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Prologo
Quando i mondi collidono
L’inizio del gioco
Sensibili al colore
Che cosa farebbe coach Wooden
Abbiamo un problema, qui al Pauley Pavilion
«Il tempo può piegarti le ginocchia»
Il nostro lungo viaggio verso la notte
Ringraziamenti
add editore
Coach Wooden and Me.
Our 50-Year Friendship On and Off the Court
Grand Central Publishing, New York - Boston, 2017
© 2017 Kareem Abdul-Jabbar
add editore
Alla famiglia di coach Wooden, da chi, con umiltà, è orgoglioso di poterne
fare parte.
Prologo
Perché ci sono voluti cinquant’anni per scrivere questo libro
Nel 2016 ero nell’ala est della Casa Bianca insieme a venti persone che
ammiravo molto, tra le più famose e di successo al mondo. Tra queste Tom
Hanks, Robert Redford, Diana Ross, Michael Jordan, Ellen DeGeneres, Bill
e Melinda Gates, Bruce Springsteen, Cicely Tyson e Robert De Niro.
In più c’era un’altra persona.
Il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, che ha conferito
personalmente a ognuno di noi la Presidential Medal of Freedom. Quando è
arrivato a me, ho dovuto chinarmi perché potesse mettermela al collo.
Obama ha fatto poi un breve discorso per ognuno di noi, elogiando il
contributo che avevamo dato alla nazione. Mentre parlava di me, le sue
generose lodi mi hanno messo un po’ a disagio.
Le cerimonie di premiazione lo fanno sempre. Anche se apprezzo che si
riconosca che ho fatto qualcosa di rilevante e che sono ancora in vita, c’è un
elemento di autocelebrazione che mi disturba. Sono per natura molto timido
e non mi piace parlare di me. Alle feste sono il tipo seduto dietro il vaso con
la palma… una palma molto alta.
La cosa che più ho apprezzato, di ciò che ha detto il presidente Obama, è
stata che non mi trovavo lì solo per la mia carriera nella pallacanestro, ma
anche per i diciassette anni di libri e articoli che avevo scritto contro le
ingiustizie sociali nei confronti dei neri, delle donne, della comunità Lgbt,
dei musulmani e degli immigrati («perora nobili cause al Congresso e scrive
con straordinaria eloquenza di patriottismo»). Poi sono stato placcato e
travolto da un altro pensiero: se non esistesse l’ingiustizia sociale, avrei mai
preso quella medaglia? Stavo in qualche modo traendo vantaggio
dall’ingiustizia sociale? Quale mostro farebbe una cosa del genere?
Chi mai può avere simili pensieri mentre sta ricevendo il più alto
riconoscimento civile della nazione? Perché non potevo semplicemente
essere grato, sorridere e pensare: «La Presidential Medal of Freedom.
Wow!».
Il presidente Obama ha terminato la cerimonia dicendo: «Tutti gli uomini
e le donne su questo palco mi hanno toccato in modo forte e personale.
Queste sono le persone che hanno contribuito a fare di me l’uomo che
sono». È stato a quel punto che ho capito esattamente perché mi sentissi
così a disagio.
Mancava qualcuno.
L’uomo al quale, più che a chiunque altro nella vita, dovevo il fatto di
essere lì, nello stesso luogo in cui si era trovato lui tredici anni prima, e cioè
quando il presidente George W. Bush gli aveva conferito quella stessa
Presidential Medal of Freedom che io avevo appena ricevuto: coach John
Wooden. Ricordavo ancora che cosa aveva detto il presidente Bush riguardo
al rapporto del coach con i suoi studenti: «Coach Wooden continua a far
parte delle loro vite, nel doppio ruolo di allenatore e di esempio di come
dovrebbe essere una brava persona».
Ho guardato tra il pubblico che applaudiva sperando che il coach fosse tra
la folla.
Il suo ruolo di allenatore a Ucla, l’università della California, era stato
solo l’inizio. Dopo l’università, tra di noi si era sviluppata un’amicizia che
nei quattro decenni successivi si era fatta sempre più forte. Avevamo
festeggiato insieme i nostri trionfi e ci eravamo aiutati a vicenda a superare
le tragedie peggiori. Con il passare degli anni, avevo iniziato a giocare a
basket da professionista, mi ero sposato, avevo avuto dei figli e perso
persone care, mi ero ritirato e avevo cambiato carriera, ma non mi ero mai
allontanato dall’influenza di coach Wooden. Anche quel giorno, con la
medaglia che mi pesava al collo, sapevo che cosa avrebbe detto: «Kareem,
non pensarci troppo. Goditi il momento. Non lasciare che il passato si porti
via il presente».
Ho guardato la fila di persone dal folgorante successo alla mia destra e
alla mia sinistra e mi sono chiesto se ognuna di loro avesse avuto un coach
Wooden che, per citare il presidente Obama, aveva «contribuito a fare di me
l’uomo che sono». Lo speravo per loro, perché, senza il coach, la mia vita
sarebbe stata molto meno ricca. Meno ricca di felicità. Meno ricca di
significato. Meno ricca d’amore.
Più tardi, al ricevimento, la mia agente Deborah Morales mi ha chiesto
come stessi dopo un’onorificenza così prestigiosa.
«Bene», le ho risposto, ricordandomi il mio precedente ammonimento a
rilassarmi.
Lei ha riso. «Che gran scrittore che sei, se è tutto quello che ti viene in
mente.»
Ho riflettuto un istante, cercando qualcosa di pomposo e autoriale da dire.
«“Siano il riso e l’allegria a scavarmi le rughe dell’età.”1 Sono allegro.»
Deborah mi ha messo una mano sul braccio. «Stai pensando a lui, vero?»
Ho sollevato le sopracciglia in un’espressione di sorpresa. «Come lo sai?»
«Non potrebbe essere diversamente. Anche il coach ha contribuito a farti
arrivare qui.» Ha indicato la stanza piena di persone famose. «E poi hai
fatto una citazione colta, come faceva sempre lui. Ogni volta che lo fai, stai
pensando a lui.»
John Wooden è morto nel 2010. Allora perché ho aspettato sette anni prima
di scrivere questo libro?
Per una cosa che mi ha insegnato lui nei quasi cinquant’anni della nostra
amicizia. Quando giocavo per lui a Ucla, coach Wooden aveva un
approccio molto partecipativo. Ci seguiva correndo su e giù per la linea
laterale, gridandoci frasi di incoraggiamento e istruzioni. Poi prendeva da
parte qualcuno per mostrargli un tiro, un blocco, una finta. Sembrava avere
sempre il volto a pochi centimetri dai nostri. A volte, però, saliva in cima
alle tribune del Pauley Pavilion, dove per toccare il soffitto gli sarebbe
bastato alzare le braccia. Da lì ci guardava come un dio magnanimo,
osservandoci correre come insetti su e giù per il campo. Gli piaceva la
prospettiva che aveva da lì. Era un modo per vedere il quadro generale.
Studiare il modo in cui tutte le parti in movimento lavoravano insieme.
È quello che ho fatto con i nostri tanti anni di amicizia. Ho voluto
allontanarmi di sette anni dalla sua morte, per vederne il significato nel
complesso, misurare la portata dell’impatto che il coach aveva avuto su di
me e sugli altri. Questo libro nasce da quella visione d’insieme.
Avrei potuto scrivere di lui dopo aver lasciato Ucla, o dopo essermi
ritirato, o dopo la sua morte, ma quei libri non sarebbero stati questo libro.
Questo libro copre quasi cinquant’anni di un’amicizia in continua
evoluzione, vista attraverso gli occhi di un uomo, io, abbastanza vecchio e
maturo da capire la verità sul nostro rapporto, anche quando si parla di fatti
accaduti quando ero troppo giovane per riconoscere quelle verità.
La lezione più importante di coach Wooden è stata che non dovremmo
mai concentrarci sul risultato, ma sull’attività stessa. «Non pensate a
vincere la partita», diceva. «Fate però tutto il possibile per prepararvi. Se
saprete di aver fatto tutto il possibile e di aver dato il meglio di voi stessi sul
campo, quella sarà la vostra ricompensa. Il tabellone dei punti non è
importante.» Questa filosofia, che diventò la base del suo lavoro di
insegnante di letteratura e allenatore, era stata ispirata da una poesia
anonima che leggeva all’università:
Cercare di applicare la sua filosofia solo alle vittorie, sarebbe come fare
buone azioni solo nella speranza che ci apriranno le porte del paradiso. Far
bene è di per sé il premio, sia dal punto di vista sportivo sia da quello
spirituale. Per questo non gli interessavano i film sullo sport in cui la
squadra o il giocatore sfavoriti, pur imparando sulla loro pelle che vincere
non è tutto, alla fine vincevano. Per lui, quei film sarebbero dovuti finire
con la squadra che, imparata la lezione, entra in campo felice abbracciando
la nuova filosofia: fischio d’inizio della partita, fermo immagine, titoli di
coda. Mostrare la squadra vincente invia il messaggio sbagliato: che le
lezioni di vita servono ad aiutarti a ottenere cose che ti fanno sentire di
avere successo. Secondo lui, la lezione di vita era essa stessa il successo. La
ricompensa è il viaggio, non raggiungere la destinazione.
Questo libro non è solo una celebrazione della nostra amicizia o una
testimonianza della profonda influenza che coach Wooden ha avuto sulla
mia esistenza, ma nasce dall’aver capito che alcune vite sono così
straordinarie e toccano così tante persone che la loro storia deve essere
raccontata alle generazioni a venire, in modo che i valori che diffondono
non si perdano o scompaiano.
Coach Wooden era un bianco di mezza età del Midwest con ideali
all’antica; io un ragazzino nero di New York, silenzioso ma pieno di sé, che
lo superava in altezza di oltre quaranta centimetri. Lui era un devoto
cristiano; io diventai un devoto musulmano. Lui amava la musica delle
grandi orchestre; io il jazz moderno. Sulla carta, era comprensibile che
avessimo un buon rapporto lavorativo come allenatore e giocatore, ma
niente avrebbe fatto supporre che avremmo stretto una straordinaria
amicizia che sarebbe durata tutta la vita.
Il suo romanzo preferito era La tunica di Lloyd C. Douglas, sulla
crocifissione di Gesù. Lo rilesse molte volte e ne citava a memoria alcuni
brani. Un passaggio che gli piaceva particolarmente era questo:
La nostra vita è come un viaggio via terra: troppo piatto, facile e noioso,
se si coprono lunghe distanze in pianura, troppo difficile e faticoso, se si
salgono scoscesi pendii; ma, dalle cime delle montagne, si ha una vista
magnifica e ci si sente esaltati e gli occhi si riempiono di lacrime di
gioia e viene voglia di cantare e si vorrebbe avere le ali! Poi, però, non
si può rimanere lì, si deve continuare il viaggio: si inizia a scendere
dall’altra parte, così occupati a guardare dove si mettono i piedi che
l’esperienza della cima è già dimenticata.
Nel corso della nostra amicizia, coach e io siamo saliti su quella montagna
e abbiamo condiviso quella vista magnifica. Queste pagine sono il mio
tentativo di assicurarmi che la nostra esperienza della cima non venga
dimenticata, che altri possano compiere la stessa salita e i loro occhi
riempirsi di lacrime di gioia.
1
Dal Mercante di Venezia di William Shakespeare, trad. Goffredo Raponi [N.d.T.].
Quando i mondi collidono
Il contadino del Midwest incontra il cestista di Harlem
John Wooden è stato celebrato come il più grande allenatore nella storia
dello sport americano. Era soprannominato “il Mago di Westwood”1 (cosa
che odiava), per la sua capacità senza precedenti di accumulare vittorie.
Prima di ritirarsi, nel 1975, fece vincere a Ucla dieci campionati nazionali,
sette dei quali consecutivi, guidando a un certo punto la squadra in una serie
vincente di ottantotto partite. Questo gli fece guadagnare un posto nella
Basketball Hall of Fame. Ne andava molto fiero, anche se non gli ho mai
sentito accennare al fatto di essere stato il primo in assoluto a essere
nominato prima come giocatore e poi come allenatore. La filosofia che
aveva elaborato per vivere una vita piena e soddisfacente, la Piramide del
Successo, è diventata un popolarissimo strumento motivazionale, insegnato
a migliaia di sportivi in tutta la nazione. I suoi metodi di allenamento sono
stati adottati da licei, college e università di tutto il mondo. Persino
importanti aziende hanno utilizzato i suoi insegnamenti per creare gruppi di
lavoro migliori tra i dipendenti. La sua influenza è andata ben oltre i
ventotto metri per quindici del campo di pallacanestro su cui passò la
maggior parte della sua esistenza.
Ma, per me, coach Wooden era molto più di un guru del basket: era il mio
maestro, il mio amico e, per quanto non gliel’abbia mai detto, il mio
modello di vita.
Come scoprii in seguito, il nostro primo incontro era stato più che
rappresentativo della sua filosofia di reclutamento: «Volevo giovani che
desiderassero giocare per Ucla, e non da dover convincere. Ho sempre
creduto che il modo per mettere insieme una grande squadra fosse trovare il
genere di persone con cui volevi lavorare e dire loro la verità».
E la verità lui la diceva. Infatti, è stato forse l’unico allenatore della storia
del basket universitario che abbia convinto un giocatore di talento a
scegliere la sua università dicendogli che avrebbe giocato poco. Giocare per
coach Wooden faceva di te un membro della sua squadra per sempre. Nel
corso degli anni, ai raduni o a qualche evento, prima o poi conoscevi
persone che in periodi diversi avevano giocato per lui, e spesso diventavi
loro amico. Era come entrare in un club esclusivo. Tra gli ex giocatori che
ho conosciuto e di cui sono diventato amico c’è Swen Nater.
Swen, 211 centimetri, fu All-American dei community colleges2 nel 1970,
con una media di ventisei punti e quattordici rimbalzi a partita. Era stato
trasformato da ragazzino imbranato a giocatore di talento da Don Johnson,
il suo allenatore al Cypress College, che a sua volta era stato il primissimo
All-American di coach Wooden a Ucla. Nater era così diventato molto
ambito, e diverse università cercavano con ogni mezzo di reclutarlo,
strappandolo a Cypress. Ma Johnson gli aveva riempito la testa di racconti
su Wooden e la pallacanestro di Ucla e convinse Wooden a offrirgli una
borsa di studio. In realtà il coach cercò di dissuadere il ragazzo
dall’accettarla, dicendogli: «Swen, se verrai a Ucla, probabilmente non
giocherai molto, perché stiamo prendendo questo ragazzone rosso di San
Diego che si chiama Bill Walton, e lui ha un enorme talento». Poi aggiunse:
«Ma avrai l’opportunità di giocare tutti i giorni in allenamento contro il
migliore centro del Paese e credo che questo ti darà più possibilità di
diventare un giocatore professionista che se andassi in un altro ateneo».
Tutto quello che Wooden aveva detto si avverò. A Ucla Nater non giocò
molto, ma alla fine fu il primo giocatore a venire selezionato al primo giro
del draft Nba senza aver mai iniziato una partita da titolare all’università. E,
come aveva predetto coach Wooden, giocò dodici stagioni da
professionista, finendo persino un anno in testa alla classifica rimbalzi Nba.
Coach Wooden cercava carattere, oltre che abilità. Voleva un certo tipo di
persona, così si studiava il background dei potenziali acquisti spiegando:
«Prima ancora di farlo venire a Ucla, potevo imparare tantissimo su ogni
giocatore conoscendo l’ambiente in cui era vissuto». Per saperne il più
possibile, di tanto in tanto faceva anche qualche visita a casa dei prospetti
interessanti. Una volta mi raccontò che, durante una di queste visite – come
tipico del suo modo di fare non mi disse mai il nome della persona –, un
potenziale acquisto si mise a urlare contro la madre per un commento che
lei aveva fatto, perdendo all’istante la possibilità di giocare per lui: «Non
volevo una persona così irrispettosa nella mia squadra».
Rimasi molto colpito da John Wooden, ma un’altra cosa che mi convinse a
scegliere Ucla fu quando il viceallenatore Jerry Norman mi mostrò il nuovo
palazzetto in costruzione, il Pauley Pavilion. «L’evento inaugurale del
nuovo palazzetto è la partita annuale della prima squadra contro quella delle
matricole», disse con il tono più casuale possibile. Sapevo che cosa
intendeva. Se fossi andato a Ucla, avrei giocato quella partita.
Fin qui non c’era ragione di pensare che quel bianco di mezza età con un
taglio di capelli stile anni Trenta sarebbe diventato la persona più influente
della mia vita. Io ero Lewis Alcindor, 218 centimetri, diciottenne nero di
New York. Ero tutto metropolitane veloci, hot jazz e diritti civili. Lui era
John Wooden, 178 centimetri, cinquantacinquenne bianco di una cittadina
di provincia dell’Indiana. Era tutto… che cosa? Trattori, big band e morale
cristiana? Eravamo una coppia da sit-com e la nostra storia stava per
cominciare.
Il nostro unico denominatore comune era la pallacanestro. All’inizio
bastò.
Quando ci conoscemmo, ero un ragazzo molto timido. Il campo da basket
era l’unico luogo in cui avevo fiducia in me stesso e riuscivo a essere
aggressivo. A parte questo, stavo cercando di fare i conti con una società
che attorno a me cambiava in fretta. Stavo imparando come essere un nero
in America in un periodo molto difficile della nostra storia nazionale. Mi
sentivo in colpa perché vivevo una vita privilegiata, giocavo a pallacanestro
in California, studiavo in una delle migliori università, mentre agli altri
ragazzi della mia età le stesse opportunità venivano negate a causa del
colore della pelle. Guardando le marce del dottor King, fremevo dal
desiderio di fare qualcosa per unirmi alla lotta. Ma non volevo sacrificare il
mio futuro. Ero un ipocrita oppure, ottenendo un’istruzione, stavo aiutando
la causa?
I miei genitori e anche Jack Donahue, il mio allenatore alla Power
Memorial Academy, erano persone che lavoravano sodo e si aspettavano
che riuscissi bene, ma questo richiedeva da parte mia disciplina e
applicazione. Mi avevano insegnato che essere bravi era una bella cosa e mi
avevano dato il sostegno di cui avevo bisogno. Mi avevano fatto capire
molto bene che giocare a basket non era il mio obiettivo, bensì il mezzo per
realizzare i miei sogni.
Anche quando fu chiaro che avevo il talento per giocare a livello
professionistico, mi avevano ricordato che potevo anche infortunarmi e che
la sola cosa su cui avrei potuto davvero contare sarebbe stata una buona
istruzione.
Ed ecco quanto ero serio, in fatto di istruzione. In quarta elementare i miei
genitori mi mandarono alla Holy Providence School. Agli altri ragazzini
non piaceva che fossi un bravo scolaro, così venni identificato come nerd.
Mi chiamavano «testa d’uovo». A essere onesto, in un certo senso la cosa
mi piaceva: era bello attirare l’attenzione perché ero intelligente, invece che
perché ero alto.
Mia madre era una sarta cresciuta nel Sud della segregazione razziale, a
Wadesboro, nel North Carolina, e aveva ricevuto, a dir tanto, un’istruzione
da scuola media. Non ne faceva mai cenno, e non parlavamo della sua vita a
Wadesboro, ma mi spronava, non faceva che spronarmi a fare meglio, a
lavorare di più. Era una donna pragmatica e aveva molti sogni per me,
prima ancora che ne avessi io. L’istruzione era importante a casa nostra.
Ricordo che mi faceva sempre notare come il grande campione di pugilato
Joe Louis non parlasse molto bene, balbettava e a volte aveva difficoltà a
esprimersi. «Non voglio che diventi come lui», mi diceva. «Voglio che
diventi come Jackie Robinson.» Sottolineava spesso che il grande
Robinson, il campione dei Dodgers, era laureato. I miei genitori erano
molto più orgogliosi del fatto che dalle elementari fino alle superiori fossi
stato tra gli studenti migliori, che non del fatto che segnassi parecchi punti
in campo. Mi fecero da guida, insegnandomi a essere ambizioso.
Mio padre era un poliziotto che andò in pensione con il grado di tenente.
Ma la sua vera passione era la musica: quello era il suo mondo. Non era
particolarmente socievole: gli mancavano le buone maniere che mia madre,
al contrario, aveva in abbondanza. Lui esprimeva i propri sentimenti
attraverso la musica. Suonava ad Harlem, in gruppi locali, anche se non
riuscì mai a guadagnarsi da vivere in quel modo. Era un bravo orchestrale,
uno che lavorava bene in squadra, non un solista memorabile. Era il tipo di
musicista che avrebbe avuto successo nella sezione tromboni di una grossa
formazione, ma non ebbe mai davvero l’opportunità di farlo. Ricordo che
mi raccontava la storia di un’audizione mancata. Adorava Count Basie e un
giorno aveva saputo che aveva bisogno di un trombone per la sua orchestra.
Suonare per Basie sarebbe stato un sogno che diventava realtà. Lui però era
in servizio e seppe dell’audizione solo tornando a casa dal lavoro. Afferrò il
trombone e corse alla sala concerti, ma quando arrivò, Count Basie aveva
già ingaggiato qualcun altro e se n’era andato.
In un certo senso, la carriera musicale di mio padre fu come una frase che
termina con una virgola: incompiuta. Non ne parlava, ma la sua delusione
era evidente. Giurai a me stesso che non avrei vissuto una vita a metà:
intendevo continuare a provare fino a che non avessi raggiunto l’obiettivo.
Il momento più fulgido della sua carriera musicale fu probabilmente
suonare nell’orchestra della polizia che accompagnò Marilyn Monroe
mentre cantava Happy Birthday al presidente John F. Kennedy, al Madison
Square Garden nel 1962. Grazie ai bonus stanziati per i veterani di guerra
con il Servicemen’s Readjustment Act, mio padre frequentò la Juilliard,
concentrandosi sul trombone. Per passare il corso di pianoforte, però,
dovette imparare a suonare la Sonata al chiaro di luna. Si esercitò
tantissimo; giorno e notte, sentivamo solo Sonata al chiaro di luna, Sonata
al chiaro di luna, Sonata al chiaro di luna. Nel corso degli anni anch’io mi
sono cimentato con diversi strumenti, ma l’unico pezzo che mi sono sempre
rifiutato di suonare è stata la Sonata al chiaro di luna. Il mio problema,
crescendo, fu che non mi piaceva leggere la musica, così mia madre e mio
padre accettarono di farmi interrompere le lezioni e mi iscrissero alla Little
League, la lega di baseball giovanile.
