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Una Fuga in Egitto Di Ambrogio Figino in
Una Fuga in Egitto Di Ambrogio Figino in
ARTE
Anno LXVI - Terza serie - Numero 122 (785)
Luglio 2015
SOMMARIO
ANTOLOGIADIARTISTI
APPUNTI
SERVIZI SE E DITORIALI
Redattori
MARIA CRISTINA BANDERA, DANIELE BENATI, CARLO BERTELLI,
PIER PAOLO DONATI, ELENA FUMAGALLI, MINA GREGORI,
MICHEL LACLOTTE, ANTONIO PAOLUCCI, BRUNO TOSCANO
Segreteria di redazione
NOVELLA BARBOLANI DI MONTAUTO
ALICE TURCHI
Direzione
Via Gino Capponi, 26 - 50121 Firenze
tel. 055 2479411 - fax 055 245736
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Amministrazione
SERVIZI SE E DITORIALI
Per Ignorata dagli studi recenti per la sua limitata accessibilità, una
Ambrogio inedita ‘Fuga in Egitto’ (olio su tela, cm 93x126 /tavola 38/) mostra
Figino
fin da subito un’indubbia parentela con l’ambiente artistico del primo
Seicento milanese. Se diversi tratti — soprattutto il viso reclinato del
San Giuseppe — riconducono alla pittura di Cerano, l’angelo semi-
nascosto alla sinistra della Vergine rievoca invece i protagonisti di al-
cune opere dipinte da Giulio Cesare Procaccini intorno al 1605, come
l’‘Assunzione della Maddalena’ di collezione privata, il ‘Trasporto di
Cristo’ del Museo Puskin (inv. 161) e la ‘Deposizione’ della raccolta
Molinari Pradelli1. Al di là dei dettagli, a far venire in mente i due
pittori del primo Seicento è soprattutto il trattamento freddo e me-
tallico della materia, che si increspa nei riverberi delle stoffe gene-
rando preziosi effetti di cangiantismo nell’accordo rosa-grigio argenteo
della veste dell’angelo a sinistra, e assumendo una consistenza fangosa
e scintillante, quasi di creta umida, nello scenario roccioso in primo
piano, dipinto a briose pennellate lucide e brillanti.
Proprio con un’attribuzione al Procaccini junior, espressa in for-
ANTOLOGIA DI ARTISTI 37
ma dubbiosa da Marco Valsecchi, la tela è entrata anch’essa, in una Per
data imprecisata (da collocarsi comunque tra il 1961 e il 1974), a far Ambrogio
Figino
parte della raccolta Molinari Pradelli2, rimanendo però esclusa, in
seguito a spartizioni interne alla famiglia, da tutte le mostre e pub-
blicazioni che hanno dato visibilità al nucleo principale di quella qua-
dreria. Alla immeritata sfortuna dell’opera hanno forse concorso certi
aspetti stilistici un po’ sfuggenti, non perfettamente compatibili con
la vecchia attribuzione procacciniana, di cui manca soprattutto quella
componente sensuale così caratteristica dei modi dell’artista emiliano
naturalizzato milanese. Non sono, in effetti, pochi i tratti che si al-
lontanano dai modi di Giulio Cesare: gli accordi di colore più freddi
e minerali, ad esempio, oppure la netta scansione cromatica (ancora
di stampo cinquecentesco) dei tre piani di distanza dello sfondo; in-
fine la totale assenza di quella sensuale, prorompente ‘fisicità’ che in
Procaccini si manifesta in varie forme, dalla languida dolcezza cor-
reggesca, al carnale trasporto emotivo rubensiano o, in alternativa,
nella scultorea evidenza muscolare di opere come la ‘Trasfigurazione’
di Brera. Allo stesso tempo, anche da un ipotetico confronto con Ce-
rano emergono più differenze che analogie, soprattutto per la man-
canza dell’intenso, violento patetismo caratteristico del Crespi e dei
pittori della sua cerchia3.
