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Indice

Copertina
Colophon
Frontespizio
Prologo
Quando i mondi collidono
L’inizio del gioco
Sensibili al colore
Che cosa farebbe coach Wooden
Abbiamo un problema, qui al Pauley Pavilion
«Il tempo può piegarti le ginocchia»
Il nostro lungo viaggio verso la notte
Ringraziamenti
add editore
Coach Wooden and Me.
Our 50-Year Friendship On and Off the Court
Grand Central Publishing, New York - Boston, 2017
© 2017 Kareem Abdul-Jabbar

Traduzione dall’inglese (americano) di Alessandra Maestrini

© 2017 add editore, Torino


ISBN 978-88-6783-171-5
www.addeditore.it
Kareem Abdul-Jabbar
Coach Wooden and me
50 anni di amicizia dentro e fuori dal campo

Traduzione di Alessandra Maestrini

add editore
Alla famiglia di coach Wooden, da chi, con umiltà, è orgoglioso di poterne
fare parte.
Prologo
Perché ci sono voluti cinquant’anni per scrivere questo libro

Nel 2016 ero nell’ala est della Casa Bianca insieme a venti persone che
ammiravo molto, tra le più famose e di successo al mondo. Tra queste Tom
Hanks, Robert Redford, Diana Ross, Michael Jordan, Ellen DeGeneres, Bill
e Melinda Gates, Bruce Springsteen, Cicely Tyson e Robert De Niro.
In più c’era un’altra persona.
Il presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, che ha conferito
personalmente a ognuno di noi la Presidential Medal of Freedom. Quando è
arrivato a me, ho dovuto chinarmi perché potesse mettermela al collo.
Obama ha fatto poi un breve discorso per ognuno di noi, elogiando il
contributo che avevamo dato alla nazione. Mentre parlava di me, le sue
generose lodi mi hanno messo un po’ a disagio.
Le cerimonie di premiazione lo fanno sempre. Anche se apprezzo che si
riconosca che ho fatto qualcosa di rilevante e che sono ancora in vita, c’è un
elemento di autocelebrazione che mi disturba. Sono per natura molto timido
e non mi piace parlare di me. Alle feste sono il tipo seduto dietro il vaso con
la palma… una palma molto alta.
La cosa che più ho apprezzato, di ciò che ha detto il presidente Obama, è
stata che non mi trovavo lì solo per la mia carriera nella pallacanestro, ma
anche per i diciassette anni di libri e articoli che avevo scritto contro le
ingiustizie sociali nei confronti dei neri, delle donne, della comunità Lgbt,
dei musulmani e degli immigrati («perora nobili cause al Congresso e scrive
con straordinaria eloquenza di patriottismo»). Poi sono stato placcato e
travolto da un altro pensiero: se non esistesse l’ingiustizia sociale, avrei mai
preso quella medaglia? Stavo in qualche modo traendo vantaggio
dall’ingiustizia sociale? Quale mostro farebbe una cosa del genere?
Chi mai può avere simili pensieri mentre sta ricevendo il più alto
riconoscimento civile della nazione? Perché non potevo semplicemente
essere grato, sorridere e pensare: «La Presidential Medal of Freedom.
Wow!».
Il presidente Obama ha terminato la cerimonia dicendo: «Tutti gli uomini
e le donne su questo palco mi hanno toccato in modo forte e personale.
Queste sono le persone che hanno contribuito a fare di me l’uomo che
sono». È stato a quel punto che ho capito esattamente perché mi sentissi
così a disagio.
Mancava qualcuno.
L’uomo al quale, più che a chiunque altro nella vita, dovevo il fatto di
essere lì, nello stesso luogo in cui si era trovato lui tredici anni prima, e cioè
quando il presidente George W. Bush gli aveva conferito quella stessa
Presidential Medal of Freedom che io avevo appena ricevuto: coach John
Wooden. Ricordavo ancora che cosa aveva detto il presidente Bush riguardo
al rapporto del coach con i suoi studenti: «Coach Wooden continua a far
parte delle loro vite, nel doppio ruolo di allenatore e di esempio di come
dovrebbe essere una brava persona».
Ho guardato tra il pubblico che applaudiva sperando che il coach fosse tra
la folla.
Il suo ruolo di allenatore a Ucla, l’università della California, era stato
solo l’inizio. Dopo l’università, tra di noi si era sviluppata un’amicizia che
nei quattro decenni successivi si era fatta sempre più forte. Avevamo
festeggiato insieme i nostri trionfi e ci eravamo aiutati a vicenda a superare
le tragedie peggiori. Con il passare degli anni, avevo iniziato a giocare a
basket da professionista, mi ero sposato, avevo avuto dei figli e perso
persone care, mi ero ritirato e avevo cambiato carriera, ma non mi ero mai
allontanato dall’influenza di coach Wooden. Anche quel giorno, con la
medaglia che mi pesava al collo, sapevo che cosa avrebbe detto: «Kareem,
non pensarci troppo. Goditi il momento. Non lasciare che il passato si porti
via il presente».
Ho guardato la fila di persone dal folgorante successo alla mia destra e
alla mia sinistra e mi sono chiesto se ognuna di loro avesse avuto un coach
Wooden che, per citare il presidente Obama, aveva «contribuito a fare di me
l’uomo che sono». Lo speravo per loro, perché, senza il coach, la mia vita
sarebbe stata molto meno ricca. Meno ricca di felicità. Meno ricca di
significato. Meno ricca d’amore.
Più tardi, al ricevimento, la mia agente Deborah Morales mi ha chiesto
come stessi dopo un’onorificenza così prestigiosa.
«Bene», le ho risposto, ricordandomi il mio precedente ammonimento a
rilassarmi.
Lei ha riso. «Che gran scrittore che sei, se è tutto quello che ti viene in
mente.»
Ho riflettuto un istante, cercando qualcosa di pomposo e autoriale da dire.
«“Siano il riso e l’allegria a scavarmi le rughe dell’età.”1 Sono allegro.»
Deborah mi ha messo una mano sul braccio. «Stai pensando a lui, vero?»
Ho sollevato le sopracciglia in un’espressione di sorpresa. «Come lo sai?»
«Non potrebbe essere diversamente. Anche il coach ha contribuito a farti
arrivare qui.» Ha indicato la stanza piena di persone famose. «E poi hai
fatto una citazione colta, come faceva sempre lui. Ogni volta che lo fai, stai
pensando a lui.»

John Wooden è morto nel 2010. Allora perché ho aspettato sette anni prima
di scrivere questo libro?
Per una cosa che mi ha insegnato lui nei quasi cinquant’anni della nostra
amicizia. Quando giocavo per lui a Ucla, coach Wooden aveva un
approccio molto partecipativo. Ci seguiva correndo su e giù per la linea
laterale, gridandoci frasi di incoraggiamento e istruzioni. Poi prendeva da
parte qualcuno per mostrargli un tiro, un blocco, una finta. Sembrava avere
sempre il volto a pochi centimetri dai nostri. A volte, però, saliva in cima
alle tribune del Pauley Pavilion, dove per toccare il soffitto gli sarebbe
bastato alzare le braccia. Da lì ci guardava come un dio magnanimo,
osservandoci correre come insetti su e giù per il campo. Gli piaceva la
prospettiva che aveva da lì. Era un modo per vedere il quadro generale.
Studiare il modo in cui tutte le parti in movimento lavoravano insieme.
È quello che ho fatto con i nostri tanti anni di amicizia. Ho voluto
allontanarmi di sette anni dalla sua morte, per vederne il significato nel
complesso, misurare la portata dell’impatto che il coach aveva avuto su di
me e sugli altri. Questo libro nasce da quella visione d’insieme.
Avrei potuto scrivere di lui dopo aver lasciato Ucla, o dopo essermi
ritirato, o dopo la sua morte, ma quei libri non sarebbero stati questo libro.
Questo libro copre quasi cinquant’anni di un’amicizia in continua
evoluzione, vista attraverso gli occhi di un uomo, io, abbastanza vecchio e
maturo da capire la verità sul nostro rapporto, anche quando si parla di fatti
accaduti quando ero troppo giovane per riconoscere quelle verità.
La lezione più importante di coach Wooden è stata che non dovremmo
mai concentrarci sul risultato, ma sull’attività stessa. «Non pensate a
vincere la partita», diceva. «Fate però tutto il possibile per prepararvi. Se
saprete di aver fatto tutto il possibile e di aver dato il meglio di voi stessi sul
campo, quella sarà la vostra ricompensa. Il tabellone dei punti non è
importante.» Questa filosofia, che diventò la base del suo lavoro di
insegnante di letteratura e allenatore, era stata ispirata da una poesia
anonima che leggeva all’università:

All’inginocchiatoio per la confessione


un poveretto pregò Dio, chinando la testa.
«Ho fallito», gemette. E Gesù in risposta:
«Hai fatto del tuo meglio, non c’è migliore azione».

Cercare di applicare la sua filosofia solo alle vittorie, sarebbe come fare
buone azioni solo nella speranza che ci apriranno le porte del paradiso. Far
bene è di per sé il premio, sia dal punto di vista sportivo sia da quello
spirituale. Per questo non gli interessavano i film sullo sport in cui la
squadra o il giocatore sfavoriti, pur imparando sulla loro pelle che vincere
non è tutto, alla fine vincevano. Per lui, quei film sarebbero dovuti finire
con la squadra che, imparata la lezione, entra in campo felice abbracciando
la nuova filosofia: fischio d’inizio della partita, fermo immagine, titoli di
coda. Mostrare la squadra vincente invia il messaggio sbagliato: che le
lezioni di vita servono ad aiutarti a ottenere cose che ti fanno sentire di
avere successo. Secondo lui, la lezione di vita era essa stessa il successo. La
ricompensa è il viaggio, non raggiungere la destinazione.
Questo libro non è solo una celebrazione della nostra amicizia o una
testimonianza della profonda influenza che coach Wooden ha avuto sulla
mia esistenza, ma nasce dall’aver capito che alcune vite sono così
straordinarie e toccano così tante persone che la loro storia deve essere
raccontata alle generazioni a venire, in modo che i valori che diffondono
non si perdano o scompaiano.
Coach Wooden era un bianco di mezza età del Midwest con ideali
all’antica; io un ragazzino nero di New York, silenzioso ma pieno di sé, che
lo superava in altezza di oltre quaranta centimetri. Lui era un devoto
cristiano; io diventai un devoto musulmano. Lui amava la musica delle
grandi orchestre; io il jazz moderno. Sulla carta, era comprensibile che
avessimo un buon rapporto lavorativo come allenatore e giocatore, ma
niente avrebbe fatto supporre che avremmo stretto una straordinaria
amicizia che sarebbe durata tutta la vita.
Il suo romanzo preferito era La tunica di Lloyd C. Douglas, sulla
crocifissione di Gesù. Lo rilesse molte volte e ne citava a memoria alcuni
brani. Un passaggio che gli piaceva particolarmente era questo:

La nostra vita è come un viaggio via terra: troppo piatto, facile e noioso,
se si coprono lunghe distanze in pianura, troppo difficile e faticoso, se si
salgono scoscesi pendii; ma, dalle cime delle montagne, si ha una vista
magnifica e ci si sente esaltati e gli occhi si riempiono di lacrime di
gioia e viene voglia di cantare e si vorrebbe avere le ali! Poi, però, non
si può rimanere lì, si deve continuare il viaggio: si inizia a scendere
dall’altra parte, così occupati a guardare dove si mettono i piedi che
l’esperienza della cima è già dimenticata.

Nel corso della nostra amicizia, coach e io siamo saliti su quella montagna
e abbiamo condiviso quella vista magnifica. Queste pagine sono il mio
tentativo di assicurarmi che la nostra esperienza della cima non venga
dimenticata, che altri possano compiere la stessa salita e i loro occhi
riempirsi di lacrime di gioia.

1
Dal Mercante di Venezia di William Shakespeare, trad. Goffredo Raponi [N.d.T.].
Quando i mondi collidono
Il contadino del Midwest incontra il cestista di Harlem

Il compito principale di un allenatore


dovrebbe essere quello di plasmare non
giocatori migliori, ma persone migliori.
John Wooden

Qualche anno fa ero a Chantilly, in Virginia, seduto a un tavolo a firmare


memorabilia sportivi. Le sedute di autografi sono complicate: ogni volta
che alzo lo sguardo vedo centinaia di persone rimaste pazientemente in
coda anche più di un’ora per poter passare una decina di secondi con me.
Alcuni vorrebbero raccontarmi lunghe storie su come guardarmi giocare li
abbia aiutati ad avere un rapporto più stretto con il padre. O dirmi che erano
alla partita di Boston del 1971, quando segnai cinquanta punti. Alcuni
vogliono solo citare L’aereo più pazzo del mondo: «Il mio nome è Roger
Murdock e sono il secondo pilota». Rido sempre, perché si divertono un
sacco. Cerco di dedicarmi ai fan il più possibile, ma senza bloccare la fila e
quando scorgo un anziano sul fondo, con una vecchia maglia di Ucla, mi
preoccupo di quanto tempo resisterà e mi metto a firmare più in fretta.
Quella volta stavo firmando cimeli da circa mezz’ora, quando un uomo
con un berretto dei Lakers mi mise davanti una fotografia doppia: «L’ha
mai vista questa?» chiese.
Presi l’immagine e la guardai. Mi bastò un secondo e mi sentii stringere il
cuore.
Erano due immagini affiancate di me con John Wooden che era morto due
anni prima. Avevo già visto entrambe le foto, ma mai accostate in quel
modo. Rimasi così sorpreso che mi dimenticai di continuare a far scorrere la
fila e del vecchio con la maglia dell’università.
L’immagine sulla sinistra era una fotografia in bianco e nero per cui
avevamo posato nel 1966, scattata a centro campo nell’allora nuovo di
zecca Pauley Pavilion. Coach Wooden, nel pieno delle forze, le gote
arrossate, indossa un abito scuro e la cravatta, sembrando il predicatore
itinerante che sarebbe potuto benissimo diventare in un’altra vita. Io
indosso la divisa da allenamento e lo guardo con affetto mentre finge di
mostrarmi una qualche mossa. Sapevo che la fotografia era stata scattata nel
1966, durante il mio secondo anno di università, per via della mia stilosa
acconciatura afro, con i capelli che mi scendevano cinque centimetri sulla
fronte. Dalla pettinatura di coach Wooden non avrei potuto indovinare
nemmeno il decennio. Come sempre, i suoi capelli grigi erano pettinati in
modo impeccabile, con la riga a sinistra, una riga così dritta che, per farla,
insieme al pettine credo usasse il righello. Era ovvio che si trattasse di una
foto in posa per i media, perché, pur essendo sempre molto formale, il
coach non si metteva mai la cravatta per gli allenamenti. Lì si lavorava
duro, e la cravatta era per le partite o per quando si sedeva dietro la cattedra.
La fotografia sulla destra, invece, più spontanea e a colori, era stata fatta
sempre al Pauley Pavilion, anche se all’epoca dello scatto il campo era già
stato intitolato al coach e alla moglie Nellie. Era stata presa al termine di
una partita nel 2007, quarant’anni dopo la prima. In questa immagine, il
coach e io stiamo uscendo dal campo mano nella mano. Lui indossa un altro
abito scuro, che sembra un po’ troppo grande per lui, ma, invece di una
cravatta normale, porta un cravattino texano con un grande turchese. Negli
ultimi anni aveva iniziato a indossare quell’accessorio per via del suo amore
per i film western, che guardavamo insieme passando molte ore piacevoli.
Io portavo un paio di jeans, una giacca di pelle e una cintura con una grossa
fibbia d’argento cui sembrava mancare la fondina. Una strana coppia di
desperados.
Avvicinai la fotografia al volto, cercando di tornare a quel momento. Quel
momento così speciale, che non avevo mai dimenticato.
Lui aveva un’aria molto fragile, un poco ricurvo, appoggiato a un bastone,
ma anche in quell’immagine nel suo portamento c’è una certa
determinazione e, come al solito, ogni singolo capello era perfettamente a
posto. Anche se una profonda malinconia mi stringeva la gola, tornai con la
mente a quell’istante.
Camminavo svelto, dopo la partita, la testa china, cercando di non vedere
ciò che mi circondava, come un prigioniero in fuga, nel tentativo di non
farmi fermare perché quando accade è inevitabile che attorno a me si
raccolga una folla. Mi sento sempre antipatico e ingrato a camminare così
veloce tra la gente, ma se rallento mi vengono gettati in faccia foto,
cappellini e maglie, e ci vuole minimo un’ora prima che riesca ad arrivare
alla macchina, e due prima che sia a casa. A volte, voglio solo andare a
casa.
Ma all’improvviso la sua voce familiare bloccò la mia fuga. «Ehi,
Kareem.»
Mi girai con un gran sorriso sul volto. «Coach», dissi. «Come va?» Mi
chinai su di lui per abbracciarlo ma, mentre lo facevo, lui mi prese la mano,
stringendola forte. La sua piccola mano nella mia sembrava quella di un
bambino.
«Bene», rispose. Poi aggiunse, quasi con tono di scusa: «Kareem, mi
daresti una mano per favore?»
Non mi teneva la mano solo per affetto, aveva bisogno di me per
camminare. E sapeva che non l’avrei fatta tanto lunga.
«Certo, coach», lo rassicurai, come se lo avessimo fatto già un centinaio di
volte.
Uscimmo insieme dal campo. I tifosi urlavano: «Ehi, coach!» o «Ciao,
Kareem!», ma nessuno si avvicinò. Capivano che non era prudente fermare
l’avanzata lenta ma sicura del coach. I fan veri hanno un sesto senso per
queste cose.
Attraversai lentamente con lui il tunnel dei giocatori, oltre il quale sua
figlia Nan lo stava aspettando. La abbracciai, poi con un po’ più di cautela
abbracciai anche lui e li salutai.
Sarebbe stata la nostra ultima volta insieme su un campo da basket.
Pensavo che tornando a casa sarei stato triste e avrei dovuto mettere un po’
di Miles Davis a tutto volume per superare l’emozione, ma non ero triste.
Ero felice di essere stato lì per il coach, come lui c’era stato per me così
tante volte. Attraversando con lui il campo avevo provato tenerezza, senso
di protezione, ma non pietà né dolore.
Stavo sorridendo.
Sfiorai con il dito la fotografia, come se potessi toccarlo un’ultima volta,
prestargli la forza che avevo cercato di dargli quella sera. Non sono un
sentimentale, ma il coach è sempre riuscito a tirarmi fuori le emozioni,
persino adesso. A vederlo con il suo abito nero e il bastone, mi ricordò
l’inarrestabile vagabondo di Charlie Chaplin che percorreva felice la vita,
incurante di difficoltà e ostacoli. In quella fotografia, ecco che la
percorrevamo anche noi, insieme, proprio come avevamo fatto per quasi
cinquant’anni.
Rimasi lì seduto a quel tavolo, a Chantilly, a fissare quelle fotografie, i
due estremi di uno dei rapporti più significativi della mia vita. Mi schiarii la
voce, prima di parlare. «No, non l’avevo vista», dissi all’uomo che mi
aveva messo davanti la cartolina. Alzai lo sguardo e gli sorrisi. «Grazie.»
Gliela firmai e lui se ne andò, ignaro dell’effetto che i dieci secondi a sua
disposizione avevano avuto su di me. La persona in coda dietro di lui venne
avanti e firmai un’altra fotografia, poi un’altra e un’altra ancora. E così via
fino a che l’anziano con la maglia di Ucla non mi strinse la mano,
domandando: «Pensa che i Lakers si riprenderanno, quest’anno?» Tenni la
sua mano un attimo più del necessario, ricordando quella leggera e fragile
come un colibrì del coach, e risposi: «Lo spero».
Che la prima delle due fotografie fosse in bianco e nero era appropriato.
Descriveva bene il nostro rapporto un po’ rigido dell’inizio. In quella foto
era lui a guidare me. Lui era l’allenatore, io il suo giocatore. Lui faceva le
regole; io le seguivo. Bianco e nero. Rispetto reciproco, ma senza calore.
Ed era anche azzeccato il fatto che fossimo in posa, perché avevamo
entrambi un’aria un po’ a disagio, rigidi come manichini nella vetrina di un
negozio. Come se ci fosse un che di artificiale nei ruoli che eravamo
costretti a interpretare, nella fotografia e nella vita.
La seconda immagine, con i suoi colori ricchi e caldi e l’inquadratura
spontanea, rifletteva in modo più accurato la profondità della nostra
amicizia. Le nostre mani erano intrecciate: una fragile e una forte, una
bianca e una nera. La sua testa canuta mi arrivava a malapena al gomito, e
tuttavia procedevo dritto e fiero, come un uomo che faceva bella mostra del
padre eroe.
In quella fotografia sembrava che fossi io a guidarlo ma, sapendo quanto
quell’uomo mi aveva insegnato, ero consapevole del fatto che stavo ancora
seguendo le sue orme, anche se ce l’avevo accanto.

John Wooden è stato celebrato come il più grande allenatore nella storia
dello sport americano. Era soprannominato “il Mago di Westwood”1 (cosa
che odiava), per la sua capacità senza precedenti di accumulare vittorie.
Prima di ritirarsi, nel 1975, fece vincere a Ucla dieci campionati nazionali,
sette dei quali consecutivi, guidando a un certo punto la squadra in una serie
vincente di ottantotto partite. Questo gli fece guadagnare un posto nella
Basketball Hall of Fame. Ne andava molto fiero, anche se non gli ho mai
sentito accennare al fatto di essere stato il primo in assoluto a essere
nominato prima come giocatore e poi come allenatore. La filosofia che
aveva elaborato per vivere una vita piena e soddisfacente, la Piramide del
Successo, è diventata un popolarissimo strumento motivazionale, insegnato
a migliaia di sportivi in tutta la nazione. I suoi metodi di allenamento sono
stati adottati da licei, college e università di tutto il mondo. Persino
importanti aziende hanno utilizzato i suoi insegnamenti per creare gruppi di
lavoro migliori tra i dipendenti. La sua influenza è andata ben oltre i
ventotto metri per quindici del campo di pallacanestro su cui passò la
maggior parte della sua esistenza.
Ma, per me, coach Wooden era molto più di un guru del basket: era il mio
maestro, il mio amico e, per quanto non gliel’abbia mai detto, il mio
modello di vita.

Insieme vincemmo tre campionati nazionali. Io fui nominato All-


American per tutti e tre gli anni. Stabilii alcuni record: non quanti ne avrei
stabiliti con un altro allenatore, forse, ma quanti ne servivano alla squadra
per vincere. Portai con me nel basket professionistico il gioco imparato da
lui, distinguendomi al punto da entrare nella Hall of Fame, proprio accanto
a lui.
Il rapporto tra noi era nato grazie al basket, ma alla fine quello divenne
l’aspetto meno importante. La nostra amicizia sbocciò e crebbe grazie a
valori condivisi, affetti complicati e perdite devastanti, a un bisogno mai
realmente soddisfatto di capire questo mondo e il nostro posto al suo
interno. Più avanti negli anni, mi sarei seduto con lui sul divano di casa sua,
a guardare in silenzio un film western o una partita di baseball sul suo
piccolo televisore, solo per godermi il calore familiare e il conforto della
sua presenza. Passavo il pomeriggio nel suo accogliente soggiorno e mi
sentivo di nuovo pronto ad affrontare il mondo fuori. Era come andare in
chiesa.

Conobbi John Wooden in occasione di una visita pre-reclutamento a Ucla,


nel marzo 1965. Quando vidi che il suo ufficio era in un basso capanno
Quonset della Seconda guerra mondiale, con il luminoso sole di Los
Angeles che si rifletteva sulla lucida lamiera ondulata, mi preoccupò il fatto
che il campus non potesse permettersi uffici veri e propri per i suoi
allenatori e fosse costretto a rinchiuderli in prefabbricati militari. Allo
stesso tempo, pensai che in un certo senso fosse “fantastico”, come in un
film di fantascienza: erano alloggi di astronauti su Marte, che li
proteggevano da giganteschi ragni mutanti. Le molte ore di letture e
televisione mi avevano dato la capacità di romanzare ogni situazione.
Il capanno era uno di tanti posati come uova in un nido sul Westwood
boulevard. Raggiungendolo a piedi, notai diversi fiori esotici che non avevo
mai visto prima, tutti in piena fioritura primaverile. «Quelle sono
casuarine», spiegò la mia entusiasta guida al campus, indicando alcune
piante. «E lì c’è una mimosa. Laggiù sono denti di leone. E quelli sono
alberi delle salsicce. Sono di origine africana.» Sorrise, come se il legame
con l’Africa potesse spingermi a scegliere Ucla. Alberi delle salsicce
africani? Diceva sul serio?
Tuttavia, in quel posto c’era molto più verde di quanto ne avessi mai visto
al di fuori di Central Park. Sapevo già di voler vivere lì. L’estate precedente
mi ero trovato coinvolto per caso in un violento scontro a Harlem.
Tutt’attorno a me erano esplosi colpi di pistola. Un gruppo di contestatori
arrabbiati si era distaccato da una manifestazione davanti alla stazione di
polizia, e chiedeva risposte riguardo all’uccisione di un quindicenne nero,
James Powell, da parte del tenente Thomas Gilligan. Avevano acceso fuochi
e rotto alcune vetrine. Gli sciacalli si erano poi fatti strada tra i dimostranti
per prendere ciò che potevano. Mi ero messo a correre con gli altri abitanti
del quartiere in fuga, cercando di tenere la testa bassa, per costituire un
bersaglio più piccolo. Anche accucciato, torreggiavo su chiunque altro. Non
ero mai stato tanto spaventato come quella sera. Ma non ero mai stato
neanche tanto arrabbiato con la polizia che cercò di liquidare i manifestanti
gridando: «Andate a casa!».
Sollevando fotografie della giovane vittima, la folla rispose urlando: «Noi
siamo a casa!»
La nazione era ancora in preda ai disordini razziali. Malcolm X era stato
assassinato solo il mese prima della mia visita a Ucla. Qualche settimana
prima, a Selma, in Alabama, il leader dei diritti civili John Lewis aveva
cercato di attraversare il ponte Edmund Pettus alla guida di una marcia di
seicento persone. Era stato fermato dalla polizia che aveva lanciato gas
lacrimogeni contro i dimostranti, picchiandoli con gli sfollagente e
mandandone in ospedale cinquanta. Soprannominata subito Bloody Sunday,
la marcia era stata trasmessa dalle televisioni di tutto il mondo. Due
settimane più tardi, il dottor Martin Luther King attraversò lo stesso ponte
alla guida di un altro gruppo di manifestanti, questa volta sotto la protezione
dei federali, riuscendo ad arrivare dall’altra parte.
Ero combattuto, riguardo al mio ruolo in tutto ciò.
Volevo fare la mia parte per i diritti civili, ma avendo appena diciotto anni
mi serviva un po’ di tempo per capire quale sarebbe stata la mia parte. La
California sembrava il posto perfetto per rifletterci.
«Benvenuto, Lewis», mi disse John Wooden, quando entrai nel suo
ufficio. Indossava una camicia bianca stirata, luminosa quasi quanto il sole
della California fuori dal prefabbricato, e una cravatta nera. La sua giacca
sportiva era appesa all’attaccapanni nell’angolo. Portava i capelli corti con
la riga quasi nel mezzo e mi ricordò Alfa-Alfa, il ragazzino con la voce
stridula dei telefilm delle Simpatiche canaglie che guardavo da piccolo in
televisione. La voce del coach aveva una cadenza nasale del Midwest che
trovai divertente paragonata ai duri accenti di New York cui ero abituato.
Mi hanno spesso domandato se quel giorno fossi nervoso all’idea di
incontrare il grande John Wooden. Probabilmente avrei dovuto, ma non lo
ero. Ero invece ansioso e impaziente, pronto a iniziare la mia vita al
college. Pronto a giocare sul serio a pallacanestro. Non avevo dubbi di
poterlo fare bene, con cestisti di livello universitario, ed ero pronto a
provarlo a lui e a chiunque altro. Il mio atteggiamento poteva ricordare un
po’ quello di Marlon Brando, quando faceva il motociclista ribelle in Il
selvaggio. «Contro cosa vi ribellate, Johnny?» Al che Marlon, nei panni di
Johnny, risponde: «Tu che cosa proponi?».
«Sono colpito dai tuoi voti, Lewis», disse coach Wooden, mentre ci
sedevamo l’uno di fronte all’altro, con la scrivania piena di roba a dividerci.
“I voti?” pensai. “È l’allenatore di una delle migliori squadre di basket
della nazione e mi parla di voti? E le mie statistiche impressionanti?”
Mi guardò dritto negli occhi per assicurarsi che capissi che parlava sul
serio. «Per la maggior parte degli studenti il basket è temporaneo. Ma la
conoscenza è per sempre.»
Annuii. «Sì, signore.» Non mi aspettavo che gli studi sarebbero stati la
prima cosa di cui avremmo parlato, ma imparai in seguito che proprio gli
studi, e non la pallacanestro, erano la massima priorità del programma che
coach Wooden aveva in serbo per i suoi giocatori, che si laureavano con
voti in grado di fornire loro opportunità di carriera extra sportive. Si
preoccupava della nostra felicità a lungo termine, e non del numero di
vittorie e sconfitte che avremmo ottenuto. Avevo visitato altre università e
parlato con molti allenatori che promuovevano i programmi sportivi, le
studentesse attraenti e la reputazione delle loro scuole, ma coach Wooden
era il primo che avesse ritenuto importante parlare di voti e lezioni. Non mi
trattava come un giocatore di basket, ma come uno studente che avrebbe
anche giocato a basket.
Chiacchierammo per una mezz’ora, toccando solo brevemente
l’argomento pallacanestro. Mi disse che di solito lui sceglieva i giocatori
per la loro velocità, più che per l’altezza, e che non aveva mai allenato
nessuno alto come me, ma aggiunse: «Sono sicuro che troveremo il modo
migliore di utilizzarti in campo. Mi piacerebbe molto allenare uno come
te».
Ci alzammo e ci stringemmo di nuovo la mano.
«Il primo anno può essere molto duro», mi avvertì. «Il passaggio dalle
superiori non è facile. Ci sono molti cambiamenti, soprattutto per gli atleti
che si allenano tutti i giorni a lungo.»
Annuii di nuovo.
Coach Wooden sorrise. «Ma sembri il tipo di giovanotto all’altezza della
sfida.»
La sfida. Era quello che cercavo in una scuola, e in qualche modo lui lo
sapeva. Invece di dirmi che mi sarei inserito facilmente e che sarebbe
andato tutto liscio, fece appello al mio spirito di competitività. E, per citare
una delle poesie di Robert Frost che il coach preferiva: «Quello fece la
differenza».

Come scoprii in seguito, il nostro primo incontro era stato più che
rappresentativo della sua filosofia di reclutamento: «Volevo giovani che
desiderassero giocare per Ucla, e non da dover convincere. Ho sempre
creduto che il modo per mettere insieme una grande squadra fosse trovare il
genere di persone con cui volevi lavorare e dire loro la verità».
E la verità lui la diceva. Infatti, è stato forse l’unico allenatore della storia
del basket universitario che abbia convinto un giocatore di talento a
scegliere la sua università dicendogli che avrebbe giocato poco. Giocare per
coach Wooden faceva di te un membro della sua squadra per sempre. Nel
corso degli anni, ai raduni o a qualche evento, prima o poi conoscevi
persone che in periodi diversi avevano giocato per lui, e spesso diventavi
loro amico. Era come entrare in un club esclusivo. Tra gli ex giocatori che
ho conosciuto e di cui sono diventato amico c’è Swen Nater.
Swen, 211 centimetri, fu All-American dei community colleges2 nel 1970,
con una media di ventisei punti e quattordici rimbalzi a partita. Era stato
trasformato da ragazzino imbranato a giocatore di talento da Don Johnson,
il suo allenatore al Cypress College, che a sua volta era stato il primissimo
All-American di coach Wooden a Ucla. Nater era così diventato molto
ambito, e diverse università cercavano con ogni mezzo di reclutarlo,
strappandolo a Cypress. Ma Johnson gli aveva riempito la testa di racconti
su Wooden e la pallacanestro di Ucla e convinse Wooden a offrirgli una
borsa di studio. In realtà il coach cercò di dissuadere il ragazzo
dall’accettarla, dicendogli: «Swen, se verrai a Ucla, probabilmente non
giocherai molto, perché stiamo prendendo questo ragazzone rosso di San
Diego che si chiama Bill Walton, e lui ha un enorme talento». Poi aggiunse:
«Ma avrai l’opportunità di giocare tutti i giorni in allenamento contro il
migliore centro del Paese e credo che questo ti darà più possibilità di
diventare un giocatore professionista che se andassi in un altro ateneo».
Tutto quello che Wooden aveva detto si avverò. A Ucla Nater non giocò
molto, ma alla fine fu il primo giocatore a venire selezionato al primo giro
del draft Nba senza aver mai iniziato una partita da titolare all’università. E,
come aveva predetto coach Wooden, giocò dodici stagioni da
professionista, finendo persino un anno in testa alla classifica rimbalzi Nba.
Coach Wooden cercava carattere, oltre che abilità. Voleva un certo tipo di
persona, così si studiava il background dei potenziali acquisti spiegando:
«Prima ancora di farlo venire a Ucla, potevo imparare tantissimo su ogni
giocatore conoscendo l’ambiente in cui era vissuto». Per saperne il più
possibile, di tanto in tanto faceva anche qualche visita a casa dei prospetti
interessanti. Una volta mi raccontò che, durante una di queste visite – come
tipico del suo modo di fare non mi disse mai il nome della persona –, un
potenziale acquisto si mise a urlare contro la madre per un commento che
lei aveva fatto, perdendo all’istante la possibilità di giocare per lui: «Non
volevo una persona così irrispettosa nella mia squadra».
Rimasi molto colpito da John Wooden, ma un’altra cosa che mi convinse a
scegliere Ucla fu quando il viceallenatore Jerry Norman mi mostrò il nuovo
palazzetto in costruzione, il Pauley Pavilion. «L’evento inaugurale del
nuovo palazzetto è la partita annuale della prima squadra contro quella delle
matricole», disse con il tono più casuale possibile. Sapevo che cosa
intendeva. Se fossi andato a Ucla, avrei giocato quella partita.

La volta dopo, il coach e io ci incontrammo in maggio a casa mia, a


Manhattan. Vivevamo al quinto piano, in un minuscolo appartamento con
due camere da letto in Nagle Avenue, nel complesso di case popolari
chiamato Dyckman Houses. Con tutte le offerte che avevo ricevuto, coach
Wooden fu l’unico allenatore che i miei invitarono a casa.
Arrivò con Jerry Norman, entrambi indossavano una giacca sportiva e la
cravatta. Li presentai ai miei genitori, e tutti e quattro si sedettero in
soggiorno a parlare del mio futuro. Avevo già deciso di andare a Ucla,
quindi l’incontro era una formalità per far sì che i miei si sentissero sicuri
all’idea che mi sarei trasferito a cinquemila chilometri di distanza dal loro
controllo, affidato a perfetti estranei.
In quell’occasione, l’unica persona nervosa nella stanza sembravo essere
io. L’incontro doveva andare bene.
Mio padre era un poliziotto e li accolse con il suo atteggiamento da
poliziotto. Mia madre era intenzionata a proteggere il suo unico figlio e, per
farlo, sarebbe stata in grado di fronteggiare un esercito. Interlocutori
difficili.
«Lewis», disse mia madre, «perché non vai nella tua stanza, mentre
parliamo?»
“Come no, mamma”, pensai un po’ scocciato. “Aspetterò nella mia stanza
come un’eroina di Jane Austen, mentre gli adulti discutono del mio futuro.”
Ma me ne andai, senza dire nulla. Nel giro di qualche mese sarei stato fuori
di casa e avrei vissuto libero nella fantastica California.
Per l’ora che seguì, cercai di sentire attraverso i muri quello che si stavano
dicendo, senza riuscirci. Quando finalmente mi richiamarono in soggiorno,
ci salutammo stringendoci la mano.
Qualunque cosa avesse detto, coach Wooden aveva colpito i miei genitori.
«Ha un contegno molto solenne», commentò mio padre.
«Un gentiluomo», disse mia madre. «Non è il tipo di persona che si
approfitterebbe di te.» Era preoccupata che uno degli atenei potesse
sfruttarmi. Avevamo sentito di atleti universitari che si erano infortunati e
avevano perso la borsa di studio, ma coach Wooden aveva assicurato ai
miei che si sarebbe preso cura di me, e loro gli credettero.
I miei genitori non erano degli stupidi. Ricordo quanto rimasi sorpreso che
coach Wooden, con la sua pacata integrità, fosse stato in grado di placare
con tanta facilità i timori che nutrivano per il loro figlio. Più lo conoscevo e
più cercavo di emulare il suo atteggiamento discreto, che a volte veniva
scambiato per indifferenza.
Anni più tardi, eravamo seduti nel suo soggiorno e gli chiesi se ricordasse
quella visita. «Be’, certo che la ricordo», rispose.
«Davvero?», chiesi io, ma mi era difficile crederci.
«Oh, sì. Ricordo di essere stato molto colpito dall’appartamento in cui
vivevate.»
«Adesso sono certo che mi sta mentendo. Quell’appartamento era piccolo
e soffocante.»
«Non è quello che ricordo», replicò lui. «Era tutto in ordine, pulito e ben
organizzato. Le fotografie incorniciate con cura e appese al muro
mostravano una famiglia amorevole e un ambiente stabile. C’era molta
attenzione.» Sorrise. «Tutti vantaggi.»
Anche i miei genitori dovevano averlo favorevolmente colpito. Quando
alcuni giorni dopo la sua visita annunciai la mia decisione di iscrivermi a
Ucla con una conferenza stampa, coach Wooden disse ai media: «Questo
ragazzo non solo è un ottimo studente e una grande promessa del basket
universitario, ma è anche un giovane di una piacevole modestia, che mostra
i segni di un’eccellente formazione da parte della famiglia e della scuola
superiore da cui proviene.
«Dopo aver incontrato i signori Alcindor, non ho faticato a capire la buona
impressione che Lew aveva fatto su tutti noi durante la sua visita al campus.
La loro guida gli ha dato gli strumenti per gestire nel più gentile e
spontaneo dei modi la fama e l’attenzione piovutegli addosso.»
Quando i miei genitori sentirono quelle parole erano pronti ad accoglierlo
in famiglia. Ammetto che fui orgoglioso del fatto che mi vedesse come una
persona modesta, e sollevato che avesse fatto i complimenti ai miei genitori
in pubblico, nonostante nessuno lo obbligasse a farlo. Per un coach, tutti
vantaggi.

Fin qui non c’era ragione di pensare che quel bianco di mezza età con un
taglio di capelli stile anni Trenta sarebbe diventato la persona più influente
della mia vita. Io ero Lewis Alcindor, 218 centimetri, diciottenne nero di
New York. Ero tutto metropolitane veloci, hot jazz e diritti civili. Lui era
John Wooden, 178 centimetri, cinquantacinquenne bianco di una cittadina
di provincia dell’Indiana. Era tutto… che cosa? Trattori, big band e morale
cristiana? Eravamo una coppia da sit-com e la nostra storia stava per
cominciare.
Il nostro unico denominatore comune era la pallacanestro. All’inizio
bastò.
Quando ci conoscemmo, ero un ragazzo molto timido. Il campo da basket
era l’unico luogo in cui avevo fiducia in me stesso e riuscivo a essere
aggressivo. A parte questo, stavo cercando di fare i conti con una società
che attorno a me cambiava in fretta. Stavo imparando come essere un nero
in America in un periodo molto difficile della nostra storia nazionale. Mi
sentivo in colpa perché vivevo una vita privilegiata, giocavo a pallacanestro
in California, studiavo in una delle migliori università, mentre agli altri
ragazzi della mia età le stesse opportunità venivano negate a causa del
colore della pelle. Guardando le marce del dottor King, fremevo dal
desiderio di fare qualcosa per unirmi alla lotta. Ma non volevo sacrificare il
mio futuro. Ero un ipocrita oppure, ottenendo un’istruzione, stavo aiutando
la causa?
I miei genitori e anche Jack Donahue, il mio allenatore alla Power
Memorial Academy, erano persone che lavoravano sodo e si aspettavano
che riuscissi bene, ma questo richiedeva da parte mia disciplina e
applicazione. Mi avevano insegnato che essere bravi era una bella cosa e mi
avevano dato il sostegno di cui avevo bisogno. Mi avevano fatto capire
molto bene che giocare a basket non era il mio obiettivo, bensì il mezzo per
realizzare i miei sogni.
Anche quando fu chiaro che avevo il talento per giocare a livello
professionistico, mi avevano ricordato che potevo anche infortunarmi e che
la sola cosa su cui avrei potuto davvero contare sarebbe stata una buona
istruzione.
Ed ecco quanto ero serio, in fatto di istruzione. In quarta elementare i miei
genitori mi mandarono alla Holy Providence School. Agli altri ragazzini
non piaceva che fossi un bravo scolaro, così venni identificato come nerd.
Mi chiamavano «testa d’uovo». A essere onesto, in un certo senso la cosa
mi piaceva: era bello attirare l’attenzione perché ero intelligente, invece che
perché ero alto.
Mia madre era una sarta cresciuta nel Sud della segregazione razziale, a
Wadesboro, nel North Carolina, e aveva ricevuto, a dir tanto, un’istruzione
da scuola media. Non ne faceva mai cenno, e non parlavamo della sua vita a
Wadesboro, ma mi spronava, non faceva che spronarmi a fare meglio, a
lavorare di più. Era una donna pragmatica e aveva molti sogni per me,
prima ancora che ne avessi io. L’istruzione era importante a casa nostra.
Ricordo che mi faceva sempre notare come il grande campione di pugilato
Joe Louis non parlasse molto bene, balbettava e a volte aveva difficoltà a
esprimersi. «Non voglio che diventi come lui», mi diceva. «Voglio che
diventi come Jackie Robinson.» Sottolineava spesso che il grande
Robinson, il campione dei Dodgers, era laureato. I miei genitori erano
molto più orgogliosi del fatto che dalle elementari fino alle superiori fossi
stato tra gli studenti migliori, che non del fatto che segnassi parecchi punti
in campo. Mi fecero da guida, insegnandomi a essere ambizioso.
Mio padre era un poliziotto che andò in pensione con il grado di tenente.
Ma la sua vera passione era la musica: quello era il suo mondo. Non era
particolarmente socievole: gli mancavano le buone maniere che mia madre,
al contrario, aveva in abbondanza. Lui esprimeva i propri sentimenti
attraverso la musica. Suonava ad Harlem, in gruppi locali, anche se non
riuscì mai a guadagnarsi da vivere in quel modo. Era un bravo orchestrale,
uno che lavorava bene in squadra, non un solista memorabile. Era il tipo di
musicista che avrebbe avuto successo nella sezione tromboni di una grossa
formazione, ma non ebbe mai davvero l’opportunità di farlo. Ricordo che
mi raccontava la storia di un’audizione mancata. Adorava Count Basie e un
giorno aveva saputo che aveva bisogno di un trombone per la sua orchestra.
Suonare per Basie sarebbe stato un sogno che diventava realtà. Lui però era
in servizio e seppe dell’audizione solo tornando a casa dal lavoro. Afferrò il
trombone e corse alla sala concerti, ma quando arrivò, Count Basie aveva
già ingaggiato qualcun altro e se n’era andato.
In un certo senso, la carriera musicale di mio padre fu come una frase che
termina con una virgola: incompiuta. Non ne parlava, ma la sua delusione
era evidente. Giurai a me stesso che non avrei vissuto una vita a metà:
intendevo continuare a provare fino a che non avessi raggiunto l’obiettivo.
Il momento più fulgido della sua carriera musicale fu probabilmente
suonare nell’orchestra della polizia che accompagnò Marilyn Monroe
mentre cantava Happy Birthday al presidente John F. Kennedy, al Madison
Square Garden nel 1962. Grazie ai bonus stanziati per i veterani di guerra
con il Servicemen’s Readjustment Act, mio padre frequentò la Juilliard,
concentrandosi sul trombone. Per passare il corso di pianoforte, però,
dovette imparare a suonare la Sonata al chiaro di luna. Si esercitò
tantissimo; giorno e notte, sentivamo solo Sonata al chiaro di luna, Sonata
al chiaro di luna, Sonata al chiaro di luna. Nel corso degli anni anch’io mi
sono cimentato con diversi strumenti, ma l’unico pezzo che mi sono sempre
rifiutato di suonare è stata la Sonata al chiaro di luna. Il mio problema,
crescendo, fu che non mi piaceva leggere la musica, così mia madre e mio
padre accettarono di farmi interrompere le lezioni e mi iscrissero alla Little
League, la lega di baseball giovanile.
Se è certo che abbia preso il mio amore per il jazz da mio padre, ascoltarlo
esercitarsi nella Sonata al chiaro di luna giorno dopo giorno mi insegnò
invece che per fare bene qualcosa, qualunque cosa, bisogna continuare a
lavorarci.
Forse, una ragione per cui alla fine mi trovai così bene con i metodi di
coach Wooden fu che i miei genitori avevano posto le stesse forti
fondamenta che il coach tanto spesso predicava: «Non sperare. La speranza
è per la gente non preparata».
Mia madre sottolineava sempre che per raggiungere i propri obiettivi era
necessario lavorare duro, mentre mio padre mi aveva dimostrato il valore
della ripetizione per riuscire a far bene qualcosa. La mia sfortuna era stata
che, per lui, quel qualcosa fosse ripetere la Sonata al chiaro di luna
all’infinito.
Se non ho il talento musicale di mio padre, da lui ho però ereditato
l’orgoglio etnico. Mia madre e mio padre avevano vissuto vite diverse.
Crescere al Sud aveva reso mia madre cauta con i discorsi sulla razza,
portava ancora le cicatrici psicologiche della sua educazione, e quindi
nascondeva dei segreti. Fu solo dopo i vent’anni che scoprii che sua madre,
mia nonna, aveva avuto una storia con un ricco proprietario terriero bianco,
e che mia madre in realtà era già stata sposata e aveva avuto due figli prima
di sposare mio padre. Il Sud della segregazione era una palude di segreti.
Mio padre non era più informato di me, a riguardo. Avevo due fratellastri
di cui, fino all’età di ventitré anni, avevo ignorato l’esistenza. Venivano a
New York e alloggiavano da parenti nel Queens, e ogni tanto mia madre si
inventava una scusa e andava a far loro visita. Perché lo tenesse segreto,
non lo saprò mai; nonostante le mie continue domande, si è portata le sue
ragioni nella tomba.
Il mio fratellastro e la mia sorellastra avevano saputo della mia esistenza
molto prima che io scoprissi di loro. A un certo punto ci incontrammo,
sviluppando un nostro rapporto. Adesso sono entrambi morti, ma ho
mantenuto i contatti con mia nipote, la figlia di mia sorella.
Mio padre era molto orgoglioso di essere un nero forte. I suoi genitori
erano entrambi sostenitori del leggendario leader nazionalista
afroamericano Marcus Garvey. Ricordo che parlava a lungo delle loro
conversazioni. Non era uomo da fare un passo indietro a causa del colore
della sua pelle, e questa fu la lezione più importante che imparai da lui.
Crebbi respirando l’aria del movimento per i diritti civili che gente come
mio padre aveva promosso. Vivendo a New York, a Harlem, a lungo ero
stato in qualche modo all’oscuro della realtà dei rapporti razziali nel resto
della nazione. Avevo amici sia neri sia bianchi e non mi ero mai imbattuto
in atti di manifesto razzismo. Iniziai a capirne un po’ di più nel 1962,
quando i miei genitori mi misero su un pullman della Greyhound e mi
mandarono a Goldsboro, nel North Carolina, per partecipare alla cerimonia
di laurea della figlia di loro amici. Era il periodo in cui i Freedom Riders (i
“Viaggiatori per la libertà”) prendevano i pullman per recarsi nel «profondo
Sud» e fare sit-in ai banconi delle tavole calde. Gli americani neri venivano
attaccati con manichette che sparavano acqua ad alta pressione, pungoli
elettrici per il bestiame e cani poliziotto.
Guardavo ogni sera il notiziario della Cbs, in cui Walter Cronkite
documentava molto bene le tensioni razziali, ma la cosa non mi aveva mai
toccato da vicino fino a che non salii su quel pullman diretto al Sud.
Quando attraversammo il Potomac ed entrammo in Virginia, vidi i cartelli:
negozio di alimentari per bianchi, tavola calda per bianchi, toilette per neri.
Non mi ero mai imbattuto nel concetto di «separati ma uguali» espresso con
tanta franchezza. Uno sguardo agli eleganti negozi per bianchi e alle cadenti
botteghe per «colored» bastò a farmi capire che separati erano separati, ma
di certo non uguali. Non conoscendo le regole, dovetti persino chiedere a un
nero più vecchio di me: «Mi è permesso camminare sullo stesso lato della
strada dei bianchi?».
Fu così che imparai a conoscere il prezzo di essere un giovane nero nel
Sud degli Stati Uniti e di conseguenza diventai più sensibile al sottile, ma
sempre pericoloso, razzismo del Nord. Iniziai a vedere i muri che c’erano
sempre stati ma di cui prima non mi accorgevo. Un giorno, a lezione di
religione nella scuola superiore che frequentavo, il Power Memorial, un
insegnante bianco mi spiegò che «i neri vogliono troppo e troppo in fretta».
Troppo? Stavamo festeggiando il centesimo anniversario del Proclama di
Emancipazione. Troppo in fretta? Ricordo il disgusto che provai nel
sentirmi costretto, se volevo un bel voto, a dire le cose che quell’insegnante
si aspettava di sentire.
Nell’estate del 1964 fui ingaggiato dall’Harlem Youth Action Program (un
programma per coinvolgere i giovani del quartiere) per scrivere sul giornale
settimanale dell’organizzazione. Dovetti informarmi sulla comunità
afroamericana e, nel farlo, iniziai a imparare di più su me stesso e sulla mia
storia. Questa ricerca mi aprì mondi che non avrei saputo immaginare:
cambiò la mia esistenza, e da lì non tornai più indietro. I miei incarichi mi
costrinsero a esplorare Harlem per la prima volta nella vita. Scoprii lo
Schomburg Center for Research in Black Culture (il Centro Schomburg per
la ricerca sulla cultura nera) e iniziai a conoscere l’animata vita artistica che
aveva fatto la storia durante la Harlem Renaissance degli anni Venti. Lessi
le opere dei grandi poeti neri, come Langston Hughes e Countee Cullen.
Lessi i romanzi di Richard Wright e gli scritti di Marcus Garvey e del
rivoluzionario nero W.E.B. Du Bois. Imparai di più sulla musica che mio
padre tanto amava, su Count Basie, Louis Armstrong e la nascita del jazz
tra quelle strade.
Ma non si trattava solo del passato: mentre camminavo per le vie di
Harlem, tutt’attorno a me il movimento si stava sviluppando. Fermo
all’incrocio c’era Malcolm X. I nazionalisti neri distribuivano giornali. La
gente indossava abiti africani colorati. Ero adolescente quando seguii la
conferenza stampa del dottor Martin Luther King, mentre il mio rito di
passaggio fu trovarmi coinvolto negli scontri di quell’estate, scappando per
salvarmi la vita, mentre tutt’attorno a me esplodevano colpi di arma da
fuoco. Il mondo stava cambiando, ed era pericoloso. Gli americani neri
stavano combattendo per i loro diritti; questa nazione non sarebbe mai più
stata la stessa. E quella battaglia sarebbe diventata una parte essenziale
della mia vita.