Se è certo che abbia preso il mio amore per il jazz da mio padre, ascoltarlo
esercitarsi nella Sonata al chiaro di luna giorno dopo giorno mi insegnò
invece che per fare bene qualcosa, qualunque cosa, bisogna continuare a
lavorarci.
Forse, una ragione per cui alla fine mi trovai così bene con i metodi di
coach Wooden fu che i miei genitori avevano posto le stesse forti
fondamenta che il coach tanto spesso predicava: «Non sperare. La speranza
è per la gente non preparata».
Mia madre sottolineava sempre che per raggiungere i propri obiettivi era
necessario lavorare duro, mentre mio padre mi aveva dimostrato il valore
della ripetizione per riuscire a far bene qualcosa. La mia sfortuna era stata
che, per lui, quel qualcosa fosse ripetere la Sonata al chiaro di luna
all’infinito.
Se non ho il talento musicale di mio padre, da lui ho però ereditato
l’orgoglio etnico. Mia madre e mio padre avevano vissuto vite diverse.
Crescere al Sud aveva reso mia madre cauta con i discorsi sulla razza,
portava ancora le cicatrici psicologiche della sua educazione, e quindi
nascondeva dei segreti. Fu solo dopo i vent’anni che scoprii che sua madre,
mia nonna, aveva avuto una storia con un ricco proprietario terriero bianco,
e che mia madre in realtà era già stata sposata e aveva avuto due figli prima
di sposare mio padre. Il Sud della segregazione era una palude di segreti.
Mio padre non era più informato di me, a riguardo. Avevo due fratellastri
di cui, fino all’età di ventitré anni, avevo ignorato l’esistenza. Venivano a
New York e alloggiavano da parenti nel Queens, e ogni tanto mia madre si
inventava una scusa e andava a far loro visita. Perché lo tenesse segreto,
non lo saprò mai; nonostante le mie continue domande, si è portata le sue
ragioni nella tomba.
Il mio fratellastro e la mia sorellastra avevano saputo della mia esistenza
molto prima che io scoprissi di loro. A un certo punto ci incontrammo,
sviluppando un nostro rapporto. Adesso sono entrambi morti, ma ho
mantenuto i contatti con mia nipote, la figlia di mia sorella.
Mio padre era molto orgoglioso di essere un nero forte. I suoi genitori
erano entrambi sostenitori del leggendario leader nazionalista
afroamericano Marcus Garvey. Ricordo che parlava a lungo delle loro
conversazioni. Non era uomo da fare un passo indietro a causa del colore
della sua pelle, e questa fu la lezione più importante che imparai da lui.
Crebbi respirando l’aria del movimento per i diritti civili che gente come
mio padre aveva promosso. Vivendo a New York, a Harlem, a lungo ero
stato in qualche modo all’oscuro della realtà dei rapporti razziali nel resto
della nazione. Avevo amici sia neri sia bianchi e non mi ero mai imbattuto
in atti di manifesto razzismo. Iniziai a capirne un po’ di più nel 1962,
quando i miei genitori mi misero su un pullman della Greyhound e mi
mandarono a Goldsboro, nel North Carolina, per partecipare alla cerimonia
di laurea della figlia di loro amici. Era il periodo in cui i Freedom Riders (i
“Viaggiatori per la libertà”) prendevano i pullman per recarsi nel «profondo
Sud» e fare sit-in ai banconi delle tavole calde. Gli americani neri venivano
attaccati con manichette che sparavano acqua ad alta pressione, pungoli
elettrici per il bestiame e cani poliziotto.
Guardavo ogni sera il notiziario della Cbs, in cui Walter Cronkite
documentava molto bene le tensioni razziali, ma la cosa non mi aveva mai
toccato da vicino fino a che non salii su quel pullman diretto al Sud.
Quando attraversammo il Potomac ed entrammo in Virginia, vidi i cartelli:
negozio di alimentari per bianchi, tavola calda per bianchi, toilette per neri.
Non mi ero mai imbattuto nel concetto di «separati ma uguali» espresso con
tanta franchezza. Uno sguardo agli eleganti negozi per bianchi e alle cadenti
botteghe per «colored» bastò a farmi capire che separati erano separati, ma
di certo non uguali. Non conoscendo le regole, dovetti persino chiedere a un
nero più vecchio di me: «Mi è permesso camminare sullo stesso lato della
strada dei bianchi?».
Fu così che imparai a conoscere il prezzo di essere un giovane nero nel
Sud degli Stati Uniti e di conseguenza diventai più sensibile al sottile, ma
sempre pericoloso, razzismo del Nord. Iniziai a vedere i muri che c’erano
sempre stati ma di cui prima non mi accorgevo. Un giorno, a lezione di
religione nella scuola superiore che frequentavo, il Power Memorial, un
insegnante bianco mi spiegò che «i neri vogliono troppo e troppo in fretta».
Troppo? Stavamo festeggiando il centesimo anniversario del Proclama di
Emancipazione. Troppo in fretta? Ricordo il disgusto che provai nel
sentirmi costretto, se volevo un bel voto, a dire le cose che quell’insegnante
si aspettava di sentire.
Nell’estate del 1964 fui ingaggiato dall’Harlem Youth Action Program (un
programma per coinvolgere i giovani del quartiere) per scrivere sul giornale
settimanale dell’organizzazione. Dovetti informarmi sulla comunità
afroamericana e, nel farlo, iniziai a imparare di più su me stesso e sulla mia
storia. Questa ricerca mi aprì mondi che non avrei saputo immaginare:
cambiò la mia esistenza, e da lì non tornai più indietro. I miei incarichi mi
costrinsero a esplorare Harlem per la prima volta nella vita. Scoprii lo
Schomburg Center for Research in Black Culture (il Centro Schomburg per
la ricerca sulla cultura nera) e iniziai a conoscere l’animata vita artistica che
aveva fatto la storia durante la Harlem Renaissance degli anni Venti. Lessi
le opere dei grandi poeti neri, come Langston Hughes e Countee Cullen.
Lessi i romanzi di Richard Wright e gli scritti di Marcus Garvey e del
rivoluzionario nero W.E.B. Du Bois. Imparai di più sulla musica che mio
padre tanto amava, su Count Basie, Louis Armstrong e la nascita del jazz
tra quelle strade.
Ma non si trattava solo del passato: mentre camminavo per le vie di
Harlem, tutt’attorno a me il movimento si stava sviluppando. Fermo
all’incrocio c’era Malcolm X. I nazionalisti neri distribuivano giornali. La
gente indossava abiti africani colorati. Ero adolescente quando seguii la
conferenza stampa del dottor Martin Luther King, mentre il mio rito di
passaggio fu trovarmi coinvolto negli scontri di quell’estate, scappando per
salvarmi la vita, mentre tutt’attorno a me esplodevano colpi di arma da
fuoco. Il mondo stava cambiando, ed era pericoloso. Gli americani neri
stavano combattendo per i loro diritti; questa nazione non sarebbe mai più
stata la stessa. E quella battaglia sarebbe diventata una parte essenziale
della mia vita.
Al mio secondo anno alla Power Memorial, entrai nella prima squadra All-
American delle superiori. Nessuno riusciva a marcarmi in modo abbastanza
efficace da impedirmi di segnare di continuo, così cominciai a pensare che
la pallacanestro poteva essere il mio futuro. Avevo anche imparato a essere
più coriaceo. Ricordo che giocammo un’amichevole contro la Boys High di
Brooklyn, una delle migliori squadre della città. Quello che non sapevo era
che il mio allenatore, Jack Donahue, conosceva alcuni giocatori avversari e,
prima della partita, aveva detto loro di strapazzarmi un po’. Voleva vedere
quanto potevo incassare.
Uno di loro, però, portò la cosa un po’ troppo oltre e mi diede un morso.
Un morso! Quando lo dissi a coach Donahue, lui non mi credette fino a che
non gli mostrai i segni dei denti. Dopo quell’amichevole, uno dei giocatori
della Boys High disse a Donahue: «Coach, non devi preoccuparti per il
ragazzo. Sa badare a se stesso».
Jack Donahue mi insegnò i fondamentali del gioco. Non le regole, ma
come si gioca. Un anno andammo a Schenectady, una cittadina a nord dello
Stato di New York, per giocare con la squadra di Pat Riley. Gli arbitri mi
espulsero per falli nel primo tempo. Pensai che fosse ridicolo: non ero un
giocatore particolarmente fisico ma Donahue mi spiegò la realtà dei fatti:
«Non vogliono che vinciamo. È una cosa che devi capire. Il tuo unico
amico su quel campo è il tabellone. A volte la palla torna dritta verso di te,
e conquisti un rimbalzo. Ma è tutto». Quello fu l’inizio della mia
educazione cestistica. Fu così che imparai a tenere le braccia in aria e a
giocare senza fare falli.
La Power era a pochi isolati dal vecchio Madison Square Garden, e per
questo alcune squadre Nba usavano la nostra palestra per allenarsi. In
cambio a noi era permesso andare al Garden quando c’erano le partite. In
pratica, il coach Donahue mi ordinò di andare a vedere Bill Russell e i suoi
Boston Celtics, a ogni occasione. Era l’epoca in cui Wilt Chamberlain stava
infrangendo ogni record di punteggio; una sera segnò addirittura 100 punti
contro i Knicks. Ma, come sottolineò Donahue, mentre Chamberlain
segnava quei punti, i Celtics di Russell vincevano quei campionati.
Nessuno aveva mai dominato il gioco in difesa come Bill Russell, che
annullava le occasioni dei suoi avversari sotto canestro, costringendoli a
tirare da più lontano e abbassando la loro percentuale. Negando loro i tiri da
sotto, stoppandoli e conquistando rimbalzi in difesa, permetteva ai Celtics
di correre in contropiede. Io sono sempre stato un ottimo attaccante, ma
dopo aver compreso l’importanza del suo contributo, lavorai per diventare
anche un buon difensore. Bill Russell divenne il mio modello di gioco in
difesa. Donahue mi aiutò a costruire dei solidi fondamentali.
Durante la mia carriera alle superiori, la Power Memorial chiuse con un
record di 96 vittorie e solo 6 sconfitte; la squadra del 1963-64 fu campione
nazionale delle superiori e votata la migliore del secolo. Infilammo una
serie vincente di settantuno partite, interrotta dalla scuola DeMatha di
Hyattsville, nel Maryland, in quella che è stata definita «la partita del secolo
tra squadre delle superiori». Quando mi diplomai, possedevo gli strumenti
grezzi per giocare a basket a un livello molto alto. All’epoca, l’Nba non
selezionava giocatori con i requisiti per andare all’università – non
esistevano studenti one-and-done7 – quindi, qualunque ateneo avessi scelto,
avrei trascorso quattro anni lì.
Tra le cose che coach Wooden e io avevamo in comune, c’era la
convinzione che giocare a pallacanestro non fosse lo scopo delle nostre vite,
ma piuttosto un mezzo per renderle più appaganti. Credo di essermene reso
conto quando, alle medie, avevo iniziato a ricevere offerte per frequentare a
titolo gratuito le migliori scuole superiori cattoliche di New York. Era stato
allora che il basket aveva cominciato a pagare qualche conto. Subito dopo
divenne chiaro che avrebbe pagato anche la mia istruzione universitaria.
Sapevo che gli atleti professionisti guadagnavano bene, così, all’orizzonte,
seppur lontano, cominciò a profilarsi anche quella carriera.
Le università avevano iniziato a cercarmi quando ancora frequentavo il
secondo anno. All’inizio ricevevo un rivolo di lettere che mi offrivano borse
di studio a copertura totale per i college e le università di tutta la nazione,
ma a poco a poco il rivolo prese le proporzioni di un’ondata di piena.
C’erano addirittura università con programmi sportivi separati per bianchi e
neri che mi invitavano a rompere la barriera della segregazione. Coach
Donahue teneva tutte le offerte in una scatola nel suo ufficio e io mi
fermavo ogni settimana a vedere le ultime arrivate. Alla fine, ce n’erano
così tante che Donahue mi disse di non preoccuparmi più di fermarmi a
controllare il contenuto della scatola. «Potrei prendere questa scatola e
gettarla nel cestino. Potrai frequentare qualunque università abbia un
programma di pallacanestro accessibile con una borsa di studio.» Era un
pensiero da capogiro: potevo scegliere di frequentare praticamente
qualunque università d’America, e ai miei non sarebbe costata un
centesimo. Dovevo solo giocare a basket.
Pochi giovani hanno avuto le possibilità di scelta che ho avuto io. Sapevo
di voler andare a un’università dove poter ricevere un’istruzione di qualità
e, nel frattempo, giocare in una squadra di pallacanestro vincente. Volevo
un’istituzione che rispettasse i suoi studenti e atleti, quale che fosse il colore
della loro pelle o la loro provenienza, quindi questo eliminava la maggior
parte delle università del Sud. In più avevo diciotto anni: volevo frequentare
un ateneo lontano dai miei genitori, volevo divertirmi.
Alla fine, ridussi le opzioni alla University of Michigan, Columbia, St
John’s e Ucla. Coach Donahue aveva accettato l’offerta di diventare primo
allenatore all’Holy Cross College di Worcester, nel Massachusetts e mi
disse che avrei dovuto almeno andare a vederlo, che glielo dovevo.
Immagino pensasse che la pubblicità che ne sarebbe derivata lo avrebbe
aiutato nel reclutamento degli atleti, anche se sapevamo entrambi che non
c’erano possibilità che andassi lì. La Holy Cross era una buona scuola, ma
non aveva un programma di pallacanestro importante. Volevo giocare
contro gli avversari migliori, ma per rispetto verso il coach, andai a vedere
il college.
La St John’s era la squadra di casa di New York. Ero andato spesso al
Garden a vederla giocare. Aveva un programma integrato, competitivo a
livello nazionale e diretto da Joe Lapchick, un coach molto apprezzato. Nel
periodo in cui allenava i New York Knicks, aveva ingaggiato il primo
giocatore nero dell’Nba, Nat “Sweetwater” Clifton. Avevo conosciuto
coach Lapchick durante il mio primo anno alla Power. Anche lui, come
Donahue che lo venerava, viveva a Yonkers. Alla Power Memorial
riproducevamo l’attacco della St John’s e guardavamo filmati delle loro
partite.
Con i suoi 196 centimetri, all’epoca in cui giocava il coach Lapchick era
considerato insolitamente alto. Ricordo che, mentre stavo imparando a fare
i conti con la mia altezza, mi disse: «So che cosa vuol dire essere alti, Lew.
Nel quartiere dove sono cresciuto, essere alti era così insolito che i bambini
più piccoli mi indicavano, dicendo: “Ma’, guarda, uno zingaro”». Intendeva
dire che la sorpresa dei bambini per la sua diversità era tale che quello era
l’unico modo in cui riuscivano a esprimerla.
Coach Lapchick era espressione delle strade di New York tanto quanto
coach Wooden dei campi dell’Indiana, ma in realtà si erano trovati a giocare
l’uno contro l’altro, da professionisti, quando Lapchick era il centro degli
Original Celtics, di casa a New York… e si erano azzuffati. «Continuava a
spingermi», mi disse coach Wooden molti anni dopo e, nel parlarne,
sembrava ancora offeso dalla cosa. «Per tutta la partita, ogni volta che gli
passavo accanto, mi dava una spintarella. Poi, alla fine, mentre lo superavo
per andare a canestro allungò il piede e mi fece uno sgambetto. Perbacco,
ne avevo avuto abbastanza. Balzai in piedi e, senza pensare alle
conseguenze, lo afferrai per il davanti della maglia e lo minacciai: “Se lo fai
un’altra volta, ti spacco la faccia!”
«Non so chi dei due fosse più sorpreso di quella reazione. Se ci fossimo
picchiati, temo che non sarei stato io a spaccare la faccia a lui!»
Risi quando coach Wooden mi raccontò la storia, immaginando la
caricatura della zuffa: il coach Lapchick in piedi con la mano sulla fronte di
Wooden, per tenerlo a distanza di sicurezza, mentre quest’ultimo
continuava ad agitare le braccia.
Di primo acchito probabilmente mi sentii più a mio agio con coach
Lapchick: eravamo entrambi di New York e giocare per lui mi allettava. Ma
Lapchick aveva compiuto sessantacinque anni l’estate prima del mio ultimo
anno di superiori e fu costretto ad andare in pensione. Siccome non
conoscevo il suo successore, un giovane allenatore di nome Lou
Carnesecca, St John’s era fuori dai giochi. Pur non avendo frequentato
quell’università, sono rimasto per tutta la vita, e lo sono ancora, amico del
figlio del coach Lapchick, Rich.
A dire il vero, in un angolino della mente avevo sempre covato il pensiero
di frequentare Ucla. Moltissimi anni più tardi, ritrovai l’annuario delle
medie. In fondo c’era una pagina dedicata al mio futuro. In risposta alla
domanda: «La tua università preferita», avevo messo Ucla. La cosa mi
sorprese: non ricordavo di aver avuto un debole per la California a
quell’età.
Pensai che il mio interesse doveva essere iniziato quell’ultimo anno,
quando avevo conosciuto Willie Naulls. Naulls aveva giocato per coach
Wooden a Ucla, per poi diventare una star con i Knicks. Io avevo giocato
nella partita all-star della Catholic Youth Organization, l’associazione della
gioventù cattolica, dopo la quale erano venuti a parlarci tre giocatori dei
Knicks, tra cui Naulls. Lui mi aveva preso in un certo senso sotto la sua ala,
dicendomi che Ucla era un posto grandioso dove studiare e che giocare per
coach Wooden mi sarebbe piaciuto. «È un tipo fuori dal comune», mi aveva
detto. «Ti renderà migliore.» Non aveva detto che mi avrebbe reso un
giocatore di pallacanestro migliore, solo che mi avrebbe reso migliore.
Da bambino tifavo per Jackie Robinson e i Dodgers e quando la squadra si
era trasferita sulla West Coast ci ero rimasto male. Robinson aveva giocato
a football a Ucla, dove era stato un running back eccezionale; all’epoca,
Ucla era considerata l’università con il programma di football migliore
d’America. Quando ricevetti la lettera di Jackie Robinson che mi suggeriva
di prendere in considerazione Ucla, mia madre si emozionò, perché lo
ammirava molto per il suo coraggio e la sua intelligenza.
Mi scrisse anche Ralph Bunche, l’afroamericano che nel 1950 vinse il
premio Nobel per la pace e fu sottosegretario generale delle Nazioni Unite,
suggerendo che Ucla, dove lui stesso si era laureato, sarebbe stata per me
un’ottima scelta. Una domenica sera stavo guardando l’Ed Sullivan Show.
Era uno spettacolo di varietà; ogni settimana Sullivan si prendeva qualche
minuto per individuare eventuali personaggi famosi ospiti tra il pubblico e
rendere loro omaggio. Quella sera presentò Rafer Johnson, un giovane nero
che aveva vinto la medaglia d’oro nel decathlon alle Olimpiadi del 1960,
diventando il più grande atleta multidisciplinare del mondo. Quello che mi
colpì fu che Sullivan lo descrisse come presidente del corpo studenti di
Ucla. Ebbi l’impressione che a Ucla avrei potuto aspirare a essere qualcosa
di più di un semplice atleta, che le persone lì rispettassero Johnson per tutte
quante le sue qualità, dandogli l’opportunità di avere successo. Per me era
importante. Non volevo essere etichettato solo come un atleta.
Inoltre, Ucla era da tempo un’università progressista. Negli anni Trenta
aveva preso la decisione di essere aperta a tutti, assumendo persino un
professore ebreo che altrove era stato allontanato. Da allora aveva
continuato su quella linea. Anche il giornale degli studenti, il «Daily
Bruin», scrisse che una delle ragioni per cui avrei dovuto frequentare Ucla
era che l’ateneo era ben noto per le sue «idee nei confronti dei negri
(negroes)». Questo mi fece riflettere perché all’epoca, tra i progressisti, la
parola “negroes” era stata sostituita da “afroamericano”. Pensai che loro
intenzioni erano comunque buone, anche se il vocabolario ancora non si era
messo al passo con i tempi.
A conti fatti, quindi, avevo un sacco di motivi per scegliere Ucla. Ma, alla
fine, l’unico motivo che importava veramente era John Wooden.
Ci sono due modi in cui un grande maestro può influenzare i suoi studenti:
in primo luogo, con il valore pratico delle sue parole, insegnando loro a fare
cose che prima non sapevano fare o a farle meglio; in secondo luogo, con la
purezza delle sue azioni. Predicare banalità morali è facile ma, per rigare
dritto e vivere secondo quei valori morali, ci vuole una grande forza. Con le
sue parole coach Wooden mi ha insegnato molto sulla pallacanestro, ma,
cosa più importante, il suo esempio come uomo di incrollabile forza morale
mi ha insegnato a essere l’uomo che volevo essere e che avevo bisogno di
essere.
1
Il distretto di Los Angeles in cui sorge Ucla [N.d.T.].
2
I community colleges sono strutture in cui si ottengono diplomi più brevi e professionalizzanti di
una laurea. Sono stati istituiti negli anni Venti come alternativa alle più costose università pubbliche
[N.d.T.].
3
Pittore e illustratore statunitense (1894-1978), esponente del cosiddetto «realismo romantico»
[N.d.T.].
4
Si dice che uno dei giocatori di punta di coach Rockne, George Gipp, sul letto di morte a soli 25
anni, gli abbia fatto promettere che, ogni volta che per la squadra le cose si fossero messe male, lui
l’avrebbe spronata chiedendole di «vincerne una per il “Gipper”». La frase fu poi ripresa durante la
campagna presidenziale da Ronald Reagan che, avendo interpretato il giocatore nel film Knute
Rockne All American del 1940, si era a sua volta guadagnato il soprannome di “Gipper” [N.d.T.].
