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Introduzione
Sebbene sia di Vitruvio il primo trattato di architettura a noi pervenuto, è Leon Battista Al -
berti che quattordici secoli dopo scrive la prima grande opera di testi antichi e opere archi -
tettoniche: il De re aedificatoria. Secondo la concezione dell’Alberti, l’architettura è una di-
sciplina fatta da tutti gli edifici costruiti nei vari secoli e compito dell’architetto è conoscere,
studiare e capire tutte queste opere, al fine di ricostruire questa tradizione e potervi appor-
tare delle innovazioni. Secondo quanto egli scriveva nel suo trattato, l’architetto ha il com-
pito di pensare, mentre spetta al manovale il compito di costruire, questo perché vi è una
sostanziale differenza fra chi pensa e chi invece esegue: è l’architetto ad avere dignità,
fama e sapere e in lui coincidono figure quali l’intellettuale, il privilegiato, lo studioso.
L’architettura è l’arte pubblica per eccellenza, data la sua visibilità che spetta a tutti, ma
solo l’architetto ha le capacità e le conoscenze per individuare cosa vi è di prezioso e am -
mirevole in un’opera. A tal fine è indispensabile lo studio di tutta la tradizione precedente,
senza pregiudizio alcuno e senza imitazioni, ma solamente innovazioni. E’ proprio per
questi motivi che l’Alberti scrive il suo trattato in latino, al fine di rivolgerlo agli illuministi
suoi pari, ma nonostante ciò non disdegna nemmeno i manovali, poiché egli si concentra e
pone la sua attenzione alle tecniche costruttive proprie delle botteghe artigiane. L’architet -
tura è per l’Alberti la parte intellettuale della progettazione, la parte aurea. E’ anche per
questo motivo che molti architetti del ‘400 hanno origini come pittori e scultori e fanno della
Roma antica loro principale riferimento di studi e ricerche.
Il Quattrocento italiano
Il Quattrocento italiano è il momento nel quale prende avvio il Rinascimento. Tale termine
è coniato solo nell’Ottocento e oltre ad individuare un preciso periodo storico e artistico,
porta con sé il pregiudizio di rinascita della cultura antica e classica su quella del Medioe-
vo. E’ negli anni Settanta del ‘400 che Antonio Puccio Manetti scrive la biografia di Filippo
Brunelleschi, inquadrandolo come l’iniziatore della nuova tradizione architettonica e artisti-
ca a Firenze. Firenze nei primi anni del ‘400 è il maggior centro artistico d’Italia, data la
sua concentrazione di artisti, intellettuali e committenti. La città ha inoltre una politica e
una società ben sviluppata ed è, assieme a Venezia, la sola repubblica del territorio italia -
no, poiché le altre città della penisola sono organizzate in signorie.
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pertanto, quello di trovare una corretta soluzione per eseguire la cupola ottagonale, già
presente nei disegni di Arnolfo di Cambio per la progettazione della chiesa, che presenta
impianto composito (pianta centrale ottagonale ed impianto longitudinale). La Fabbrica del
Duomo (l’ente per la manutenzione di Firenze) indice un concorso, vinto appunto dal Bru -
nelleschi, che mostra un modello in mattoni che non richiede l’uso di centine durante la co-
struzione, poiché la struttura è auto-portante. Il cantiere è così affidato al Brunelleschi e a
Lorenzo Ghiberti, entrambi orafi e scultori. Brunelleschi da subito adotta un comportamen-
to teso ad escludere l’altro e alla fine riesce a mandarlo via; inoltre licenzia tutti gli operai e
assume altre maestranze. Ciò diviene caratteristico della persona dell’architetto: tutte le fi-
gure del cantiere devono far capo a lui e non più alle arti, data la sua posizione di privile -
giato e d’intellettuale. Questo porta conseguenze su tutta la società: il governo, che prima
era composto ed eletto dalle corporazioni, è ridotto di numero e il potere passa in mano a
pochi eletti di spiccato peso sociale e culturale. E in tutto questo sono in particolare artisti
e intellettuali ad acquisire valore.
Brunelleschi inizia, così, i lavori per la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore,
prendendo come esempi esperienze antiche, prima su tutte quella del Pantheon. Secondo
quanto scrive Manetti, il Brunelleschi va a Roma con Donatello per studiare le opere anti -
che. Qui ha modo di osservare la cupola del Pantheon, eseguita in calcestruzzo a getti
successivi e formante un elemento unico inse-
rito in una struttura esterna che, salendo, la
contiene. Egli, invece, per la Cattedrale di Fi-
renze progetta una doppia calotta di mattoni,
più spessa e con funzione portante quella in-
terna e più leggera e con funzione protettiva
quella esterna, con un’intercapedine centrale
vuota. Altra differenza con il Pantheon consi-
ste nel fatto che il Brunelleschi non può assot-
tigliare i muri della cupola man mano che sale,
poiché in sommità ci andrà la lanterna, assen-
te a Roma. Trova allora spunto da un edificio
di fondazione romana fronteggiante la Catte-
drale: il Battistero di San Giovanni. Questo ulti-
mo presenta la copertura a calotta a sesto rial-
zato, cui è aggiunto un involucro di marmo
bianco e un attico che chiude la cupola: in tal
modo si crea nella parte bassa un’intercapedi-
ne fra la calotta e il rivestimento in pietra. Il
Brunelleschi, così, progetta una struttura innovativa, traendo spunto dai due esempi sopra
indicati. Innerva tutta la struttura con costoloni di pietra, dei quali irrigidisce quelli dell’inter-
capedine (più caricati) con degli archi traversi e lascia a vista quelli sullo spigolo delle vele;
dispone, poi, delle catene in pietra in senso longitudinale e radiale (di queste ultime si
vede la testa dall’esterno) ed una successiva catena lignea secondo la teoria del Ghiberti,
il tutto per irrigidire la struttura e permetterne la messa in opera. Realizza la parte inferiore
della cupola con pietra, per poi procedere in mattoni allettati con malta a presa rapida.
Inoltre l’intercapedine è percorribile da un sistema di scale e rampe e tra un costolone e
l’altro è possibile individuare gli archi sopra citati; nella zona superiore la scala diventa ra -
diale, fino a raggiungere degli ambienti in sommità che cerchiano il foro centrale, sormon -
tato dalla lanterna costruita in seguito sempre su progetto del Brunelleschi. La forma della
cupola, con richiami gotici, è dettata da necessità di carattere strutturale: grazie alla mino-
re inclinazione rispetto alla parete concava di una cupola emisferica, gli spicchi possono
essere costruiti senza bisogno di centinature e appoggi da terra, ma bastano dei semplici
ponteggi per stabilizzare la struttura; inoltre, viene sfruttata la coesione dei mattoni disposti
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a spina di pesce, che costituiscono un dispositivo auto-portante. Importante caratteristica è
inoltre la presenza di nervature verticali nella muratura primaria, che permettono la messa
in opera dei mattoni all’interno della fila. Ancora una volta per studiare al dettaglio la cupo -
la Brunelleschi trae esempio dall’antichità: egli si rifà probabilmente alla villa di Diocleziano
a Spalato del quarto secolo d.C. che presenta una forma esterna ottagonale ed un’interna
circolare chiusa con una volta a calotta realizzata in mattoni, i quali sono usati come riem-
pimento regolare di corsi ad arco. Pare, infatti, che fra le maestranze del Brunelleschi ci
siano operai di origine dalmata, che possono aver conosciuto l’edificio di Diocleziano. Per
quanto riguarda le tonalità della cupola, essa compare con il rosso dei mattoni e il bianco
dei costoloni di pietra, che riprendono linearmente i contrafforti della parte sottostante della
Cattedrale e che sono richiamati anche nella lanterna. Tale bitonalità è scelta sia per moti-
vi visivi della struttura nel suo complesso, che per motivi estetici. Al proprio interno, invece,
si trovano numerosi dipinti e mosaici cinquecenteschi, proprio come voleva il Brunelleschi.
Oltre a tutto ciò, per la prima volta nella storia dell’architettura viene usato un rapporto di
curvatura di 1:2 tra il raggio e l’altezza della cupola, una delle tante innovazioni che ver -
ranno introdotte durante il Rinascimento.
Parallelo alla costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore è l’ospedale degli Innocen-
ti, iniziato nel 1419 a spese dell’Arte della Seta, su committenza di un piccolo produttore.
Tale edificio costituisce una struttura razionalmente studiata e funzionalmente attrezzata
per rispondere ad un’esigenza sociale pressante: il ricovero, la cura e l’educazione dei
bimbi abbandonati: siamo nell’epoca del più vivo impegno civile di Firenze, quello delle
grandi opere pubbliche, realizzate nella profonda fede nella dignità del bene comune.
L’edificio ha un chiaro impianto simmetrico, organizzato attorno al cortile centrale quadrato
e al porticato che gira su tutti e quattro i lati, che viene richiamato dal ritmo delle nove ar-
cate della loggia in facciata. Quest’ultima è chiusa alle due estremità da campate più am -
pie disposte su pilastri liberi poggianti su setti murari, che hanno lo scopo di inquadrare la
visione prospettica dell’intero fronte della piazza a distanza. Qui la geometria diviene rigo-
rosa, le proporzioni metriche controllate, la sintassi stringente: l’altezza delle colonne è
esattamente pari alla larghezza dell’intercolunnio e alla profondità della loggia (in rapporto
1:1), mentre l’arco superiore è esattamente un semicerchio (in rapporto perciò con la co -
lonna di 1:2). Una delle tante novità introdotte dal Brunelleschi nell’ospedale degli Inno-
centi riguarda l’utilizzo di una volta a vela a pianta quadrata in chiaro riferimento bizantino,
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anziché della tradizionale volta a crociera innervata da costoloni di derivazione tardo-goti-
ca. Materiali quali la pietra serena e l’intonaco a calce, con una gotica distinzione tra mem-
brature e superfici murarie, evidenziano la chiarezza dell’impianto e la logica del disegno.
Tutti questi accorgimenti saranno ripresi più volte dal Brunelleschi, che pur cambiando
l’architettura, lascia pressoché inalterati i dettagli, quasi come se non contasse il loro rap -
porto con l’edificio: ciò è in netto contrasto con l’ideologia architettonica del Quattrocento.
Lo schema col piano terreno porticato a colonne e il piano superiore chiuso con finestre
sarà ripreso più volte in altri tipi d’edifici. Il Brunelleschi per l’ospedale degli Innocenti giun-
ge alla realizzazione di un capitello pseudo-composito, con due giri di foglie successive,
volute quasi uguali agli angoli e al centro e giro di ovuli sotto l’abaco; superiormente inoltre
aggiunge un concio di pietra strutturale al fine di appoggiarvi l’arco, che non è chiuso in
corrispondenza del capitello, ma lascia alla forma una certa continuità. Anche questo ac-
corgimento trova riferimento nel peristilio del palazzo di Diocleziano a Spalato, mentre
sarà pratica del Brunelleschi chiudere gli archi ogivali di Santa Maria del Fiore, per creare
una distinzione tra arco ed elemento orizzontale. Le finestre del piano superiore, invece,
presentano superiormente un timpano triangolare, composto di architrave, fregio e corni-
ce. A differenza della tradizione antica, che vede la trabeazione divisa in tre fasce, quali
architrave, fregio, cornice, tutte con modanature intermedie, come sottocornici e gocciola -
toi, come si osserva nel Pantheon, il Brunelleschi cambia le dimensioni ai vari elementi e
dona maggior spessore all’architrave, sopra la quale c’è il fregio e poi la cornice, che è ri-
dotta ai minimi termini. In tale occasione, l’architetto richiama diversi elementi della tradi-
zione fiorentina, in particolare con il già citato Battistero. Dall’attico di questo edificio, inol -
tre, egli trae spunto per girare ad angolo retto l’architrave e farla scendere parallelamente
alla parasta, in tal modo può mantenere la stessa forma su tutto l’edificio. Come scrive il
Manetti, questa soluzione potrebbe non essere riconducibile al Brunelleschi, ma sia invece
una delle tante alterazioni successive che ha subito l’ospedale degli Innocenti nel corso
degli anni.
Queste prime prove parziali sono state importantissime per il Brunelleschi per mettere a
punto la propria idea di architettura, così come si manifesta in modo compiuto nella sacre-
stia Vecchia di San Lorenzo. L’incarico gli viene conferito da Giovanni di Averardo de’ Me-
dici nel 1419 e costituisce la cappella funeraria della famiglia, che ha pure il patronato del -
le adiacenti cappelle. I lavori procedono di pari passo con la ricostruzione dell’intera chiesa
di San Lorenzo, che verrà finita in seguito alla sa-
crestia Vecchia, mentre più tardi sarà affidata a
Michelangelo la realizzazione della sacrestia
Nuova simmetrica a quella del Brunelleschi.