John Wooden era nato in un mondo diverso. Sembrava quasi essere


cresciuto in un quadro che persino Norman Rockwell3. avrebbe definito
stucchevole. Era nato in una fattoria della rurale Hall, nell’Indiana, nel
1910, un fabbricato senza acqua corrente né elettricità, e la sua famiglia
mangiava quello che coltivava. In inverno, per tenersi al caldo, scaldavano
mattoni nella stufa e li avvolgevano negli asciugamani. Il gabinetto era nel
cortile. Quando ricordava quei tempi, ne parlava con affetto, mai con
amarezza.
«La sera», mi raccontò una volta, «di solito leggevamo. Non c’era la
televisione, non avevamo la radio. Papà ci leggeva qualcosa. Lui leggeva la
Bibbia tutti i giorni e insisteva che lo facessimo anche noi. A volta erano
poesie. Ricordo che ci lesse La canzone di Hiawatha di Longfellow. “Sulle
sponde del Gitche Gumee, del luccicante Grande Mare d’Acqua…”»
Di certo non era Langston Hughes.
«Mi hanno chiamato John Bob», disse, e io scoppiai a ridere.
«Andiamo, coach. Te lo stai inventando. John Bob? E il tuo migliore
amico chi era? Billy Joe? Tommy Bo?»
Ignorò la mia interruzione e continuò. Era cresciuto lavorando nei campi e
giocando a baseball e a pallacanestro con i suoi tre fratelli. Una palla di
stracci faceva le veci della palla da baseball, e una palla di stracci più
grande era quella da basket, che si lanciava in un cesto da pomodori. Anche
se ottenne un successo leggendario nella pallacanestro, il suo primo amore
era stato il baseball. Ne conosceva ogni statistica, anche meglio di quelle
del basket. Il baseball era stato anche il mio sport preferito, da ragazzino.
Discutemmo sui nostri giocatori preferiti per cinque decenni, senza mai
trovarci veramente d’accordo.
Quando durante la Depressione suo padre aveva perso la fattoria, i
Wooden si erano trasferiti nella piccola cittadina di Martinsville. In quella
parte dell’Indiana meridionale, non c’erano disordini razziali: il Ku Klux
Klan locale se ne occupava personalmente.
Il Klan era molto forte in quella zona, ma coach Wooden non ne parlò
mai. La sola cosa che lo sentii dire in proposito fu: «Non ho mai avuto
niente a che fare con quelle balordaggini».
Suo padre gli aveva impartito anche lezioni morali, i fondamentali valori
americani del Midwest. Coach Wooden mi raccontò una storia su quel
trasferimento a Martinsville e la tragedia che ne seguì, che riassumeva il
carattere di suo padre. Nel 1925 Joshua Wooden aveva comprato alcuni
maiali per la fattoria di famiglia, ma per farlo aveva dovuto accendere
un’ipoteca sulla proprietà. Aveva comprato anche una partita di vaccini per
proteggere i maiali dal colera. Sfortunatamente, i vaccini erano andati a
male, e gli animali erano morti tutti. Più tardi, quella stessa estate, la siccità
aveva distrutto il raccolto della famiglia Wooden. Non essendo in grado di
pagare le rate dell’ipoteca, Joshua era stato costretto a vendere la proprietà.
La famiglia si era trasferita a Martinsville, dove lui aveva trovato lavoro in
una casa di cura. Nonostante le insistenze di chi gli stava attorno affinché
facesse causa all’uomo che gli aveva venduto il vaccino, cosa che gli
avrebbe forse permesso di salvare la fattoria di famiglia, Joshua non aveva
voluto farlo. Come disse una volta il coach riferendosi a suo padre: «Si
rifiutava di dire anche solo una parola scortese su chiunque».
Coach Wooden era fatto allo stesso modo. In cinquant’anni, non riesco a
ricordare che abbia detto qualcosa di scortese su un’altra persona. Quando
aveva un problema con qualcuno, me ne accorgevo perché distoglieva gli
occhi e cambiava argomento.
I principi sui quali John Wooden aveva costruito la sua filosofia, quegli
stessi principi che alla fine avrebbero avuto un impatto forte su di me e su
così tante altre persone, gli venivano dal padre. Una volta affermò:
«Probabilmente non ho mai capito mio padre. Ma, ripensandoci in seguito,
alcune delle cose che ha fatto hanno acquistato un grande significato.
All’epoca non me ne rendevo conto». L’ironia è che i suoi giocatori si
sentivano allo stesso modo nei suoi confronti. Nessuno di noi si è accorto
che stava imparando quello che lui insegnava, fino a quando quella
conoscenza, anni dopo, gli è servita.
«Mio padre ha cercato di trasmetterci di non cercare mai di essere meglio
di qualcun altro.» Era uno dei fondamenti su cui era costruita la sua
filosofia. Non so più quante volte gliel’ho sentito dire. «Impara dagli altri e
non smettere di cercare di dare il meglio che puoi. Se ti fai assorbire troppo
dalle cose sulle quali non hai controllo, il tuo atteggiamento influirà
negativamente sulle cose sulle quali puoi avere controllo.»
A Joshua Wooden piacevano in particolare i valori morali in serie di tre.
«Uno era: “Non mentire, non imbrogliare e non rubare”. L’altro: “Non
piagnucolare, non lamentarti e non accampare scuse”. Mio padre cercava di
trasmetterci questi principi non con le parole, ma con le azioni. Con il modo
in cui affrontava la vita.» Anni più tardi, la Piramide del Successo di coach
Wooden si sarebbe trasformata in un modello per condurre una vita
produttiva e gratificante, ma tutto era iniziato da queste due serie di tre
precetti.
Aveva iniziato a giocare a basket a scuola. Era un atleta nato. «Non ero
alto come molti dei miei coetanei», diceva. «Ma ero più veloce della
maggior parte, e quella era la mia forza.»
Portò tre volte la squadra delle superiori di Martinsville ai campionati
statali, vincendoli nel 1927. Anche allora l’Indiana impazziva per il basket.
Martinsville aveva solo 4800 abitanti, ma la palestra della scuola superiore
poteva ospitare 5200 persone ed era sempre piena.
John Wooden con la maglia di Purdue, nel 1929.

L’anno seguente stavano per vincere il loro secondo campionato, ma


nell’ultima manciata di secondi un giocatore della Muncie Central tirò per
disperazione una palla a due mani dal basso da metà campo che quasi colpì
il soffitto e poi precipitò dritto nel canestro, assicurando alla sua squadra la
vittoria per 13-12. Il coach passò otto decenni della sua vita a giocare
prima, e ad assistere poi a incontri di pallacanestro, e ha sempre detto che
quello era stato il tiro più incredibile che avesse mai visto.
Se me l’avesse raccontato chiunque altro, avrei potuto non crederci, ma in
tutti gli anni della nostra amicizia, non gli ho mai sentito raccontare una
storia che poi si sia rivelata non vera o esagerata, o che in qualche modo
tendesse a metterlo in luce.
Una mattina, però, persino la mia fede cieca nelle sue storie fu messa alla
prova, mentre insieme facevamo colazione al Vip’s, un ristorante vicino al
palazzo in cui abitava, dove «i primi sette giorni di ogni settimana»
ordinava lo stesso pasto.
Avevamo appena finito di discutere dei pro e contro dei pantaloni gialli a
zampa di elefante che indossava un tizio al bancone, quando, di punto in
bianco, disse: «Sai, Knute Rockne mi aveva proposto di giocare a football
per la Notre Dame».
«Devo controllare se le hanno messo del rhum nel caffè?» scherzai.
«Coach, lei pesa quanto la mia gamba sinistra.»
«È la verità.»
«Okay», dissi, pensando che mi stesse prendendo in giro e che avrebbe
riso della mia credulità. «Giocava a football alle superiori?»
Scosse la testa. «Non ce l’avevamo neanche una squadra di football.»
«Stiamo parlando della stessa Notre Dame? All’epoca la migliore squadra
della nazione?»
«Sì», insistette lui. «Knute Rockne in persona mi chiese se fossi
interessato ad andare alla Notre Dame a giocare a football per lui.»
«Knute Rockne? Il tizio di: “Vincetene una per il Gipper?”»4
Lui annuì. «Mi disse che mi aveva visto giocare a pallacanestro e che
sapeva che possevo l’agilità, la velocità e la forza necessarie nel tronco. Gli
dissi che ero un giocatore di basket e baseball.»
«Non ha pensato che forse stava scherzando?»
«Knute Rockne non scherzava mai. Non quando parlava di football. Mi
disse che, con la mia forza, avrebbe potuto fare di me un buon giocatore. Ne
fui lusingato, naturalmente, ma ero deciso a diventare un ingegnere civile e
la Purdue University era abbastanza vicina a casa mia.»
Dopo essersi iscritto a Purdue, alla fine del primo anno scoprì che gli
studenti di ingegneria dovevano frequentare tutte le estati un camp per
mettere in pratica gli studi teorici fatti in classe. E, siccome l’estate lui
doveva lavorare per aiutare la famiglia, si ritirò dal programma. Così decise
di diventare un insegnante di letteratura, come i suoi fratelli. Se avesse
saputo del programma estivo all’epoca dell’iscrizione, avrebbe frequentato
un’università ancora più vicina a casa, perché voleva stare vicino alla
giovane donna che stava corteggiando, Nell Riley. La sua Nellie. «Mi bastò
uscire una sola volta con lei», mi raccontò un giorno, «per non uscire mai
più con nessun’altra donna.»
Purdue fu l’università dove divenne una star del basket a livello nazionale.
All’epoca si trattava di un gioco molto diverso: si giocava con una palla di
cuoio che dentro aveva cucita una camera d’aria e, di tanto in tanto, quando
si palleggiava prendeva degli strani rimbalzi, e così si era obbligati a fare un
sacco di passaggi. Dopo ogni canestro si ricominciava con una palla a due,
cosa che teneva i punteggi molto bassi. Il coach della Purdue, Piggy
Lambert, insegnava un gioco molto veloce – il corri e tira, in pratica, l’ha
inventato lui – che si adattava perfettamente all’aggressività e al ball
handling di Wooden. Lo chiamavano “The Indiana Rubber Man” (l’uomo
di gomma dell’Indiana), a quanto pare perché si gettava sempre sulle palle
vaganti, rialzandosi poi di colpo dal pavimento. Mentre era alla Purdue,
John Wooden divenne il primo giocatore universitario della storia a essere
nominato tre volte All-American per consenso5 e, nel 1932, quando portò i
«calderai»6 a quello che allora era considerato il campionato nazionale, fu
nominato Giocatore dell’anno su scala nazionale.
Per quanto grande fosse come cestista, però, Wooden era molto più
orgoglioso dei propri risultati accademici. Nel soggiorno del suo
appartamento c’era un attaccapanni e lì, tra le tante cose appese, c’erano la
Presidential Medal of Freedom conferitagli dal presidente George W. Bush
e la medaglia che gli avevano consegnato al suo ultimo anno di università
come studente atleta di spicco della Big Ten, la più antica associazione
sportiva universitaria statunitense. Non saprei dire a quale di quelle due
medaglie tenesse di più. Dopo la laurea, l’“Uomo di gomma” arrotondò lo
stipendio di insegnante di letteratura giocando a pallacanestro da
professionista con squadre come gli Indianapolis Kautskys.
La sua carriera di allenatore iniziò con un pugno o, come diceva lui, «uno
sfortunato incidente nel corso del quale ho reagito in modo eccessivo».
Oltre a insegnare letteratura alle superiori a Dayton, nel Kentucky, John
Wooden era anche il direttore sportivo della scuola nonché l’allenatore di
football, basket, atletica e baseball. Durante un allenamento di football a
inizio stagione, un giocatore mise in discussione le sue istruzioni. Lo
studente sfidò apertamente il coach, provocandolo affinché reagisse e, per
tutta risposta, Wooden gli sferrò un pugno sul naso. I dettagli sono confusi,
perché il coach non amava parlarne. Il suo scarso controllo e quel
comportamento poco cristiano lo imbarazzavano. Il massimo che gli abbia
mai sentito dire fu che era stato un errore e che gli dispiaceva.
Ma quello non fu l’unico episodio violento. Nel periodo in cui era
allenatore alla scuola superiore South Bend Central, la sua squadra si
scontrò con la Mishawaka High che in panchina aveva Shelby Shake. Dopo
averli battuti per la seconda volta, cosa che non succedeva da tredici anni,
coach Wooden si avvicinò per la tradizionale stretta di mano di fine partita.
Shake rispose con un: «Quanto li avete pagati, quegli arbitri?» e Wooden si
scagliò contro Shake colpendolo con un pugno. Giocatori e tifosi
afferrarono subito i due uomini per separarli, ma coach Wooden e la
squadra ebbero bisogno della scorta della polizia per raggiungere il
pulmino, perché fuori c’erano i tifosi della Mishawaka ad aspettarli.
Coach non era contrario a che i suoi giocatori la buttassero un po’ sul
fisico. In una partita del 1941 contro Goshen, uno dei suoi ragazzi ricevette
da un avversario un pizzicotto talmente forte che la gamba si mise a
sanguinare. Il giocatore avrebbe voluto affrontare subito l’avversario, ma il
coach gli disse di aspettare il momento giusto. Qualche minuto dopo,
mentre il suo studente veniva marcato da quello stesso avversario, Wooden
gli fece un cenno con la testa. Il ragazzo fintò in una direzione, poi tornò
indietro e in quel momento diede un pugno nello stomaco più forte che poté
all’avversario, che si piegò in due. In qualche modo, gli arbitri non videro la
scena. Né coach Wooden né il suo giocatore parlarono mai della cosa, ma
quando il ragazzo uscì dal campo, il coach gli diede una pacca sulla spalla.
All’epoca John Wooden non era certo la gentile e suadente fonte di
amorevoli aforismi che divenne in seguito.
Mi piace ricordare questa storia, di tanto in tanto, perché mi rammenta
che, anche se ci piace pensare che i nostri eroi siano perfetti, la verità è che
diventano eroi facendo errori e imparando da essi. Ai miei occhi, questo li
rende ancora più grandi.
Dopo il periodo come allenatore di successo alle superiori e tre anni in
marina a combattere durante la Seconda guerra mondiale, coach Wooden
divenne primo allenatore all’Indiana State Teachers College, l’istituto
universitario per l’abilitazione all’insegnamento dello Stato dell’Indiana. Lì
vinse due titoli di Conference, e diverse università, tra cui quelle del
Minnesota e della California (la sede di Los Angeles), gli offrirono il posto
di primo allenatore.
Questa è una di quelle storie raccontate da coach Wooden che sembrano
uscite dall’immaginazione di uno sceneggiatore hollywoodiano. Quando si
parla di modelli da seguire, questo è il tipo di aneddoto che fornisce un
esempio perfetto, uno di quegli episodi in cui il protagonista «fa la cosa
giusta».
Il coach voleva davvero il posto in Minnesota. Adorava il Midwest e lui e
Nellie volevano vivere lì, ma avrebbe accettato l’offerta solo se l’università
gli avesse permesso di portare con sé il suo vice. Aveva anche visitato Ucla
e le attrezzature non l’avevano colpito granché: l’angusta palestra per gli
allenamenti si trovava al secondo piano di un edificio piuttosto datato, e la
squadra di basket la divideva con quella di ginnastica artistica. Le partite in
casa venivano giocate in diverse palestre della città, presso scuole superiori,
centri civici e college vari. Ma da Ucla accettavano che portasse il suo vice
e gli offrirono un contratto di due anni. E, quando il coach insistette che per
trasferirsi in California voleva un contratto triennale, l’università, seppur
con riluttanza, lo accontentò.
Wooden, però, non era convinto. Le sue radici erano ben piantate nei
campi coltivati del Midwest; Los Angeles era Hollywood, star del cinema e
ostentazione. Alla fine, una sera di aprile del 1948, fu costretto a prendere
una decisione. La University of Minnesota doveva chiamarlo alle sei per
dirgli se avrebbe potuto portare con sé il suo vice. Ucla avrebbe telefonato
per avere una risposta un’ora più tardi. Ed ecco la svolta alla Hollywood,
l’evento che avrebbe cambiato per sempre più di una vita. Per mio padre fu
un’audizione mancata per l’orchestra di Count Basie, per coach Wooden
una tempesta improvvisa. La University of Minnesota non telefonò
all’orario stabilito. Wooden pensò che avessero perso interesse, così,
quando chiamarono da Ucla, puntualissimi, offrendogli ufficialmente un
contratto triennale, coach Wooden accettò.
Il telefono squillò di nuovo un’ora più tardi. Il direttore sportivo di
Minnesota chiamava per scusarsi. Spiegò che una bufera di neve anomala
aveva interrotto tutte le linee telefoniche e non era stato in grado di mettersi
in contatto, ma era felice di offrire un posto sia a Wooden sia al suo vice.
Avendo dato la sua parola a Ucla, però, il coach dovette rifiutare il lavoro
che in realtà voleva. Era il modo in cui affrontava la vita. Aveva dato la sua
parola. Non c’era più niente da dire.
Prima di firmare il mio primo contratto da professionista, avevo già
sentito raccontare questa storia diverse volte. Al campus di Ucla faceva
parte del mito di Wooden. Lo ammiravo per aver mantenuto la parola data,
ma non avrei mai pensato che la sua vicenda mi avrebbe riguardato in modo
concreto. Mi sbagliavo di nuovo.
Quando mi laureai fui il primo giocatore a essere selezionato in entrambi i
draft Nba e Aba (l’American Basketball Association, di nuova fondazione).
Avrei firmato con i Milwaukee Bucks (Nba) o con i New York Nets (Aba).
L’idea di giocare a New York mi allettava. Il fatto che i Nets facessero parte
di una nuova lega non mi importava: avevo visto ciò che aveva fatto Joe
Namath per la nuova American Football League. Le negoziazioni per il mio
ingaggio vennero condotte da due uomini d’affari di Los Angeles di cui mi
fidavo completamente – il famoso sostenitore di Ucla Sam Gilbert e Ralph
Shapiro – insieme al mio avvocato. Concordammo sul fatto che non
volevamo farci coinvolgere in una guerra a chi offriva di più, così
domandammo alle due leghe di fare un’unica offerta a testa. Un’unica
offerta prendere-o-lasciare. Sapevo che la Aba aveva molto più bisogno di
me di quanto non ne avesse la Nba, così mi aspettavo che avrei giocato a
New York. Ma poi arrivarono le offerte.
Con mia grande sorpresa, l’offerta di 1,4 milioni di dollari dei Bucks era
sostanzialmente più alta di quella dell’Aba. Così la accettai. Nel giro di
qualche ora fummo contattati dall’Aba, che ci disse che l’offerta non voleva
essere definitiva. La nuova proposta da parte dell’intera lega era di 3,25
milioni di dollari. Non avevo scelta: rifiutai. Spiegai che avevo dato la mia
parola. Pensavo che non fosse giusto penalizzare i Bucks per aver negoziato
in buona fede.
Quando presi quella decisione, non stavo consciamente pensando a coach
Wooden, ma quell’uomo era stato parte integrante della mia vita per quattro
anni. Aveva sviluppato le mie capacità atletiche, sostenuto le mie ambizioni
intellettuali ed era stato un faro morale che mi aveva indicato la strada. I
miei genitori avevano gettato solide fondamenta etiche, ma su quelle
fondamenta lui aveva costruito, non solo mostrandoci come decidere che
cosa fosse giusto, ma dandoci la forza di carattere di fare la cosa giusta.
John Wooden fu il quarto head coach di Ucla. A quei tempi non era certo
un posto di prestigio. Il suo salario annuo, all’inizio, era di soli 6000 dollari.
La pallacanestro non era ancora diventata uno sport popolare, l’Nba sarebbe
nata un anno dopo il suo ingaggio, dall’unione di Basketball Association of
America e National Basketball League. La squadra di professionisti più
conosciuta era di gran lunga quella degli indipendenti Harlem Globetrotters.
Gli allenatori delle università erano pagati poco e le loro partite, quando
venivano trasmesse, passavano su una stazione radio universitaria. La
televisione a malapena esisteva. Come parte delle sue responsabilità di
primo allenatore di pallacanestro a Ucla, Wooden, con l’aiuto degli studenti
che gli facevano da assistenti, doveva spazzare e lavare il pavimento della
palestra tutti i giorni. «Portavo il secchio dell’acqua per bagnare il
pavimento», mi diceva ridendo, «come se stessi dando da mangiare alle
galline.» Lavò quel pavimento ogni giorno per diciassette stagioni.
Dopo la sua seconda stagione a Westwood, la Purdue tornò a offrirgli il
posto di primo allenatore. La paga e le attrezzature, a West Lafayette, erano
molto meglio che a Ucla, ed era l’Indiana, la sua alma mater, un’occasione,
per il coach e Nellie, di tornare a casa. Inoltre, Ucla non aveva rispettato la
promessa di migliorare le strutture, anche se, come spiegò lui stesso: «Non
era esattamente una promessa; era più una sorta di “accordo”». Ucla, in
realtà, era disposta a lasciargli accettare la proposta della Purdue, ma gli
ricordò che era stato lui a insistere per un contratto di tre anni, e loro
intendevano onorarlo.
Il coach aveva una scappatoia: Ucla non aveva ottemperato del tutto al
loro accordo. Ma aveva dato la sua parola. Quello era più forte di qualunque
contratto scritto. Così rifiutò l’offerta della Purdue.
A Ucla ottenne un enorme successo. Nel 1964, l’anno in cui fui scelto,
aveva alle spalle diciassette stagioni vincenti consecutive. Aveva
conquistato (in qualche caso pareggiando) otto titoli di Conference e, nelle
due stagioni precedenti, le sue squadre avevano vinto il campionato Ncaa.
Per lui avevano giocato grandi giocatori come Willie Naulls, Walt Hazzard,
Doug Erickson, Gail Goodrich e Kenny Washington. “L’Uomo di gomma
dell’Indiana” stava diventando il “Mago di Westwood”, uno degli allenatori
più apprezzati della pallacanestro. E, finalmente, Ucla aveva trovato i fondi
necessari per costruire il grande palazzetto che gli aveva promesso quasi
due decenni prima.
John Wooden era arrivato a Los Angeles dalle campagne dell’Indiana; io
dalle strade di New York. Come ho già detto, le sole cose che avevamo in
comune erano l’amore per il baseball e per quella grande e tonda palla da
basket.
Quando sei il ragazzino più alto del tuo isolato, o di qualunque altro
isolato del tuo quartiere, giochi a pallacanestro. Io iniziai a giocare alla
Scuola statale 52 di Inwood, Upper Manhattan. Ero terribile. Tiravo a due
mani dal basso e a mala pena riuscivo a scheggiare l’anello. Quando avevo
sei o sette anni giocavo a fare canestro con mio padre. In realtà, lui faceva
canestro, io tiravo e basta. Mio padre sapeva giocare. Alle superiori era
stato in squadra con Red Holzman, che in seguito, da allenatore, portò i
Knicks a vincere un campionato. Mio padre mi aveva mostrato a mie spese
come si giocava a pallacanestro. Mi spintonava, mi dava gomitate in ogni
parte del corpo, fino a che non mi ritrovavo pieno di lividi e demoralizzato.
Non mi stava insegnando come si giocava; mi stava mostrando chi
comandava. Io speravo che quello sarebbe stato per noi un modo di legare,
ma dopo quella prima “lezione”, non giocai mai più con lui.
Per un po’, il mio gioco preferito fu il baseball. A tredici anni ero 203
centimetri e lanciavo già la palla a più di 140 chilometri orari. La velocità
non mi mancava, ma non avevo alcun controllo e, cosa più importante,
nessuno che mi allenasse. Ho sempre pensato che avrei potuto giocare in
Major League se solo fossi riuscito a risolvere quel problema di controllo.
Mi risultava difficile far passare con regolarità la palla sopra il piatto. Con
la pallacanestro era tutto più semplice. Restai affascinato dal basket a otto
anni, quando vidi il film Go, Man, Go!, che raccontava la storia degli
Harlem Globetrotters. Nel film c’era una scena nella quale il grande
Marques Haynes superava palleggiando un tipo che gli bloccava il
passaggio in uno stretto corridoio. Lo vidi e pensai: “Wow, la pallacanestro
è uno sport fantastico. Magari è quello giusto per me”.

Al mio secondo anno alla Power Memorial, entrai nella prima squadra All-
American delle superiori. Nessuno riusciva a marcarmi in modo abbastanza
efficace da impedirmi di segnare di continuo, così cominciai a pensare che
la pallacanestro poteva essere il mio futuro. Avevo anche imparato a essere
più coriaceo. Ricordo che giocammo un’amichevole contro la Boys High di
Brooklyn, una delle migliori squadre della città. Quello che non sapevo era
che il mio allenatore, Jack Donahue, conosceva alcuni giocatori avversari e,
prima della partita, aveva detto loro di strapazzarmi un po’. Voleva vedere
quanto potevo incassare.
Uno di loro, però, portò la cosa un po’ troppo oltre e mi diede un morso.
Un morso! Quando lo dissi a coach Donahue, lui non mi credette fino a che
non gli mostrai i segni dei denti. Dopo quell’amichevole, uno dei giocatori
della Boys High disse a Donahue: «Coach, non devi preoccuparti per il
ragazzo. Sa badare a se stesso».
Jack Donahue mi insegnò i fondamentali del gioco. Non le regole, ma
come si gioca. Un anno andammo a Schenectady, una cittadina a nord dello
Stato di New York, per giocare con la squadra di Pat Riley. Gli arbitri mi
espulsero per falli nel primo tempo. Pensai che fosse ridicolo: non ero un
giocatore particolarmente fisico ma Donahue mi spiegò la realtà dei fatti:
«Non vogliono che vinciamo. È una cosa che devi capire. Il tuo unico
amico su quel campo è il tabellone. A volte la palla torna dritta verso di te,
e conquisti un rimbalzo. Ma è tutto». Quello fu l’inizio della mia
educazione cestistica. Fu così che imparai a tenere le braccia in aria e a
giocare senza fare falli.
La Power era a pochi isolati dal vecchio Madison Square Garden, e per
questo alcune squadre Nba usavano la nostra palestra per allenarsi. In
cambio a noi era permesso andare al Garden quando c’erano le partite. In
pratica, il coach Donahue mi ordinò di andare a vedere Bill Russell e i suoi
Boston Celtics, a ogni occasione. Era l’epoca in cui Wilt Chamberlain stava
infrangendo ogni record di punteggio; una sera segnò addirittura 100 punti
contro i Knicks. Ma, come sottolineò Donahue, mentre Chamberlain
segnava quei punti, i Celtics di Russell vincevano quei campionati.
Nessuno aveva mai dominato il gioco in difesa come Bill Russell, che
annullava le occasioni dei suoi avversari sotto canestro, costringendoli a
tirare da più lontano e abbassando la loro percentuale. Negando loro i tiri da
sotto, stoppandoli e conquistando rimbalzi in difesa, permetteva ai Celtics
di correre in contropiede. Io sono sempre stato un ottimo attaccante, ma
dopo aver compreso l’importanza del suo contributo, lavorai per diventare
anche un buon difensore. Bill Russell divenne il mio modello di gioco in
difesa. Donahue mi aiutò a costruire dei solidi fondamentali.
Durante la mia carriera alle superiori, la Power Memorial chiuse con un
record di 96 vittorie e solo 6 sconfitte; la squadra del 1963-64 fu campione
nazionale delle superiori e votata la migliore del secolo. Infilammo una
serie vincente di settantuno partite, interrotta dalla scuola DeMatha di
Hyattsville, nel Maryland, in quella che è stata definita «la partita del secolo
tra squadre delle superiori». Quando mi diplomai, possedevo gli strumenti
grezzi per giocare a basket a un livello molto alto. All’epoca, l’Nba non
selezionava giocatori con i requisiti per andare all’università – non
esistevano studenti one-and-done7 – quindi, qualunque ateneo avessi scelto,
avrei trascorso quattro anni lì.
Tra le cose che coach Wooden e io avevamo in comune, c’era la
convinzione che giocare a pallacanestro non fosse lo scopo delle nostre vite,
ma piuttosto un mezzo per renderle più appaganti. Credo di essermene reso
conto quando, alle medie, avevo iniziato a ricevere offerte per frequentare a
titolo gratuito le migliori scuole superiori cattoliche di New York. Era stato
allora che il basket aveva cominciato a pagare qualche conto. Subito dopo
divenne chiaro che avrebbe pagato anche la mia istruzione universitaria.
Sapevo che gli atleti professionisti guadagnavano bene, così, all’orizzonte,
seppur lontano, cominciò a profilarsi anche quella carriera.
Le università avevano iniziato a cercarmi quando ancora frequentavo il
secondo anno. All’inizio ricevevo un rivolo di lettere che mi offrivano borse
di studio a copertura totale per i college e le università di tutta la nazione,
ma a poco a poco il rivolo prese le proporzioni di un’ondata di piena.
C’erano addirittura università con programmi sportivi separati per bianchi e
neri che mi invitavano a rompere la barriera della segregazione. Coach
Donahue teneva tutte le offerte in una scatola nel suo ufficio e io mi
fermavo ogni settimana a vedere le ultime arrivate. Alla fine, ce n’erano
così tante che Donahue mi disse di non preoccuparmi più di fermarmi a
controllare il contenuto della scatola. «Potrei prendere questa scatola e
gettarla nel cestino. Potrai frequentare qualunque università abbia un
programma di pallacanestro accessibile con una borsa di studio.» Era un
pensiero da capogiro: potevo scegliere di frequentare praticamente
qualunque università d’America, e ai miei non sarebbe costata un
centesimo. Dovevo solo giocare a basket.
Pochi giovani hanno avuto le possibilità di scelta che ho avuto io. Sapevo
di voler andare a un’università dove poter ricevere un’istruzione di qualità
e, nel frattempo, giocare in una squadra di pallacanestro vincente. Volevo
un’istituzione che rispettasse i suoi studenti e atleti, quale che fosse il colore
della loro pelle o la loro provenienza, quindi questo eliminava la maggior
parte delle università del Sud. In più avevo diciotto anni: volevo frequentare
un ateneo lontano dai miei genitori, volevo divertirmi.
Alla fine, ridussi le opzioni alla University of Michigan, Columbia, St
John’s e Ucla. Coach Donahue aveva accettato l’offerta di diventare primo
allenatore all’Holy Cross College di Worcester, nel Massachusetts e mi
disse che avrei dovuto almeno andare a vederlo, che glielo dovevo.
Immagino pensasse che la pubblicità che ne sarebbe derivata lo avrebbe
aiutato nel reclutamento degli atleti, anche se sapevamo entrambi che non
c’erano possibilità che andassi lì. La Holy Cross era una buona scuola, ma
non aveva un programma di pallacanestro importante. Volevo giocare
contro gli avversari migliori, ma per rispetto verso il coach, andai a vedere
il college.
La St John’s era la squadra di casa di New York. Ero andato spesso al
Garden a vederla giocare. Aveva un programma integrato, competitivo a
livello nazionale e diretto da Joe Lapchick, un coach molto apprezzato. Nel
periodo in cui allenava i New York Knicks, aveva ingaggiato il primo
giocatore nero dell’Nba, Nat “Sweetwater” Clifton. Avevo conosciuto
coach Lapchick durante il mio primo anno alla Power. Anche lui, come
Donahue che lo venerava, viveva a Yonkers. Alla Power Memorial
riproducevamo l’attacco della St John’s e guardavamo filmati delle loro
partite.
Con i suoi 196 centimetri, all’epoca in cui giocava il coach Lapchick era
considerato insolitamente alto. Ricordo che, mentre stavo imparando a fare
i conti con la mia altezza, mi disse: «So che cosa vuol dire essere alti, Lew.
Nel quartiere dove sono cresciuto, essere alti era così insolito che i bambini
più piccoli mi indicavano, dicendo: “Ma’, guarda, uno zingaro”». Intendeva
dire che la sorpresa dei bambini per la sua diversità era tale che quello era
l’unico modo in cui riuscivano a esprimerla.
Coach Lapchick era espressione delle strade di New York tanto quanto
coach Wooden dei campi dell’Indiana, ma in realtà si erano trovati a giocare
l’uno contro l’altro, da professionisti, quando Lapchick era il centro degli
Original Celtics, di casa a New York… e si erano azzuffati. «Continuava a
spingermi», mi disse coach Wooden molti anni dopo e, nel parlarne,
sembrava ancora offeso dalla cosa. «Per tutta la partita, ogni volta che gli
passavo accanto, mi dava una spintarella. Poi, alla fine, mentre lo superavo
per andare a canestro allungò il piede e mi fece uno sgambetto. Perbacco,
ne avevo avuto abbastanza. Balzai in piedi e, senza pensare alle
conseguenze, lo afferrai per il davanti della maglia e lo minacciai: “Se lo fai
un’altra volta, ti spacco la faccia!”
«Non so chi dei due fosse più sorpreso di quella reazione. Se ci fossimo
picchiati, temo che non sarei stato io a spaccare la faccia a lui!»
Risi quando coach Wooden mi raccontò la storia, immaginando la
caricatura della zuffa: il coach Lapchick in piedi con la mano sulla fronte di
Wooden, per tenerlo a distanza di sicurezza, mentre quest’ultimo
continuava ad agitare le braccia.
Di primo acchito probabilmente mi sentii più a mio agio con coach
Lapchick: eravamo entrambi di New York e giocare per lui mi allettava. Ma
Lapchick aveva compiuto sessantacinque anni l’estate prima del mio ultimo
anno di superiori e fu costretto ad andare in pensione. Siccome non
conoscevo il suo successore, un giovane allenatore di nome Lou
Carnesecca, St John’s era fuori dai giochi. Pur non avendo frequentato
quell’università, sono rimasto per tutta la vita, e lo sono ancora, amico del
figlio del coach Lapchick, Rich.
A dire il vero, in un angolino della mente avevo sempre covato il pensiero
di frequentare Ucla. Moltissimi anni più tardi, ritrovai l’annuario delle
medie. In fondo c’era una pagina dedicata al mio futuro. In risposta alla
domanda: «La tua università preferita», avevo messo Ucla. La cosa mi
sorprese: non ricordavo di aver avuto un debole per la California a
quell’età.
Pensai che il mio interesse doveva essere iniziato quell’ultimo anno,
quando avevo conosciuto Willie Naulls. Naulls aveva giocato per coach
Wooden a Ucla, per poi diventare una star con i Knicks. Io avevo giocato
nella partita all-star della Catholic Youth Organization, l’associazione della
gioventù cattolica, dopo la quale erano venuti a parlarci tre giocatori dei
Knicks, tra cui Naulls. Lui mi aveva preso in un certo senso sotto la sua ala,
dicendomi che Ucla era un posto grandioso dove studiare e che giocare per
coach Wooden mi sarebbe piaciuto. «È un tipo fuori dal comune», mi aveva
detto. «Ti renderà migliore.» Non aveva detto che mi avrebbe reso un
giocatore di pallacanestro migliore, solo che mi avrebbe reso migliore.
Da bambino tifavo per Jackie Robinson e i Dodgers e quando la squadra si
era trasferita sulla West Coast ci ero rimasto male. Robinson aveva giocato
a football a Ucla, dove era stato un running back eccezionale; all’epoca,
Ucla era considerata l’università con il programma di football migliore
d’America. Quando ricevetti la lettera di Jackie Robinson che mi suggeriva
di prendere in considerazione Ucla, mia madre si emozionò, perché lo
ammirava molto per il suo coraggio e la sua intelligenza.
Mi scrisse anche Ralph Bunche, l’afroamericano che nel 1950 vinse il
premio Nobel per la pace e fu sottosegretario generale delle Nazioni Unite,
suggerendo che Ucla, dove lui stesso si era laureato, sarebbe stata per me
un’ottima scelta. Una domenica sera stavo guardando l’Ed Sullivan Show.
Era uno spettacolo di varietà; ogni settimana Sullivan si prendeva qualche
minuto per individuare eventuali personaggi famosi ospiti tra il pubblico e
rendere loro omaggio. Quella sera presentò Rafer Johnson, un giovane nero
che aveva vinto la medaglia d’oro nel decathlon alle Olimpiadi del 1960,
diventando il più grande atleta multidisciplinare del mondo. Quello che mi
colpì fu che Sullivan lo descrisse come presidente del corpo studenti di
Ucla. Ebbi l’impressione che a Ucla avrei potuto aspirare a essere qualcosa
di più di un semplice atleta, che le persone lì rispettassero Johnson per tutte
quante le sue qualità, dandogli l’opportunità di avere successo. Per me era
importante. Non volevo essere etichettato solo come un atleta.
Inoltre, Ucla era da tempo un’università progressista. Negli anni Trenta
aveva preso la decisione di essere aperta a tutti, assumendo persino un
professore ebreo che altrove era stato allontanato. Da allora aveva
continuato su quella linea. Anche il giornale degli studenti, il «Daily
Bruin», scrisse che una delle ragioni per cui avrei dovuto frequentare Ucla
era che l’ateneo era ben noto per le sue «idee nei confronti dei negri
(negroes)». Questo mi fece riflettere perché all’epoca, tra i progressisti, la
parola “negroes” era stata sostituita da “afroamericano”. Pensai che loro
intenzioni erano comunque buone, anche se il vocabolario ancora non si era
messo al passo con i tempi.
A conti fatti, quindi, avevo un sacco di motivi per scegliere Ucla. Ma, alla
fine, l’unico motivo che importava veramente era John Wooden.
Ci sono due modi in cui un grande maestro può influenzare i suoi studenti:
in primo luogo, con il valore pratico delle sue parole, insegnando loro a fare
cose che prima non sapevano fare o a farle meglio; in secondo luogo, con la
purezza delle sue azioni. Predicare banalità morali è facile ma, per rigare
dritto e vivere secondo quei valori morali, ci vuole una grande forza. Con le
sue parole coach Wooden mi ha insegnato molto sulla pallacanestro, ma,
cosa più importante, il suo esempio come uomo di incrollabile forza morale
mi ha insegnato a essere l’uomo che volevo essere e che avevo bisogno di
essere.

1
Il distretto di Los Angeles in cui sorge Ucla [N.d.T.].
2
I community colleges sono strutture in cui si ottengono diplomi più brevi e professionalizzanti di
una laurea. Sono stati istituiti negli anni Venti come alternativa alle più costose università pubbliche
[N.d.T.].
3
Pittore e illustratore statunitense (1894-1978), esponente del cosiddetto «realismo romantico»
[N.d.T.].
4
Si dice che uno dei giocatori di punta di coach Rockne, George Gipp, sul letto di morte a soli 25
anni, gli abbia fatto promettere che, ogni volta che per la squadra le cose si fossero messe male, lui
l’avrebbe spronata chiedendole di «vincerne una per il “Gipper”». La frase fu poi ripresa durante la
campagna presidenziale da Ronald Reagan che, avendo interpretato il giocatore nel film Knute
Rockne All American del 1940, si era a sua volta guadagnato il soprannome di “Gipper” [N.d.T.].
5
Nominato in almeno la metà delle liste riconosciute [N.d.T.].
6
Uno dei tanti soprannomi con cui sono stati conosciuti, negli anni, gli studenti della Purdue, con
riferimento al fatto che lì si insegnavano materie tecniche, considerate meno “alte” di quelle letterarie
[N.d.T.].
7
Giocatori che frequentano un solo anno di università e poi passano al professionismo [N.d.T.].
L’inizio del gioco
Il punto non è vincere e altre lezioni a bordo campo

Un allenatore è una persona che può


correggerti senza che tu te ne risenta.
John Wooden

Il lettore dvd non funzionava.


«Dannazione», disse il coach, raggiungendo il massimo della volgarità cui
arrivava.
Era il 2010 ed eravamo seduti nel suo soggiorno, solo qualche mese prima
della sua morte. Aveva novantanove anni. Avevo portato il dvd di Nemico
pubblico, il film con Johnny Depp nella parte del gangster John Dillinger.
Ma qualcosa non andava nel lettore. La ragione principale per cui volevo
che vedesse il film era la musica, che era degli anni Trenta, un’epoca che lui
ricordava bene. Finalmente, dopo tutti quegli anni, volevo spiegargli la mia
passione di una vita per il jazz, che pensavo non avesse mai compreso fino
in fondo. Pensavo che un film di gangster fosse un buon modo per entrare
in argomento.
Un tempo possedevo una delle più grandi collezioni di jazz su vinile del
Paese, con più di cinquemila album. Poi, nel 1983, un incendio distrusse la
mia casa e la mia preziosa raccolta di dischi. In seguito, grazie in gran parte
ai generosi regali di centinaia di tifosi di basket, la mia collezione non
soltanto era stata ripristinata, ma aveva superato quella originale. In quel
soggiorno ero io l’esperto di jazz ed ero pronto a mettere in chiaro alcune
verità sull’argomento per il mio vecchio mentore. Con o senza John
Dillinger e il suo luccicante mitragliatore Thompson.
«Deve ascoltare Billie Holiday», dissi, sollevando il dvd. «Canta Am I
Blue, Love Me or Leave Me e The Man I Love. Le strapperà il cuore e glielo
servirà stufato, in stile gumbo.»
Lui rise. «Ti piace proprio, il jazz, Kareem. Ma io sono ancora uno da
grandi orchestre.»
«Stessa musica di base, coach. Due facce della stessa medaglia.»
«It don’t mean a thing if it ain’t got that swing», concordò.1
«Accidenti, cita Duke Ellington. Sono colpito.»
Il coach sorrise, come un uomo con un segreto. «Figliolo, questo è solo
l’inizio.»
«Mi racconti, coach», lo esortai, sorridendo. «Sono tutto orecchi. Non
quanto lei, ma…»
Rise di gusto. Con l’età, le sue gigantesche orecchie paraboliche si erano
fatte persino più prominenti. Era la sola parte di lui che non si era ritirata.
«I ragazzi di oggi», commentò scuotendo la testa. All’epoca avevo
sessantadue anni.
Il coach si appoggiò allo schienale della grande poltrona in pelle grigia,
che sembrava fagocitarlo. «Una volta, negli anni Trenta, sono stato a
Chicago», disse. «Più o meno nello stesso periodo in cui questo Dillinger
stava sollevando tutto quel polverone. Giocavamo al Savoy Ballroom
contro i Globetrotters. Dopo le partite, di solito Nell e io prendevamo il
primo treno per tornare a Indianapolis, così da poter essere a casa il più in
fretta possibile. Solo che per qualche ragione, quella sera, decidemmo di
fermarci in città un po’ più a lungo. Ricorda che avevamo poco più di
vent’anni, allora.»
Osservai l’espressione assorta sul suo volto pallido e segnato dalle rughe,
mentre scivolava indietro nel tempo per ricongiungersi alla moglie. Con
l’età, avevo imparato quanto subdolo potesse essere invecchiare. Quando
qualcuno mi chiedeva quanti anni avevo, il mio primo pensiero era
“trentacinque”. Poi la realtà mi afferrava per le spalle, scuotendomi, e
capivo di essermi sbagliato di quasi trent’anni. Ogni volta che accendevo la
luce del bagno e vedevo la mia immagine riflessa nello specchio, venivo
colto di sorpresa. Mi aspettavo sempre di trovarmi davanti qualcuno di
molto più giovane. Era una primitiva forma di viaggio nel tempo.
Guardando il coach novantanovenne seduto su quella poltrona, gli occhi
leggermente vitrei dietro gli occhiali con la montatura in metallo, lo
immaginai viaggiare nel tempo, tra i propri ricordi, con serenità.
«Finita la partita, vennero tirati giù i canestri, e il campo sul quale
avevamo appena gocciolato sudore a profusione divenne la pista da ballo.
Tutt’attorno c’erano tavoli apparecchiati. Ne occupammo uno e ordinammo
la cena. Il cibo era così buono che facemmo tardi e perdemmo il treno che
avevamo deciso di prendere.» Sorrise al pensiero di quella spontaneità così
poco da lui. «Avevamo appena finito e stavamo per andarcene, quando sul
palco iniziarono a suonare una musica sfrenata. Nell volle capire chi era. Io
ero preoccupato che riuscissimo a prendere il treno successivo, ma lei
insistette. Quella donna sapeva essere molto testarda…»
«Lo ricordo», dissi con affetto.
«Così ci avvicinammo al palco, e lì c’era Cab Calloway, in smoking
bianco, che suonava Kickin’ the Gong Around. Nell mi trascinò sulla pista
da ballo e danzammo senza sosta fino alle due o alle tre del mattino. Credo
che abbiamo ballato ogni singola canzone.»
«Gli altri ballerini erano più neri o bianchi?» chiesi.
Il coach frugò un attimo nella memoria: «Neri», disse poi.
Risi, immaginando il coach e sua moglie a vent’anni, due dei più bianchi
abitanti del Midwest di sempre, che se la spassavano in mezzo a una folla di
ballerini neri. Mi stava ancora dando lezioni di comportamento.
La sua storia su Cab Calloway mi rese più determinato ad aiutarlo a
comprendere perché il jazz fosse tanto importante per me. Armeggiai con il
lettore dvd, sperando di poter ancora usare il film come porta d’accesso
musicale, per capire il jazz. Non sono mai stato molto portato per la
tecnologia; tutto quello che potevo fare era assicurarmi che la spina fosse
inserita e controllare i cavi che lo collegavano al televisore, per vedere se
erano infilati a dovere. Era tutto a posto, ma non funzionava.
Mi guardai attorno, sperando di trovare un altro lettore dvd magari
appoggiato su uno scaffale da qualche parte e poi semplicemente
dimenticato. Data l’enorme quantità di roba in giro, era verosimile. Erano
quasi cinquant’anni che frequentavo quel soggiorno, e ogni volta vedevo
qualcosa che non avevo mai notato prima. Era possibile che l’Arca perduta
dell’Alleanza di Indiana Jones fosse rinchiusa proprio lì. I due elementi
principali che dominavano la stanza erano le decine di fotografie e
riconoscimenti incorniciati appesi al muro… e i libri. Libri sugli scaffali;
sul sobrio tavolino da caffè in stile Shaker; sullo scrittoio a ribalta; sui
tavolini bassi ai lati delle poltrone, accanto alle lampade. L’aria stessa
odorava di carta vecchia, il profumo stantio di un negozio di libri usati.
Il resto dello spazio era pieno di tazze, medaglie, placche e ricordi.
C’erano pupazzi con la testa che dondolava, e maglie e gadget delle squadre
di pallacanestro di Ucla; c’erano i palloni della sua cinquecentesima e
millesima vittoria come allenatore, e di quelle dei campionati Ncaa. C’era
Sheepie, il peluche della sua pronipote, e una bandiera americana; pile di
video e un ingombrante televisore da diciannove pollici, sintonizzato per la
maggior parte del tempo su un evento sportivo o un vecchio film western.
Aveva i referti di tutte le partite giocate nel corso della sua carriera. C’erano
molte versioni differenti della piramide e un mazzetto di biglietti da visita
plastificati, che consegnava a chi gli faceva visita. Con mio grande piacere,
su una mensola c’era la moneta commemorativa di Lincoln da cinquanta
centesimi del 1918 che gli avevo regalato conoscendo la grande
ammirazione che il coach aveva per il nostro sedicesimo presidente.
Il lungo e comodo divano e le due poltrone guardavano il televisore. Sul
primo, un cuscino ricamato citava una frase di una delle sue eroine, madre
Teresa: «Non possiamo fare grandi cose, solo piccole cose con grande
amore». La sua vecchia stecca da biliardo era appoggiata al muro in un
angolo. Ogni singolo oggetto, in quella stanza, aveva un significato per lui:
dalle fotografie di ognuna delle squadre con cui aveva vinto un campionato
nazionale, ai piatti dipinti a mano e firmati dai suoi nipoti.
Originariamente era stata Nell ad arredare la stanza ma, dopo la sua morte,
lui aveva continuato a riempirla, forse cercando di colmare il vuoto che lei
aveva lasciato. Si rifiutava di cambiare anche solo una virgola, spiegando:
«Non c’è niente, in questo appartamento, che non abbia messo lì lei, e per
questo non ho voluto togliere niente».
Aprii il vassoio del lettore un paio di volte, senza sapere che cosa mi
aspettassi di trovarci, a parte la copia di Nemico pubblico che avevo infilato
io. L’ultima cosa rimasta da provare era un esorcismo.
«Guardiamo un po’ di pallacanestro, Kareem», disse alla fine il coach,
cercando di risparmiarmi ulteriore imbarazzo. «C’è sempre una partita, su
un canale o sull’altro.»
Trovai un incontro tra due università di cui a nessuno dei due importava,
ma ci mettemmo comodi, fissando lo schermo.
Guardammo uno dei giocatori fintare a sinistra e girare invece su se stesso
verso destra, superando l’avversario e facendo un passaggio battuto a terra
al compagno di squadra che si stava portando sotto canestro. Il primo
giocatore, poi, si avvicinò a sua volta al canestro, appena in tempo per
ricevere la palla passatagli dal secondo giocatore.
«Ben fatto», disse il coach.
Questo mi diede un’idea.
«Si è mai reso conto che il modo in cui giocavamo noi era una forma di
jazz?»
Mi guardò come se fossi impazzito.
«È vero, coach. Ci ha insegnato a giocare un basket jazz.»
Ci pensò su qualche secondo, poi sorrise, come se l’idea gli piacesse. «E
cioè?»
Okay, professor Kareem, tocca a te. Dopo tutti questi anni, devi essere
convincente. «Be’, entrambi richiedono una sorta di libertà strutturata»,
spiegai. «Lei non ci ha insegnato a costruire giochi prestabiliti con
diagrammi e frecce. Ci ha insegnato invece a reagire agli altri giocatori nel
corso dell’azione. Qua e là giocavamo un assolo, esprimevamo la nostra
individualità, ma il tutto nell’ambito del quadro di quello che stavano
facendo gli altri. Partivamo da soli o giocavamo di supporto a un altro
giocatore, ma suonavamo sempre la stessa canzone, come un’orchestra jazz.
Giocavamo nel contesto.»
«Giocare nel contesto», ripeté. «Mi piace. Quanto tempo è che prepari
questa lezione, Lewis?»
«Cinquant’anni», risposi con un sorriso.
«È un paragone interessante», disse. «Di sicuro, per fare bene qualunque
cosa, gli individui devono prima padroneggiare i fondamentali e poi
imparare a reagire come gruppo, senza doverci pensare.»
«Giusto. Ha mai letto Lo zen e il tiro con l’arco?»
Scosse la testa.
«Me ne parlò Bruce Lee, mentre mi faceva sudare sette camicie in
palestra. L’ha scritto un professore di filosofia tedesco che aveva studiato
tiro con l’arco con un maestro zen. L’idea di fondo è che, dopo anni di
esercizio, l’arciere non pensa più all’arco, alla freccia o al centro del
bersaglio, perché il suo corpo reagisce inconsciamente. In teoria, un arciere
zen è incapace di mancare il bersaglio.»
«Come la memoria muscolare», intervenne il coach.
«Esatto» dissi io, la voce più alta di un’ottava per l’entusiasmo. «Il jazz ha
origine da qualche parte oltre il pensiero cosciente, lo stesso luogo in cui si
gioca la grande pallacanestro.»
E fu allora che capii, che ebbi questa epifania esplosiva, come lo scoppio
di una vecchia lampadina. Realizzai che, nonostante entrambi amassimo la
rigidità strutturale, nelle nostre vite, per tutti i cinquant’anni della nostra
amicizia il coach e io avevamo costruito un’amicizia simile a un duetto
jazz. Lui era il maestro più anziano e saggio, che suonava complesse
combinazioni di note; mentre io ero, e sarei sempre stato, il ragazzino,
l’ultimo arrivato, impaziente di imparare ma con il proprio brano da
suonare. Il banco di prova di una vera amicizia sta in quanti dei difficili
ostacoli della vita ci si aiuta a superare l’un l’altro… E noi ci eravamo
aiutati a superare periodi davvero devastanti. Ci eravamo aiutati l’un l’altro
ad andare avanti, quando ci sentivamo troppo disorientati o troppo stanchi
per farlo. A volte la lezione più importante la impari non da ciò che una
persona dice o da come vive la sua vita, ma da dove questa persona si trova
quando hai bisogno di lei.
Quel giorno, solo qualche mese prima che morisse, continuammo a
parlare di jazz, gangster e partite di basket. Ed eravamo entrambi
esattamente dove l’altro aveva bisogno che fossimo. Dove lui era stato fin
dal mio primo giorno a Ucla.