5
Nominato in almeno la metà delle liste riconosciute [N.d.T.].
6
Uno dei tanti soprannomi con cui sono stati conosciuti, negli anni, gli studenti della Purdue, con
riferimento al fatto che lì si insegnavano materie tecniche, considerate meno “alte” di quelle letterarie
[N.d.T.].
7
Giocatori che frequentano un solo anno di università e poi passano al professionismo [N.d.T.].
L’inizio del gioco
Il punto non è vincere e altre lezioni a bordo campo
John Wooden aveva davanti la più grande squadra di matricole della storia
del basket. Sedevamo sulla panchina di Ucla, in attesa delle prime parole di
saggezza dell’allenatore per il quale arrivavamo da ogni parte del Paese.
Alcuni, come me, avevano rinunciato a borse di studio a copertura totale in
altre scuole, solo per mettersi ai piedi del grande John Wooden.
«Buon pomeriggio, signori», iniziò secco.
«Buon pomeriggio, coach», rispondemmo in coro.
Lui ci guardò compiaciuto e si schiarì la voce, preparandosi a parlare. Ci
sporgemmo in avanti, pronti a tatuarci la sua saggezza nel cervello per
l’eternità.
«Oggi impareremo come metterci le scarpe da ginnastica e le calze in
modo corretto.»
Pur non osando ridacchiare, ci guardammo l’un l’altro come a chiederci
quale sarebbe stata la battuta finale di quello scherzo.
Il coach si chinò per togliersi scarpe e calzini. I suoi piedi rosa pallido
sembravano non essere mai stati esposti alla luce del sole in vita loro.
«Parleremo dei concetti di calze tese e scarpe comode», disse. «Tese-e-
comode.»
La squadra di pallacanestro delle matricole del 1965-66 seduta su quella
panchina comprendeva cinque All-American delle superiori. Quando mi ero
diplomato alla Power Memorial di New York, ero il giocatore più richiesto
dalle università della nazione. Il mio compagno di stanza a Ucla, Lucius
Allen, di Kansas City, era già considerato il miglior giovane giocatore del
Kansas. Lynn Shackelford, di Burbank, in California, era un tiratore
straordinario, e Kenny Heitz, di Santa Maria, sempre in California, era un
attaccante sicuro di sé che tutti volevano. Il quinto titolare era Kent Taylor,
uno studente del Texas senza borsa di studio, che in seguito si trasferì a
Houston. Eravamo venuti a Ucla perché aveva il miglior programma
universitario di pallacanestro del Paese, il luogo perfetto dove sviluppare
appieno il nostro talento prima di laurearci e passare al basket
professionistico. I Bruins avevano vinto due campionati nazionali
consecutivi, mentre io frequentavo gli ultimi due anni di superiori, e
quell’anno, prima dell’apertura della stagione, erano i favoriti per la vittoria
del terzo, anche se avrebbero dovuto farlo senza me, Shack, Lucius e
Kenny. All’epoca, secondo le regole Ncaa, alle matricole non era permesso
giocare a basket nel campionato universitario.
Era questo il grande John Wooden?
“Tese-e-comode” Wooden?
Conoscevamo i risultati che aveva ottenuto, sapevamo che il suo metodo
aveva prodotto grandi giocatori di pallacanestro ed eravamo entusiasti di
imparare da lui. Quelli erano i primi minuti del primo giorno della nostra
quadriennale carriera universitaria. Eravamo ansiosi di iniziare a studiare le
tecniche che avevano fatto di Ucla una squadra da campionato.
“Tese-e-comode è il segreto del successo di Ucla?” mi chiesi, un tantino
mortificato. Be’, eravamo lì per metterci ai suoi piedi, è vero, ma non
sapevamo che la cosa si dovesse intendere in senso letterale.
Il coach sorrise delle nostre espressioni sconcertate. «Come disse
Benjamin Franklin: “Per colpa di un chiodo”», continuò, il che ci lasciò
ancora più sconcertati. Sospirò e recitò:
Il primo anno a Ucla fu duro, proprio come aveva previsto coach Wooden.
A New York avevo la mia stanza, cosa che la maggior parte dei miei amici
mi invidiava. Dalla finestra vedevo The Cloisters, un museo costruito con
elementi presi da diverse abbazie medievali francesi, circondato da alberi
rigogliosi, e mi immaginavo scalare una delle torri con una spada e uno
scudo, per combattere a fianco dei tre moschettieri, proprio come nel mio
romanzo preferito. Se poi fosse stata coinvolta anche una bella e grata
damigella, tanto meglio, perché in quel periodo le ragazze immaginarie
erano le uniche che frequentavo.
A Ucla, d’un tratto, mi ritrovai a vivere in uno studentato pieno di
estranei, dividendo una stanza minuscola con il mio compagno di squadra
Lucius Allen, un ragazzo vivace del Midwest, con un atteggiamento
iperentusiasta nei confronti di tutto ciò che era californiano. Decisamente
diverso dai ragazzi di uptown New York. A dire il vero, però, c’era qualcosa
di tenero in lui. Il suo entusiasmo spontaneo era contagioso. Diventammo
buoni amici e alla fine giocammo insieme sia nei Milwaukee Bucks sia nei
Los Angeles Lakers.
Ma quel primo giorno ero troppo stordito per apprezzare qualunque cosa.
Mentre percorrevo il corridoio del dormitorio, gli altri ragazzi si fermavano
a fissarmi, senza ritegno. Ormai mi ci ero abituato, ma in qualche modo mi
aspettavo che gli studenti universitari fossero diversi, soprattutto in
California, dove erano abituati alle cose più insolite.
La maggior parte della gente pensa che essere alti sia un grande vantaggio,
ma ci sono alcuni lati seriamente negativi che pochi considerano. Quando a
dodici anni sei 196 centimetri, gli adulti iniziano a trattarti come se fossi già
un uomo. Danno per scontato che l’altezza equivalga a maturità e si
aspettano che tu agisca di conseguenza. Che tu sia più responsabile. Più
degno di fiducia. Più come loro. Questo continua per tutta l’adolescenza. A
diciotto anni ero 218 centimetri, cosa che mi metteva sulle spalle una sorta
di mantello di presunta saggezza e responsabilità che io non volevo. Io
volevo avere diciotto anni, essere una matricola, comportarmi in modo
stupido, a volte. Ma da sempre mi avevano trattato come se quel genere di
comportamento non mi si addicesse, e ora non sapevo come uscire da
quello schema.
L’altro inconveniente di essere molto alti è che a volte mi sentivo come se
vivessi in una realtà parallela, situata leggermente al di sopra di dove
vivevano tutti, e non riuscissi a trovare il modo di scendere. Immaginate
che la vostra testa fluttui quasi cinquanta centimetri al di sopra di quelle
della maggior parte delle altre persone. Loro vi parlano, ma si stancano
anche di allungare sempre il collo verso l’alto. A poco a poco, le
conversazioni si indirizzano verso altri, i cui occhi sono allo stesso livello
dei loro. Era come se un sottile strato di nubi mi separasse da tutti gli altri.
L’altezza intimidisce. Seduto al tavolo di un ristorante, con le lunghe gambe
scomodamente piegate, in modo che potessero starci anche gli altri, mi
sembrava di prendere più posto di quanto mi spettasse. Alle feste nelle case,
mentre tutti si ammassavano ballando sul quarantacinque giri di Shop
Around, di Smokey Robinson, con la testa che quasi sfiorava il soffitto mi
sembrava di consumare più aria di quanto mi spettasse.
Niente di tutto questo era intenzionale, ma accadeva.
Questa è la ragione per cui, quel primo giorno, decisi che ne avevo
abbastanza di farmi fissare e sussurrare alle spalle. Andai dritto nella mia
stanza, spensi la luce e mi addormentai. Passai così il mio primo sabato sera
in California.
Il mattino seguente fui svegliato dallo squillo del telefono. Risposi con un
«pronto» intontito.
Era l’ufficio studenti che mi dava indicazioni per raggiungere il Newman
Center, dove si teneva la messa cattolica. Ringraziai la voce, riappesi e mi
tirai le coperte sopra la testa. Fu la prima domenica della mia vita in cui
persi di proposito la messa. Non ci andai mai più.
Mi sentivo un po’ in colpa, per via di mia madre. Sarebbe stata delusa, e
io odiavo deludere le persone. Lew Alcindor era il tipo che amava
compiacere le persone, un bravo ragazzo che qualsiasi giovane sarebbe stata
orgogliosa di portare a casa dalla mamma.
O almeno lo era stato.
Per un istante mi chiesi che cosa ne avrebbe pensato coach Wooden. Tutti
sapevano che aveva forti valori religiosi. Si aspettava che i suoi giocatori
seguissero le sue orme? “Si fotta”, pensai, sentendomi in una certa misura
un duro, ora che avevo tagliato il primo ponte con la vita passata. Lui era il
mio allenatore e niente di più. Io ero lì per imparare la pallacanestro, e lui
era pagato per insegnarla. Non mi serviva altro da lui.
A volte vorrei avere una macchina del tempo, in modo da poter tornare
indietro e dare un calcio nel sedere al me stesso ragazzo. Be’, avrei presto
imparato che mi sbagliavo, riguardo al mio bisogno di una guida spirituale.
A Ucla gli atleti venivano trattati come star del cinema, ma in quella fama
c’era una falla, perché la maggior parte di noi era al verde. La mia borsa di
studio mi dava diritto all’istruzione e a vitto e alloggio, ma non copriva le
spese. Edgar Lacey, Lucius Allen e io eravamo arrivati a Ucla con
un’ottima reputazione, ma poco o nulla in tasca. Avevamo scelto
quell’università per il nostro futuro, ma questo non rendeva più semplice
affrontare il presente. Eravamo tutti quasi sempre a corto di soldi. E, cosa
peggiore, eravamo circondati da compagni che di soldi ne avevano a palate,
figli di celebrità e magnati del mondo degli affari che guidavano Bmw per
tornare a casa dei genitori a Malibù. Noi potevamo sì e no permetterci di
uscire la sera con una ragazza. Facevamo parte di un programma che
fruttava all’università milioni di dollari, eppure io indossavo pantaloni con
le tasche letteralmente bucate.
Nella nostra stanza allo studentato, la sera, Lucius e io sognavamo di
trasferirci in un ateneo dove fossero un po’ più generosi. Non facevamo sul
serio, erano solo lamentele da matricola. Trasferirsi in un altro ateneo ci
sarebbe costato un anno di eleggibilità per l’Nba e, in realtà, avremmo
dovuto affrontare le stesse restrizioni.
Non parlai mai della mia insoddisfazione con coach Wooden. Non
avevamo ancora sviluppato quel tipo di rapporto. Ero solo e mi stavo
scrollando di dosso almeno parte di quell’identità che i miei genitori
avevano lavorato tanto duramente per darmi. Ma non avevo trovato niente
con cui rimpiazzarla.
Così mi dedicai alla pallacanestro. Sul campo, sapevo sempre esattamente
chi ero e che cosa ci si aspettava da me.
La cosa più sbagliata che la gente possa pensare di coach Wooden è che
mirasse a vincere. È un errore facile da commettere, perché è stato uno
degli allenatori che hanno vinto di più nella storia. Ma non è così. In realtà,
era proprio il contrario.
«Chiedere a un atleta se gli piace vincere è come chiedere a un broker di
Wall Street se gli piacciono i soldi», ci disse un giorno. «Certo che
vogliamo vincere. Io adoro vincere. Ma vincere non è il nostro obiettivo.»
Non aprii bocca, era ovvio che si trattava di un’eresia nel mondo dello
sport. C’è chi è stato messo al rogo per molto meno.
Uno dei giocatori del primo anno alzò la mano. «Coach Sanders dice:
“Vincere non è importante; è l’unica cosa che conta”.» Sorrise appena,
come se gliel’avesse fatta in barba.
Il coach scosse la testa. Si diceva che l’allenatore di football di Ucla,
Henry Russell “Red” Sanders, avesse pronunciato quelle parole immortali
nel 1949, dopo una partita persa contro University of Southern California.
Immediatamente, gli allenatori di ogni dove l’avevano utilizzata come un
mantra per spronare i loro giocatori nella frenesia della vittoria.
«Vincere è l’effetto collaterale del lavoro duro», spiegò con pazienza il
coach, «così come una perla è l’effetto collaterale della lotta dell’ostrica
contro un parassita.»
«Pensavo fosse un granello di sabbia», intervenne qualcun altro.
Il coach lo ignorò. I fatti erano fatti. «L’obiettivo è il duro lavoro. La
ricompensa è la soddisfazione di esservi spinti al limite, dal punto di vista
fisico, emotivo e mentale. È mia ferma convinzione che quando in una
squadra tutti lavorano il più duramente possibile, fino a provare un moto di
soddisfazione e serenità in fondo al cuore, quella squadra è pronta a tutto e
ad affrontare tutto e tutti. A quel punto, vincere di solito è inevitabile.»
Per uno studente del primo anno, quella era una follia. Al coach era forse
preso un colpo? Le vittorie si traducevano in più pubblico alle partite,
donazioni degli ex alunni e denaro da parte delle televisioni; se si perdeva,
non era la stessa cosa. Il suo lavoro e le nostre borse di studio dipendevano
dal fatto che vincessimo: questa era la realtà.
Mi ci vollero anni per apprezzare appieno quella lezione. Sono convinto
che anche i discepoli, quando Gesù disse loro la prima volta di porgere
l’altra guancia, se qualcuno li avesse colpiti gli avranno probabilmente
risposto: “Cosa???”. Dovevano abituarsi all’idea. Nonostante fossi solo al
primo anno, ammiravo il pensiero del coach, anche se lo trovavo un po’
troppo metafisico. Per quanto mi riguardava, bisognava lavorare duro per
battere gli avversari. La soddisfazione stava nel lasciare il campo con i
tifosi che esultavano per la tua squadra, e non per l’altra. Ma pian piano,
partita dopo partita, stagione dopo stagione, iniziai a vedere la vittoria come
la vedeva lui.
Una cosa che mi spinse nella sua direzione fu osservare come reagiva
dopo una vittoria o una sconfitta, in particolare quando si trattava di una
partita importante. E nessuna partita fu più importante di quella del 20
gennaio 1968 contro i Cougars della University of Houston, un incontro che
tutti definirono «la partita del secolo». Fu la prima partita della stagione
regolare Ncaa a venire trasmessa in televisione in tutta la nazione in prima
serata. Avevamo giocato contro i Cougars la stagione precedente, nelle
semifinali Ncaa e li avevamo schiacciati 73-58, finendo poi per vincere il
torneo. Vista la nostra serie vincente di quarantasette partite, eravamo di
gran lunga i favoriti, ma perdemmo negli ultimi secondi 71-69. Io giocai la
partita peggiore di tutta la mia carriera universitaria, con meno del 50 per
cento dal campo. Naturalmente diedi la colpa all’infortunio all’occhio che
avevo subito in partita la settimana prima. La squadra ne fu devastata.
Fummo umiliati in televisione, davanti a milioni di tifosi. Ma il coach entrò
tranquillo nello spogliatoio, scrollò le spalle e disse: «Stasera sono stati loro
la squadra migliore». Non accampò scuse, non attribuì colpe. Non cercò di
denigrare gli avversari.
Provai un misto di risentimento e invidia nei suoi confronti. Il mio
stomaco si stava contorcendo, come se avessi ingoiato un barracuda e
questo stesse azzannando tutto ciò che incontrava, mentre il coach
sembrava fresco e allegro, pronto per un altro round. Avrei voluto sentirmi
così anch’io. Stava andando a casa e avrebbe senza dubbio dormito un
sonno tranquillo. Io sarei rimasto sdraiato sul letto a fissare il soffitto,
rivivendo ogni azione, ogni punto, ogni tiro sbagliato.
Né i Cougars né la nostra squadra persero un’altra partita per il resto della
stagione, il che ci portò a una rivincita alle semifinali. Questa volta li
distruggemmo, 101-69. Negli spogliatoi eravamo esultanti, festeggiavamo
la nostra vendetta. Entrò coach Wooden, sul volto la stessa espressione di
quando avevamo perso. Si congratulò con noi per la partita ben giocata. Si
assicurò che ringraziassimo il coach Jerry Norman, la cui difesa diamond-
and-one ci aveva aiutato a contenere il miglior realizzatore dei Cougars,
Elvin Hayes, che aveva una media di 37,7 punti a partita ma quella sera ne
aveva segnati solo dieci.
Poi il coach uscì dalla stanza, e io sapevo che sarebbe tornato a casa per
un altro sonno tranquillo. Io sarei rimasto sveglio a festeggiare e, più tardi,
sdraiato a letto, a rivivere ogni azione, ogni punto, ogni tiro sbagliato.
Anni dopo, gliene chiesi ragione. «Umile nella sconfitta, modesto nella
vittoria», gli dissi. «Era così buono da essere quasi irritante.»
Questo lo sorprese. «Davvero? Non ci avevo pensato.»
«Sì, faceva fare a noi poveri mortali la figura dei cattivi.»
Rise. «Credimi, Lewis, sono mortale come chiunque.»
«Solo se chiunque è Gandhi.»
Rise di nuovo. «Vi ho sempre detto che l’obiettivo non era vincere, ma
fare del vostro meglio.»
«Da dove ha preso questa idea? Dalla Bibbia?»
Scosse la testa. «Kipling.»
«Il libro della giungla?»
«No, la poesia Se. La conosci?»
«Vagamente. L’abbiamo studiata alle superiori.»
«È un padre che dà consigli al figlio. La chiave è la seconda strofa. “Se
saprai sognare, ma senza fare del sogno il tuo padrone; / se saprai pensare,
ma senza fare dei pensieri il tuo scopo; se saprai confrontarti con Trionfo e
Disfatta, / trattando quei due ciarlatani allo stesso modo”. Alla fine dice al
figlio che, se seguirà le quattro strofe di consigli, “tua sarà la terra con tutto
ciò che contiene / e, cosa più importante, figlio mio, sarai un Uomo!”»
«Quattro strofe di consigli. Credo che abbia finalmente trovato qualcuno
che le dà filo da torcere.» Mi piaceva prenderlo in giro per la sua
conoscenza enciclopedica degli autori e la sua capacità di citarli ogni volta
che doveva spiegare qualcosa. Un insegnante di letteratura fino in fondo.
Ironia della sorte, questo fastidioso “sassolino” alla fine divenne la mia
perla: scrivendo, sono diventato famoso per le mie citazioni di scrittori,
poeti, canzoni e film, che utilizzo quando devo illustrare un passaggio per
me importante.
Quando la gente mi chiederà delle mie influenze letterarie, immagino che
dovrò rispondere Shakespeare, Langston Hughes, James Baldwin e coach
Wooden.
«I versi cui mi riferivo, Lewis, sono quelli che dicono che il Trionfo e la
Disfatta sono uguali. Sono entrambi ciarlatani, perché sono momentanei. È
più importante diventare un uomo di principi. La felicità duratura viene da
lì.»
«In altre parole, a volte si vince, a volte si perde.»
Finse esasperazione, ma sapeva che lo stavo prendendo in giro, come al
solito.
Aggiunsi: «Kipling non dice qualcosa a proposito del riempire ogni
minuto correndo? Ricordo qualcosa del genere».
«“Se saprai riempire ogni inesorabile minuto / coprendo sessanta secondi
di strada a passo di corsa”.»
«Come i suoi allenamenti», dissi io.
Lui rise annuendo. «Come i miei allenamenti.»
Mi ci volle un po’ – okay, anni – per arrivare a trattare Trionfo e Disfatta
come ciarlatani. Non è un equilibrio facile da mantenere, quando il tuo
sostentamento dipende dal fatto che tu vinca. Verso la fine della carriera mi
è stato più facile sostenere quella prospettiva, uscire dal campo dopo una
vittoria o una sconfitta con la stessa sensazione di fondo che quanto appena
successo fosse ormai passato, e di aver giocato dando tutto me stesso. Dopo
essermi ritirato, cominciai a scrivere a tempo pieno. Libri, articoli,
documentari, romanzi e persino fumetti. Ogni lavoro era una sfida, perché
sapevo che ci sarebbero state persone pronte a criticarmi: «Limitati al
basket, Kareem». Ma io scrivevo, riscrivevo, limavo e riscrivevo ancora,
mettendo in ogni pagina tutto ciò che avevo dentro. Quel processo di
cercare di fare del mio meglio mi dava gioia. Quello che sarebbe successo
in seguito, se quello che avevo fatto sarebbe stato un trionfo o una disfatta,
non contava altrettanto.
La cosa bella di avere il coach come amico per la vita è stata che, ogni
volta che ho vacillato, lui era lì a ricordarmelo. E mi piace pensare di
esserci stato, nei suoi trionfi e nelle sue disfatte, a tendergli una mano cui
appoggiarsi.
La regola d’oro del basket – e della vita – di coach Wooden era una frase
breve: «Fallire la preparazione significa prepararsi a fallire». L’aveva presa
in prestito da Benjamin Franklin, ma la fece sua, applicandola a ciò che
faceva. A volte la pronunciava ad alta voce, altre piano, ma la diceva
spesso, come se volesse che le parole penetrassero nelle nostre scatole
craniche e nei nostri cervelli, scritte con lettere al neon lampeggianti. «Il
talento è la cosa più importante», diceva. «Nessuno vince senza un grande
talento… Ma è anche vero che non tutti coloro che hanno talento vincono.»
Il talento ti portava solo fino a un certo punto; l’allenamento faceva il
resto.
Uno dei modi in cui applicava questa filosofia era attraverso la
preparazione atletica. Avendo giocato fino all’anno prima in una squadra
campione nazionale e avendo solo diciotto anni, pensavo di essere già in
ottima forma. Il coach mi dimostrò che stavo sbagliando.
