bambini che provenivano da famiglie della borghesia imprenditoriale, classi
economiche cittadine che potevano permettersi di commissionare vere e proprie opere
d’arte.
È tra le opere più “importanti” del Sartorio. A prima vista, osservando il monumento
si potrebbe pensare che Adelina pianga sul medaglione in cui è scolpito il ritratto della
sua mamma, in realtà leggendo il cartiglio posto al di sotto del mazzo di fiori tenuto in
mano da Adelina si apprende che la bimba morì per prima ad appena otto anni, “la
seguiva la madre Ersilia Benetti”. Non si fa cenno ad una scomparsa improvvisa della
bambina, quindi è probabile che la bambina sia morta dopo una un periodo di malattia
e che i genitori ne fossero al corrente. Quindi con quest’opera il Sartorio vuole
esprimere un messaggio fortemente significativo: la madre morì simbolicamente
prima della figlia nel momento in cui venne a conoscenza del drammatico destino a cui
sarebbe andata incontro Adelina.
Dettagli: notare panneggio della veste della bambina e le rughe della madre.

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