John Wooden aveva davanti la più grande squadra di matricole della storia
del basket. Sedevamo sulla panchina di Ucla, in attesa delle prime parole di
saggezza dell’allenatore per il quale arrivavamo da ogni parte del Paese.
Alcuni, come me, avevano rinunciato a borse di studio a copertura totale in
altre scuole, solo per mettersi ai piedi del grande John Wooden.
«Buon pomeriggio, signori», iniziò secco.
«Buon pomeriggio, coach», rispondemmo in coro.
Lui ci guardò compiaciuto e si schiarì la voce, preparandosi a parlare. Ci
sporgemmo in avanti, pronti a tatuarci la sua saggezza nel cervello per
l’eternità.
«Oggi impareremo come metterci le scarpe da ginnastica e le calze in
modo corretto.»
Pur non osando ridacchiare, ci guardammo l’un l’altro come a chiederci
quale sarebbe stata la battuta finale di quello scherzo.
Il coach si chinò per togliersi scarpe e calzini. I suoi piedi rosa pallido
sembravano non essere mai stati esposti alla luce del sole in vita loro.
«Parleremo dei concetti di calze tese e scarpe comode», disse. «Tese-e-
comode.»
La squadra di pallacanestro delle matricole del 1965-66 seduta su quella
panchina comprendeva cinque All-American delle superiori. Quando mi ero
diplomato alla Power Memorial di New York, ero il giocatore più richiesto
dalle università della nazione. Il mio compagno di stanza a Ucla, Lucius
Allen, di Kansas City, era già considerato il miglior giovane giocatore del
Kansas. Lynn Shackelford, di Burbank, in California, era un tiratore
straordinario, e Kenny Heitz, di Santa Maria, sempre in California, era un
attaccante sicuro di sé che tutti volevano. Il quinto titolare era Kent Taylor,
uno studente del Texas senza borsa di studio, che in seguito si trasferì a
Houston. Eravamo venuti a Ucla perché aveva il miglior programma
universitario di pallacanestro del Paese, il luogo perfetto dove sviluppare
appieno il nostro talento prima di laurearci e passare al basket
professionistico. I Bruins avevano vinto due campionati nazionali
consecutivi, mentre io frequentavo gli ultimi due anni di superiori, e
quell’anno, prima dell’apertura della stagione, erano i favoriti per la vittoria
del terzo, anche se avrebbero dovuto farlo senza me, Shack, Lucius e
Kenny. All’epoca, secondo le regole Ncaa, alle matricole non era permesso
giocare a basket nel campionato universitario.
Era questo il grande John Wooden?
“Tese-e-comode” Wooden?
Conoscevamo i risultati che aveva ottenuto, sapevamo che il suo metodo
aveva prodotto grandi giocatori di pallacanestro ed eravamo entusiasti di
imparare da lui. Quelli erano i primi minuti del primo giorno della nostra
quadriennale carriera universitaria. Eravamo ansiosi di iniziare a studiare le
tecniche che avevano fatto di Ucla una squadra da campionato.
“Tese-e-comode è il segreto del successo di Ucla?” mi chiesi, un tantino
mortificato. Be’, eravamo lì per metterci ai suoi piedi, è vero, ma non
sapevamo che la cosa si dovesse intendere in senso letterale.
Il coach sorrise delle nostre espressioni sconcertate. «Come disse
Benjamin Franklin: “Per colpa di un chiodo”», continuò, il che ci lasciò
ancora più sconcertati. Sospirò e recitò:

Per colpa di un chiodo, si perse lo zoccolo,


per colpa di uno zoccolo, si perse il cavallo,
per colpa di un cavallo, si perse il cavaliere,
per colpa di un cavaliere, si perse la battaglia,
per colpa di una battaglia, si perse il regno,
e tutto per colpa di un chiodo.

Il coach scrollò le spalle. «Volete imparare qualcosa sulla pallacanestro?


Leggete Benjamin Franklin.»
La più grande squadra nella storia della basket rimase allibita a fissarlo.
«Se non tendete bene i calzini», disse con fermezza, «è probabile che
facciano le grinze. Le grinze fanno venire le vesciche. Le vesciche
costringono i giocatori a sedersi a bordo campo. E i giocatori che si siedono
a bordo campo perdono le partite. Quindi non ci limiteremo a tenderli.
Dovremo starci comodi.»
Ci mostrò come fare. E noi copiammo quello che faceva.
Quando finimmo, lui sorrise e disse: «Per colpa di un chiodo, signori».
Eravamo entrati in palestra sicuri di noi, quasi presuntuosi, e avevamo
appena ricevuto la nostra prima lezione di umiltà da coach Wooden.
Sapevamo che molte squadre iniziavano forte il campionato, per poi
soccombere agli infortuni dei giocatori e uscire dal torneo. Qualunque
infortunio che ci impedisse di giocare avrebbe penalizzato l’intera squadra.
Fu quel genere di attenzione ai dettagli che contribuì a fare di John Wooden
il più grande allenatore della storia della pallacanestro universitaria. E
nessuno di noi perse mai un allenamento o una partita per colpa di una
vescica.
Il coach si prese un secondo per assicurarsi di avere tutta la nostra
attenzione. Ce l’aveva eccome.
«Io non bevo e non fumo», cominciò a dire, «e l’unica ragione valida per
essere in piedi dopo le nove o le dieci è se state studiando.» L’accento
dell’Indiana dava alle sue parole un tono nasale, ma l’intensità del suo
sguardo conferiva loro una rilevanza biblica. «La cosa più importante della
vostra vita è la vostra famiglia. La seconda è la religione che professate. La
terza i vostri studi: siete qui per ricevere un’istruzione. La quarta è non
dimenticare mai che, ovunque siate, qualsiasi cosa stiate facendo,
rappresentate questa grande università. E come quinta cosa, se ci rimarrà
del tempo, giocheremo un po’ a pallacanestro.»
Sollevò le sopracciglia. «Domande?»
Non ce n’erano.

Il primo anno a Ucla fu duro, proprio come aveva previsto coach Wooden.
A New York avevo la mia stanza, cosa che la maggior parte dei miei amici
mi invidiava. Dalla finestra vedevo The Cloisters, un museo costruito con
elementi presi da diverse abbazie medievali francesi, circondato da alberi
rigogliosi, e mi immaginavo scalare una delle torri con una spada e uno
scudo, per combattere a fianco dei tre moschettieri, proprio come nel mio
romanzo preferito. Se poi fosse stata coinvolta anche una bella e grata
damigella, tanto meglio, perché in quel periodo le ragazze immaginarie
erano le uniche che frequentavo.
A Ucla, d’un tratto, mi ritrovai a vivere in uno studentato pieno di
estranei, dividendo una stanza minuscola con il mio compagno di squadra
Lucius Allen, un ragazzo vivace del Midwest, con un atteggiamento
iperentusiasta nei confronti di tutto ciò che era californiano. Decisamente
diverso dai ragazzi di uptown New York. A dire il vero, però, c’era qualcosa
di tenero in lui. Il suo entusiasmo spontaneo era contagioso. Diventammo
buoni amici e alla fine giocammo insieme sia nei Milwaukee Bucks sia nei
Los Angeles Lakers.
Ma quel primo giorno ero troppo stordito per apprezzare qualunque cosa.
Mentre percorrevo il corridoio del dormitorio, gli altri ragazzi si fermavano
a fissarmi, senza ritegno. Ormai mi ci ero abituato, ma in qualche modo mi
aspettavo che gli studenti universitari fossero diversi, soprattutto in
California, dove erano abituati alle cose più insolite.
La maggior parte della gente pensa che essere alti sia un grande vantaggio,
ma ci sono alcuni lati seriamente negativi che pochi considerano. Quando a
dodici anni sei 196 centimetri, gli adulti iniziano a trattarti come se fossi già
un uomo. Danno per scontato che l’altezza equivalga a maturità e si
aspettano che tu agisca di conseguenza. Che tu sia più responsabile. Più
degno di fiducia. Più come loro. Questo continua per tutta l’adolescenza. A
diciotto anni ero 218 centimetri, cosa che mi metteva sulle spalle una sorta
di mantello di presunta saggezza e responsabilità che io non volevo. Io
volevo avere diciotto anni, essere una matricola, comportarmi in modo
stupido, a volte. Ma da sempre mi avevano trattato come se quel genere di
comportamento non mi si addicesse, e ora non sapevo come uscire da
quello schema.
L’altro inconveniente di essere molto alti è che a volte mi sentivo come se
vivessi in una realtà parallela, situata leggermente al di sopra di dove
vivevano tutti, e non riuscissi a trovare il modo di scendere. Immaginate
che la vostra testa fluttui quasi cinquanta centimetri al di sopra di quelle
della maggior parte delle altre persone. Loro vi parlano, ma si stancano
anche di allungare sempre il collo verso l’alto. A poco a poco, le
conversazioni si indirizzano verso altri, i cui occhi sono allo stesso livello
dei loro. Era come se un sottile strato di nubi mi separasse da tutti gli altri.
L’altezza intimidisce. Seduto al tavolo di un ristorante, con le lunghe gambe
scomodamente piegate, in modo che potessero starci anche gli altri, mi
sembrava di prendere più posto di quanto mi spettasse. Alle feste nelle case,
mentre tutti si ammassavano ballando sul quarantacinque giri di Shop
Around, di Smokey Robinson, con la testa che quasi sfiorava il soffitto mi
sembrava di consumare più aria di quanto mi spettasse.
Niente di tutto questo era intenzionale, ma accadeva.
Questa è la ragione per cui, quel primo giorno, decisi che ne avevo
abbastanza di farmi fissare e sussurrare alle spalle. Andai dritto nella mia
stanza, spensi la luce e mi addormentai. Passai così il mio primo sabato sera
in California.
Il mattino seguente fui svegliato dallo squillo del telefono. Risposi con un
«pronto» intontito.
Era l’ufficio studenti che mi dava indicazioni per raggiungere il Newman
Center, dove si teneva la messa cattolica. Ringraziai la voce, riappesi e mi
tirai le coperte sopra la testa. Fu la prima domenica della mia vita in cui
persi di proposito la messa. Non ci andai mai più.
Mi sentivo un po’ in colpa, per via di mia madre. Sarebbe stata delusa, e
io odiavo deludere le persone. Lew Alcindor era il tipo che amava
compiacere le persone, un bravo ragazzo che qualsiasi giovane sarebbe stata
orgogliosa di portare a casa dalla mamma.
O almeno lo era stato.
Per un istante mi chiesi che cosa ne avrebbe pensato coach Wooden. Tutti
sapevano che aveva forti valori religiosi. Si aspettava che i suoi giocatori
seguissero le sue orme? “Si fotta”, pensai, sentendomi in una certa misura
un duro, ora che avevo tagliato il primo ponte con la vita passata. Lui era il
mio allenatore e niente di più. Io ero lì per imparare la pallacanestro, e lui
era pagato per insegnarla. Non mi serviva altro da lui.
A volte vorrei avere una macchina del tempo, in modo da poter tornare
indietro e dare un calcio nel sedere al me stesso ragazzo. Be’, avrei presto
imparato che mi sbagliavo, riguardo al mio bisogno di una guida spirituale.

A Ucla gli atleti venivano trattati come star del cinema, ma in quella fama
c’era una falla, perché la maggior parte di noi era al verde. La mia borsa di
studio mi dava diritto all’istruzione e a vitto e alloggio, ma non copriva le
spese. Edgar Lacey, Lucius Allen e io eravamo arrivati a Ucla con
un’ottima reputazione, ma poco o nulla in tasca. Avevamo scelto
quell’università per il nostro futuro, ma questo non rendeva più semplice
affrontare il presente. Eravamo tutti quasi sempre a corto di soldi. E, cosa
peggiore, eravamo circondati da compagni che di soldi ne avevano a palate,
figli di celebrità e magnati del mondo degli affari che guidavano Bmw per
tornare a casa dei genitori a Malibù. Noi potevamo sì e no permetterci di
uscire la sera con una ragazza. Facevamo parte di un programma che
fruttava all’università milioni di dollari, eppure io indossavo pantaloni con
le tasche letteralmente bucate.
Nella nostra stanza allo studentato, la sera, Lucius e io sognavamo di
trasferirci in un ateneo dove fossero un po’ più generosi. Non facevamo sul
serio, erano solo lamentele da matricola. Trasferirsi in un altro ateneo ci
sarebbe costato un anno di eleggibilità per l’Nba e, in realtà, avremmo
dovuto affrontare le stesse restrizioni.
Non parlai mai della mia insoddisfazione con coach Wooden. Non
avevamo ancora sviluppato quel tipo di rapporto. Ero solo e mi stavo
scrollando di dosso almeno parte di quell’identità che i miei genitori
avevano lavorato tanto duramente per darmi. Ma non avevo trovato niente
con cui rimpiazzarla.
Così mi dedicai alla pallacanestro. Sul campo, sapevo sempre esattamente
chi ero e che cosa ci si aspettava da me.

Che cosa speravo di imparare, esattamente, da coach Wooden? Volevo che


in qualche modo traducesse in abilità pratiche il mio implacabile desiderio
di essere un grande giocatore e la speranza di superare persino le mie stesse
aspettative. Controllare la palla, tirare, portare un blocco, muovermi senza
la palla, fare lavoro di squadra. Fatto, fatto e ancora fatto. Ma c’era
qualcos’altro, qualcosa che non riuscivo a esprimere. Volevo che il gioco
avesse un senso nella mia vita, al di là del semplice possesso di una serie di
abilità. Non mi aspettavo che capisse che cosa intendevo. Lui era vecchio,
un anziano cinquantacinquenne. Non c’era alcuna possibilità che
comprendesse quello che stava passando nella testa di un ragazzo come me.
E non avrebbe nemmeno avuto l’occasione di capire, perché la squadra
delle matricole era allenata da Gary Cunningham. Coach Wooden si
concentrava sulla prima squadra, e non aveva granché a che fare con noi.
Ma le due squadre facevano allenamento tutti i pomeriggi alla stessa ora,
con la palestra divisa da una enorme tenda.
«Perché la tenda?» mi chiese Lucius un giorno, mentre facevamo i giri di
riscaldamento.
«Non lo so», dissi io. «Magari non vuole che i suoi ragazzi ci vedano e
prendano brutte abitudini.»
«Vuoi dire come la tua velocità da tartaruga?» disse, e scattò, lasciandomi
indietro. Lo rincorsi, ero piuttosto veloce per la mia taglia, ma nessuno lo
era quanto Lucius.
A volte vedevo coach Wooden che sbirciava da dietro la tenda: se ne stava
semplicemente lì a guardarci. Alcuni dei ragazzi, quando sapevano che ci
stava osservando, acceleravano il gioco, nel tentativo di far colpo su di lui.
Io non cambiavo il mio, perché ce la mettevo sempre tutta. I miei genitori
mi avevano instillato un’etica del lavoro disciplinata, che prevedeva che
cercassi sempre di lavorare più duramente di chiunque altro nella stanza.
Guardavo verso la tenda e lo vedevo studiarci, come se stesse aspettando
che le uova si schiudessero, ma non mi rendeva nervoso, come invece
succedeva ad altri. Ero sicuro di me. Le cose stavano già andando nel modo
in cui volevo che andassero.
Inoltre, anch’io lo stavo studiando tanto quanto lui stava facendo con noi.
Avevo una grande considerazione per la sua reputazione, ma stavamo
parlando di quattro anni della mia vita. E qualunque carriera professionale
sperassi di intraprendere in seguito, dovevo assicurami che la promessa da
milioni di dollari di quell’uomo non finisse per rendere una manciata di
spiccioli. La mia non era arroganza, ma spirito di conservazione,
sopravvivenza. Quella era la mia unica opportunità e dovevo metterla a
frutto.
Ogni tanto coach Wooden chiamava coach Cunningham per dargli qualche
nome, e alcuni di noi venivano spediti di là ad allenarsi con la prima
squadra. In questo modo ci aiutava a sviluppare le nostre capacità, ma ci
stava anche dando un assaggio di quello che potevamo aspettarci se
avessimo tenuto duro. Avremmo giocato in una squadra d’élite che già si
muoveva con la precisione di un balletto, ma colpiva con la forza di
un’unità Swat. La differenza tra allenarsi con la squadra delle matricole e
allenarsi con la prima squadra era la stessa che c’era tra guidare una
Volkswagen o una Ferrari.
Gli allenamenti erano molto strutturati, organizzati al minuto, al secondo,
al nanosecondo. Sapevamo che ogni mattina il coach passava due ore a
preparare la scaletta delle ore di allenamento di quel giorno. Scriveva tutto
su schede 8x13 e aveva un blocco con gli anelli su cui annotava gli appunti
dettagliati di ogni sessione di allenamento. La maggior parte degli altri
allenatori si sarebbe limitata a tirare fuori la solita lista di esercizi che usava
ogni anno con tutte le squadre, ma la filosofia del coach era che le squadre
erano molto più fluide. Gli altri allenatori vedevano la loro squadra come un
mazzo di carte. Se una carta usciva dal gioco, bastava prenderne un’altra
dal mazzo. Le carte erano intercambiabili, perché quegli allenatori ne
guardavano solo il dorso. Coach Wooden invece guardava al valore
nominale di ognuna. Non c’erano due carte uguali, proprio come non
c’erano due giocatori uguali. Cosa ancora più interessante, si rendeva conto
che un particolare giocatore oggi non era già più lo stesso di ieri, che ogni
volta che un giocatore migliorava o si infiacchiva, influenzava la capacità
dell’intera squadra di capirsi e prevedere l’uno le azioni dell’altro.
A volte il coach saliva fino all’ultima gradinata del Pauley Pavilion e ci
osservava giocare da lassù; dovevamo sembrare un branco di scarafaggi che
correvano in tutte le direzioni. Altre volte se ne stava a bordo campo,
spostandosi con noi giocatori come se fosse la nostra ombra.
Non avevo mai visto un allenatore comportarsi così. Avevo sentito
qualcuno parlare di visione d’insieme, ma coach Wooden vedeva il gioco in
Panavision. E allo stesso tempo lo vedeva anche a livello microscopico.
Ogni mattina scribacchiava sulle sue schede gli esercizi per la squadra, e
altri personalizzati per i singoli individui. Non avevo mai incontrato
nessuno con un tale occhio per il dettaglio e una tale dedizione nei confronti
dei giocatori; li vedeva come persone e non come numeri.
A volte i miei compagni di squadra e io ridevamo per quanto appariva
sempre concentrato. In segreto, però, eravamo contenti che prendesse il
nostro gioco tanto seriamente e non fosse disposto ad accettare alcun
compromesso, quando si trattava di ottenere il meglio per noi. Per lui, il suo
lavoro era aiutarci a scoprire quanto in là dovessimo spingerci per ottenere
il meglio da noi stessi. Risultò essere molto più in là di quanto ognuno di
noi immaginasse. E molto più difficile arrivarci.
Sì, faceva di tutto per essere il migliore allenatore possibile, ma non gli
interessava essere per noi un amico o un padre. Era il nostro coach, e questo
significava che aveva una responsabilità nei confronti di ognuno di noi, una
responsabilità che era più una vocazione che un lavoro. Non solo si vestiva
come un predicatore evangelico itinerante del Midwest, ma cercava con
fervore di fare di noi delle brave persone, oltre che dei bravi giocatori.
Allora noi non lo capivamo, o eravamo così occupati a giocare a basket che
non ci importava.
Ma non puoi fare da guida a dei giovani suggestionabili per quattro anni
senza cambiarli ed esserne cambiato. Con la squadra delle matricole poteva
aver iniziato come l’allenatore distante che pensava solo alla pallacanestro,
ma poi la sua innata comprensione prese il sopravvento e, molto presto, da
istruttore reclute passò ad assomigliare sempre più al maestro Miyagi di
Karate Kid.

La cosa più sbagliata che la gente possa pensare di coach Wooden è che
mirasse a vincere. È un errore facile da commettere, perché è stato uno
degli allenatori che hanno vinto di più nella storia. Ma non è così. In realtà,
era proprio il contrario.
«Chiedere a un atleta se gli piace vincere è come chiedere a un broker di
Wall Street se gli piacciono i soldi», ci disse un giorno. «Certo che
vogliamo vincere. Io adoro vincere. Ma vincere non è il nostro obiettivo.»
Non aprii bocca, era ovvio che si trattava di un’eresia nel mondo dello
sport. C’è chi è stato messo al rogo per molto meno.
Uno dei giocatori del primo anno alzò la mano. «Coach Sanders dice:
“Vincere non è importante; è l’unica cosa che conta”.» Sorrise appena,
come se gliel’avesse fatta in barba.
Il coach scosse la testa. Si diceva che l’allenatore di football di Ucla,
Henry Russell “Red” Sanders, avesse pronunciato quelle parole immortali
nel 1949, dopo una partita persa contro University of Southern California.
Immediatamente, gli allenatori di ogni dove l’avevano utilizzata come un
mantra per spronare i loro giocatori nella frenesia della vittoria.
«Vincere è l’effetto collaterale del lavoro duro», spiegò con pazienza il
coach, «così come una perla è l’effetto collaterale della lotta dell’ostrica
contro un parassita.»
«Pensavo fosse un granello di sabbia», intervenne qualcun altro.
Il coach lo ignorò. I fatti erano fatti. «L’obiettivo è il duro lavoro. La
ricompensa è la soddisfazione di esservi spinti al limite, dal punto di vista
fisico, emotivo e mentale. È mia ferma convinzione che quando in una
squadra tutti lavorano il più duramente possibile, fino a provare un moto di
soddisfazione e serenità in fondo al cuore, quella squadra è pronta a tutto e
ad affrontare tutto e tutti. A quel punto, vincere di solito è inevitabile.»
Per uno studente del primo anno, quella era una follia. Al coach era forse
preso un colpo? Le vittorie si traducevano in più pubblico alle partite,
donazioni degli ex alunni e denaro da parte delle televisioni; se si perdeva,
non era la stessa cosa. Il suo lavoro e le nostre borse di studio dipendevano
dal fatto che vincessimo: questa era la realtà.
Mi ci vollero anni per apprezzare appieno quella lezione. Sono convinto
che anche i discepoli, quando Gesù disse loro la prima volta di porgere
l’altra guancia, se qualcuno li avesse colpiti gli avranno probabilmente
risposto: “Cosa???”. Dovevano abituarsi all’idea. Nonostante fossi solo al
primo anno, ammiravo il pensiero del coach, anche se lo trovavo un po’
troppo metafisico. Per quanto mi riguardava, bisognava lavorare duro per
battere gli avversari. La soddisfazione stava nel lasciare il campo con i
tifosi che esultavano per la tua squadra, e non per l’altra. Ma pian piano,
partita dopo partita, stagione dopo stagione, iniziai a vedere la vittoria come
la vedeva lui.
Una cosa che mi spinse nella sua direzione fu osservare come reagiva
dopo una vittoria o una sconfitta, in particolare quando si trattava di una
partita importante. E nessuna partita fu più importante di quella del 20
gennaio 1968 contro i Cougars della University of Houston, un incontro che
tutti definirono «la partita del secolo». Fu la prima partita della stagione
regolare Ncaa a venire trasmessa in televisione in tutta la nazione in prima
serata. Avevamo giocato contro i Cougars la stagione precedente, nelle
semifinali Ncaa e li avevamo schiacciati 73-58, finendo poi per vincere il
torneo. Vista la nostra serie vincente di quarantasette partite, eravamo di
gran lunga i favoriti, ma perdemmo negli ultimi secondi 71-69. Io giocai la
partita peggiore di tutta la mia carriera universitaria, con meno del 50 per
cento dal campo. Naturalmente diedi la colpa all’infortunio all’occhio che
avevo subito in partita la settimana prima. La squadra ne fu devastata.
Fummo umiliati in televisione, davanti a milioni di tifosi. Ma il coach entrò
tranquillo nello spogliatoio, scrollò le spalle e disse: «Stasera sono stati loro
la squadra migliore». Non accampò scuse, non attribuì colpe. Non cercò di
denigrare gli avversari.
Provai un misto di risentimento e invidia nei suoi confronti. Il mio
stomaco si stava contorcendo, come se avessi ingoiato un barracuda e
questo stesse azzannando tutto ciò che incontrava, mentre il coach
sembrava fresco e allegro, pronto per un altro round. Avrei voluto sentirmi
così anch’io. Stava andando a casa e avrebbe senza dubbio dormito un
sonno tranquillo. Io sarei rimasto sdraiato sul letto a fissare il soffitto,
rivivendo ogni azione, ogni punto, ogni tiro sbagliato.
Né i Cougars né la nostra squadra persero un’altra partita per il resto della
stagione, il che ci portò a una rivincita alle semifinali. Questa volta li
distruggemmo, 101-69. Negli spogliatoi eravamo esultanti, festeggiavamo
la nostra vendetta. Entrò coach Wooden, sul volto la stessa espressione di
quando avevamo perso. Si congratulò con noi per la partita ben giocata. Si
assicurò che ringraziassimo il coach Jerry Norman, la cui difesa diamond-
and-one ci aveva aiutato a contenere il miglior realizzatore dei Cougars,
Elvin Hayes, che aveva una media di 37,7 punti a partita ma quella sera ne
aveva segnati solo dieci.
Poi il coach uscì dalla stanza, e io sapevo che sarebbe tornato a casa per
un altro sonno tranquillo. Io sarei rimasto sveglio a festeggiare e, più tardi,
sdraiato a letto, a rivivere ogni azione, ogni punto, ogni tiro sbagliato.
Anni dopo, gliene chiesi ragione. «Umile nella sconfitta, modesto nella
vittoria», gli dissi. «Era così buono da essere quasi irritante.»
Questo lo sorprese. «Davvero? Non ci avevo pensato.»
«Sì, faceva fare a noi poveri mortali la figura dei cattivi.»
Rise. «Credimi, Lewis, sono mortale come chiunque.»
«Solo se chiunque è Gandhi.»
Rise di nuovo. «Vi ho sempre detto che l’obiettivo non era vincere, ma
fare del vostro meglio.»
«Da dove ha preso questa idea? Dalla Bibbia?»
Scosse la testa. «Kipling.»
«Il libro della giungla?»
«No, la poesia Se. La conosci?»
«Vagamente. L’abbiamo studiata alle superiori.»
«È un padre che dà consigli al figlio. La chiave è la seconda strofa. “Se
saprai sognare, ma senza fare del sogno il tuo padrone; / se saprai pensare,
ma senza fare dei pensieri il tuo scopo; se saprai confrontarti con Trionfo e
Disfatta, / trattando quei due ciarlatani allo stesso modo”. Alla fine dice al
figlio che, se seguirà le quattro strofe di consigli, “tua sarà la terra con tutto
ciò che contiene / e, cosa più importante, figlio mio, sarai un Uomo!”»
«Quattro strofe di consigli. Credo che abbia finalmente trovato qualcuno
che le dà filo da torcere.» Mi piaceva prenderlo in giro per la sua
conoscenza enciclopedica degli autori e la sua capacità di citarli ogni volta
che doveva spiegare qualcosa. Un insegnante di letteratura fino in fondo.
Ironia della sorte, questo fastidioso “sassolino” alla fine divenne la mia
perla: scrivendo, sono diventato famoso per le mie citazioni di scrittori,
poeti, canzoni e film, che utilizzo quando devo illustrare un passaggio per
me importante.
Quando la gente mi chiederà delle mie influenze letterarie, immagino che
dovrò rispondere Shakespeare, Langston Hughes, James Baldwin e coach
Wooden.
«I versi cui mi riferivo, Lewis, sono quelli che dicono che il Trionfo e la
Disfatta sono uguali. Sono entrambi ciarlatani, perché sono momentanei. È
più importante diventare un uomo di principi. La felicità duratura viene da
lì.»
«In altre parole, a volte si vince, a volte si perde.»
Finse esasperazione, ma sapeva che lo stavo prendendo in giro, come al
solito.
Aggiunsi: «Kipling non dice qualcosa a proposito del riempire ogni
minuto correndo? Ricordo qualcosa del genere».
«“Se saprai riempire ogni inesorabile minuto / coprendo sessanta secondi
di strada a passo di corsa”.»
«Come i suoi allenamenti», dissi io.
Lui rise annuendo. «Come i miei allenamenti.»
Mi ci volle un po’ – okay, anni – per arrivare a trattare Trionfo e Disfatta
come ciarlatani. Non è un equilibrio facile da mantenere, quando il tuo
sostentamento dipende dal fatto che tu vinca. Verso la fine della carriera mi
è stato più facile sostenere quella prospettiva, uscire dal campo dopo una
vittoria o una sconfitta con la stessa sensazione di fondo che quanto appena
successo fosse ormai passato, e di aver giocato dando tutto me stesso. Dopo
essermi ritirato, cominciai a scrivere a tempo pieno. Libri, articoli,
documentari, romanzi e persino fumetti. Ogni lavoro era una sfida, perché
sapevo che ci sarebbero state persone pronte a criticarmi: «Limitati al
basket, Kareem». Ma io scrivevo, riscrivevo, limavo e riscrivevo ancora,
mettendo in ogni pagina tutto ciò che avevo dentro. Quel processo di
cercare di fare del mio meglio mi dava gioia. Quello che sarebbe successo
in seguito, se quello che avevo fatto sarebbe stato un trionfo o una disfatta,
non contava altrettanto.
La cosa bella di avere il coach come amico per la vita è stata che, ogni
volta che ho vacillato, lui era lì a ricordarmelo. E mi piace pensare di
esserci stato, nei suoi trionfi e nelle sue disfatte, a tendergli una mano cui
appoggiarsi.

La regola d’oro del basket – e della vita – di coach Wooden era una frase
breve: «Fallire la preparazione significa prepararsi a fallire». L’aveva presa
in prestito da Benjamin Franklin, ma la fece sua, applicandola a ciò che
faceva. A volte la pronunciava ad alta voce, altre piano, ma la diceva
spesso, come se volesse che le parole penetrassero nelle nostre scatole
craniche e nei nostri cervelli, scritte con lettere al neon lampeggianti. «Il
talento è la cosa più importante», diceva. «Nessuno vince senza un grande
talento… Ma è anche vero che non tutti coloro che hanno talento vincono.»
Il talento ti portava solo fino a un certo punto; l’allenamento faceva il
resto.
Uno dei modi in cui applicava questa filosofia era attraverso la
preparazione atletica. Avendo giocato fino all’anno prima in una squadra
campione nazionale e avendo solo diciotto anni, pensavo di essere già in
ottima forma. Il coach mi dimostrò che stavo sbagliando.
«La squadra più in forma generalmente vince», ci diceva. «Volete sapere
perché così tante partite vengono vinte o perse negli ultimi quindici minuti?
Perché una squadra ha finito la benzina, mentre l’altra no. Noi saremo
sempre l’altra squadra. I giocatori stanchi sbagliano più canestri, difendono
in modo meno aggressivo, strappano meno rimbalzi. Quelli non saremo mai
noi.»
E se qualcuno della nostra squadra osava menzionare la fortuna, con frasi
tipo: «Ragazzi, questo sì che è stato un tiro fortunato» o «In quella partita
hanno solo avuto fortuna», veniva rimbeccato con l’inevitabile: «Più
duramente ti alleni e più sarai fortunato».
Dal primo giorno del mio anno da matricola fino all’ultimo allenamento
prima della laurea, non abbiamo fatto altro che correre. E poi correre
ancora. Il programma di allenamento di John Wooden non conosceva
scorciatoie. Facevi un esercizio fino a che non lo facevi bene, e poi lo
facevi di nuovo. La filosofia di base imparata in quei lunghi pomeriggi mi
ha permesso di protrarre la mia carriera da professionista per vent’anni, più
di qualunque altro giocatore. Ho sempre pensato che il regime di
preparazione atletica al quale sono stato sottoposto a Ucla fosse la ragione
principale che mi ha permesso di giocare in Nba ad alto livello molto più a
lungo di giocatori come, ad esempio, Wilt Chamberlain. Wilt si è sempre
impegnato per essere il più forte di tutti. Ma non era in grado di correre in
campo e non era flessibile. Invecchiando, ciò che richiedeva velocità e
agilità uscì sempre più dalla sua portata, perché lui non faceva altro che
sollevare pesi.
A Ucla gli allenamenti si tenevano di solito il pomeriggio, dalle due e
mezzo alle quattro e mezzo e questa era la ragione per cui il coach ci disse
che voleva che portassimo i capelli corti: la sera era più fresco, e lui era
preoccupato che, se fossimo usciti al freddo con i capelli bagnati, avremmo
potuto prenderci un raffreddore; come lui stesso sottolineava, se ci
ammalavamo non potevamo giocare; e, se non potevamo giocare,
danneggiavamo l’intera squadra. Non osai mai fargli notare che i raffreddori
erano causati dai virus, e non dai capelli bagnati.
Dopo l’allenamento, ero così esausto che dovevo tornare nella mia stanza,
collassare a letto e fare un sonnellino fino alle nove di sera. Poi mi
svegliavo, studiavo fino a mezzanotte e tornavo a dormire. Non proprio
l’eccitante stile di vita che la gente immaginava.
Quel severo regime di allenamento mi fu molto utile il primo anno da
professionista. Quando arrivai in Nba sapevo segnare e passare la palla,
stoppare e andare a rimbalzo. Ma avevo anche un’altra abilità di cui non mi
rendevo conto e che mancava a molti dei miei compagni di squadra. Avevo
assimilato la capacità di lavorare al massimo delle possibilità nella vita
quotidiana. Non lo mettevo mai in discussione, lo facevo e basta. Ero
l’attaccante in condizioni migliori, alla pari di tutte le nostre guardie. Nei
300 metri ero il più veloce della squadra.
All’inizio della mia stagione d’esordio in Nba, stavamo giocando a
Cleveland ed ero l’unico in campo a darci davvero dentro. Segnai 37 punti,
conquistando una quindicina di rimbalzi, avevo stoppato qualche tiro e fatto
un paio di assist, ma nessun altro stava giocando seriamente. Il nostro
allenatore, Larry Costello, era furioso. Negli spogliatoi, dopo la partita,
strapazzò tutti quanti. Quando arrivò a me, si fermò, mi indicò e disse:
«Questa è l’unica persona che là fuori si sta dando da fare». Come
esordiente, apprezzai quel riconoscimento, perché significava che mi ero
guadagnato il rispetto dei compagni di squadra. Ringraziai tra me e me
coach Wooden, per averci spinto a raggiungere il massimo della forma.
Ci allenavamo anche su tutti gli esercizi di squadra che il coach
concepiva. E se voleva che uno di noi lavorasse su qualcosa in particolare,
ci esonerava dagli esercizi per qualche minuto e lavorava con noi. Durante
gli allenamenti non parlava molto. Perlopiù ci insegnava le cose
facendocele vedere di persona. Quando voleva che ci spostassimo in un
determinato punto, ci spostava lì. Quando voleva che facessimo un certo
passaggio, ci mostrava come farlo. Facevamo gli esercizi e giocavamo tra di
noi. L’unica cosa per cui non aveva tempo, durante gli allenamenti, era
perdere tempo. Correvamo di esercizio in esercizio, di postazione in
postazione. Se ci rilassavamo un secondo, lo sentivamo esortarci: «Forza,
ragazzi, andiamo! Se siete troppo stanchi per allenarvi, siete troppo stanchi
anche per giocare».
Il coach aveva una regola per la quale durante gli allenamenti non
potevamo bere acqua. Ci dava alcune compresse di sali minerali per
prevenire i crampi. Non ci spiegò mai questa sua filosofia. Forse pensava
che la privazione ci avrebbe reso più forti, come i legionari francesi costretti
alle marce forzate nel deserto. O forse pensava che le frequenti pause per
l’acqua avrebbero rallentato gli allenamenti. Quale che fosse la ragione, per
noi era dura. Alcuni giocatori succhiavano di nascosto gli asciugamani
bagnati. Ma, appena possibile, sgattaiolavamo via per raggiungere le
fontanelle. Ricordo di avergli raccontato una volta di come scappavamo a
bere quando non ci guardava o era distratto. Gli feci un gran sorriso
compiaciuto, orgoglioso di avergliela fatta in barba.
«Lewis», ribatté lui, «credi davvero che non fossi io a darvene
l’occasione? Non eravate la mia prima squadra, sai?»
A volte lavorava da solo con me. Mi piacevano quelle sessioni private,
perché sapevo che in ognuna imparavo qualcosa che mi avrebbe reso un
giocatore migliore. Insieme dovevamo stonare un po’: un uomo di 178
centimetri che a bordo campo mostrava le basi del rimbalzo al suo centro di
218. «Il rimbalzo è tutto una questione di posizione, Lewis», diceva con
enfasi. «Se sei in quella giusta, la forza non fa alcuna differenza. I contatti
sotto canestro non sono altro che il tentativo di ottenere la posizione
migliore. Se sarai più veloce del tuo avversario nel raggiungere quella
posizione, annullerai ogni vantaggio fisico.» Quando insegnava, di solito
teneva un pallone in mano e cercava di guardarmi negli occhi, o almeno
quanto più possibile vicino a quell’altezza riuscisse ad arrivare. In qualche
modo, quando lavoravamo su queste cose, l’autorità nella sua voce lo
faceva sembrare più alto.
Fatti gli esercizi, giocavamo tra di noi. Quello che in partita spesso
sembrava avvenire spontaneamente, era in realtà il risultato di ore di
pratica, che facevano sì che alla fine le nostre reazioni diventassero istintive
e istantanee. Non avevamo schemi di gioco prestabiliti. Avevamo uno
schema offensivo di base – tu lì, tu lì, tu in quell’angolo, fermati lì – e poi
sviluppavamo diverse opzioni, a seconda di come difendevano i nostri
avversari. Il nostro attacco era strutturato per riconoscere le opportunità
come gruppo e approfittarne.
Ogni allenamento finiva con i tiri liberi. Per potercene andare dovevamo
realizzare due tiri uno di seguito all’altro; dovevamo starcene lì sulla linea a
tirare fino a che non ci riuscivano. E poi, appena prima di andare via, il
coach ci rammentava (le parole a volte erano diverse, ma il pensiero era
sempre lo stesso): «Ricordate, tutto quello per cui abbiamo lavorato
duramente oggi può venire distrutto se tra adesso e il nostro prossimo
allenamento prenderete una decisione sbagliata».
Le tre decisioni sbagliate in cima alla lista erano droga, alcol e sesso.
L’alcol al campus era un genere di prima necessità; una tradizione
riconosciuta, un modo accettabile di scaricare la tensione. Eravamo a metà
degli anni Sessanta, e le droghe inondavano i campus di tutto il Paese,
contribuendo ad alimentare la rivoluzione sessuale, due cose che avevano
guadagnato popolarità troppo in fretta, per i valori conservatori del coach.
Stava combattendo una battaglia persa in partenza contro i più grandi
cambiamenti culturali e politici della storia americana.
Nonostante le raccomandazioni, qualcuno di noi, in squadra, fumava
marijuana. Io mi ci ero imbattuto a New York e di tanto in tanto me l’ero
concessa, con i miei amici. All’università, però, farne uso sembrava più
hippy e più un’affermazione di anticonformismo che un modo per andare su
di giri. Inoltre, mi aiutava con le mie emicranie, che stavano diventando più
frequenti. Sperimentai anche per la prima volta l’Lsd, scoprendo tuttavia
presto che la sensazione di sentirmi senza controllo non mi piaceva.
Coach Wooden si intrometteva nelle nostre vite sessuali solo quando
pensava che costituissero un pericolo. E il pericolo maggiore che
intravedeva erano le relazioni interraziali. Per il coach erano un fenomeno
piuttosto recente. Non si rendeva conto di quanto diffuse fossero nel
campus, soprattutto tra i suoi giocatori. Parlò in privato con Mike Warren,
che usciva con una ragazza bianca, e con Kenny Heitz, che usciva con una
ragazza di origine asiatica, mettendoli in guardia contro le possibili
ripercussioni sociali. Non espresse mai obiezioni sull’idea delle relazioni
interrazziali in sé, ma era cresciuto in un posto in cui il Ku Klux Klan
avrebbe reagito a una cosa del genere con estrema violenza e si
preoccupava che ci potesse accadere qualcosa di simile. Voleva proteggere i
suoi ragazzi, ma senza rendersi conto di quanto rapidamente la cultura
stesse cambiando. Erano arrivati i Beatles. Continuavano le marce per i
diritti civili. Erano iniziate le proteste contro la guerra. Le donne
chiedevano diritti che la maggior parte della gente nemmeno si era accorta
fossero stati loro negati. La rivoluzione era nell’aria, niente avrebbe potuto
fermarla, nemmeno un allenatore benintenzionato.
Il coach aveva una fede nel sistema anacronistica ma affascinante: come
un orologio da taschino o le gite in auto in campagna la domenica. Anche
quando non era d’accordo con il governo, credeva che alla fine avrebbe
fatto la cosa giusta, perché la gente, persino i politici, era fondamentalmente
buona. Durante uno dei ritrovi della squadra, Bill Walton raccontò quanto il
coach si fosse arrabbiato con lui quando era stato arrestato a una
manifestazione per la pace. Era andato a prenderlo in prigione e lo aveva
accompagnato a casa senza dire una parola, ma fremendo di rabbia. Alla
fine, aveva detto: «Come puoi fare una cosa del genere? Mi stai deludendo.
Stai deludendo Ucla. Stai deludendo i tuoi genitori». Quando Bill aveva
espresso la sua rabbia per la guerra e quanto fosse sbagliata, a sorpresa il
coach si era detto d’accordo. Ma, come era prevedibile, la soluzione che
proponeva era tanto singolare quanto rispettosa. «Farsi arrestare non è il
modo giusto», aveva detto. «Quello che dovresti fare è scrivere lettere di
protesta.»
Per me, per Bill, per gli studenti che giocavano per il coach in quel
periodo, si trattava della solita vecchia frase che chi deteneva il potere
aveva usato per secoli in risposta alle richieste di giustizia sociale:
«Aspettate il vostro turno. Scrivete lettere. Lettere con parole forti. Vi
risponderemo a tempo debito». “A tempo debito” significava “mai”.
Il coach non portò mai la politica in squadra, ma noi la portavamo a lui.
Non discuteva delle sue convinzioni con noi, non ci chiese mai che cosa
pensassimo. Non gli interessavano le nostre opinioni, ma come ci
comportavamo. Sia in campo sia fuori, si aspettava che rispecchiassimo i
valori di correttezza nel gioco e rispetto per gli altri. Purtroppo, i tempi
stavano cambiando in fretta e in modo così drammatico che il modo in cui
si potevano rispecchiare tali valori non era più evidente quanto un tempo.
La gente mi chiede sempre di discussioni o dissensi che posso aver avuto
con il coach. Ma la verità è che eravamo una squadra vincente e quando
vinci, anche se quello non è il tuo obiettivo, non fai niente per mettere a
rischio quel successo. Se ci avesse detto di dormire con la biancheria sotto
il cuscino, probabilmente lo avremmo fatto. Invece ci tartassava con la
storia della preparazione, al punto che quando affrontavamo un avversario,
eravamo così sicuri di noi da essere pronti a qualunque cosa potesse
accaderci.
L’allenamento non ci rendeva perfetti. Nei quattro anni che trascorsi a
Ucla, due partite le perdemmo.
La filosofia di coach Wooden si è rivelata una lezione che mi ha
accompagnato per tutta la vita. Quando devo fare un discorso, lo scrivo, poi
lo provo, e quindi lo provo ancora. Quando scrivo un articolo o un libro,
faccio ricerche su ricerche, e poi un altro po’ di ricerche. Il mio avversario
ora sono io, la mia inclinazione alla pigrizia. La disciplina imparata con gli
esercizi di preparazione atletica mi ha permesso di affrontare il mio infido
avversario e batterlo regolarmente.

Sopra ogni cosa, il coach dava importanza al lavoro di squadra. Erano le


squadre a vincere le partite, non le singole persone. Una buona squadra
lasciava spazio agli individui, affinché potessero crescere, ma la loro
crescita doveva portare tutti con sé. Era quello il patto. All’interno della
squadra, non c’erano Robin o Batman. Eravamo la Justice League, tutti con
capacità uniche, nessuno più speciale degli altri.
È per questo che il coach odiava che ci mettessimo in mostra durante gli
allenamenti. Non ci permetteva nemmeno di schiacciare. L’allenamento era
una sessione di lavoro: correvamo, facevamo esercizi, giocavamo. Non
provavamo movimenti spettacolari. Willie Naulls, che esordì con Ucla a
metà anni Cinquanta e aveva influenzato la mia scelta di frequentarla, mi
aveva raccontato come aveva dovuto imparare a giocare secondo il sistema
Wooden. Dopo un paio di passaggi no-look, il coach gli aveva detto secco:
«Niente giocate fantasiose, là fuori». Un compagno di squadra di Willie,
Johnny Moore, lo aveva preso da parte, avvertendolo: «Tieni entrambe le
mani sulla palla e potrai giocare. Evita quei tuoi passaggi senza guardare, o
resterai in panchina a guardar giocare me». Presi il consiglio di Willie con
molta serietà.
La guardia Johnny Green, che giocò per Ucla dal 1959 al 1962, aveva
imparato la stessa lezione dopo essere stato ripreso dal coach. «Johnny è
una specie di mistero, per un allenatore», disse una volta Wooden a un
giornalista. «Faccia attenzione agli esercizi di riscaldamento prima della
partita. Lo troverà in campo che cerca di fare canestro facendo rimbalzare la
palla. Io gli dico che non penso proprio che un tiro del genere gli servirà…
e la volta dopo fa qualcosa di ancora più stupido.»
Wooden poteva non amare le giocate fantasiose, ma era abbastanza
flessibile da apprezzare le innovazioni quando funzionavano davvero. Molti
tifosi di pallacanestro forse non sanno che il passaggio lob nacque proprio a
Ucla, grazie a Larry Farmer e Greg Lee. Credo che se avessero provato a
fare un passaggio del genere prima, in allenamento, e coach Wooden li
avesse visti, non lo avrebbero rifatto mai più. Ma accadde in modo
spontaneo durante una partita. Larry Farmer stava correndo lungo la linea
laterale in un tipico contropiede stile Ucla. Era il nostro gioco. Ma quella
volta, quando la difesa si posizionò, lui aggirò il suo difensore e, mentre
tagliava a canestro, Greg Lee, un giocatore di pallavolo di prim’ordine, gli
fece un lob al di sopra della difesa, neanche stesse servendo un laterale per
una schiacciata. Farmer prese la palla a mezz’aria e la appoggiò a canestro.
Il lob si sviluppò direttamente dall’attacco standard; non era programmato,
successe e basta. «Fu un’anomalia» spiegò Farmer. «Non ne avevamo mai
parlato, non l’avevamo mai provato. Non avevamo un segnale. Ci
guardavamo negli occhi e lo facevamo, due, tre volte a partita. Se non
avesse funzionato, o il passaggio fosse stato intercettato, il coach lo avrebbe
vietato. Ma funzionava così bene che alla fine un giorno disse:
“Probabilmente dovremmo inserirlo negli allenamenti”.»
Era pallacanestro jazz al meglio delle sue potenzialità: una spontanea
combinazione di note che faceva schizzare il pezzo a un altro livello. Il fatto
che il coach avesse riconosciuto l’innovazione e fosse stato in grado di
incorporarla nel suo gioco, dimostrava che con la sua squadra stava facendo
del jazz, non la stava solo dirigendo da fuori. Come lui stesso diceva: «Gli
errori non sono fatali, ma fare l’errore di non cambiare potrebbe esserlo».
Il tiro che davvero intrigò il coach fu il mio gancio cielo. Lo chiamava
sempre il «gancio piatto di Lewis». Negli anni Cinquanta, un grande
giocatore professionista di nome George Mikan aveva reso popolare il
gancio. A quelli che lo sapevano fare piaceva, perché era molto difficile da
stoppare. A me lo insegnò in quinta elementare George Hejduk, uno
studente del Manhattan College. Ero alla St Jude’s e il mio allenatore,
Farrell Hopkins, gli aveva chiesto di lavorare con noi bambini. «Ho questo
ragazzino, Lew Alcindor», aveva detto a George. «Non posso farlo giocare.
Quando prende la palla, la perde. Non sa palleggiare e non sa tirare.» Ma
nella pallacanestro c’è una massima: «L’altezza non si può insegnare». Io
ero già 183 centimetri; dovevo solo imparare tutto il resto.
Hejduk mi insegnò l’esercizio Mikan. Come lo descrisse lui stesso: «Dissi
a Lew: “Portati nell’area dei tre secondi, sulla sinistra, a due passi dal
canestro verso la linea dei tiri liberi. Alza bene le mani: ti passerò la palla.
Tienila così, alta. Non voglio che la abbassi, non voglio che palleggi. Solo
tienila alta, vai verso la linea di fondo, allontanandoti dal canestro, guarda il
tabellone da sopra la spalla sinistra e appoggiaci la palla”».
George e io ci lavorammo per non più di mezz’ora, e solo sul lato sinistro.
Fin dall’inizio sentii che stavo facendo la cosa giusta. Fu il primo
movimento della pallacanestro che imparai. Non sempre la palla finiva
dentro, non sempre colpiva il cerchio o il tabellone, ma mi allenavo con
diligenza.
Il padre del mio amico Mike Kelley era il custode della St Jude’s. L’anno
della quinta mi diede un mazzo di chiavi, in modo che potessi allenarmi la
sera e quando la palestra non veniva usata. Dovevo essere a casa prima
delle undici, ma dalle nove e mezzo alle dieci e tre quarti mi esercitavo nel
tiro alla George Mikan ancora, ancora e ancora. Il movimento diventò
naturale; la capacità di infilare la palla nel cesto venne dopo ore di pratica.
Eseguito in modo corretto, è un tiro elegante da vedere, perché richiede
ritmo ed equilibrio. Oscar Robertson lo paragonò a una piroetta.
Diventai così bravo che, arrivato in terza media, insieme ai miei amici
Lefty e Pee Wee, giocai contro George, Arthur Kenny e Angelo Chiarello a
Dyckman Park. Erano tutti in età da università… e li battemmo!
Insegnandomi quel tiro, George aveva fatto un lavoro così buono che
nemmeno lui riusciva a stopparlo!
Ci lavorai per tutti gli anni della scuola e poi per il resto della carriera, sia
da sinistra sia da destra, e alla fine senza usare il tabellone. Era una cosa che
potevo fare sul campo da basket senza sembrare stupido. Su dritto, giù
dritto. Quasi inarrestabile.
Fino alla terza media, pensavo che fosse il tiro più straordinario della
pallacanestro. Ma, arrivato in terza media, schiacciai per la prima volta. Un
giorno non sapevo farlo, il giorno dopo sì. Era come se un giorno non
avessi saputo volare e il giorno dopo avessi imparato. Nella schiacciata non
c’è niente di elegante. È un movimento di pura potenza, una dimostrazione
compiaciuta di predominio. Ricordo che tutti i compagni mi guardavano
ammirati. «Lew sa schiacciare! Lew sa schiacciare!» Dopo quell’evento, mi
misi a camminare dandomi un po’ più di arie, come se il mondo e io
avessimo iniziato a capirci.
A coach Wooden, però, la schiacciata non piaceva. Pur apprezzandone il
risultato, non gli piaceva dal punto di vista estetico. Pensava che la
pallacanestro fosse un bel gioco e dovesse essere giocato con eleganza.
Anni più tardi, a un giornalista del «Los Angeles Times» disse: «Se uno dei
miei giocatori, oggi, facesse una di quelle fantasiose schiacciate, lo metterei
in panchina». Ma, arrendendosi all’evidenza, ammise: «Non ho detto
quanto ci rimarrebbe, in panchina, però».
Il mio arrivo a Ucla costrinse il coach a rivedere molte sue idee. Per la sua
evoluzione come allenatore sono stato al tempo stesso un esperimento e un
catalizzatore. Lui non aveva esperienza con giocatori alti come me.
«Quando Lewis arrivò al campus, non sapevo esattamente come avrei
potuto utilizzare al meglio un giocatore così alto», scrisse anni più tardi.
«Avevo alcune idee, ma prima di allora non avevo avuto occasione di
determinare in modo valido se fossero sensate o no. Tutte le idee che
pensavo avrebbero funzionato con un giocatore alto avevano bisogno di un
giocatore alto per poter essere verificate.»
Immaginare come utilizzarmi al meglio lo costrinse a rivedere le sue
certezze come allenatore. Dovette improvvisare, innovare. Dovette
imparare a fare del jazz.
Il primissimo sentore di quello cui avrebbe potuto portare la nostra
collaborazione lo ebbe quando la nostra squadra di matricole inaugurò il
Pauley Pavilion, 13.000 posti a sedere, il 27 novembre 1965, in una partita
contro la prima squadra. Quell’anno la prima squadra era data come
favorita per la vittoria del campionato, che sarebbe stato il suo terzo
consecutivo. Davanti a 12.000 tifosi li battemmo senza problemi 75-60.
Avremmo potuto batterli con un margine più alto, se coach Cunningham
non avesse fatto riposare il quintetto iniziale quando mancavano ancora
quattro minuti alla fine. Anni dopo coach Wooden scrisse: «Fu subito
evidente quello che Lewis poteva fare e come poteva dominare una partita».
Coach Wooden e io ci confrontammo davanti al mio gancio cielo, o il mio
«gancio piatto» come continuava a chiamarlo lui; ci lavorammo come due
meccanici che perfezionano un motore e fu quel tiro a suggellare in modo
definitivo la nostra collaborazione sul campo di pallacanestro; lavorarci ci
diede l’opportunità di trascorrere parecchio tempo insieme. Parlavamo
entrambi una pallacanestro fluente, un linguaggio privo di emozioni. Il
coach adorava quel tiro e vi vedeva possibilità che io non avevo nemmeno
immaginato. «È un tiro quasi indifendibile», mi disse. «Se riuscirai a
perfezionarlo, ti permetterà di dominare il campo.»