«La squadra più in forma generalmente vince», ci diceva. «Volete sapere
perché così tante partite vengono vinte o perse negli ultimi quindici minuti?
Perché una squadra ha finito la benzina, mentre l’altra no. Noi saremo
sempre l’altra squadra. I giocatori stanchi sbagliano più canestri, difendono
in modo meno aggressivo, strappano meno rimbalzi. Quelli non saremo mai
noi.»
E se qualcuno della nostra squadra osava menzionare la fortuna, con frasi
tipo: «Ragazzi, questo sì che è stato un tiro fortunato» o «In quella partita
hanno solo avuto fortuna», veniva rimbeccato con l’inevitabile: «Più
duramente ti alleni e più sarai fortunato».
Dal primo giorno del mio anno da matricola fino all’ultimo allenamento
prima della laurea, non abbiamo fatto altro che correre. E poi correre
ancora. Il programma di allenamento di John Wooden non conosceva
scorciatoie. Facevi un esercizio fino a che non lo facevi bene, e poi lo
facevi di nuovo. La filosofia di base imparata in quei lunghi pomeriggi mi
ha permesso di protrarre la mia carriera da professionista per vent’anni, più
di qualunque altro giocatore. Ho sempre pensato che il regime di
preparazione atletica al quale sono stato sottoposto a Ucla fosse la ragione
principale che mi ha permesso di giocare in Nba ad alto livello molto più a
lungo di giocatori come, ad esempio, Wilt Chamberlain. Wilt si è sempre
impegnato per essere il più forte di tutti. Ma non era in grado di correre in
campo e non era flessibile. Invecchiando, ciò che richiedeva velocità e
agilità uscì sempre più dalla sua portata, perché lui non faceva altro che
sollevare pesi.
A Ucla gli allenamenti si tenevano di solito il pomeriggio, dalle due e
mezzo alle quattro e mezzo e questa era la ragione per cui il coach ci disse
che voleva che portassimo i capelli corti: la sera era più fresco, e lui era
preoccupato che, se fossimo usciti al freddo con i capelli bagnati, avremmo
potuto prenderci un raffreddore; come lui stesso sottolineava, se ci
ammalavamo non potevamo giocare; e, se non potevamo giocare,
danneggiavamo l’intera squadra. Non osai mai fargli notare che i raffreddori
erano causati dai virus, e non dai capelli bagnati.
Dopo l’allenamento, ero così esausto che dovevo tornare nella mia stanza,
collassare a letto e fare un sonnellino fino alle nove di sera. Poi mi
svegliavo, studiavo fino a mezzanotte e tornavo a dormire. Non proprio
l’eccitante stile di vita che la gente immaginava.
Quel severo regime di allenamento mi fu molto utile il primo anno da
professionista. Quando arrivai in Nba sapevo segnare e passare la palla,
stoppare e andare a rimbalzo. Ma avevo anche un’altra abilità di cui non mi
rendevo conto e che mancava a molti dei miei compagni di squadra. Avevo
assimilato la capacità di lavorare al massimo delle possibilità nella vita
quotidiana. Non lo mettevo mai in discussione, lo facevo e basta. Ero
l’attaccante in condizioni migliori, alla pari di tutte le nostre guardie. Nei
300 metri ero il più veloce della squadra.
All’inizio della mia stagione d’esordio in Nba, stavamo giocando a
Cleveland ed ero l’unico in campo a darci davvero dentro. Segnai 37 punti,
conquistando una quindicina di rimbalzi, avevo stoppato qualche tiro e fatto
un paio di assist, ma nessun altro stava giocando seriamente. Il nostro
allenatore, Larry Costello, era furioso. Negli spogliatoi, dopo la partita,
strapazzò tutti quanti. Quando arrivò a me, si fermò, mi indicò e disse:
«Questa è l’unica persona che là fuori si sta dando da fare». Come
esordiente, apprezzai quel riconoscimento, perché significava che mi ero
guadagnato il rispetto dei compagni di squadra. Ringraziai tra me e me
coach Wooden, per averci spinto a raggiungere il massimo della forma.
Ci allenavamo anche su tutti gli esercizi di squadra che il coach
concepiva. E se voleva che uno di noi lavorasse su qualcosa in particolare,
ci esonerava dagli esercizi per qualche minuto e lavorava con noi. Durante
gli allenamenti non parlava molto. Perlopiù ci insegnava le cose
facendocele vedere di persona. Quando voleva che ci spostassimo in un
determinato punto, ci spostava lì. Quando voleva che facessimo un certo
passaggio, ci mostrava come farlo. Facevamo gli esercizi e giocavamo tra di
noi. L’unica cosa per cui non aveva tempo, durante gli allenamenti, era
perdere tempo. Correvamo di esercizio in esercizio, di postazione in
postazione. Se ci rilassavamo un secondo, lo sentivamo esortarci: «Forza,
ragazzi, andiamo! Se siete troppo stanchi per allenarvi, siete troppo stanchi
anche per giocare».
Il coach aveva una regola per la quale durante gli allenamenti non
potevamo bere acqua. Ci dava alcune compresse di sali minerali per
prevenire i crampi. Non ci spiegò mai questa sua filosofia. Forse pensava
che la privazione ci avrebbe reso più forti, come i legionari francesi costretti
alle marce forzate nel deserto. O forse pensava che le frequenti pause per
l’acqua avrebbero rallentato gli allenamenti. Quale che fosse la ragione, per
noi era dura. Alcuni giocatori succhiavano di nascosto gli asciugamani
bagnati. Ma, appena possibile, sgattaiolavamo via per raggiungere le
fontanelle. Ricordo di avergli raccontato una volta di come scappavamo a
bere quando non ci guardava o era distratto. Gli feci un gran sorriso
compiaciuto, orgoglioso di avergliela fatta in barba.
«Lewis», ribatté lui, «credi davvero che non fossi io a darvene
l’occasione? Non eravate la mia prima squadra, sai?»
A volte lavorava da solo con me. Mi piacevano quelle sessioni private,
perché sapevo che in ognuna imparavo qualcosa che mi avrebbe reso un
giocatore migliore. Insieme dovevamo stonare un po’: un uomo di 178
centimetri che a bordo campo mostrava le basi del rimbalzo al suo centro di
218. «Il rimbalzo è tutto una questione di posizione, Lewis», diceva con
enfasi. «Se sei in quella giusta, la forza non fa alcuna differenza. I contatti
sotto canestro non sono altro che il tentativo di ottenere la posizione
migliore. Se sarai più veloce del tuo avversario nel raggiungere quella
posizione, annullerai ogni vantaggio fisico.» Quando insegnava, di solito
teneva un pallone in mano e cercava di guardarmi negli occhi, o almeno
quanto più possibile vicino a quell’altezza riuscisse ad arrivare. In qualche
modo, quando lavoravamo su queste cose, l’autorità nella sua voce lo
faceva sembrare più alto.
Fatti gli esercizi, giocavamo tra di noi. Quello che in partita spesso
sembrava avvenire spontaneamente, era in realtà il risultato di ore di
pratica, che facevano sì che alla fine le nostre reazioni diventassero istintive
e istantanee. Non avevamo schemi di gioco prestabiliti. Avevamo uno
schema offensivo di base – tu lì, tu lì, tu in quell’angolo, fermati lì – e poi
sviluppavamo diverse opzioni, a seconda di come difendevano i nostri
avversari. Il nostro attacco era strutturato per riconoscere le opportunità
come gruppo e approfittarne.
Ogni allenamento finiva con i tiri liberi. Per potercene andare dovevamo
realizzare due tiri uno di seguito all’altro; dovevamo starcene lì sulla linea a
tirare fino a che non ci riuscivano. E poi, appena prima di andare via, il
coach ci rammentava (le parole a volte erano diverse, ma il pensiero era
sempre lo stesso): «Ricordate, tutto quello per cui abbiamo lavorato
duramente oggi può venire distrutto se tra adesso e il nostro prossimo
allenamento prenderete una decisione sbagliata».
Le tre decisioni sbagliate in cima alla lista erano droga, alcol e sesso.
L’alcol al campus era un genere di prima necessità; una tradizione
riconosciuta, un modo accettabile di scaricare la tensione. Eravamo a metà
degli anni Sessanta, e le droghe inondavano i campus di tutto il Paese,
contribuendo ad alimentare la rivoluzione sessuale, due cose che avevano
guadagnato popolarità troppo in fretta, per i valori conservatori del coach.
Stava combattendo una battaglia persa in partenza contro i più grandi
cambiamenti culturali e politici della storia americana.
Nonostante le raccomandazioni, qualcuno di noi, in squadra, fumava
marijuana. Io mi ci ero imbattuto a New York e di tanto in tanto me l’ero
concessa, con i miei amici. All’università, però, farne uso sembrava più
hippy e più un’affermazione di anticonformismo che un modo per andare su
di giri. Inoltre, mi aiutava con le mie emicranie, che stavano diventando più
frequenti. Sperimentai anche per la prima volta l’Lsd, scoprendo tuttavia
presto che la sensazione di sentirmi senza controllo non mi piaceva.
Coach Wooden si intrometteva nelle nostre vite sessuali solo quando
pensava che costituissero un pericolo. E il pericolo maggiore che
intravedeva erano le relazioni interraziali. Per il coach erano un fenomeno
piuttosto recente. Non si rendeva conto di quanto diffuse fossero nel
campus, soprattutto tra i suoi giocatori. Parlò in privato con Mike Warren,
che usciva con una ragazza bianca, e con Kenny Heitz, che usciva con una
ragazza di origine asiatica, mettendoli in guardia contro le possibili
ripercussioni sociali. Non espresse mai obiezioni sull’idea delle relazioni
interrazziali in sé, ma era cresciuto in un posto in cui il Ku Klux Klan
avrebbe reagito a una cosa del genere con estrema violenza e si
preoccupava che ci potesse accadere qualcosa di simile. Voleva proteggere i
suoi ragazzi, ma senza rendersi conto di quanto rapidamente la cultura
stesse cambiando. Erano arrivati i Beatles. Continuavano le marce per i
diritti civili. Erano iniziate le proteste contro la guerra. Le donne
chiedevano diritti che la maggior parte della gente nemmeno si era accorta
fossero stati loro negati. La rivoluzione era nell’aria, niente avrebbe potuto
fermarla, nemmeno un allenatore benintenzionato.
Il coach aveva una fede nel sistema anacronistica ma affascinante: come
un orologio da taschino o le gite in auto in campagna la domenica. Anche
quando non era d’accordo con il governo, credeva che alla fine avrebbe
fatto la cosa giusta, perché la gente, persino i politici, era fondamentalmente
buona. Durante uno dei ritrovi della squadra, Bill Walton raccontò quanto il
coach si fosse arrabbiato con lui quando era stato arrestato a una
manifestazione per la pace. Era andato a prenderlo in prigione e lo aveva
accompagnato a casa senza dire una parola, ma fremendo di rabbia. Alla
fine, aveva detto: «Come puoi fare una cosa del genere? Mi stai deludendo.
Stai deludendo Ucla. Stai deludendo i tuoi genitori». Quando Bill aveva
espresso la sua rabbia per la guerra e quanto fosse sbagliata, a sorpresa il
coach si era detto d’accordo. Ma, come era prevedibile, la soluzione che
proponeva era tanto singolare quanto rispettosa. «Farsi arrestare non è il
modo giusto», aveva detto. «Quello che dovresti fare è scrivere lettere di
protesta.»
Per me, per Bill, per gli studenti che giocavano per il coach in quel
periodo, si trattava della solita vecchia frase che chi deteneva il potere
aveva usato per secoli in risposta alle richieste di giustizia sociale:
«Aspettate il vostro turno. Scrivete lettere. Lettere con parole forti. Vi
risponderemo a tempo debito». “A tempo debito” significava “mai”.
Il coach non portò mai la politica in squadra, ma noi la portavamo a lui.
Non discuteva delle sue convinzioni con noi, non ci chiese mai che cosa
pensassimo. Non gli interessavano le nostre opinioni, ma come ci
comportavamo. Sia in campo sia fuori, si aspettava che rispecchiassimo i
valori di correttezza nel gioco e rispetto per gli altri. Purtroppo, i tempi
stavano cambiando in fretta e in modo così drammatico che il modo in cui
si potevano rispecchiare tali valori non era più evidente quanto un tempo.
La gente mi chiede sempre di discussioni o dissensi che posso aver avuto
con il coach. Ma la verità è che eravamo una squadra vincente e quando
vinci, anche se quello non è il tuo obiettivo, non fai niente per mettere a
rischio quel successo. Se ci avesse detto di dormire con la biancheria sotto
il cuscino, probabilmente lo avremmo fatto. Invece ci tartassava con la
storia della preparazione, al punto che quando affrontavamo un avversario,
eravamo così sicuri di noi da essere pronti a qualunque cosa potesse
accaderci.
L’allenamento non ci rendeva perfetti. Nei quattro anni che trascorsi a
Ucla, due partite le perdemmo.
La filosofia di coach Wooden si è rivelata una lezione che mi ha
accompagnato per tutta la vita. Quando devo fare un discorso, lo scrivo, poi
lo provo, e quindi lo provo ancora. Quando scrivo un articolo o un libro,
faccio ricerche su ricerche, e poi un altro po’ di ricerche. Il mio avversario
ora sono io, la mia inclinazione alla pigrizia. La disciplina imparata con gli
esercizi di preparazione atletica mi ha permesso di affrontare il mio infido
avversario e batterlo regolarmente.
Una domenica pomeriggio di fine anni Novanta, eravamo seduti nel suo
soggiorno a guardare il torneo Ncaa. Non ricordo quali squadre giocassero,
ma una di fondo classifica ne aveva stracciata un’altra favorita, e il loro
allenatore era stato intervistato dopo la partita. Era evidente che fosse molto
orgoglioso della squadra, e all’intervistatore disse: «Hanno dato il
centoventi per cento!».
«No, no, no», intervenne coach Wooden. «Per l’amor del cielo.»
Per l’amor del cielo? Era una cosa seria!
Indicando l’allenatore in televisione, mi chiese: «L’hai sentito, Lewis? È
ridicolo. Il centoventi per cento!».
Coach Wooden non era contrario all’utilizzo di frasi fatte. Ma ce n’erano
alcune che lo irritavano al di là di ogni ragione. Come questa.
«Perbacco. Nessuno ha mai dato il centoventi per cento. Non si può dare il
centoventi per cento. È matematicamente e fisicamente impossibile. Il cento
per cento è già perfetto, e non puoi avere nemmeno quello.»
«È solo un modo di dire, coach», dissi, cercando di calmarlo. «Perché se
la prende tanto? Se vuole protestare contro i luoghi comuni dello sport, io
partirei da “In squadra non ci sono le lettere i e o”. Lo odio.»
Come al solito, dato che non gli davo corda, mi ignorò.
«Una volta, a Boston, ero a un dibattito con George Allen e Red
Auerbach. Coach Allen ci stava raccontando che ai suoi giocatori chiedeva
sempre il centotrenta per cento. Così alzai la mano e, quando lui mi cedette
la parola, chiesi: “Coach Allen, come diamine riesce a ottenere il
centotrenta per cento dai suoi giocatori?”. Lui mi domandò che cosa
intendessi. Gli spiegai: “Io non sono mai stato capace di ottenere nemmeno
il cento per cento da un individuo. Ho solo cercato di andarci il più vicino
possibile. Così mi stavo chiedendo come lei riuscisse a ottenere il
centotrenta”. Lui ci pensò su un momento, poi rispose: “Coach Wooden?
Per favore, si sieda”.»
Rimasi un attimo in silenzio, poi dissi: «Però ci sono una m e una e in
team».
Lui mi guardò un lungo istante, quindi scoppiò a ridere.
In quel momento, quella risata, quella sua capacità di ridere di se stesso, di
me, della stupidità degli allenatori che pretendono il centotrenta per cento
era proprio quello che amavo di quell’uomo.
1
La frase, che dà il titolo a una canzone di Duke Ellington, si traduce liberamente: «Senza quello
swing, la musica non ha senso» [N.d.T.].
2
Ex giocatore di baseball statunitense, destro [N.d.T.].
Sensibili al colore
L’insostenibile fardello di essere nero
L’aspetto più impacciato e scomodo del mio rapporto con coach Wooden
aveva a che fare con il colore della nostra pelle. In campo, tra il suo allenare
e il mio giocare c’era un ritmo fluido. Sempre, nella nostra amicizia, c’è
stato un flusso spontaneo di rispetto e affetto. Eravamo come nuotatori
sincronizzati, come ballerini. Ma, quando c’era di mezzo la pelle, non
riuscivamo a trovare un piano abbastanza confortevole per entrambi.
Eravamo irrequieti e nervosi. Nei miei anni a Ucla, affrontammo insieme i
razzisti, discutemmo della situazione dei neri e fummo testimoni delle
dispute razziali tra tifosi. Ma questo non ci ha avvicinati.
Il coach non riusciva a capire che quando sei nero, in America, tutto ruota
attorno a quello. A chi non è nero può sembrare una frase provocatoria, ma
è solo perché non ha dovuto affrontare le conseguenze di essere nero ogni
giorno della propria vita. Chi non è nero, assiste a un riflesso diluito degli
effetti devastanti del razzismo, attraverso le lenti biancheggianti della
televisione, i commentatori radiofonici di parte e gli articoli di giornale che
riassumono gli orrori delle persone in un colonnino di cronaca.
Per gli afroamericani, l’America bianca mancava di consapevolezza nei
confronti di questi problemi, mancava della compassione che serviva per
vederli e mancava dell’interesse necessario a porvi rimedio. Era come
quella scena del film Il diritto di contare, quando l’algida dirigente bianca
delle lavoratrici della Nasa dice alla nera Dorothy Vaughn, cui ha reso la
vita un inferno: «Non ho niente contro di voi». Al che Dorothy risponde:
«Lo so». Poi aggiunge con un sorriso: «So che è quello che lei crede».
Molti americani bianchi, all’epoca, non si consideravano razzisti perché
non avevano mai fatto niente di direttamente lesivo, ma come aveva detto
coach Wooden in un altro contesto, citando il politico britannico Edmund
Burke: «L’unica cosa necessaria perché il male trionfi, è che le persone per
bene non facciano nulla». Le persone per bene non stavano facendo nulla, e
il male sembrava sul punto di trionfare. Almeno nei quartieri neri e
soprattutto nel 1965, l’anno in cui ero matricola a Ucla.
Nei mesi precedenti il mio trasferimento a Los Angeles, le violenze
razziali erano aumentate al punto da farci chiedere quanto tempo fosse
passato dalla guerra civile. Quel febbraio, una marcia pacifica era terminata
con l’uccisione di un dimostrante nero disarmato – Jimmie Lee Jackson,
ventisei anni, che si nascondeva in un caffè con la madre – da parte di un
agente della polizia di Stato, James Bonard Fowler. Tre giorni più tardi,
alcuni membri del movimento Nation of Islam assassinarono Malcolm X,
un uomo che ammiravo molto. Due settimane dopo, ci fu quella che rimase
famosa come la Bloody Sunday. A Selma, in Alabama, John Lewis guidò
circa seicento manifestanti in una marcia per i diritti civili sul ponte
Edmund Pettus, dove trovarono ad aspettarli centinaia di agenti della
polizia, la maggior parte dei quali era stata nominata quel giorno, quando lo
sceriffo della contea aveva lanciato un appello a tutti gli uomini bianchi
sopra i ventun anni perché si recassero al palazzo di giustizia a prestare
giuramento. Gli agenti, alcuni dei quali a cavallo, attaccarono i dimostranti
con manganelli e gas lacrimogeni. A meno di un mese di distanza, il dottor
King guidò 2500 manifestanti sullo stesso ponte. Quella sera, i membri del
Ku Klux Klan picchiarono tre ministri di culto, uno dei quali morì. Solo un
paio di settimane prima che iniziassi le lezioni a Ucla, anche Los Angeles
ebbe il suo assaggio di scontri razziali. A Watts, distretto a prevalenza nera,
le proteste per la brutalità della polizia aumentarono fino a diventare una
vera e propria rivolta. Le violenze si protrassero per cinque giorni, con 34
persone uccise, 1032 ferite, 3438 arrestate e più di 40 milioni di dollari di
danni alle proprietà.
Avevo già avuto anch’io alcune esperienze di quelle che ti segnano la vita:
avevo intervistato il dottor Martin Luther King, ero rimasto coinvolto in un
episodio di violenza razziale a Harlem e il mio migliore amico d’infanzia
mi aveva urlato in faccia «Nigger!»1, tanto per cominciare.
Non ero andato in California a giocare a basket per sfuggire ai contrasti
razziali che stavano spaccando in due il Paese. Ci ero andato per imparare
di più su me stesso, per trovare la mia voce, per capire come potevo dare il
mio contributo. Ero pronto a unirmi alla lotta, ma non sapevo ancora con
quali armi avrei combattuto.
La ragione per cui ero così insicuro di me stesso non aveva niente a che
fare con i problemi che noi americani neri dovevamo affrontare. Ero saldo
come una roccia nel mio impegno a sostegno dei diritti dei votanti, dei
programmi contro la povertà, della supervisione da parte di privati cittadini
nei dipartimenti di polizia e di molti altri punti del programma per i diritti
civili. Il mio problema personale dipendeva dal fatto che ero ancora un po’
fragile dopo il tradimento che avevo vissuto poco più di un anno prima. Mi
aveva distrutto a livello personale, rendendomi guardingo e sospettoso.
Jack Donahue era il mio allenatore alla Power Memorial Academy, un
edificio di mattoni di dieci piani che un tempo era stato un ospedale
pediatrico mentre ora era una scuola superiore cattolica. Io eccellevo sia in
campo scolastico sia sportivo, ma il maremoto razziale che aveva sommerso
il Paese era filtrato anche all’interno di questo bastione di valori
tradizionali. Ero uno della decina appena di neri su circa novecento
studenti, e molti dei nostri compagni di classe bianchi, non avendo mai
frequentato coetanei neri, ci guardavano con condiscendenza. Grazie ai loro
genitori ansiosi, informati da opinionisti conservatori, vedevano tutti i neri
come bombe a orologeria ticchettanti in un conto alla rovescia verso
un’inevitabile esplosione. Eravamo tutti Nat Turner2, in attesa solo della
nostra occasione di prendere il controllo della piantagione e aprirci con i
forconi la strada per la libertà.