L’impianto della sacrestia Vecchia presenta un
vano cubico coperto superiormente da una cupo-
la in mattoni e pietra, non visibile dall’esterno,
poiché è sormontata da una copertura spoglia in-
clinata; tale vano quadrato si apre in un locale mi-
nore, la “scarsella”, pure quadrato e coperto da
una cupoletta su pennacchi. Lo schema d’insie-
me della sacrestia è del tutto simile per dimensio-
ni, forme e particolari all’impianto del battistero
della cattedrale di Padova, città conosciuta dal
Brunelleschi. Altro esempio risalente al quarto se-
colo che può aver ispirato il Brunelleschi è la ba-
silica costantiniana sulla tomba di Cristo a Geru-
salemme, la quale presenta attorno al sepolcro
una rotonda con tre nicchie lungo gli assi e in
capo una copertura tronco-conica. Brunelleschi ri-
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prende l’idea delle tre nicchie e della copertura tronco-conica, sopra la quale però pone
una lucerna. La soluzione degli interni, però, è del tutto nuova. Egli dispone all’interno
dell’invaso quadrato delle paraste in pietra serena, che mette a confronto con le pareti
bianche e lisce. Questo porta ad avere un’architettura sobria e lineare, nella quale solo la
parete in cui vi è l’altare è maggiormente decorata. La sacrestia è segnata agli angoli da
paraste piegate a libro, che sorreggono una trabeazione tripartita all’antica, con il fregio or-
nato con teste di rossi cherubini e di azzurri serafini, e la cornice molto ridotta, che gira tut -
ta intorno alla sacrestia ed entra anche nella scarsella. A sua volta la trabeazione sostiene
gli archi, che sono più fini in corrispondenza delle semi-paraste e più grossi dove la para -
sta è intera. All’interno della scarsella le paraste assumono aspetto filiforme. Oltre gli archi
sono erette le cupole su pennacchi. Ancora una volta il Brunelleschi si rifà al Pantheon, nel
quale già compaiono le paraste piegate. Con la sacrestia Vecchia egli mette a punto il suo
capitello personale, che userà sempre: questo è abbastanza simile a quello dell’ospedale
degli Innocenti, ha quindi due giri di foglie d’acanto (in cui non si vedono gli steli, poiché
sono su due file successive), ma non compaiono più gli ovuli sopra le volute, e queste ulti -
me trovano differenze artistiche a seconda della loro posizione sul capitello; inoltre, l’aba -
co presenta una rosetta. Il capitello, pertanto, non può di certo essere considerato di tipo
organico.
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portali laterali alla scarsella, completi di battenti e colonnine e interamente realizzati in
piombo e bronzo, per dare un aspetto dell’insieme più antico, in chiaro riferimento al Batti-
stero. Le colonnine ai lati delle porte sono lisce e presentano capitello pseudo-ionico e
hanno l’effetto di proiettare nello spazio le due aperture: soluzione che non piace per nien-
te al Brunelleschi. Sopra i portali dipingono due nicchie. Oltre a ciò, è realizzato anche un
sarcofago posto al centro della sacrestia e formato da una lastra superiore di marmo con
intarsiato un cerchio di porfido rosso (che riprende la tradizione antica delle tombe degli
imperatori romani) sorretto da pilastri di pietra negli angoli e pilastrini di piombo al centro
dei lati lunghi. Donatello e Michelozzo realizzano anche la balaustra che divide la sacrestia
dalla scarsella e disegnano i cerchi sotto le due cupole, riprendendo, per entrambe le rea-
lizzazioni, forme antiche. Esempi da cui traggono ispirazione sono il portale esterno della
villa di Diocleziano, raffigurato nei disegni di Giuliano Massimiliano e le volte a botte sor -
rette da un sistema di archi e pilastri presenti nelle aule delle basiliche vaticane. La qualità
architettonica ed artistica della sacrestia Vecchia farà sì che essa diventi uno dei migliori
esempi del Quattrocento, ripreso e riadattato per diversi edifici. Lo stesso Brunelleschi tor-
na a trattare il tema della sacrestia Vecchia sviluppandolo nella cappella dei Pazzi nella
chiesa di Santa Croce a Firenze.
Intorno al 1424 Andrea de’ Pazzi, con l’intento di contribuire alla ricostruzione del convento
francescano di Santa Croce distrutto in parte da un incendio, si offre di far attuare, in for-
ma di cappella, il nuovo capitolo dei frati. E’ probabile che la realizzazione dell’interno sia
stata portata avanti senza il controllo dell’architetto, morto nel 1446, nella definizione ese-
cutiva dei particolari, qualitativamente meno rigorosa ed elevata che in altre opere del Bru -
nelleschi. Certo è sorprendente l’ingegnosità progettuale nell’inserimento di uno spazio
così prestigioso in un’area costretta e pesantemente vincolata su tre lati dalle cappelle tre-
centesche della chiesa ed il convento. Lo spazio quadrato centrale è affiancato ai lati da
due spazi rettangolari a botte cassettonata e vi è, come nella sacrestia Vecchia, cupola a
creste e vele (qui a doppio guscio di mattoni e tubi fittili di terracotta per alleggerire la strut-
tura) su archi e pennacchi e la piccola scarsella. E come lì tutto l’edificio è strutturato da
un ordine di paraste e archi che ne misura e descrive l’impianto a contrasto con i fondi
bianchi. Un ruolo di particolare importanza è affidato alla parasta d’angolo. Per ragioni le -
gate a specifici problemi visivi, metrici e progettuali, questa non può essere piegata a metà
sull’angolo o divenire filiforme: pertanto essa è interna e posta solo sui lati lunghi. Questa
soluzione trova certamente spunto dal vestibolo coperto a botte cassettonata del Pan-
theon. Tuttavia, sui lati corti, la trabeazione sarebbe apparsa precariamente appoggiata
sulle estremità delle paraste dei lati lunghi. Pertanto il Brunelleschi fa girare la parasta an-
che sul lato corto con un piccolo risvolto asimmetrico, ovvero sei scanalature sul lato lun -
go, una sul lato corto. Le facciate mostrano il gusto seguente il Brunelleschi del Micheloz -
zo, che presenta un apparato decorativo enorme, mentre il porticato è realizzato da Ber -
nardo Rossellino. Il disegno della loggia richiama il pensiero del Brunelleschi e vede la so-
vrapposizione di archi a paraste, in cui la ghiera centinata finisce dietro di queste ultime.
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Intorno al 1435 inizia anche la costruzione della Rotonda degli Scolari a Santa Maria degli
Angioli, nel monastero dei camaldolesi. La realizzazione della chiesa è presto interrotta a
meno di un terzo dell’altezza prevista a causa della guerra fiorentina contro Lucca. Tutta -
via, i disegni e le descrizioni lasciateci dal Brunelleschi ci permettono di farci un’idea abba-
stanza attendibile del progetto. La Rotonda presenta ottagono centrale a cupola, sui quali
lati sono aperte cappelle quadrate collegate fra loro e sorrette da piloni murari a pianta
triangolare. Questi, tuttavia, sono incavati da nicchie che articolano i lati delle cappelle e
scandiscono all’esterno il perimetro a sedici lati. Il Brunelleschi per questo edificio può
aver trovato ispirazione dal tempio di Minerva a Roma, nel quale compare la pianta centra-
le, dalla basilica bizantina di San Vitale, in cui vi è una pianta ottagonale e struttura di nic-
chie e piloni triangolari, e dallo stesso Duomo di Firenze, dove le cappelle sono intervallate
da speroni. Le cappelle della Rotonda sono coperte a volta e sono inquadrate da un ordi -
ne di paraste sorreggenti arcate, che a loro volta sono tangenti alla trabeazione continua
sormontata da archi più piccoli contenenti un occhio, in modo da articolare il tamburo della
cupola. Il basamento dei piloni presenta una struttura composta di plinto, toro, scozia e an-
cora toro che gira tutto attorno alla pianta dell’edificio senza interruzioni. Ciò non si ripete
per quanto riguarda la parte alta dei piloni, che saranno reinterpretati da Giuliano da San -
gallo in un suo disegno, in cui porta la continuità anche superiormente. Altro disegno ri-
guardante la Rotonda è quello di un disegnatore senese appartenente alla scuola di Fran-
cesco Di Giorgio Martini, in cui è rappresentata una mappa della zona, l’esterno dell’edifi -
cio e in cui sono visibili muri semplici, lisci e meno decorati e una seconda trabeazione
sotto la cupola. Ma nuovi disegni compaiono anche nel Novecento, per opera di Marchini,
Bruschi, Miarelli Mariani e altri ancora, in cui sono presenti diverse filosofie di pensiero in
rapporto all’opera del Brunelleschi.
Terminata la cupola di Santa Maria del Fiore nel 1434, il Brunelleschi due anni dopo pone
in opera la lanterna. Essa è pensata come una costruzione muraria ottagonale di circa 46-
47 metri d’altezza realizzata in marmo bianco, con un sistema di contrafforti scanalati tra -
sversalmente che continuano le linee di forza della cupola, che proseguono verso l’alto
con forma di paraste. L’impianto della lanterna, ad archi rampanti, trabeazione e copertura
(pergamena) a cono increspato in cui sono evidenziate le verticali, può richiamare immagi -
ni gotiche. La resa architettonica dei dettagli non è molto lavorata, ma le decorazioni esi -
stenti hanno dimensioni tali da poter essere viste dal basso, così come sono intelligente -
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mente previsti archi rialzati che permettono una visione dal calpestio a tutto sesto. Il tem -
pietto della lanterna non è formato da colonne, bensì da pilastri e paraste a sei scanalatu-
re e base attica, sui quali vi sono dei capitelli che raffigurano dei gemelli siamesi con sem-
bianze di mostro. Riferimento per i capitelli può essere preso dall’antica Cattedrale di Fi-
renze, in cui sono presenti foglie lisce, baccelli e ovuli. Il Brunelleschi, negli stessi anni,
progetta sempre per la chiesa di Santa Maria del Fiore due cantorie, nelle quali potevano
trovare sistemazione i cantori. Le decorazioni a rilievo sono opera del fiorentino Luca Della
Robbia, scultore e ceramista, e sono inquadrate in una struttura architettonica classica,
scandita da lesene corinzie e figurano gruppi di bambini scolpiti che cantano, danzano e
suonano strumenti musicali, serena illustrazione del salmo 150, riportato in caratteri capi-
tali nelle cornici. Anche Donatello più avanti disegnerà una propria cantoria, caratterizzata
da vistose decorazioni di conchiglie, molteplicità di materiali e con connotazioni etrusche.
Del 1435, sempre ad opera di Donatello, è il tabernacolo dell’Annunciazione nella chiesa
di Santa Croce, in cui sono presenti decorazioni di foglie, maschere, modanature ad ovulo
e piccole mensole dalle forme gotico-fiorentine. Sono questi gli anni in cui Donatello e Bru-
nelleschi hanno maggior successo e le loro opere influenzano anche altri artisti. Bernardo
Rossellino nei lavori per l’edificio per una confraternita ad Arezzo fa uso, infatti, di taberna-
coli, nicchie, statue, colonne scanalate, paraste e ghirlande, e utilizza l’arco segmentato ti -
pico del ‘300 assieme all’arco a tutto sesto tipico invece del ‘400.
Ma certamente il maggior capolavoro del Brunelleschi è la ricostruzione della vecchia chie-
sa degli agostiniani di Santo Spirito. Il disegno risale al periodo tra il 1428 e il 1434, ma
solo pochi giorni prima della morte del Brunelleschi (la notte tra il 15 e il 16 aprile 1446) è
portata in cantiere la prima colonna. E’ indubbiamente nel Santo Spirito che si attua nel
modo più compiuto l’idea di una chiesa nella quale il tradizionale impianto longitudinale a
colonne con cappelle laterali si conclude con un nucleo centrico a cupola. Gli elementi del-
la sua organizzazione sono simili a quelli del San Lorenzo, ma la soluzione fondamentale
è quella di far girare lungo tutto il perimetro, attorno alla croce della navata, del coro e del
transetto, e perfino in facciata, il modulo base del ciborio su colonne. La chiesa, nel pro -
getto di Giuliano da Sangallo, era disegnata con una colonna in più sul lato corto, il che ri -
chiedeva la necessità di avere quattro porte in facciata, quindi un pieno in asse. Si sceglie,
allora, di posizionare due colonne e non più tre sul lato corto, in modo tale da avere tre na -
vate e un vuoto in asse sulla facciata d’ingresso. La chiesa è segnata da contrafforti che
disegnano l’ambulacro (spazio per passeggiarvi) con cappelle semicircolari a nicchia che
corrono lungo tutto il perimetro e significativamente innalzate fino a coincidere con l’altez -
za degli archi della navata. Si presentano in questo modo semivolte in corrispondenza del
muro perimetrale delle nicchie e volte intere sopra l’ambulacro. La struttura portante del
Santo Spirito è basata solo su archi e colonne monolitiche di pietra serena, che reggono la
copertura piana dell’impianto longitudinale, mentre le nicchie sono risolte con semicolon-
ne. In corrispondenza degli angoli della chiesa sono, inoltre, usati particolari artifici ottici
che modificano la concezione di colonne e capitelli in maniera funzionale.