La schiacciata piaceva ai tifosi, ma richiedeva un certo gioco. Il gancio


cielo era mio. Potevo usarlo quasi ogni volta che avevo il possesso della
palla. Lavorammo su ogni aspetto della cosa.
Quando finimmo, era diventato uno dei tiri caratteristici della storia della
pallacanestro. Di solito facevo un paio di passi, per poter lanciare la palla il
più in alto possibile. Lui lavorò con me per eliminarli, in modo che potessi
tirare più in fretta. Mi spostò più vicino al canestro, così la palla mi sarebbe
in pratica scivolata dalle dita e, per finire, invece di portarla sopra la testa,
disegnando un ampio arco, lui mi spiegò: «Tieni la palla vicina al corpo.
Voglio che la mano, il gomito e il ginocchio rimangano vicini e allineati. Ti
voglio a non più di due, tre metri dal canestro; e, quando prendi la palla, vai
dritto su insieme a lei.»
Questo avrebbe reso più difficile, per un difensore, allungare un braccio e
stoppare il tiro, e quindi avrei potuto costruire una traiettoria più dritta. «Se
eseguito in modo corretto, quel tiro è indifendibile», mi ricordava di
continuo.
La chiave era «eseguito in modo corretto». Ci lavorammo
coscienziosamente durante gli allenamenti. Il gancio cielo divenne a poco a
poco più fluido. Su indicazioni del coach, allungavo il braccio sinistro per
tenere a distanza il difensore davanti a me, giravo su me stesso e saltavo
verso l’alto con il piede sinistro, rilasciando delicatamente la palla con la
mano destra e tirando verso il basso a canestro. Il coach aveva ragione:
impedirmi di tirare o stopparmi era impossibile per chiunque.
Il gancio arrivò al momento giusto. Al mio penultimo anno di università,
prima della stagione regolare, la Ncaa proibì le schiacciate, dichiarando che
non erano «tiri di abilità». Quella regola, che molti chiamavano la «Regola
Lew Alcindor», non fu una sorpresa per coach Wooden il quale aveva
temuto che la Ncaa avrebbe preso misure persino più estreme, per limitare il
predominio di Ucla sul campo. E con “Ucla”, in questo caso, intendeva Lew
Alcindor. Anche se al tempo io non lo sapevo, aveva paura che la Ncaa
potesse alzare l’altezza del canestro o, con un’azione ben più radicale,
bandirmi dal gioco.
Verso la fine della mia carriera professionistica, scoprii che coach Wooden
era stato tra coloro che avevano votato per proibire le schiacciate. A quel
punto conoscevo l’integrità del coach fin troppo bene per provare anche
solo un lieve senso di tradimento, ma non potei fare a meno di chiedergli
perché l’avesse fatto.
«Coach, perché ha votato per proibire le schiacciate?»
Lui non esitò: «Pensavo di fare il bene del gioco».
«Il gioco di chi? La misura ha danneggiato Ucla più di qualunque altra
squadra.»
Lui esitò, poi sospirò. «È un brutto tiro, Lewis. Nient’altro che forza
bruta.»
La sua risposta mi bruciò un po’. Io non ero conosciuto per la mia forza
bruta. Per me, la schiacciata era tutta una questione di tempismo e di grazia.
«Il basket è lavoro di squadra. La schiacciata è un’umiliazione
dell’avversario.»
Su questo punto non ci trovammo mai d’accordo.
All’epoca della decisione, ci rimasi piuttosto male, perché l’intera Ncaa si
era riunita solo per stoppare me. Era difficile non prenderla sul personale.
Coach Wooden dichiarò pubblicamente che la regola era stata adottata dopo
che i giocatori di Houston avevano piegato il cerchio schiacciando durante
il riscaldamento prepartita nel torneo Ncaa del 1967. Nessuno ci credette.
Quale che fosse la spiegazione, la realtà era che le schiacciate non facevano
più parte del mio arsenale.
Come al solito, coach Wooden adottò l’approccio più ottimistico,
dicendomi: «Non fa alcuna differenza, se la ragione sei o non sei tu. Ti
renderà un giocatore migliore. Dovrai solo sviluppare meglio il resto del tuo
gioco».
All’inizio non gli credetti. Era come dire a Hank Aaron2 che avrebbe
dovuto imparare a battere con la sinistra. Ma la mia sfiducia derivava dalla
rabbia che covavo nei confronti di quel divieto. E se anche avessi
perfezionato il mio gancio? Non avrebbero semplicemente proibito anche
quello? Il coach capì la mia delusione, ma la ignorò e continuò a lavorare
con me sul tiro. La sua perseveranza davanti alle mie lamentele rafforzò il
nostro rapporto. Mi resi conto che non mi avrebbe abbandonato. Sapevo che
voleva che perfezionassi il gancio in modo da poter essere più efficace in
partita, ma c’era qualcosa, nel suo atteggiamento, una comprensione
paziente, che mi fece capire che quello che più gli interessava era
insegnarmi ad abituarmi alla delusione. Ad andare avanti. A resistere.
Il coach mi insegnò le tecniche per affinare il gancio e trasformarlo nel
mitico tiro che mi ha aiutato a vincere numerosi campionati, all’università e
da professionista. Ma la sua vera lezione sulla perseveranza e la necessità di
adattarsi alle difficoltà mi è stata di aiuto nella vita al di fuori del campo da
basket.

Una domenica pomeriggio di fine anni Novanta, eravamo seduti nel suo
soggiorno a guardare il torneo Ncaa. Non ricordo quali squadre giocassero,
ma una di fondo classifica ne aveva stracciata un’altra favorita, e il loro
allenatore era stato intervistato dopo la partita. Era evidente che fosse molto
orgoglioso della squadra, e all’intervistatore disse: «Hanno dato il
centoventi per cento!».
«No, no, no», intervenne coach Wooden. «Per l’amor del cielo.»
Per l’amor del cielo? Era una cosa seria!
Indicando l’allenatore in televisione, mi chiese: «L’hai sentito, Lewis? È
ridicolo. Il centoventi per cento!».
Coach Wooden non era contrario all’utilizzo di frasi fatte. Ma ce n’erano
alcune che lo irritavano al di là di ogni ragione. Come questa.
«Perbacco. Nessuno ha mai dato il centoventi per cento. Non si può dare il
centoventi per cento. È matematicamente e fisicamente impossibile. Il cento
per cento è già perfetto, e non puoi avere nemmeno quello.»
«È solo un modo di dire, coach», dissi, cercando di calmarlo. «Perché se
la prende tanto? Se vuole protestare contro i luoghi comuni dello sport, io
partirei da “In squadra non ci sono le lettere i e o”. Lo odio.»
Come al solito, dato che non gli davo corda, mi ignorò.
«Una volta, a Boston, ero a un dibattito con George Allen e Red
Auerbach. Coach Allen ci stava raccontando che ai suoi giocatori chiedeva
sempre il centotrenta per cento. Così alzai la mano e, quando lui mi cedette
la parola, chiesi: “Coach Allen, come diamine riesce a ottenere il
centotrenta per cento dai suoi giocatori?”. Lui mi domandò che cosa
intendessi. Gli spiegai: “Io non sono mai stato capace di ottenere nemmeno
il cento per cento da un individuo. Ho solo cercato di andarci il più vicino
possibile. Così mi stavo chiedendo come lei riuscisse a ottenere il
centotrenta”. Lui ci pensò su un momento, poi rispose: “Coach Wooden?
Per favore, si sieda”.»
Rimasi un attimo in silenzio, poi dissi: «Però ci sono una m e una e in
team».
Lui mi guardò un lungo istante, quindi scoppiò a ridere.
In quel momento, quella risata, quella sua capacità di ridere di se stesso, di
me, della stupidità degli allenatori che pretendono il centotrenta per cento
era proprio quello che amavo di quell’uomo.

Coach Wooden, assorto, in panchina (foto di George Kalinsky).

1
La frase, che dà il titolo a una canzone di Duke Ellington, si traduce liberamente: «Senza quello
swing, la musica non ha senso» [N.d.T.].
2
Ex giocatore di baseball statunitense, destro [N.d.T.].
Sensibili al colore
L’insostenibile fardello di essere nero

Non distruggo forse i miei nemici anche


facendomeli amici?
John Wooden

L’aspetto più impacciato e scomodo del mio rapporto con coach Wooden
aveva a che fare con il colore della nostra pelle. In campo, tra il suo allenare
e il mio giocare c’era un ritmo fluido. Sempre, nella nostra amicizia, c’è
stato un flusso spontaneo di rispetto e affetto. Eravamo come nuotatori
sincronizzati, come ballerini. Ma, quando c’era di mezzo la pelle, non
riuscivamo a trovare un piano abbastanza confortevole per entrambi.
Eravamo irrequieti e nervosi. Nei miei anni a Ucla, affrontammo insieme i
razzisti, discutemmo della situazione dei neri e fummo testimoni delle
dispute razziali tra tifosi. Ma questo non ci ha avvicinati.
Il coach non riusciva a capire che quando sei nero, in America, tutto ruota
attorno a quello. A chi non è nero può sembrare una frase provocatoria, ma
è solo perché non ha dovuto affrontare le conseguenze di essere nero ogni
giorno della propria vita. Chi non è nero, assiste a un riflesso diluito degli
effetti devastanti del razzismo, attraverso le lenti biancheggianti della
televisione, i commentatori radiofonici di parte e gli articoli di giornale che
riassumono gli orrori delle persone in un colonnino di cronaca.
Per gli afroamericani, l’America bianca mancava di consapevolezza nei
confronti di questi problemi, mancava della compassione che serviva per
vederli e mancava dell’interesse necessario a porvi rimedio. Era come
quella scena del film Il diritto di contare, quando l’algida dirigente bianca
delle lavoratrici della Nasa dice alla nera Dorothy Vaughn, cui ha reso la
vita un inferno: «Non ho niente contro di voi». Al che Dorothy risponde:
«Lo so». Poi aggiunge con un sorriso: «So che è quello che lei crede».
Molti americani bianchi, all’epoca, non si consideravano razzisti perché
non avevano mai fatto niente di direttamente lesivo, ma come aveva detto
coach Wooden in un altro contesto, citando il politico britannico Edmund
Burke: «L’unica cosa necessaria perché il male trionfi, è che le persone per
bene non facciano nulla». Le persone per bene non stavano facendo nulla, e
il male sembrava sul punto di trionfare. Almeno nei quartieri neri e
soprattutto nel 1965, l’anno in cui ero matricola a Ucla.
Nei mesi precedenti il mio trasferimento a Los Angeles, le violenze
razziali erano aumentate al punto da farci chiedere quanto tempo fosse
passato dalla guerra civile. Quel febbraio, una marcia pacifica era terminata
con l’uccisione di un dimostrante nero disarmato – Jimmie Lee Jackson,
ventisei anni, che si nascondeva in un caffè con la madre – da parte di un
agente della polizia di Stato, James Bonard Fowler. Tre giorni più tardi,
alcuni membri del movimento Nation of Islam assassinarono Malcolm X,
un uomo che ammiravo molto. Due settimane dopo, ci fu quella che rimase
famosa come la Bloody Sunday. A Selma, in Alabama, John Lewis guidò
circa seicento manifestanti in una marcia per i diritti civili sul ponte
Edmund Pettus, dove trovarono ad aspettarli centinaia di agenti della
polizia, la maggior parte dei quali era stata nominata quel giorno, quando lo
sceriffo della contea aveva lanciato un appello a tutti gli uomini bianchi
sopra i ventun anni perché si recassero al palazzo di giustizia a prestare
giuramento. Gli agenti, alcuni dei quali a cavallo, attaccarono i dimostranti
con manganelli e gas lacrimogeni. A meno di un mese di distanza, il dottor
King guidò 2500 manifestanti sullo stesso ponte. Quella sera, i membri del
Ku Klux Klan picchiarono tre ministri di culto, uno dei quali morì. Solo un
paio di settimane prima che iniziassi le lezioni a Ucla, anche Los Angeles
ebbe il suo assaggio di scontri razziali. A Watts, distretto a prevalenza nera,
le proteste per la brutalità della polizia aumentarono fino a diventare una
vera e propria rivolta. Le violenze si protrassero per cinque giorni, con 34
persone uccise, 1032 ferite, 3438 arrestate e più di 40 milioni di dollari di
danni alle proprietà.
Avevo già avuto anch’io alcune esperienze di quelle che ti segnano la vita:
avevo intervistato il dottor Martin Luther King, ero rimasto coinvolto in un
episodio di violenza razziale a Harlem e il mio migliore amico d’infanzia
mi aveva urlato in faccia «Nigger!»1, tanto per cominciare.
Non ero andato in California a giocare a basket per sfuggire ai contrasti
razziali che stavano spaccando in due il Paese. Ci ero andato per imparare
di più su me stesso, per trovare la mia voce, per capire come potevo dare il
mio contributo. Ero pronto a unirmi alla lotta, ma non sapevo ancora con
quali armi avrei combattuto.
La ragione per cui ero così insicuro di me stesso non aveva niente a che
fare con i problemi che noi americani neri dovevamo affrontare. Ero saldo
come una roccia nel mio impegno a sostegno dei diritti dei votanti, dei
programmi contro la povertà, della supervisione da parte di privati cittadini
nei dipartimenti di polizia e di molti altri punti del programma per i diritti
civili. Il mio problema personale dipendeva dal fatto che ero ancora un po’
fragile dopo il tradimento che avevo vissuto poco più di un anno prima. Mi
aveva distrutto a livello personale, rendendomi guardingo e sospettoso.
Jack Donahue era il mio allenatore alla Power Memorial Academy, un
edificio di mattoni di dieci piani che un tempo era stato un ospedale
pediatrico mentre ora era una scuola superiore cattolica. Io eccellevo sia in
campo scolastico sia sportivo, ma il maremoto razziale che aveva sommerso
il Paese era filtrato anche all’interno di questo bastione di valori
tradizionali. Ero uno della decina appena di neri su circa novecento
studenti, e molti dei nostri compagni di classe bianchi, non avendo mai
frequentato coetanei neri, ci guardavano con condiscendenza. Grazie ai loro
genitori ansiosi, informati da opinionisti conservatori, vedevano tutti i neri
come bombe a orologeria ticchettanti in un conto alla rovescia verso
un’inevitabile esplosione. Eravamo tutti Nat Turner2, in attesa solo della
nostra occasione di prendere il controllo della piantagione e aprirci con i
forconi la strada per la libertà.
Gli insegnanti non erano meglio. Seguivano un piano di studi che evitava
ogni accenno a inventori, scienziati, scrittori, artisti e politici neri, quindi
non c’era da stupirsi se gli altri studenti erano sorpresi da come usassi la
logica e dalla mia abilità dialettica. Avevo amici e compagni di squadra
bianchi, ma una larga parte del corpo studenti sceglieva di ignorarmi con
tutte le sue forze. Li ripagavo con la stessa moneta.
La mia pelle faceva di me un simbolo. La mia altezza un bersaglio.
Trovai conforto e uno scopo nel basket. Il mio allenatore aveva solo
trent’anni ed era felice di avermi in squadra. Ero inesperto, con più
entusiasmo che abilità, ma a quattordici anni ero 211 centimetri. Lui mi
insegnò con pazienza i fondamentali, fino a che la nostra squadra non arrivò
a dominare New York. Era un supervisore severo, che non temeva di alzare
la voce o di lanciarci frecciate taglienti se non gli piaceva come giocavamo.
Ma a volte veniva anche a prendermi per accompagnarmi a scuola, e
durante il tragitto di tanto in tanto parlavamo della vita. Mi portò persino al
Madison Square Garden a vedere alcune partite di pallacanestro
professionistica, assicurandosi che vedessi Bill Russell e Wilt Chamberlain
in azione.
«Quello potresti essere tu, un giorno, Lew», diceva.
«Sì, come no», ribattevo io, cercando di apparire modesto. Ma in segreto
non pensavo che sarei potuto essere come loro, sapevo che lo sarei stato.
Forse anche meglio.
«Continua a imparare come stai facendo, e te lo garantisco. Giocherai
proprio qui al Garden, un giorno.»
Un giorno. Per un ragazzino, quelle parole erano tanto, tanto tempo. Ma
avevo fiducia in coach Donahue. Mi aveva portato via dalla squadra del
primo anno per mettermi in prima squadra, un onore che capitava di rado.
Mi aveva dato una maglia con il mio numero preferito, il 33, in onore del
mio idolo del football, Mel Triplett, dei New York Giants. Anche se
all’inizio con la squadra ci fu qualche problema, alla fine tutto si sistemò e
diventammo inarrestabili.
Non avevo mai visto nessuno che volesse vincere quanto coach Donahue.
A Ucla ho riflettuto spesso sulle differenze di stile e atteggiamento tra
Donahue e Wooden. Donahue applicava la filosofia della terra bruciata.
Credeva che umiliarci, ridicolizzarci e prenderci in giro fosse la benzina per
farci andare avanti come squadra. Wooden pensava che la benzina fossero
l’orgoglio per le nostre prestazioni e la lealtà nei confronti della squadra.
Nonostante le frecciate e le urla, gli sbuffi di frustrazione, i sospiri delusi,
credevo che a coach Donahue importasse di me, quindi gli davo tutto ciò
che avevo. Al mio secondo anno, vincemmo il campionato cittadino, che la
Power non conquistava dal 1939. A scuola i giocatori erano eroi. Gli
studenti che prima mi ignoravano, ora erano disposti a essere molto più
cordiali. Ma io non volevo essere il loro eroe. Come essere umano, per loro,
valevo solo perché potevo fruttare alla scuola un trofeo, cosa che ai miei
occhi rendeva in un certo senso vana la nostra vittoria. Avevo fatto qualcosa
che li rendeva orgogliosi, e mi sembrava di avere tradito la mia gente.
L’atteggiamento di coach Donahue sul razzismo mi sembrava illuminato,
e per questo mi piaceva ancora di più. Durante il tragitto per andare a
scuola, mi raccontava delle terribili scene di razzismo che aveva visto
nell’esercito, quando era di base a Fort Knox, nel Kentucky. Credeva che il
razzismo sarebbe terminato solo lasciando che diminuisse poco alla volta,
generazione dopo generazione, fino a scomparire del tutto. Anche se capivo
che cosa intendeva, non potevo fare a meno di pensare che si erano già
avvicendate molte generazioni, eppure in America c’erano ancora
segregazione, linciaggi, assassini, e ai neri venivano negati il voto e un
lavoro. Quante altre generazioni ci sarebbero volute? E perché avremmo
dovuto aspettare? Avrebbe aspettato, lui, se fossero stati i suoi figli a essere
discriminati?
L’estate frequentavo il camp di coach Donahue, il Friendship Farm, il
Vivaio dell’amicizia. All’inizio si svolgeva in un edificio costruito negli
anni Ottanta del Settecento, su un campo di terra battuta, ma ogni estate il
coach apportava miglioramenti. A quanto pareva, io ero una sorta di
richiamo per il camp.
Quando arrivai al penultimo anno, non solo vincevamo tutte le partite, ma
cominciavano a piovere le offerte di borse di studio. I miei genitori
confidavano nel fatto che coach Donahue ci avrebbe fatto da guida per
valutare le proposte e fare la scelta migliore, e quando lui mi disse che avrei
potuto frequentare qualunque università desiderassi con una borsa di studio
a totale copertura delle spese, ero euforico.
Qualunque università! Era una cosa straordinaria! E se quell’uomo poteva
offrirmi qualunque università, mi sarei dato ancora più da fare per lui.
Un pomeriggio dovevamo giocare contro la St Helena’s, una scuola
cattolica del Bronx. Eravamo imbattuti, e quella scuola non aveva una gran
squadra. Eravamo tutti sicuri che sarebbe stato un lavoretto facile facile.
L’unico problema sarebbe stato decidere di quanti punti volevamo batterli,
ma all’intervallo eravamo sopra appena di sei, un vantaggio che può essere
annullato in trenta secondi.
A testa bassa, entrammo l’uno dopo l’altro, nell’ufficio angusto di coach
Donahue, sapendo che stavamo per ricevere una lavata di capo. Lui chiuse
la porta e cominciò ad accanirsi.
Non meritavamo di vincere.
Dormivamo in piedi
Eravamo terribili.
Un disonore.
Noi fissavamo il pavimento, con il sudore che ci gocciolava attorno alle
scarpe. Non protestammo.
Ma poi, il coach rivolse la sua rabbia contro di me. Mi puntò addosso un
dito, come se fosse un pugnale. «E tu, Lew! Vai in campo e non ti dai da
fare. Non ti muovi. Non fai niente di ciò che dovresti fare.» Gli occhi gli
ardevano d’ira. «Ti comporti proprio come un nigger!»
D’un tratto mi sentii svuotato. Non avrei potuto alzarmi dalla sedia
nemmeno se l’edificio fosse andato a fuoco. Il viso mi bruciava come se mi
avessero schiaffeggiato più volte e mi sembrava che il cuore fosse stato
pigiato dentro una noce. Non mi ero sentito così tradito da quando il mio ex
migliore amico mi aveva urlato in faccia quella stessa parola: «Nigger!».
Ero arrabbiato, sì, ma provai anche la sensazione di non valere niente, di
essere appena stato gettato nella spazzatura da una persona cui tenevo.
In qualche modo giocai il secondo tempo. In qualche modo vincemmo. In
qualche modo non mi importava.
Dopo la partita, coach Donahue mi trascinò nel suo ufficio. Era
felicissimo.
«Visto!» disse con un sorriso a trentadue denti. «Ha funzionato! La mia
strategia ha funzionato. Sapevo che se avessi usato quella parola ti avrei
scosso e avresti fatto un ottimo secondo tempo. E così è stato!»
Mi guardava raggiante, come se avessimo appena vinto la corsa nei sacchi
padri-figli al picnic della scuola.
Continuava a parlare. Di quanto in gamba fosse stato nel motivarmi. Di
come avremmo battuto la prossima squadra. Di come dipendesse da me
impedire che i tifosi mi guardassero come il classico stereotipo del nigger
indolente, dandoci ancora più dentro. Sembrava credere di essere il
salvatore della mia gente.
Quando andai a casa e raccontai la cosa ai miei genitori, erano lividi di
rabbia. Si sentirono traditi quanto me. Quello era l’uomo cui avevano
affidato il futuro del loro figlio. Nell’impeto di rabbia, insistetti per
cambiare subito scuola. Come potevo continuare a giocare, visto che ogni
vittoria sarebbe stata tale anche per l’uomo che mi aveva appena chiamato
nigger? Ma quando mi calmai mi resi conto che, cambiando scuola, avrei
perso un anno di eleggibilità e ci sarebbe voluto un anno in più per
diplomarmi.
Tornai alla Power Memorial. Da coach Donahue. Persino al Friendship
Farm. Quell’anno, stare con lui mi faceva sentire come se fossi a corto
d’aria, come se mi avessero fasciato il petto con una benda elastica troppo
stretta. Ma questo non si ripercosse sul mio gioco. Durante il mio ultimo
anno a scuola, perdemmo solo una partita e diventammo campioni nazionali
per un altro anno. Divenni All-City e All-American.
E mi iscrissi a Ucla.
Fu a causa della ferita ancora aperta del tradimento di coach Donahue che
con coach Wooden tenni un atteggiamento un po’ distaccato. Mi ero fidato
una volta ed ero stato ferito, non avrei lasciato che accadesse di nuovo. Non
potevo permettermelo. Mi sarei sforzato di essere cauto, soprattutto con gli
uomini bianchi più vecchi di me che fingevano di essermi amici.
Più tardi, quando ormai eravamo amici intimi, coach Wooden mi raccontò
una storia su Jack Donahue che non mi aveva mai raccontato prima. Nel
1965, dopo il primo trionfo nazionale di Ucla, coach Wooden era apparso in
televisione. Poco dopo, aveva ricevuto una telefonata da Donahue. «Ho
visto che parlerà a un corso per allenatori a Valley Forge, in Pennsylvania»,
aveva detto. «Vorrei venire a parlarle di un mio giocatore, Lew Alcindor.»
«Be’», raccontò il coach, «venne e mi disse che Ucla era uno dei quattro
atenei che volevi vedere per poi eventualmente iscriverti. Fu il primo
contatto che l’università ebbe con te. Lo sapevi?»
«No», risposi.
«Un viaggio lungo, in macchina», disse lui.
Non commentai.
«Due ore e mezzo», disse lui.
«Nessuno l’ha mai accusata di essere un po’ troppo sottile?»
Il coach rise. «No, anzi. Mi accusano di sfornare motti brevi e precisi,
frasi da maglietta.»
Risi a mia volta, ma capii che cosa intendeva. Che genere di uomo
guiderebbe per cinque ore per aiutare un ragazzino che a malapena gli
rivolge la parola, senza mai nemmeno dirgli di averlo fatto?
«Hai mai commesso un errore, Lewis?» mi chiese piano.
Tiro. Canestro.
Qualche anno dopo quella conversazione, ero a casa sua e stavamo
guardando la pallacanestro femminile. Al coach piaceva molto, perché
eseguivano i fondamentali in modo impeccabile.
«Nessuna ostentazione», diceva, «solo eccezionale controllo di palla e
tecnica.»
«Credo che le piacciano semplicemente i pantaloncini corti», lo stuzzicai.
Lui scosse la testa. «Kareem, che cosa devo fare con te?»
«Inserirmi nel suo testamento?» suggerii.
La mia battuta lo fece ridere.
Il telefono squillò prima che potesse replicare. Era coach Donahue. Era a
Los Angeles e voleva fargli visita. Dopo tutto quel tempo, non avevo più
alcun risentimento nei suoi confronti, quindi sapere che era all’altro capo
del telefono non mi fece alcun effetto.
«C’è qualcuno qui con cui vorrei che parlasse», gli disse coach Wooden, e
mi passò la cornetta.
«Ehi, coach», dissi allegro, «come sta?»
«Bene, Kareem, bene.» Percepii il sollievo nella sua voce e ne fui felice.
Facemmo due chiacchiere veloci, prendemmo accordi per vederci nel giro
di un paio d’ore e mettemmo giù.
Coach Wooden mi guardò con curiosità. «Tutto bene?»
«Ci provo», dissi.
Lui ridacchiò, scuotendo di nuovo la testa. Ma non ridacchiava per la mia
battuta, era solo contento che avessi fatto la cosa giusta. E io ero contento
che il coach avesse organizzato quella telefonata “casuale”. Sapeva quanto
ci fossi stato male in passato, e voleva che me lo gettassi alle spalle. Ma
ancora di più, credo che provasse compassione per coach Donahue e il
pesante fardello che aveva portato per tutto quel tempo. Da allenatore,
coach Wooden sapeva quanto fosse facile fare un errore nell’impeto della
gara, e quanto fosse difficile porvi rimedio.
Incontrai coach Donahue a casa mia. Mi chiese di nuovo scusa, come già
aveva fatto sia di persona sia sulla stampa, quando la storia era venuta fuori.
Da allora aveva fatto una buona carriera, allenando, tra le altre, quattro
squadre olimpiche maschili canadesi. Mi commosse il fatto che, nonostante
tutti i suoi successi, fosse ancora dispiaciuto per come, trentacinque anni
prima, aveva ferito un ragazzino diciassettenne.
Gli dissi che lo perdonavo, che mi ero reso conto nel giro di qualche
giorno che non era un razzista, ma era solo stato insensibile, senza saperlo,
e aveva calcato troppo la mano con un giovane tronfio e pieno di sé quale
ero io. Lo ringraziai per tutto quello che aveva fatto per me, e me ne fu
grato.
Mio padre, che all’epoca viveva con me, tirò fuori una bottiglia di whisky
irlandese Bushmill’s. Voleva che bevessimo qualcosa insieme, e lo
facemmo.
Ci salutammo con una stretta di mano e in buoni rapporti e, quando un
anno e mezzo dopo coach Donahue morì per un cancro, andai al suo
funerale.
Sono contento che sia stato coach Wooden a farci reincontrare, perché il
suo esempio di gentilezza e compassione mi ha aiutato a diventare capace
di superare i risentimenti e sanare le ferite del passato.

Poi, arrivò la sera che cambiò il nostro rapporto per sempre.


Per festeggiare il record di imbattibilità, il coach mi invitò a cena per
passare un po’ di tempo insieme. Sapevamo che tifosi e stampa avevano un
sacco di aspettative nei confronti di entrambi per i successivi tre anni. Lui
mi aveva tenuto lontano dai giornalisti per tutto l’anno, proprio come aveva
fatto Donahue, nel tentativo di proteggermi dalle distrazioni, ma la cosa
stava per finire, e voleva assicurarsi che fossi in grado di gestire le critiche
che, inevitabilmente, sarebbero arrivate insieme alle lodi.
«La stampa ha fatto di te un eroe», mi disse, entrando nel parcheggio del
ristorante. «Ed è una bella sensazione, giusto?»
«Certo», dissi. Oh cavolo, lo era davvero. Vedere la mia foto sui giornali e
sulle riviste sportive, leggere le cose grandiose che dicevano su di me, era
un sogno che si avverava.
«Be’, possono trasformarti altrettanto velocemente in una canaglia. Se non
gli piace qualcosa che hai detto, o che non hai detto. Se pensano che tu li
abbia snobbati, o che abbia evitato una domanda.» Scosse la testa.
«Possono rivoltartisi contro.»
Il coach aveva dovuto affrontare alcune critiche e contestazioni quella
stagione, quando la prima squadra non era riuscita ad accedere al torneo
Ncaa. Le nostre fortune erano ormai strettamente legate e, nei tre anni
successivi, avremmo trionfato insieme o insieme saremmo caduti in
disgrazia.
Il coach e io eravamo entrambi tifosi di baseball, così mi portò in una
steak house chiamata Bat Rack (letteralmente, “Il portamazze”). Il
proprietario aveva decorato il locale con mazze da baseball firmate dai
giocatori della Major League. Ordinammo e ci sedemmo per chiacchierare
del più e del meno. Sebbene nel Paese, fuori da quel ristorante, fosse in atto
una sollevazione a carattere razziale, con disordini, omicidi e marce, lui e io
non toccammo l’argomento, parlammo di baseball e pallacanestro. Coach
Wooden aveva costruito un bozzolo attorno ai suoi giocatori, in modo da
tenerli isolati, mentre fuori infuriava la tempesta. Guardai le mazze
autografate appese ai muri. In un certo senso quel ristorante era perfetto per
il nostro tipo di rapporto.
Quello che ci legava erano gli sport, e lo sport era una fantasia. Il basket
era un mondo artificiale fatto di regole, regolamenti, rispetto reciproco e
comportamenti civili. Il mondo reale, lì fuori, era invece un vulcano carico
di violenza e ingiustizia razziale. In quel periodo stava sputando ceneri e
lapilli, ma potevamo tutti sentire il rombo della lava che ribolliva, e
sapevamo che era pronta a eruttare. La questione non era se l’avrebbe fatto,
ma quando.
Ancora non avevo capito davvero dove si collocasse il coach in tutto
questo fermento sociale. Mi piaceva. Lo ammiravo. E, fino a che non
avesse fatto un gesto paragonabile a quello di coach Donahue, lo avrei
ascoltato e avrei fatto quello che mi consigliava. E avrei mangiato la
bistecca che mi offriva.
Prima di andarcene ci fermammo a salutare il proprietario, Johnny
Sproatt, uno dei maggiori sostenitori di Ucla. Mentre ce ne stavamo lì in
piedi a chiacchierare, dal ristorante uscì un’anziana signora bianca che si
fermò sulla porta a fissarmi con il naso all’insù. Mi ricordava il personaggio
della nonna di una popolare serie televisiva, The Beverly Hillbillies. Ero
abituato alla gente che rimaneva a bocca aperta davanti alla mia altezza,
quindi mi limitai a sorriderle in modo gentile.
Alla fine la donna chiese a coach Wooden. «Quanto è alto quel ragazzo?»
«Due metri e diciotto, signora», rispose lui.
Lei ci pensò qualche istante, poi scosse la testa e disse: «Non ho mai visto
un nigger tanto alto».
Non reagii. Mi limitai a guardare il suo volto rugoso da nonna: era chiaro
che non aveva idea del fatto che mi stesse insultando. Per lei, nigger aveva
lo stesso valore di «afroamericano», termine che si stava diffondendo
all’epoca. Discutere sarebbe stato inutile e inoltre, un uomo nero alto due
metri e diciotto che urla contro una vecchietta bianca alta uno e sessanta
non è un bello spettacolo. Coach Wooden, invece, reagì.
Il suo corpo si irrigidì dalla testa ai piedi; le guance gli si infiammarono.
Guardò incredulo l’anziana signora. Non sapeva che cosa fare, come
rispondere. Quello non era il suo mondo.
Eravamo usciti dal bozzolo.
Il signor Sproatt intanto stava salutando un altro cliente in arrivo e non
aveva sentito la donna, o fingeva di non averla sentita. Il coach alzò lo
sguardo su di me, chiaramente sperando che non l’avessi udita nemmeno io,
ma quando mi guardò negli occhi, capì che non era così.
Nel corso degli anni ho ripensato spesso a quel momento, cercando di
considerarlo dal suo punto di vista. Si sarà chiesto se mi aspettassi che
dicesse qualcosa, che intervenisse in mia difesa, in quanto mio allenatore,
adulto o uomo bianco? Doveva essere nel bel mezzo di una crisi di
coscienza. Andare contro la sua morale del Midwest e inveire contro
un’anziana signora che non avrebbe compreso la sua rabbia? Andare contro
i suoi valori cristiani e non intervenire in favore di un ragazzo che era stato
profondamente insultato? Andare contro i suoi valori patriottici e non
condannare il razzismo antiamericano di quella donna?
Alla fine, non le disse niente e la signora se ne andò, inconsapevole della
confusione emotiva che aveva lasciato sulla sua barcollante scia.
Tornando al campus in macchina, tenemmo entrambi lo sguardo fisso
sulla strada, riluttanti a guardarci negli occhi. Alla fine, fu lui a rompere
l’imbarazzante silenzio. «Sai, Lewis, a volte cogli la gente di sorpresa. Uno
della tua taglia… Li intimorisce.»
«A-ha», borbottai, senza sapere dove volesse arrivare.
Ancora silenzio. Stava scegliendo ogni singola parola.
«A volte le persone diranno cose che non pensano o che non capiscono
fino in fondo. Ti prego, non credere che le persone siano come quella
donna. Non lasciare che le persone ignoranti ti strappino reazioni ignoranti.
So che è difficile, ma non condanniamo tutti per le azioni di pochi.»
Stava parlando di lei o di se stesso? Di ciò che lei aveva detto… o di ciò
che lui non aveva detto?
«Certo, coach», tagliai corto. Non avevo nessuna voglia di parlarne. A che
cosa sarebbe servito? Non c’era niente che potesse dire che non avessi già
sentito, perlopiù da gente bianca benintenzionata. Ci ero abituato, quindi
non era una gran cosa, ma capivo che quel tarlo lo stava divorando. Non
volevo. Sapevo che era un brav’uomo ed ero anche commosso all’idea che
quell’incidente lo stesse lacerando dentro fino a tal punto.
Non ne riparlammo più, ma il coach non dimenticò mai quella sera. La
cosa interessante è che, quando in seguito gli capitò di parlarne in pubblico,
i suoi ricordi erano diversi dai miei. Nella sua memoria, la donna aveva
detto: «Ma guarda tu che enorme scherzo della natura nero!» La parola
nigger era troppo dolorosa anche solo da immagazzinare nella memoria, e
magari così il coach placava in parte i suoi sensi di colpa.
Fu solo anni più tardi che mi resi conto di quanto quell’episodio avesse
influito su di lui. Parlandone con il suo amico Dale Brown, storico coach di
Louisiana, disse pensoso: «Quell’evento mi aprì gli occhi. Cercai di
diventare molto più sensibile a cose del genere. Ero dispiaciuto per Lewis.
Pensai che quello era ciò con cui doveva convivere ogni giorno e, sì, ero
dispiaciuto».
Niente sembrava essere cambiato tra di noi, dopo quella sera. Lui
allenava, io giocavo. Non parlavamo della questione razziale, lui non mi
chiedeva cosa provassi riguardo a ciò che stava accadendo, io non gli
portavo copie dell’Autobiografia di Malcolm X. Ma c’era una differenza
inespressa. Da quella sera fummo inesorabilmente legati da quanto era
accaduto. Avevamo intravisto l’uno nel cuore dell’altro, e la cosa ci aveva
spinti oltre la relazione allenatore-giocatore.

Una monumentale stoppata, nella stagione del secondo anno con la maglia Ucla (foto Norman
Levin, Natural Portraits & Event).

Per quanto riguardava il razzismo, ero convinto che coach Wooden avesse
un cuore buono, ma che in quel gioco si tenesse a bordo campo. Non stava
accadendo a lui, solo attorno a lui. Per me era diverso, faceva parte della
mia vita quotidiana, come presto coach Wooden vide con i suoi occhi.
Avevo ottenuto visibilità a livello nazionale che ero ancora alle superiori,
ma fu quando iniziai a giocare a Ucla che la cosa esplose. Dopo poche
partite, al mio secondo anno, il giornale degli studenti, il «Daily Bruin»,
suggerì che cambiassero il significato della sigla Ucla da University of
California, Los Angeles a University of California, Lew Alcindor.
Lusinghiero, sì, ma anche un po’ allarmante, perché ora ero un bersaglio per
la rabbia dei rivali.
La prima volta che giocammo contro Berkeley, sentii molti dei loro tifosi
gridare: «Ehi, nigger!» e «Dov’è la tua lancia?» Variazioni sullo stesso
tema combinavano in genere la parola nigger con altre volgarità. Il
razzismo è molto poco creativo. Era un’abitudine ormai di quasi tutte le
partite. Sapevo che i tifosi cercavano di distrarmi dal gioco, così scelsi di
ignorare i loro commenti e rispondere sul campo. Naturalmente, battere le
loro squadre partita dopo partita non faceva che fomentare le provocazioni.
Il razzismo era così evidente che persino i giornalisti cominciarono a
chiedermi se quei commenti mi rendessero rancoroso nei confronti dei
tifosi. «Il rancore ti mette i bastoni fra le ruote», dissi loro, «ti fai
coinvolgere dalla vendetta, invece di cercare di cambiare le cose. Un tempo
provavo rancore, ma ora mi limito a giocare con tutto me stesso per
vincere.»
Era la mia risposta ufficiale e consolidava il credo di coach Wooden. «La
vendetta è un sentimento che non covo», diceva. «Sono convinto che, se
non la covo io, non la coveranno nemmeno i miei ragazzi.» Facevo gioco di
squadra ma è impossibile non essere toccato se tutte le sere un branco di
persone ti urla nigger. Cercavo di combatterlo. Volevo essere una brava
persona, la persona evoluta che il coach voleva che fossi; non solo per lui,
ma perché pensavo che mi avrebbe dato un po’ di pace. Però era difficile, a
volte troppo difficile, per un adolescente. Per lui, per la squadra e per me
stesso, cercavo di soffocare il rancore.
Alla fine, l’amarezza si trasformò in una forma di trionfo. Una sera del
1967 a Louisville, nel Kentucky, il coach e io stavamo tornando in albergo
dopo avere cenato. Avevamo appena sconfitto Dayton nelle finali.
Avvicinandoci all’albergo, sentimmo alcune persone che mi gridavano:
«Ucla fa schifo!», «Torna a casa, nigger!» Invece di provare rabbia, mi uscì
un ghigno di soddisfazione al pensiero che il nostro gioco li avesse resi
tanto ostili.
«Non c’è niente che possiamo fare per la loro ignoranza, Lewis», disse il
coach.
Ero d’accordo. Oltretutto, avevo già presentato la mia dimostrazione di
uguaglianza qualche ora prima, schiacciando la loro squadra.
In quel periodo Louisville era un luogo particolarmente aggressivo dal
punto di vista razziale, ma quando anni più tardi feci visita al Muhammad
Ali Center, fui felice di vedere quanto fosse cambiata.
Coach Wooden ignorò questi commenti, o fece finta di non averli sentiti,
una sera però anche questo cambiò. Dopo una partita, di solito coach
Wooden e io eravamo le ultime persone a lasciare lo spogliatoio. Io venivo
trattenuto dai giornalisti che volevano intervistarmi e il coach si fermava
per controllare che lo spogliatoio fosse in ordine. Alcuni trovavano
divertente che l’allenatore che aveva ottenuto più vittorie nella storia della
pallacanestro universitaria raccogliesse la roba sporca dal pavimento
bagnato, soprattutto dopo una vittoria, ma io lo trovavo commovente, non
solo perché era coscienzioso al punto da voler lasciare la stanza in ordine
come l’aveva trovata, ma anche perché era abbastanza umile da non pensare
che fosse una mansione troppo bassa per farla di persona. Ho però sempre
sospettato che la vera ragione per cui si tratteneva così a lungo fosse
osservarmi durante quelle interviste senza dare troppo nell’occhio. Sapere
che lui era lì mi dava la sicurezza di dire quello che pensavo, e allo stesso
tempo mi ricordava che nella modestia c’era eleganza. Mi rendeva una
persona migliore anche solo girando per lo spogliatoio a raccogliere gli
asciugamani bagnati.
Mentre lasciavamo lo spogliatoio dopo la partita contro Oregon State a
Corvallis, il mio secondo anno a Ucla, mi fermai a firmare autografi a un
gruppo di ragazzini che ci avevano aspettato fuori all’aria pungente della
sera. Ne avevo firmati forse trenta o quaranta, quando il coach mi disse:
«Lewis, dobbiamo andare. Dobbiamo salire sul pullman». Mi scusai con i
ragazzini che non avevano avuto l’autografo e mi allontanai, ma alcuni
degli adulti che erano con loro iniziarono a urlarmi: «Guardatelo, è troppo
grande per firmare autografi. Tipico comportamento da nigger». E cose del
genere.
Il coach si fermò a fissarli. Percepii dal linguaggio del suo corpo che stava
pensando di affrontarli. Guardò prima gli adulti e poi i bambini. Sapevo che
a spingerlo ai limiti della sua buona educazione del Midwest era stato il
fatto che avessero detto quelle cose davanti a dei ragazzini. Era cupo in
volto come non l’avevo mai visto, e fui tentato di afferrarlo per il braccio e
dirgli: «Va tutto bene, coach. Li ignori. A volte le colgo di sorpresa, le
persone». Ma non dissi né feci nulla. Ero troppo stupito, dopo tutto il tempo
trascorso a firmare autografi.
Alla fine, riuscì a controllare la rabbia e gettò loro un’occhiataccia con un
raggio laser di puro disgusto che avrebbe dovuto sciogliere loro i volti. Sul
pullman, mentre tornavamo a casa, venne a sedersi dietro, vicino a me. Si
vedeva che era ancora turbato. Io avevo già, se non proprio dimenticato,
almeno rimosso l’incidente, spingendolo a fatica nell’archivio straripante
della mia mente, con tutti gli altri incidenti simili.
«Quella gente ha sbagliato», cominciò. «Ma non dobbiamo
generalizzare.» Rimase un istante in silenzio, forse cercando una poesia,
una frase, una storiella da citare, come faceva di solito, per sottolineare
quello che voleva dire. Non ne trovò nessuna, ma continuò lo stesso. «So
che siamo costretti ad avere le prigioni, la polizia e le leggi, ma la maggior
parte delle persone è buona. È buona.»
“Lo è davvero, coach?” avrei voluto dire. Ma sapevo che lui ci credeva
con tutto il cuore, e volevo crederci anch’io, per il suo bene, anche se
c’erano troppe dimostrazioni del contrario. Ero giovane, ma capii che quella
conversazione non riguardava il razzismo: il coach si preoccupava per la
mia anima. Non voleva che diventassi cinico e astioso, come alcuni degli
attivisti che vedeva in televisione. Mi conosceva come il gentile, buono e
rispettoso Lewis, che avrebbe avuto un brillante futuro, se non avesse
ceduto al lato oscuro.
Il coach tornò al suo posto. Non sapevo che cosa farmene di un altro
discorso d’incoraggiamento sulla bontà dei bianchi, ma quelle parole gentili
da parte di qualcuno che chiaramente teneva a me al di là del numero di
punti che riuscivo a segnare mi erano servite. Semplicemente venendo in
fondo al pullman a vedere come stavo, aveva dimostrato che forse la
maggior parte delle persone è davvero buona. Grazie a lui, non avevo
abbandonato del tutto la speranza.
Fu solo anni più tardi che scoprii che, a causa mia, aveva iniziato anche
lui a farsi domande sulla propria fiducia nella bontà innata delle persone.
Stavo leggendo un’intervista che gli avevano fatto e fui sorpreso di
imbattermi nelle parole: «Non avevo idea di quanto fosse dura, a volte, per
lui. Ho imparato di più da Kareem, sulla crudeltà degli esseri umani nei
confronti dei loro simili, di quanto abbia mai imparato in qualunque altro
luogo… Non avevo mai immaginato che le persone potessero provare
sentimenti di quel tipo o parlare in quel modo». Dopo aver letto quel
passaggio, provai una grande tristezza, perché mi resi conto che la mia
presenza gli aveva fatto mettere in dubbio la sue convinzioni di fondo.
Sulla sua bontà, però, non c’erano dubbi. Quando Wilt Chamberlain fu
ceduto ai Lakers, nel 1968, il coach si lamentò della sua reputazione di
giocatore «difficile da gestire». «Non sono un animale, sono un uomo»,
sbottò Wilt. «Non si “gestiscono” gli uomini.» Non appena il coach lesse
quelle parole, contattò il proprio editore, dicendo che dovevano cambiare
tutte le successive edizioni del suo libro Practical Modern Basketball («La
pallacanestro moderna in pratica»). Il capitolo che si chiamava «Gestire i
giocatori» doveva essere intitolato «Lavorare con i giocatori». Per quanto
riguardava il razzismo, forse il coach non poteva cambiare il mondo, ma
poteva cambiare il suo mondo.