Gli insegnanti non erano meglio. Seguivano un piano di studi che evitava
ogni accenno a inventori, scienziati, scrittori, artisti e politici neri, quindi
non c’era da stupirsi se gli altri studenti erano sorpresi da come usassi la
logica e dalla mia abilità dialettica. Avevo amici e compagni di squadra
bianchi, ma una larga parte del corpo studenti sceglieva di ignorarmi con
tutte le sue forze. Li ripagavo con la stessa moneta.
La mia pelle faceva di me un simbolo. La mia altezza un bersaglio.
Trovai conforto e uno scopo nel basket. Il mio allenatore aveva solo
trent’anni ed era felice di avermi in squadra. Ero inesperto, con più
entusiasmo che abilità, ma a quattordici anni ero 211 centimetri. Lui mi
insegnò con pazienza i fondamentali, fino a che la nostra squadra non arrivò
a dominare New York. Era un supervisore severo, che non temeva di alzare
la voce o di lanciarci frecciate taglienti se non gli piaceva come giocavamo.
Ma a volte veniva anche a prendermi per accompagnarmi a scuola, e
durante il tragitto di tanto in tanto parlavamo della vita. Mi portò persino al
Madison Square Garden a vedere alcune partite di pallacanestro
professionistica, assicurandosi che vedessi Bill Russell e Wilt Chamberlain
in azione.
«Quello potresti essere tu, un giorno, Lew», diceva.
«Sì, come no», ribattevo io, cercando di apparire modesto. Ma in segreto
non pensavo che sarei potuto essere come loro, sapevo che lo sarei stato.
Forse anche meglio.
«Continua a imparare come stai facendo, e te lo garantisco. Giocherai
proprio qui al Garden, un giorno.»
Un giorno. Per un ragazzino, quelle parole erano tanto, tanto tempo. Ma
avevo fiducia in coach Donahue. Mi aveva portato via dalla squadra del
primo anno per mettermi in prima squadra, un onore che capitava di rado.
Mi aveva dato una maglia con il mio numero preferito, il 33, in onore del
mio idolo del football, Mel Triplett, dei New York Giants. Anche se
all’inizio con la squadra ci fu qualche problema, alla fine tutto si sistemò e
diventammo inarrestabili.
Non avevo mai visto nessuno che volesse vincere quanto coach Donahue.
A Ucla ho riflettuto spesso sulle differenze di stile e atteggiamento tra
Donahue e Wooden. Donahue applicava la filosofia della terra bruciata.
Credeva che umiliarci, ridicolizzarci e prenderci in giro fosse la benzina per
farci andare avanti come squadra. Wooden pensava che la benzina fossero
l’orgoglio per le nostre prestazioni e la lealtà nei confronti della squadra.
Nonostante le frecciate e le urla, gli sbuffi di frustrazione, i sospiri delusi,
credevo che a coach Donahue importasse di me, quindi gli davo tutto ciò
che avevo. Al mio secondo anno, vincemmo il campionato cittadino, che la
Power non conquistava dal 1939. A scuola i giocatori erano eroi. Gli
studenti che prima mi ignoravano, ora erano disposti a essere molto più
cordiali. Ma io non volevo essere il loro eroe. Come essere umano, per loro,
valevo solo perché potevo fruttare alla scuola un trofeo, cosa che ai miei
occhi rendeva in un certo senso vana la nostra vittoria. Avevo fatto qualcosa
che li rendeva orgogliosi, e mi sembrava di avere tradito la mia gente.
L’atteggiamento di coach Donahue sul razzismo mi sembrava illuminato,
e per questo mi piaceva ancora di più. Durante il tragitto per andare a
scuola, mi raccontava delle terribili scene di razzismo che aveva visto
nell’esercito, quando era di base a Fort Knox, nel Kentucky. Credeva che il
razzismo sarebbe terminato solo lasciando che diminuisse poco alla volta,
generazione dopo generazione, fino a scomparire del tutto. Anche se capivo
che cosa intendeva, non potevo fare a meno di pensare che si erano già
avvicendate molte generazioni, eppure in America c’erano ancora
segregazione, linciaggi, assassini, e ai neri venivano negati il voto e un
lavoro. Quante altre generazioni ci sarebbero volute? E perché avremmo
dovuto aspettare? Avrebbe aspettato, lui, se fossero stati i suoi figli a essere
discriminati?
L’estate frequentavo il camp di coach Donahue, il Friendship Farm, il
Vivaio dell’amicizia. All’inizio si svolgeva in un edificio costruito negli
anni Ottanta del Settecento, su un campo di terra battuta, ma ogni estate il
coach apportava miglioramenti. A quanto pareva, io ero una sorta di
richiamo per il camp.
Quando arrivai al penultimo anno, non solo vincevamo tutte le partite, ma
cominciavano a piovere le offerte di borse di studio. I miei genitori
confidavano nel fatto che coach Donahue ci avrebbe fatto da guida per
valutare le proposte e fare la scelta migliore, e quando lui mi disse che avrei
potuto frequentare qualunque università desiderassi con una borsa di studio
a totale copertura delle spese, ero euforico.
Qualunque università! Era una cosa straordinaria! E se quell’uomo poteva
offrirmi qualunque università, mi sarei dato ancora più da fare per lui.
Un pomeriggio dovevamo giocare contro la St Helena’s, una scuola
cattolica del Bronx. Eravamo imbattuti, e quella scuola non aveva una gran
squadra. Eravamo tutti sicuri che sarebbe stato un lavoretto facile facile.
L’unico problema sarebbe stato decidere di quanti punti volevamo batterli,
ma all’intervallo eravamo sopra appena di sei, un vantaggio che può essere
annullato in trenta secondi.
A testa bassa, entrammo l’uno dopo l’altro, nell’ufficio angusto di coach
Donahue, sapendo che stavamo per ricevere una lavata di capo. Lui chiuse
la porta e cominciò ad accanirsi.
Non meritavamo di vincere.
Dormivamo in piedi
Eravamo terribili.
Un disonore.
Noi fissavamo il pavimento, con il sudore che ci gocciolava attorno alle
scarpe. Non protestammo.
Ma poi, il coach rivolse la sua rabbia contro di me. Mi puntò addosso un
dito, come se fosse un pugnale. «E tu, Lew! Vai in campo e non ti dai da
fare. Non ti muovi. Non fai niente di ciò che dovresti fare.» Gli occhi gli
ardevano d’ira. «Ti comporti proprio come un nigger!»
D’un tratto mi sentii svuotato. Non avrei potuto alzarmi dalla sedia
nemmeno se l’edificio fosse andato a fuoco. Il viso mi bruciava come se mi
avessero schiaffeggiato più volte e mi sembrava che il cuore fosse stato
pigiato dentro una noce. Non mi ero sentito così tradito da quando il mio ex
migliore amico mi aveva urlato in faccia quella stessa parola: «Nigger!».
Ero arrabbiato, sì, ma provai anche la sensazione di non valere niente, di
essere appena stato gettato nella spazzatura da una persona cui tenevo.
In qualche modo giocai il secondo tempo. In qualche modo vincemmo. In
qualche modo non mi importava.
Dopo la partita, coach Donahue mi trascinò nel suo ufficio. Era
felicissimo.
«Visto!» disse con un sorriso a trentadue denti. «Ha funzionato! La mia
strategia ha funzionato. Sapevo che se avessi usato quella parola ti avrei
scosso e avresti fatto un ottimo secondo tempo. E così è stato!»
Mi guardava raggiante, come se avessimo appena vinto la corsa nei sacchi
padri-figli al picnic della scuola.
Continuava a parlare. Di quanto in gamba fosse stato nel motivarmi. Di
come avremmo battuto la prossima squadra. Di come dipendesse da me
impedire che i tifosi mi guardassero come il classico stereotipo del nigger
indolente, dandoci ancora più dentro. Sembrava credere di essere il
salvatore della mia gente.
Quando andai a casa e raccontai la cosa ai miei genitori, erano lividi di
rabbia. Si sentirono traditi quanto me. Quello era l’uomo cui avevano
affidato il futuro del loro figlio. Nell’impeto di rabbia, insistetti per
cambiare subito scuola. Come potevo continuare a giocare, visto che ogni
vittoria sarebbe stata tale anche per l’uomo che mi aveva appena chiamato
nigger? Ma quando mi calmai mi resi conto che, cambiando scuola, avrei
perso un anno di eleggibilità e ci sarebbe voluto un anno in più per
diplomarmi.
Tornai alla Power Memorial. Da coach Donahue. Persino al Friendship
Farm. Quell’anno, stare con lui mi faceva sentire come se fossi a corto
d’aria, come se mi avessero fasciato il petto con una benda elastica troppo
stretta. Ma questo non si ripercosse sul mio gioco. Durante il mio ultimo
anno a scuola, perdemmo solo una partita e diventammo campioni nazionali
per un altro anno. Divenni All-City e All-American.
E mi iscrissi a Ucla.
Fu a causa della ferita ancora aperta del tradimento di coach Donahue che
con coach Wooden tenni un atteggiamento un po’ distaccato. Mi ero fidato
una volta ed ero stato ferito, non avrei lasciato che accadesse di nuovo. Non
potevo permettermelo. Mi sarei sforzato di essere cauto, soprattutto con gli
uomini bianchi più vecchi di me che fingevano di essermi amici.
Più tardi, quando ormai eravamo amici intimi, coach Wooden mi raccontò
una storia su Jack Donahue che non mi aveva mai raccontato prima. Nel
1965, dopo il primo trionfo nazionale di Ucla, coach Wooden era apparso in
televisione. Poco dopo, aveva ricevuto una telefonata da Donahue. «Ho
visto che parlerà a un corso per allenatori a Valley Forge, in Pennsylvania»,
aveva detto. «Vorrei venire a parlarle di un mio giocatore, Lew Alcindor.»
«Be’», raccontò il coach, «venne e mi disse che Ucla era uno dei quattro
atenei che volevi vedere per poi eventualmente iscriverti. Fu il primo
contatto che l’università ebbe con te. Lo sapevi?»
«No», risposi.
«Un viaggio lungo, in macchina», disse lui.
Non commentai.
«Due ore e mezzo», disse lui.
«Nessuno l’ha mai accusata di essere un po’ troppo sottile?»
Il coach rise. «No, anzi. Mi accusano di sfornare motti brevi e precisi,
frasi da maglietta.»
Risi a mia volta, ma capii che cosa intendeva. Che genere di uomo
guiderebbe per cinque ore per aiutare un ragazzino che a malapena gli
rivolge la parola, senza mai nemmeno dirgli di averlo fatto?
«Hai mai commesso un errore, Lewis?» mi chiese piano.
Tiro. Canestro.
Qualche anno dopo quella conversazione, ero a casa sua e stavamo
guardando la pallacanestro femminile. Al coach piaceva molto, perché
eseguivano i fondamentali in modo impeccabile.
«Nessuna ostentazione», diceva, «solo eccezionale controllo di palla e
tecnica.»
«Credo che le piacciano semplicemente i pantaloncini corti», lo stuzzicai.
Lui scosse la testa. «Kareem, che cosa devo fare con te?»
«Inserirmi nel suo testamento?» suggerii.
La mia battuta lo fece ridere.
Il telefono squillò prima che potesse replicare. Era coach Donahue. Era a
Los Angeles e voleva fargli visita. Dopo tutto quel tempo, non avevo più
alcun risentimento nei suoi confronti, quindi sapere che era all’altro capo
del telefono non mi fece alcun effetto.
«C’è qualcuno qui con cui vorrei che parlasse», gli disse coach Wooden, e
mi passò la cornetta.
«Ehi, coach», dissi allegro, «come sta?»
«Bene, Kareem, bene.» Percepii il sollievo nella sua voce e ne fui felice.
Facemmo due chiacchiere veloci, prendemmo accordi per vederci nel giro
di un paio d’ore e mettemmo giù.
Coach Wooden mi guardò con curiosità. «Tutto bene?»
«Ci provo», dissi.
Lui ridacchiò, scuotendo di nuovo la testa. Ma non ridacchiava per la mia
battuta, era solo contento che avessi fatto la cosa giusta. E io ero contento
che il coach avesse organizzato quella telefonata “casuale”. Sapeva quanto
ci fossi stato male in passato, e voleva che me lo gettassi alle spalle. Ma
ancora di più, credo che provasse compassione per coach Donahue e il
pesante fardello che aveva portato per tutto quel tempo. Da allenatore,
coach Wooden sapeva quanto fosse facile fare un errore nell’impeto della
gara, e quanto fosse difficile porvi rimedio.
Incontrai coach Donahue a casa mia. Mi chiese di nuovo scusa, come già
aveva fatto sia di persona sia sulla stampa, quando la storia era venuta fuori.
Da allora aveva fatto una buona carriera, allenando, tra le altre, quattro
squadre olimpiche maschili canadesi. Mi commosse il fatto che, nonostante
tutti i suoi successi, fosse ancora dispiaciuto per come, trentacinque anni
prima, aveva ferito un ragazzino diciassettenne.
Gli dissi che lo perdonavo, che mi ero reso conto nel giro di qualche
giorno che non era un razzista, ma era solo stato insensibile, senza saperlo,
e aveva calcato troppo la mano con un giovane tronfio e pieno di sé quale
ero io. Lo ringraziai per tutto quello che aveva fatto per me, e me ne fu
grato.
Mio padre, che all’epoca viveva con me, tirò fuori una bottiglia di whisky
irlandese Bushmill’s. Voleva che bevessimo qualcosa insieme, e lo
facemmo.
Ci salutammo con una stretta di mano e in buoni rapporti e, quando un
anno e mezzo dopo coach Donahue morì per un cancro, andai al suo
funerale.
Sono contento che sia stato coach Wooden a farci reincontrare, perché il
suo esempio di gentilezza e compassione mi ha aiutato a diventare capace
di superare i risentimenti e sanare le ferite del passato.
Una monumentale stoppata, nella stagione del secondo anno con la maglia Ucla (foto Norman
Levin, Natural Portraits & Event).
Per quanto riguardava il razzismo, ero convinto che coach Wooden avesse
un cuore buono, ma che in quel gioco si tenesse a bordo campo. Non stava
accadendo a lui, solo attorno a lui. Per me era diverso, faceva parte della
mia vita quotidiana, come presto coach Wooden vide con i suoi occhi.
Avevo ottenuto visibilità a livello nazionale che ero ancora alle superiori,
ma fu quando iniziai a giocare a Ucla che la cosa esplose. Dopo poche
partite, al mio secondo anno, il giornale degli studenti, il «Daily Bruin»,
suggerì che cambiassero il significato della sigla Ucla da University of
California, Los Angeles a University of California, Lew Alcindor.
Lusinghiero, sì, ma anche un po’ allarmante, perché ora ero un bersaglio per
la rabbia dei rivali.
La prima volta che giocammo contro Berkeley, sentii molti dei loro tifosi
gridare: «Ehi, nigger!» e «Dov’è la tua lancia?» Variazioni sullo stesso
tema combinavano in genere la parola nigger con altre volgarità. Il
razzismo è molto poco creativo. Era un’abitudine ormai di quasi tutte le
partite. Sapevo che i tifosi cercavano di distrarmi dal gioco, così scelsi di
ignorare i loro commenti e rispondere sul campo. Naturalmente, battere le
loro squadre partita dopo partita non faceva che fomentare le provocazioni.
Il razzismo era così evidente che persino i giornalisti cominciarono a
chiedermi se quei commenti mi rendessero rancoroso nei confronti dei
tifosi. «Il rancore ti mette i bastoni fra le ruote», dissi loro, «ti fai
coinvolgere dalla vendetta, invece di cercare di cambiare le cose. Un tempo
provavo rancore, ma ora mi limito a giocare con tutto me stesso per
vincere.»
Era la mia risposta ufficiale e consolidava il credo di coach Wooden. «La
vendetta è un sentimento che non covo», diceva. «Sono convinto che, se
non la covo io, non la coveranno nemmeno i miei ragazzi.» Facevo gioco di
squadra ma è impossibile non essere toccato se tutte le sere un branco di
persone ti urla nigger. Cercavo di combatterlo. Volevo essere una brava
persona, la persona evoluta che il coach voleva che fossi; non solo per lui,
ma perché pensavo che mi avrebbe dato un po’ di pace. Però era difficile, a
volte troppo difficile, per un adolescente. Per lui, per la squadra e per me
stesso, cercavo di soffocare il rancore.
Alla fine, l’amarezza si trasformò in una forma di trionfo. Una sera del
1967 a Louisville, nel Kentucky, il coach e io stavamo tornando in albergo
dopo avere cenato. Avevamo appena sconfitto Dayton nelle finali.
Avvicinandoci all’albergo, sentimmo alcune persone che mi gridavano:
«Ucla fa schifo!», «Torna a casa, nigger!» Invece di provare rabbia, mi uscì
un ghigno di soddisfazione al pensiero che il nostro gioco li avesse resi
tanto ostili.
«Non c’è niente che possiamo fare per la loro ignoranza, Lewis», disse il
coach.
Ero d’accordo. Oltretutto, avevo già presentato la mia dimostrazione di
uguaglianza qualche ora prima, schiacciando la loro squadra.
In quel periodo Louisville era un luogo particolarmente aggressivo dal
punto di vista razziale, ma quando anni più tardi feci visita al Muhammad
Ali Center, fui felice di vedere quanto fosse cambiata.
Coach Wooden ignorò questi commenti, o fece finta di non averli sentiti,
una sera però anche questo cambiò. Dopo una partita, di solito coach
Wooden e io eravamo le ultime persone a lasciare lo spogliatoio. Io venivo
trattenuto dai giornalisti che volevano intervistarmi e il coach si fermava
per controllare che lo spogliatoio fosse in ordine. Alcuni trovavano
divertente che l’allenatore che aveva ottenuto più vittorie nella storia della
pallacanestro universitaria raccogliesse la roba sporca dal pavimento
bagnato, soprattutto dopo una vittoria, ma io lo trovavo commovente, non
solo perché era coscienzioso al punto da voler lasciare la stanza in ordine
come l’aveva trovata, ma anche perché era abbastanza umile da non pensare
che fosse una mansione troppo bassa per farla di persona. Ho però sempre
sospettato che la vera ragione per cui si tratteneva così a lungo fosse
osservarmi durante quelle interviste senza dare troppo nell’occhio. Sapere
che lui era lì mi dava la sicurezza di dire quello che pensavo, e allo stesso
tempo mi ricordava che nella modestia c’era eleganza. Mi rendeva una
persona migliore anche solo girando per lo spogliatoio a raccogliere gli
asciugamani bagnati.
Mentre lasciavamo lo spogliatoio dopo la partita contro Oregon State a
Corvallis, il mio secondo anno a Ucla, mi fermai a firmare autografi a un
gruppo di ragazzini che ci avevano aspettato fuori all’aria pungente della
sera. Ne avevo firmati forse trenta o quaranta, quando il coach mi disse:
«Lewis, dobbiamo andare. Dobbiamo salire sul pullman». Mi scusai con i
ragazzini che non avevano avuto l’autografo e mi allontanai, ma alcuni
degli adulti che erano con loro iniziarono a urlarmi: «Guardatelo, è troppo
grande per firmare autografi. Tipico comportamento da nigger». E cose del
genere.
Il coach si fermò a fissarli. Percepii dal linguaggio del suo corpo che stava
pensando di affrontarli. Guardò prima gli adulti e poi i bambini. Sapevo che
a spingerlo ai limiti della sua buona educazione del Midwest era stato il
fatto che avessero detto quelle cose davanti a dei ragazzini. Era cupo in
volto come non l’avevo mai visto, e fui tentato di afferrarlo per il braccio e
dirgli: «Va tutto bene, coach. Li ignori. A volte le colgo di sorpresa, le
persone». Ma non dissi né feci nulla. Ero troppo stupito, dopo tutto il tempo
trascorso a firmare autografi.
Alla fine, riuscì a controllare la rabbia e gettò loro un’occhiataccia con un
raggio laser di puro disgusto che avrebbe dovuto sciogliere loro i volti. Sul
pullman, mentre tornavamo a casa, venne a sedersi dietro, vicino a me. Si
vedeva che era ancora turbato. Io avevo già, se non proprio dimenticato,
almeno rimosso l’incidente, spingendolo a fatica nell’archivio straripante
della mia mente, con tutti gli altri incidenti simili.
«Quella gente ha sbagliato», cominciò. «Ma non dobbiamo
generalizzare.» Rimase un istante in silenzio, forse cercando una poesia,
una frase, una storiella da citare, come faceva di solito, per sottolineare
quello che voleva dire. Non ne trovò nessuna, ma continuò lo stesso. «So
che siamo costretti ad avere le prigioni, la polizia e le leggi, ma la maggior
parte delle persone è buona. È buona.»
“Lo è davvero, coach?” avrei voluto dire. Ma sapevo che lui ci credeva
con tutto il cuore, e volevo crederci anch’io, per il suo bene, anche se
c’erano troppe dimostrazioni del contrario. Ero giovane, ma capii che quella
conversazione non riguardava il razzismo: il coach si preoccupava per la
mia anima. Non voleva che diventassi cinico e astioso, come alcuni degli
attivisti che vedeva in televisione. Mi conosceva come il gentile, buono e
rispettoso Lewis, che avrebbe avuto un brillante futuro, se non avesse
ceduto al lato oscuro.
Il coach tornò al suo posto. Non sapevo che cosa farmene di un altro
discorso d’incoraggiamento sulla bontà dei bianchi, ma quelle parole gentili
da parte di qualcuno che chiaramente teneva a me al di là del numero di
punti che riuscivo a segnare mi erano servite. Semplicemente venendo in
fondo al pullman a vedere come stavo, aveva dimostrato che forse la
maggior parte delle persone è davvero buona. Grazie a lui, non avevo
abbandonato del tutto la speranza.