In effetti, nonostante le somiglianze appena ricordate, il dipinto
sembra mostrare i segni di un temperamento più freddo, quasi —
si direbbe — riservato, e, nella resa dell’espressione del San Giu-
seppe (a ben guardare più sospiroso che drammatico), appena velato
da una lieve, sognante malinconia; come se l’autore desiderasse
mantenersi equidistante dai due sommi protagonisti del primo Sei-
cento milanese, pur subendone visibilmente l’influsso. Il linguaggio
della ‘Fuga in Egitto’ appare, per certi versi, un unicum nel pano-
rama lombardo di quegli anni, componendosi dell’amalgama di due
tendenze contrastanti: da un lato l’ossessiva precisione nei dettagli
anatomici, dall’altro un’antinaturalistica attitudine a distorcere le
forme e le proporzioni complessive della figura umana. Mentre le
braccia di San Giuseppe si allungano in modo forzato e innaturale,
il busto dà infatti l’impressione di rattrappirsi, accartocciandosi su
se stesso.
Un tratto peculiare del dipinto è il modo con cui gli abiti dello
stesso San Giuseppe e dell’angelo al suo fianco si ritorcono in gorghi
gonfiati da un vento che soffia da destra. Quest’ultimo dettaglio è
38 ANTOLOGIA DI ARTISTI
Per particolarmente significativo perché, stando in area lombarda, aiuta
Ambrogio a sciogliere il problema attributivo in favore di Giovanni Ambrogio
Figino
Figino: simili panneggi attorcigliati a spirale sono un dato abbastanza
frequente nelle sue opere tarde, a partire dalle ante d’organo del
Duomo di Milano (1590-1595)4, fino al ‘San Giorgio’ del santuario
di Rho (1605 circa /tavola 39/)5 e alle tele del transetto e del coro
della chiesa milanese di San Vittore al Corpo (1603-1607)6. L’ipotesi
figiniana prende corpo anche confrontando l’angelo a sinistra /tavola
40a/ con alcuni disegni della fase secentesca7, come quelli legati alla
perduta pala della cappella del Crocifisso (dei primi del XVII secolo)
in San Fedele a Milano /tavola 40b/8. I confronti con il corpus grafico
di Giovanni Ambrogio sono parecchi, e potrebbero continuare con
alcuni fogli del fondo veneziano, fra cui una ‘Crocifissione’ e un’‘An-
nunciazione’ (inv. 733 e 628) che ricordano, nel disegno delle gambe
del San Giovanni Evangelista e nel panneggio svolazzante dell’angelo,
alcuni tratti del San Giuseppe della ‘Fuga in Egitto’9. Somiglianze
con la figura della Vergine sono invece ritrovabili nel bozzetto per
la dispersa pala di Santa Prassede a Milano (Venezia, inv. 585) e in
un foglio con una ‘Natività’ di ubicazione ignota /tavola 41a, b/, in
cui è possibile osservare un’identica deformazione del braccio destro
piegato10.
Allo stesso modo, si possono ritrovare le formule della tela Mo-
linari Pradelli anche in molte opere pittoriche certe e documentate.
La stessa, riconoscibile fissazione anatomica ricompare in forme molto
simili in diversi dipinti della maturità e della fase tarda, dalle ante
d’organo, al ciclo di San Vittore, tanto da essere annoverabile tra i
caratteri figiniani frequenti e peculiari. Anche qui non è il caso di
dilungarsi in aride e noiose elencazioni; è sufficiente far scorrere l’ap-
parato iconografico delle due monografie figiniane per ritrovare più
volte, nel tortuoso itinerario dell’artista, le stesse cadenze presenti
nel nostro dipinto. Si potrebbe, per fare un paio di esempi, mettere
a confronto l’ostentata struttura osseo-muscolare del cavallo e del
drago nella pala di Rho con il disegno delle zampe dell’asino su cui
sono seduti la Madonna e il Bambino, o, in alternativa, accostare gli
innaturali puttini erculei delle volte di San Vittore alla singolare mu-
scolatura scolpita degli angioletti in volo sopra il gruppo centrale
della ‘Fuga in Egitto’: già Emanuele Tesauro, forse non a caso, aveva
ricordato Figino nel Cannocchiale aristotelico come un pittore di
“scheletri, e non di corpi”11. Ricorrono spesso in Figino anche altri
ANTOLOGIA DI ARTISTI 39
elementi peculiari della tela Molinari Pradelli: le anse rigide e cartacee Per
dei drappeggi, le nuvole rigonfie dalla consistenza quasi vitrea, le Ambrogio
Figino
mani adunche, sempre semiaperte, con i polsi piegati e le lunghe dita
affilate, e in atto di muoversi gesticolando aggraziatamente, i piedi
appuntiti, visti di profilo, con i caratteristici alluci all’insù. Tutti det-
tagli presenti, in modo più o meno visibile, in dipinti anche cronolo-
gicamente distanti fra loro, come l’‘Incoronazione della Vergine’ di
San Fedele, l’‘Orazione nell’orto’ di Santa Maria della Passione /tavole
42, 43/, la pala con la ‘Madonna e santi’ di Brera e il quadro mitolo-
gico per Rodolfo II12. Un esempio indicativo, fra i molti, è nella so-
vrapponibilità della mano aperta dell’angelo all’estrema sinistra (con
l’abito grigio e rosa salmone), con quella del San Benedetto nell’o-
monima pala di San Vittore /tavola 44/; un dipinto, quest’ultimo,
che, pur nella differente intonazione, ha molti elementi in comune
con la ‘Fuga in Egitto’.
