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IL DUOMO DI MODENA

L’esperienza del Duomo di Modena, di seguito presentata, risulta interessante sotto molteplici punti di vista, che coinvolgono l’intero
complesso architettonico a partire dalla sua stessa edificazione. Esso è come un ‘libro di pietra’ la cui storia, storia innanzitutto di una
comunità, vi è incisa sopra [1].
La decisione di erigere una nuova cattedrale fu presa (nella seconda metà del XI secolo) unitamente dal clero e dall’intero popolo
della chiesa modenese dopo reciproche consultazioni. Resti della basilica precedente al duomo testimoniano una struttura a 5 navate
lungo l’asse liturgico Est-Ovest, dunque obliqua rispetto a quella odierna, parallela invece alla via Emilia, allungata nelle sue
dimensioni e a 3 navate.
Il Duomo di Modena è riconosciuto come opera dell’architetto lombardo Lanfranco, uno dei pochi di cui ci è giunto il nome, in
un’epoca in cui maestri, operai e apprendisti lavoravano nell’anonimato. A Lanfranco, tuttavia la città di Modena espresse grande
riconoscenza, celebrandolo come ‘mirabile artifex, mirificus aedificatore’ in un’epigrafe posta nell’abside. [2]
Nei territori di Lombardia ed Emilia l’architettura romanica fece trasparire da subito tratti vicini al Romanico europeo più puro. La
capacità di articolare lo spazio spezzandone l’unità, diversamente dalle precedenti architetture paleocristiane, avvenne attraverso
costruzioni massicce. Lanfranco infatti, nella sua tensione verso una nuova organicità di rapporti plastici e spaziali, si ispira a modelli
della tradizione carolingio-ottoniana e del primo romanico di Normandia. Tale organicità raggiunge a Modena il suo culmine con
l’introduzione delle grandi arcate pensili al sommo della navata, mantenendo però un semplice impianto basilicale a tre navate e tre
absidi, senza deambulatorio o transetto, e rifiutando i complessi disegni planimetrici francesi.
Sono proprio i pilastri, in cotto composti da 4 semicolonne addossate ad un nucleo quadrato, che presentano forti somiglianze con
quelli di altre chiese in Europa, ad esempio in Normandia. Essi sono anche un elemento di relazione con la basilica precedente di cui
tradiscono un sistema voltato originario.
Il celebre manoscritto ‘Relatio transationis corpi Sancti Geminiani’ parla di spaventose fenditure e crepe nella chiesa precedente, per
cui si ipotizza una conversione ad un tetto ligneo per il nuovo duomo, anche se in un momento in cui il sistema voltato prendeva
sempre più piede nel nord Italia.
Lo storico dell’arte medievale, Arthur Kinglsey Porter, conoscitore impareggiabile del Romanico europeo e forte sostenitore del
sistema voltato, arriva ad interpretare come scelta consapevole e qualificante la rinuncia di Lanfranco alla copertura voltata, in un
momento in cui questa soluzione architettonica sembrava prendere una strada di non ritorno nella direzione del gotico [3]. Tale
affermazione è interessante in quanto il duomo presenta un sistema alterno di pilastri e colonne, sistema che definisce
un’integrazione complessa di moduli strutturali.
La scelta del tetto ligneo fa riflettere, l’unica certezza è la profonda manipolazione formale di Lanfranco che si rivela nell’orditura
progettuale e si riflette nel rigore delle complesse concatenazioni strutturali realizzate [4].