Fu solo anni più tardi che scoprii che, a causa mia, aveva iniziato anche
lui a farsi domande sulla propria fiducia nella bontà innata delle persone.
Stavo leggendo un’intervista che gli avevano fatto e fui sorpreso di
imbattermi nelle parole: «Non avevo idea di quanto fosse dura, a volte, per
lui. Ho imparato di più da Kareem, sulla crudeltà degli esseri umani nei
confronti dei loro simili, di quanto abbia mai imparato in qualunque altro
luogo… Non avevo mai immaginato che le persone potessero provare
sentimenti di quel tipo o parlare in quel modo». Dopo aver letto quel
passaggio, provai una grande tristezza, perché mi resi conto che la mia
presenza gli aveva fatto mettere in dubbio la sue convinzioni di fondo.
Sulla sua bontà, però, non c’erano dubbi. Quando Wilt Chamberlain fu
ceduto ai Lakers, nel 1968, il coach si lamentò della sua reputazione di
giocatore «difficile da gestire». «Non sono un animale, sono un uomo»,
sbottò Wilt. «Non si “gestiscono” gli uomini.» Non appena il coach lesse
quelle parole, contattò il proprio editore, dicendo che dovevano cambiare
tutte le successive edizioni del suo libro Practical Modern Basketball («La
pallacanestro moderna in pratica»). Il capitolo che si chiamava «Gestire i
giocatori» doveva essere intitolato «Lavorare con i giocatori». Per quanto
riguardava il razzismo, forse il coach non poteva cambiare il mondo, ma
poteva cambiare il suo mondo.
Nel 2008 andai a Chicago, dove dovevo intervistare coach Wooden per un
documentario che stavo producendo sugli Harlem Rens, la più grande
squadra di basket di cui si sia mai sentito parlare. Sapevo che, quando era
giovane, il coach aveva giocato contro di loro e avrebbe avuto qualche
bell’aneddoto da raccontare. Eravamo amici da quasi cinquant’anni ed ero
abbastanza sicuro di sapere tutto di lui, considerando i nostri anni a Ucla e,
in seguito, i tanti pigri pomeriggi trascorsi nel suo disordinato soggiorno a
chiacchierare di tutto un po’, dalla letteratura alla religione alla squadra
olimpica di pallacanestro maschile in partenza per Pechino. Ma quel giorno
coach Wooden mi sorprese al punto che rimasi a bocca aperta per lo choc.
Poi, prima che potessi riprendermi, mi sorprese di nuovo.
Per filmare le interviste avevo prenotato al Marriott una stanza apposita,
accanto al centro conferenze. Quando il coach entrò dalla porta, sentii la
reazione involontaria della mia schiena che si raddrizzava, come uno
scolaretto che vede avvicinarsi il suo maestro preferito. Ero un uomo di
sessant’anni, padre di cinque figli, una celebrità internazionale, e tuttavia
l’opinione di quell’uomo anziano appena entrato nella stanza trascinando i
piedi mi importava più di quella di chiunque altro. Lo vedevo come un
secondo padre, in un certo senso un padre più compassionevole e
partecipativo del mio.
«Ehi, coach», lo salutai, «grazie per essere venuto. Lo apprezzo davvero.»
«Qualunque cosa, per te», disse lui con un enorme sorriso che mi scaldò il
cuore.
Cercai di non far trasparire l’orgoglio che provavo per quel documentario.
L’orgoglio non si addiceva al coach, che viveva la sua vita con una severa
modestia simile a quella di un monaco. Anche se a volte noi giocatori lo
prendevamo in giro per la sua umiltà gandhiana, in segreto lo ammiravamo
e cercavamo di emularlo, ma era come cercare di diventare vegani: ci
voleva molta più disciplina di quanto ne avesse la maggior parte di noi.
Tuttavia volevo che lui fosse almeno un po’ orgoglioso di quello che avevo
fatto dopo che mi ero ritirato dalla pallacanestro, perché sentivo che era un
risultato tutto diretto della sua influenza. Persino quel documentario, un
adattamento di On the Shoulders of Giants (“Sulle spalle dei giganti”), il
libro che avevo scritto sulla storia della Harlem Renaissance e la sua
influenza sull’America e su di me come persona, era il risultato delle sue
lezioni. Lui ci aveva insegnato che gli studi erano più importanti della
pallacanestro e che l’integrità personale era più importante di entrambi.
Negli anni successivi al basket avevo intrapreso una crociata per portare
più “colore” nella storia americana, scrivendo libri che celebravano le
vittorie degli afroamericani volutamente trascurate nei libri di testo. Avevo
scritto Black Profiles in Courage (“Profili neri del coraggio”), su alcuni
personaggi neri influenti nella storia americana; Brothers in Arms (“Fratelli
sotto le armi”), sul battaglione carristi nero della Seconda guerra mondiale;
On the Shoulders of Giants; e stavo facendo ricerca per un libro per
bambini, What Color is My World (“Di che colore è il mio mondo”), sugli
inventori neri che hanno cambiato la cultura americana e di cui nessuno
parla. Volevo che il coach apprezzasse il fatto che avevo continuato a
studiare e a scrivere, cosa che, in quanto ex insegnante di letteratura, lui
stesso mi aveva spinto a fare.
«Dove vuoi che mi metta, Kareem?» chiese.
Lo accompagnai a sedere. Le luci erano puntate, la telecamera a fuoco.
Iniziai con le domande alle quali rispose come sapevo che avrebbe fatto,
con storie argute e dettagliate sui Rens, descrivendoli come la squadra
migliore contro la quale avesse giocato. I New York Renaissance, altrimenti
detti Rens, erano una squadra di pallacanestro di soli neri, degli anni Venti e
Trenta, con sede a Harlem, che nel 1939 vinse il primo campionato
nazionale professionisti contro una squadra di bianchi.
Parlammo anche di alcuni dei grandi musicisti, artisti e scrittori della
Harlem Renaissance.
«Sai, Kareem, Langston Hughes era uno dei miei poeti preferiti», disse.
«Davvero?» chiesi io. Anche per me era così. Lo avevo scoperto alle
superiori: non in classe, dove gli autori neri non venivano mai nemmeno
menzionati, ma allo Schomburg Center for Research in Black Culture di
Harlem, il centro di ricerca sulla cultura nera, l’estate prima del mio ultimo
anno passato lì. Rimasi vagamente colpito dal fatto che il coach conoscesse
Hughes, ma del resto era uno dei più famosi poeti neri. Se eri un bianco e
dovevi nominare un poeta nero, era la scelta più ovvia.
Ma, per il coach, Langston Hughes non era solo un nome.
«“Cosa accade a un sogno rinviato?”» iniziò a recitare a memoria. La
poesia era Harlem. «Si secca / come l’uva passa al sole? / O si infetta come
una ferita… / e poi cola? / Inizia a puzzare, come carne guasta? / O di
zucchero si incrosta… / come un dolce di melassa? / Magari un po’ cede /
come il troppo che stroppia. / O alla fine scoppia?”»
Sorpresa numero uno. Bocca spalancata.
«Lo sai perché il signor Hughes scriveva versi così corti?» chiese, con gli
occhi che gli brillavano. Amava sorprendermi, soprattutto alla mia età.
«Be’, ehm…» balbettai.
«Perché lo pagavano a riga. Pensò che, se avesse tagliuzzato i versi, lo
avrebbero pagato di più.»
Vecchio bianco: 1. Nero di mezza età: 0.
Il coach si appoggiò allo schienale della sedia. Non parlava più per la
telecamera, ma abbandonandosi totalmente ai ricordi. Come se fossimo solo
noi due. Da amico ad amico. Era come se recitare quella poesia gli avesse
rammentato qualcosa cui non pensava da tanto tempo. Magari stava
pensando alla donna anziana che al Bat Rack mi aveva chiamato nigger.
«Sai, nel 1947, al mio primo anno da allenatore all’Indiana State Teachers
College, come era conosciuto allora… Adesso è l’Indiana State
University… Comunque, avevamo appena vinto il titolo dell’Indiana
Intercollegiate Conference, e la National Association of Intercollegiate
Athletics ci invitò a giocare il torneo nazionale di basket a Kansas City. Era
una cosa piuttosto grossa, per la squadra e per la scuola.»
«Per non parlare di un coach al primo incarico», aggiunsi.
Il coach sorrise malizioso. «Anche quello.» Poi il suo volto si irrigidì un
po’, la bocca improntata a un leggero broncio. «Ma c’era una condizione.
Non potevo portare Clarence Walker, perché era nero.»
Seconda sorpresa. Non avevo mai sentito quella storia. Speravo avesse
loro risposto in un certo modo, ma quello non era un film. All’epoca era un
allenatore al suo primo incarico, con una carriera e una famiglia cui
pensare.
«Non avrei dovuto sorprendermi, immagino», continuò. «Ma a dire la
verità, lo faccio sempre, quando la gente agisce in modo spregevole senza
una buona ragione. Dio sa se Clarence non ne avesse passate abbastanza.»
Non dissi nulla. Il coach stava tirando fuori altri ricordi dall’archivio. Ero
affascinato.
«A volte, quando la squadra era in trasferta, i ristoranti si rifiutavano di
servirlo o gli alberghi non lo lasciavano pernottare con il resto della
squadra.»
«E lei che cosa faceva?» chiesi.
Era quella la domanda classica in situazioni simili, no? Non come si
sentisse, ma che cosa facesse quando accadeva. Forse pensò che la mia
domanda fosse un’accusa, legata a quanto successo al Bat Rack. Non
volevo che lo fosse, così feci un passo indietro. «Voglio dire, che cosa
poteva fare?»
«Di solito gli trovavo altre sistemazioni.» Fece un respiro profondo. «Ma
un pomeriggio ci fermammo in un ristorante. La squadra occupò quattro
tavoli. Dopo che la maggior parte dei ragazzi ebbe ordinato, la cameriera mi
disse che non avrebbe servito Clarence.» Mi guardò negli occhi e sorrise.
«Le dissi che era inaccettabile. Che servisse anche lui o saremmo usciti
tutti. Lei ci rimase piuttosto male, probabilmente stava calcolando quante
mance avrebbe perso. Mi disse che non potevo farlo. “Stia a guardare”,
risposi io. Ci alzammo tutti e uscimmo.»
Sempre un uomo di squadra, il coach, pensai con affetto. «E che cosa fece
con l’ultimatum del torneo nazionale?»
«La stessa cosa che feci al ristorante. Dissi loro che avremmo giocato tutti
o non avrebbe giocato nessuno.» Non c’era spavalderia né orgoglio nella
sua voce. Era come se mi stesse raccontando che cosa aveva mangiato a
pranzo. «Avevamo vinto il campionato tutti insieme, e avremmo giocato
tutti o nessuno. La loro risposta fu nessuno.»
Quell’episodio era accaduto sessant’anni prima, eppure provai rabbia solo
a sentirlo raccontare.
«L’anno seguente vincemmo ancora la Conference, e la Naib cambiò
politica, così giocammo il torneo. Perdemmo in finale contro Louisville.
L’unica finale che abbia mai perso.»
«Che cosa accadde a Clarence Walker?»
«Fu il primo afroamericano a giocare in un torneo interuniversitario di
pallacanestro.»
Non avrei potuto essere più sorpreso. Il coach era stato un pioniere dei
diritti civili, mettendo a repentaglio la propria carriera, e non me ne aveva
mai parlato. Qualunque altro allenatore avrebbe usato quell’episodio per
guadagnarsi la mia lealtà e il mio rispetto. Ma il coach lealtà e rispetto
voleva guadagnarseli sul campo. Quello che rendeva la presa di posizione
del coach ancora più ammirevole (lo scoprii solo dopo), era che Clarence
Walker non era nemmeno in rosa. La squadra avrebbe fatto benissimo a
meno di lui, se non che, per come la vedeva il coach, non sarebbe più stata
una squadra. E quello sarebbe stato il peccato più grave.
Guardai l’anziano e rinsecchito novantottenne seduto davanti a me, con gli
occhiali spessi e le grandi orecchie a sventola, e provai una tenerezza nei
suoi confronti che mi sembrò inevitabile. Mi ero modellato a sua immagine
in moltissimi sensi, e stavo ancora imparando quanto fosse stata profonda la
sua influenza. Mi resi conto che tutto quello che avevo scritto sulla storia, la
politica e la cultura dei neri verteva su un unico tema: pareggiare il campo
di gioco in modo che tutti avessero le stesse opportunità. O, come avrebbe
detto il coach: «O mangiamo tutti o non mangia nessuno».
1
Nel testo originale l’autore distingue tra i due termini, negro e nigger, di solito tradotti entrambi con
l’italiano “negro”, tollerando il primo come un retaggio del passato (vedi pagina 60) e condannando
il secondo come un pesante insulto. Nella traduzione si è quindi scelto di evidenziare questa
differenza mantenendo per nigger la parola inglese [N.d.T.].
2
Leader di una famosa rivolta degli schiavi scoppiata nella contea di Southampton, in Virginia,
nell’agosto 1831 [N.d.T.].
Che cosa farebbe coach Wooden
Sulla religione, la politica e il non perdere la fede
Coach Wooden era un cristiano praticante che una volta disse: «Se venissi
mai messo sotto accusa per la mia religione, spero davvero che trovino
abbastanza prove per condannarmi». Ma era anche un uomo che ammirava
la semplicità. Invece di andarsene in giro a citare la Bibbia, faceva
affidamento su una cartolina che suo padre aveva dato a lui e ai suoi fratelli
quando avevano preso il diploma di scuola media. Su un lato c’erano alcuni
versi del reverendo Henry van Dyke, famoso per aver scritto tante poesie e
racconti brevi:
Sull’altro lato della cartolina c’era una lista intitolata Sette cose da fare:
Il coach rinominò la lista il suo «credo in sette punti» e visse tutta la vita
seguendone i precetti, e insegnandoli agli altri.
Nel corso della nostra amicizia, l’ho visto provare la sua dedizione nei
confronti di questi precetti quotidianamente. Ma l’ultimo punto fu messo in
pratica in particolare nel giorno del Ringraziamento del mio secondo anno,
quando mi invitò a casa di sua figlia per il pranzo tradizionale.
Ero troppo al verde per tornare a casa a New York, così un paio di amici,
Ray e Julian, vennero a trovarmi. Eravamo cresciuti insieme, ma adesso
giocavano a basket per una scuola del Wyoming. Il coach fu così gentile da
invitare a pranzo anche loro. La giornata era fredda per la California
meridionale, perché era piovuto per qualche giorno. Raggiungemmo la casa
della figlia del coach, nella San Fernando Valley, in macchina, perdendoci
un paio di volte e dovendo chiamare per avere indicazioni. Arrivammo
tardi, ma nessuno ci fece caso. Era quel tipo di famiglia. Quel tipo di
ricorrenza.
La casa era semplice. Nan, la figlia, ci accolse con entusiasmo, come se
fossimo cugini che non vedeva da anni. C’era anche il figlio del coach,
James, che fu altrettanto caloroso e ospitale. Le bambine di Nan stavano
giocando sul pavimento del soggiorno, con la televisione che trasmetteva la
parata del giorno del Ringraziamento di Macy’s4. Quando la vidi provai un
pizzico di nostalgia di casa, perché mio padre di solito ci portava a vederla.
Per questo motivo, ho continuato a guardarla ogni anno, anche da adulto.
Portai un po’ in giro le piccole sulla schiena, cosa che le fece divertire
tantissimo. Non erano mai state sollevate tanto in alto, prima. «Guarda,
mamma, sto volando», strillavano mentre le facevo girare per la stanza.
Il coach era più rilassato di quanto non lo avessi mai visto. Quel giorno
era solo un nonno, un papà e un amico. Non un allenatore. A causa della
schiena malmessa, ogni cinque minuti doveva sistemarsi sulla poltrona. In
marina, durante una partita, era stato sbattuto contro un palo d’acciaio,
riportando un grave infortunio alla spina dorsale che aveva richiesto diversi
interventi. Era per questo che camminava un po’ ricurvo, atteggiamento che
si faceva più pronunciato man mano che invecchiava.
Il pranzo fu tradizionale, come preannunciato. Tacchino, intingolo, purè di
patate, ripieno. Tutti i piatti prima o poi finiti su una cartolina del
Ringraziamento di Hallmark erano su quella tavola. E io ne fui felice.
La conversazione era leggera. Nan prese in giro i rituali superstiziosi del
coach. Conoscevo la sua consuetudine di tirarsi su le calze, sputare sul
parquet, pestare lo sputo con la scarpa, sfregarsi le mani e poi dare una
pacca sulla gamba al suo vice, prima di ogni partita.
«Sai delle forcine?» chiese Nan.
Se il coach era imbarazzato, non lo dava a vedere. Sembrava contento
delle attenzioni della sua famiglia.
«No», dissi io. «Forcine?»
«Ogni volta che trova una forcina, deve infilzarla nel pezzo di legno più
vicino. Albero, tavolo, veranda, non importa.»
«Ho letto che lo facevano i St Louis Cardinals», intervenne il coach, come
se quella fosse la spiegazione più ragionevole del mondo.
«A volte, il giorno della partita», continuò Nell, «ne lascio in giro una di
proposito, in modo che possa farlo.»
Raccontarono come, ogni volta che trovava una moneta per terra, se la
infilava nella scarpa sinistra e camminava in quel modo per tutto il giorno.
E così via per oltre un’ora. Nei due anni da quando avevo lasciato
l’appartamento dei miei, non mi ero mai sentito altrettanto a casa,
altrettanto a mio agio stando semplicemente seduto a tavola con altre
persone.
Dopo pranzo, il coach e io eravamo seduti in soggiorno. Toccava a Julian
e Ray giocare con le bambine. James, Nell e Nan erano in cucina e avevano
rifiutato il nostro aiuto per riordinare.
«Rendi grazie per le cose belle, ogni giorno», disse il coach. Era una metà
del settimo punto della lista che gli aveva dato suo padre. «Sai per che cosa
rendo grazie ogni giorno e non solo il giorno del Ringraziamento?»
«La sua famiglia?» tirai a indovinare. Sembrava il genere di sdolcinatezze
che dicevano sempre le persone di una certa età.
Si sistemò di nuovo sulla poltrona. «Lo sai di quando non salpai con la
nave, durante la guerra, perché stavo male? E che il compagno di università
che andò al mio posto morì?»
Annuii. L’avevo sentito.
«Ho sentito anche che il martedì sera finiva gli allenamenti prima per
poter correre a casa a vedere una serie in Tv.»
Lui annuì. «Sì. Le leggendarie imprese di Wyatt Earp. Andava in onda
prima che tu nascessi.»
«Non proprio. Lo guardavo sempre anch’io.»
«Hugh O’Brian faceva Wyatt Earp. Sapevi che durante la Seconda guerra
mondiale era nei marines? Aveva diciassette anni e fu l’istruttore reclute più
giovane di tutti i tempi.»
“Chissà dove le scova queste notizie?” pensai. «Comunque, i western le
piacciono ancora. Sul pullman li legge sempre.»
Lui mi sorrise. «Lo sai perché mi piacciono i western, Lewis?»
«Sono pieni d’azione?» La ragione per cui piacevano a me.
«Quello non fa male. Ma mi piacciono soprattutto perché i buoni sono
buoni e i cattivi cattivi. I buoni sanno qual è la cosa giusta da fare se
vogliono sconfiggere i cattivi.» Il suo sorriso si allargò. «E la fanno
sempre.»
«Non è realistico», dissi, lasciando trapelare la mia collera politica. «Il
mondo non funziona così.»
«No», disse lui. «Ma potrebbe. Potrebbe.»
Quella fu una delle lezioni più preziose che imparai da lui, e il coach
continuò a insegnarmela nel corso degli anni. Non era sufficiente
concentrarsi solo su quanto sbagliate fossero le cose; dovevamo avere
anche il sogno di come sarebbero potute essere. E dovevamo avere fiducia
di riuscire a far avverare quel sogno. O, come spesso diceva lui, citando
Robert Browning: «L’uomo dovrebbe andar oltre ciò che può afferrare, / o a
che cosa serve il paradiso?».
1
Imprenditore americano che fece successo grazie alla marca di pop corn che portava il suo nome
[N.d.T].
2
William Shakespeare, Tutte le opere, vol. I: Tragedie, Bompiani, Milano 2014 (traduzione di
Masolino D’Amico) [N.d.T.].
3
L’Erhard Seminars Training (Est) offriva un corso base di sessanta ore con il quale, attraverso i
concetti di trasformazione e responsabilità personale, mirava a portare i partecipanti a una maggiore
consapevolezza di sé [N.d.T.].
4
Parata tradizionale che si svolge dal 1924 a New York, organizzata dalla catena di negozi Macy’s
[N.d.T.].
Abbiamo un problema, qui al Pauley Pavilion
Come mi persi sulle orme di Wooden
Alla fine di uno dei film western preferiti da coach Wooden, L’uomo che
uccise Liberty Valance, a un giornalista viene chiesto se pubblicherà la vera
storia (che smentisce la leggenda popolare) di come è stato ucciso il cattivo
Liberty Valance. Così facendo, distruggerebbe la storia, tanto amata, di un
eroico duello. Il giornalista risponde beffardo: «Questo è il West, signore.
Quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».
Molte delle mie esperienze passate con il coach non fanno che avvalorare
la leggenda dell’affabile e generoso guru del basket e della vita, ma lui
sarebbe deluso se non parlassi anche dei suoi difetti. C’erano l’uomo che
avrebbe voluto essere e l’uomo che era: a volte l’uomo che era lo deludeva.
A volte deludeva me. È il prezzo da pagare per essere grandi in qualcosa: la
gente si aspetta che tu sia perfetto. La sua grandezza non risiedeva
nell’essere perfetto, ma nell’ammettere i propri errori – e ne fece alcuni
gravi, nel periodo in cui lo conobbi – e imparare da essi.