La mia crescita come giocatore di basket procedeva in parallelo alla mia


evoluzione di attivista sociale. Più mi sentivo sicuro di me stesso e ottenevo
successi in campo e più mi sentivo sicuro di esprimere le mie convinzioni
politiche. Quell’avanzamento personale raggiunse il suo climax più
controverso nel 1968, quando rifiutai di partecipare alle Olimpiadi. La mia
decisione diede il via a una pioggia di critiche, epiteti razziali e minacce di
morte di cui la gente mi chiede ancora oggi.
Non fu una decisione facile. Volevo davvero tanto entrare in squadra.
Giocare contro i migliori cestisti del mondo e ritrovarmi con i migliori
giocatori di pallacanestro universitaria del Paese sarebbe stata una sfida
eccitante. Senza contare che andare a Mexico City e conoscere atleti di tutto
il mondo mi sembrava un’avventura fantastica.
Ma, alla luce delle violenze razziali che stava affrontando il Paese, l’idea
di andare in Messico a divertirmi mi sembrava molto egoistica. L’estate
precedente c’erano state due rivolte importanti: una a Newark, che era
durata cinque giorni, e una a Detroit, che era durata otto. Il 4 aprile 1968 era
stato assassinato il dottor Martin Luther King. L’America bianca sembrava
pronta a fare tutto il necessario per fermare il progresso dei diritti civili, e io
pensavo che andare in Messico avrebbe dato l’impressione che mi sottraessi
al problema o che la mia carriera mi interessasse più che la giustizia sociale.
Non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che se fossi andato e
avessimo vinto, avrei contribuito a dare lustro a un Paese che ci stava
negando i nostri diritti. Era la stessa sensazione che avevo provato giocando
per coach Donahue quell’ultimo anno delle superiori, dopo quello che era
successo tra noi.
Sembravo destinato a dimorare a lungo in quel luogo molto esclusivo che
si trova tra l’incudine e il martello.
Quello stesso anno fu pubblicata l’Autobiografia di Malcolm X; postuma,
dato che era stato assassinato tre anni prima. Non mi limitai a leggerla, ne
divorai ogni capitolo, ogni pagina, ogni parola. La sua storia non poteva
essere più diversa dalla mia – truffatore di strada e sfruttatore della
prostituzione che va in prigione, si converte all’Islam e si fa strada come
leader politico illuminato – ma sentivo come mio ogni insulto che aveva
ricevuto e ogni illuminante scoperta che aveva fatto. Aveva messo nero su
bianco quello che io avevo nel cuore; esponeva con chiarezza quello che io
riuscivo solo vagamente a dire.
Malcolm era morto; il dottor King era morto.
I leader neri erano una specie in pericolo. Il pensiero mi faceva rabbia. Il
governo degli Stati Uniti e in particolare John Edgar Hoover e l’Fbi erano
stati accusati di prendere di mira i leader neri con campagne segrete per
screditarli, umiliarli e rovinarli pubblicamente. L’America liquidava queste
voci come paranoie dei neri, in quanto non c’erano prove, ma agli
americani neri bastava guardarsi attorno per sapere che era la verità. Tali
sospetti furono confermati due anni più tardi, quando alcuni attivisti contro
la guerra irruppero in un ufficio dell’Fbi a Media, in Pennsylvania, trovando
documenti segreti che dimostravano la politica attiva di intimidazione
dell’Fbi nei confronti dei leader neri.
Era troppo difficile per me entusiasmarmi all’idea di rappresentare un
Paese che si rifiutava di rappresentare me o altri del mio stesso colore.
Un’altra ragione per cui decisi di non partecipare era la mia forte
avversione per il presidente del Comitato olimpico internazionale, Avery
Brundage, che nel 1936, durante le Olimpiadi di Berlino, aveva sostituito
due staffettisti ebrei per non imbarazzare Hitler nel caso avessero vinto la
medaglia d’oro. Non solo questo era contrario al regolamento olimpico, ma
in seguito fu rivelato che l’impresa di costruzioni di Brundage era in gara
per ottenere appalti in Germania, ragione per cui il presidente del Comitato
olimpico era così ansioso di compiacere Hitler. Non potevo giocare sotto la
supervisione di una persona del genere. L’America si arrabbiò con me, per
non aver mostrato gratitudine al Paese che mi aveva dato tante opportunità.
Io ero grato, ma pensavo anche che fosse ipocrita mostrare riconoscenza, se
non tutti avevano le stesse opportunità. Solo perché ero riuscito a salire su
una scialuppa, non significava che potessi dimenticare quelli che non ce
l’avevano fatta. O fare a meno di cercare di impedire alla prossima nave di
affondare.
Devo dire che a Ucla nessuno ha cercato di farmi cambiare idea. Coach
Wooden rispettò la mia scelta e non ne fece mai parola. L’università fece
una dichiarazione, spiegando che avevo rifiutato l’invito perché
incompatibile con le mie lezioni, ma alla stampa io parlai con franchezza
della mia decisione. Joe Garagiola mi intervistò per il programma televisivo
Today, durante il quale pronunciò il motto abituale dei bianchi che si
sentono a pieno diritto cittadini americani: «America, o la ami o te ne vai».
Mi domandai che cosa avrebbe detto ai coloni che avevano dichiarato
l’indipendenza e combattuto per fondare il proprio Paese. «Gran Bretagna,
o la ami o te ne vai.» Cercai di sottolineare che il vero patriottismo consiste
nel prendere atto dei problemi e fare fronte comune per risolverli, invece di
sottrarsi a essi.
Così non andai in Messico, ma Tommie Smith e John Carlos fecero la
storia delle Olimpiadi e grande scalpore quando, durante la cerimonia della
consegna delle medaglie per i 200 metri, per i quali Smith ricevette l’oro e
Carlos il bronzo, sollevarono in aria il pugno guantato in quello che
all’epoca era conosciuto come il «saluto del movimento Black Power», un
gesto di denuncia dell’ingiustizia razziale in America. Il Comitato olimpico
americano li sospese. Tornarono a casa tra critiche rabbiose e minacce di
morte. In un’epoca in cui i leader neri venivano assassinati, le minacce di
morte andavano prese sul serio.
Anche se coach Wooden non discusse mai con me della mia decisione,
ebbi la sensazione che la disapprovasse. Non per qualcosa che avesse detto
o fatto, ma perché era molto patriottico. Durante la Seconda guerra
mondiale era stato tenente in marina. Non riuscivo a immaginarlo
appoggiare il mio rifiuto di andare alle Olimpiadi e contribuire alla gloria
degli Stati Uniti.
Scoprii soltanto dopo quanto mi sbagliassi.
Un paio di anni fa, ricevetti una lettera da una donna che non conoscevo,
una lettera che le aveva scritto coach Wooden in risposta a un suo biglietto,
nel quale la donna si lamentava della mia decisione di non partecipare ai
giochi olimpici. Fino a che non la ebbi tra le mani, non sapevo nemmeno
che esistesse. Aprii la lettera e iniziai a leggere la scrittura ordinata del
coach:

Gentile signora Hough,


le dichiarazioni di questo giovane assolutamente fuori dal comune
hanno disturbato anche me, ma l’ho visto soffrire così tanto per i
commenti di nostri connazionali bianchi che sono forse più tollerante di
molti.
Ho sentito commenti, fatti in sua presenza, del tipo: «Ehi, guarda che
enorme scherzo della natura nero», «Hai mai visto un n....r così alto?»,
e altri di natura simile, che rischierebbero di far girare la testa a una
persona ben più matura in tempi normali. Temo sul serio che non
troverà mai una sua serenità, nemmeno se guadagnerà un milione di
dollari. Potrà permettersi molte cose materiali, ma quelle sono un
magro surrogato della serenità vera e propria.
Forse non ha visto o letto la recente intervista nella quale ha dichiarato
che ci sono così tante cose sbagliate, nel modo in cui questo Paese oggi
tratta la gente nera, che per lui è difficile chiamarlo suo.
Grazie per il suo interesse,
John Wooden

Rilessi la lettera. E poi la rilessi di nuovo. “Oh, coach”, pensai, “avrei


voluto sapere come si sentiva. Se non altro per alleggerire il peso che si era
accollato per difendermi.” Ripensai a quanto ero stato arrogante, credendo
di averlo capito e riducendolo invece a un facile stereotipo, proprio quello
di cui mi ero lamentato per tutta la vita, ogni volta che qualcuno lo faceva
con me. Era stato così umile da non dirmi mai di quella lettera. La maggior
parte delle persone si sarebbe assicurata di farmi sapere che aveva preso le
mie difese. Ma a coach Wooden non importava che gli fosse riconosciuto il
merito di ciò che faceva. Una buona azione era in sé la sua ricompensa.
Andare a caccia di lodi o di gratitudine avrebbe annullato il significato del
gesto.
Coach Dale Brown una volta gli chiese perché non si fosse preso un po’ di
merito per le cose che aveva fatto o perché non si fosse espresso in modo
più esplicito sul movimento per i diritti civili e fu lo stesso Brown a
descrive così la sua risposta: «Sollevò il pollice e l’indice, con i polpastrelli
così vicini che non saresti riuscito a farci passare una buccia di cipolla.
“Ecco perché”, disse. Gli chiesi che cosa intendesse, e lui mi spiegò: “È la
differenza che avrei fatto. Così ho cercato di farla in altre cose”».
Ripiegai la lettera, scuotendo la testa. Il coach era morto da alcuni anni e
non avrei mai potuto ringraziarlo. Anche allora, e avevo ormai sessantasette
anni, continuava a darmi lezioni di umiltà.

Nel 2008 andai a Chicago, dove dovevo intervistare coach Wooden per un
documentario che stavo producendo sugli Harlem Rens, la più grande
squadra di basket di cui si sia mai sentito parlare. Sapevo che, quando era
giovane, il coach aveva giocato contro di loro e avrebbe avuto qualche
bell’aneddoto da raccontare. Eravamo amici da quasi cinquant’anni ed ero
abbastanza sicuro di sapere tutto di lui, considerando i nostri anni a Ucla e,
in seguito, i tanti pigri pomeriggi trascorsi nel suo disordinato soggiorno a
chiacchierare di tutto un po’, dalla letteratura alla religione alla squadra
olimpica di pallacanestro maschile in partenza per Pechino. Ma quel giorno
coach Wooden mi sorprese al punto che rimasi a bocca aperta per lo choc.
Poi, prima che potessi riprendermi, mi sorprese di nuovo.
Per filmare le interviste avevo prenotato al Marriott una stanza apposita,
accanto al centro conferenze. Quando il coach entrò dalla porta, sentii la
reazione involontaria della mia schiena che si raddrizzava, come uno
scolaretto che vede avvicinarsi il suo maestro preferito. Ero un uomo di
sessant’anni, padre di cinque figli, una celebrità internazionale, e tuttavia
l’opinione di quell’uomo anziano appena entrato nella stanza trascinando i
piedi mi importava più di quella di chiunque altro. Lo vedevo come un
secondo padre, in un certo senso un padre più compassionevole e
partecipativo del mio.
«Ehi, coach», lo salutai, «grazie per essere venuto. Lo apprezzo davvero.»
«Qualunque cosa, per te», disse lui con un enorme sorriso che mi scaldò il
cuore.
Cercai di non far trasparire l’orgoglio che provavo per quel documentario.
L’orgoglio non si addiceva al coach, che viveva la sua vita con una severa
modestia simile a quella di un monaco. Anche se a volte noi giocatori lo
prendevamo in giro per la sua umiltà gandhiana, in segreto lo ammiravamo
e cercavamo di emularlo, ma era come cercare di diventare vegani: ci
voleva molta più disciplina di quanto ne avesse la maggior parte di noi.
Tuttavia volevo che lui fosse almeno un po’ orgoglioso di quello che avevo
fatto dopo che mi ero ritirato dalla pallacanestro, perché sentivo che era un
risultato tutto diretto della sua influenza. Persino quel documentario, un
adattamento di On the Shoulders of Giants (“Sulle spalle dei giganti”), il
libro che avevo scritto sulla storia della Harlem Renaissance e la sua
influenza sull’America e su di me come persona, era il risultato delle sue
lezioni. Lui ci aveva insegnato che gli studi erano più importanti della
pallacanestro e che l’integrità personale era più importante di entrambi.
Negli anni successivi al basket avevo intrapreso una crociata per portare
più “colore” nella storia americana, scrivendo libri che celebravano le
vittorie degli afroamericani volutamente trascurate nei libri di testo. Avevo
scritto Black Profiles in Courage (“Profili neri del coraggio”), su alcuni
personaggi neri influenti nella storia americana; Brothers in Arms (“Fratelli
sotto le armi”), sul battaglione carristi nero della Seconda guerra mondiale;
On the Shoulders of Giants; e stavo facendo ricerca per un libro per
bambini, What Color is My World (“Di che colore è il mio mondo”), sugli
inventori neri che hanno cambiato la cultura americana e di cui nessuno
parla. Volevo che il coach apprezzasse il fatto che avevo continuato a
studiare e a scrivere, cosa che, in quanto ex insegnante di letteratura, lui
stesso mi aveva spinto a fare.
«Dove vuoi che mi metta, Kareem?» chiese.
Lo accompagnai a sedere. Le luci erano puntate, la telecamera a fuoco.
Iniziai con le domande alle quali rispose come sapevo che avrebbe fatto,
con storie argute e dettagliate sui Rens, descrivendoli come la squadra
migliore contro la quale avesse giocato. I New York Renaissance, altrimenti
detti Rens, erano una squadra di pallacanestro di soli neri, degli anni Venti e
Trenta, con sede a Harlem, che nel 1939 vinse il primo campionato
nazionale professionisti contro una squadra di bianchi.
Parlammo anche di alcuni dei grandi musicisti, artisti e scrittori della
Harlem Renaissance.
«Sai, Kareem, Langston Hughes era uno dei miei poeti preferiti», disse.
«Davvero?» chiesi io. Anche per me era così. Lo avevo scoperto alle
superiori: non in classe, dove gli autori neri non venivano mai nemmeno
menzionati, ma allo Schomburg Center for Research in Black Culture di
Harlem, il centro di ricerca sulla cultura nera, l’estate prima del mio ultimo
anno passato lì. Rimasi vagamente colpito dal fatto che il coach conoscesse
Hughes, ma del resto era uno dei più famosi poeti neri. Se eri un bianco e
dovevi nominare un poeta nero, era la scelta più ovvia.
Ma, per il coach, Langston Hughes non era solo un nome.
«“Cosa accade a un sogno rinviato?”» iniziò a recitare a memoria. La
poesia era Harlem. «Si secca / come l’uva passa al sole? / O si infetta come
una ferita… / e poi cola? / Inizia a puzzare, come carne guasta? / O di
zucchero si incrosta… / come un dolce di melassa? / Magari un po’ cede /
come il troppo che stroppia. / O alla fine scoppia?”»
Sorpresa numero uno. Bocca spalancata.
«Lo sai perché il signor Hughes scriveva versi così corti?» chiese, con gli
occhi che gli brillavano. Amava sorprendermi, soprattutto alla mia età.
«Be’, ehm…» balbettai.
«Perché lo pagavano a riga. Pensò che, se avesse tagliuzzato i versi, lo
avrebbero pagato di più.»
Vecchio bianco: 1. Nero di mezza età: 0.
Il coach si appoggiò allo schienale della sedia. Non parlava più per la
telecamera, ma abbandonandosi totalmente ai ricordi. Come se fossimo solo
noi due. Da amico ad amico. Era come se recitare quella poesia gli avesse
rammentato qualcosa cui non pensava da tanto tempo. Magari stava
pensando alla donna anziana che al Bat Rack mi aveva chiamato nigger.
«Sai, nel 1947, al mio primo anno da allenatore all’Indiana State Teachers
College, come era conosciuto allora… Adesso è l’Indiana State
University… Comunque, avevamo appena vinto il titolo dell’Indiana
Intercollegiate Conference, e la National Association of Intercollegiate
Athletics ci invitò a giocare il torneo nazionale di basket a Kansas City. Era
una cosa piuttosto grossa, per la squadra e per la scuola.»
«Per non parlare di un coach al primo incarico», aggiunsi.
Il coach sorrise malizioso. «Anche quello.» Poi il suo volto si irrigidì un
po’, la bocca improntata a un leggero broncio. «Ma c’era una condizione.
Non potevo portare Clarence Walker, perché era nero.»
Seconda sorpresa. Non avevo mai sentito quella storia. Speravo avesse
loro risposto in un certo modo, ma quello non era un film. All’epoca era un
allenatore al suo primo incarico, con una carriera e una famiglia cui
pensare.
«Non avrei dovuto sorprendermi, immagino», continuò. «Ma a dire la
verità, lo faccio sempre, quando la gente agisce in modo spregevole senza
una buona ragione. Dio sa se Clarence non ne avesse passate abbastanza.»
Non dissi nulla. Il coach stava tirando fuori altri ricordi dall’archivio. Ero
affascinato.
«A volte, quando la squadra era in trasferta, i ristoranti si rifiutavano di
servirlo o gli alberghi non lo lasciavano pernottare con il resto della
squadra.»
«E lei che cosa faceva?» chiesi.
Era quella la domanda classica in situazioni simili, no? Non come si
sentisse, ma che cosa facesse quando accadeva. Forse pensò che la mia
domanda fosse un’accusa, legata a quanto successo al Bat Rack. Non
volevo che lo fosse, così feci un passo indietro. «Voglio dire, che cosa
poteva fare?»
«Di solito gli trovavo altre sistemazioni.» Fece un respiro profondo. «Ma
un pomeriggio ci fermammo in un ristorante. La squadra occupò quattro
tavoli. Dopo che la maggior parte dei ragazzi ebbe ordinato, la cameriera mi
disse che non avrebbe servito Clarence.» Mi guardò negli occhi e sorrise.
«Le dissi che era inaccettabile. Che servisse anche lui o saremmo usciti
tutti. Lei ci rimase piuttosto male, probabilmente stava calcolando quante
mance avrebbe perso. Mi disse che non potevo farlo. “Stia a guardare”,
risposi io. Ci alzammo tutti e uscimmo.»
Sempre un uomo di squadra, il coach, pensai con affetto. «E che cosa fece
con l’ultimatum del torneo nazionale?»
«La stessa cosa che feci al ristorante. Dissi loro che avremmo giocato tutti
o non avrebbe giocato nessuno.» Non c’era spavalderia né orgoglio nella
sua voce. Era come se mi stesse raccontando che cosa aveva mangiato a
pranzo. «Avevamo vinto il campionato tutti insieme, e avremmo giocato
tutti o nessuno. La loro risposta fu nessuno.»
Quell’episodio era accaduto sessant’anni prima, eppure provai rabbia solo
a sentirlo raccontare.
«L’anno seguente vincemmo ancora la Conference, e la Naib cambiò
politica, così giocammo il torneo. Perdemmo in finale contro Louisville.
L’unica finale che abbia mai perso.»
«Che cosa accadde a Clarence Walker?»
«Fu il primo afroamericano a giocare in un torneo interuniversitario di
pallacanestro.»
Non avrei potuto essere più sorpreso. Il coach era stato un pioniere dei
diritti civili, mettendo a repentaglio la propria carriera, e non me ne aveva
mai parlato. Qualunque altro allenatore avrebbe usato quell’episodio per
guadagnarsi la mia lealtà e il mio rispetto. Ma il coach lealtà e rispetto
voleva guadagnarseli sul campo. Quello che rendeva la presa di posizione
del coach ancora più ammirevole (lo scoprii solo dopo), era che Clarence
Walker non era nemmeno in rosa. La squadra avrebbe fatto benissimo a
meno di lui, se non che, per come la vedeva il coach, non sarebbe più stata
una squadra. E quello sarebbe stato il peccato più grave.
Guardai l’anziano e rinsecchito novantottenne seduto davanti a me, con gli
occhiali spessi e le grandi orecchie a sventola, e provai una tenerezza nei
suoi confronti che mi sembrò inevitabile. Mi ero modellato a sua immagine
in moltissimi sensi, e stavo ancora imparando quanto fosse stata profonda la
sua influenza. Mi resi conto che tutto quello che avevo scritto sulla storia, la
politica e la cultura dei neri verteva su un unico tema: pareggiare il campo
di gioco in modo che tutti avessero le stesse opportunità. O, come avrebbe
detto il coach: «O mangiamo tutti o non mangia nessuno».

1
Nel testo originale l’autore distingue tra i due termini, negro e nigger, di solito tradotti entrambi con
l’italiano “negro”, tollerando il primo come un retaggio del passato (vedi pagina 60) e condannando
il secondo come un pesante insulto. Nella traduzione si è quindi scelto di evidenziare questa
differenza mantenendo per nigger la parola inglese [N.d.T.].
2
Leader di una famosa rivolta degli schiavi scoppiata nella contea di Southampton, in Virginia,
nell’agosto 1831 [N.d.T.].
Che cosa farebbe coach Wooden
Sulla religione, la politica e il non perdere la fede

Più che in qualunque altro modo, si può fare


del bene comportandosi bene
John Wooden

A vederlo soltanto dall’esterno, avreste detto che coach Wooden fosse un


sosia di Orville Redenbacher1 che incarnava i valori conservatori del
Midwest e predicava inflessibili precetti morali cristiani. Ma vi sareste
sbagliati di grosso. Il coach era una persona molto più complessa di
qualunque stereotipo: caratteristica che condividevamo. La differenza era
che io combattevo gli stereotipi razziali in un dibattito pubblico pieno di
ostilità, mentre lui cercava di sovvertirli senza troppo baccano, attraverso
azioni dietro le quinte di cui raramente la gente sentiva parlare. Io volevo a
tutti i costi cambiare la percezione che l’America bianca aveva della gente
nera, in modo che potesse vederci come suoi pari, degni degli stessi diritti
costituzionali; a lui non interessava come la gente lo vedeva, gli interessava
fare la cosa giusta. La sua complessità non è mai stata tanto evidente, né le
sue idee tanto sorprendenti, quanto nelle interazioni che nel corso degli anni
abbiamo avuto in materia di politica e religione. Questa coppia di argomenti
letali ha distrutto più amicizie e cene di famiglia di qualunque altra cosa, e
tuttavia ci ha avvicinato anche se spesso eravamo in disaccordo.
In nessun periodo della storia americana i temi della religione e della
politica sono stati più controversi o hanno ispirato più animosità che
durante i miei anni a Ucla e quelli subito dopo. Tra l’ascesa del movimento
dei diritti civili nel 1964 e la caduta di Saigon nel 1975, gli Stati Uniti
furono il campo di battaglia di rivolte, marce e proteste. L’escalation iniziò
con i neri che volevano il diritto di voto, ma presto crebbe fino a includere
studenti universitari e veterani che protestavano contro la guerra in Vietnam
e donne che cercavano l’affrancamento dalla repressione sessuale, sociale e
politica. La guerra in Vietnam (1955-1975) fece incontrare i gruppi di
contestatori – neri, pacifisti e sostenitori dell’emancipazione femminile –
che si unirono per ottenere più diritti civili per tutti. Le violenze e i
disordini scatenati nelle strade e nei campus universitari spaventarono
l’establishment dei maschi bianchi conservatori, ansiosi di ripristinare
l’ordine riportando l’orologio agli anni Cinquanta, quando le donne e i neri
venivano trattati come bambini e i bambini facevano quello che veniva
detto loro. Le conseguenze letali di quello scontro culturale e generazionale
arrivarono quando la Guardia nazionale aprì il fuoco a un raduno di protesta
della Kent State University nel 1970, uccidendo quattro studenti. Dopo
quell’episodio, non fu più possibile tornare indietro.
Nel bel mezzo della più grande rivoluzione culturale della storia
americana, io giocavo a basket.
E coach Wooden insegnava basket.
Ma quello che stava accadendo attorno a noi non si poteva ignorare…
soprattutto perché io ne ero parte entusiasta, mentre lui no. Inevitabilmente,
arrivammo allo scontro.

La figura politica più controversa in America durante quel periodo fu il


campione dei pesi massimi Muhammad Ali. I sentimenti degli americani
nei suoi confronti erano appassionatamente divisi: o lo amavi o lo odiavi.
Non c’erano vie di mezzo. Da una parte c’erano i bianchi della classe media
– il pensiero dominante, la gente comune – che condannavano Ali in quanto
ingrato, traditore e codardo. Dall’altra c’erano i progressisti del “nuovo
ordine”, i neri, la povera gente e altri americani emarginati che agitavano i
pugni per la frustrazione e che ammiravano Ali per il coraggio, la
schiettezza e il sacrificio personale.
Da una parte c’era coach Wooden che citava Kipling: «Se saprai aspettare,
senza stancarti di aspettare».
Dall’altra c’ero io che citavo Malcolm X: «Se si vuole qualcosa, bisogna
in qualche modo farsi sentire».
Incontrai per la prima volta Muhammad Ali nel 1966 quando ero
matricola all’università. Stavo passeggiando lungo l’Hollywood boulevard
con due compagni di scuola e lo vedemmo a qualche decina di metri, che
faceva trucchi magici da prestigiatore per i tifosi che gli si avvicinavano.
Era uno degli atleti più famosi al mondo – alcuni dicono il più grande
pugile mai vissuto – e faceva giochi con le carte per una folla di estranei
che avrebbe facilmente potuto liquidare con un autografo veloce. Gli
ammiratori si allontanavano di corsa ridacchiando estasiati, e non potei fare
a meno di ammirare il suo modo di stare con le persone. Per lui i fan non
erano un peso, erano una benedizione. E voleva che loro lo sapessero.
Archiviai quel pensiero per il futuro, per il giorno in cui i fan sarebbero
accorsi in gran numero anche per me.
Dato che ero un suo grande ammiratore, superai la timidezza e lo
avvicinai. Non sembrò sapere chi fossi. Fu amichevole e affascinante, come
lo era stato con tutti gli altri. Niente di più, niente di meno. E poi proseguì
lungo la strada con il suo piccolo entourage, felice e allegro, come un uomo
senza preoccupazioni. Un anno più tardi, a seguito del suo annuncio che
non si sarebbe arruolato nell’esercito, gli avrebbero tolto il titolo. «Non ho
niente contro i Vietcong», diede come spiegazione. «Loro non mi hanno
mai chiamato nigger». Aveva chiesto l’esonero per motivi religiosi, dato
che era musulmano: «La mia coscienza non mi permette di andare in giro a
sparare a mio fratello, né ad altre persone dalla pelle scura».
Ali era stato un mio idolo fin da quando avevo tredici anni, quando ancora
era conosciuto come Cassius Clay. Aveva vinto una medaglia d’oro come
peso mediomassimo alle Olimpiadi del 1960. La sua abilità, la sua velocità
e la sua grazia mi avevano ispirato a dare ancora di più come sportivo. La
mia ammirazione per lui non fece che crescere nel corso degli anni
successivi, perché dimostrò di essere il più schietto e irreprensibile atleta
nero che il Paese avesse mai visto. All’epoca ci si aspettava che la gente di
spettacolo e gli atleti neri di successo invitati a sedere al tavolo del potere
insieme ai bianchi fossero umili e riconoscenti, ma soprattutto che tenessero
la bocca chiusa. Non era il caso di Ali.
Era diventato famoso vantandosi delle sue capacità e prevedendo con
impudenza a quale round avrebbe messo ko il suo avversario. Molti bianchi
erano così irritati da questo giovane nero uscito dal nulla, che pagavano
moneta sonante per vederlo rimesso al suo posto. Quello era il brillante
piano di Ali fin dall’inizio. Gli rese milioni. Avrebbe potuto permettersi di
arruolarsi, sapendo che l’esercito non l’avrebbe di certo messo in situazioni
pericolose. Lo avrebbero utilizzato per reclutare uomini. La sua vita
avrebbe potuto continuare come prima, ma nonostante tutte le sue
pagliacciate, gli strepiti e le scene, era un uomo con una profonda morale,
che metteva la coscienza al di sopra degli affari.
La sua presa di posizione pubblica gli costò cara. Non solo fu spogliato
del titolo e bandito dalla boxe per tre anni, ma fu multato di 10.000 dollari,
arrestato e minacciato di una lunga pena detentiva. Nel 1971 la Corte
suprema annullò la condanna all’unanimità, ma ormai il danno era fatto. Era
stato allontanato dalla boxe quando era al top della condizione fisica.
Incontrai di nuovo Ali sempre l’anno che ero matricola alla Ucla, a una
festa sfarzosa cui partecipavano molti atleti universitari e professionisti. A
causa della mia timidezza, vagai per un po’ da solo per la sala e alla fine mi
sedetti alla batteria che i musicisti avevano abbandonato per una pausa.
Avevo preso un bel ritmo, quando lui d’un tratto si mise su uno sgabello
accanto a me a suonare la chitarra. Dopo quella sera Ali, che aveva solo
cinque anni più di me, divenne ai miei occhi una sorta di fratello maggiore.
Qualche mese più tardi, il campione di football Jim Brown, che all’epoca
era diventato un attore di Hollywood, mi invitò a Cleveland per unirmi a un
gruppo di sportivi e attivisti neri e discutere del rifiuto di Ali di arruolarsi.
Ero solo al secondo anno a Ucla e, con i miei vent’anni, la persona più
giovane che partecipò a quello che sarebbe stato ricordato come il
Cleveland Summit. L’incontro serviva a decidere se avremmo o meno
sostenuto pubblicamente Ali. Non si trattava affatto di una riunione pro-
forma; alcuni dei partecipanti erano stati nelle forze armate, Brown stesso
era stato alla scuola ufficiali riservisti dell’esercito, laureandosi a Syracuse
come secondo tenente. L’avvocato Carl Stokes, che di lì a qualche mese
sarebbe diventato il sindaco di Cleveland e quindi il primo sindaco nero di
una grande città degli Stati Uniti, aveva combattuto nella Seconda guerra
mondiale, proprio come coach Wooden.
Il summit non avrebbe nemmeno dovuto tenersi. Era iniziato con una
semplice telefonata a Brown da parte del manager di Ali, Herbert
Muhammad. Il manager voleva che Brown convincesse il pugile a ritrattare
il suo rifiuto, per evitare l’importante perdita di guadagni che avrebbe
potuto spazzarlo via, dal punto di vista finanziario, per non parlare delle
proteste pubbliche. Herbert era diviso tra le sue convinzioni religiose, che
erano le stesse di Ali, e il desiderio di proteggere l’amico dalla rovina.
Brown gli sembrò una buona scelta per convincere il campione, perché era
stato per anni un attivista senza peli sulla lingua. Ali lo avrebbe ascoltato.
Ma Brown era anche socio dell’agenzia che promuoveva gli incontri del
pugile, perciò aveva un tornaconto finanziario.
Brown prese il suo ruolo con serietà. Invitò me e il resto dei membri del
summit a far parte di una giuria per determinare la sincerità e l’impegno di
Ali. Tutti gli atleti accettarono subito di andare, a proprie spese. Io ero
eccitato all’idea di fare finalmente parte del movimento politico in maniera
più diretta e attiva, facendo qualcosa di importante, invece di lamentarmi e
basta. Volevo anche aiutare Ali, se avessi potuto, perché mi faceva sentire
fiero di essere afroamericano.
Il 4 giugno 1967 ci riunimmo negli uffici della Negro Industrial Economic
Union, che presto divenne la Black Economic Union. Brown era
cofondatore dell’associazione che promuoveva lo sviluppo della comunità
nera, e io ero volontario presso la sede di Los Angeles. Nonostante la nostra
ammirazione per Ali, lo torchiammo per ore. Molti erano venuti già decisi a
convincerlo ad accettare il servizio militare. Le discussioni si fecero
piuttosto accese, con domande e risposte sparate in una direzione e
nell’altra. Molto presto, però, ci rendemmo tutti conto che Ali non avrebbe
cambiato idea. Per due ore tenne banco sull’Islam e l’orgoglio nero
rimanendo fermo sulla sua convinzione che la guerra del Vietnam fosse
sbagliata.
Sapevamo tutti che, all’inizio della guerra, i ragazzi che si potevano
permettere di andare all’università erano esentati dall’arruolarsi, e che
quindi solo i ragazzi poveri, molti dei quali neri, erano costretti ad andare a
combattere. Era una guerra contro non bianchi, combattuta da non bianchi
per un Paese che negava loro i diritti civili fondamentali. Ma qui non si
trattava solo di politica, si trattava di quelle che Ali sapeva sarebbero state
le conseguenze delle sue azioni, per lui e per la Nation of Islam. Alla fine,
ci convinse e decidemmo di appoggiarlo.
Bill Russell riassunse il pensiero di tutti: «Invidio Muhammad Ali […].
Ha una cosa che io non sono mai stato in grado di avere e che pochissime
persone possiedono: una fede assoluta e sincera. Non sono preoccupato per
lui. È meglio equipaggiato di chiunque conosca, per incassare le prove che
il futuro ha in serbo per lui. Chi mi preoccupa è il resto di noi».
Al Cleveland Summit facemmo del nostro meglio per sostenere la
battaglia legale di Ali e far conoscere l’ingiustizia del reclutamento, ma
sapevamo di essere impotenti contro i promotori della guerra.
Cinquant’anni dopo, nel gennaio 2017, Jim Brown e io ci riunimmo con
alcuni altri sportivi e attivisti all’Institute for the Study of Sport, Society
and Social Change della San José State University per il simposio Words to
Action.
Essere a quel summit e ascoltare l’eloquente difesa, da parte di Ali, delle
sue convinzioni e la sua disponibilità a soffrire per esse, rafforzò il mio
impegno per farmi coinvolgere ancora di più dal punto di vista politico.
Quel bisogno di far parte di un movimento per assicurare giustizia e
opportunità per tutti gli americani non mi ha più abbandonato da allora.
Ma coach Wooden non era un grande ammiratore di Muhammad Ali.
Dopo il bombardamento di Pearl Harbor, Wooden aveva lasciato sua
moglie, i suoi due figli, un maschio e una femmina, e la sua carriera di
insegnante di letteratura, allenatore e giocatore professionista per entrare in
marina. Durante la Seconda guerra mondiale aveva servito il Paese come
istruttore di educazione fisica. Quando un improvviso attacco di appendicite
gli aveva impedito di salpare con i suoi compagni d’armi per il Pacifico
meridionale sulla Uss “Franklin”, il tenente Wooden era stato prontamente
rimpiazzato dal suo amico e compagno di confraternita, il quarterback della
Purdue Freddie Stalcup. Poco dopo, la “Franklin” era stata attaccata da un
aereo kamikaze giapponese che si era schiantato sulla nave uccidendo
Stalcup. La perdita dell’amico, insieme alla consapevolezza che avrebbe
potuto morire lui, aveva reso molto cari al coach i sacrifici dei soldati,
rendendolo meno tollerante nei confronti di chi si sottraeva al servizio
militare.
Mentre ero a Ucla, il coach e io non parlammo mai apertamente di Ali, ma
ogni tanto lui lasciava cadere qualche critica nei confronti del pugile.
Sapeva che Ali e io eravamo amici, quindi i suoi commenti erano sempre en
passant, come se stesse cercando di influenzarmi in modo subliminale,
quasi fosse un ipnotizzatore maldestro. «Prima è Cassius Clay, poi è
Muhammad Ali. Bah!» «Combattere per il tuo Paese è un privilegio, non un
obbligo.» «Non capisce che sta danneggiando il Paese?» Cose così.
Ignoravo i suoi commenti. Mi sentivo come un figlio di divorziati che
doveva stare a sentire mentre uno dei genitori si lamentava dell’altro. Li
rispettavo e ammiravo entrambi, e volevo continuare a mantenere rapporti
con tutti e due. Nonostante il mio crescente attivismo politico, continuavo
ad amare la pallacanestro. Per me era un’isola sulla quale rifugiarmi.
Conoscevo le regole, avevo talento e il risultato era sempre chiaro e
limpido. Con la politica, non sembrava mai esserci una soluzione, solo
nuovi ostacoli.
Ali era motivo di discordia tra di noi, ma non al punto da rovinare il
nostro rapporto. Io rispettavo la posizione del coach in quanto veterano, ma
sapevo che Ali era sulla strada giusta, una strada che il coach non avrebbe
capito. Era troppo attaccato alle vecchie idee per accettarne di nuove
facilmente. Per me era come la Costituzione degli Stati Uniti: il documento
originale aveva qualche pecca (come non garantire i diritti alle donne e
permettere la schiavitù), ma era anche predisposto a evolvere con i tempi e
a crescere per corrispondere allo spirito di uguaglianza che aveva in sé. Il
coach non è mai stato immobile nelle sue convinzioni; nel corso degli anni,
via via che leggeva e osservava cose diverse, si è sempre evoluto. Nel 2009
disse a un intervistatore che, dal punto di vista politico, si sarebbe descritto
come un democratico progressista che aveva votato per alcuni candidati
presidenti repubblicani.
Quali che fossero le sue convinzioni quando giocavo per lui, non giudicò
mai apertamente le mie. Nell’aprile 1968, subito dopo che il dottor King era
stato assassinato, partecipai a una manifestazione, all’interno del campus, a
sostegno del suo programma politico. Il raduno di protesta fu quanto di più
rilassato si potesse immaginare: un sacco di studenti con alcuni cartelli,
riuniti attorno a Bruin walk per un’ora. Eravamo così educati e tranquilli
che avremmo potuto essere lì per una dimostrazione sulla tintura delle
magliette. Ciò nonostante, qualcuno si infuriò e sentì il bisogno di
chiedermi che cosa stessi facendo. «Un giorno giocherai in Nba e farai
milioni! Perché non sei più riconoscente? Questo Paese ti ha dato tutto!
Sarai più ricco della maggior parte dei bianchi!» Cercai di essere paziente e
di spiegare loro che il mio successo non aveva niente a che fare con gli
argomenti in questione, ma non mi ascoltarono.
Coach Wooden sapeva della mia partecipazione alla protesta, ma non mi
disse niente. Niente occhiatacce. Niente commenti pungenti. Si comportò
come se non ne sapesse niente, atteggiamento che interpretai come segno di
approvazione.
La volta che andò più vicino ad ammettere in modo esplicito, in mia
presenza, che le attività contro la guerra che avevo condotto erano
giustificate, fu anni dopo, mentre pranzavamo a Westwood. Mi stava
raccontando di una lezione di letteratura che aveva tenuto una volta e di
come fosse difficile fare in modo che gli studenti apprezzassero
Shakespeare. «Per loro, ogni opera di Shakespeare era “un racconto narrato
da un idiota, pieno di frastuono e di furia, del tutto privo di significato”»2.
«È dal musical Fiddler on the Roof?» scherzai.
«Macbeth», disse lui, addentando il toast al formaggio.
«Come fa a ricordare tutte quelle citazioni?»
«Anni di insegnamento, Kareem. Non potrei dimenticarle nemmeno se ci
provassi.»
«Dovrebbe partecipare a qualche quiz televisivo. Farebbe una fortuna.»
Il coach non rispose. Per lui fare soldi non era mai stato particolarmente
motivante. Faceva le cose per amore o per dovere, mai per denaro.
«Lo sa che cosa non ho mai capito?» chiesi. «Perché ha smesso di
insegnare letteratura. È una delle sue passioni.»
I suoi occhi si illuminarono e capii che avevo riportato a galla un ricordo
felice. «Quando ero in marina ebbi una rivelazione. Mentre ero via, ricevetti
tantissime lettere dai miei giocatori, ma quasi nessuna dai miei studenti di
lettere. Allora capii di avere avuto un maggiore impatto sui primi che sui
secondi. C’è qualcosa, nello sport, nella competitività, negli allenamenti,
che avvicina.»
«Il sudore lega più della colla», dissi.
Il coach rise. «Potrei usarla.» Poi rimase in silenzio un istante. «Ma a
volte mi mancano l’aula, le storie, le opere teatrali, le poesie.»
Mi guardò come se cercasse di comunicarmi qualcosa senza esprimerlo a
parole. «Conosci Thomas Hardy?»
«Ho letto La brughiera per il corso di letteratura del secondo anno. È più
o meno tutto quello che so di lui.»
Bevve un sorso d’acqua ghiacciata, poi cominciò a recitare: «“Gettano
dentro Hodge il tamburino, a riposare / Senza bara, come l’hanno trovato: /
un kopje sta la sua tomba a indicare / sola altura nel veldt, il grande prato: /
e le costellazioni a ovest, straniere / da cui ogni notte sarà illuminato”».
Non avevo idea di che cosa stesse parlando. E non volevo dirlo, nel caso
fosse una cosa legata all’età. Resistetti alla tentazione di fare una battuta.
«Parla di un giovane soldato britannico, di non più di quindici anni,
durante la guerra boera in Sudafrica. Non è mai stato lontano da casa,
prima, e viene ucciso. Viene gettato in una buca a cielo aperto, senza una
bara. Un’altura indica la sua tomba, il che ci dice che non c’è lapide sul
luogo di sepoltura. Per il resto dell’eternità, questo ragazzino giacerà sotto
stelle a lui non familiari, lontano da casa.»
Non dissi niente. Ascoltai e basta.
«Il fatto è che questa poesia, che parla di una guerra di fine Ottocento, è
attuale oggi come allora. Non finisce mai, Kareem. Non finisce mai.»
Mi stava dicendo che avevo ragione a protestare contro la guerra in
Vietnam? O era solo stanco della guerra in generale?
Un indizio mi fu fornito nel 2007, quando tornò da Louisville, dove era
andato per il programma McDonald’s All-American per le scuole superiori,
di cui faceva parte. Mentre era laggiù, il coach aveva visitato la fabbrica di
mazze da baseball che produceva la famosa Louisville Slugger, e il
Muhammad Ali Center. Dal momento che aveva disapprovato Ali in
passato, ero sorpreso che, a novantasette anni, si fosse preso la briga di una
visita del genere. Sapevo che in marina era stato allenatore di boxe, mentre
era di stanza nell’Iowa. Le giornate erano troppo calde per la pallacanestro,
così lo avevano assegnato all’insegnamento della boxe ai cadetti, ma quel
viaggio sembrava motivato da qualcosa in più dell’amore per quello sport.
La volta successiva che il coach e io ci incontrammo, era pieno di
domande su Ali. Come stava? Quanto lo faceva star male il suo Parkinson?
Lo vedevo ancora? Quando giocavo nei Lakers, Ali bazzicava a qualche
mia partita, e io ogni tanto andavo ai suoi incontri. Eravamo rimasti in
contatto, ma le sue condizioni di salute gli impedivano di viaggiare molto.
Il coach era così eccitato di parlare di lui, che fui felice di rispolverare una
storia che ricordavo, di una volta che era venuto a vedermi giocare al
Forum nel 1980, poche settimane prima dell’incontro con il suo vecchio
sparring partner, Larry Holmes. «Quando entrò nello spogliatoio, rimasi a
fissarlo senza dire nulla», gli raccontai. «Ero scioccato di vederlo così fuori
forma. Aveva la pancia, e il viso gonfio. Gli dissi senza tanti preamboli che
doveva ritirarsi. Volevamo tutti che si ritirasse, ma lui non voleva stare a
sentire. Pensava di poter andare avanti per sempre.»
«Non è quello che pensiamo tutti?» rispose lui con un sorriso in volto.
«Mi ignorò completamente e mi chiese quanto pesassi. Quando gli dissi
centotredici chili, rise e rispose: “Ehi, anch’io”.»
«Per lui erano troppi», commentò il coach. «Ne andava della sua
rapidità.»
«È quello che gli dissi», replicai. «Si limitò a ridere come se non ci fosse
niente che non potesse gestire. Ma era chiaro che aveva iniziato a prendere
delle scorciatoie. Assumeva diuretici per perdere liquidi e peso.»
«Non va bene. Causano disidratazione, riducendo il potassio nel sangue;
possono venirti mal di testa e crampi muscolari. L’ho visto succedere.»
«È proprio come ci ha sempre detto lei, coach: se vuoi essere il migliore,
non puoi prendere scorciatoie. Vivo ancora secondo quella massima.»
Sorrise, felice che ricordassi le sue lezioni.
«Vede», gli dissi, «so citare i grandi anch’io.»
«Per l’amor del cielo, Kareem», protestò lui piano, voltando la testa così
che non potessi vederlo in volto.
Durante il mio periodo a Ucla, l’atteggiamento nei confronti della religione
stava subendo grandi cambiamenti in tutto il Paese. L’ipocrisia della guerra
del Vietnam e le rappresaglie contro i neri del movimento per i diritti civili
e le donne di quello per l’emancipazione femminile provocarono in molti
giovani un senso di disillusione nei confronti della classe dirigente.
Avevamo aperto il sipario, scoprendo che il mago altri non era che una
corporazione di uomini d’affari attenti solo ai propri interessi e i loro lacchè
della politica che approfittavano della guerra, degli immobili catapecchie e
del fatto che potevano sottopagare le donne. Molte religioni appoggiavano
lo status quo perdendo credibilità, e le persone iniziarono a esplorare fedi e
sistemi di credenze alternativi. Presero sempre più piede le comuni,
Scientology stava crescendo, i movimenti del potenziale umano, come Est3,
cominciarono a guadagnare in popolarità. La gente pagava migliaia di
dollari per stare seduta in una stanza senza poter andare in bagno o per
partecipare a un ritiro dove picchiarsi l’un l’altro con mazze imbottite.
Quelli che davanti a tali alternative scuotevano la testa non capivano il
cuore del problema. La gente aveva perso la fede nell’integrità del proprio
Paese, della propria religione e della società in cui viveva. E desiderava
disperatamente tornare ad avere fede in qualcosa.
Io ero di famiglia cattolica, avevo frequentato scuole cattoliche e, fino a
che non ero uscito di casa per frequentare Ucla, andavo a messa quasi ogni
domenica. Il mio rapporto con il cattolicesimo era sempre stato un po’
vacillante. Il programma della scuola cattolica ignorava qualunque nero
avesse fatto qualcosa di eroico, importante o innovativo. Da solo avevo
scoperto centinaia di artisti, scrittori, scienziati, leader politici, soldati e
inventori che, pur avendo profondamente influenzato la storia americana,
erano stati lasciati fuori dai libri di storia. Peggio ancora, i bianchi che
facevano saltare in aria le chiese uccidendo bambine innocenti, che
sparavano ai ragazzini neri disarmati, che prendevano a manganellate i
manifestanti neri, dichiaravano ad alta voce di essere fieri cristiani. I
membri del Ku Klux Klan lo erano.
Non sentivo alcun legame con una religione che aveva così tanti seguaci
cattivi. Certo, sapevo che anche il reverendo Martin Luther King era un
fiero cristiano, come lo erano molti dei leader dei diritti civili. Lo stesso
coach Wooden lo era e il movimento per i diritti civili era sostenuto da
molti coraggiosi cristiani bianchi che marciavano fianco a fianco con i neri.
Quando il Kkk attaccava, spesso i bianchi venivano picchiati in modo anche
più feroce dei neri, perché considerati traditori. Non condannavo la
religione in sé, ma me ne sentivo decisamente lontano.
Parte del mio dilemma consisteva nell’aver capito una cosa: il Lew
Alcindor applaudito da tutti non era in realtà la persona che gli ammiratori
volevano fosse. Loro volevano che rappresentassi il classico esempio di
uguaglianza, il ragazzo da poster, prova vivente del fatto che chiunque, di
qualunque estrazione, a prescindere da colore della pelle, religione o
condizione economica, potesse diventare una «storia di successo
americana». Per loro, io ero la dimostrazione che il razzismo era un animale
mitologico, come il Minotauro. Ma io sapevo che questa idea era
un’invenzione costruita per far sentire bene le persone, perché potessero
ignorare gli orrori di una vita vissuta in povertà e con poche possibilità di
uscirne.
Non potevo fare a meno di domandarmi se non fosse così che mi vedeva
anche Coach Wooden. Nonostante apprezzassi molto tutto quello che aveva
fatto per me, non potevo essere la persona che non ero, nemmeno per lui.
Semmai la sicurezza che sentivo nell’esprimere me stesso nasceva proprio
grazie alla formazione che lui mi aveva impartito. Più lui faceva di me un
buon giocatore e più mi sentivo sicuro a impegnarmi intellettualmente. E
più diventavo un buon giocatore, più vincevamo; e più vincevamo, più
diventavo famoso, il che mi dava un podio da cui esprimere le mie opinioni,
soprattutto per quanto riguardava le discriminazioni razziali.
Iniziai a leggere dell’Islam al primo anno di università, sia su libri di
religione sia nell’Autobiografia di Malcolm X. Nel 1968, quando studiare
da solo non fu più sufficiente, trovai un maestro in Hamaas Abdul Khaalis.
Mio padre me lo segnalò dopo che Hamaas lo aveva avvertito dei pericoli di
unirsi ai musulmani neri. Negli anni in cui giocai con i Milwaukee Bucks,
Hamaas mi insegnò la sua visione dell’Islam che abbracciai con
entusiasmo. Poi, nel 1971, all’età di ventiquattro anni, mi convertii
ufficialmente e divenni Kareem Abdul-Jabbar («il nobile di spirito,
servitore dell’Onnipotente»).
Il contraccolpo fu istantaneo e brutale.
I tifosi reagirono come se avessi lanciato sacchi di sterco contro le loro
chiese o pisciato sulla bandiera americana. Cercai di spiegare loro che non
stavo rinnegando il cristianesimo, ma piuttosto abbracciando una religione
che più si accordava al mio retaggio culturale (un venti, trenta per cento
degli schiavi portati dall’Africa era musulmano). I fan pensarono anche che
fossi entrato in Nation of Islam, il movimento islamico americano fondato a
Detroit nel 1930 al quale apparteneva Muhammad Ali. Pur essendo stato
molto influenzato da Malcolm X, che ne era stato membro, io preferii non
entrare nel movimento, perché volevo concentrarmi più sugli aspetti
spirituali che su quelli politici. A un certo punto, tra l’altro, Malcolm aveva
rinnegato il gruppo, appena prima che tre dei suoi membri lo assassinassero.
L’adozione di un nuovo nome rifletteva il mio rifiuto verso tutto ciò che
nella mia vita era in relazione con la schiavitù della mia famiglia e della
mia gente. Alcindor era il cognome del proprietario terriero francese che,
nella sua piantagione a Trinidad, possedeva i miei progenitori. I miei
antenati erano yoruba, provenienti da quei territori che adesso sono la
Nigeria e il Benin. Mantenendo il nome dello schiavista che possedeva la
mia famiglia mi sembrava di disonorarla. Il suo nome era il marchio a fuoco
della vergogna.
La mia dedizione all’Islam era assoluta. Acconsentii persino a sposare una
donna che Hamaas aveva suggerito per me, nonostante ne amassi un’altra.
Uomo di squadra fino in fondo, feci quello che “coach” Hamaas
raccomandava. Seguii anche il suo consiglio di non invitare i miei genitori
al matrimonio, un errore per rimediare al quale mi ci volle più di un
decennio. Anche se su alcune delle indicazioni di Hamaas avevo dubbi, li
allontanavo razionalizzandoli, in virtù della grande pienezza spirituale che
stavo vivendo.
Ma alla fine emerse il mio spirito indipendente. Non pago di ricevere tutto
il sapere religioso da un solo uomo, cominciai a studiare per conto mio.
Scoprii presto di non essere d’accordo con alcuni degli insegnamenti di
Hamaas sul Corano, e le nostre strade si separarono. Nel 1973 mi recai in
Libia e Arabia Saudita, per imparare un po’ di arabo in modo da poter
studiare il Corano da solo. Da questo percorso di ricerca uscii con
convinzioni più chiare e una fede rinnovata.
Da allora a oggi non ho mai dubitato né mi sono pentito della mia
decisione di convertirmi all’Islam. Ripensandoci adesso, vorrei aver avuto
la possibilità di farlo in modo più privato, senza la pubblicità e il chiasso
che ne seguirono, ma all’epoca mi ero unito al coro del movimento per i
diritti civili per denunciare il retaggio della schiavitù e le istituzioni
religiose che l’avevano appoggiata, e questo rese la mia conversione più
politica di quanto intendessi, coinvolgendo il pubblico in quello che per me
era invece un percorso intimo.
La mia conversione religiosa non fu mai un problema per coach Wooden.
La prima volta che dovette affrontare direttamente la cosa fu alle semifinali
Ncaa del 1968. Dopo la partita feci una cosa che non avevo mai fatto prima:
indossai un vestito africano a colori vivaci, rosso, arancione e giallo, che
chiamai il mio «abito di dignità». La mia gioia, quella sera, fu più forte
della mia reticenza. Non voleva essere una sfida per nessuno: era soltanto
un modo per dichiarare che stavo trovando le mie radici.
Nell’attraversare lo spogliatoio, con il dashiki che frusciava attorno alle
ginocchia, mi sentii ribelle e provocatorio, quasi sfidassi i presenti a dire
qualcosa. Coach Wooden stava parlando con un giornalista; al rumore si
girò e mi vide in tutta la mia sgargiante e pavoneggiante eleganza. Esitò il
tempo di capire la situazione, poi fece un enorme sorriso, come un padre
che guarda il figlio alla recita scolastica. Il suo sorriso mi diede sollievo e
uscii dalla stanza camminando ancora più fiero.
Della mia conversione non avevo parlato con nessuno in squadra. Non che
facessi il misterioso o che ci fosse qualcosa da nascondere, solo che non
sapevo come affrontare l’argomento. «Ehi, ragazzi, andiamo in campo e
polverizziamo quegli idioti. E, a proposito, sono diventato musulmano.
Forza Bruins!»
Anche se nessuno dei miei compagni accennò alla cosa con me o la
commentò, lo sapevano tutti. Ma si comportavano come se ne fossero
all’oscuro. Era un po’ come se avessi detto che avevo una malattia
terminale e loro non volessero angosciarmi parlandone. Lo stesso fece
coach Wooden, di sicuro perché pensava non fossero affari suoi. Per lui
ognuno doveva fare il proprio percorso spirituale e credo fosse felice che
alla fine ne stessi affrontando uno, perché significava che volevo fare la
cosa giusta.
Poi arrivò la sera in cui la conversione fu resa pubblica davanti all’intera
squadra, incluso il coach. Quel semplice viaggio in pullman, simile a molti
altri che avevamo già fatto, divenne una delle serate più memorabili della
mia vita, una di cui avremmo tutti parlato negli anni a venire. Bill Sweek in
seguito la descrisse come «un momento emblematico della mia vita e di
quella della squadra; un’esperienza spirituale che non ho mai dimenticato».
Anche Kenny Heitz ricordò quella serata come speciale: «È stato il
momento più memorabile di tutti gli anni trascorsi a Ucla. Un gruppo di
ragazzi che parlavano davvero, senza barriere. È stato veramente speciale».
Era l’inizio di dicembre del 1968. Avevamo appena battuto Ohio State,
tredicesima in classifica, a Columbus, e stavamo andando a South Bend per
giocare contro Notre Dame, che era quinta. Era sera tardi, eravamo stanchi
e sul pullman c’era silenzio. Non cantavamo né battagliavamo con gli
elastici dei sospensori e non stavamo disegnando baffi ai compagni di
squadra addormentati. Per noi era solo un viaggio di lavoro. Qualcuno si
stava appisolando o guardava fuori dal finestrino i campi bui; altri
chiacchieravano a voce bassa. Io ero seduto accanto a Steve Patterson,
secondo anno, la mia riserva.
Quell’anno nella squadra erano rappresentate diverse religioni: cinque o
sei cristiani, alcuni dei quali evangelici, due ebrei e un unico musulmano,
io. Steve Patterson era un cristiano convertito e amava parlare delle sue
convinzioni. Pensava che, se volevamo avere speranza di salvarci l’anima e
non andare all’inferno, avremmo dovuto essere tutti cristiani. Non lo diceva
in modo arrogante, sembrava spinto da sincera preoccupazione per la vita
eterna dei compagni. Non sopportava l’idea di pensarli a soffrire all’inferno
ed era chiaro che non sapeva niente della mia recente conversione. Mentre
lui proclamava le sue convinzioni ad alta voce, io ascoltavo con un orecchio
solo. Sentivo ripetere quei discorsi da tutta la vita, alla scuola cattolica e
anche dopo.
Ma a un certo punto Patterson andò un po’ troppo oltre dicendo: «Sai,
Cristo è morto per tutti gli uomini. Cristo è la sola salvezza, se non vuoi
andare all’inferno».
«Aspetta un secondo, Steve», lo interruppi. «E tutta quella gente che al
mondo non ha mai sentito parlare di Cristo? Non verrà salvata?»
Steve scosse la testa. «No, non credo.»
«Grazie mille, Steve», ridacchiò John Ecker.
«Fammi capire», dissi a Steve. «Una bambina di due anni, in India, muore
di colera, e va dritta all’inferno?»
Lui esitò. «Probabilmente in purgatorio.»
«Perché in purgatorio? È solo una bambina. Non ha fatto niente di male.»
«Nasciamo tutti nel peccato, Lew», replicò lui.
«Ma non ha alcuna colpa.»
«Abbiamo tutti il fardello della colpa. A causa di Eva. Leggiti la Bibbia,
amico.»
«L’ho letta, Steve. E non ha molto senso.»
«Ce l’ha, se la leggi davvero.»
«L’ho letta davvero. Ed è per questo che so che il purgatorio non viene
mai menzionato. La parola non è mai stata nemmeno utilizzata come
sostantivo prima del XII secolo.»
La stessa discussione stava quasi certamente avendo luogo in un centinaio
di dormitori in tutto il Paese, con studenti altrettanto seri e sicuri di avere
ragione.
Via via che le nostre voci si alzavano, i compagni di squadra si giravano
ad ascoltare. Magari speravano in una scazzottata, o magari erano solo
interessati alla discussione. Sui sedili davanti del pullman riuscivo a vedere
la nuca di coach Wooden, la testa china sul romanzo western che stava
leggendo. O non sentiva o non voleva essere coinvolto. Le cose avrebbero
potuto mettersi male: due ragazzi molto competitivi che pensavano
entrambi di avere trovato la via più diretta per l’illuminazione. Ma, a
prescindere dal nostro piccolo disaccordo, Steve era davvero una brava
persona che cercava di comportarsi e di agire bene. Partecipava attivamente
alla Campus Crusade for Christ (Campus della crociata per Cristo) e aveva
persino dato vita a un’organizzazione all’interno del campus, la Jesus Christ
Light and Power House (Casa della luce e della forza di Gesù Cristo), che
dava rifugio e aiuto non solo ai cristiani, ma a studenti di ogni fede. Non era
uno che parlava soltanto, si dava anche da fare, e io lo rispettavo per questo.
Invece di metterci a litigare, Steve e io cambiammo entrambi marcia,
iniziando ad ascoltarci a vicenda. La smettemmo di cercare a tutti i costi di
avere ragione, per provare invece a capire meglio le convinzioni dell’altro.
Gli altri giocatori, sparsi per il pullman, sentendo le nostre voci si
avvicinarono. Alla fine, quasi l’intera squadra si ritrovò riunita al centro del
mezzo, china sui sedili, per partecipare al dialogo. Alcuni cominciarono a
esprimere le loro opinioni. Nessuno si limitava a tentare di difendere le
proprie convinzioni; stavamo tutti ascoltando e facendo domande. Quella
sera, attraversando la buia campagna dell’Indiana, ci aprimmo agli altri con
un’intimità e una fiducia che non avevamo mai sperimentato prima. Alcuni
raccontarono di avere dei dubbi sulla propria fede, altri di averla persa. Altri
ancora di come allontanarsi da casa li avesse al contrario avvicinati alla
religione. Non eravamo mai stati così vicini gli uni agli altri, né come
individui né come squadra. E non lo saremmo stati mai più.
Per questa ragione, a un certo punto, sentii che era arrivato il momento di
dire: «Per quelli che non lo hanno sentito, mi sono convertito all’Islam
ortodosso».
Scese un silenzio da spazio profondo.
Mi preparai alla carica. Ora che avevo aperto il vaso di Pandora, mi
aspettavo che ne uscisse il solito veleno. Ma non fu così. Alcuni già ne
erano al corrente. Quelli che lo ignoravano ne rimasero solo vagamente
sorpresi. Sapevano che stavo studiando religione, filosofia e politica,
vedevano i libri che avevo sempre con me durante le trasferte in pullman o
nello spogliatoio: Anima in ghiaccio di Eldridge Cleaver, Irrational Man. A
Study in Existential Philosophy di William Barrett e, naturalmente,
l’Autobiografia di Malcolm X. Invece di giudicarmi, dimostrarono una
vivace curiosità per il processo che mi aveva portato a prendere quella
decisione e per quello che significava essere musulmani.
«Qual è la differenza tra musulmani neri e, ehm… musulmani normali?»
«Perché i musulmani hanno ucciso Malcolm X, se era anche lui un
musulmano?»
«Chi diavolo è Malcolm X?» chiese Bill Sweek.
«Hai mai letto un giornale, Bill?» gli domandò Kenny Heitz.
Risate.
«Per assicurarmi che scrivano bene il mio nome», rispose.
Altre risate.
Coach Wooden, sentendo che invece di urlare stavamo ridendo, si unì a
noi, ma solo per fare anche lui una domanda di tanto in tanto, non per
moderare o condurre la conversazione. Gli lanciai qualche occhiata per
vedere se riuscivo a capire la sua reazione al mio annuncio, però vidi solo
un largo sorriso di gioia, indirizzato non a me, ma alla squadra. I suoi
ragazzi non erano solo giocatori di pallacanestro, erano belle persone,
mature e rispettose, proprio come voleva che fossero. Per lui, questo era più
importante di qualsiasi campionato.
Il coach si preoccupava anche delle nostre vite “nell’aldilà”, che però per
lui significava le nostre vite dopo la pallacanestro. Per lui il basket era uno
strumento di insegnamento, per prepararci a vivere vite ricche e piene,
come padri, mariti e membri di una comunità. Per un paio d’ore, quella sera
di dicembre, fu sicuro di non doversi preoccupare del nostro aldilà.