La situazione fiorentina
Attorno alla metà del Quattrocento, a Firenze si assiste ad un forte cambiamento della
committenza artistica, che passa da statale, come quella della Fabbrica delle Arti, ad una
largamente privata, che porta alla realizzazione di circa una ventina di palazzi di famiglia.
Viene a mutare, così, il fenomeno architettonico, che diventa più deciso, distinto e ricono -
scibile, rendendo gli edifici più formalizzati. Tutto ciò ha connotati nettamente politici. Si
assiste, infatti, in questi anni all’ascesa al potere dei Medici, che grazie a Cosimo poten-
ziano il loro prestigio a Firenze, garantendosi un primo controllo sulle elezioni delle cariche
repubblicane. Più tardi, Cosimo fa eleggere un istituto straordinario di potere, detto balia,
della durata di dieci anni, con il quale toglie potere agli avversari, acquisendo una maggio-
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re egemonia. Per testimoniare questa presa di potere, Cosimo fa costruire una seconda
abitazione per sé e la sua famiglia, oltre a quella già presente in Via Cavour: per fare ciò,
acquisisce ben ventidue lotti e demolisce poi tutti gli edifici presenti per costruire ex-novo.
Il nuovo palazzo, progettato direttamente dal Michelozzo, ha un aspetto sobrio e regolare,
con diversi ingressi al pian terreno e stanze interne chiuse, ad eccezione di una loggia ad
angolo aperta al pubblico ed adibita a bottega, che Michelangelo chiuderà nel corso del
Cinquecento. L’edificio si sviluppa su tre piani, resi distinti dal diverso uso delle superfici,
che presentano grosse bugnature al piano terra e invece sono lisce ai due livelli nobili. Il
tutto è segnato ad ogni piano con cornici e mensole. Particolari soluzioni sono adottate
nell’angolo della facciata, che Michelozzo decora con gli stemmi di famiglia Medici, e in
corrispondenza del portone d’ingresso principale, scandito con posizione diversa rispetto
alla parte superiore, quindi con una discordanza di simmetria. Il Michelozzo trae esempio
da Palazzo Vecchio, o Palazzo della Signoria, una delle opere principali di Arnolfo di Cam-
bio, che lo realizza nel 1299. Il severo edificio, più vicino ad un castello, presenta rivesti-
mento murario bugnato, bifore con archi polilobati, caditoie nell’apparato superiore e una
torre di 94 metri. Michelozzo, oltre al trattamento delle superfici, ripresenta le bifore, in cui
introduce disegni e stemmi tipici dei Medici. Questo richiamo alle forme pubbliche del Pa -
lazzo Vecchio è voluto per marcare la potenza di Cosimo e della sua famiglia: presunzione
che è poi criticata sia da Giovanni Cavalcanti sia dal Rucellai. Inoltre prende a modello an-
che l’apparato murario bugnato del foro d’Augusto. A Firenze il Michelozzo adotta archi a
tutto sesto incorniciati da paraste con capitello scanalato e disegna abilmente le fughe dei
mattoni, in cui la verticale coincide con la metà del mattone sottostante, e propone, invece,
nelle fila orizzontali una continuità in corrispondenza del primo mattone dell’arco. Oltre a
ciò, egli utilizza una cornice superiore molto particolareggiata e, in richiamo alla tradizione
classica, ripropone nell’angolo la tipica spazzola all’antica. L’interno del complesso pre -
senta numerosi spazi come sale, giardini, accessi, scale adibiti ai rapporti con le persone,
proprio per testimoniare la centralità di Palazzo Medici nella società fiorentina. Ricorrenti
sono poi le decorazioni in stile brunelleschiano. All’interno del giardino sono sistemate poi
le statue bronzee del David e de La Giuditta, entrambe di Donatello, mentre sopra gli archi
vi sono una serie di cerchi scultorei finemente decorati e dall’aspetto tutto altro che milita -
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re. Sul retro il palazzo si conclude con un mer-
cato, mentre l’angolo dell’edificio è risolto
come un’enorme parasta.
Oltre al Palazzo Medici, la famiglia fiorentina
fa costruire al Michelozzo anche altre architet-
ture, come ad esempio numerosi interni di
chiese in chiaro stile antico e operano per la ri-
costruzione di buona parte della chiesa della
Santissima Annunziata (esclusa la tribuna,
opera dei Gonzaga). Qui il Michelozzo costrui-
sce per i Medici un tabernacolo spettacolare
interamente realizzato in marmo, composto di
quattro colonne libere che sorreggono l’enor-
me trabeazione e il cassettonato piano. Per
quanto riguarda proporzioni e decorazioni il ta-
bernacolo si allontana dallo stile del Brunelle-
schi, in favore della tradizione antica: forme e
dimensioni, infatti, sono più vicine all’architet-
tura classica e sono ripresi da essa le decora-
zioni di delfini, ovuli, baccelli, foglie e vasi (in relazione alla figura della Madonna, come
segno di fertilità). Vi sono, poi, anche conchiglie e dardi, mentre la patera è raffigurata con
la testa più ingentilita rispetto alla tradizione antica, e con una ghirlanda sopra. Le decora-
zioni appaiono quasi tutte come mosaici dorati. Per quanto riguarda le colonne, il Miche -
lozzo usa due diversi tipi di capitelli nella stessa architettura: uno pseudo-composito, for-
mato dall’unione di stile ionico e corinzio, con l’abaco intagliato e particolari scanalature
(che invece il Brunelleschi non utilizza mai), e l’altro prettamente corinzio, in richiamo al
Pantheon, con forme vegetali che chiudono la scanalatura. La mensa del tabernacolo pre -
senta strigillatura, vale a dire un cerchio con tre teste all’interno. Oltre a questa architettu -
ra, all’interno della Santissima Annunziata i Medici fanno realizzare una piccola stanza pri -
vata per la devozione alla Madonna.
Altra piccola architettura, presente nella chiesa di Santa Croce, è la tomba dello storico fio-
rentino e cancelliere della repubblica Leonardo Bruni, morto nel 1444, per il quale Bernar -
do Rossellino esegue il tabernacolo. Anche qui vi sono capitelli sofisticatissimi, con scana -
lature e spigoli molto particolari e basi e plinti decorati. Nell’arco, il quale questo cade in
falso, poiché non ha la stessa larghezza delle colonne sottostanti, compaiono molteplicità
di decorazioni; mentre viene ripreso dalla colonna di Traiano la figura dell’angelo. Inoltre,
sempre in richiamo alla tradizione antica, è usata una bicromia di colori, quali il rosso e il
bianco.
A partire dagli anni ’40 del Quattrocento l’architettura fiorentina viene esportata fuori Firen -
ze, su committenze nobili. Ciò non avviene, però, per le opere di Filippo Brunelleschi. Uno
tra tanti, è il signore di Urbino Federico Montefeltro, capitano di ventura e generale delle
truppe degli Aragona, persona estremamente colta e di formazione classica, che nel 1447
commissiona la facciata per la chiesa di San Domenico. Il portale presenta impianto archi-
volto su due colonne libere e con paraste murarie abbinate, in richiamo delle architetture
antiche come l’arco di Costantino; il timpano denota un fregio con ghirlande (tipico fiorenti-
no) e nell’angolo vi è la raffigurazione della testa di Giove barbuto e cornuto, nel solito ri-
mando a figure dell’antichità. Altra architettura fiorentina esportata è quella di Luca Fancel -
li, allievo del Michelozzo, chiamato a Mantova verso la fine degli anni ’40 da Ludovico
Gonzaga, per realizzare a Revere il portale del Palazzo Ducale, di caratteristiche più simili
ad un castello, con merli, torri e caditoie. Il Fancelli disegna sul portale paraste con capitel-
lo in pieno stile corinzio, trabeazione e timpano, sopra il quale apre una finestra rettangola-
re: compaiono qui due elementi particolari, il timpano, che è associabile alle architetture
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religiose e perciò è simbolo di magnificenza, e la finestra rettangolare, di derivazione anti -
ca (Pantheon) e riscontrabile a Firenze nel Battistero. All’interno del palazzo vi è una log -
gia simile alle architetture veneziane del Trecento, mentre sotto gli archi compaiono pe-
ducci, capitelli singoli senza fusto superiore, che riportano a Firenze. Questo mescolamen-
to di elementi può essere possibile poiché a Mantova non vi sono consuetudini artistiche e
architettoniche ben radicate e il Fancelli può permettersi una più libera inventiva.
Si può, quindi, ricollegare l’architettura italiana del Quattrocento a due principali correnti
stilistiche: una più austera, sobria e dalle decorazioni povere, identificabile in architetti
come il Brunelleschi, il Michelozzo e Rossellino, e una più esorbitante, ricca e piena di ef-
fetti visivi, quale quella propria a Donatello. Dal 1454, però, questo quadro stilistico vede il
sorgere di un altro tipo di architettura, che ha a capo Leon Battista Alberti.
Nasce a Genova nel 1404, figlio di un nobile fiorentino esiliato, riceve un'ottima educazio-
ne e intraprende studi giuridici dapprima a Padova, in seguito a Bologna. Studia il greco,
ma s’interessa presto anche di discipline come la matematica e le scienze naturali. Nel
1432 è a Roma dove viene nominato segretario apostolico presso Eugenio IV e inizia il
suo apprendistato architettonico con lo studio degli antichi monumenti; al seguito della cor-
te papale negli anni seguenti è a Firenze, Ferrara e Bologna. Ha modo, così, di frequenta -
re artisti come Donatello e Brunelleschi: con quest’ultimo intenso è lo scambio d’idee e ri -
flessioni sulla teoria della prospettiva. Nel trattato Della pittura, composto prima in latino e
quindi in volgare, e dedicato proprio al Brunelleschi, Alberti enuncia le leggi matematiche
che sottostanno alla rappresentazione della profondità spaziale, punto di riferimento fon -
damentale per la tutta la successiva pittura occidentale. La maggiore opera teorica di Leon
Battista Alberti è il trattato De re aedificatoria, primo testo stampato sull'architettura del Ri-
nascimento. Alberti scrive, inoltre, un trattato sulla scultura e un regesto delle più significa-
tive opere architettoniche della Roma del tempo.
Uno dei suoi primi capolavori è la facciata della chiesa di San Francesco, già mausoleo
dei Malatesta signori di Rimini, iniziata nel 1450 e lasciata incompiuta nella parte superio -
re. I primi lavori nel Tempio Malatestiano iniziano già nel 1447, quando Matteo de’ Pasti
(pittore e allievo di Pisanello) costruisce due cappelle per Sigismondo e sua moglie. Alber-
ti, data la sua indole da illuminista e intellettuale, fa solo il progetto della facciata, mentre i
lavori sono affidati e seguiti da un altro architetto. Per gli esterni decide di usare la pietra
d’Istria, in forti spessori e poche decorazio-
ni, in modo tale da provocare un brutalismo
estetico. La sua opera è concepita quale
apparato trionfale: per fare ciò usa la pare-
te di base e vi appoggia una serie di semi-
colonne. Nel progettare questa soluzione
trae esempio da un’architettura antica,
l’arco di Augusto, senza però copiarlo, ma
riadattandolo al caso. Le due colonne cen-
trali salgono verso l’alto con forma di para-
ste, per sorreggere un ipotetico arco, così
come compare in una moneta del tempo
scolpita dal de’ Pasti, e rappresentante
sull’altro lato il ritratto di profilo di Sigismon-
do. Sulla moneta vi è una concordanza di
proporzioni per quanto riguarda la parte
rettangolare dell’edificio, mentre la porzio-
ne superiore compare qui più alta, al fine di
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mettere in evidenza la cupola che si trova dietro, progettata dall’Alberti ma non realizzata.
Altre differenze sono relative ad alcune linee e curvature della parte alta del rilievo della
moneta, a una finestra disegnata nell’arco superiore e a delle decorazioni nei due archi la-
terali in corrispondenza delle due tombe (che non saranno più posizionate nella facciata).
Alberti apre inoltre sulla facciata principale dei fori-ovuli, ottenuti sezionando delle colonne,
con un taglio dritto per ottenere dei cerchi, con un taglio obliquo per ottenere degli ovali.
Compare qui un’epigrafe che copre l’intera facciata, riportante i nomi del committente e
quelli dei due artisti che hanno lavorato nel Tempio: Agostino di Duccio e Matteo de’ Pasti.
Nelle arcate delle facciate laterali, che fanno riferimento al mausoleo di Teodorico e alla
chiesa degli Eremitani a Padova, sono posizionati i sepolcri di altri personaggi. Altra testi-
monianza che ci rimane di quei tempi è una lettera scritta dall’Alberti stesso, in cui sono ri -
portati pensieri e idee dell’architetto e in cui egli riafferma il primato delle opere antiche.