Come il coach affrontò quegli episodi bui, fu la cosa che mi colpì
maggiormente, insegnandomi a gestire i miei frequenti passi falsi. Il coach
aveva un carattere irascibile. E poteva essere ostinato. Ma le mie reazioni
nei suoi confronti sono state diverse a seconda dello stadio cui era giunto il
nostro rapporto.
La nostra amicizia attraversò tre diversi stadi.
Il primo equivale al periodo in cui ero a Ucla, quando il nostro rapporto
era più formale, tra allenatore e giocatore. Abbiamo avuto momenti di
vicinanza emotiva, ma erano fugaci. In parte questo dipese dal fatto che
eravamo entrambi riservati, ma va anche detto che io non stavo cercando
niente di più. Avevo appena lasciato la casa di una madre autoritaria e di un
padre distante e severo, non volevo un altro genitore che mi criticasse.
Inoltre, come guide spirituali, volevo la saggezza e l’esempio di neri
realizzati – come Malcolm X, Muhammad Ali e Martin Luther King – e
non di un bianco di mezza età con la cadenza del Midwest, che portava i
calzini bianchi con le scarpe nere. Quello che non capivo era che, durante
quel periodo, il coach stava gettando le basi per importanti lezioni di vita,
che io interpretavo come semplici informazioni pratiche su come diventare
un giocatore migliore. Lui teneva molto a me e agli altri giocatori, non ci
considerava semplici studenti di passaggio. Voleva che uscissimo dalla sua
ala protettrice come uomini maturi e capaci, con una forte etica del lavoro e
un’ancora più forte coscienza morale. Se così non fosse stato, lo avrebbe
considerato un fallimento. Pur apprezzando tutto ciò, io mi sentivo un lupo
solitario che stava vivendo la sua avventura.
Il secondo stadio comprende gli anni in cui giocai a Milwaukee. Mi tenni
in contatto con il coach, ma non avevamo un’amicizia stretta. Di tanto in
tanto parlavamo al telefono, o andavo a trovarlo, quando ero in città.
Perlopiù lo avevo nella mia testa, una voce che sentivo echeggiare durante
gli allenamenti e le partite. Ma quella voce parlava ancora soprattutto di
basket. Era il mio ex insegnante, e io il suo ex studente che cercava di
renderlo orgoglioso, provando nel frattempo a farcela con le proprie gambe.
Il terzo stadio fu il più intimo e gratificante. Quando tornai a Los Angeles,
a giocare per i Lakers, riuscimmo a vederci più spesso e a conoscerci in
modo molto più profondo. Nel frattempo ero diventato più maturo, più
sicuro di me stesso, come uomo e come giocatore. Potevo guardare indietro
alle esperienze fatte con il coach e vederle allo stesso modo in cui lui
guardava i nostri allenamenti dall’alto delle gradinate del Pauley Pavilion.
Riuscivo a vedere il quadro d’insieme. A unire i puntini, rendendomi conto
del fatto che tutto quello che avevo imparato aveva influenzato le mie
azioni e le mie scelte anche al di fuori della pallacanestro. In questo modo,
fui in grado di dimostrare a coach Wooden la mia gratitudine e di aprirmi,
per continuare a imparare da lui. Non solo, potei ripagare la sua influenza
rendendomi presente per lui nel momento del bisogno, come lui lo era stato
per me. Non volevo più fare colpo su di lui, volevo sostenerlo.
Durante quest’ultimo stadio della nostra amicizia, arrivai a capire,
attraverso le lunghe e franche conversazioni, quanta pressione gli avessi
causato, decidendo di frequentare Ucla. Lo scoprii un pomeriggio nel suo
soggiorno. Stavamo guardando i Dodgers battere senza pietà i Padres. La
partita era un tale massacro che avevamo iniziato a fare battute sul fatto che
il coach dei Padres fosse probabilmente in panchina a sfogliare i dépliant
del Costa Rica per quando fosse andato in pensione.
«Quando te ne sei andato, Kareem, sono stato lì lì anch’io per mollare»,
mi disse d’un tratto.
«Cosa?» replicai io, scioccato. «Era all’apice della sua carriera. Avevamo
dato una bella lezione al mondo della pallacanestro universitaria.»
Lui annuì senza dire nulla, mentre guardava Jeff Kent, dei Dodgers,
battere una palla a terra e correre in seconda base. Sapevo che non potevo
mettergli fretta. Le parole erano importanti, per lui, e per trovare quelle
giuste aveva bisogno di tempo. Citava spesso Mark Twain: «La differenza
tra una parola quasi giusta e una giusta è davvero una grossa questione: è la
differenza che c’è tra una lucciola e un lampo». Quando parlava, il coach
preferiva il lampo.
«Prima che arrivassi tu, avevamo vinto due campionati nazionali di fila.
Avevamo Gail Goodrich, Kenny Washington e Doug McIntosh: tutti grandi
giocatori. Vincere fu eccitante per i tifosi, perché non si trattava di una
conclusione scontata. Ma da quando sei arrivato tu, l’aspettativa del
pubblico è cambiata: l’idea era che, con te, non potevamo perdere. Vincere
non era più solo una questione di preparazione, era una questione di fare
arrivare la palla al lungo. D’un tratto non giocavamo più per vincere,
giocavamo per non perdere. Lo detestavo.»
Ora era il mio turno di sforzarmi di trovare il lampo. Mi vennero in mente
solo lucciole. «Io… ehm… non lo sapevo.»
Lui scrollò le spalle, lamentandosi con il televisore: «Per l’amor del cielo,
figliolo, colpisci quella palla, forza.» César Izturis aveva appena lasciato
passare due lanci, entrambi strike.
«Il fatto è, coach, che non abbiamo mai giocato con l’idea di passarmi la
palla e basta. Ricorda quando mi disse che sarebbe stato facile per lei
costruire un attacco che mi assicurasse di essere il più grande realizzatore di
tutti i tempi nella storia universitaria?»
«Certo che lo ricordo.» Sogghignò. «Stavo cercando di manipolarti, per
farti diventare un uomo di squadra. Le squadre con realizzatori superstar è
raro che vincano i campionati.» Si girò e mi guardò con un sorriso. «Alla
fine non dovetti fare molta fatica. Eri già un uomo di squadra. Ricordi che
cosa mi dicesti?»
«Qualcosa tipo: “La smetta di cercare di manipolarmi, vecchio
bislacco?”»
Lui rise. «No. Ti dissi che potevamo fare di te il più grande realizzatore di
tutti i tempi, ma che avremmo dovuto rinunciare ai campionati, e tu mi
dicesti: “Coach, lo sa che non è quello che voglio”.»
Si appoggiò allo schienale, sorridendo ancora al ricordo.
«Ragazzi, ero fantastico», dissi io.
Il coach rise di nuovo. «Riuscivi a esserlo. Di tanto in tanto.»
Mentre in televisione passava una pubblicità dei materassi, si sistemò sulla
sedia. Si fece di nuovo serio. «Quando sei in cima alla classifica, la gente si
aspetta che tu vinca. Non si accontenta di niente di meno. E non hanno
timore di fartelo sapere. Per quanto sia bravo un allenatore, non può
rimanere il numero uno per sempre.»
Mi limitai ad ascoltare. Alcuni giorni era la cosa migliore che potessi fare
per dimostrargli la mia amicizia.
Lui continuò: «Sai che cosa dico sempre? “Vorrei che tutti i miei amici
allenatori vincessero un campionato nazionale. Mentre quelli di cui non ho
una grande opinione, vorrei che ne vincessero diversi”».
Mi resi conto di non essere stato solo il fautore dei suoi più grandi trionfi,
ma anche la causa delle sue più grandi ansie. Mi vergognai del fatto che, nei
quattro anni che avevo giocato per lui, non avevo mai pensato nemmeno
una volta alla pressione che doveva aver affrontato. Lo guardai con
ammirazione per non aver detto una sola parola – lampo o lucciola – su
quello che stava passando, né a me né a nessun altro della quadra. Mi si
affacciò alla mente la frase di Hemingway: «Il coraggio è la grazia messa
sotto pressione» e quasi la pronunciai a voce alta, perché il coach sarebbe
stato felicissimo di sentire che, per una volta, ero io a fare una citazione. Ma
non lo feci, pensando che il complimento lo avrebbe messo in imbarazzo.
Invece dissi: «Ha intenzione di monopolizzare le noccioline, coach?».
Tornai a Los Angeles nel 1975 per giocare con i Lakers, appena in tempo
per il ritiro di coach Wooden. È possibile che io abbia preso la cosa peggio
di come la prese lui, ma fu come se i miei genitori avessero venduto la casa
in cui avevo passato l’infanzia. Sì, Ucla sarebbe stata sempre lì, ma la mia
casa non era il campus, era il coach. Il suo affetto era stato incondizionato,
il suo sostegno infinito.
«Coach, è sicuro?»
«È ora, Lewis.» Di solito mi chiamava Kareem. Mi sembrò che scivolasse
nella nostalgia.
Ero combattuto tra fargli le congratulazioni e cercare di convincerlo a
ripensarci. Naturalmente, mi rendevo conto che volevo che restasse per
motivi egoistici, in modo da poter fare ritorno al mio passato ogni volta che
volevo, trovando tutto esattamente com’era. Volevo tornare a vedere la casa
della mia infanzia e trovare la mia stanza come l’avevo lasciata.
«Congratulazioni, coach. Se lo merita.»
«Non sto morendo, per l’amor del cielo. Ho solo sessantaquattro anni. Ho
i miei camp estivi, i libri, le conferenze. Le mie camminate giornaliere di
otto chilometri. Nell e io andremo in crociera nei Caraibi.»
«È più impegnato di me», dissi, sforzandomi di sembrare allegro. «Ha
appena vinto il decimo campionato Ncaa. Immagino che dovrò smettere di
prendermi il merito del suo successo.»
Rise. «Oh, Kareem.»
Non so perché quelle due parole mi abbiano commosso tanto, in quel
momento. Mi piaceva farlo ridere. Era come se gli dicessi che tenevo a lui e
che per me era importante.
«Ho fatto del mio meglio», disse. «Ogni volta che puoi andartene
dicendoti di aver fatto del tuo meglio, hai vinto.»
«Certo, naturale.» Le parole uscivano dalla bocca, ma non ero io a
pronunciarle. Volevo dire delle cose belle.
«Non preoccuparti. Starò bene. È tutto esattamente come desidero.»
Avevo chiamato per congratularmi e alla fine era lui che consolava me.
Un classico di coach Wooden.
Sospirai. «Mi servirebbe proprio una frase adatta, in questo momento,
coach. Una poesia, un libro, un biscottino della fortuna?»
Lui ci pensò un istante, senza dubbio frugando tra la collezione di
citazioni che aveva in testa, senza dubbio archiviate per tema. Alla fine
disse: «Th-th-that’s all folks».
Scoppiai a ridere.
Furono i miei anni da allenatore che trasformarono quella tra coach Wooden
e me in un’amicizia molto più ricca e profonda. In quel periodo ci
confrontavamo su un livello completamente diverso. Mi stava ancora
aiutando, non come insegnante ma come collega. Come due soldati che
avevano affrontato insieme le stesse battaglie.
Percepivo la differenza ogni volta che mi sedevo con lui nel suo
soggiorno. Prima era come se andassi a far visita a un amico. Poi fu come
se tornassi a casa.
1
Panino caldo a base di cipolla caramellizzata, formaggio e carne [N.d.T.].
«Il tempo può piegarti le ginocchia»
Le ore di amicizia nei giorni del dolore
Il nostro successivo incontro con la morte avvenne dodici anni più tardi, nel
1985. La storia d’amore tra il coach e sua moglie Nell sarà Le pagine della
nostra vita per qualche futura generazione, una storia per cui andare in
estasi e piangere per diverse vite a venire. Gli attori che si susseguiranno a
interpretarli saranno istantaneamente catapultati nel firmamento delle star,
ma quali che siano i ruoli o i premi che otterranno in seguito, saranno
sempre ricordati per aver interpretato John e Nell Wooden. Per chiunque li
avesse conosciuti, il loro amore era la materia di cui sono fatti i sogni.
Nell e il coach si conobbero alle superiori quando lui aveva quattordici
anni. Per poter vedere il bel campione di pallacanestro John Wooden, Nell
convinse la banda della scuola di saper suonare la tromba. Marciava
insieme alla banda, lo strumento appoggiato alle labbra, le guance gonfie,
fingendo di suonare, con gli occhi fissi sul muscoloso cestista. Da allora
fino alla morte di lei, furono inseparabili; si sposarono presto ed ebbero due
figli: Nancy Anne e James Hugh. Nell aveva un certo talento per il basket, e
una volta aveva messo a segno dieci tiri liberi consecutivi.
Tutti i giocatori del coach conoscevano e rispettavano la moglie che
viaggiava sempre con lui, sedendo al suo fianco, che fosse in pullman, in
aereo o, dopo la pensione, in tribuna alle partite. Erano inseparabili,
innamorati l’uno dell’altra in modi che facevano apparire la poesia
romantica di Byron, Keats e Shelley roba da dilettanti. Sapevamo tutti che
durante le partite il coach stringeva in una mano una croce d’argento,
mentre Nell ne teneva una identica in una delle sue. Era uno dei loro tanti
modi di restare in contatto. Sapevamo anche che la ragione per cui gli
allenamenti erano organizzati così al secondo era che lui era ansioso di
tornare a casa da lei.
A noi, tronfi giovani giocatori dell’epoca della rivoluzione sessuale degli
anni Sessanta, troppo trendy e fichi per i concetti antiquati di matrimonio e
romanticismo, la loro relazione sembrava carina ma sdolcinata, non la
materia dei sogni ma quella delle dozzinali cartoline di Hallmark. Qualche
anno più tardi, la maggior parte di noi si rese conto di utilizzare il loro
matrimonio come esempio per ciò che cercava nel suo. Anche se faticavo a
trovare qualcuno con cui essere altrettanto intimo e innamorato, sapevo
riconoscere quando una relazione non era come la loro. E mi sforzavo di
continuare a cercare.
Il pesante vizio del fumo lasciò Nell debole e cagionevole di salute. Nel
1982, una malattia degenerativa delle ossa la costrinse a sottoporsi a un
doppio trapianto d’anca. Ebbe un attacco di cuore durante l’intervento, poi
un altro subito dopo, che la fecero andare in coma per novantatré giorni. La
sua salute non migliorò più e, anche se tornò a fianco del coach, per le
partite e le conferenze, morì tre anni dopo, nel 1985. Erano stati sposati
quasi cinquantatré anni.
Il coach di solito non era un uomo che indulgeva
nell’autocommiserazione. Ma dopo la morte di Nell combatté a lungo per
riacquistare un equilibrio, ritrovare uno scopo. La sua routine di
cinquantatré anni era andata distrutta, così cercò di rimpiazzarla con altre
routine legate al ricordo di lei. Scriveva poesie per lei. Il 21 di ogni mese, il
giorno in cui era morta, le scriveva una lettera e la metteva sul suo cuscino
per una notte, poi la riponeva in una busta insieme alle altre che aveva
scritto. Sistemava la sua camicia da notte sul letto accanto a sé. Suonava gli
album dei Mills Brothers, perché erano andati a vederli dopo la cerimonia
nuziale.
Chiamai casa sua, ma lui non rispose. Chiamai sua figlia Nan, la quale mi
disse che lui di rado rispondeva al telefono, soprattutto se si trattava di
qualcuno che gli ricordava Nell. Mi raccontò di quanto fosse preoccupata. Il
coach era avvilito, molto più depresso di quanto lo avesse mai visto. Anche
la sua immensa fede stava vacillando. Dopotutto, era sempre stata Nell la
più devota. Era lei che riempiva la loro casa di immagini religiose. L’amore
del coach nei confronti di Dio sembrava legato a quello per la moglie.
Senza l’uno, l’altro sembrava svuotato.
Quando riattaccai ero scosso. Pensai di prendere la macchina e andare ad
accamparmi fuori dalla sua casa fino a che non mi avesse fatto entrare. Ma
ficcare il naso nel suo dolore mi sembrava peggio e inoltre, a essere onesto,
non mi sentivo all’altezza del compito. Quel dolore era incommensurabile.
Che cosa avrei potuto fare per aiutarlo? E se avessi detto o fatto la cosa
sbagliata? Ricordai come mi ero rinchiuso in me stesso dopo gli omicidi di
Washington. Mi ero avvolto in un bozzolo, mentre guarivo. Magari il coach
stava facendo lo stesso.
La mia vita era in un tale caos, all’epoca, che mi domandai se non avrei
aggiunto solo altra ansia. Poco tempo prima la mia casa era bruciata,
distruggendo tutto ciò che possedevo e quasi uccidendo la mia compagna,
Cheryl, e mio figlio Amir. Il «Los Angeles Times» aveva definito
quell’evento «il più grande danno economico riportato in una casa
indipendente nella storia della città». Tutte le mie foto di famiglia, i trofei
sportivi, le mie collezioni di tappeti persiani e musica jazz erano andati in
cenere. Avevo un’altra casa e i miei genitori si erano appena trasferiti a
vivere con me. In più ero ancora nel bel mezzo della stagione con i Lakers
ed ero quasi sempre in giro.
Alla fine parlai con il coach qualche mese dopo, a uno dei raduni della
squadra di Ucla, a casa di Andy Hill. Il coach e io ci ritirammo in un
angolo, per chiacchierare un po’ in privato. «Sono molto dispiaciuto per la
sua perdita, coach», gli dissi, sapendo quanto suonassero vuote quelle
parole.
«Grazie, Kareem.» Sorrise debolmente.
Non dissi nulla. Mi limitai a guardarlo, per capire come stesse.
«Sto bene», mi rassicurò lui, ormai abituato a quello sguardo serio e
preoccupato da parte di chi gli stava accanto. «Davvero, sto bene.»
«Nell era una donna fantastica», dissi io.
«Sì, lo era.»
Avevo finito le frasi di circostanza. Che cosa si dice a un uomo che ha
perso sua moglie, la sua migliore amica, la sua compagna? Avrei dovuto
ignorarlo e mettermi a parlare della mia stagione sportiva? O continuare a
pungolare le sue emozioni, ancora così forti, con domande su come se la
stesse cavando?
«Come sta la tua famiglia?» chiese lui. «Vedrò Amir giocare a Ucla?»
Era tipico del coach, domandare degli altri in un momento per lui di
grande sofferenza.
Scrollai le spalle. «Fa già di testa sua a sei anni. Al momento ha
intenzione di diventare il primo uomo nero ad andare sulla luna. Domani
vorrà essere Indiana Jones e saccheggiare templi Inca.»
«Come è giusto che sia.»
Mi sforzai di pensare a che cosa dire. Davanti a me c’era l’unico uomo
con il quale potevo parlare apertamente e liberamente, persino più che con
mio padre. E io sembravo un idiota balbettante.
«Sai, Kareem», cominciò a dire lui, prosciugando l’imbarazzo tra di noi,
«quando ero in marina, la sera prima della mia prevista partenza per andare
a combattere nel Pacifico, ebbi un attacco di appendicite.»
«Lo so», lo interruppi. «Il suo amico dell’università partì al suo posto e
rimase ucciso da un kamikaze giapponese che fece schiantare il proprio
aereo contro la nave.» Mi sentii a disagio per averlo interrotto. Perché ero
così nervoso e agitato? Preoccupazione per lui o senso di colpa?
«Ho pensato molto a quel giorno», continuò lui.
«Perché lui e non lei? Dio aveva dei piani, per lei?»
Lui rise. «No, no. A pensare cose del genere si finisce per impazzire.
Stavo pensando al pilota. Il gentiluomo giapponese così dedito alla sua
causa da voler sacrificare la propria vita. Non si può fare a meno di
ammirare una tale dedizione, quella sensazione di avere uno scopo.»
«A-ha», feci serio. Dove voleva andare a parare?
«Con Nell io ho sempre sentito di averlo, uno scopo. Sapevo perché ero
qui. Per essere suo marito. Quando è morta, quella sensazione è morta con
lei.»
«Coach, io…» le parole mi uscirono rauche.
Lui mi interruppe con un cenno della mano. «Mi hai mai sentito
raccontare una storia senza che avessi qualcosa di importante da dire?»
Risi. «Sì, a dire il vero. Molte volte.»
«Be’, non è questo il caso. Sto cercando di dirti che ho trovato un nuovo
scopo. Cioè, non ne ho tanto trovato uno nuovo, quanto ricordato uno che
già c’era.» Mi sorrise, il suo volto di settantaseienne era raggiante. «I miei
figli, naturalmente, e ora la mia bellissima pronipote.»
Cori Nicholson, la sua prima pronipote, era nata pochi mesi dopo la morte
di Nell. Nan mi aveva raccontato che la sua nascita era stata la sola cosa in
grado di risollevarlo dalla disperazione.
«Tu e io abbiamo passato le pene dell’inferno, Lewis», disse. «Ma siamo
ancora in piedi. È questo che importa. Ancora in piedi e in grado di aiutare
altri a stare in piedi.» Guardò in basso, come se immaginasse la sua
pronipotina stare ritta sulle gambe per la prima volta.
Ero andato al raduno sperando di riuscire finalmente a dare una mano al
coach nel suo processo di guarigione. Non sapevo se ci fossi riuscito, se
avessi detto o fatto qualcosa per alleviare il suo dolore, ma quando me ne
andai mi sentivo più leggero, più felice, rendendomi conto, guidando verso
casa, che in qualche modo lui aveva guarito il mio senso di colpa. Mi aveva
aiutato a stare in piedi.
Dopo quella serata, feci in modo di chiamarlo e fargli visita più spesso. Se
lo facessi per lui o per me, non ne sono sicuro, so solo che sembravamo
trarne beneficio entrambi. La maggior parte dei pasti che dividemmo la
consumammo al Vip’s di Tarzana, a un paio di chilometri dalla casa del
coach a Encino. Lui faceva colazione lì tutti i giorni, persino quando era in
lutto per Nell. Ordinava sempre il numero due special. A volte i proprietari
del locale, Lucy Ma e il marito Paul, si avvicinavano al tavolo per
assicurarsi che fosse tutto di suo gradimento. Lo era sempre.