Coach Wooden era un cristiano praticante che una volta disse: «Se venissi
mai messo sotto accusa per la mia religione, spero davvero che trovino
abbastanza prove per condannarmi». Ma era anche un uomo che ammirava
la semplicità. Invece di andarsene in giro a citare la Bibbia, faceva
affidamento su una cartolina che suo padre aveva dato a lui e ai suoi fratelli
quando avevano preso il diploma di scuola media. Su un lato c’erano alcuni
versi del reverendo Henry van Dyke, famoso per aver scritto tante poesie e
racconti brevi:

Quattro cose un uomo deve imparare,


per far la sua vita più vera diventare:
senza confondersi pensare, chiaramente,
amare il suo prossimo, sinceramente,
agire per motivi onesti, puramente,
in Dio e nel Paradiso avere fede, saldamente.

Sull’altro lato della cartolina c’era una lista intitolata Sette cose da fare:

1. Sii fedele ai tuoi principi.


2. Fai che ogni giorno sia il tuo capolavoro.
3. Aiuta gli altri.
4. Assorbi a fondo dai buoni libri, soprattutto dalla Bibbia.
5. Fai dell’amicizia un’arte.
6. Costruisciti un riparo per le giornate di pioggia.
7. Prega per ottenere una guida e rendi grazie per le cose belle, ogni
giorno.

Il coach rinominò la lista il suo «credo in sette punti» e visse tutta la vita
seguendone i precetti, e insegnandoli agli altri.
Nel corso della nostra amicizia, l’ho visto provare la sua dedizione nei
confronti di questi precetti quotidianamente. Ma l’ultimo punto fu messo in
pratica in particolare nel giorno del Ringraziamento del mio secondo anno,
quando mi invitò a casa di sua figlia per il pranzo tradizionale.
Ero troppo al verde per tornare a casa a New York, così un paio di amici,
Ray e Julian, vennero a trovarmi. Eravamo cresciuti insieme, ma adesso
giocavano a basket per una scuola del Wyoming. Il coach fu così gentile da
invitare a pranzo anche loro. La giornata era fredda per la California
meridionale, perché era piovuto per qualche giorno. Raggiungemmo la casa
della figlia del coach, nella San Fernando Valley, in macchina, perdendoci
un paio di volte e dovendo chiamare per avere indicazioni. Arrivammo
tardi, ma nessuno ci fece caso. Era quel tipo di famiglia. Quel tipo di
ricorrenza.
La casa era semplice. Nan, la figlia, ci accolse con entusiasmo, come se
fossimo cugini che non vedeva da anni. C’era anche il figlio del coach,
James, che fu altrettanto caloroso e ospitale. Le bambine di Nan stavano
giocando sul pavimento del soggiorno, con la televisione che trasmetteva la
parata del giorno del Ringraziamento di Macy’s4. Quando la vidi provai un
pizzico di nostalgia di casa, perché mio padre di solito ci portava a vederla.
Per questo motivo, ho continuato a guardarla ogni anno, anche da adulto.
Portai un po’ in giro le piccole sulla schiena, cosa che le fece divertire
tantissimo. Non erano mai state sollevate tanto in alto, prima. «Guarda,
mamma, sto volando», strillavano mentre le facevo girare per la stanza.
Il coach era più rilassato di quanto non lo avessi mai visto. Quel giorno
era solo un nonno, un papà e un amico. Non un allenatore. A causa della
schiena malmessa, ogni cinque minuti doveva sistemarsi sulla poltrona. In
marina, durante una partita, era stato sbattuto contro un palo d’acciaio,
riportando un grave infortunio alla spina dorsale che aveva richiesto diversi
interventi. Era per questo che camminava un po’ ricurvo, atteggiamento che
si faceva più pronunciato man mano che invecchiava.
Il pranzo fu tradizionale, come preannunciato. Tacchino, intingolo, purè di
patate, ripieno. Tutti i piatti prima o poi finiti su una cartolina del
Ringraziamento di Hallmark erano su quella tavola. E io ne fui felice.
La conversazione era leggera. Nan prese in giro i rituali superstiziosi del
coach. Conoscevo la sua consuetudine di tirarsi su le calze, sputare sul
parquet, pestare lo sputo con la scarpa, sfregarsi le mani e poi dare una
pacca sulla gamba al suo vice, prima di ogni partita.
«Sai delle forcine?» chiese Nan.
Se il coach era imbarazzato, non lo dava a vedere. Sembrava contento
delle attenzioni della sua famiglia.
«No», dissi io. «Forcine?»
«Ogni volta che trova una forcina, deve infilzarla nel pezzo di legno più
vicino. Albero, tavolo, veranda, non importa.»
«Ho letto che lo facevano i St Louis Cardinals», intervenne il coach, come
se quella fosse la spiegazione più ragionevole del mondo.
«A volte, il giorno della partita», continuò Nell, «ne lascio in giro una di
proposito, in modo che possa farlo.»
Raccontarono come, ogni volta che trovava una moneta per terra, se la
infilava nella scarpa sinistra e camminava in quel modo per tutto il giorno.
E così via per oltre un’ora. Nei due anni da quando avevo lasciato
l’appartamento dei miei, non mi ero mai sentito altrettanto a casa,
altrettanto a mio agio stando semplicemente seduto a tavola con altre
persone.
Dopo pranzo, il coach e io eravamo seduti in soggiorno. Toccava a Julian
e Ray giocare con le bambine. James, Nell e Nan erano in cucina e avevano
rifiutato il nostro aiuto per riordinare.
«Rendi grazie per le cose belle, ogni giorno», disse il coach. Era una metà
del settimo punto della lista che gli aveva dato suo padre. «Sai per che cosa
rendo grazie ogni giorno e non solo il giorno del Ringraziamento?»
«La sua famiglia?» tirai a indovinare. Sembrava il genere di sdolcinatezze
che dicevano sempre le persone di una certa età.
Si sistemò di nuovo sulla poltrona. «Lo sai di quando non salpai con la
nave, durante la guerra, perché stavo male? E che il compagno di università
che andò al mio posto morì?»
Annuii. L’avevo sentito.
«Ho sentito anche che il martedì sera finiva gli allenamenti prima per
poter correre a casa a vedere una serie in Tv.»
Lui annuì. «Sì. Le leggendarie imprese di Wyatt Earp. Andava in onda
prima che tu nascessi.»
«Non proprio. Lo guardavo sempre anch’io.»
«Hugh O’Brian faceva Wyatt Earp. Sapevi che durante la Seconda guerra
mondiale era nei marines? Aveva diciassette anni e fu l’istruttore reclute più
giovane di tutti i tempi.»
“Chissà dove le scova queste notizie?” pensai. «Comunque, i western le
piacciono ancora. Sul pullman li legge sempre.»
Lui mi sorrise. «Lo sai perché mi piacciono i western, Lewis?»
«Sono pieni d’azione?» La ragione per cui piacevano a me.
«Quello non fa male. Ma mi piacciono soprattutto perché i buoni sono
buoni e i cattivi cattivi. I buoni sanno qual è la cosa giusta da fare se
vogliono sconfiggere i cattivi.» Il suo sorriso si allargò. «E la fanno
sempre.»
«Non è realistico», dissi, lasciando trapelare la mia collera politica. «Il
mondo non funziona così.»
«No», disse lui. «Ma potrebbe. Potrebbe.»
Quella fu una delle lezioni più preziose che imparai da lui, e il coach
continuò a insegnarmela nel corso degli anni. Non era sufficiente
concentrarsi solo su quanto sbagliate fossero le cose; dovevamo avere
anche il sogno di come sarebbero potute essere. E dovevamo avere fiducia
di riuscire a far avverare quel sogno. O, come spesso diceva lui, citando
Robert Browning: «L’uomo dovrebbe andar oltre ciò che può afferrare, / o a
che cosa serve il paradiso?».

1
Imprenditore americano che fece successo grazie alla marca di pop corn che portava il suo nome
[N.d.T].
2
William Shakespeare, Tutte le opere, vol. I: Tragedie, Bompiani, Milano 2014 (traduzione di
Masolino D’Amico) [N.d.T.].
3
L’Erhard Seminars Training (Est) offriva un corso base di sessanta ore con il quale, attraverso i
concetti di trasformazione e responsabilità personale, mirava a portare i partecipanti a una maggiore
consapevolezza di sé [N.d.T.].
4
Parata tradizionale che si svolge dal 1924 a New York, organizzata dalla catena di negozi Macy’s
[N.d.T.].
Abbiamo un problema, qui al Pauley Pavilion
Come mi persi sulle orme di Wooden

Le cose girano meglio per chi sa sfruttare al


meglio il modo in cui girano le cose.
John Wooden

Alla fine di uno dei film western preferiti da coach Wooden, L’uomo che
uccise Liberty Valance, a un giornalista viene chiesto se pubblicherà la vera
storia (che smentisce la leggenda popolare) di come è stato ucciso il cattivo
Liberty Valance. Così facendo, distruggerebbe la storia, tanto amata, di un
eroico duello. Il giornalista risponde beffardo: «Questo è il West, signore.
Quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».
Molte delle mie esperienze passate con il coach non fanno che avvalorare
la leggenda dell’affabile e generoso guru del basket e della vita, ma lui
sarebbe deluso se non parlassi anche dei suoi difetti. C’erano l’uomo che
avrebbe voluto essere e l’uomo che era: a volte l’uomo che era lo deludeva.
A volte deludeva me. È il prezzo da pagare per essere grandi in qualcosa: la
gente si aspetta che tu sia perfetto. La sua grandezza non risiedeva
nell’essere perfetto, ma nell’ammettere i propri errori – e ne fece alcuni
gravi, nel periodo in cui lo conobbi – e imparare da essi.
Come il coach affrontò quegli episodi bui, fu la cosa che mi colpì
maggiormente, insegnandomi a gestire i miei frequenti passi falsi. Il coach
aveva un carattere irascibile. E poteva essere ostinato. Ma le mie reazioni
nei suoi confronti sono state diverse a seconda dello stadio cui era giunto il
nostro rapporto.
La nostra amicizia attraversò tre diversi stadi.
Il primo equivale al periodo in cui ero a Ucla, quando il nostro rapporto
era più formale, tra allenatore e giocatore. Abbiamo avuto momenti di
vicinanza emotiva, ma erano fugaci. In parte questo dipese dal fatto che
eravamo entrambi riservati, ma va anche detto che io non stavo cercando
niente di più. Avevo appena lasciato la casa di una madre autoritaria e di un
padre distante e severo, non volevo un altro genitore che mi criticasse.
Inoltre, come guide spirituali, volevo la saggezza e l’esempio di neri
realizzati – come Malcolm X, Muhammad Ali e Martin Luther King – e
non di un bianco di mezza età con la cadenza del Midwest, che portava i
calzini bianchi con le scarpe nere. Quello che non capivo era che, durante
quel periodo, il coach stava gettando le basi per importanti lezioni di vita,
che io interpretavo come semplici informazioni pratiche su come diventare
un giocatore migliore. Lui teneva molto a me e agli altri giocatori, non ci
considerava semplici studenti di passaggio. Voleva che uscissimo dalla sua
ala protettrice come uomini maturi e capaci, con una forte etica del lavoro e
un’ancora più forte coscienza morale. Se così non fosse stato, lo avrebbe
considerato un fallimento. Pur apprezzando tutto ciò, io mi sentivo un lupo
solitario che stava vivendo la sua avventura.
Il secondo stadio comprende gli anni in cui giocai a Milwaukee. Mi tenni
in contatto con il coach, ma non avevamo un’amicizia stretta. Di tanto in
tanto parlavamo al telefono, o andavo a trovarlo, quando ero in città.
Perlopiù lo avevo nella mia testa, una voce che sentivo echeggiare durante
gli allenamenti e le partite. Ma quella voce parlava ancora soprattutto di
basket. Era il mio ex insegnante, e io il suo ex studente che cercava di
renderlo orgoglioso, provando nel frattempo a farcela con le proprie gambe.
Il terzo stadio fu il più intimo e gratificante. Quando tornai a Los Angeles,
a giocare per i Lakers, riuscimmo a vederci più spesso e a conoscerci in
modo molto più profondo. Nel frattempo ero diventato più maturo, più
sicuro di me stesso, come uomo e come giocatore. Potevo guardare indietro
alle esperienze fatte con il coach e vederle allo stesso modo in cui lui
guardava i nostri allenamenti dall’alto delle gradinate del Pauley Pavilion.
Riuscivo a vedere il quadro d’insieme. A unire i puntini, rendendomi conto
del fatto che tutto quello che avevo imparato aveva influenzato le mie
azioni e le mie scelte anche al di fuori della pallacanestro. In questo modo,
fui in grado di dimostrare a coach Wooden la mia gratitudine e di aprirmi,
per continuare a imparare da lui. Non solo, potei ripagare la sua influenza
rendendomi presente per lui nel momento del bisogno, come lui lo era stato
per me. Non volevo più fare colpo su di lui, volevo sostenerlo.
Durante quest’ultimo stadio della nostra amicizia, arrivai a capire,
attraverso le lunghe e franche conversazioni, quanta pressione gli avessi
causato, decidendo di frequentare Ucla. Lo scoprii un pomeriggio nel suo
soggiorno. Stavamo guardando i Dodgers battere senza pietà i Padres. La
partita era un tale massacro che avevamo iniziato a fare battute sul fatto che
il coach dei Padres fosse probabilmente in panchina a sfogliare i dépliant
del Costa Rica per quando fosse andato in pensione.
«Quando te ne sei andato, Kareem, sono stato lì lì anch’io per mollare»,
mi disse d’un tratto.
«Cosa?» replicai io, scioccato. «Era all’apice della sua carriera. Avevamo
dato una bella lezione al mondo della pallacanestro universitaria.»
Lui annuì senza dire nulla, mentre guardava Jeff Kent, dei Dodgers,
battere una palla a terra e correre in seconda base. Sapevo che non potevo
mettergli fretta. Le parole erano importanti, per lui, e per trovare quelle
giuste aveva bisogno di tempo. Citava spesso Mark Twain: «La differenza
tra una parola quasi giusta e una giusta è davvero una grossa questione: è la
differenza che c’è tra una lucciola e un lampo». Quando parlava, il coach
preferiva il lampo.
«Prima che arrivassi tu, avevamo vinto due campionati nazionali di fila.
Avevamo Gail Goodrich, Kenny Washington e Doug McIntosh: tutti grandi
giocatori. Vincere fu eccitante per i tifosi, perché non si trattava di una
conclusione scontata. Ma da quando sei arrivato tu, l’aspettativa del
pubblico è cambiata: l’idea era che, con te, non potevamo perdere. Vincere
non era più solo una questione di preparazione, era una questione di fare
arrivare la palla al lungo. D’un tratto non giocavamo più per vincere,
giocavamo per non perdere. Lo detestavo.»
Ora era il mio turno di sforzarmi di trovare il lampo. Mi vennero in mente
solo lucciole. «Io… ehm… non lo sapevo.»
Lui scrollò le spalle, lamentandosi con il televisore: «Per l’amor del cielo,
figliolo, colpisci quella palla, forza.» César Izturis aveva appena lasciato
passare due lanci, entrambi strike.
«Il fatto è, coach, che non abbiamo mai giocato con l’idea di passarmi la
palla e basta. Ricorda quando mi disse che sarebbe stato facile per lei
costruire un attacco che mi assicurasse di essere il più grande realizzatore di
tutti i tempi nella storia universitaria?»
«Certo che lo ricordo.» Sogghignò. «Stavo cercando di manipolarti, per
farti diventare un uomo di squadra. Le squadre con realizzatori superstar è
raro che vincano i campionati.» Si girò e mi guardò con un sorriso. «Alla
fine non dovetti fare molta fatica. Eri già un uomo di squadra. Ricordi che
cosa mi dicesti?»
«Qualcosa tipo: “La smetta di cercare di manipolarmi, vecchio
bislacco?”»
Lui rise. «No. Ti dissi che potevamo fare di te il più grande realizzatore di
tutti i tempi, ma che avremmo dovuto rinunciare ai campionati, e tu mi
dicesti: “Coach, lo sa che non è quello che voglio”.»
Si appoggiò allo schienale, sorridendo ancora al ricordo.
«Ragazzi, ero fantastico», dissi io.
Il coach rise di nuovo. «Riuscivi a esserlo. Di tanto in tanto.»
Mentre in televisione passava una pubblicità dei materassi, si sistemò sulla
sedia. Si fece di nuovo serio. «Quando sei in cima alla classifica, la gente si
aspetta che tu vinca. Non si accontenta di niente di meno. E non hanno
timore di fartelo sapere. Per quanto sia bravo un allenatore, non può
rimanere il numero uno per sempre.»
Mi limitai ad ascoltare. Alcuni giorni era la cosa migliore che potessi fare
per dimostrargli la mia amicizia.
Lui continuò: «Sai che cosa dico sempre? “Vorrei che tutti i miei amici
allenatori vincessero un campionato nazionale. Mentre quelli di cui non ho
una grande opinione, vorrei che ne vincessero diversi”».
Mi resi conto di non essere stato solo il fautore dei suoi più grandi trionfi,
ma anche la causa delle sue più grandi ansie. Mi vergognai del fatto che, nei
quattro anni che avevo giocato per lui, non avevo mai pensato nemmeno
una volta alla pressione che doveva aver affrontato. Lo guardai con
ammirazione per non aver detto una sola parola – lampo o lucciola – su
quello che stava passando, né a me né a nessun altro della quadra. Mi si
affacciò alla mente la frase di Hemingway: «Il coraggio è la grazia messa
sotto pressione» e quasi la pronunciai a voce alta, perché il coach sarebbe
stato felicissimo di sentire che, per una volta, ero io a fare una citazione. Ma
non lo feci, pensando che il complimento lo avrebbe messo in imbarazzo.
Invece dissi: «Ha intenzione di monopolizzare le noccioline, coach?».

A volte, prima del nostro allenamento, il coach andava in palestra quando


era ancora vuota con il team manager Bob Marcucci, per fare alcuni tiri
liberi a due mani dal basso. All’epoca immaginavo che si stesse solo
mantenendo in esercizio. In fondo, tutti conoscevano il suo straordinario
record di 134 tiri liberi consecutivi in 46 partite di fila. Ripensandoci, mi
rendo conto che quella routine era invece un tentativo di alleviare la
pressione che lo opprimeva.
Quella pressione causò qualche incrinatura nel rapporto del coach con i
giocatori e lo staff. Durante una trasferta a Chicago, Bill Sweek fece uno
scherzo ad alcuni compagni di squadra, il classico secchio d’acqua sopra la
porta. Il suo gesto sfociò in una battaglia d’acqua generale e alla fine il
direttore dell’albergo scrisse una lettera di reclamo all’università.
Nonostante gli istigatori fossero stati Sidney Wicks e Lynn Shackelford, la
punizione più pesante la ricevettero tre riserve, che furono lasciate in
panchina per quattro partite. La squadra non poté fare a meno di notare
l’ingiustizia della cosa, soprattutto da parte di un uomo che una volta aveva
affermato di vedere la pallacanestro come un modo per insegnare l’etica.
La squadra pensava anche che il coach facesse delle preferenze nei
confronti di alcuni dei titolari, in particolare nei miei. Gli altri giocatori
dovevano condividere le stanze d’albergo, mentre io avevo sempre la mia
personale. Pur rendendomi conto che poteva sembrare un trattamento
speciale, era solo una soluzione pratica al fatto che io avevo bisogno di un
letto king-size, a causa dell’altezza, ed era raro trovare una camera
d’albergo con due letti king-size. Inoltre mi servivano due bicchieri di succo
d’arancia a colazione, mentre gli altri ne avevano uno, ma anche quella era
una concessione alla mia taglia, e non al mio status.
Altre lamentele, a proposito dell’elasticità delle regole sull’abbigliamento,
sulla presenza ai pasti e sulla lunghezza dei capelli, venivano a volte
riportate direttamente alla stampa. Alcune erano giustificate: il coach aveva
ammorbidito le regole, da quando ero arrivato io. Non mi sentivo certo in
colpa per questo. Quale adolescente si lamenta, se le regole vengono un po’
aggirate a suo vantaggio? Il coach, però, non favoriva di certo lo spirito di
gruppo, dicendo a uno dei miei compagni che era fortunato che io fossi in
squadra, perché se non ci fossi stato io non ci sarebbe stato nemmeno lui.
«Se avessimo solo poche paia di scarpe buone», ammise con un
giornalista, «vi garantisco che Lew ne avrebbe uno.» Detta da un uomo
famoso per i suoi principi, quella sua giustificazione suonava vuota: «Mi
rendo conto di non essere rigido come lo ero un tempo, ma nemmeno la
società lo è più».
Di alcune lamentele non ero nemmeno al corrente; fino a che, molti anni
dopo, la squadra non si riunì a casa di Andy Hill. Qualcuno aveva in mano
una bottiglia di vodka e stava cercando di fare uno Screwdriver. «Dov’è il
succo d’arancia?» chiese. «L’ha bevuto tutto Kareem», rispose qualcun
altro, e si misero tutti a ridere. Non avevo idea del perché fosse divertente,
fino a che Marcucci non me lo spiegò.
Un’altra crepa nell’unità della squadra si aprì nel 1968, quando il
viceallenatore Jerry Norman lasciò Ucla. La ragione ufficiale fu che aveva
bisogno di guadagnare di più. Prendeva solo 14.000 dollari l’anno, mentre
coach Wooden, con 17.000, non stava molto meglio. Per fare un confronto,
Dean Smith, a North Carolina, ne guadagnava 85.000. Ma Norman aveva
anche fatto sapere che era frustrato per alcuni commenti del coach dopo la
nostra sconfitta di Houston. Coach Wooden aveva dichiarato alla stampa
che Norman aveva suggerito una strategia box and one, per contenere Elvin
Hayes, ma che lui l’aveva cambiata in una diamond and one, rivelatasi poi
più efficace. Norman insisteva nel dire che la strategia era stata una sua
idea, e si creò una spaccatura che in seguito si allargò anche alla moglie di
Norman, June. «Secondo lei, Jerry non riceveva mai abbastanza credito»,
raccontò Wooden. «Forse era vero, non so. È difficile a dirsi. Per quanto mi
riguarda, so di aver sempre cercato di ascoltare i miei vice.» Norman lasciò
la pallacanestro per diventare un broker, guadagnando 60.000 dollari il
primo anno e diventando alla fine multimilionario. Il coach riconobbe in
pubblico il merito di Norman, ma il danno ormai era fatto.
Una volta, per una foto di squadra, alcuni giocatori si presentarono
indossando scarpe Adidas invece che quelle ufficiali, le Converse, e il
coach perse le staffe. Ci fece una predica su responsabilità, maturità e così
via. Tutti sapevano che era un buon amico di Chuck Taylor, l’uomo-
Converse, ma sapevamo anche che la Converse era una tale potenza nel
mercato delle scarpe da pallacanestro da non ritenere necessario cambiare i
suoi modelli. Persino il coach ammise che c’era un problema: «I miei
giocatori le indossavano, ma dovevo sistemare io stesso ogni nuovo paio,
tagliando con un rasoio la cucitura che cadeva proprio sul dito mignolo. Se
non l’avessi fatto, i giocatori sarebbero tutti andati in campo con le
vesciche». Era chiaro che il coach fosse combattuto tra la lealtà nei
confronti dell’amico e quella nei confronti dei suoi giocatori. Per noi, era
ovvio, non avrebbe dovuto avere dubbi. Alla fine, nel 1970 il coach arrivò
alla stessa conclusione, rimpiazzando le Converse con le Adidas come
scarpe ufficiali. Lasciata Ucla per giocare da professionista a Milwaukee,
fui il primo a indossare le Adidas in pelle con le tre strisce.
Alcuni degli scontri tra il coach e i giocatori furono molto più personali.
La decisione del coach di mettere Edgar Lacey in panchina dopo soli
undici minuti dall’inizio della nostra “partita del secolo” con Houston portò
all’abbandono, da parte di Edgar, della squadra, cosa che ci fece perdere un
giocatore fondamentale. Il mio compagno di stanza, Lucius Allen, fu poi
sospeso per tutto il suo ultimo anno dopo il suo secondo arresto per
detenzione di marijuana. Avendo perso due preziosi elementi della squadra
e con il divieto di schiacciare, sentivo crescere la pressione di non
interrompere la nostra serie vincente. Prima di una partita in casa contro
Washington State, fui colpito da un’emicrania così forte che il medico mi
proibì di riscaldarmi fino a quindici minuti prima dell’inizio del gioco.
Temetti di non poter giocare, o che la cosa potesse ripetersi. La pressione
continuava ad aumentare.
Edgar Lacey e Lucius Allen erano cari amici. Perderli mi aveva da
principio lasciato un po’ stressato e depresso. Avevo perso due amici, e la
squadra aveva preso una bordata. Ma non biasimavo il coach per l’amara
partenza di Edgar: il capo era lui, e noi eravamo lì per giocare come voleva.
Senza di loro, gli unici altri giocatori neri erano Sidney Wicks e Curtis
Rowe, entrambi di un paio di anni più giovani di me, e molto più chiassosi
ed estroversi. All’università, l’età può costituire una barriera molto più forte
e pericolosa del colore della pelle. Così cercai di riallacciare i rapporti con
altri compagni di squadra, come Bill Sweek e Mike Lynn, e con Bob
Marcucci. Bob e io ci avvicinammo grazie alla passione comune per i film
di arti marziali (avevo appena iniziato ad allenarmi con Bruce Lee) e il jazz.
«Riallacciare i rapporti con Kareem fu molto appagante», disse in seguito
Marcucci. «Andavamo al cinema o nei jazz club. Era bello.» Queste
amicizie riuscirono a tirarmi su di morale, al punto che persino la stampa lo
notò. «La nonchalance che mostra in campo non ci è nuova, ma i suoi modi
affabili e rilassati in pubblico lo sono senz’altro», scrisse Jeff Prugh sul
«Los Angeles Times». «Il volto gli si illumina in un sorriso disponibile.
L’atteggiamento è tranquillo ma cordiale. I sentimenti vengono a galla più
immediati e sono a volte espressi con bonarietà.»
Per questo mi dispiacque quando Bob e il coach alla fine si scontrarono.
Durante una delle nostre trasferte a Washington, Sidney Wicks e alcuni
degli altri giocatori sgattaiolarono fuori dall’albergo per andare a una festa.
Dato che uscire era stato piuttosto facile, decisero di tornare con qualche
ragazza, che fecero entrare di nascosto insieme a loro. Quando il coach lo
scoprì, diede ai colpevoli una solenne lavata di testa. Poi rimproverò Bob,
che, facendo parte dello staff, avrebbe dovuto tenere un comportamento più
esemplare. Bob gli rispose: «Lei usa sempre due pesi e due misure!»
Continuò elencando alcuni esempi e altre lagnanze che erano andate
crescendo. Si aspettava che il coach lo cacciasse dalla squadra su due piedi.
Ma non andò così. Wooden annuì e disse: «Okay, Bob, vai agli
allenamenti».
Quando Bob me lo raccontò, rimasi più sorpreso di lui, ma a ben pensarci
non lo ero veramente. Il coach si scaldava come chiunque, ma alla fine si
faceva guidare da correttezza, civiltà e razionalità. Persino Bob, tempo
dopo, disse: «Una delle cose più incredibili del coach era che ascoltava
davvero le persone, persino nella foga dello scontro».
L’incidente più incredibile con protagonista coach Wooden di cui sia mai
stato testimone fu alle semifinali nazionali di Louisville. Stavamo vincendo
tutte le partite, ma il coach aveva notato una certa mancanza di energia nella
squadra, che temeva potesse essere causata da un certo autocompiacimento.
La fiacca si fece evidente quella sera, mentre ci sforzavamo di mantenere il
leggero vantaggio che avevamo sui Bulldogs. Il coach era teso e quando,
nel primo tempo, Bill Sweek fece un errore in difesa, lo tolse dal gioco.
Sweek si sedette in panchina fumante di rabbia. Era all’ultimo anno e con i
Bruins aveva giocato ottantanove partite. Stare a sedere gli sembrava una
misura oltremodo dura. Quando John Vallely fu espulso per falli a soli
quattro minuti dalla fine, il coach fece cenno a Sweek di entrare. Bill decise
di esternare il suo scontento avvicinandosi al tavolo con passo lento e
l’atteggiamento da sbruffone. Il coach reagì con un brusco «Siediti!», e al
suo posto fece entrare Terry Schofield. Sweek era così furioso che lasciò la
palestra, andando negli spogliatoi.
In quel momento, io ero in campo e non notai nulla. Riuscimmo, per soli
tre punti, a strappare la vittoria che ci portò alle finali. La squadra si
precipitò nello spogliatoio, sollevata di aver vinto. Una volta lì, iniziai a
svestirmi per fare la doccia. E fu allora che sentii urlare.
«Santo cielo, Bill, cosa avevi in mente?» gridò il coach.
«Che non avrebbe dovuto togliermi dal gioco!»
«Non sai di che cosa stai parlando. Tu non hai idea di quello che faccio
io.»
«Solo perché davanti al mio nome non c’è scritto “coach”, non vuol dire
che non conosca la pallacanestro!»
Con indosso solo i pantaloncini, attraversai in silenzio, a piedi nudi, lo
spogliatoio e vidi coach Wooden trattenuto per le braccia dai vice Gary
Cunningham e Danny Crum. Sweek era ancora alle docce, con un
asciugamano in vita, il mento sollevato in direzione del coach in segno di
sfida. Wooden sembrava volersi gettare su di lui con i pugni tesi.
«Vuole picchiarmi, vecchio? Sono cinque anni che mi prende in giro!»
gridò Sweek.
Alcuni dei ragazzi ridevano, ma il resto di noi fissava la scena a bocca
aperta. Non avevamo mai visto il coach così arrabbiato.
«In effetti, ha sempre ragione lei», continuò Sweek. «Edgar Lacey se n’è
andato, ma lei aveva ragione e lui torto. Don Saffer se n’è andato, ma lei
aveva ragione e lui torto. Tutti questi problemi e lei non ha mai torto. Ha
mai pensato di essere lei, il problema?»
A questa domanda il coach sembrò calmarsi. Si voltò e uscì dallo
spogliatoio, assicurandosi che i giornalisti fossero tenuti alla larga, in modo
che nessuno potesse far trapelare quello che era successo. Sweek salì sul
pullman e fece il viaggio di ritorno convinto non solo di essere ormai fuori
dalla squadra, ma probabilmente anche fuori da Ucla.
In quella disputa, ero dalla parte del coach. Sweek cercava sempre di
forzare i limiti che lui poneva. Non mi dava fastidio che gli altri giocatori
dicessero al coach quando non erano d’accordo con lui, era una cosa
ragionevole e anche positiva per il morale della squadra. Ma Sweek
sembrava godere nello spingersi al punto in cui il volto del coach si
irrigidiva, diventando una maschera grigia, segnale che aveva raggiunto il
limite e non avrebbe tollerato che si andasse oltre.
Il venerdì mattina andammo tutti a fare colazione. Immagino di aver
bevuto due succhi d’arancia, mentre tutti gli altri ne bevevano uno. Sweek
pensava di strappare un’ultima colazione al budget del campus, prima di
essere spedito a fare le valigie. In quel momento arrivò il coach, dicendo
che voleva parlarci. Stringemmo i denti, aspettandoci di vedere la sua lesta
e spaventosa spada calare sulla testa di Sweek.
«Ho pensato molto a quello che Bill ha detto ieri sera», cominciò. La voce
era bassa ma ferma. Risoluta. «E capisco che non è del tutto sbagliato.»
Sweek quasi sputò l’aranciata che stava bevendo. Guardò il coach con fare
circospetto, come se si aspettasse che da un momento all’altro gli addetti
alla sicurezza facessero irruzione nella stanza per trascinarlo fuori.
«Ora, di certo non sono d’accordo con il modo in cui mi ha fatto pervenire
le sue opinioni, o con il suo comportamento in campo, non più di quanto
non giustifichi la mia reazione. Ma sono felice che sia venuto fuori.»
Lo fissammo in silenzio. Non una forchetta o un coltello toccarono i piatti.
«A ogni modo», continuò il coach, «voglio solo che sappiate quanto sono
fiero di tutti voi…» Nel dire «tutti» guardò dritto negli occhi Sweek. «E
quanto sono felice di avere il privilegio di allenarvi.» Gli fece un cenno con
la testa. «Vieni qui, Bill.»
Sweek si alzò e si avvicinò esitante al coach. Wooden allungò la mano e
Sweek si ritrasse, solo un pochino. Poi sorrise e si strinsero la mano, mentre
il resto di noi si lasciava andare a un profondo quanto privato sospiro di
sollievo.
Non fui sorpreso dall’esito della loro lite. Basandomi su quello che sapevo
della personalità e del carattere del coach, era inevitabile che avrebbe preso
a cuore quello che gli aveva detto uno dei suoi giocatori, che si sentisse in
obbligo di rappacificarsi, impartendoci nel frattempo una lezione di umiltà.
Altri allenatori si sarebbero sentiti in dovere di scendere in campo contro
Sweek per provare a tutti chi comandava. Ma noi sapevamo già chi
comandava, ed era in momenti come quello che eravamo felici che lui fosse
il coach.
Quella giornata ebbe su di noi un effetto duraturo. Bob Marcucci un
giorno disse quanto fosse rimasto «allibito che Wooden fosse stato così
onesto, ammettendo quanto gli importasse della squadra. A parte quando si
trattava di sua moglie e dei suoi figli, non era disposto a parlare dei suoi
sentimenti così apertamente. Non voleva pesare sugli altri. Fece una grande
impressione a tutti». Sweek rimase colpito in modo particolare: «Penso che
la maggior parte degli allenatori mi avrebbe sbattuto fuori dalla squadra. Ci
facevano tutta quella pressione… So che subiva la pressione, ma che
nonostante ciò, e nonostante ciò che avevo fatto, abbia cercato di farci
sentire uniti, di sistemare la questione, lo trovai notevole. Mi perdonò e mi
volle in squadra a giocare la finale.»
Sono sicuro che al pubblico sarebbe piaciuto immaginarci come una
grande famiglia felice e per molti versi lo eravamo. Non avremmo potuto
riscuotere tanti successi per così tanto tempo senza provare rispetto e affetto
l’uno per l’altro, ma come ogni famiglia che passa tutti i giorni insieme
sotto la pressione e lo sguardo del pubblico, c’erano disaccordi. Aspettarsi
che il coach potesse tenere a bada una masnada di atleti su di giri e
altamente competitivi, caricati nell’ego dalla consapevolezza di essere la
migliore squadra della nazione, senza mai arrabbiarsi, sarebbe come
aspettarsi che avesse poteri soprannaturali. Io preferivo quell’umile persona
di sani principi che si sforzava di fare la cosa giusta nonostante l’enorme,
devastante pressione, nonostante i dubbi sul proprio operato, nonostante i
passi falsi, quando cercava di essere all’altezza dei propri elevatissimi
standard. Preferivo la sua “grazia sotto pressione”.

Dopo la laurea mi trasferii a Milwaukee, per giocare con i Bucks e vivere


finalmente la mia vita da adulto. Grazie a coach Wooden, lasciai Ucla in
grado di giocare in un campionato pro. All’epoca pensavo che il basket
fosse la cosa più importante che il coach mi avesse insegnato. Come molti
ragazzi che lasciano il mondo protetto degli studi, non avevo idea di che
cosa avessi davvero imparato. L’avrei scoperto con il tempo.
Nei sei anni trascorsi a Milwaukee, ebbi moltissime opportunità di
riconsiderare il periodo vissuto a stretto contatto con coach Wooden ed ebbi
un sacco di illuminazioni e momenti in cui mi fermavo a pensare: “Ah,
allora era questo che intendeva”. Mi ricordavano il vecchio detto che il
coach citava quando credeva che non lo stessimo ascoltando: «Quando ero
un ragazzino di quattordici anni, mio padre era così ignorante che riuscivo a
malapena a sopportare di averlo attorno. Ma quando arrivai a ventuno, fui
sorpreso da tutto quello che il vecchio aveva imparato in sette anni».
Ogni tanto gli telefonavo, giusto per farmi sentire, e se giocavo a Los
Angeles gli facevo visita. Eravamo in buoni rapporti, ma non ancora amici.
Era sempre il mio ex insegnante, mentre io ero la giovane star, impaziente
di provargli quanto fossi cresciuto da solo. Le nostre conversazioni
vertevano perlopiù sulla pallacanestro, un misto di racconti delle mie
esperienze nel mondo pro e reminiscenze del periodo in cui giocavamo
insieme.
«Sai, Kareem», mi disse in occasione di una delle mie visite, «mi sono
sempre chiesto una cosa, a proposito di quell’ultima partita al Pauley con
Usc.»
«L’ultima partita della regular season», puntualizzai.
«Era solo la tua seconda sconfitta, con me.»
«Mi creda, me la ricordo.» Quella sconfitta aveva posto fine a una serie di
cinquantuno vittorie consecutive al Pauley Pavilion e diciassette contro
Usc.
«Mi è dispiaciuto perché era presente tuo padre. Non suonava il trombone
con la banda dell’università, quel giorno?»
«Primo trombone, come mi ricorda sempre.»
«Giusto. Primo trombone.» Aprì un pacchetto di cracker che gli avevano
portato con la zuppa di pomodoro. Li tolse con circospezione
dall’involucro, come se fossero radioattivi. «Quella sconfitta mi ha sempre
fatto stare male.»
«È stata solo la seconda su novanta partite giocate, coach», gli rammentai.
Stavo cercando di fare finta che non mi importasse, ma la verità era che
dava noia anche a me. E anche il fatto che mi desse noia mi dava noia.
Ormai giocavo in Nba, e avevo cose ben più importanti cui pensare di una
stupida partita universitaria.
Ero stato il primo a essere premiato come migliore giocatore del torneo
Ncaa per ben tre volte.
Avevamo vinto tre titoli Ncaa di fila. Quell’unica partita non era
importante. Perché ne parlava mentre mangiavamo toast al formaggio e
zuppa di pomodoro?
«Che cosa si chiedeva?» domandai. «Ha detto di essersi sempre chiesto
una cosa, a proposito di quella partita.»
«Be’, mi sono sempre chiesto se avevi in mente di schiacciare, quel
giorno. Girava voce che avessi intenzione di farne giusto una, per sfidare la
commissione tecnica che le aveva proibite. È vero?»
«È per questo che mi ha messo in panchina a soli due minuti dalla fine?»
Non rispose. «Volevi farlo?»
Scossi la testa. «Ci avevo pensato. Sarebbe stato bello infilarne una. Una
sorta di momento alla Shaft.»
«Un che cosa?»
Sorrisi. «Un momento in your face. Ma decisi di non farlo. Feci trentasette
punti durante quella partita, tirai giù venti rimbalzi. Credo di aver reso lo
stesso l’idea.» Non gli dissi che, oltre a quello, non volevo metterlo in
imbarazzo.
Il coach annuì. «Ti ho messo in panchina per evitare che ti facessi male
prima dei play-off. Dovevano essere il tuo lascito.»
«Il nostro lascito», lo corressi.
Scrollò le spalle. «Lascito», disse, come se fosse la prima volta che
pronunciava quella parola. «In ogni caso non è la ragione per cui
giochiamo, no?»
Non dissi nulla. Non volevo essere scortese dissentendo. Ma sì, lasciare il
segno era una delle ragioni per cui giocavo. Mi piaceva l’idea di infrangere
i record, superare gli altri giocatori, far scrivere il mio nome nei libri dei
primati. Non era la ragione principale, ma decisamente il pensiero mi
passava per la mente. Passa per la mente di ogni giovane giocatore.
«Sono felice che tu non abbia schiacciato, quel giorno», continuò il coach,
puntandomi contro un cracker. «Ma se l’avessi fatto, sarebbe stata
un’azione memorabile.» Sorrise malizioso, come un ragazzino che avesse
appena impacchettato con la carta igienica la casa del preside.
Quell’affermazione mi sorprese. «Si sarebbe arrabbiato tantissimo.»
«Certo. Ma quella sarebbe stata la mia storia, non la tua. Il mio lascito,
non il tuo.»
Cambiammo argomento, ma continuai a pensare a ciò che aveva detto.
Ero ancora un giovane giocatore professionista, avevo fiducia nel mio
talento, ma stavo solo iniziando a capire il resto: il futuro, la famiglia, la
religione, la politica e come far quadrare il tutto. Avevo appena cambiato
nome e ne stavo subendo il contraccolpo negativo. Il coach sapeva tutto
dalle nostre conversazioni e dalla stampa, e ora mi stava ricordando di
scegliere la strada che più mi si confaceva. Non quella che si confaceva a
lui, al mio pubblico o ai miei genitori, né a nessun altro. Quella scelta
sarebbe stata il mio lascito.
Quel giorno uscii dal ristorante con due cose: una macchia di zuppa di
pomodoro sulla maglietta e la consapevolezza che la mia storia con il coach
non era finita, stava appena iniziando. Non era una storia che sarebbe
apparsa sui libri dei primati, gli analisti sportivi non vi avrebbero mai fatto
riferimento durante i programmi televisivi, non sarebbe stata citata nel mio
necrologio, ma la nostra amicizia sarebbe stata uno dei risultati più
importanti e appaganti di tutta la mia vita.