Nel corso degli anni diversi artisti interpreteranno a loro modo il Tempio Malatestiano e il
pensiero di Alberti: troviamo, ad esempio, Aristotele da Sangallo che in un suo disegno
propone la facciata della chiesa del Loreto con sottostanti dei sepolcri di tipo romano; o
ancora Antonio da Sangallo detto il Giovane che cambia alcuni elementi di facciata del
Tempio e introduce all’interno di quest’ultimo i due elefanti simbolo di Sigismondo. Nel cor-
so del Quattrocento è Bonaccorso Ghiberti a realizzare il proprio disegno della chiesa di
San Francesco, apportando delle modifiche tipiche dell’architettura romanica fiorentina
come quella di San Miniato al Monte: egli propone delle colonne sugli angoli, un timpano
con cornice ben marcata e riprende le statue e i decori di Agostino di Duccio. Ma un’ulte -
riore interpretazione la troviamo addirittura a Venezia, per opera di un disegnatore dei pri -
mi del Cinquecento che fa diventare il Tempio un edificio a pianta centrale coperta da una
cupola, avvicinandolo così ai canoni veneziani e adottando al tempo stesso anche ele-
menti antichi. Al posto della finestra centrale dell’arco troviamo qui una nicchia, mentre i
semitimpani laterali sono più allungati verso l’alto, secondo lo stile veneziano. Compare,
inoltre, anche la scritta “provvidenza”, che riporta al Tempio Malatestiano e alle monete
dell’antica Roma. Non è comunque del tutto sbagliato associare alla chiesa in esame degli
elementi tipici dell’architettura di Venezia, poiché è probabile che l’Alberti, quando ha dise -
gnato nel suo progetto la cupola del Tempio
Malatestiano, si sia ispirato alla copertura della
basilica di San Marco che è organizzata su due
livelli, di cui uno interno più basso ed uno ester-
no più gonfio e poggiante su centine di legno ri-
vestite in piombo. Compaiono, infatti, sulla mo-
neta del de’ Pasti delle vele che compongono
la cupola, mentre nella lettera l’Alberti fa riferi-
mento ad una botte lignea da utilizzare nella
chiesa di San Francesco: unico luogo dove po-
teva aver visto tutto ciò era appunto a Venezia.
In un altro disegno datato nel Cinquecento, Sal-
lustio Peruzzi, figlio di Baldassarre, interpreta il
Tempio Malatestiano come una chiesa romani-
ca, ma coperto con una cupola con caratteristi-
che tipiche veneziane. L’Alberti, quando dise-
gna la facciata, si rifà alla tradizione antica, per
lo più studiando gli esempi locali, per far sì che
l’edificio non sia fuori luogo, e utilizza anche
degli elementi veneziani nella parte alta, sebbe-
ne tutta questa mescolanza di soluzioni non
compaia né nella moneta né nella lettera. Per
quanto riguarda i dettagli della facciata, si nota-
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no le decorazioni composte di campiture in porfido incorniciate da modanature di bronzo.
Soluzioni particolari sono adottate in prossimità dell’angolo nell’ingresso, in cui compare
una parasta interna alla nicchia del portone, non presente però sulla facciata del Tempio,
mentre il capitello, ricco di motivi floreali, e le varie modanature sono aperte e libere di gi-
rare attorno all’angolo. Inoltre, compaiono capitelli bipartiti, in cui vi è una parte superiore
con ovuli, una faccia alata e al posto dell’abaco una corona gotica, e una parte inferiore
con piatto di foglie d’acanto molto ristrette, sempre s’ispirazione antica. Il fatto che Alberti
abbia lavorato solo sull’esterno, comporta, però, una mescolanza di stili nel Tempio Mala -
testiano, poiché l’interno è stato eseguito prima del suo intervento sulla facciata. Dentro vi
sono sei cappelle, disposte sui due lati della chiesa e di cui quelle speculari hanno caratte-
ristiche simili: vi è, ad esempio, la cappella dell’acqua e quella di Sigismondo che presen -
tano forme gotiche, policromie, ricchi decori e piedritti che reggono trabeazioni con menso-
le alla fiorentina, mentre la cappella d’Isotta e quella ad essa speculare hanno volte a cro-
ciera gotica, archi acuti e capitelli dalle forme ibride. Al sistema interno alla chiesa di archi
è sovrapposta una struttura di paraste, con parastine in sommità e figure reggiscudo, che
scandiscono e danno ritmo al Tempio. Questa soluzione, sebbene sia precedente, può es-
sere sempre avvenuta su indicazione di Alberti al de’ Pasti, poiché troviamo una mesco-
lanza di stili propria dell’architetto genovese.
Il progetto del Tempio Malatestiano costituisce il primo progetto notevole di Alberti di cui
abbiamo notizia, ciononostante non si pensa sia stata la sua prima prova da architetto. Di
quegli anni è, ad esempio, il campanile interrotto del Duomo di Ferrara, nel quale Alberti
avrebbe potuto dare delle indicazioni per risolvere la facciata esterna. Ma è nella Firenze
della seconda metà del secolo che Alberti trova fama e prestigio, grazie alle committenze
di Giovanni di Paolo Rucellai, mecenate e mercante attivo nella produzione e nel commer-
cio della lana. I Rucellai assumono grande influenza anche per le cariche pubbliche rico -
perte da molti dei loro membri nel governo della Repubblica di Firenze e anche per questo
si trovano spesso in contrasto con i potenti Medici. E’ così che Giovanni Rucellai, per testi-
moniare l’importanza del suo casato, a partire dal 1457 commissiona all’Alberti di realizza -
re tre notevoli opere: Palazzo Rucellai, una cappella di famiglia e la facciata di Santa Ma -
ria Novella, tutte costruite in chiaro stile antico,
secondo i gusti di Giovanni di Paolo, opposti a
quelli di Cosimo de’ Medici, più vicini ai canoni
fiorentini.
Per realizzare il palazzo di famiglia, Giovanni di
Paolo acquisisce poco per volta i lotto adiacenti
di Via della Vigna Nuova, grazie ai quali può ini-
ziare l’ampliamento della residenza dei Rucellai.
Il lavoro di riprogettazione (a differenza di Cosi-
mo, il Rucellai conserva i vecchi edifici e li allarga
semplicemente) è affidato a Bernardo Rossellino,
mentre il compito di disegnare la facciata spetta
all’Alberti. Poco più in là, apre in mezzo alle stra-
de un’omonima piazza, con una loggia che vi si
affaccia sopra. La facciata del palazzo è ancora
una volta una novità assoluta, perfettamente
scandita e ritmata dall’ordine delle paraste, seb-
bene l’Alberti non possa terminare l’intero pro-
spetto, poiché il Rucellai non riesce ad acquisire
l’ultimo lotto. Il palazzo si compone di tre piani di-
visi da trabeazioni con cornice ridotta (alla fioren-
tina), sorrette da paraste che inglobano ai piani
superiori le bifore, presenti anche a Palazzo Me-
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dici. E’ questa una soluzione ripresa dall’architettura antica dell’anfiteatro (n’è un esempio
il Colosseo), in cui vi è una sovrapposizione di archi e quadrati. L’Alberti introduce un capi-
tello pseudo-ionico, con baccelli in basso e ovuli, e studia nei minimi particolari la combi-
nazione tra il bugnato piatto e gli ordini architettonici: così, fa coincidere l’ultima fila del pa -
ramento murario con l’altezza del capitello e prolunga la modanatura dell’abaco su tutta la
facciata, con riferimento al mausoleo di Adriano. Decora, inoltre, tutto il prospetto con le
vele, simbolo di fortuna dei Rucellai. Il portale d’ingresso è circondato da un riquadro e ha
mensole sporgenti sopra la modana-
tura di chiusura, in pieno stile antico
del già citato mausoleo di Adriano;
mentre le modanature orizzontali si
sovrappongono al fusto della para-
sta, così come accade nel Pantheon.
Sopra il portale vi è una falsa finestra
quadrata, che riporta alla tradizione
aulica fiorentina. Alberti sul livello più
basso disegna le finestre quadrate,
molto in uso nel palazzo fiorentino,
ma le incornicia su tutti e quattro i
lati, con connotazione più antica, ed
esibisce in questa zona una struttura
delle bugne pseudo-isodoma, ovvero alterna file di bugne con dimensioni diverse in rap -
porto 1:2, per dare più ordine alla facciata. Attorno al perimetro della cornice corre una
fuga dello stesso spessore di quella delle bugne, tranne che sul lato inferiore, dove è finto
un appoggio. Lavora, inoltre, dando un po’ di rilievo rispetto alla facciata alle paraste. Al-
berti riprende la forma delle bifore del piano primo e secondo da Palazzo Vecchio e Palaz-
zo Medici, ma inserisce sopra i piedritti un architrave, e porta le bugne che inquadrano la
finestra fino alla base dell’apertura, come per chiuderla, così come si vede nel Colosseo.
Anche le bifore del terzo livello poggiano sulla cornice sottostante, in richiamo alle finestre
quadrate del piano terra. Vi è, inoltre, corrispondenza di spessore tra le fila delle bugne e
gli elementi delle bifore, quali capitelli, basi e architravi, per creare una certa continuità li -
neare sulla facciata. Riguardo all’architrave delle bifore, nel suo De re aedificatoria, Alberti
sostiene che, per coerenza architettonica, tal elemento serva proprio per consentire
l’appoggio all’arco, mentre le colonne ed i pilastri devono servire da sostegno alla trave.
Nel Palazzo Rucellai ciò avviene anche come critica all’architettura dei Medici, che tendo-
no ad appropriarsi la tradizione fiorentina per celebrare la potenza della loro famiglia: ecco
perché Giovanni di Paolo non rade tutto al suolo e vuole per il suo palazzo un sottile rive -
stimento, a differenza di quanto accade per Palazzo Medici. Quella di Alberti è, inoltre, an-
che una critica allo stile di vita della nobiltà fiorentina. Tale accusa avviene anche nei con -
fronti del Palazzo Vecchio, dal quale riprende la finestra rettangolare a bifora della torre, e
verso il Michelozzo, da cui copia il capitello delle colonne, ma nel momento in cui critica
questi elementi li accentua ed amplifica nelle sue opere, quasi con l’intento di ironizzarli.
La condanna della società fiorentina è presente non solo nell’Alberti, ma anche nei quadri
di numerosi pittori che la pensano come lui. Altra caratteristica del pensiero albertiano con-
siste nell’esplicitare la funzione chiaramente decorativa di alcuni suoi accorgimenti, come
compare nella trave tripartita sopra le bifore, evidentemente finta. Come già detto, l’Alberti
presta particolare attenzione al trattamento delle superfici: egli prevede, infatti, la distinzio-
ne tra conci e bugne, realizzando un disegno di queste ultime molto accurato e spesso
scolpito sul concio. Inoltre, fa in modo che in corrispondenza dell’asse delle finestre vi sia
un vuoto in chiave e non una bugna come sarebbe ovvio pensare, proprio per portare
avanti l’intento di mostrare artifici e soluzioni. Anche nella zona basamentale presta molta
cura alla lavorazione delle superfici, scolpendo una sorta di griglia con riquadri proprio so -
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pra la panca (come si trova pure a San Miniato); disegna poi i piedistalli sotto le paraste e
prolunga su tutta la facciata base, scozia e toro di queste ultime. Sempre sul primo livello,
appena sopra il basamento, crea delle piccole finestre rettangolari che hanno la stessa al-
tezza delle bugne vicine, quasi come se ne mancasse una, e le priva di cornice, eccezion
fatta per la fuga che le corre attorno, scavando verso l’interno l’apertura. Facilmente indivi -
duabile è la porzione di facciata corrispondente al progetto iniziale, che prevedeva solo
cinque campate: infatti, in questa parte le pietre del bugnato passano dietro le paraste,
cosa che non accade tra la quinta e la sesta campata, che viene aggiunta in un secondo
momento alle proprietà del Rucellai. Si può, quindi, ricondurre la facciata a due sistemi
contrastanti, quali il muro e le paraste, il tutto caratterizzato da un bugnato piatto, di deri -
vazione antica: in questo edificio troviamo, infatti, lo scontro ed il confronto tra le forme an-
tiche e quelle fiorentine, in un complesso del tutto armonioso ed equilibrato. Si assiste a
ciò che gli antichi chiamavano concinnitas, ovvero il perfetto equilibrio delle forme. La
splendida facciata del Palazzo è ripresa da Bernardo Rossellino (che vi ci aveva lavorato)
per il progetto di rinnovamento urbanistico della cittadina di Pienza, voluto da Papa Pio II,
dove, tra il 1459 e il 1462, viene edificato Palazzo Piccolomini. L’edificio presenta sulla
facciata a bugnato liscio tre ordini di lesene in cui sono inquadrate bifore incorniciate da
archetti. Lo stile del Rossellino è più fiorentino e presenta, quindi, alcune soluzioni diverse
da quelle adottate nel Palazzo Rucellai, che è ammirato e ripreso dallo stesso Filarete in
diversi progetti.
Altra commissione affidata da Giovanni
di Paolo Rucellai all’Alberti è la realizza-
zione della cappella funeraria di famiglia
all’interno della chiesa di San Pancrazio.