Se poi il tono lieve, quasi elegiaco della tela può a prima vista
sembrare incompatibile con l’abituale grevità delle opere tarde, è
però vero che questa presunta discrepanza non basta, da sola, a met-
tere in crisi l’attribuzione; il problema non riguarda, infatti, i tratti
morfologici intrinseci dell’artista ma, casomai, l’eventuale scelta di
servirsi di un diverso registro linguistico. Lo stesso discorso vale per
un altro aspetto solo apparentemente incongruo come la scioltezza
nella stesura del colore, con i passaggi cromatici liberi, briosi, che
potrebbe ugualmente stupire, a un primo sguardo, chi abbia in mente
i tratti da cesellatore del giovanile ‘Ritratto Annoni’, del cosiddetto
‘Lucio Foppa’ di Brera,13 e delle due tavole individuate da Longhi
come precedenti di Caravaggio (il ‘San Matteo’ e il ‘Piatto di pe-
sche’)14; differenziandosi peraltro anche dalla maniera asciutta e con-
trollata delle ante del Duomo o della pala di Rho. È bene però ricor-
dare che, nel catalogo di Giovanni Ambrogio, non mancano dipinti
eseguiti con una stesura più mossa e vibrante: basta osservare la resa
dei ‘lustri’ e i tocchi di colore nel monumentale — ma pochissimo
noto — ‘Cristo nell’orto’ di Santa Maria della Passione, che, a un’a-
nalisi ravvicinata, si rivela ugualmente costruito a pennellate lasciate
a vista15.
Ammettendo l’attribuzione della ‘Fuga in Egitto’, si chiarireb-
bero quindi non pochi aspetti della fase tarda, a partire dalla strana
differenza di qualità e di stile, sempre denunciata dalla critica, fra
l’opera pittorica e i disegni, differenza che la tela Molinari Pradelli,
40 ANTOLOGIA DI ARTISTI
Per con il suo fare sciolto e moderno, contribuirebbe a mediare16. In se-
Ambrogio condo luogo, la stesura cromatica del dipinto non farebbe che con-
Figino
fermare quella progressiva evoluzione verso un maggiore pittoricismo
che è ben riscontrabile anche nel corpus grafico figiniano, con i di-
segni di età già secentesca che si distinguono dagli altri per il carat-
teristico effetto dei lievi tocchi di colore a pennello e delle lumeggia-
ture a biacca sulla carta colorata. Alcuni brani pittorici della ‘Fuga
in Egitto’, come la mano chiusa e il volto del San Giuseppe, sono in-
dice di un grado di sperimentalismo quasi più avanzato di quello dei
colleghi più giovani; così come lo è la noncuranza con cui, in prossi-
mità del profilo del capo e nelle cornee degli occhi, è lasciato in vista
lo strato di azzurro sottostante, altrove ricoperto da una mano di
giallo, mentre i volumi dell’angelo di destra, con il mantello rosso,
appaiono costruiti con segni rapidi e abbozzati. La tela Molinari Pra-
delli, con la sua stesura rapida e scintillante, attesta così l’avvenuto
superamento, non solo nel disegno, ma anche in pittura, di quella
soffocante infatuazione michelangiolesca (efficacemente sintetizzata
da Longhi)17 che sembrava aver inquinato la felice ispirazione del-
l’artista dai primi anni novanta. È chiaro quindi che la grevità che
emerge da molte opere tarde, come la ‘Natività della Vergine’ di
Sant’Antonio Abate o le stesse tele di San Vittore (testimoni di una
certa stanchezza, e — per dir così — di un certo disorientamento di
fronte al repentino rinnovarsi del panorama pittorico milanese) non
costituisce affatto la sola via intrapresa dal pittore negli anni finali
del suo cammino.