Una mattina era particolarmente soddisfatto perché, dopo anni di impegno
da parte sua, nella stagione 1985-1986 la Ncaa aveva istituito la regola dei
45 secondi, con il relativo tabellone indicante i secondi rimanenti per il tiro.
La stagione era terminata e secondo lui il tabellone si era rivelato un grande
successo.
«Sai, nel ’71, contro Villanova, ho letteralmente fatto fare melina ai miei
giocatori», disse. «Volevo provare alla Lega quanto fosse stupido
permettere ai giocatori di rallentare il gioco. Deve aver funzionato, perché
eccoci qui, quindici anni dopo, con il tabellone dei secondi.» Rise della sua
battuta.
«Coach, non penserà davvero che creda che lei abbia fatto fare melina ai
giocatori per far passare una sua idea? Non ha mai fatto niente che non
servisse per vincere.»
Sorrise malizioso, mettendosi in bocca una cucchiaiata di uova. «Mi
conosci troppo bene, Kareem.»
«Non credo che succederà mai, coach», dissi.
«Vedremo», ribatté lui. «Abbiamo qualcosa da aspettare con impazienza.»
Aveva ragione, naturalmente. Aspettavo con impazienza ogni pranzo
fuori, ogni telefonata, ogni pomeriggio spaparanzato in soggiorno. Ogni
volta me ne andavo con la sensazione di conoscerlo meglio, ma anche
consapevole che c’era ancora molto da capire su di lui. Era come leggere un
romanzo avvincente, sapendo che c’erano altri volumi ad aspettarmi. La
storia infinita della nostra amicizia.
Era soprattutto una questione di immutabilità. La cosa che avevo sempre
amato del basket era l’immutabilità della vita quotidiana. Non solo la
routine, che consisteva in allenamento, doccia, mangiare, ma vedere la
stessa gente nello stesso ambiente, condividere quelle esperienze con altri.
Arrivavi in palestra e trascorrevi ore con persone che avevano le tue stesse
esperienze, frustrazioni, speranze. Qualunque altra cosa succedesse nella
tua vita, l’indomani loro sarebbero stati lì. Vedere il coach era per me la
stessa cosa.
Quando mia madre cominciò a stare male, sentii che mi stavo di nuovo
isolando. Visto da fuori rimanevo calmo e deciso, l’immagine pubblica che
ci si aspettava da me, ma dentro il mio mondo era traballante e instabile, ed
era difficile trovare un punto fermo cui aggrapparsi.
Mentre ero a Indianapolis con mio figlio Kareem Jr che partecipava al
torneo Ncaa, ricevetti la telefonata che mia madre era stata portata in
ospedale. Kareem e io iniziammo subito a cercare un volo per tornare a
casa, ma poi ricevetti un’altra telefonata che mi avvisava che stava bene, e
che l’avrebbero tenuta in ospedale per la notte come misura precauzionale.
Quando atterrammo all’aeroporto di Los Angeles, mamma era in coma.
Cercai di non farmi prendere dal panico, ricordando come Nell Wooden
fosse stata in coma per novantatré giorni per poi uscirne e riprendere una
vita normale.
Mancava meno di una settimana alla festa per il mio cinquantesimo
compleanno, che tutti attorno a me stavano preparando da mesi. Volevo
cancellarla, ma mio padre e i miei amici insistettero perché si facesse. «Non
facendola deluderai tua madre», mi disse papà. «Si sentirebbe in colpa.»
Aveva ragione, e andai avanti con la festa. Fu un evento sfarzoso, in un
ristorante chiamato Georgia di cui era socio il mio amico ed ex compagno
di squadra Norm Nixon. C’erano tutti i miei figli, e persone che avevo
conosciuto nei più disparati momenti della mia vita e che non vedevo da
anni. Vennero anche alcune mie ex, tra cui l’attrice Pam Grier e a suonare
c’era il Ray Brown Trio. Avrebbero dovuto essere i festeggiamenti di una
vita, ma riuscivo solo a pensare a mia madre in ospedale e a mio padre
seduto accanto al suo letto.
Bill Walton, coach Wooden e Jabbar alla festa per i suoi cinquant’anni (foto Norman Levin, Natural
Portraits & Events).
Due settimane più tardi mia madre morì. Erano sposati da cinquantatré
anni, come il coach e Nell. Al suo funerale provai a parlare di quello che
aveva significato per me e per chiunque la conoscesse, ma riuscii solo a
piangere.
Il coach mi chiamò per farmi le sue condoglianze. «Kareem, mi dispiace
molto. So quanto la amavi.»
«È così.» Parlavo per frasi brevi, perché non volevo mettermi a
singhiozzare.
«Era una donna notevole. Una persona davvero adorabile.»
«Grazie.»
Silenzio.
«Non dubitare nemmeno per un istante che non fosse più che orgogliosa di
come fosse cresciuto suo figlio. E non sto parlando della pallacanestro. Sto
parlando dei tuoi ragazzi e del genere di padre che sei.»
«Grazie, coach.»
Silenzio.
«Spero che tu non stia aspettando che tiri fuori qualche storiella o poesia
sulle cose belle della vita che possa renderti tutto più facile. Perché non ne
esistono. Lo si supera solo un giorno alla volta.»
Come gli Alcolisti anonimi, pensai con amarezza. Avrei voluto che
dicesse qualcosa per aiutarmi ad affrontare il dolore, ma sapevo che non
c’era niente che lui o qualcun altro potesse dire. Le parole non servivano a
niente. Gli amici non servivano a niente. Dio non serviva a niente.
«È sbagliato chiedersi come possa Dio essere tanto crudele?»
«Se lo è, dopo la morte di Nell ho passato molti giorni a sbagliare.»
Respirai a fondo, un respiro che sembrava essere stato rinchiuso dentro di
me come un animale in gabbia. Non avevo perso la fede, ma di certo
l’avevo messa in discussione. Dolore e senso di colpa si erano avvinghiati
al mio cuore come dei boa.
«Non siamo perfetti, Lewis. La perfezione non dovrebbe nemmeno essere
uno dei nostri obiettivi. Perseguirla è poco realistico oltre che poco salutare.
Sii solo buono, con gli altri e con te stesso. È abbastanza, per ora.» Nella
sua voce c’era una tristezza che armonizzava con la mia. Legati dal dolore,
non avrei potuto sentirmi più vicino a qualcuno di quanto mi sentissi in quel
momento. Respirai liberamente per la prima volta dopo giorni. La
sensazione passò in fretta, e la tristezza tornò con prepotenza. Ma almeno
per un istante avevo provato un piccolo sollievo, un sollievo che sarebbe
potuto tornare, e magari, la prossima volta, restare più a lungo.
È una triste ironia che le amicizie migliori finiscano con la morte. Gli amici
che diventano più intimi rimanendo leali l’uno nei confronti dell’altro
affrontano il futuro sapendo che, inevitabilmente, uno dei due abbandonerà
riluttante l’altro a piangere la sua perdita.
Negli ultimi anni della mia amicizia con coach Wooden ci ho pensato
molto. Più si avvicinava ai cento anni e più era evidente per tutti che la sua
fragilità aumentava. Il suo corpo si era ritirato fino a fasciargli le ossa, si
muoveva spesso su una sedia a rotelle, si stancava con facilità. La sua
mente era ancora lucida, ma si vedeva che faceva fatica.
Eravamo tutti preoccupati per lui, anche se il coach non voleva. Come
disse a ognuno di noi, citando Lincoln con una punta di irritazione: «La
cosa peggiore che possiate fare per coloro che amate, è fare le cose che
potrebbero e dovrebbero fare da sé». Il problema era che non sempre aveva
un’idea realistica di ciò che poteva – o doveva – fare.
Guidare, per esempio.
Nel 2005, quando aveva novantacinque anni, durante una delle nostre
colazioni al Vip’s si lamentò del fatto che la famiglia cospirava per
impedirgli di guidare. «I miei figli non vogliono che guidi», disse.
Non volevo farlo sentire peggio, prendendo le loro parti, ma non volevo
nemmeno che guidasse, quindi cercai di affrontare con diplomazia
l’argomento. «Perché guidare, quando potrebbe starsene seduto sul sedile
posteriore a leggere una poesia? Pensi a quanti versi potrebbe ancora
imparare a memoria. Non per criticare, ma ha bisogno di materiale nuovo.»
Il coach scosse la testa accigliato. «Non sono un bambino, Kareem.»
Era chiaro che il mio goffo tentativo era stato troppo esplicito. «Ricorda la
poesia di Kipling che cita sempre?»
«Se», disse lui.
«Sì, Se. Ricordo alcuni versi a proposito dell’aver fiducia in te stesso,
quando la gente dubita di te, ma magari di prestare anche ascolto, qualche
volta.»
Fece una smorfia, come se avessi rovinato la sua canzone preferita
stonandola. «“Se saprai avere fiducia in te stesso, quando tutti dubiteranno
di te, / ma anche considerare i loro dubbi.”»
«Giusto. Quelli. Il punto è che, magari, sulla guida, deve considerare
anche i dubbi dei suoi figli.»
Ci rifletté sopra, masticando il suo toast.
«Sarebbero più felici, meno stressati. Sembra da lei, fare una cosa così per
loro.»
Lui masticò, deglutì e diede un altro morso, senza una parola. Quando
parlò, disse: «Ricordi quella pubblicità televisiva che girammo per la
Reebok nel ’93? Con Shaq, Bill Walton, ehm…» Esitò, cercando di farsi
venire in mente i nomi.
«Bill Russell, Willis Reed, Wilt Chamberlain», dissi in fretta, preoccupato
che quella dimenticanza fosse come quelle di mio padre, una china
discendente da cui non c’era ritorno. «Lei entrò nella stanza in cui eravamo
tutti in piedi e disse: “Non è che avete una scala, per me?”»
Il suo volto si illuminò, come se il ricordo si fosse d’un tratto presentato
nella sua interezza alla memoria. «L’idea di fondo dello spot era iniziare
Shaq al club segreto dei grandi del basket. Ricordi che cosa gli diceva
ognuno di voi?»
Non lo ricordavo.
«Ognuno di voi gli recitava all’orecchio un verso di Se di Kipling. Il tuo
era: “Se saprai parlare alle folle, conservando la tua virtù”, ricordi?»
Buio totale. Aveva dimenticato i nomi, ma ricordava la mia battuta in uno
spot di dodici anni prima. Sorrisi sollevato. «Ero bravo?»
Scrollò le spalle. «Non eri Roger Murdock.»
Fu solo quando arrivai a casa che mi resi conto che il coach mi aveva
portato dove voleva lui, distogliendomi dalla conversazione sulla guida.
Continuò a guidare fino a novantotto anni.
Bill Walton, che aveva giocato per il coach a Ucla subito dopo di me, dal
1971 al 1974, lo chiamava quasi ogni giorno. Anche altri ex giocatori si
tenevano regolarmente in contatto con lui. Ero felice che fossimo in tanti a
prenderci cura del coach. Sapevo che Doug Erickson, che faceva parte dello
staff di allenatori dell’università, passava a fargli un saluto più volte a
settimana. Anche altri dello staff di Ucla si unirono all’équipe di supporto
di coach Wooden. Lui e Tony Spino, l’allenatore di atletica leggera che per
un breve periodo aveva lavorato per i Milwaukee Bucks, divennero molto
amici. Non c’era certo carenza di volontari. Il coach aveva influenzato le
vite di così tante persone, che tutti volevano l’occasione di ripagarlo. Ero
contento di avere l’opportunità di essere uno di loro.
Nel 2006 la nostra veglia giunse quasi al termine. Ero a Indianapolis per le
finali Ncaa e stavo attraversando l’Rca Dome con Bill Walton e Deborah
Morales, quando il cellulare di Deborah squillò. Si fece terrea in volto. Mi
spinse il telefono tra le mani e disse: «Nan Wooden». Nan mi spiegò che il
coach, che all’epoca aveva novantacinque anni, era in ospedale, ma non
sapevano quanto fossero serie le sue condizioni. Rimasi senza parole. Otto
anni prima mi trovavo in quello stesso edificio con mio figlio Kareem,
quando avevo ricevuto la telefonata che mi avvertiva che mia madre era in
ospedale. Non l’avevo più rivista viva. Non potevo permettere che
accadesse di nuovo. Dissi a Nan che Bill e io avremmo preso il primo volo
per Los Angeles. Lei protestò, dicendomi di portare a termine prima i miei
impegni. Il coach non era in pericolo immediato. Le diedi ascolto.
Salii sul palco per tenere il discorso che avevo preparato e invece parlai di
coach Wooden e di tutto quello che mi aveva insegnato nel corso degli anni,
di come non mi fossi realmente reso conto di quanto stessi imparando fino a
che non me ne ero andato. Poi, con mia grande sorpresa, sentii un nodo in
gola. Mi sforzai di ricacciare indietro le lacrime, di continuare sulla strada
che il coach avrebbe voluto vedermi percorrere, ma non ci riuscii. Scoppiai
a piangere.
Deborah sembrava sconvolta. «Non ti ho mai visto sopraffatto a questo
punto dalle emozioni», disse più tardi.
«Non capisci», risposi, «è mio padre.»
Salii sul volo successivo e andammo dritto in ospedale.
«Come sta?» chiesi a Nan.
«Sta riposando», disse lei.
«Ho bisogno di vederlo, Nan.» Cercavo di apparire calmo, di nascondere
il disastro emotivo che mi sentivo dentro.
«È in terapia intensiva, Kareem», rispose lei. «Fanno entrare solo i parenti
stretti.»
«Ho bisogno di vederlo», la implorai. «Per favore, Nan.»
Lei e suo fratello Jim si guardarono, poi annuirono.
«Va bene», disse Jim. «Passa dal retro.»
Quando entrai nella sua stanza, il coach era intontito, incapace di parlare.
Mi guardò, cercando con difficoltà di mettermi a fuoco.
Allungai il braccio e gli presi delicatamente la mano. Sentii le lacrime
scendermi sul volto. La bocca del coach si mosse, come se volesse dire
qualcosa senza riuscirci.
Nan si mise a piangere piano. «Aspetterò fuori», disse. «Vi lascio da soli.»
«No, non andare», la pregai. «Voglio che senta anche tu.» Volevo che
sapesse che la consideravo una di famiglia, proprio come il coach. E volevo
che potesse ripetergli quello che avevo da dire, nel caso lui non mi sentisse
e io non avessi avuto l’occasione di rivederlo.
Avvicinai una sedia e mi misi accanto a lui, sempre tenendogli la mano,
ma attento a non stringerla troppo. Feci un respiro profondo, lo guardai
negli occhi e parlai con il cuore, come avevo fatto di rado, in vita mia.
«Coach, da quando ho perso mio padre, lei è l’unico padre che ho. E ho
bisogno che sappia quanto le voglio bene.»
Sorrise debolmente, ma sorrise.
Tornai in ospedale diverse volte a fargli visita, e intanto lui si faceva
sempre più forte. Quando finalmente lo dimisero, ne fui sollevato ma avevo
ormai capito di non poter più dare per scontata la sua presenza nella mia
vita.
In quei mesi che lo separavano dalla fine, il coach era diventato filosofico, a
proposito della morte. Ne parlava alla stregua di un fastidioso
appuntamento per cambiare le gomme della macchina. Una scocciatura, più
che qualcosa da temere.
«Non ho paura di morire», disse un pomeriggio nel suo soggiorno. Di
certo non avevo introdotto io l’argomento.
«Ah...» abbozzai, a disagio. Non era ciò di cui volevo parlare.
Stavamo guardando una partita tra due squadre universitarie. Incollai gli
occhi allo schermo, sperando che la conversazione fosse terminata.
«L’altro giorno mi hanno chiesto del mio monumento commemorativo a
Ucla. Che cosa volevo.»
«Ah!» ripetei. Mi sentivo come un bambino cui i genitori volevano
leggere il loro testamento. “Troppo presto! Troppo presto!” avrei voluto
gridare.
«La verità è che non credo di essermi mai ripreso dalla morte di Nell. Non
del tutto. Quindi non ho paura di morire, perché sarò di nuovo con lei.»
«So che sarà così, coach», lo rassicurai.
«Mark Twain disse: “La paura della morte deriva dalla paura della vita.
Un uomo che vive pienamente è preparato a morire in qualsiasi
momento”.» Si fermò un istante. «È giusto?» domandò ad alta voce, ma
chiaramente a se stesso. Poi annuì soddisfatto di non aver commesso errori.
«Non riesco a pensare a nessuno che abbia avuto una vita più piena della
mia.»
«Nemmeno io.»
Mi guardò e sorrise. «Naturalmente tu hai ancora un sacco di tempo per
battermi.»
«Non è una gara, coach.»
Non disse nulla. Tornò a guardare la partita, come se non avessimo mai
avuto quella conversazione. Magari nella sua mente era così. Si era già
allontanata, alla deriva, con gli altri relitti galleggianti di memorie
dimenticate. Ma io non l’avrei mai scordata. Non potei fare a meno di
chiedermi se, quando si fosse avvicinata la mia fine, sarei stato in grado di
dire, con la stessa soddisfazione, che nessuno ha avuto una vita più piena
della mia.
Ricorderò sempre l’istante preciso in cui accettai il fatto che stava morendo.
Certo, ogni tanto parlavamo della morte en passant, come se si trattasse di
una crociera estiva che aveva in programma, ma avevo visto gli allarmanti
segni del declino fisico. Eppure c’era qualcosa, nel suo atteggiamento
positivo, nelle sue citazioni ottimistiche, nell’assenza di lamentele, che mi
faceva credere che in questo particolare gioco lui fosse in grado di battere
l’orologio.
Fu circa due settimane prima che tornasse in ospedale per l’ultima serie di
ricoveri. Keith Erickson, coach Wooden e io eravamo a un evento in onore
di giocatori, arbitri e dirigenti che avevano militato nelle Negro League del
baseball. Mentre io conoscevo la storia delle “leghe nere” dalle mie letture,
il coach aveva giocato di persona a pallacanestro contro alcune di quelle
persone in campionati professionistici. Nonostante avessi già sentito le
storie che raccontò quella sera, non le trovai meno affascinanti. Parlava
sempre con un tale rispetto e una tale ammirazione dei giocatori che ogni
nero in sala non poteva fare a meno di essere fiero di quegli atleti che
avevano aperto la strada per il resto di noi.
La serata era stata così vivace che il coach e io non avevamo avuto molte
occasioni per parlare. Avevo passato tre ore seduto accanto a Willie Mays
(una circostanza emozionante, per me), aiutandolo a distribuire palle da
baseball autografate, totalmente assorbito dalla nostra conversazione.
Mentre mi preparavo ad andarmene, qualcuno mi avvicinò e mi informò
che coach Wooden voleva salutarmi. Pensai che volesse dirmi qualche
parola di commiato alla fine dell’evento: la nostra solita chiacchierata
veloce per raccontarci come andava e buonanotte.
Mi sbagliavo. Era sulla sua sedia a rotelle e sembrava esausto. La serata lo
aveva prosciugato. Ci spostammo in un angolo della stanza, da soli: «Voglio
fare due chiacchiere con te», disse. E d’un tratto realizzai che mi stava
dicendo addio.
Era l’ultima volta che lo vedevo. Lo capii e basta.
In un certo senso, sospetto che lo sapesse anche lui. Fui sopraffatto dalle
emozioni e feci un respiro profondissimo, per mantenere la compostezza.
«Come stanno i bambini, Kareem?» chiese.
Mi avvicinai per sentire meglio. «Bene. Amir fa le notti in ospedale.»
«È bello avere un medico in famiglia. Ti fa risparmiare
sull’assicurazione.»
Gli raccontai dei miei altri figli, tutti ben avviati sulle strade che avevano
scelto da soli. Cercai di non apparire troppo fiero, ma dalla mia voce era
evidente.
«E dimmi di te. Che cosa stai facendo in questo periodo?» Sapeva bene
cosa stessi facendo in quel periodo, sembrava che volesse solo tenere viva
la conversazione, fare in modo che quel momento tra noi durasse il più a
lungo possibile. Lo stesso valeva per me.
Gli raccontai di nuovo dei miei progetti, i libri, i film, gli articoli, quanta
gioia mi desse scrivere.
«La differenza tra un lampo e una lucciola», commentò lui. Non aveva
nemmeno più bisogno di citare la frase completa.
«È quello cui penso ogni volta che mi siedo a scrivere», gli dissi, ed era
vero. A volte, quando ero al computer a tormentarmi sulla scelta di una
parola, sentivo la voce del coach che mi domandava: «Lewis, è un lampo o
una lucciola?».
Poi mi resi conto, dal modo in cui si stava accasciando sulla sedia, che era
troppo stanco per continuare. Come facevamo spesso, ci facemmo una foto
insieme. Ci ripromettemmo di sentirci presto ma, mentre mi allontanavo,
con gli occhi che si riempivano di lacrime, ebbi il triste presentimento che
non sarebbe stato così.
Quel giuramento incarnava ciò che lui insegnava sullo sport. Chiedete a
ogni giocatore che abbia imparato dal coach a mettersi bene i calzini e,
davanti al giuramento, vi dirà: «Sì, è proprio lui».
Ma per me era un’altra la cosa che più di tutte definiva coach Wooden.
Non le parole che insegnava agli altri, ma quelle che usava per se stesso. Si
tratta di una poesia anonima: il coach la amava così tanto che la Gatorade
girò uno spot televisivo con lui che la recitava direttamente in camera. Se
volete sapere che cosa pensasse il coach ogni volta che si trovava di fronte
ai suoi giocatori, alla sua famiglia, ai suoi amici, è semplicemente questo:
Sarò sempre fiero di dire che io, dall’alto dei miei 218 centimetri, sono stato
uno di quei piccoletti.
Coach Wooden riceve dalle mani di Jabbar uno dei tanti riconoscimenti della sua carriera (foto della
collezione privata di Nan Wooden).
1
Un metodo di accrescimento del successo professionale per aiutare gli individui e le organizzazioni
a sfruttare appieno il proprio potenziale [N.d.T.].
Ringraziamenti