L’Alberti riprende alcuni elementi tipici
del Brunelleschi, ovviamente interpretan-
doli a proprio modo: la chiesa è ripartita
da lesene scanalate (con sette solchi e
non sei), che reggono un vistoso fregio
riccamente decorato e dalla cornice ben
più sviluppata rispetto ai canoni brunelle-
schiani; lo spigolo è risolto con una para-
sta filiforme e l’ingresso è segnato
dall’uso di due colonne libere, soluzione
più vicina alle architetture antiche, dato
che compare in edifici come il Battistero
di Firenze e il Pantheon. Internamente
vi è una copia della tomba di Cristo, che
Alberti rivisita secondo i propri gusti, decorandola con un’epigrafe a lettere capitali tratta
dal Vangelo, con i simboli dei Rucellai ed il giglio di Firenze, adottato a scopo ornamenta-
le. Il sepolcro è coperto con un cupolino a cipolla, che rimanda al Brunelleschi ed alle ar-
chitetture orientaleggianti veneziane, e il tutto è risolto in marmo bianco e verde e con co-
lorazioni gialle e rosse.
L’ultima delle tre commissioni affidate dal Rucellai è la facciata della Basilica domenicana
a tre navate di Santa Maria Novella, rimasta incompiuta alla parte più bassa. E’ questo un
intervento molto costoso, che il Rucellai può compiere grazie all’eredità avuta dagli Stroz -
zi, con i quali è imparentato. La facciata della Basilica, che rimanda per certi versi alla
chiesa di San Miniato e all’arco di trionfo antico, presenta la parte basamentale formata da
paraste e semicolonne, che delimitano la campata centrale, fortemente più stretta delle
due laterali. A chiusura del fronte principale vi sono due grossi pilastri, dalle tonalità bicro-
me (verde e bianco), mentre le colonne sono interamente verdi e presentano basi e capi -
telli bianchi. E’ possibile che nella scelta dei colori, che unificano fortemente la facciata,
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l’Alberti si sia rifatto al Battistero ed alla Basilica Fulvia Emilia, con alcune varianti fonda-
mentali, giacché il capitello pseudo-dorico dei pilastri è più vicino alla tradizione fiorentina
e i rapporti tra la larghezza e l’altezza sono di 1:11 per la colonna e di 1:7 per il pilastro,
che viene quindi molto compresso. La facciata, nella zona più bassa, compare quasi come
l’intersecazione tra il basamento di un mausoleo con il sistema formato dalle quattro semi-
colonne e l’arco centrale, che l’Alberti mette in risalto assieme ai due pilastri angolari con
ricorrenti sovrapposizioni di strati differenti, come per sottolineare le diverse profondità.
Per la prima volta nel panorama architettonico fiorentino, egli introduce il piedistallo sotto
le colonne centrali e sul loro lato, mentre verso l’interno dell’arco posiziona due paraste
per lato, a sei scanalature e con le basi e i capitelli sfalsati, al fine di alludere ad una mag -
giore profondità. Con l’Alberti, pertanto, incominciano ad essere utilizzati anche nell’archi -
tettura delle illusioni ottiche, che, invece, erano ricorrenti nella scultura: basti pensare al
David di Michelangelo o alla raffigurazione nel Duomo di Siena della Madonna col Bambi -
no ad opera di Donatello. Il portale d’ingresso presenta il pieno in asse, che l’Alberti può
aver richiamato dalla Trinità del Masaccio, custodita all’interno della chiesa stessa. Supe-
riormente all’arco d’ingresso compare una piccola fascia con le vele del Rucellai e una più
alta con riquadri disegnati (tarsie), sopra la quale vi è la ripresa delle sole paraste centrali,
alle quali è interposto un grigliato con decori e con un’ulteriore striscia recante un’epigrafe,
il tutto sormontato dal timpano. Riprende poi la forma delle volute, la modifica e disegna
così i due elementi curvi ai lati della parte superiore della facciata, decorati con dei cerchi
concentrici, che sono richiamati dal grande loculo centrale vetrato. La struttura ripartita in
fasce della parte superiore è copiata da edifici antichi, come ad esempio il Battistero, in cui
vi è una fascia intermedia con riquadri che alternano decori e finestre, soprastante il basa-
mento e sottostante, invece, ai dipinti della copertura. Anche nel Pantheon è presente
questa tripartizione, che si basa sostanzialmente su tre livelli, non in asse tra loro: uno in-
feriore caratterizzato da colonne e paraste, uno intermedio che alterna piccole lesene a fi -
nestre, e uno superiore che presenta cassettoni con lacunari.
Al seguito di Papa Pio II, nel 1459 l’Alberti arriva a Mantova, un piccolo stato signorile retto
dai Gonzaga e meno arretrato di Firenze, con
una forte connotazione di edifici medievali. Qui,
proprio a ridosso dell’antica chiesa di
Sant’Andrea, ha modo di osservare l’abitazione
del mercante Giovanni di Boniforte, che presenta
un loggiato inferiore trabeato e decorato, con le
forme delle finestre tipicamente veneziane e
molti elementi ibridi, sia nelle finestre sia nei ca-
pitelli. Giovanni di Boniforte fa inoltre sistemare
sotto la loggia un’epigrafe in tre diverse lingue
(lombardo, volgare, latino), il che testimonia la
mescolanza di tradizioni nella Mantova di quei
tempi. Per di più, è probabile che la casa sia sta-
ta realizzata da Luca Fancelli, allievo del Miche-
lozzo, e perciò in chiaro stile fiorentino, sebbene
vi siano delle differenze: nell’incrocio angolare
fra due archi, ad esempio, non compare una
sola colonna, ma ben due, con retrostante un pi-
lastro il cui capitello non è raccordato con quello
delle colonne. In occasione della dieta, è realiz-
zato di fronte alla piazza della chiesa di
Sant’Andrea il Palazzo di Potere e Potestà, di
connotazione più simile ad un castello medievale, segnato dall’uso delle finestre rettango-
lari che diverrà tipico dell’architettura mantovana. Ma nella dieta del 1459 si parla anche
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d’architettura e viene proposto a Ludovico Gonzaga di intervenire sulla città: è in
quest’occasione che si fa avanti l’Alberti, con ben tre progetti, dei quali viene realizzato
solo quello riguardante la chiesa di San Sebastiano (mentre degli altri due, una loggia e
un’opera dedicata a Virgilio, non si avrà più traccia).
Nel 1460 si realizza, così, la chiesa di San Sebastiano, che è seguita nei lavori dal Fancel-
li. L’edificio presenta pianta centrale la cui forma richiama un gran quadrato intersecato da
una croce: dalla figura di base fuoriescono, infatti, tre braccia; sul lato d’ingresso compare
una loggia, mentre sotto la chiesa vi è una cripta fortemente caratterizzata dalla presenza
di pilastri. Non si sa con certezza se l’Alberti avesse previsto anche i sotterranei della chie-
sa, in quanto nei disegni a noi pervenuti questo livello non compare. Vi sono anche alcune
differenze per quanto riguarda certe misure e l’avancorpo della chiesa. Pure le due rampe
di scale in facciata non sono pertinenti al progetto albertiano, bensì sono state aggiunte
durante il restauro del 1930 da Luigi Schiavi. Inizialmente, infatti, vi era una scala laterale
che portava l’accesso alla chiesa direttamente da una delle nicchie della loggia. Nel pro -
gettare l’edificio è probabile che l’Alberti si rifaccia agli antichi sepolcri romani, caratteriz-
zati dalla presenza di molte colonne. L’avancorpo dell’opera è composto di tre livelli: la
cripta, la chiesa e una stanza superiore oggi inutilizzata, ideata forse come luogo privato di
devozione dei Gonzaga, poiché inizialmente era possibile l’affaccio verso l’interno diretta-
mente da una piattaforma in seguito tolta. Da alcuni rilievi araldici ritrovati nell’edificio sap-
piamo che numerose statue erano disposte nei bracci della chiesa e all’interno della cripta.
Questa ultima presenta un’architettura davvero notevole, con grossi pilastri monumentali
che reggono campate a crociera e archi, di possibile derivazione dalle antiche cisterne ro-
mane per la raccolta dell’acqua. In facciata, il portale centrale ha dimensioni maggiori ri-
spetto agli altri due, con decori a volute e ghirlande, mentre la trabeazione superiore è in-
terrotta per lasciare il posto ad una finestra rettangolare, sopra la quale compare un arco
di raccordo. Una soluzione simile compare in diverse architetture antiche, come la Catte-
drale di Palestrina in provincia di Roma, il Duomo di Pienza e il palazzo di Diocleziano a
Spalato, di cui può aver visto dei disegni a Firenze, dove erano presenti diverse maestran-
ze dalmate.
Nel 1460, mentre l’Alberti è impegnato a lavorare per i Gonzaga, arriva a Mantova il Man-
tegna. Egli viene direttamente da Padova, dove ha avuto modo di studiare le arti antiche e
di stare in contatto con Donatello, impegnato in diverse opere presso la basilica di
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Sant'Antonio, detta popolarmente il Santo, costruita fra il XIII e il XIV secolo. Qui realizza
l’altare maggiore con le statue della Madonna e dei santi, il Crocefisso di bronzo e il recin-
to del coro, del quale ci rimane una parte della transenna, eseguita in pietra rosa di Vero-
na, bronzo e marmo e dai ricchi decori scanditi dal sistema di parastine a capitello pseudo-
dorico con trabeazione superiore e cornice disegnata da archetti. Nella parte inferiore
dell’altare realizza, inoltre, il rilievo del Santo, inserito in un ambiente ritmato da volte a
botte e grandi paraste, con riferimento all’antica Basilica di Massenzio a Roma. Donatello
esegue anche il celebre monumento equestre in bronzo al Gattamelata, capitano di ventu -
ra prima di Firenze, poi del papato e della Repubblica di Venezia, situato sul sacrario della
piazza del Santo. La statua poggia sopra un grande basamento, che presenta al centro
una porta: vi è qui l’ennesimo richiamo ai modelli antichi, soliti posizionare le aperture in
asse, oltre al fatto che Donatello trae ispirazione dalle statue equestri degli imperatori ro -
mani. Non lontano vi è la chiesa degli Eremitani, dai preziosi affreschi, a cui lavora anche il
Mantegna, caratterizzata dall’altare di una delle cappelle in cui le decorazioni vegetali delle
cornici scompartano, e allo stesso tempo vi fanno parte, le varie illustrazioni. Dalla collabo-
razione con Donatello, il Mantegna trae esperienza per alcuni suoi lavori, come, ad esem-
pio, per la chiesa di San Zeno a Verona, in cui disegna le illustrazioni dell’altare all’interno
di un sistema di colonne e trabeazioni. Vi è, tra i vari artisti affrontati e nelle diverse città
incontrate, una propensione all’antico assai differente: il Mantegna, infatti, ricrea nelle sue
opere la tradizione antica, imitandola; l’Alberti, invece, si rifà all’antico, ma è spinto conti -
nuamente a modificarlo e interpretarlo in maniera moderna. I due maestri s’incontrano a
Mantova alla corte di Ludovico Gonzaga, per il quale il Mantegna diviene pittore ufficiale.
Qui dipinge la Circoncisione di Cristo nel Tempio di Gerusalemme, ora conservata agli Uf-
fizi a Firenze, in cui vi è un accostamento di marmi, porfidi, materiali preziosi e bronzo.
L’apparato architettonico dell’opera, fatto di colonne a capitello decorato e fusto a candela -
bro e archi, è disposto su una parete di incrostazioni lapidee montata su di un telaio di pie -
tra, in richiamo all’opus romano. Ma il capolavoro del Mantegna a Mantova è senz’altro la
Camera degli Sposi, dipinta tra il 1465 e il 1474 a Palazzo Ducale, dove l’arte della pro -
spettiva illusionistica toccò uno dei più alti vertici espressivi. Il dipinto, nel quale compaiono
i Gonzaga, la loro corte e altri monarchi, è organizzato da una finta struttura di paraste di -
pinte su un basamento decorato con tondi, di derivazione antica, in cui le due scene princi-
pali sono sopraelevate rispetto l’occhio umano. Compare, quindi, il confronto tra la struttu-
ra reale della camera e quella dipinta; confronto che a volte viene a coincidere. L’elaborato
dipinto presenta continue raffigurazioni umane e vegetali, mentre il soffitto è riprodotto
come una struttura d’archi intrecciati, entro cui sono inseriti medaglioni e stucchi; al centro
uno splendido loculo retto da angioletti si apre sul cielo dipinto.
Alla fine del 1470, l’Alberti scrive una lettera a Ludovico Gonzaga, comprensiva di schizzi
e disegni, in cui propone al suo committente la ricostruzione della chiesa di Sant’Andrea.