Sempre nella ‘Relatio’ di Aimone si narra di quando nacque il pensiero di sospendere i lavori per mancanza di materiale da
costruzione. Si iniziò a scavare poco lontano dove nessuno aveva mai sospettato si potessero trovare pietre e marmi di grande qualità:
era stata rivenuta la necropoli romana di Mutina. Questa tesi è stata provata dai marmi e pietre del duomo che riportano frammenti
di stele romane.
Il metodo costruttivo prevedeva di lavorare finché possibile nelle zone non occupate dalla chiesa vecchia, la cui demolizione avveniva
per gradi: la zona dell’altare e del coro era sempre l’ultima ad essere demolita, la prima la facciata, onde evitare pericoli. Nel 1106
furono traslate le reliquie di Geminiano, patrono della città, con una solenne cerimonia [5].
Un errore al punto di giunzione nel corpo centrale, legato ad un sovradimensionamento, svela il procedimento costruttivo della
struttura: la zona d’ingresso all’inizio della navata e la parte absidale erano state edificate contemporaneamente. Ciò ha poi reso
necessario eliminare una trifora in favore di una bifora, sia nella facciata nord che in quella a sud. Tale errore non è una singolarità
nel contesto medievale, gli architetti si esprimevano in un linguaggio in cui la tendenza all’animazione plastica delle masse prevaleva
decisamente sulle esigenze delle proporzioni e della simmetria.
All’interno Lanfranco applicò una sobria bicromia bianco-rosso, imponenti archi a tutto sesto separano le tre navate e su quella
centrale si affacciano due finti matronei.
Esternamente realizzò invece un insieme caratterizzato dal candore dei materiali e dalla successione ritmica delle arcate cieche
(nascenti da semicolonne addossate alla parete) con le trifore delle loggette: un continuo alternarsi di luci e ombre. Non vi sono
precedenti nell’architettura medievale d’Occidente e Oriente, ma si può scorgere un’origine nell’architettura lombarda dei secoli
preromanici [6]. L’intuizione di Lanfranco, secondo Salvini, sta nel riportare questo sistema solitamente collocato all’altezza
dell’abside lungo tutto la struttura perimetrale, conferendo all’edificio grande organicità [7]. L’altra grande innovazione che questa
struttura racchiude è l’utilizzo di veri e propri archi di scarico come elemento di cornice delle trifore e non più semplici lesene.
Accanto a Lanfranco lavorò lo scultore Wiligelmo, ricordato da un’altra lapide in facciata. Questi si occupò certamente della
decorazione scultorea, i suoi rilievi di impressionante forza espressiva mettono in evidenza un “racconto di cose”, come diceva
Francesco Arcangeli e soprattutto “un rovesciamento radicale di quello ch’era stato il mistico trascendentalismo bizantino” [8].
Il duomo vide anche il successivo rimaneggiamento, in parte, dell’opera di Lanfranco, con una nuova lunga campagna edificatoria ad
opera dei maestri campionesi (dal 1167 fino al 1221). In questi anni vennero costruiti i primi 5 piani della torre ghirlandina,
trasformata tutta la zona presbiterale all’interno con la sistemazione di un falso transetto (con effetti anche all’esterno) ed eretta la
porta Regia, posta sul fianco meridionale. È inoltre di fattura campionese il grande rosone nella parte superiore della facciata,
probabilmente a sostituire un’ampia bifora.
La configurazione dell’attuale Duomo di Modena è dunque un complesso architettonico ricco di sfaccettature, che dà luogo a svariate
ed interessanti interpretazioni come risultato di una serie di elementi mutati nel tempo in modi e per cause diverse.

[1] Così come il titolo del libro di Giordana Trovabene e Guido Vigarani (1997) e come menzionato da Dario Fo nel suo spettacolo
teatrale “Il tempio degli uomini liberi” (2004)

[2] La lapide, collocata esternamente all’abside maggiore, riporta la data di inizio dei lavori insieme al nome dell’architetto Lanfranco.
La posizione di Lanfranco nell’organizzazione gerarchica del cantiere è ribadita anche dalle miniature che accompagnano il testo della
“Relatio traslationis corporis Sancti Geminiani” (Modena, Biblioteca Capitolare)

[3] Carlo Tosco “Arthur Kingsley Porter e la storia dell'architettura lombarda”. Il problema delle prime volte lombarde era già stato
affrontato da Kinglsey Porter nello scritto “The Construction of Lombard and Gothic Vaults (1911), seguito da “Early Rib-Vaulted
Construction in Italy” (1913) e ancora in “Lombard Architecture” New Haven, Yale University (1917)

[4] P. Frankl, Der Dom in Modena (1927)

[5] Un evento che resta fissato in un documento coevo, la Relatio de innovatione Ecclesiae sancti Geminiani Mutinensis praesulis
(“Relazione intorno all’inaugurazione della chiesa di san Geminiano vescovo di Modena”). A dimostrazione del legame tra il potere
religioso e civile, il documento religioso è preceduto da una descriptio introduttiva della città emiliana.

[6] Esempi sono Sant’Ambrogio e Sant’Eustorgio a Milano.

[7] Roberto Salvini “Il duomo Di Modena” (1972)

[8] Francesco Arcangeli, saggio introduttivo alla mostra “Natura ed espressione nell’arte bolognese – emiliana” (Bologna, 1970)

Bibliografia e Sitografia:
-Fo Dario, Dario lezione d'arte “Il tempio degli uomini liberi” (2004)
-Salvini Roberto “Il duomo Di Modena” (1972)
-Silvestri Elena, “Una rilettura delle fasi costruttive del Duomo di Modena”
-Tosco Carlo, “Arthur Kingsley Porter e la storia dell'architettura lombarda”

Anna Bruni
Gennaio 2018

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