Purtroppo non si conosce abbastanza del Figino degli ultimi
anni per inserire la ‘Fuga in Egitto’ in una precisa sequenza crono-
logica; a parte la difficoltà di datare ad annum i singoli dipinti di
San Vittore, a mancare all’appello è soprattutto il confronto con le
opere eseguite dopo il 1605, a Torino, alla corte di Carlo Emanuele
di Savoia, in quello che fu senz’altro il momento del maggiore (ma
effimero) successo di Giovanni Ambrogio fuori Milano18. Perdute
nella (quasi?) totalità le opere piemontesi, quando Figino aveva so-
stituito Federico Zuccari come sovrintendente alla Grande Galleria
di Palazzo Ducale19, e in attesa di ritrovare nuovi quadri ‘da stanza’
dell’ultimo periodo20, è comunque possibile registrare caratteri affini
nella poco nota, coeva ‘Pietà’ della casa parrocchiale di San Vittore
/tavola 45/, dipinta anch’essa con una tecnica abbozzata e diseguale.
Anche in questa tavola, entrata un po’ a fatica nel novero degli au-
ANTOLOGIA DI ARTISTI 41
tografi certi (anche se ormai da tempo universalmente accettata)21, Per
colpisce l’alterazione antinaturalistica delle anatomie, caricata, questa Ambrogio
Figino
volta, di stralunati accenti tragici; impressiona l’allungamento delle
braccia adunche di Cristo, che assumono la strana, inusitata foggia
di due grandi ali aperte. Anche qui, come, in parte, nel dipinto mu-
rale con l’‘Incoronazione della Vergine’ nella volta del coro della
stessa chiesa, Figino sembra essersi affrancato da un certo ‘auto-
controllo’ che, in alcune occasioni, ne aveva raffreddato il talento,
oscillando, questa volta, più verso Cerano che Giulio Cesare Pro-
caccini e parafrasando i modelli centroitaliani (Michelangelo, Fede-
rico Zuccari, e magari anche Rosso Fiorentino) in un’interpretazione
che — caso raro — sembra voler rifarsi all’intensità espressiva del-
l’arte nordica22.
È proprio il vastissimo corredo di immagini che compongono
la cultura figurativa di Giovanni Ambrogio a celare, forse, la chiave
per comprendere non solo la svolta stilistica di cui farebbe parte la
‘Fuga in Egitto’, ma anche l’intero sviluppo del suo percorso23. È no-
tevole, infatti, come spesso, nell’itinerario figiniano, l’inizio di un
nuovo momento stilistico coincida con la forte impressione nata dal-
l’incontro con la pittura di altri artisti: così era avvenuto nelle tele
della cappella dell’‘Incoronazione della Vergine’ in San Fedele (1581-
1583), palesemente ispirate ai modi dello stesso Zuccari, e, alcuni
anni più tardi, nel ‘San Matteo’ e nelle ante d’organo (1587 circa e
1590-1595), opere che scandiscono i passaggi graduali dalla piena
maturità alla fase tarda, fortemente influenzate dai modi di Girolamo
Muziano24. Non è quindi impossibile che anche il divario fra la tela
Molinari Pradelli e gran parte degli altri dipinti coevi possa nascere
da un analogo aggiornamento culturale, coinciso forse con il passaggio
alla giovane corte di Torino, in cui era senz’altro possibile respirare
un’atmosfera più libera rispetto al sovraffollato ambiente milanese,
beneficiando di qualche fermento internazionale per la presenza di
pittori di varia provenienza.
Mauro Pavesi
NOTE