Ludovico è colpito dal progetto, poiché fra le sue intenzioni vi è quella di prendere posses -
so della chiesa e della reliquia del Santo Sangue al suo interno: ciò, infatti, gli avrebbe
conferito un maggior consenso popolare e quindi un più rilevante peso politico. Già i suoi
avi, di fatto, avevano reintrodotto il culto di Sant’Andrea, esponendone la reliquia nei giorni
dell’ascensione. Così, morto nel ’71 l’abate della chiesa, questa è affidata a Francesco
Gonzaga, figlio di Ludovico ed ecclesiastico, con il quale la famiglia può appropriarsi
dell’edificio.
Antonio di Manetti Ciaccheri, architetto alla corte dei Gonzaga e presente già nella realiz -
zazione del Palazzo Ducale a Revere, realizza per primo un modellino ligneo della nuova
chiesa, che Ludovico intende costruire di sana pianta demolendo quella precedente. Al-
berti studia e osserva tale modello e ne rimane colpito, sebbene non gli sembri molto adat-
to ai fini dell’ostensione del Santo Sangue, poiché troppo ridotto e non congruo alla città.
Fattore, poi, non trascurabile è che il Manetti progetti in stile fiorentino (aveva lavorato
spesso con il Brunelleschi), quindi con caratteristiche assai diverse da quelle albertiane.
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L’Alberti, allora, propone una chiesa ad una sola navata, con cappelle laterali, transetto
piuttosto largo sormontato da una cupola e altare delimitato da un muro circolare sul fon-
do, mentre ad un livello inferiore si trova una cripta con pianta a croce. In tutto ciò, però, le
dimensioni dell’edificio sono abbastanza simili a quelle del Manetti, ma lo spazio è meglio
studiato, poiché non vi sono le navate laterali disegnate da questo ultimo e quindi è possi-
bile una visione più libera sulla reliquia. Il Manetti, inoltre, propone una copertura della na-
vata centrale lignea, mentre l’Alberti la realizza in mattoni, più durevoli e resistenti agli in -
cendi, e meno costosi, fattore non trascurabile al Gonzaga. Sono poi evidenti nel progetto
albertiano i richiami al tempio etrusco, voluti dall’architetto con precisi scopi persuasivi e
utilitaristici: prospettare un tale modello a Ludovico vuol dire, infatti, avvantaggiare il pro -
prio edificio. Mantova, difatti, è una città di origine etrusca, più volte nominata nei libri: Vir -
gilio, che era mantovano, ne scrive nell’Eneide e anche Dante nella Divina Commedia at -
tribuisce la sua fondazione ad una maga dell’Asia Minore. In ogni caso la sua creazione
ha sempre caratteri antichi e per certi versi mito-
logici. Inoltre l’Alberti, consapevole di essere or-
mai prossimo alla morte, sa di dover realizzare
un modello in grado di colpire così tanto Ludovi-
co che questo continui su tale progetto anche
dopo la scomparsa dell’architetto. Così è e il
cantiere è affidato al Fancelli e forse allo stesso
Manetti. Evidenti sono quindi i richiami all’archi-
tettura antica: egli dispone di una descrizione vi-
truviana del tempio etrusco da cui è a conoscen-
za dell’antico impianto con pronao e cella triparti-
ta, che interpreta a suo modo posizionando le
celle ai lati della chiesa; conosce, poi, anche i
sepolcri etruschi della Via Appia e le terme impe-
riali di Roma, considerati come dei piccoli templi.
Confronta, ancora, queste soluzioni con la Basili-
ca di Massenzio a Roma, che diviene nel Quat-
trocento il Tempio della Pace.
La chiesa di Sant’Andrea è ultimata nel Sette-
cento con la cupola realizzata da Filippo Juvarra e presenta elementi di diversi architetti,
salvo poi essere aboliti più tardi, in favore del vero progetto di Alberti. Al centro del transet-
to, sotto la copertura della cupola, vi sono quattro grandi cavità per le scale a chiocciola,
traslate verso l’esterno, per permettere
alla cupola settecentesca di scaricare
sulla muratura. Il progetto albertiano pre-
vedeva inizialmente un transetto che non si
protraeva dalle mura laterali della chiesa
ma contenuto in essa: lo dimostra il fatto
che vi è un distacco di fondazioni tra que-
sta parte e quelle introdotte ai lati nel cor-
so del Cinquecento. Altro esempio a cui si
rifà è la Badia fiesolana, il cui interno del- la
chiesa è poco decorato e presenta para-
ste a sette scanalature di rimando alla
tradizione antica e in distacco con quella
fiorentina; la navata è coperta a botte e la
mancanza di pilastri e colonne le dona un
aspetto molto sobrio, poiché la funzione
portante è affidata ai setti murari. E’ così
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che l’Alberti copre la propria navata con una volta a botte, in modo tale che i carichi sono
distribuiti ugualmente, e crea un sistema di trabeazioni e paraste che scandisce le cappel-
le, che alternativamente sono quadrate e voltate a botte o rettangolari e voltate a calotta.
Tra una cappella e l’altra vi sono parti di muratura piena su cui continua la trabeazione del-
le nicchie; in sommità ci sono delle finestre circolari che permettono l’illuminazione natura-
le della chiesa, poiché retrostanti ad esse vi sono delle camere in cui la luce solare entra
dall’esterno e viene incanalata in direzione della navata. La vera struttura portante della
chiesa è affidata a dei setti di rinforzo, che scaricano la struttura e permettono una più
equa distribuzione dei carichi sulle parti piene. Proprio nel Tempio della Pace compare un
sistema simile, in cui gli archi sono contraffortati in corrispondenza dei muri d’ambito. La
facciata dell’edificio costituisce un nuovo approccio architettonico: infatti, essa rappresenta
un corpo autonomo dal resto della chiesa, riprendendo e amplificando ciò che è avvenuto
per San Sebastiano. Si presenta come un arco di trionfo con paraste e modanature che
sorregge un timpano, in richiamo agli edifici antichi e al Battistero di Firenze. Inoltre, così
come si vede nel Pantheon, le paraste in corrispondenza degli angoli sono piegate a metà
e s’infilano nel muro, mentre la volta di accesso è perpendicolare a quelle degli archi late-
rali. All’interno di questo avancorpo sono dislocati diversi ambienti, di cui i due superiori la-
terali accessibili dall’interno e altri sopra la volta principale, usati per ospitare la reliquia du-
rante i giorni dell’ostensione, mentre la funzione era svolta su un balcone che dava verso
l’interno, non più presente. Sulla facciata retrostante all’avancorpo, la parete inferiore della
navata presenta in posizione centrale un grande loculo vetrato con volta ad ombrellone,
che serviva per l’ostensione. Tutti questi ambienti erano serviti da due torri scalari non
conservate sino ad oggi, che arrivavano alla quota del loculo. Il timpano fatto da Alberti è
piuttosto basso, in modo tale da rendere ben visibile il loculo che ospitava l’ostensione del
Santo Sangue, il quale ripristino della funzione ha per i Gonzaga carattere più politico che
religioso. Coniano, infatti, delle monete in cui l’ostensorio del Santo Sangue, detto pisside,
compare come simbolo di famiglia, valorizzando ancora più il proprio potere governativo:
la stessa monumentalità del simbolo sacro che l’Alberti riprende nel progettare le propor-
zioni dell’ombrellone. Egli trova precedenti esempi nel Duomo di Prato, che presenta nella
controfacciata interna un’apertura con balcone che serviva durante la cerimonia dell’osten -
tazione della Cintura della Vergine, funzione che è ripresa nel Quattrocento da Donatello e
Michelozzo che realizzano un balcone ad angolo coperto sull’esterno. Anche la Cappella
Palatina di Aquisgrana, in Germania, può aver ispirato l’Alberti. Essa ha pianta ottagonale
e doppia galleria con coperture a volta tipiche delle prime chiese bizantine, mentre le volte
imponenti e i pilastri massicci preludono all'architettura romanica. La Cattedrale di Aqui-
sgrana presenta analogie con la basilica di San Vitale a Ravenna, ben conosciuta ad Al-
berti. Ancora, la chiesa del Santo Sepolcro a Milano, che presenta due livelli, in cui quello
inferiore conserva le reliquie del santo, e un avancorpo per le funzioni servito da due torri
scalari. Tuttavia, è probabile che già il Sant’Andrea dell’undicesimo secolo presenti un
avancorpo simile, che Alberti ha ripreso e modificato, secondo la sua prassi di prendere
spunto dalle architetture locali. Vi è, quindi, una duplicità di natura tra i vari riferimenti: il
modello aulico del tempio etrusco richiama, come già visto, l’origine di Mantova ma è un
fatto noto solo agli illuministi; mentre la riproposizione dell’avancorpo di Sant’Andrea è un
qualcosa che tutti conoscono, per permettere a chiunque un’immediata riconoscibilità.
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La facciata della chiesa che noi vediamo oggi è relativa ad un restauro dell’Ottocento, in -
vece da un dipinto della metà del Cinquecento possiamo sapere che essa era riccamente
colorata, a differenza di oggi: infatti, il marmo verde usato inizialmente è stato sostituito da
una pietra bianca più resistente e durevole. E’ molto probabile che su questo prospetto
l’Alberti e il Mantegna si siano confrontati a lungo e a morte avvenuta, sia questo ultimo a
dipingere la facciata di Sant’Andrea. Egli disegna due nicchie, per il santo e per l’ascensio-
ne di Cristo, in modo tale da identificare la chiesa. Realizza, poi, un reticolo che finge di
essere lapideo, i cui listelli laterali richiamano la pietra verde della facciata, quelli interni
sono in finta pietra rossa e gli incroci sono tinti in porfido e marmo scuro: ricrea in tal modo
una sorta di opus sectile romano, ovvero un rivestimento pavimentale costituito da lastre di
marmo o pietra colorata disposte a formare motivi figurativi o geometrici, chiaramente visi-
bili nel Pantheon, a San Marco a Venezia e nelle basiliche romane a Murano e Torcello. Il
reticolo presenta una deformazione prospettica man mano che si procede con l’altezza,
che porta i riquadri a diventare sempre più grandi. A differenza di altri edifici albertiani
come il Tempio Malatestiano e la chiesa di Santa Maria Novella, qui non compaiono epi-
grafi sulla facciata. Sicuramente protagonista della facciata è il sistema arco-paraste sotto-
stante al timpano. L’Alberti prevede un arco con diverse modanature, composto di tre fa -
sce sottili, una successiva più grossa e dipinta con ghirlande e altre due sovrapposte con
ovuli e dardi, per concludere il tutto con un’altra modanatura più sporgente delle altre, per-
ché con funzione di gocciolatoio, mai usata sia nell’antichità sia nel Quattrocento. Il concio
di volta dell’arco è incluso nella modanatura, negando, in tal modo, la sua funzione portan-
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re ad un procedimento di scena con casualità richiamanti la storia della creazione del capi-
tello corinzio, introdotta da Vitruvio e visibile nell’arco romano dei Gavi a Verona, forse
proprio di questo ultimo. Altra particolarità della facciata riguarda il capitello di sinistra, in
cui la rosetta presenta foglie disposte verso il basso, mentre su tutte le altre esse sono
verso l’alto: il primo, infatti, è il capitello disegnato direttamente dall’Alberti e richiamante
l’architettura bizantina (come ad esempio è a San Marco). Anche l’arco è piuttosto anoma-
lo, poiché non è a filo con la parasta sottostante, ma un po’ in rilievo, mentre superiormen -
te si sovrappone alla trabeazione; inoltre, tutta la struttura dell’arco emerge dalla facciata
di ben un metro. Vi è qui un’infrazione voluta dall’Alberti della logica architettonica, in
quanto la prassi vuole che l’arco sostenga la trabeazione e non la sormonti. Tale soluzione
è riscontrabile in un disegno dell’arco di Marco Aurelio conservato al museo capitolino di
Roma; ma si può vedere ciò anche negli archi dell’anfiteatro di Pola (che era ai tempi pos-
sedimento veneziano) e nell’arco di Adriano ad Atene, in cui l’archivolto sormonta e sosti -
tuisce l’architrave, per evitare di avere due strutture del genere. Alberti conosce anche
questo esempio, poiché egli è amico di un gran viaggiatore del tempo, Ciriaco di Ancona,
che in uno dei suoi viaggi è stato in Grecia e ha riportato in patria numerosi suoi disegni e
schizzi. Ma questo artifizio lo troviamo anche in opere successive come nel transetto della
Giocosa di Pavia e nella cappella del Duomo di Fidenza, in cui il concio di chiave è com-
preso nella modanatura superiore. A Sant’Andrea, poi, le paraste maggiori sporgono lieve -
mente dalla muratura, a differenza, invece, delle modanature dell’arco, privilegiate
dall’Alberti. La facciata è scavata ed è come se la parasta sia usata come attacco per le
varie modanature di diverse inclinazioni e piegature, così da rendere uno slittamento dei
piani ed uno spostamento verso l’interno del muro. Probabilmente egli nel realizzare la
chiesa guarda al Pantheon, che presenta un avancorpo, timpano murario e diversità di ri -
lievi e materiali, che egli può aver ripreso. Lo stesso Mantegna disegna un dipinto su un
cassone nuziale in cui compare un Pantheon privo di pronao: proprio ciò a cui può allude-
re la facciata di Sant’Andrea. Altro grande edificio è cui si è ispirato per questo edificio è
senz’altro la chiesa di San Marco, da cui riprende diversi elementi, comprese le cripte. Vi
è, infatti, una similitudine fra le due architetture: a Venezia si può vedere un’alternanza di
archi e cupole, un nartece sistemato con volta a botte, decorazioni con foglie e maschere,
un podio superiore di affaccio sul livello inferiore e proporzioni simili. Alberti stesso men-
ziona tutti questi esempi e modelli nei suoi trattati, che non sono presi a caso, ma sono
scelti soprattutto per il loro significato storico e politico, in un continuo rimando alle origini
molto forte e sentito.