Tornai a Los Angeles nel 1975 per giocare con i Lakers, appena in tempo
per il ritiro di coach Wooden. È possibile che io abbia preso la cosa peggio
di come la prese lui, ma fu come se i miei genitori avessero venduto la casa
in cui avevo passato l’infanzia. Sì, Ucla sarebbe stata sempre lì, ma la mia
casa non era il campus, era il coach. Il suo affetto era stato incondizionato,
il suo sostegno infinito.
«Coach, è sicuro?»
«È ora, Lewis.» Di solito mi chiamava Kareem. Mi sembrò che scivolasse
nella nostalgia.
Ero combattuto tra fargli le congratulazioni e cercare di convincerlo a
ripensarci. Naturalmente, mi rendevo conto che volevo che restasse per
motivi egoistici, in modo da poter fare ritorno al mio passato ogni volta che
volevo, trovando tutto esattamente com’era. Volevo tornare a vedere la casa
della mia infanzia e trovare la mia stanza come l’avevo lasciata.
«Congratulazioni, coach. Se lo merita.»
«Non sto morendo, per l’amor del cielo. Ho solo sessantaquattro anni. Ho
i miei camp estivi, i libri, le conferenze. Le mie camminate giornaliere di
otto chilometri. Nell e io andremo in crociera nei Caraibi.»
«È più impegnato di me», dissi, sforzandomi di sembrare allegro. «Ha
appena vinto il decimo campionato Ncaa. Immagino che dovrò smettere di
prendermi il merito del suo successo.»
Rise. «Oh, Kareem.»
Non so perché quelle due parole mi abbiano commosso tanto, in quel
momento. Mi piaceva farlo ridere. Era come se gli dicessi che tenevo a lui e
che per me era importante.
«Ho fatto del mio meglio», disse. «Ogni volta che puoi andartene
dicendoti di aver fatto del tuo meglio, hai vinto.»
«Certo, naturale.» Le parole uscivano dalla bocca, ma non ero io a
pronunciarle. Volevo dire delle cose belle.
«Non preoccuparti. Starò bene. È tutto esattamente come desidero.»
Avevo chiamato per congratularmi e alla fine era lui che consolava me.
Un classico di coach Wooden.
Sospirai. «Mi servirebbe proprio una frase adatta, in questo momento,
coach. Una poesia, un libro, un biscottino della fortuna?»
Lui ci pensò un istante, senza dubbio frugando tra la collezione di
citazioni che aveva in testa, senza dubbio archiviate per tema. Alla fine
disse: «Th-th-that’s all folks».
Scoppiai a ridere.

Trovai la citazione appropriata poco dopo quella telefonata. Grazie a


Hemingway in persona: «Invecchiando, avere degli eroi è più difficile, ma
altrettanto necessario». Fu con quella frase in mente che andai alla festa per
il sessantacinquesimo compleanno del coach al Pauley Pavilion. Con tutte
le celebrità che c’erano, sembrava di stare agli Oscar. Bob Hope, il maestro
di cerimonia di tante consegne della statuetta, fu il cerimoniere anche di
quell’occasione. Frank Sinatra cantò alcune delle sue canzoni più famose.
Erano presenti molti ex giocatori del coach, come Gail Goodrich e il mio
vecchio compagno di stanza, Lucius Allen.
C’era il sindaco di Los Angeles Tom Bradley, che dichiarò quel giorno
“La giornata di John Wooden”. Ucla regalò al coach una Mercedes blu, un
orologio d’oro con incastonati dieci diamanti, a rappresentare i suoi dieci
titoli Ncaa, e quattro abbonamenti a vita per le partite giocate in casa dalla
squadra. Era facile indovinare quale regalo avesse più valore per lui.
Avrebbe presto scambiato la Mercedes con una più modesta berlina, e
l’orologio glielo vidi raramente; ma sarebbe andato a molte partite di Ucla:
ad alcune ci andammo insieme.
Alla fine il coach salì sul palco per ringraziare tutti. «Questa è la serata più
memorabile della mia carriera sportiva», disse. «I due grandi amori della
mia esistenza sono la mia famiglia e Ucla.» Parlò della sua vita
all’università, delle squadre che aveva allenato, dei ragazzi che aveva
trasformato in uomini rispettabili e capaci. Poi fece segno a Nell di
raggiungerlo. «Sei sempre stata al mio fianco, fin dal giorno in cui ti ho
vista là, nella banda delle superiori, con la tua tromba.» E, guardando i suoi
atleti riuniti per rendergli omaggio, con un leggero nodo in gola continuò:
«Accanto alla mia famiglia, mi sento più vicino ai miei giocatori. Mi
dispiace se ho ferito qualcuno di loro. Non è mai stata mia intenzione. Non
ce n’è uno che non abbia amato».
«Gesù», sentii borbottare con voce strozzata a uno dei giocatori alle mie
spalle.
«Già», sussurrò un altro, cercando di controllare la sua.
Ed eccola lì. La fine di un’era. Di una storia. Di un periodo in cui ai
migliori giocatori di basket della nazione, al loro primo anno di università,
si insegnava come mettersi scarpe e calzini. In cui gli studi erano più
importanti dei punti segnati. In cui il carattere veniva insegnato insieme al
sottomano e al passaggio.
Ho gironzolato per il campus di Ucla molte volte, da quel giorno, e l’ho
fatto anche una settimana prima di scrivere queste pagine. Ogni volta mi
aspettavo di vedere il coach affrettarsi lungo il marciapiede, un fischietto
attorno al collo, i capelli perfettamente pettinati che riflettevano un sole
perfetto.

Dopo un paio d’anni che stavo a Los Angeles, il coach e io sviluppammo


una routine di telefonate, pranzi e ore passate nel suo soggiorno. Mangiare
al ristorante era difficile, perché le persone notavano subito la mia testa
svettare verso le lampade a soffitto, poi vedevano i capelli grigi del coach,
pettinati come un campo appena arato, e subito venivano a chiedere un
autografo, una fotografia, o solo a dire grazie per i bei momenti che
avevamo regalato loro nel corso degli anni.
Ammetto che mi irritavo più facilmente del coach. Provate a finire un
patty melt1 con qualcuno che vi interrompe a ogni morso. Il trucco è
ordinare panini freddi, perché quelli caldi non sono mai caldi quando alla
fine riuscite a dedicarvici. Il coach, in ogni caso, era sempre cortese e
cordiale, facendo sentire tutti quanti come una gradita interruzione alle sue
giornate altrimenti piatte. Vedere l’espressione felice sui volti degli
ammiratori quando si allontanavano, mi indusse a copiare il suo
comportamento. Ma per me era come cercare di imparare un complicato
passo di danza guardando un film di Fred Astaire. Sembra facile, ma non lo
è. Sapevo che il motivo era in parte razziale. Lui non aveva mai dovuto
preoccuparsi che qualche razzista gli si avvicinasse insultandolo o
aggredendolo fisicamente. Poteva permettersi di vedere il buono in tutte le
persone. Io no. Ma lui mi indusse a provare.
Un pomeriggio eravamo seduti in un ristorante a discutere del perché le
squadre di baseball che sceglievo io fossero chiaramente di gran lunga
superiori a quelle che sceglieva lui. Il coach si ostinava a non essere
d’accordo, cercando di influenzarmi con dati e statistiche. Mi stavo
divertendo a rifiutare di riconoscere le sue ragioni e nel bel mezzo della
nostra discussione e a quota tre autografi dall’inizio del pranzo, un uomo
magro con un paio di baffetti sottili si avvicinò al tavolo. Sorrideva, così il
coach e io gli sorridemmo a nostra volta.
«Salve, coach», disse l’uomo. Mi salutò con un cenno del capo.
«Kareem.»
«Buongiorno», rispose il coach.
«Mi stavo domandando…» cominciò a dire l’uomo magro.
Il coach e io ci irrigidimmo. I fan che iniziavano la frase con «Mi stavo
domandando» la finivano sempre con qualche critica. L’uomo magro si
attenne allo schema.
«…come mai le ci è voluto tanto per vincere il suo primo campionato
nazionale?»
Il coach era stato allenatore a Indiana State dal 1946 al 1948, dopodiché
era passato a Ucla. Vinse il suo primo torneo Ncaa nel 1964, diciotto anni
dopo aver iniziato la carriera di allenatore. La domanda, oltre a mettere il
coach sulla difensiva, mirava a dar sfoggio delle conoscenze dell’uomo
magro. Era il genere di incontro con i fan di cui avevo fatto la parodia nel
film L’aereo più pazzo del mondo, quando il ragazzino dice che secondo
suo padre non mi impegno abbastanza in difesa…
Il coach alzò lo sguardo sull’uomo magro e sorrise ancora di più.
«Ammetto di essere lento a imparare. Ma, come avrà notato, quando imparo
qualcosa, lo faccio piuttosto bene.»
L’uomo magro smise di sorridere e si allontanò.
Il coach tornò al suo panino come se niente fosse.
«Da quanto si tiene dentro qulla risposta, coach?»
«Che cosa ti fa pensare che sia la prima volta che la uso?»
Risi. Avrei dovuto sapere che qualcuno doveva avergli già fatto quella
domanda. Lo immaginavo seduto nel suo soggiorno a scrivere frasi ad
effetto da usare a tempo debito. Avevo sentito quello che aveva detto a
Marques Johnson mentre discutevano della finale Ncaa del 1975. Il coach
sosteneva che in quella partita Marques avesse giocato ventisette minuti.
Johnson pensava meno. Al che il coach aveva replicato: «Visto come hai
giocato, non sarai stato l’unico a non accorgersi che eri in campo».
Sia Marques sia tutti quelli che li circondavano erano scoppiati a ridere.
«Magari dopo la Piramide del Successo potrebbe dedicarsi a un Ottagono
di Salaci Battute», suggerii.
«Magari il conto lo paghi tu, oggi.»
«Vede, è esattamente quello che intendevo.»
Mi lanciò un’occhiataccia. Io pagai il conto.

La mia amicizia con il coach cambiò drasticamente quando, nel 1998,


iniziai ad allenare. Fino ad allora avevamo riempito il tempo trascorso
insieme guardando partite di baseball o basket in televisione, o pranzando
nei ristoranti attorno a casa sua, oppure parlando al telefono di film e
televisione. Erano conversazioni molto superficiali, ma rese speciali
dall’affetto. Molto di ciò che avevo imparato da lui in quegli anni me lo
aveva trasmesso grazie a cose che mi aveva detto direttamente, all’esempio
che dava o solo per osmosi.
Il coach traboccava di citazioni sulle qualità necessarie per condurre una
vita appagante, tratte da poesie o pronunciate da persone famose e di
successo. Alla fine, aveva condensato i suoi insegnamenti in una pratica
Piramide del Successo. La Piramide racchiude troppi elementi, per poterle
rendere giustizia qui, ma basti dire che io ero ben consapevole di adattare
questi elementi alla mia vita. Sui due lati del triangolo vengono messe in
risalto fede e pazienza.
Riguardo alla fede, dagli anni della conversione, la mia devozione
all’Islam non era diminuita, ma si era modificata, dall’intensa ortodossia
che avevo seguito all’inizio, si era trasformata in una versione più moderna
che sentivo essere più progressista e inclusiva. Praticavo da solo, in
silenzio, senza alcun bisogno di fare proseliti. Ero stato in grado di separare
la mia fede nella teologia dalla tentazione di strumentalizzarla per farne una
dichiarazione culturale sugli americani neri. L’Islam mi interessava solo
come guida spirituale ed etica, non per fare politica o portare avanti istanze
civili.
In parte, attribuii l’atteggiamento rilassato che avevo nei confronti della
mia religione all’osservazione dell’atteggiamento del coach nei confronti
del cristianesimo. Era devoto, leggeva la Bibbia ogni giorno e frequentava
regolarmente la First Christian Church. Ma seguiva anche l’insegnamento
di adattabilità che lui stesso aveva teorizzato con la Piramide. Si
concentrava sulle qualità necessarie per essere l’uomo che voleva essere,
che includevano affidabilità, integrità, onestà e sincerità…
Quindi adattava il proprio comportamento per raggiungere questi obiettivi,
più che preoccuparsi di ogni singola frase della Bibbia. Questo suo modo
era molto simile a quello con cui insegnava la pallacanestro: non
preoccupatevi degli schemi prefissati; imparate i fondamentali e potrete
adattarvi a ogni circostanza per arrivare al risultato: giocare bene. La cosa
aveva senso per me, e presto feci lo stesso: mi concentrai meno sul seguire
le parole e più sull’essere le parole. Non seguire l’insegnamento che dice di
essere compassionevole, esercita la compassione fino a non poter fare a
meno di essere compassionevole. Era il jazz sotto forma di religione:
suonavamo tutti la stessa canzone, ma adattando, improvvisando,
armonizzando, fino a produrre dell’ottima musica insieme.
Riguardo alla pazienza, che stava sul lato destro della piramide, il coach
dimostrava di averne in abbondanza. Quando i giocatori insistevano nel
provare qualche nuova giocata o tiro che lui non approvava, spiegava le sue
motivazioni a sfavore. Se il giocatore non era ancora convinto, lo lasciava
fare a modo suo. Il risultato finale provava quasi sempre che il coach aveva
ragione. Ma con la pazienza insegnava la lezione senza animosità o
risentimento. Durante il periodo in cui giocai da professionista, mi veniva
facile essere paziente. Avevo la fiducia (un altro dei mattoni della piramide
del coach) nel fatto che avrei ottenuto ciò che volevo, una fiducia che mi
veniva dall’esercizio e dalle vittorie continue: la pazienza era facile, perché
non avevo molta esperienza di delusioni. Nei cinque anni precedenti il
1998, però, anche la mia pazienza fu messa a dura prova.
Dopo essermi ritirato come giocatore nel 1989, mi ero preso qualche anno
lontano dallo sport. Per staccare la spina e togliermi un po’ da quel mondo
che mi aveva dato tanto. Dopo la morte di mia madre però, nel 1997, ero
ansioso di tornare in campo, non come giocatore questa volta, ma nei panni
di allenatore. La sua morte mi aveva lasciato con la sensazione di andare
alla deriva, e avevo bisogno di fare qualcosa in cui fossi bravo. Avevo
bisogno di uno scopo.
Fu coach Wooden il primo a suggerirmi questa strada per tornare al
basket. «Credo che saresti un buon allenatore. Sei sempre stato un leader.»
Ero sicuro che mi avrebbero cercato in fretta. Mi ero ritirato in cima alle
classifiche di tutti i tempi per punti segnati (38.387), partite giocate (1560),
minuti giocati (57.446), tiri dal campo (28.307), stoppate (3189) e rimbalzi
in difesa (9394), oltre ad aver ricevuto un sacco di premi come miglior
questo e miglior quello… Conoscevo i fondamentali del basket e sapevo
come vincere. “Mettetevi in fila, ragazzi”, pensavo, “chi vuole essere il
primo a provare coach Kareem?”
Le squadre furono molto gentili, ma il risultato finale era sempre lo stesso:
niet.
Il coach chiese al rettore di Ucla, Charles Young, di ingaggiarmi, e lui si
dimostrò molto favorevole all’idea ma, prima che l’accordo potesse essere
formalizzato, andò in pensione; e il nuovo rettore non era altrettanto
entusiasta.
«Coach, non riesco a trovare una sola squadra che mi voglia», mi lamentai
durante una telefonata disperata.
«Quali motivi tirano fuori?» chiese lui.
«Mancanza di esperienza come allenatore. Come se trent’anni al vertice
non fossero un’esperienza sufficiente.»
«Giocare non è come allenare», disse lui. «Lo sai.»
«Lo so. Ma, data la mia esperienza, posso imparare in fretta…» Stavo per
dire una parolaccia, ma mi trattenni in tempo.
«Magic Johnson e Bill Russell non sono andati molto bene quando si sono
messi ad allenare. Avranno in testa quei due casi.»
«Ci ficcherei qualcosa io nelle loro teste», mugugnai. La mia
autocommiserazione stava salendo di livello.
Il coach non mi avrebbe concesso di piangermi addosso. «E sono certo
che i tuoi arresti non aiutino.»
«Un solo arresto. E una multa.» Ero stato arrestato per aver affrontato un
automobilista che, dopo aver bloccato il traffico, mi aveva fatto il dito
medio. Stavo andando a far visita a mia madre, malata terminale, per
autorizzare la struttura a staccare la spina, quindi ammetto che non ero
dell’umore adatto per gestire il diverbio e di avere agito da idiota. Fui
condannato a un corso di gestione della rabbia. La multa invece l’avevo
presa per essere stato trovato in possesso di una piccola quantità di
marijuana che usavo per alleviare le debilitanti emicranie che mi colpivano
fin dall’infanzia. Pagai una multa di cinquecento dollari. Non dissi tutte
queste cose, perché al coach le scuse non piacevano, nemmeno quelle
buone.
«Senti, se dicono che non hai esperienza», continuò lui, «allora
procuratene un po’.»
«Credo che sia proprio questo il problema, coach. Non riesco a trovare un
lavoro come allenatore perché non ho esperienza, e non posso fare
esperienza perché non riesco a trovare un lavoro come allenatore. Un cane
che si morde la coda.»
«Non ho mai detto che sarebbe stato facile.» Non c’era comprensione
nella sua voce, e io non ero dell’umore per ricevere una ramanzina.
«Dove la trovo questa lezione sulla Piramide?» Cercai di non sembrare
petulante, ma fallii.
Lui non ebbe un secondo di esitazione. «Iniziativa. Seconda fila dal
basso.»
Le nostre conversazioni non sempre terminavano rose e fiori, ma con le
unghie trascinate su un chilometro di lavagna.

Però il coach aveva ragione: dovevo prendere l’iniziativa e fare un po’ di


esperienza come allenatore. Di qualunque tipo, con qualunque squadra.
Stavo rimuginando su alcuni posti cui chiedere, quando ricevetti una
chiamata da John Clark, il sovrintendente del distretto scolastico di
Whiteriver, nella riserva di Fort Apache, che si trova tra le White
Mountains dell’Arizona. «Non è che per caso ci aiuterebbe ad allenare la
nostra squadra, vero?» chiese Clark.
Mi trattenni dall’urlare: «Diavolo, sì!» e invece risposi serio: «Ma certo».
La chiamata non giungeva proprio dal nulla. Avevo visitato l’area quattro
anni prima, mentre facevo ricerche per un libro che volevo scrivere sui
Buffalo Soldiers, il reggimento di cavalleria nero di stanza a soli otto
chilometri a sud di Whiteriver che, dopo la guerra civile, aveva prestato
servizio nell’Ovest del Paese. Studiavo la storia di quei luoghi da anni ed
ero un avido collezionista di manufatti dell’area, dalle armi
all’abbigliamento ai tappeti. Sentivo un’affinità nei confronti dei nativi
americani, perché avevano vissuto alcuni degli oltraggi che erano stati
imposti agli afroamericani.
Durante quel viaggio, avevo fatto amicizia con Edgar Perry, consigliere
culturale della tribù. Accettai anche un suo invito a ballare alla cerimonia di
pubertà di una ragazzina della sua famiglia. Sapendo che sentivo un legame
speciale con la sua gente, e che stavo cercando una squadra da allenare,
aveva suggerito il mio nome alla Alchesay High School.
Chiamai subito coach Wooden.
«Credevo sapessi che cosa fare. Mi sembra di ricordare qualcosa del tipo
“trent’anni di gioco al vertice costituiscono un’esperienza sufficiente”.»
Non mi avrebbe reso la cosa facile. «Ho solo bisogno di ripassare un po’.
Di rinfrescarmi la memoria. La palla deve entrare nel cerchio, giusto?»
Rise di cuore. «Oh, Kareem, lo sai che sarei felice di aiutarti.»
E mi aiutò, eccome.
Mi parlò di tutto, dagli esercizi ai movimenti, dalla filosofia
dell’allenamento alle personalità dei giocatori.
«Non dimenticare i calzini», aggiunse. «Niente vesciche», mi
raccomando.
Le mie telefonate al coach continuarono nei sette anni seguenti, mentre
facevo carriera fino a diventare, nel 2002, primo allenatore dell’Oklahoma
Storm (squadra che giocava nella United States Basketball League e con cui
vinsi il campionato di Lega); passando poi a fare l’osservatore per i Knicks
e quindi il vice di Phil Jackson ai Lakers, con l’incarico speciale di lavorare
con i centri della squadra, in particolare con il giovane e inesperto
esordiente Andrew Bynum.
Nel 2005 i Lakers selezionarono Bynum, diciassettenne, direttamente
dalle superiori, facendone il giocatore più giovane nella storia dell’Nba.
Con i suoi 213 centimetri, aveva il potenziale per trasformarsi in un
giocatore dominante, ma il suo talento era grezzo; passare dalle superiori
all’Nba è un cambio importante. Phil Jackson mi ingaggiò per aiutare
Andrew in quel periodo molto delicato di transizione.
Cominciai con gli insegnamenti base di coach Wooden: impara i
fondamentali, sii più in forma di tutti gli altri, concentrati sull’obiettivo di
giocare al tuo meglio e non di vincere la partita. All’inizio Andrew era
ricettivo e il suo gioco migliorò in modo significativo. Ma alla fine diventò
impaziente e voleva fare le cose a modo suo, come è tipico di giocatori
giovani e privi di esperienza. Ricordando la mia boria a quell’età, cercai di
aiutarlo a sviluppare i movimenti di base della pallacanestro di cui aveva
bisogno per continuare a crescere come giocatore. In parte – di certo non
completamente – ci riuscii. Nel 2012 Andrew fu ceduto.
Chiedevo consigli a coach Wooden soprattutto su come ci si comporta in
panchina perché di quello non avevo esperienza.
Durante il periodo in cui allenavo in Oklahoma, dopo una giornata
estenuante, una sera lo chiamai piuttosto tardi.
«Scusi, coach, è sveglio?»
«Da un occhio.»
Gli scaricai addosso una pioggia di domande e problemi con cui avevo a
che fare, non ultimo quello che il proprietario della squadra voleva che
facessi giocare il figlio della sua compagna, che non era un gran giocatore.
«L’allenatore è il volto della squadra. Devi proteggerla. Far giocare questo
ragazzo la protegge?»
«No. Ma finalmente ho un posto di primo allenatore e non voglio
perderlo. So che è da egoista, ma ho faticato molto per arrivare dove sono.»
Avevo già avuto uno scontro con il proprietario della squadra, quando
avevo relegato in panchina un giocatore che a lui piaceva invece molto.
Durante gli allenamenti, quando nessuno lo marcava, il ragazzo segnava da
tutte le parti, ma in partita, con una mano davanti alla faccia e il fiato del
difensore sul collo, era difficile che ne mettesse dentro una. La discussione
non era finita bene.
«Capisco, Kareem, capisco davvero. Nessuno ti biasimerebbe, se lo
facessi giocare per qualche minuto e poi lo mettessi a sedere.»
«Nessuno tranne il resto della squadra.»
A questo non rispose. Non ce n’era bisogno.

Furono i miei anni da allenatore che trasformarono quella tra coach Wooden
e me in un’amicizia molto più ricca e profonda. In quel periodo ci
confrontavamo su un livello completamente diverso. Mi stava ancora
aiutando, non come insegnante ma come collega. Come due soldati che
avevano affrontato insieme le stesse battaglie.
Percepivo la differenza ogni volta che mi sedevo con lui nel suo
soggiorno. Prima era come se andassi a far visita a un amico. Poi fu come
se tornassi a casa.

1
Panino caldo a base di cipolla caramellizzata, formaggio e carne [N.d.T.].
«Il tempo può piegarti le ginocchia»
Le ore di amicizia nei giorni del dolore

L’amicizia è reciproca. Uno non è un amico


solo perché fa qualcosa di gentile per te.
In quel caso è una persona gentile.
L’amicizia è quando si fanno le cose l’uno
per l’altro e viceversa. È come il
matrimonio… è reciproco.
John Wooden

Coach Wooden e io abbiamo condiviso le nostre esistenze per più di quattro


decenni. Da lui ho imparato molte lezioni utili, che mi hanno illuminato la
vita. Alcune esperienze, però, sono così cupe e personali che non è facile
affrontarle con una citazione: in quelle occasioni siamo più interessati a
sopravvivere che a imparare. L’amicizia ti aiuta a superarle, non perché
quell’amico ti offre parole sagge o opinioni sulla vita, ma perché è lì vicino
a te, a darti conforto e forza solo con la sua presenza.
Il dolore è la vera sfida per un’amicizia, e di sfide del genere il coach e io
ne abbiamo affrontate molte nel corso degli anni.
Più invecchi e più cresce il ruolo che la morte gioca nella tua vita.
Muoiono amici e persone che ami. La tua salute inizia a deteriorarsi, fino a
che, quando ti guardi allo specchio, ti ritrovi faccia a faccia con la tua stessa
fragile mortalità. La morte non è più una viaggiatrice lenta in un continente
lontano, ma un’irritante molestatrice che ti aspetta all’angolo della strada,
fuori dalla finestra.
Coach Wooden è vissuto fino a novantanove anni, e nei suoi ultimi giorni
la morte non si accontentava più di aspettarlo fuori, era diventata una
compagnia costante. Morivano i suoi ex giocatori, morivano i suoi amici, i
suoi colleghi, morì sua moglie Nell. Io ero più giovane di lui di trentasette
anni, eppure nel corso degli anni passati insieme avevo dovuto superare a
mia volta la sgradita intrusione della morte in diverse occasioni: l’assassinio
brutale di amici in una casa di mia proprietà; la prematura morte, a
trentadue anni, del mio ex istruttore di arti marziali e amico Bruce Lee; la
morte di mia madre e, qualche anno più tardi, quella di mio padre dopo anni
di demenza.
«Time can bend your knees / Time can break your heart», canta Eric
Clapton in Tears in Heaven, la canzone che parla della morte del figlio. Il
coach e io abbiamo avuto entrambi le ginocchia piegate e il cuore spezzato.
L’effetto peggiore della morte è quanto isoli i sopravvissuti. Per quanto
amici e familiari cerchino di confortarci, tendiamo a chiuderci in noi per
combattere contro il nostro oscuro e pesante dolore, fino a che non
riusciamo a sconfiggerlo. Porteremo per sempre le orrende cicatrici di
quella battaglia, ma a quel punto potremo rientrare nella comunità e iniziare
il processo di guarigione.
Il coach e io facemmo del nostro meglio per aiutarci l’un l’altro a superare
queste morti che ti cambiano la vita, per scendere nella caverna buia che era
il dolore dell’altro, prenderlo per mano e guidarlo di nuovo verso la luce.
Certo, quelle esperienze comprendevano anche lezioni di vita che saremmo
stati in grado di capire solo più avanti, una volta che fossimo riusciti a
guardare il dolore in prospettiva. All’epoca, però, l’unica cosa che
importava era che fossimo presenti l’uno nella vita dell’altro. Una mano da
tenere, orme da seguire per uscire dall’oscurità.

Era il 1973 e avevo venticinque anni quando due tragedie mi colpirono


l’una di seguito all’altra, con una potenza tale che pensavo non mi sarei mai
più ripreso. Ironia della sorte, la prima avvenne in una casa di mia proprietà
a Washington, il 18 gennaio. Ero sposato, avevo una figlia, ed ero molto
preso dal mio studio dell’Islam. Il mio maestro spirituale, Hamaas Abdul
Khaalis, mi aveva insegnato a essere un musulmano, e io avevo guardato a
lui con lo stesso amore e rispetto con cui guardavo a coach Wooden. Ma
mentre il coach aveva, se non incoraggiato, almeno tollerato che i suoi
giocatori esprimessero le proprie idee, quando si parlava dei precetti
dell’Islam, Hamaas era un despota severo. La mia curiosità e la mia
devozione mi avevano portato a esplorare altri maestri e i loro scritti,
seguendo persino un corso estivo di arabo all’università di Harvard, e presto
avevo scoperto che molti studiosi dell’Islam non erano d’accordo con le
convinzioni di Hamaas. Mentre il coach era felice della mia esplorazione
della fede, anche se non era la sua, Hamaas si era arrabbiato molto per i
miei studi extracurricolari. «Se non vuoi seguire il mio modo di insegnare»,
mi aveva avvertito, «puoi andare a fare qualunque cosa tu voglia.»
«Ma…» avevo protestato.
Mi aveva zittito con un’occhiata minacciosa. «Se non credi che siamo nel
giusto, lasceremo la tua casa.»
Mi ero tormentato per giorni, non sapendo che cosa fare. Non ero ancora
abbastanza sicuro di me stesso da andare contro il mio leader spirituale.
Sarei stato come un prete che dice al papa che non sa di che cosa sta
parlando. Così avevo deciso di andarmene lasciando la casa a Hamaas e ai
suoi seguaci.
Alcuni mesi più tardi, il 18 gennaio 1973, ero tornato a Milwaukee per gli
allenamenti con i Bucks. Tornando a casa, risposi a una chiamata della
segretaria dei Bucks, che mi disse che a Washington era accaduta una cosa
terribile ed erano incalzati dalla stampa di tutto il mondo. Scoprii presto
che, come ritorsione per le lettere che Hamaas aveva scritto a Elijah
Muhammad, il leader dei musulmani neri, nelle quali gli dava del falso
profeta, un gruppo di otto o nove delinquenti armati aveva attaccato la casa.
Hamaas in quel momento non c’era, ma gli incursori avevano comunque
assassinato sette persone, tra cui i tre figli maschi di Hamaas, uno dei quali
aveva dieci anni. Avevano sparato anche a sua moglie e a sua figlia, alla
testa, ma erano sopravvissute entrambe. Con un ultimo atto di barbarie, gli
assassini avevano annegato tre bambini piccoli nella vasca da bagno e nel
lavandino.
Il mattino dopo la polizia arrivò a casa mia, per garantirmi una protezione
ventiquattr’ore su ventiquattro contro ulteriori attacchi da parte dei
musulmani neri. Avevo paura per mia moglie Habiba e per la nostra
bambina, e fui grato per la presenza delle forze dell’ordine. Tornai a
Washington per portare una delle bare ai funerali. Hamaas, che da quando
avevo lasciato Ucla e coach Wooden era stato la mia principale fonte di
conforto e sostegno, era troppo arrabbiato e stordito dal dolore per accettare
la mia offerta di amicizia e aiuto. Si barricò dentro casa, circondandola di
guardie armate.
Per mesi, in seguito a quell’episodio, ogni volta che andavo in una città
con un numero significativo di musulmani neri viaggiavo con una scorta.
Vivere con il timore costante per la mia famiglia e per me stesso mi portò
quasi alla paranoia. A meno che non fossi assolutamente costretto a
espormi, mi isolavo da tutto e da tutti. In un certo senso, ero diventato più
simile a Hamaas di quanto non volessi ammettere.
Coach Wooden fece diversi tentativi di contattarmi, ma io non rispondevo.
Il mondo esterno era una minaccia per noi, e nessuno là fuori poteva
comprendere che cosa stavamo passando. «Nessuno» includeva coach
Wooden, un bianco cinquantenne la cui espressione più volgare era «per
l’amor del cielo». Non mi interessava un fico secco della sua Piramide del
Successo, né degli aforismi o delle citazioni letterarie sulla vita e la morte e
il grande progetto di Dio. Di quelle cose non avevo bisogno, non le volevo
sentire. Quello che avrei voluto sentire era la sua voce, sentirne la
gentilezza e la compassione, in modo da poter credere che ancora
esistevano, in quel mondo sottosopra in cui i bambini venivano annegati per
divergenze teologiche.
Ma non riuscivo a spingermi a cercarla, quella voce, forse perché sapevo
che, qualunque speranza mi avesse dato, sarebbe stata una bugia. Certo, il
coach credeva nella bontà delle persone, proprio come mi aveva detto in
macchina al ritorno dal Bat Rack, dove l’anziana signora mi aveva
insultato. Se voleva continuare a vedere tutto rosa, che si accomodasse. Ma
io vedevo solo rosso sangue. Vedevo le persone per quello che erano
davvero.
Nel tentativo di recuperare la fede decisi di lasciare l’America e fare un
viaggio in Medio Oriente, per continuare la mia esplorazione dell’Islam.
Visitai Libia, Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, Thailandia e Malesia. Mi
immersi nella cultura musulmana, parlando il più possibile il mio arabo
stentato. La mia fede stava piano piano riaffiorando ed ero ansioso di
tornare a casa per condividere questo rinnovato sentimento con la mia
famiglia.
Durante il viaggio di ritorno, decisi di fermarmi a Hong Kong, per fare
visita al mio ex istruttore di arti marziali e amico Bruce Lee. L’avevo
conosciuto quando ero ancora uno studente a Ucla. Il suo energico metodo
di insegnamento e la sua sorprendente prestanza fisica mi avevano subito
conquistato. Aveva solo sette anni più di me, non trentasette come coach
Wooden, e mi aveva invitato anche a impersonare il cattivo nel suo film
L’ultimo combattimento di Chen. Dopo tutto ciò che avevo passato, ero
eccitato all’idea di rivedere il mio vecchio amico e di poter parlare con lui
di tutto quello che ci era successo nel frattempo. Il 20 luglio, quando atterrai
a Singapore per prendere un volo in coincidenza per Hong Kong sentii la
notizia. Bruce Lee era morto.
Il mio arrivo negli Stati Uniti non fu il rientro trionfale in cui avevo
sperato. Le tragedie avevano pesato troppo sia su mia moglie sia su di me.
Diventammo due reclusi, lasciavamo raramente casa nostra, dove perlopiù
studiavamo il Corano e ascoltavamo musica. Hamaas ci aveva fatti
avvicinare e, in un certo senso, ci stava allontanando. Cinque mesi dopo il
mio ritorno, decidemmo di divorziare.
Pensai di chiamare il coach, giusto per dirgli che cosa stava accadendo,
ma una parte di me era in imbarazzo. Avevo lasciato Ucla per una carriera
professionistica da eroe, di cui lui poteva essere fiero. E avevo abbracciato
l’Islam, prendendo più volte posizione, sul piano politico, a favore della
comunità nera, cosa di cui andavo fiero. Ma sentivo di aver fallito a livello
spirituale. Avevo perso la grazia di Dio.
Un’altra parte di me semplicemente non voleva un altro maestro,
nemmeno un ex. Uno era quasi stato assassinato, un altro era morto. Per la
sua salute e la sua sicurezza, il coach sarebbe stato molto meglio lontano da
me, al momento.
Ripensandoci in seguito, mi sono pentito di non averlo chiamato. La sua
calma presenza era un balsamo spirituale. Seduto in una poltrona nel suo
soggiorno, a volte potevi sentire l’ansia abbandonare il tuo corpo e
penetrare nella stoffa sgualcita. Ma ero troppo giovane, orgoglioso e ferito
per cercarlo.

Il nostro successivo incontro con la morte avvenne dodici anni più tardi, nel
1985. La storia d’amore tra il coach e sua moglie Nell sarà Le pagine della
nostra vita per qualche futura generazione, una storia per cui andare in
estasi e piangere per diverse vite a venire. Gli attori che si susseguiranno a
interpretarli saranno istantaneamente catapultati nel firmamento delle star,
ma quali che siano i ruoli o i premi che otterranno in seguito, saranno
sempre ricordati per aver interpretato John e Nell Wooden. Per chiunque li
avesse conosciuti, il loro amore era la materia di cui sono fatti i sogni.
Nell e il coach si conobbero alle superiori quando lui aveva quattordici
anni. Per poter vedere il bel campione di pallacanestro John Wooden, Nell
convinse la banda della scuola di saper suonare la tromba. Marciava
insieme alla banda, lo strumento appoggiato alle labbra, le guance gonfie,
fingendo di suonare, con gli occhi fissi sul muscoloso cestista. Da allora
fino alla morte di lei, furono inseparabili; si sposarono presto ed ebbero due
figli: Nancy Anne e James Hugh. Nell aveva un certo talento per il basket, e
una volta aveva messo a segno dieci tiri liberi consecutivi.
Tutti i giocatori del coach conoscevano e rispettavano la moglie che
viaggiava sempre con lui, sedendo al suo fianco, che fosse in pullman, in
aereo o, dopo la pensione, in tribuna alle partite. Erano inseparabili,
innamorati l’uno dell’altra in modi che facevano apparire la poesia
romantica di Byron, Keats e Shelley roba da dilettanti. Sapevamo tutti che
durante le partite il coach stringeva in una mano una croce d’argento,
mentre Nell ne teneva una identica in una delle sue. Era uno dei loro tanti
modi di restare in contatto. Sapevamo anche che la ragione per cui gli
allenamenti erano organizzati così al secondo era che lui era ansioso di
tornare a casa da lei.
A noi, tronfi giovani giocatori dell’epoca della rivoluzione sessuale degli
anni Sessanta, troppo trendy e fichi per i concetti antiquati di matrimonio e
romanticismo, la loro relazione sembrava carina ma sdolcinata, non la
materia dei sogni ma quella delle dozzinali cartoline di Hallmark. Qualche
anno più tardi, la maggior parte di noi si rese conto di utilizzare il loro
matrimonio come esempio per ciò che cercava nel suo. Anche se faticavo a
trovare qualcuno con cui essere altrettanto intimo e innamorato, sapevo
riconoscere quando una relazione non era come la loro. E mi sforzavo di
continuare a cercare.
Il pesante vizio del fumo lasciò Nell debole e cagionevole di salute. Nel
1982, una malattia degenerativa delle ossa la costrinse a sottoporsi a un
doppio trapianto d’anca. Ebbe un attacco di cuore durante l’intervento, poi
un altro subito dopo, che la fecero andare in coma per novantatré giorni. La
sua salute non migliorò più e, anche se tornò a fianco del coach, per le
partite e le conferenze, morì tre anni dopo, nel 1985. Erano stati sposati
quasi cinquantatré anni.
Il coach di solito non era un uomo che indulgeva
nell’autocommiserazione. Ma dopo la morte di Nell combatté a lungo per
riacquistare un equilibrio, ritrovare uno scopo. La sua routine di
cinquantatré anni era andata distrutta, così cercò di rimpiazzarla con altre
routine legate al ricordo di lei. Scriveva poesie per lei. Il 21 di ogni mese, il
giorno in cui era morta, le scriveva una lettera e la metteva sul suo cuscino
per una notte, poi la riponeva in una busta insieme alle altre che aveva
scritto. Sistemava la sua camicia da notte sul letto accanto a sé. Suonava gli
album dei Mills Brothers, perché erano andati a vederli dopo la cerimonia
nuziale.
Chiamai casa sua, ma lui non rispose. Chiamai sua figlia Nan, la quale mi
disse che lui di rado rispondeva al telefono, soprattutto se si trattava di
qualcuno che gli ricordava Nell. Mi raccontò di quanto fosse preoccupata. Il
coach era avvilito, molto più depresso di quanto lo avesse mai visto. Anche
la sua immensa fede stava vacillando. Dopotutto, era sempre stata Nell la
più devota. Era lei che riempiva la loro casa di immagini religiose. L’amore
del coach nei confronti di Dio sembrava legato a quello per la moglie.
Senza l’uno, l’altro sembrava svuotato.
Quando riattaccai ero scosso. Pensai di prendere la macchina e andare ad
accamparmi fuori dalla sua casa fino a che non mi avesse fatto entrare. Ma
ficcare il naso nel suo dolore mi sembrava peggio e inoltre, a essere onesto,
non mi sentivo all’altezza del compito. Quel dolore era incommensurabile.
Che cosa avrei potuto fare per aiutarlo? E se avessi detto o fatto la cosa
sbagliata? Ricordai come mi ero rinchiuso in me stesso dopo gli omicidi di
Washington. Mi ero avvolto in un bozzolo, mentre guarivo. Magari il coach
stava facendo lo stesso.
La mia vita era in un tale caos, all’epoca, che mi domandai se non avrei
aggiunto solo altra ansia. Poco tempo prima la mia casa era bruciata,
distruggendo tutto ciò che possedevo e quasi uccidendo la mia compagna,
Cheryl, e mio figlio Amir. Il «Los Angeles Times» aveva definito
quell’evento «il più grande danno economico riportato in una casa
indipendente nella storia della città». Tutte le mie foto di famiglia, i trofei
sportivi, le mie collezioni di tappeti persiani e musica jazz erano andati in
cenere. Avevo un’altra casa e i miei genitori si erano appena trasferiti a
vivere con me. In più ero ancora nel bel mezzo della stagione con i Lakers
ed ero quasi sempre in giro.
Alla fine parlai con il coach qualche mese dopo, a uno dei raduni della
squadra di Ucla, a casa di Andy Hill. Il coach e io ci ritirammo in un
angolo, per chiacchierare un po’ in privato. «Sono molto dispiaciuto per la
sua perdita, coach», gli dissi, sapendo quanto suonassero vuote quelle
parole.
«Grazie, Kareem.» Sorrise debolmente.
Non dissi nulla. Mi limitai a guardarlo, per capire come stesse.
«Sto bene», mi rassicurò lui, ormai abituato a quello sguardo serio e
preoccupato da parte di chi gli stava accanto. «Davvero, sto bene.»
«Nell era una donna fantastica», dissi io.
«Sì, lo era.»
Avevo finito le frasi di circostanza. Che cosa si dice a un uomo che ha
perso sua moglie, la sua migliore amica, la sua compagna? Avrei dovuto
ignorarlo e mettermi a parlare della mia stagione sportiva? O continuare a
pungolare le sue emozioni, ancora così forti, con domande su come se la
stesse cavando?
«Come sta la tua famiglia?» chiese lui. «Vedrò Amir giocare a Ucla?»
Era tipico del coach, domandare degli altri in un momento per lui di
grande sofferenza.
Scrollai le spalle. «Fa già di testa sua a sei anni. Al momento ha
intenzione di diventare il primo uomo nero ad andare sulla luna. Domani
vorrà essere Indiana Jones e saccheggiare templi Inca.»
«Come è giusto che sia.»
Mi sforzai di pensare a che cosa dire. Davanti a me c’era l’unico uomo
con il quale potevo parlare apertamente e liberamente, persino più che con
mio padre. E io sembravo un idiota balbettante.
«Sai, Kareem», cominciò a dire lui, prosciugando l’imbarazzo tra di noi,
«quando ero in marina, la sera prima della mia prevista partenza per andare
a combattere nel Pacifico, ebbi un attacco di appendicite.»
«Lo so», lo interruppi. «Il suo amico dell’università partì al suo posto e
rimase ucciso da un kamikaze giapponese che fece schiantare il proprio
aereo contro la nave.» Mi sentii a disagio per averlo interrotto. Perché ero
così nervoso e agitato? Preoccupazione per lui o senso di colpa?
«Ho pensato molto a quel giorno», continuò lui.
«Perché lui e non lei? Dio aveva dei piani, per lei?»
Lui rise. «No, no. A pensare cose del genere si finisce per impazzire.
Stavo pensando al pilota. Il gentiluomo giapponese così dedito alla sua
causa da voler sacrificare la propria vita. Non si può fare a meno di
ammirare una tale dedizione, quella sensazione di avere uno scopo.»
«A-ha», feci serio. Dove voleva andare a parare?
«Con Nell io ho sempre sentito di averlo, uno scopo. Sapevo perché ero
qui. Per essere suo marito. Quando è morta, quella sensazione è morta con
lei.»
«Coach, io…» le parole mi uscirono rauche.
Lui mi interruppe con un cenno della mano. «Mi hai mai sentito
raccontare una storia senza che avessi qualcosa di importante da dire?»
Risi. «Sì, a dire il vero. Molte volte.»
«Be’, non è questo il caso. Sto cercando di dirti che ho trovato un nuovo
scopo. Cioè, non ne ho tanto trovato uno nuovo, quanto ricordato uno che
già c’era.» Mi sorrise, il suo volto di settantaseienne era raggiante. «I miei
figli, naturalmente, e ora la mia bellissima pronipote.»
Cori Nicholson, la sua prima pronipote, era nata pochi mesi dopo la morte
di Nell. Nan mi aveva raccontato che la sua nascita era stata la sola cosa in
grado di risollevarlo dalla disperazione.
«Tu e io abbiamo passato le pene dell’inferno, Lewis», disse. «Ma siamo
ancora in piedi. È questo che importa. Ancora in piedi e in grado di aiutare
altri a stare in piedi.» Guardò in basso, come se immaginasse la sua
pronipotina stare ritta sulle gambe per la prima volta.
Ero andato al raduno sperando di riuscire finalmente a dare una mano al
coach nel suo processo di guarigione. Non sapevo se ci fossi riuscito, se
avessi detto o fatto qualcosa per alleviare il suo dolore, ma quando me ne
andai mi sentivo più leggero, più felice, rendendomi conto, guidando verso
casa, che in qualche modo lui aveva guarito il mio senso di colpa. Mi aveva
aiutato a stare in piedi.

Dopo quella serata, feci in modo di chiamarlo e fargli visita più spesso. Se
lo facessi per lui o per me, non ne sono sicuro, so solo che sembravamo
trarne beneficio entrambi. La maggior parte dei pasti che dividemmo la
consumammo al Vip’s di Tarzana, a un paio di chilometri dalla casa del
coach a Encino. Lui faceva colazione lì tutti i giorni, persino quando era in
lutto per Nell. Ordinava sempre il numero due special. A volte i proprietari
del locale, Lucy Ma e il marito Paul, si avvicinavano al tavolo per
assicurarsi che fosse tutto di suo gradimento. Lo era sempre.
Una mattina era particolarmente soddisfatto perché, dopo anni di impegno
da parte sua, nella stagione 1985-1986 la Ncaa aveva istituito la regola dei
45 secondi, con il relativo tabellone indicante i secondi rimanenti per il tiro.
La stagione era terminata e secondo lui il tabellone si era rivelato un grande
successo.
«Sai, nel ’71, contro Villanova, ho letteralmente fatto fare melina ai miei
giocatori», disse. «Volevo provare alla Lega quanto fosse stupido
permettere ai giocatori di rallentare il gioco. Deve aver funzionato, perché
eccoci qui, quindici anni dopo, con il tabellone dei secondi.» Rise della sua
battuta.
«Coach, non penserà davvero che creda che lei abbia fatto fare melina ai
giocatori per far passare una sua idea? Non ha mai fatto niente che non
servisse per vincere.»
Sorrise malizioso, mettendosi in bocca una cucchiaiata di uova. «Mi
conosci troppo bene, Kareem.»
«Non credo che succederà mai, coach», dissi.
«Vedremo», ribatté lui. «Abbiamo qualcosa da aspettare con impazienza.»
Aveva ragione, naturalmente. Aspettavo con impazienza ogni pranzo
fuori, ogni telefonata, ogni pomeriggio spaparanzato in soggiorno. Ogni
volta me ne andavo con la sensazione di conoscerlo meglio, ma anche
consapevole che c’era ancora molto da capire su di lui. Era come leggere un
romanzo avvincente, sapendo che c’erano altri volumi ad aspettarmi. La
storia infinita della nostra amicizia.
Era soprattutto una questione di immutabilità. La cosa che avevo sempre
amato del basket era l’immutabilità della vita quotidiana. Non solo la
routine, che consisteva in allenamento, doccia, mangiare, ma vedere la
stessa gente nello stesso ambiente, condividere quelle esperienze con altri.
Arrivavi in palestra e trascorrevi ore con persone che avevano le tue stesse
esperienze, frustrazioni, speranze. Qualunque altra cosa succedesse nella
tua vita, l’indomani loro sarebbero stati lì. Vedere il coach era per me la
stessa cosa.

Quando mia madre cominciò a stare male, sentii che mi stavo di nuovo
isolando. Visto da fuori rimanevo calmo e deciso, l’immagine pubblica che
ci si aspettava da me, ma dentro il mio mondo era traballante e instabile, ed
era difficile trovare un punto fermo cui aggrapparsi.
Mentre ero a Indianapolis con mio figlio Kareem Jr che partecipava al
torneo Ncaa, ricevetti la telefonata che mia madre era stata portata in
ospedale. Kareem e io iniziammo subito a cercare un volo per tornare a
casa, ma poi ricevetti un’altra telefonata che mi avvisava che stava bene, e
che l’avrebbero tenuta in ospedale per la notte come misura precauzionale.
Quando atterrammo all’aeroporto di Los Angeles, mamma era in coma.
Cercai di non farmi prendere dal panico, ricordando come Nell Wooden
fosse stata in coma per novantatré giorni per poi uscirne e riprendere una
vita normale.
Mancava meno di una settimana alla festa per il mio cinquantesimo
compleanno, che tutti attorno a me stavano preparando da mesi. Volevo
cancellarla, ma mio padre e i miei amici insistettero perché si facesse. «Non
facendola deluderai tua madre», mi disse papà. «Si sentirebbe in colpa.»
Aveva ragione, e andai avanti con la festa. Fu un evento sfarzoso, in un
ristorante chiamato Georgia di cui era socio il mio amico ed ex compagno
di squadra Norm Nixon. C’erano tutti i miei figli, e persone che avevo
conosciuto nei più disparati momenti della mia vita e che non vedevo da
anni. Vennero anche alcune mie ex, tra cui l’attrice Pam Grier e a suonare
c’era il Ray Brown Trio. Avrebbero dovuto essere i festeggiamenti di una
vita, ma riuscivo solo a pensare a mia madre in ospedale e a mio padre
seduto accanto al suo letto.
Bill Walton, coach Wooden e Jabbar alla festa per i suoi cinquant’anni (foto Norman Levin, Natural
Portraits & Events).