A partire dalla seconda metà del Quattrocento papa Pio II, insigne umanista, vuole dare un
nuovo assetto urbanistico e architettonico alla città di Pienza: i lavori iniziano nel 1459 e
trasformano il borgo in una piccola città ricca di preziose opere architettoniche e dalle ar -
moniche distribuzioni spaziali, che riflettono perfettamente gli ideali estetici rinascimentali.
Protagonista di questo rinnovamento è Bernardo Rossellino. Sulla Piazza Pio II, capolavo-
ro di ricerca prospettica e compositiva, si elevano il mirabile Palazzo Piccolomini a bugna-
to liscio, con un grande loggiato sul giardino pensile, e la cattedrale in travertino, a tre na -
vate di uguale altezza che le conferiscono carattere di grande aula. Notevoli sono anche il
Palazzo Pubblico, quello Papale e altri lungo il Corso Rossellino, asse viario principale, co-
struiti da cardinali sollecitati dal papa a partecipare al grande progetto, rimasto tuttavia in -
compiuto per la morte, nel 1464, sia di Pio II sia di Rossellino.
Per la costruzione del Duomo, Rossellino fa demolire la vecchia chiesa romanica e co-
struisce tutto ex-novo cambiando l’orientamento, in modo tale da avere l’ingresso alla cat-
tedrale direttamente sulla piazza. L’edificio, che presenta tre navate, ambulacro e tre cap -
pelle angolari, è caratterizzato da una commistione di proporzioni gotiche e tardo-gotiche
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con forme che alludono, però, all’architettura antica. Vi sono colonne a base quadrata, ca-
pitelli con decori ad ovuli a baccelli, trabeazione con fregio molto allungato, mentre sui
muri sono addossate semicolonne, che negli angoli tendono a diventare quadrate e sono
incorniciate da due fasce raccordate ad un unico aba-
co, mentre sono proiettati gli archi delle crociere alla
stessa altezza in tutte e tre le navate. Nella zona pre-
sbiteriana, vi sono finestre con trafori tondeggianti ad
archi acuti, mentre in corrispondenza degli spigoli vi è
un sistema di pilastri con modanature orizzontali con-
tinue che girano attorno alle finestre: tutto in pieno sti-
le gotico, il qual è ammirato da papa Pio II. Il timpano
sopra il transetto è segnato da un pilastro centrale,
che rende un pieno in asse. Sul fianco della navata il
portale è all’antica, con una finestra superiore a bifora
ad archi a tutto sesto interrotta da un elemento oriz-
zontale in mezzeria e con diversi cerchi nella lunetta
superiore. La facciata, realizzata in travertino, ripropo-
ne le modanature ed il timpano, in pieno stile antico,
mentre dal Battistero di San Giovanni viene ripreso il
telaio di piedritti e trabeazione e la proiezione
all’esterno della struttura interna dell’edificio. Da San-
ta Maria Novella di Alberti, che a sua volta s’ispira alla
Basilica Emilia, invece, Rossellino trae spunto per af-
fiancare ai pilastri delle piccole colonne poggianti sulla
stessa base, così come si vede anche negli edifici gotici, che usano lo stesso sintagma
sebbene di forme e dimensioni differenti. Nel timpano compare un terzo ordine di paraste
decorate e risaltate dalla cornice superiore, mentre al centro vi è un loculo tondo con ghir-
landa antica e stemma papale: le paraste hanno riferimento all’arco di trionfo antico, inve -
ce dall’architettura fiorentina sono riprese le nicchie incassate (che già ha usato nella chie-
sa per una fraternità dei laici aretini) e il capitello pseudo-composito con decorazioni a del-
fini.
Per quanto riguarda, invece, il Palazzo Papale si nota subito la sua somiglianza con il Pa -
lazzo Medici, data dall’uso della pianta quadrata, dalla presenza di piani e ambienti man
mano più nobili e di due giardini, di cui uno pensile, poiché assieme al loggiato, sono co-
struiti su una piattaforma artificiale soprastante delle grotte.
Altro architetto che probabilmente lavora a Pienza è il senese Francesco di Giorgio Marti -
ni, artista con formazione di pittore e scultore, ma anche di tecnico: è lui a realizzare gli ac-
quedotti sotterranei di Siena, che aumenta di circa ⅓ rispetto ai precedenti, risolvendo im-
portanti problemi idraulici e ingegneristici. A partire dal 1472 è alla corte di Federico da
Montefeltro ad Urbino, dove si dedica prevalentemente all'attività di architetto militare e ci -
vile. Qui, infatti, realizza il palazzo del signore, che lo scrittore Castiglione Baldassarre de-
finisce con dimensioni di vera e propria città, dato che ospita un apparato di ben cinque -
cento persone. La costruzione del palazzo, però, inizia prima dell’arrivo ad Urbino del Di
Giorgio ed è affidata ad altri architetti fiorentini quali Maso di Bartolomeo, Pasquino di
Montepulciano e Luciano Laurana, realizzazione che dura una ventina d’anni. L’edificio è
una via di mezzo tra una fortificazione ed un palazzo: Federico da Montefeltro, infatti, è il
principale capitano di ventura degli Aragona e del papa e può pertanto permettersi un
enorme dimora senza il bisogno di gravare sui propri sudditi con apposite tasse. Il primo
nucleo è rappresentato dalla parte mediana della lunga facciata prospettante sulla piazza
del Rinascimento, l’ala delle Iole, ispirata al Rinascimento fiorentino e adorna di cinque
eleganti bifore: questa è la sola parte rimasta intatta della primitiva costruzione affidata da
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Federico a Maso di Bartolomeo, scultore e fonditore, già aiuto di Donatello e Michelozzo,
che è tra i primi ad usare il timpano sui portali di un edificio non sacro. In seguito il duca
chiama il Laurana, allievo del Brunelleschi, a cui commissiona l’ingrandimento e la trasfor-
mazione della reggia, che l’architetto dalmata inizia subito costruendo il cortile, lo scalone,
il salone del trono e dando inoltre assetto al prospetto verso valle. Tutto attorno al cortile
interno costruisce un loggiato, i cui angoli presentano una soluzione completamente inedi-
ta: vi è una separazione di fatto tra le quattro facciate per mezzo dell’introduzione di un si-
stema di doppie paraste nello spigolo. A Firenze ciò non avviene, poiché la continuità è
resa grazie all’introduzione nell’angolo di una colonna; tipico fiorentino è, invece, il com-
plesso di colonne, archi e pennacchi con decori circolari, che lo stesso Brunelleschi usa
più volte, come ad esempio nell’Ospedale degli Innocenti. Inoltre, le paraste angolari sono
disegnate realizzando sui due fianchi porzioni verticali di lesene, per accentuare la divisio-
ne tra i quattro prospetti. Sebbene vi siano alcune caratteristiche tipiche brunelleschiane,
l’architettura del Laurana se ne distacca per il fatto di utilizzare lungo tutto il cortile, un epi -
grafe che serve come appoggio ad un sistema di finestre rettangolari all’antica e paraste a
fusto liscio con capitello decorato di stile composito imperiale. Questo apparato si ripre-
senta anche a Gubbio verso la fine degli anni ‘70, dove il Di Giorgio costruisce per Federi-
co un altro palazzo, più piccolo e umile, ma con alcune differenze significative: il cortile ha
forma più irregolare e non è porticato su tutti i lati, non compare più nell’angolo la parasta
minore a fianco della maggiore e, inoltre, dispone accanto alle finestre lesene e trabeazio-
ne.
Tornando ad Urbino, la parte più sugge-
stiva e originale della costruzione è certo
la facciata dei Torricini, dovuta al genio
del Laurana, appartenente al prospetto
occidentale. Sporgente rispetto al corpo
del palazzo, la facciata è chiusa da due
slanciate torri terminanti con due agili
guglie; al centro, fiancheggiati da fine-
stre rinascimentali, si aprono tre logge
sovrapposte, di cui particolarmente belle
sono le due superiori. La facciata è rivol-
ta verso valle, in direzione del mercato e
della via per Roma, con caratterizzazio-
ne prettamente medievale, in cui il si-
gnore ha il controllo ed il dominio su tut-
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to il suo territorio. Federico da Montefeltro è ritratto da Pie-
ro della Francesca in un dittico, insieme all’immagine spe-
culare della consorte del duca, Battista Sforza, anch’essa
rappresentata di profilo. I due dipinti, conservati nella Gal-
leria degli Uffizi a Firenze, rispondono ai canoni della ri-
trattistica rinascimentale: fedeltà alla fisionomia e alla psi-
cologia del soggetto, cura dei dettagli rivelatori dello status
sociale. Sullo sfondo delle tavole compaiono le colline di
Montefeltro, territorio del duca, mentre proprio nel dipinto
di questo ultimo si nota il naso segato nella parte superio-
re, che Federico aveva voluto per vedere meglio in batta-
glia, dato che aveva perso l’occhio destro in un combatti-
mento. Le logge in facciata, sempre più ricche e decorate
man mano che si sale, richiamano per certi versi l’arco di
trionfo di Alfonso d’Aragona a Napoli, del 1440, in cui
compare il rilievo di una parata che celebra la presa della
città, con tanto di carri trainati da cavalli e incoronazione
del signore da parte della vittoria alata, in chiaro riferimen-
to all’iconografia antica. Compaiono nella soluzione delle logge alcuni elementi tipici
dell’architettura di Alberti, il che fa pensare ad un possibile incontro con il Laurana: in corri-
spondenza del terzo livello vi è, innanzitutto, un sistema di paraste scanalate con capitelli
corinzi che reggono la trabeazione sopra le porte, mentre i riquadri sopra di esse presen -
tano tutti una cornice attorno e la volta è cassettonata e ricca di decori; inoltre, anche il pa -
rapetto a doppio bulbo della balaustra ha caratteristiche tipiche fiorentine. Internamente, si
trova lo studiolo di Federico, impreziosito da tarsie lignee di essenze diverse accostate in
modo tale da rendere la prospettiva sui decori e i dipinti, anch’essa in connotazione fioren-
tina: tutte le scene disegnate sono pertanto non reali, e vogliono riproporre gli oggetti e gli
strumenti che più rappresentavano il duca di Urbino, amante di musica e letteratura antica.
Il tutto è scandito da un sistema di paraste, a cui lavora anche il Di Giorgio, che disegna
una lesena telescopica che s’interrompe in corrispondenza dell’imposta dell’arco. Su que-
sto livello si trovano anche gli appartamenti ducali: è, pertanto, garantita una via di fuga
segreta.
Scendendo di piano, l’architettura si semplifica molto nei suoi dettagli e decori: paraste,
capitelli e cassettoni sono più poveri, mentre cambia il tipo di balaustra, che diventa un
semplice reticolo, di possibile derivazione da quello della Porta Marzia a Perugia. Gli am -
biente interni presentano due cappelle di dimensioni ben ridotte, ma molto decorate e con
policromie di marmi. Una delle due, la Cappella del Perdono, presenta decorazioni di Am -
brogio Barocci, artista che ha lavorato alla costruzione del Palazzo Ducale, sebbene la
struttura non si sa bene chi l’abbia realizzata, se lo stesso Di Giorgio oppure altri artisti
come Bramante o Pietro Lombardo, dato che il carattere di questi ambienti è assai partico-
lare rispetto al contesto del palazzo. Il Di Giorgio, infatti, interviene nei lavori solo verso la
metà degli anni ’70 e, pur attenendosi all’impostazione architettonica del predecessore,
espresse note personali di grandiosità e di finezza decorativa davvero personali. E’ lui che
interviene anche negli spazi del primo livello, realizzando un bagno all’antica riscaldato e
dotato di acqua, in un contesto di ambienti irregolari recintati da una struttura continua di
paraste e trabeazione. Sua è pure la sistemazione delle due ali della parte nord-occidenta-
le del palazzo, a fianco del giardino pensile, a cui lavora assieme al Barocci, che effettua il
rivestimento parziale delle pareti. Crea anche un complesso di vani sotterranei quali stalle,
depositi, armerie, cucine, ecc collegato ai piani superiori per mezzo di un sistema verticale
di scale percorribili a cavallo, con il centro cavo attorno al quale sale la rampa in lieve disli -
vello. Per quanto riguarda la facciata delle due ali, essa è compromessa dalla presenza
degli ambienti interni e dalle scale e presenta, pertanto, delle aperture sfalsate, con una la-
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vorazione della superficie non finita ad opus isodomum, che implica l’uso di blocchi uguali
per lunghezza, altezza e profondità. Il prospetto presenta soluzioni decorative molto sofi-
sticate, con paraste a doppio meandro, capitello aggettante continuo alla trabeazione, fre-
gio complesso inserzione della finestra in risalto e con stacco dalla mensola.