Due settimane più tardi mia madre morì. Erano sposati da cinquantatré
anni, come il coach e Nell. Al suo funerale provai a parlare di quello che
aveva significato per me e per chiunque la conoscesse, ma riuscii solo a
piangere.
Il coach mi chiamò per farmi le sue condoglianze. «Kareem, mi dispiace
molto. So quanto la amavi.»
«È così.» Parlavo per frasi brevi, perché non volevo mettermi a
singhiozzare.
«Era una donna notevole. Una persona davvero adorabile.»
«Grazie.»
Silenzio.
«Non dubitare nemmeno per un istante che non fosse più che orgogliosa di
come fosse cresciuto suo figlio. E non sto parlando della pallacanestro. Sto
parlando dei tuoi ragazzi e del genere di padre che sei.»
«Grazie, coach.»
Silenzio.
«Spero che tu non stia aspettando che tiri fuori qualche storiella o poesia
sulle cose belle della vita che possa renderti tutto più facile. Perché non ne
esistono. Lo si supera solo un giorno alla volta.»
Come gli Alcolisti anonimi, pensai con amarezza. Avrei voluto che
dicesse qualcosa per aiutarmi ad affrontare il dolore, ma sapevo che non
c’era niente che lui o qualcun altro potesse dire. Le parole non servivano a
niente. Gli amici non servivano a niente. Dio non serviva a niente.
«È sbagliato chiedersi come possa Dio essere tanto crudele?»
«Se lo è, dopo la morte di Nell ho passato molti giorni a sbagliare.»
Respirai a fondo, un respiro che sembrava essere stato rinchiuso dentro di
me come un animale in gabbia. Non avevo perso la fede, ma di certo
l’avevo messa in discussione. Dolore e senso di colpa si erano avvinghiati
al mio cuore come dei boa.
«Non siamo perfetti, Lewis. La perfezione non dovrebbe nemmeno essere
uno dei nostri obiettivi. Perseguirla è poco realistico oltre che poco salutare.
Sii solo buono, con gli altri e con te stesso. È abbastanza, per ora.» Nella
sua voce c’era una tristezza che armonizzava con la mia. Legati dal dolore,
non avrei potuto sentirmi più vicino a qualcuno di quanto mi sentissi in quel
momento. Respirai liberamente per la prima volta dopo giorni. La
sensazione passò in fretta, e la tristezza tornò con prepotenza. Ma almeno
per un istante avevo provato un piccolo sollievo, un sollievo che sarebbe
potuto tornare, e magari, la prossima volta, restare più a lungo.

Un anno dopo la morte di mia madre, arrivò la consapevolezza della lenta


discesa di mio padre nell’oscurità. A dire il vero, era iniziata già da tempo,
da prima che lei se ne andasse, ma mia madre me l’aveva tenuta nascosta.
Se lui dimenticava qualcosa, lei ci rideva sopra facendo una battuta sull’età,
e si metteva a ridere anche lui. Ma, ora che viveva con me, vedevo i segni
che prima non avevo notato: le dimenticanze, le confusioni occasionali.
Gli mostravo fotografie di lui da giovane, un vigoroso poliziotto, e
ricordava persino il giorno in cui la foto era stata scattava. Poi gli mostravo
un’immagine di mamma, e mi chiedeva dove fosse. «Quando torna a casa?»
domandava. «Si sta facendo tardi.» Più andavamo indietro nel passato e più
i suoi ricordi erano nitidi, ma arrivò a ricordare solo il periodo delle
superiori e poco altro. La sua mente stava battendo in ritirata in un tempo
più felice. Per lui, era come se lo salutassi con la mano da una costa
lontana.
La mia governante, Jean Herbert, faceva del suo meglio per tenerlo
d’occhio, mentre io ero in Arizona, nella riserva apache a fare l’allenatore,
ma papà a volte sgattaiolava fuori casa, andava a fare una passeggiata e si
perdeva. I vicini lo riaccompagnavano indietro di continuo.
Dopo diciotto mesi di battaglie, decisi di portarlo a vivere in una comunità
assistita, dove potevo andare a trovarlo regolarmente e da cui portarlo a
casa ogni volta che volevo. Il lavoro di allenatore in Oklahoma, però, mi
portò in giro per il Paese, e lo vedevo sempre meno, il che non fece che
accelerare il suo peggioramento. Coach Wooden lo andò a trovare senza
dirmelo. Lo chiamai per esprimergli la mia gratitudine.
«La ringrazio della visita, coach. Non doveva.»
«Abbiamo fatto una bella chiacchierata. Gli ho raccontato che rottura di
tu-sai-cosa eri un tempo.»
«Un tempo?»
«Volevo essere gentile.»
«Di che cosa avete parlato?»
«Roba da vecchietti. Niente che ti riguardi, ragazzino.» Avevo
cinquantatré anni. Il coach ne aveva novanta, nove in più di mio padre. Mi
chiesi che effetto gli facesse fare visita a un uomo di quasi un decennio più
giovane di lui la cui mente se ne stava scivolando via. La cosa gli faceva
paura? Spaventava me. Stavo guardando in faccia la mia inevitabile eredità
genetica?
Discussi del problema del declino di mio padre con mia zia e mia cugina,
che vivevano a New York, e loro proposero di trasferirlo in una struttura
assistita a soli venti minuti da casa loro. Era gestita dalla stessa società che
gestiva quella in cui si trovava già; persino gli edifici erano simili. Avrebbe
avuto la sua stanza singola e loro avrebbero potuto fargli visita due o tre
volte la settimana, persino portarlo a casa nei weekend. L’idea mi piacque e
trasferimmo papà a Brooklyn.
Nel giro di un anno, non mi riconosceva più. Si era allontanato troppo
dalla costa e non riusciva più a vedermi, mentre lo salutavo, e non riusciva
più a sentirmi quando lo chiamavo. Telefonavo al coach per parlare di
quello che stavo passando. «È come se il suo corpo fosse qui, ma la sua
mente altrove», gli dicevo. Il coach poteva solo offrirmi il conforto della
sua voce, perché non c’era niente che potessimo fare per aiutare mio padre.
Mia zia morì il 2 dicembre 2005. Una settimana più tardi, morì anche mio
padre. Ero distrutto, incapace di organizzare il funerale o di chiamare le
persone che dovevo avvisare. Per fortuna la mia manager, Deborah
Morales, era lì a gestire le cose. Tutte le corde che mi tenevano ormeggiato
si erano slegate, e io ero alla deriva su un mare tempestoso e crudele.
Il coach mi chiamò subito: «Come te la cavi?»
«Non bene», dissi. Avevamo raggiunto un punto, nella nostra amicizia, in
cui non sentivo più la necessità di mostrarmi coraggioso e virile. Potevo
essere me stesso, con tutti i miei difetti, spaventato e sofferente.
«Dopo la morte di Nell dissi a me stesso che, se mai fossi andato in
paradiso, avrei chiesto a Dio perché fosse necessario scaricare tanto dolore
sulle persone.»
«Spero che troverà il modo di farmi sapere la risposta.»
«Ehi, stai dando per scontato che ci arrivi prima di te. Non
sottovalutarmi.»
Risi debolmente. «Certo che no.»
Ci fu un silenzio lungo, ma non imbarazzante. Pensoso piuttosto. Due
amici abbastanza a loro agio da non avere bisogno di riempire i vuoti.
«Ricordi la storia di quando non salpai per il Pacifico, vero?»
Come se fosse successo a me. «Sì. Tutta la questione dell’appendicite.»
«Giusto. Ma non credo di averti mai raccontato di quella volta che
frequentavo un corso per allenatori nel North Carolina. Successe non so più
bene cosa, per cui fui costretto a rimandare il volo al giorno seguente. Be’,
l’aeroplano che avrei dovuto prendere si schiantò, e tutti quelli che erano a
bordo morirono.»
Ero scioccato. La cipolla aveva un altro strato che non avevo ancora visto.
«Fu fortunato.»
«Sì, fui fortunato. Era la seconda volta che ingannavo la morte. Il punto è:
se chiedo a Dio perché permette tanto dolore, immagino di doverlo anche
ringraziare per avermi permesso di vivere tutti quegli anni in più insieme a
Nell. Magari si pareggia tutto.»
«Non per tutti, non è così», dissi.
«Hai ragione. Non per tutti. Immagino sia un’altra domanda che uno di
noi due dovrà fare a Dio.»
«Uno di noi due, eh? Mi piace il suo ottimismo.»
«Sì, be’», ribatté lui con lentezza, «a volte l’ottimismo è tutto ciò che hai.
Altrimenti la vita non è altro che la sopravvivenza del più forte, fino a che
non diventi vecchio e muori. Deve esserci qualcosa di più, sotto.» Rimase
un istante in silenzio. «Come nella Torta al lime delle Keys.»
Risi per la prima volta dopo giorni.

La poesia preferita dal coach, Elegia sopra un cimitero di campagna di


Thomas Gray, parla della morte, e non so se la cosa mi dia più brividi o più
sollievo. L’ho sentito recitarla in diverse occasioni. All’interno c’è la
descrizione di un «gufo triste», che è come mi chiamò una volta che
indossavo gli occhiali protettivi, dopo che un giocatore mi aveva graffiato la
cornea. «Sembri un gufo triste», disse canzonandomi. Da allora, ogni volta
che la recitava, arrivato a quel verso mi sorrideva.
Nella poesia, il narratore sta attraversando un cimitero al calare della sera.
Man mano che scende il buio, lo stesso accade ai pensieri dell’uomo, che
rimugina sulla morte e i suoi aspetti umilianti. Si interroga sull’anonimato
di coloro che sono sepolti nel cimitero, a confronto con i privilegiati
interrati all’interno della chiesa. Alla fine della poesia, un epitaffio descrive
forse lo stesso poeta:

Sincero era il suo animo, magnanimo il suo cuore,


e con pari magnanimità lo ricompensò il Cielo:
una lacrima (altro non avea) diede al Dolore
e ottenne ciò che bramava, un amico vero.

Il coach forniva la sua analisi da insegnante di letteratura: «L’uomo era di


umili origini ma, siccome era sincero, il Cielo lo ha ricompensato. Anche se
ha dovuto sperimentare le sofferenze della vita, la ricompensa del Cielo è
stata un amico». E poi guardava il pubblico, per essere sicuro che avesse
capito.
Ecco che cosa ho capito io. Il coach aveva molti, molti amici, la
ricompensa di una vita vissuta generosamente. Quando recitava quella
poesia e arrivava a quei versi, avrebbe potuto parlare di un centinaio di
amici, ma la sua vera grandezza era che, a chiunque li recitasse, persino se
li recitava a una folla, riusciva a fare in modo che ciascuna persona
pensasse che si rivolgesse direttamente a lei.
Per me era così.
Avevamo avuto i nostri giorni di gloria insieme. I nostri trionfi. I nostri
riconoscimenti. Quelli erano stati momenti facili. Ma insieme avevamo
patito anche tanta tristezza, superato dolore, attraversato sofferenza, sempre
traendoci in salvo l’un l’altro, quando uno dei due vacillava. Quelle erano
state le vere prove della nostra amicizia, e il Cielo aveva ricompensato
entrambi.
Kareem e coach Wooden nel giorno dell’intervista per il documentario On the Shoulders of Giants
(foto di Deborah Morales).
Il nostro lungo viaggio verso la notte

I giocatori dallo spirito combattivo non


perdono mai una partita, restano solo a corto
di tempo.
John Wooden

È una triste ironia che le amicizie migliori finiscano con la morte. Gli amici
che diventano più intimi rimanendo leali l’uno nei confronti dell’altro
affrontano il futuro sapendo che, inevitabilmente, uno dei due abbandonerà
riluttante l’altro a piangere la sua perdita.
Negli ultimi anni della mia amicizia con coach Wooden ci ho pensato
molto. Più si avvicinava ai cento anni e più era evidente per tutti che la sua
fragilità aumentava. Il suo corpo si era ritirato fino a fasciargli le ossa, si
muoveva spesso su una sedia a rotelle, si stancava con facilità. La sua
mente era ancora lucida, ma si vedeva che faceva fatica.
Eravamo tutti preoccupati per lui, anche se il coach non voleva. Come
disse a ognuno di noi, citando Lincoln con una punta di irritazione: «La
cosa peggiore che possiate fare per coloro che amate, è fare le cose che
potrebbero e dovrebbero fare da sé». Il problema era che non sempre aveva
un’idea realistica di ciò che poteva – o doveva – fare.
Guidare, per esempio.
Nel 2005, quando aveva novantacinque anni, durante una delle nostre
colazioni al Vip’s si lamentò del fatto che la famiglia cospirava per
impedirgli di guidare. «I miei figli non vogliono che guidi», disse.
Non volevo farlo sentire peggio, prendendo le loro parti, ma non volevo
nemmeno che guidasse, quindi cercai di affrontare con diplomazia
l’argomento. «Perché guidare, quando potrebbe starsene seduto sul sedile
posteriore a leggere una poesia? Pensi a quanti versi potrebbe ancora
imparare a memoria. Non per criticare, ma ha bisogno di materiale nuovo.»
Il coach scosse la testa accigliato. «Non sono un bambino, Kareem.»
Era chiaro che il mio goffo tentativo era stato troppo esplicito. «Ricorda la
poesia di Kipling che cita sempre?»
«Se», disse lui.
«Sì, Se. Ricordo alcuni versi a proposito dell’aver fiducia in te stesso,
quando la gente dubita di te, ma magari di prestare anche ascolto, qualche
volta.»
Fece una smorfia, come se avessi rovinato la sua canzone preferita
stonandola. «“Se saprai avere fiducia in te stesso, quando tutti dubiteranno
di te, / ma anche considerare i loro dubbi.”»
«Giusto. Quelli. Il punto è che, magari, sulla guida, deve considerare
anche i dubbi dei suoi figli.»
Ci rifletté sopra, masticando il suo toast.
«Sarebbero più felici, meno stressati. Sembra da lei, fare una cosa così per
loro.»
Lui masticò, deglutì e diede un altro morso, senza una parola. Quando
parlò, disse: «Ricordi quella pubblicità televisiva che girammo per la
Reebok nel ’93? Con Shaq, Bill Walton, ehm…» Esitò, cercando di farsi
venire in mente i nomi.
«Bill Russell, Willis Reed, Wilt Chamberlain», dissi in fretta, preoccupato
che quella dimenticanza fosse come quelle di mio padre, una china
discendente da cui non c’era ritorno. «Lei entrò nella stanza in cui eravamo
tutti in piedi e disse: “Non è che avete una scala, per me?”»
Il suo volto si illuminò, come se il ricordo si fosse d’un tratto presentato
nella sua interezza alla memoria. «L’idea di fondo dello spot era iniziare
Shaq al club segreto dei grandi del basket. Ricordi che cosa gli diceva
ognuno di voi?»
Non lo ricordavo.
«Ognuno di voi gli recitava all’orecchio un verso di Se di Kipling. Il tuo
era: “Se saprai parlare alle folle, conservando la tua virtù”, ricordi?»
Buio totale. Aveva dimenticato i nomi, ma ricordava la mia battuta in uno
spot di dodici anni prima. Sorrisi sollevato. «Ero bravo?»
Scrollò le spalle. «Non eri Roger Murdock.»
Fu solo quando arrivai a casa che mi resi conto che il coach mi aveva
portato dove voleva lui, distogliendomi dalla conversazione sulla guida.
Continuò a guidare fino a novantotto anni.

Bill Walton, che aveva giocato per il coach a Ucla subito dopo di me, dal
1971 al 1974, lo chiamava quasi ogni giorno. Anche altri ex giocatori si
tenevano regolarmente in contatto con lui. Ero felice che fossimo in tanti a
prenderci cura del coach. Sapevo che Doug Erickson, che faceva parte dello
staff di allenatori dell’università, passava a fargli un saluto più volte a
settimana. Anche altri dello staff di Ucla si unirono all’équipe di supporto
di coach Wooden. Lui e Tony Spino, l’allenatore di atletica leggera che per
un breve periodo aveva lavorato per i Milwaukee Bucks, divennero molto
amici. Non c’era certo carenza di volontari. Il coach aveva influenzato le
vite di così tante persone, che tutti volevano l’occasione di ripagarlo. Ero
contento di avere l’opportunità di essere uno di loro.
Nel 2006 la nostra veglia giunse quasi al termine. Ero a Indianapolis per le
finali Ncaa e stavo attraversando l’Rca Dome con Bill Walton e Deborah
Morales, quando il cellulare di Deborah squillò. Si fece terrea in volto. Mi
spinse il telefono tra le mani e disse: «Nan Wooden». Nan mi spiegò che il
coach, che all’epoca aveva novantacinque anni, era in ospedale, ma non
sapevano quanto fossero serie le sue condizioni. Rimasi senza parole. Otto
anni prima mi trovavo in quello stesso edificio con mio figlio Kareem,
quando avevo ricevuto la telefonata che mi avvertiva che mia madre era in
ospedale. Non l’avevo più rivista viva. Non potevo permettere che
accadesse di nuovo. Dissi a Nan che Bill e io avremmo preso il primo volo
per Los Angeles. Lei protestò, dicendomi di portare a termine prima i miei
impegni. Il coach non era in pericolo immediato. Le diedi ascolto.
Salii sul palco per tenere il discorso che avevo preparato e invece parlai di
coach Wooden e di tutto quello che mi aveva insegnato nel corso degli anni,
di come non mi fossi realmente reso conto di quanto stessi imparando fino a
che non me ne ero andato. Poi, con mia grande sorpresa, sentii un nodo in
gola. Mi sforzai di ricacciare indietro le lacrime, di continuare sulla strada
che il coach avrebbe voluto vedermi percorrere, ma non ci riuscii. Scoppiai
a piangere.
Deborah sembrava sconvolta. «Non ti ho mai visto sopraffatto a questo
punto dalle emozioni», disse più tardi.
«Non capisci», risposi, «è mio padre.»
Salii sul volo successivo e andammo dritto in ospedale.
«Come sta?» chiesi a Nan.
«Sta riposando», disse lei.
«Ho bisogno di vederlo, Nan.» Cercavo di apparire calmo, di nascondere
il disastro emotivo che mi sentivo dentro.
«È in terapia intensiva, Kareem», rispose lei. «Fanno entrare solo i parenti
stretti.»
«Ho bisogno di vederlo», la implorai. «Per favore, Nan.»
Lei e suo fratello Jim si guardarono, poi annuirono.
«Va bene», disse Jim. «Passa dal retro.»
Quando entrai nella sua stanza, il coach era intontito, incapace di parlare.
Mi guardò, cercando con difficoltà di mettermi a fuoco.
Allungai il braccio e gli presi delicatamente la mano. Sentii le lacrime
scendermi sul volto. La bocca del coach si mosse, come se volesse dire
qualcosa senza riuscirci.
Nan si mise a piangere piano. «Aspetterò fuori», disse. «Vi lascio da soli.»
«No, non andare», la pregai. «Voglio che senta anche tu.» Volevo che
sapesse che la consideravo una di famiglia, proprio come il coach. E volevo
che potesse ripetergli quello che avevo da dire, nel caso lui non mi sentisse
e io non avessi avuto l’occasione di rivederlo.
Avvicinai una sedia e mi misi accanto a lui, sempre tenendogli la mano,
ma attento a non stringerla troppo. Feci un respiro profondo, lo guardai
negli occhi e parlai con il cuore, come avevo fatto di rado, in vita mia.
«Coach, da quando ho perso mio padre, lei è l’unico padre che ho. E ho
bisogno che sappia quanto le voglio bene.»
Sorrise debolmente, ma sorrise.
Tornai in ospedale diverse volte a fargli visita, e intanto lui si faceva
sempre più forte. Quando finalmente lo dimisero, ne fui sollevato ma avevo
ormai capito di non poter più dare per scontata la sua presenza nella mia
vita.

Avevamo tutti sperato che lo spavento preso lo avrebbe fatto rallentare un


po’, e invece il coach sembrava ancora più determinato a seguire il
consiglio di Kipling di percorrere quei «sessanta secondi di strada a passo
di corsa». Continuava a ricevere lo stesso infinito fiume di gente nel suo
soggiorno, esattamente come aveva fatto negli ultimi decenni. Tra le
celebrità che vi si sedettero ci furono Michael Jackson, James Stewart, John
Wayne e Matthew McConaughey. Per non parlare delle decine di superstar
dello sport, molte delle quali erano suoi ex giocatori. Un giorno lo chiamò il
presidente Clinton, per chiedergli se volesse andare a pranzo con lui. Il
coach controllò la sua agenda e scoprì di avere già un impegno per quel
giorno, con la squadra femminile di pallacanestro di una piccola università
del Midwest. Al suo fianco c’era Tony Spino che gli diceva: «È il
Presidente degli Stati Uniti. Per le ragazze possiamo trovare un’altra data.»
Ma il coach scosse la testa. «Non cambio i miei appuntamenti.» Sapeva
quanto fosse importante la sua visita per quelle giovani, non voleva
deluderle. Nel 2008, nel periodo in cui Barack Obama era in corsa per la
nomination democratica, il futuro presidente degli Stati Uniti chiamò il
coach e gli chiese di sostenerlo alle primarie dell’Indiana. «Non posso
sostenerla, perché non vivo più lì da anni», rispose lui. «Ma se potrò, voterò
per lei!» E così fece.
Nonostante la lunga lista di politici che lo corteggiavano, il coach e io
discutevamo di rado di politica. Mi disse soltanto di essere iscritto al partito
democratico, ma di aver votato per alcuni candidati presidenti repubblicani,
tra cui Nixon e Reagan. Sapeva che io ero un attivista progressista che
sosteneva pubblicamente i diritti dei neri, delle donne, della comunità Lgbt,
di musulmani e immigrati. La mia passione per la politica e il mio desiderio
di correggere le ingiustizie sociali che vedevo attorno a me superavamo di
gran lunga il suo interesse superficiale per la politica. Avevo saputo da Bill
Walton, anch’egli un attivista politico dichiarato, che lui e il coach si erano
già scontrati sul tema della politica in passato. Io non volevo quella tensione
tra di noi, soprattutto alla sua età, così evitavamo semplicemente
l’argomento.
Il coach viaggiava per il Paese tenendo conferenze sulla pallacanestro,
insegnando la sua Piramide del Successo, allenando i bambini. Scriveva
libri, andava a ogni partita che Ucla giocava in casa, faceva molto
volontariato. Lavorò persino con il marito di sua nipote, Craig Impelman,
ex viceallenatore di Ucla, gestendo i camp per bambini. Alla fine fu sua
nipote Christy, la moglie di Craig, a convincerlo a smettere con i camp,
quando compì novantotto anni.
Quello stesso anno, il 2008, il coach fece prendere a tutti un altro
spavento. Tony Spino capitò a casa sua per fargli visita e lo trovò sul
pavimento, con un polso e una clavicola rotti in seguito a una caduta
avvenuta la sera prima. Il coach era rimasto disteso a terra tutta la notte.
Quando Tony gli chiese che cosa avesse fatto per tutto quel tempo, lui
rispose: «Un po’ piangevo. Un po’ ridevo». Quando seppi che cos’era
successo, mi ripromisi di passare a vedere come stava più di frequente.
Era chiaro che fosse molto più fragile di quanto tutti noi volessimo
credere. Avevo già iniziato a prepararmi alla sua morte, ma era più che altro
un esercizio intellettuale. A livello emotivo, non riuscivo proprio a
convincermi che prima o poi coach Wooden sarebbe sparito dalla mia vita.

Dopo quell’episodio, le cose continuarono a peggiorare. Nel 2009


«Sporting News» nominò i cinquanta migliori allenatori della storia dello
sport americano, mettendo coach Wooden al primo posto, seguito da Vince
Lombardi, Bear Bryant e Phil Jackson. La rivista lo festeggiò con un pranzo
nella Sala John Wooden di uno dei suoi ristoranti preferiti. L’allenatore di
Ucla Ben Howland, il direttore sportivo Dan Guerrero, Marques Johnson,
Andy Hill e io sedemmo a un tavolo con lui. C’erano anche altri suoi ex
giocatori: Jamaal Wilkes, Ken Heitz, Mike Warren, Lucius Allen e Gary
Cunningham. Il tormentone di quel giorno fu quanti dei suoi giocatori
battevano con la testa contro il lampadario della sala.
Il coach aveva novantotto anni e quel giorno li dimostrava tutti. Quando si
rivolse ai presenti la sua voce era debole, e la gente dovette avvicinarsi per
sentire che cosa diceva. A un certo punto, fece una pausa lunghissima, quasi
imbarazzante. Capii dal suo volto che aveva perso il filo del discorso e
stava disperatamente frugando nella testa per ritrovarlo. Alla fine,
riconobbe il vuoto di memoria, dicendo: «Quando invecchi, la tua memoria
peggiora un tantino, ma un sacco di altre cose vanno anche peggio». Non
era la prima volta che aveva difficoltà in pubblico. Qualche mese prima lo
avevo visto a una conferenza sulla sua Piramide del Successo. Non leggeva
mai discorsi preparati, preferiva parlare a braccio, usando la sua vasta
collezione di poesia e letteratura per illustrare le sue idee. Quel giorno
aveva iniziato a recitare una poesia, poi aveva esitato e ricominciato,
facendo pause dolorosamente lunghe tra alcuni versi. Più che essere
ispirate, le persone in sala avevano negli occhi lacrime di affetto. Alla fine,
gli avevano fatto una delle standing ovation più entusiastiche che avessi mai
visto. Avevo parlato con lui di ciò che era successo. Sapeva di fare fatica, a
volte, e la cosa non lo imbarazzava più. Gli avevo domandato che cosa
pensasse della reazione del pubblico e lui aveva scrollato le spalle, dicendo:
«Ispirare compassione è tanto importante quanto ispirare al successo».
Lo tenni a mente a quel pranzo, mentre guardavo i suoi ex giocatori
alzarsi uno dopo l’altro a tessere le lodi del nostro allenatore e amico.
Quando fu il mio turno, parlai di quanto il coach avesse influenzato la mia
vita, di come avesse guidato le mie scelte, aiutandomi a maturare, come
giocatore e come uomo. Fu però Ben Howland a esprimere quello che tutti
provavamo: «È stato il miglior maestro di sempre. La sua integrità, il modo
in cui vive la sua vita, è un modello per noi tutti».
Quando fu il momento di accettare il premio, il coach, con la sua tipica
modestia, disse: «Nessuno, in tutta onestà, può davvero essere l’allenatore
migliore in assoluto, nessuno». Fece un bel discorso di accettazione, ma poi
si fermò a guardarsi attorno, prendendo pian piano atto di quanta gente
fosse venuta a omaggiarlo: quelle raccolte nella stanza erano persone che
lui amava e che lo amavano a loro volta. Che cosa poteva mai dirci che non
avessimo già sentito in un’occasione o nell’altra? «Ragazzi», disse, «ho
fatto un errore.»
Mi sentii stringere lo stomaco. Era la sua mente che riprendeva a
divagare? Aveva dimenticato ciò che avrebbe voluto dire?
«Ho fatto un errore, nella Piramide del Successo», continuò. «Ho lasciato
fuori la parole “amore”. E “amore” è la parola più potente della nostra
lingua e della nostra cultura.» Poi si spinse ancora più in là. «Voglio anche
chiedere scusa a ognuno di voi, senza eccezioni.»
Avevo sentito il coach parlare centinaia di volte, nel corso degli anni, e
quello non era il suo solito approccio. Ma sapevo da come ci guardava con
determinazione – come se fossimo tutti suoi figli a un pranzo del
Ringraziamento e lui ci stesse mostrando il modo più appropriato per
rendere grazie – che stava dicendo esattamente quello che voleva dire.
Guardandomi attorno, vidi grandi atleti professionisti, medici e avvocati,
insegnanti, allenatori e uomini di successo. Era una sala piena di gente
affermata. Ma cercai di vedervi quello che vi vedeva il coach, e capii che lui
vedeva una sala piena di persone il cui successo era determinato non da ciò
che avevano realizzato, ma dal fatto che erano quasi tutti diventati adulti
felici e soddisfatti, che avevano recepito le sue lezioni, integrandole nelle
loro vite.
C’era un sacco di amore, in quella sala. Non solo nei suoi confronti, ma
anche nei confronti gli uni degli altri. Sapevamo di essere dei privilegiati
che condividevano un grande dono. John Wooden aveva fatto la differenza
nella vita di ognuno dei presenti: grazie a lui eravamo persone migliori di
quelle che saremmo state in circostanze diverse. Quindi per che cosa
diamine avrebbe potuto scusarsi?
Ci guardò con affetto, orgoglio, e un pizzico di rammarico. «Mi dispiace
davvero», disse, «di non essere stato in grado di fare di più per aiutarvi.»
Intorno a me sentivo qualche singhiozzo. Nessuno voleva interrompere
con le lacrime quello che molti temevano sarebbe stato il suo ultimo
discorso. Cercammo tutti di trattenerci fino a che non avesse finito.
Quando ebbe concluso, si scatenò il finimondo. Balzammo in piedi,
applaudendo il più rumorosamente possibile, per soffocare i singhiozzi. In
seguito, ci accalcammo intorno a lui, baciandolo e abbracciandolo. Poi ci
abbracciammo tra di noi. Per quel breve, fulgido istante, fummo
l’amorevole famiglia che lui aveva immaginato fossimo.
Ma quella giornata non fu senza conseguenze, per il coach. Dopo il
pranzo, rilasciò un’intervista a Espn, faticando a trovare le parole.
Sembrava confuso e imbarazzato. Dopo quel giorno, Nan gli vietò altre
apparizioni in pubblico. Voleva proteggerlo.
Negli ultimi mesi, la sua routine giornaliera fu molto semplice: guardare il
notiziario, magari un po’ di sport, fare un pisolino in soggiorno, leggere,
quindi a letto. Gli chiesi se sentisse dolore, ma lui rispose che, nonostante i
molti problemi di salute, il dolore non era tra questi. Scelsi di credergli.
Il coach non solo era appassionato di poesia, ne scriveva anche. Spesso lo
faceva per commemorare un’occasione speciale in famiglia: la nascita di un
bambino, un fidanzamento o un matrimonio. Non si considerava sullo
stesso livello dei suoi maestri preferiti, ma solo un entusiasta dilettante. Per
lui era un modo di dimostrare l’amore che aveva per la famiglia. «Belle
parole in bell’ordine, per me è già bello abbastanza», diceva delle sue
poesie.
Durante gli ultimi anni di vita, iniziò a raccogliere i versi che scriveva in
un quaderno che intendeva lasciare alla famiglia. Voleva includervi un
centinaio di suoi componimenti sui temi della fede, della famiglia, del
patriottismo, della natura e del divertimento. Tra queste poesie una è
intitolata Dell’amicizia:

A volte, quando sono giù, sento un amico e poi


le preoccupazioni cominciano a svanire,
minori sembrano i guai.
Qualunque cosa dicano i dottori,
e i loro studi non hanno mai fine,
la cura migliore, quando l’umore è cupo,
è di un amico la parola gentile.

In quegli ultimi anni traballanti, la sua famiglia, i suoi ex giocatori e io,


cercammo tutti di essere quella cura.

In quei mesi che lo separavano dalla fine, il coach era diventato filosofico, a
proposito della morte. Ne parlava alla stregua di un fastidioso
appuntamento per cambiare le gomme della macchina. Una scocciatura, più
che qualcosa da temere.
«Non ho paura di morire», disse un pomeriggio nel suo soggiorno. Di
certo non avevo introdotto io l’argomento.
«Ah...» abbozzai, a disagio. Non era ciò di cui volevo parlare.
Stavamo guardando una partita tra due squadre universitarie. Incollai gli
occhi allo schermo, sperando che la conversazione fosse terminata.
«L’altro giorno mi hanno chiesto del mio monumento commemorativo a
Ucla. Che cosa volevo.»
«Ah!» ripetei. Mi sentivo come un bambino cui i genitori volevano
leggere il loro testamento. “Troppo presto! Troppo presto!” avrei voluto
gridare.
«La verità è che non credo di essermi mai ripreso dalla morte di Nell. Non
del tutto. Quindi non ho paura di morire, perché sarò di nuovo con lei.»
«So che sarà così, coach», lo rassicurai.
«Mark Twain disse: “La paura della morte deriva dalla paura della vita.
Un uomo che vive pienamente è preparato a morire in qualsiasi
momento”.» Si fermò un istante. «È giusto?» domandò ad alta voce, ma
chiaramente a se stesso. Poi annuì soddisfatto di non aver commesso errori.
«Non riesco a pensare a nessuno che abbia avuto una vita più piena della
mia.»
«Nemmeno io.»
Mi guardò e sorrise. «Naturalmente tu hai ancora un sacco di tempo per
battermi.»
«Non è una gara, coach.»
Non disse nulla. Tornò a guardare la partita, come se non avessimo mai
avuto quella conversazione. Magari nella sua mente era così. Si era già
allontanata, alla deriva, con gli altri relitti galleggianti di memorie
dimenticate. Ma io non l’avrei mai scordata. Non potei fare a meno di
chiedermi se, quando si fosse avvicinata la mia fine, sarei stato in grado di
dire, con la stessa soddisfazione, che nessuno ha avuto una vita più piena
della mia.

Ricorderò sempre l’istante preciso in cui accettai il fatto che stava morendo.
Certo, ogni tanto parlavamo della morte en passant, come se si trattasse di
una crociera estiva che aveva in programma, ma avevo visto gli allarmanti
segni del declino fisico. Eppure c’era qualcosa, nel suo atteggiamento
positivo, nelle sue citazioni ottimistiche, nell’assenza di lamentele, che mi
faceva credere che in questo particolare gioco lui fosse in grado di battere
l’orologio.

Fu circa due settimane prima che tornasse in ospedale per l’ultima serie di
ricoveri. Keith Erickson, coach Wooden e io eravamo a un evento in onore
di giocatori, arbitri e dirigenti che avevano militato nelle Negro League del
baseball. Mentre io conoscevo la storia delle “leghe nere” dalle mie letture,
il coach aveva giocato di persona a pallacanestro contro alcune di quelle
persone in campionati professionistici. Nonostante avessi già sentito le
storie che raccontò quella sera, non le trovai meno affascinanti. Parlava
sempre con un tale rispetto e una tale ammirazione dei giocatori che ogni
nero in sala non poteva fare a meno di essere fiero di quegli atleti che
avevano aperto la strada per il resto di noi.
La serata era stata così vivace che il coach e io non avevamo avuto molte
occasioni per parlare. Avevo passato tre ore seduto accanto a Willie Mays
(una circostanza emozionante, per me), aiutandolo a distribuire palle da
baseball autografate, totalmente assorbito dalla nostra conversazione.
Mentre mi preparavo ad andarmene, qualcuno mi avvicinò e mi informò
che coach Wooden voleva salutarmi. Pensai che volesse dirmi qualche
parola di commiato alla fine dell’evento: la nostra solita chiacchierata
veloce per raccontarci come andava e buonanotte.
Mi sbagliavo. Era sulla sua sedia a rotelle e sembrava esausto. La serata lo
aveva prosciugato. Ci spostammo in un angolo della stanza, da soli: «Voglio
fare due chiacchiere con te», disse. E d’un tratto realizzai che mi stava
dicendo addio.
Era l’ultima volta che lo vedevo. Lo capii e basta.
In un certo senso, sospetto che lo sapesse anche lui. Fui sopraffatto dalle
emozioni e feci un respiro profondissimo, per mantenere la compostezza.
«Come stanno i bambini, Kareem?» chiese.
Mi avvicinai per sentire meglio. «Bene. Amir fa le notti in ospedale.»
«È bello avere un medico in famiglia. Ti fa risparmiare
sull’assicurazione.»
Gli raccontai dei miei altri figli, tutti ben avviati sulle strade che avevano
scelto da soli. Cercai di non apparire troppo fiero, ma dalla mia voce era
evidente.
«E dimmi di te. Che cosa stai facendo in questo periodo?» Sapeva bene
cosa stessi facendo in quel periodo, sembrava che volesse solo tenere viva
la conversazione, fare in modo che quel momento tra noi durasse il più a
lungo possibile. Lo stesso valeva per me.
Gli raccontai di nuovo dei miei progetti, i libri, i film, gli articoli, quanta
gioia mi desse scrivere.
«La differenza tra un lampo e una lucciola», commentò lui. Non aveva
nemmeno più bisogno di citare la frase completa.
«È quello cui penso ogni volta che mi siedo a scrivere», gli dissi, ed era
vero. A volte, quando ero al computer a tormentarmi sulla scelta di una
parola, sentivo la voce del coach che mi domandava: «Lewis, è un lampo o
una lucciola?».
Poi mi resi conto, dal modo in cui si stava accasciando sulla sedia, che era
troppo stanco per continuare. Come facevamo spesso, ci facemmo una foto
insieme. Ci ripromettemmo di sentirci presto ma, mentre mi allontanavo,
con gli occhi che si riempivano di lacrime, ebbi il triste presentimento che
non sarebbe stato così.

Il coach fu ricoverato diverse volte, durante i mesi seguenti. La sua famiglia


aveva attaccato al frigorifero l’ordine di non rianimarlo. La sua salute
peggiorò al punto che era difficile capirlo quando parlava e non sembrava
riconoscere chi andava a fargli visita. Alla fine, il 26 maggio 2010, il coach
tornò al Ronald Reagan Ucla Medical Center per una forte disidratazione.
Quando mi dissero che era in ospedale e che non sarebbe vissuto a lungo,
ero in Europa. Aveva novantanove anni, mancavano solo pochi mesi al suo
centesimo compleanno.
Presi subito un volo per Los Angeles e mi precipitai in ospedale. Lo
conoscevo bene, l’ex capitano di Ucla e poi primo allenatore Walt Hazzard
era morto lì di cancro la settimana prima. E mio figlio Amir vi aveva fatto
un tirocinio speciale nel reparto di traumatologia come parte della sua
specializzazione in chirurgia. Mentre attraversavo di corsa il labirinto di
corridoi, provai emozioni contrastanti: l’orgoglio per il fatto che mio figlio
si fosse distinto in quello stesso edificio, e il dolore che il mio ultimo
genitore stesse morendo. Il coach avrebbe detto: «Equilibrio, Lewis,
equilibrio». Ma in quel momento sentivo tutto tranne che equilibrio.
Quando entrai nella sua stanza il 4 giugno 2010, il coach era sedato ma
ancora vivo. Ero stato fortunato a tornare in tempo. Per me. Ne avevo molto
più bisogno di lui. Al suo fianco c’era Nan che si sforzò di sorridere; ma
non fu necessario parlare delle condizioni mediche del coach. Lo sapevo; lo
sapevamo tutti. Non sono certo che lui fosse cosciente della mia presenza.
Appoggiai la mano sopra la sua, mi chinai su di lui per ricavarmi un piccolo
spazio di intimità, e gli dissi: «Grazie, grazie per tutto quello che mi ha
dato». Poi sussurrai una preghiera musulmana: «In verità apparteniamo ad
Allah. In verità a Lui ritorneremo. Pace e benedizioni».
Rimasi seduto lì al buio per un’ora. Dottori e infermieri entravano nella
stanza, facevano quello che dovevano fare e se ne andavano. A che cosa
pensa un uomo seduto in una stanza di ospedale in attesa che il padre
putativo muoia? Ripercorsi mentalmente le ultime volte che ci eravamo
visti, passando al setaccio ogni scambio di frasi, per assicurarmi che sapesse
quello che provavo per lui. Mi rimproverai di non essere stato con lui più
spesso, di non essere in maggior misura l’uomo che forse voleva fossi. Ma
poi lo guardai, sdraiato lì, e provai una sensazione di calma. Ero diventato
l’uomo che voleva che fossi. Avevo seguito la mia strada, come mi aveva
sempre incoraggiato a fare. Avevo cresciuto i miei figli insegnando loro a
essere gentili e compassionevoli. Avevo combattuto per la giustizia ogni
volta che avevo visto un’ingiustizia. Avevo vissuto seguendo una delle sue
regole d’oro: «Preoccupati più del tuo carattere che della tua reputazione,
perché il tuo carattere è ciò che sei davvero, mentre la tua reputazione è
solo quello che gli altri pensano che tu sia».
Alle tre e mezzo del pomeriggio mi alzai, salutai la sua famiglia e me ne
andai.
Fuori dall’ospedale si era raccolta una folla di studenti. Nessuno di loro
sembrava vecchio abbastanza da essere nemmeno nato mentre lui era
ancora allenatore, eppure eccoli lì a vegliarlo.
Ero a casa che ascoltavo il telegiornale delle sei, quando annunciarono che
John Wooden, il leggendario coach di Ucla, era morto. Alla notizia, le
centinaia di studenti fuori dall’ospedale gli resero onore con l’eight-clap, il
saluto degli Ucla Bruins, e un momento di silenzio.
Era morto con pochi rimpianti. A parte le cose che non aveva potuto fare
con Nellie, il solo sogno che non era riuscito a realizzare era stato salire in
macchina per conto suo e girare per il Paese, per vedere tutte le cose
meravigliose che c’erano da vedere. Il fatto che sia vissuto quasi cento anni
e sia comunque rimasto a corto di tempo la dice lunga sulla sua curiosità
infinita e sul modo in cui ha vissuto.
Il mio telefono cominciò a squillare non appena fu dato l’annuncio. «Era
un grande insegnante e un plasmatore di talenti», dissi a un giornalista. «Il
basket è stato solo il tramite per arrivare a noi, per farci fare i conti con i
nostri problemi di carattere. Perché quello che abbiamo imparato in campo
si è poi davvero tradotto nelle nostre vite.» La domenica successiva andai
alla seconda partita delle finali Nba allo Staples Center e, quando un
giornalista mi chiese come mi sentissi a trovarmi lì, risposi: «Si deve
provare a vivere la vita mantenendo un certo equilibrio».
Bla, bla, bla. Stavo dando voce alle parole del coach, declamando la sua
filosofia, incarnando la sua immagine pubblica. Era quello che la gente
voleva sentire. Pubblico apprezzamento, dolore privato. Non volevano
sentirsi dire quanto fosse triste il mio mondo, quanto anestetizzato fosse il
mio cuore, come piangessi quando ero a casa. Volevano un pensiero
positivo. Volevano quello che il coach avrebbe dato loro. Cercai di
accontentarli. Volevano che vincesse la leggenda.
Ad alcuni dei suoi ex giocatori fu chiesto di parlare a un servizio funebre
che si tenne tre settimane dopo la sua morte. Il tempo aveva alleviato il
dolore, ma non il senso di perdita. Prepararmi per quell’occasione fu una
delle cose più difficili che abbia mai fatto nella mia vita. Volevo fare un
discorso breve e focalizzato solo su di lui, ma era difficile parlare di lui
senza fare riferimento all’influenza che aveva avuto sulla mia vita.
Per la cerimonia si raccolsero al Pauley Pavilion circa 4000 persone, tra
cui il sindaco di Martinsville, nell’Indiana, dove il coach era stato una star
della pallacanestro alle superiori. Seduto lì, in attesa di pronunciare le mie
poche parole, mi fu impossibile non guardarmi attorno e ricordare quanti
importanti momenti delle nostre vite avessero avuto luogo in quell’edificio.
La prima volta che ero stato lì non c’era ancora il pavimento, e ora al
soffitto erano appesi una marea di scudetti. In quell’edificio le squadre del
coach avevano stabilito lo strabiliante record di 149 vittorie e 2 sconfitte. Lì
aveva allenato diciassette giocatori All-American e ventiquattro futuri Nba.
Un fattore campo notevole per la squadra di casa, e quella era stata la nostra
casa.
Prima di me parlarono diverse altre persone. Lynn Shackelford descrisse
quello che tutti sentivamo: «Negli ultimi quarantacinque anni, abbiamo
avuto questa guida, con la quale potevamo sempre parlare. Ho scritto
un’email a Mike Warren e gli ho detto: “Mi sento così strano”, e lui mi ha
risposto: “Sì, anch’io”. Le parole di Mike sono state: “Mi sono sentito come
un bambino in mezzo all’oceano. Ero calmissimo e d’un tratto è scoppiata
una burrasca ed ero in balia delle onde”.
Poi ho pensato a che cosa avrebbe detto il coach: “Oh, andiamo, che
sciocchezza, Shack. Sono cose che succedono ogni giorno. Non è un
problema. Puoi farcela, sai che cosa fare. Per tutti i santi del paradiso, vai
avanti”.»
Tra di noi non avevamo discusso prima di quello che intendevamo dire
ma, sorprendentemente, parlammo tutti delle lezioni imparate da lui, invece
che delle partite che avevamo vinto. Ciascuno di noi. Una persona che
avesse ascoltato i nostri discorsi senza sapere a chi stavamo rendendo
omaggio avrebbe pensato che si trattasse di un bravo insegnante, rimanendo
poi forse sorpresa nello scoprire che era anche allenatore di pallacanestro.
Quando fu il mio turno, schiarii la voce e dissi: «I valori del coach sono di
un’altra epoca. Si sono formati in un’America che non c’è più. Credo che
questa sia una delle ragioni per cui così tante persone sono motivate dai
suoi insegnamenti. I suoi legami con la natura morale della sua fede e la sua
abilità nel trasmetterceli ci hanno fornito le risposte che abbiamo bisogno di
sentire in giorni come questi. I suoi successi come insegnante, allenatore,
mentore e genitore sono testimonianze della saggezza con cui ha vissuto la
sua vita».
Quel giorno tutti siamo tornati a casa consapevoli di aver perso il leone
gentile che ci accompagnava nelle nostre vite.
Se la saggezza del coach ha continuato a vivere attraverso la diffusione
della Piramide, dei suoi libri e del corso Wooden1, di tanto in tanto ci sono
stati però altri avvenimenti a ricordarcelo. Meno di un anno dopo quella
commemorazione, il Pauley Pavilion fu chiuso per un rinnovamento
completo. Nell’ultima partita di basket giocata prima della chiusura, la
squadra di Ucla (non classificata tra le prime venticinque) sconfisse senza
problemi gli allora numero dieci Arizona Wildcats. Tra i giocatori che
sedevano sulla panchina dei Bruins c’era il pronipote del coach, Tyler
Trapani. Nei tre anni in cui aveva fatto parte della squadra, Tyler aveva
giocato di rado e non aveva mai segnato. A partita ormai decisa, il coach di
Ucla Ben Howland mise in campo le riserve. A pochi secondi dalla fine, un
giocatore di Ucla tirò da tre ma la palla non arrivò al ferro, finendo
inaspettatamente tra le mani di Tyler, che la prese e tirò. La palla scivolò
silenziosa nella retina, ma non altrettanto silenzioso rimase il pubblico.
Battendo i piedi, applaudendo e gridando fece sentire la sua approvazione
per il fatto che gli ultimi punti segnati prima che il palazzetto fosse chiuso
per ristrutturazione fossero opera di un Wooden.
Negli spogliatoi, coach Howland, che in quegli ultimi anni era diventato
un buon amico di coach Wooden, non riuscì a trattenere le lacrime,
spiegando: «Prego molto… Il fatto che Trapani abbia fatto quell’ultimo
canestro significa tantissimo per me, non ne avete idea. Non poteva andare
meglio di così».

Alcune vite sono difficili da raccontare, perché le persone che guardano


quella vita, lo fanno tutte da prospettive diverse, a volte persino
contrastanti. È come la parabola dei cinque uomini ciechi, a ognuno dei
quali viene chiesto di descrivere l’aspetto di un elefante dopo averne
toccato una parte diversa. «Sembra un serpente», dice il cieco che accarezza
la proboscide. «Una pentola», sostiene quello che sente la testa. «Un
aratro», afferma quello che tocca la zanna. E così via. La cosa eccezionale a
proposito di coach Wooden è quanto siano coerenti le descrizioni fatte da
tutti coloro che lo hanno conosciuto. La storia ricorderà John Wooden per i
suoi successi sportivi senza precedenti. Ma la sua famiglia, gli amici e gli
ex giocatori lo ricorderanno per aver vissuto secondo l’insegnamento che
più amava: «La felicità ha inizio dove termina l’egoismo».
Ogni volta che parlava ai giovani, coach Wooden distribuiva loro alcuni
cartoncini plastificati su cui era stampato il “Giuramento di sportività di
John Wooden”, e in ogni occasione chiedeva loro di pronunciarlo insieme a
lui:
Che vinca o perda, sarò sempre sportivo.
Nessuna lamentela, nessuna scusa per nessun motivo.
Non mollerò mai, dando il cento per cento,
impegnandomi al massimo in ogni momento.
Con questo giuramento darò il meglio di me stesso.
Coach Wooden mi ha insegnato ad avere successo.

Quel giuramento incarnava ciò che lui insegnava sullo sport. Chiedete a
ogni giocatore che abbia imparato dal coach a mettersi bene i calzini e,
davanti al giuramento, vi dirà: «Sì, è proprio lui».
Ma per me era un’altra la cosa che più di tutte definiva coach Wooden.
Non le parole che insegnava agli altri, ma quelle che usava per se stesso. Si
tratta di una poesia anonima: il coach la amava così tanto che la Gatorade
girò uno spot televisivo con lui che la recitava direttamente in camera. Se
volete sapere che cosa pensasse il coach ogni volta che si trovava di fronte
ai suoi giocatori, alla sua famiglia, ai suoi amici, è semplicemente questo:

Un piccoletto mi sta seguendo

Nella vita devo stare attento:


un piccoletto mi sta seguendo.
So che non oso uscir di carreggiata,
per timor che anche lui faccia qualche bravata.
Pensa che io sia sempre giusto e buono;
crede a ogni mia frase, a ogni mio suono.
Mostrare il mio peggio non intendo,
a questo piccoletto che mi sta seguendo.
Devo esser cauto, mentre consumo le suole,
nella neve d’inverno e d’estate al sole.
Perché per gli anni a venire sto formando
Questo piccoletto che mi sta seguendo.

Sarò sempre fiero di dire che io, dall’alto dei miei 218 centimetri, sono stato
uno di quei piccoletti.
Coach Wooden riceve dalle mani di Jabbar uno dei tanti riconoscimenti della sua carriera (foto della
collezione privata di Nan Wooden).

1
Un metodo di accrescimento del successo professionale per aiutare gli individui e le organizzazioni
a sfruttare appieno il proprio potenziale [N.d.T.].
Ringraziamenti

Per vivere i ricordi raccontati in questo libro, a coach Wooden e al


sottoscritto ci sono voluti quasi cinquant’anni. Ma per catturarli sulla carta e
renderli disponibili ai lettori ci è voluta una squadra di persone attente e
scrupolose. I miei più sentiti ringraziamenti a Nan Wooden, per tutta la sua
collaborazione e gli incommensurabili sforzi fatti nell’aiutarmi a
raccogliere i ricordi. Al mio editor, Gretchen Young, per la sua onestà e il
suo incrollabile sostegno per mantenere questo libro il più personale
possibile; e all’assistente di Gretchen, Katherine Stopa, per il suo aiuto
durante la realizzazione del progetto. Al mio agente letterario, Frank
Weimann, per tutto ciò che ha fatto per trasformare questo libro in realtà.
Alla mia manager, Deborah Morales, per la sua lungimiranza e la sua guida.
Dopotutto, è stata lei a scattare la fotografia che ha ispirato questo libro. A
Raymond Obstfeld, per la sua competenza come editor, che è stata
essenziale per il mio successo come scrittore.

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