Verso l’inizio degli anni ‘80, il Di Giorgio progetta e realizza il Duomo di Urbino, vicino al
Palazzo Ducale e in concomitanza con la costruzione della Cattedrale di Pienza per merito
del Rossellino. La chiesa ha caratteristiche albertiane: presenta, infatti, tre navate di cui la
centrale coperta a botte e le laterali a crociera; vi sono nicchie depresse scavate nei muri,
transetto più grande della navata principale e zona centrale del presbiterio con due am-
bienti laterali. A causa di un terremoto del Settecento, il Duomo è ricostruito, con caratteri-
stiche pressoché uguali al precedente. La facciata della chiesa ha chiari rimandi al
Sant’Andrea di Mantova, soltanto è più piana e priva di rilievi: è, infatti, vero che le due
corti sono in ottimi rapporti e avviene uno scambio di disegni in merito a ciò. Il Duomo pre-
senta timpano incompiuto, pilastri senza base e con decori simili a quelli di Alberti, pen-
nacchi sferici sostituiti da trombe gotiche e cupola ottagonale. Nel transetto è ripresa
l’architettura dello studiolo di Federico nel Palazzo Ducale, in particolare vi è il risalto del
sistema costituito dalle paraste telescopiche e dalla trabeazione.
Altro edificio costruito dal Di Giorgio è la chiesa di San Bernardino, situata sul colle anti -
stante Urbino e realizzata per i frati francescani e anche per custodire il sepolcro di Federi-
co. La chiesa rimanda all’architettura funeraria antica e presenta impianto ad una sola na-
vata senza cappelle laterali, ma con transetto quadrato e ben tre absidi. Qui, l’arco si so-
vrappone alla trabeazione (in risalto, mossa da colonne angolari e segnata da epigrafe) ed
è inquadrato da semicolonne, in richiamo allo stile albertiano di Sant’Andrea. La decora -
zione si concentra nella zona del presbiterio e, seppure conservi una certa sobrietà, è ben
raffinata, come ad esempio nel capitello tripartito con volute, baccelli, foglie di acanto a
scendere e palmetta a salire. Le finestre
rettangolari della navata presentano timpa-
ni triangolari e curvilinei, così come è nel
Pantheon, e hanno una colonna al centro.
L’esterno è molto semplice e il ritmo di fac-
ciata è dato dalle modanature continue e
dai contrafforti angolari, mentre il chiostro è
piuttosto spoglio, secondo la tradizione
francescana di rimando alla povertà asso-
luta, e presenta pilastri murari bassi e lar-
ghi, come se fossero schiacciati dal peso
superiore. Il disegno della chiesa è esegui-
to dal Di Giorgio a filo di ferro, perciò molto
schematico e lineare, senza la presenza di
spessori e profondità: ciò gli causa diverse
errori di simmetria e proporzioni durante la
realizzazione dell’edificio.
La chiesa di San Bernardino, per certi versi, è abbastanza simile agli edifici militari: vi sono
pochi ornamenti e le membrature orizzontali marcano le pareti esterne ed interne. Proprio
questi elementi vengono ripresi dal Di Giorgio per costruire la rocca di Sassocorvaro, eret-
ta in soli due anni a partire dal 1476. L’edificio conserva una certa impronta del bastione
classico, ma l’uso sempre più frequente della polvere da sparo, e l’uso del cannone in par-
ticolare, porta l’architetto senese a adottare particolari accorgimenti. Le mura si abbassano
drasticamente, sono aumentate di spessore e inclinate a scarpa, per diminuire l’impatto
con il colpo. La difesa non è più frontale, né a caditoia, ma diventa radente, disponendo le
armi da fuoco tutto attorno. Sono protette anche le gallerie sottostanti, per evitare che il
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nemico le faccia saltare con opportune cariche esplosive. Nel trattare le superfici, non vi è
molta differenza con la chiesa di San Bernardino: la muratura è liscia, in pietre e mattoni,
ed è percorsa da cordoli che interrompono la facciata, senza alcuna funzione portante, fat-
to che ci fa capire che sebbene l’architettura militare sia di tipo tecnico, non rinuncia alla
forma. Questo punto sarà ripreso più volte nel corso del Cinquecento, in costante polemi -
ca fra la figura dell’ingegnere, più tecnico e funzionale, e l’architetto, a cui interessa anche
la forma. Nel cortile interno della rocca troviamo pilastri semplici a base quadrata, trabea -
zioni e archi lisci non segnati da modanature (non vi è l’archivolto).
Tra gli anni ’80 e ’90, il Di Giorgio costruisce la rocca di Mondario, in cui rinuncia a simme-
tria e forma in funzione di fini puramente militari. L’impianto presenta un grosso torrione (il
maschio), su cui è centrato il sistema di difesa; anche qui le mura sono inclinate e conca-
ve, in modo da offrire il minor campo possibile all’artiglieria nemica, determinando, così, li-
nee spezzate e irregolari. Inoltre, abbassa e interra la sua architettura, alzando il fosso
murario che vi gira attorno, che viene protetto da un sistema di cannoniere radiali. Per
come sono trattate le superfici e le linee, che la fanno assomigliare più ad un’opera scolpi -
ta, questa architettura risulta completamente nuova rispetto alle altre del Quattrocento.
Tornando agli edifici religiosi, troviamo il convento femminile di Santa Chiara, posizionato
su uno dei colli di Urbino. L’edificio, costituito da un doppio ambiente distinto per i fedeli e
le monache, presenta una rotonda antistante lo spazio rettangolare della chiesa ed è svi -
luppato su tre livelli con elementi arcuati e celle sopratanti. Il modello di base che il Di
Giorgio utilizza, e che riprende più avanti nelle sue ville, presenta due corpi laterali spor-
genti, un loggiato di due livelli e paraste telescopiche. Realizza attorno agli anni ‘90 anche
la chiesa della Madonna del Calcinaio a Tortona, che serve ad ospitare l’immagine della
Vergine. L’impianto è quello semplice a croce latina, con una sola navata voltata a botte,
che comporta dei carichi strutturali consistenti: decide in questo caso di non usare né con-
trafforti né sistemi di scarico particolari, bensì di gravare tutto il peso sui muri, che eleva di
spessore. E’ così possibile scavare al loro interno delle grosse nicchie e di inserirvi sopra
delle finestre rettangolari con timpano. Centralmente al transetto vi è una cupola di spes -
sore ridotto poggiante su archi ogivali, di connotazione gotica. All’interno delle nicchie il si-
stema delle paraste presenta struttura a stipite, come se fossero piegate, e sia per queste
sia per gli archi separa la modanatura superiore su due livelli successivi, su cui inserisce il
capitello. Egli trae esempio dalle nicchie romane di Todi, che presentano decorazione ri -
dotta a trabeazione dorica, mentre all’interno delle cavità delle pareti gli elementi orizzon -
tali sono estremamente ridotti ed il capitello è molto semplificato. Errore che compie il Di
Giorgio, che disegna a filo di ferro e privilegia l’architettura interna a quella esterna, è quel-
lo di non tener conto degli spessori dei suoi elementi: ecco perché lateralmente al transet-
to la nicchia e la finestra soprastante non appaiono centrate nel muro e nel rapporto visivo
tra interno ed esterno non hanno corrispondenza (gli sarebbe bastato inclinare gli sguinci
delle aperture perché ciò avvenisse). Successivamente a questi lavori, il Di Giorgio è chia -
mato anche a Napoli e Milano, dove realizza il tiburio del Duomo di Milano, a cui lavora as-
sieme a Bramante, Fancelli e Leonardo. L’architetto senese muore nel 1502.
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sito, trabeazione e pennacchi di materiali preziosi, il tutto in chiaro stile antico, mentre su -
periormente ci sono delle finestre con paraste laterali ed elemento centrale tipo bifora. Le
scene dipinte sono riprese dagli antichi sarcofagi. Nella seconda tavola, invece, compare
una chiesa ad impianto basilicale divisa in navate, con la maggiore coperta da capriate. La
facciata dell’edificio rimanda all’arco di trionfo: ha, infatti, colonna libera monolitica in mar -
mo eretta su un basamento e trabeazione che la ribatte, con decorazioni antiche; il pavi-
mento è dipinto come opus sectile, prettamente romano (lo stesso che usa Alberti a
Sant’Andrea).
Altre figure che segnano la formazione di Bramante sono il Mantegna e Piero della Fran -
cesca. Di questo ultimo è la Flagellazione di Cristo, conservata al Palazzo Ducale di Urbi-
no, in cui compare un’architettura molto complessa simile a quella antica, con un colonna-
to trabeato, copertura cassettonata e pavimento in porfido. Altro dipinto molto importante,
realizzato per la chiesa di San Bernardino è la Pala di Brera, che ripropone l’architettura
fiorentina ed urbinate, dalle caratteristiche paraste, trabeazioni e cassettonati. Piero della
Francesca è uno dei primi maestri ad introdurre la prospettiva, ma nei suoi quadri questa
non compare così rigorosa e geometrica come dovrebbe.
Bramante compie i suoi primi lavori a Bergamo, dove riscuote grande successo con gli af-
freschi di Filosofi, eseguiti nel 1477 nel Palazzo del Podestà. Interessante sotto certi
aspetti è la cappella a Giovanni Amadeo Cuorleoni,
con impianto simile alla sacrestia Vecchia del Brunel-
leschi, con impianto quadrato sormontato da una cu-
pola, nella quale si sovrappongono diversi motivi, in
una libertà compositiva assoluta: in basso vi è un
portale con paraste telescopiche e timpano con fre-
gio pseudo-dorico, sottostanti a finestre simili al tardo
gotico lombardo inquadrate tra colonne. Salendo di
livello vi è un rosone decorato, balaustrini che assu-
mono talvolta funzione di piedritti alternati a colonne,
nicchie scavate e trabeazione. La cupola presenta
decori con paraste. A Milano, dove giunge intorno al
1482, inizia a lavorare come architetto, occupandosi
del progetto per la chiesa di Santa Maria presso San
Satiro, a fianco del sacello carolingio. L’impianto ha
pianta quadrata con croce inscritta ed è composta di
tre navate, la quale centrale ha una struttura ad
avancorpo che si apre su di essa. Straordinaria è in
questo edificio la sua soluzione per l'abside, che non
poteva essere realizzata secondo i canoni tradiziona-
li per mancanza di spazio oltre la parete di fondo: Bramante la rappresenta allora pittorica-
mente, dipingendo una falsa prospettiva che suggerisce la profondità spaziale. Con questo
espediente, che gli permette di non rinunciare allo schema rinascimentale della chiesa a
pianta centrale (sancito dalla formulazione teorica e dall'opera dell'Alberti, al quale Bra -
mante trae esempio guardando a Sant’Andrea), dimostra un uso della prospettiva evoluto
e sicuro. Per Ludovico Sforza il Moro dà il suo contributo per numerose opere, elaborando
tra l’altro i progetti per i chiostri e la canonica per Sant’Ambrogio. Oltre alle cappelle laterali
che ospitano le canoniche, Bramante realizza un loggiato esterno che copre parte del cor-
tile. Il tutto presenta la tradizionale struttura di paraste, colonne ed archi, il quale capitello
è composto di architrave, fregio e cornice, nel pieno stile del Brunelleschi. Vi è qui il ricor-
so alla colonna alveolata, di stampo bizantino, usata per non creare sgraziate sporgenze
dal muro. Centralmente, viene inserito un arco più grande che marca la porta d’ingresso
alla chiesa, forse con l’intento di creare una piazza quadrata chiusa nel loggiato, così
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come ne parlavano Vitruvio e Alberti nei loro trattati. Il cantiere di quest’opera è gestito in
maniera gotica: viene in pratica lasciata ampia libertà di lavoro agli scalpellini.
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Sempre per gli Sforza, nel 1488 Bramante costruisce il Duomo di Pavia, a pianta centrale,
che per proporzioni e verticalismo ricorda le strutture tardo-gotiche. Compaiono a soste-
gno della cupola gli stessi piloni che riprenderà, poi, anche per San Pietro, presi a loro vol -
ta dalla chiesa di San Lorenzo di Milano; usa un sistema di paraste ribattute e realizza sot-
to l’abside una cripta con semivolta ad ombrello retta da pilastrini alternati a nicchie scava-
te e illuminate per mezzo di bocche di luce che danno sull’esterno. La copertura della crip -
ta rimanda all’antica struttura del caveau di Villa Adriana a Tivoli, un grande complesso
con colonne e archi trabeati disposti attorno ad uno specchio d’acqua che finisce in un pic-
colo edificio voltato ad ombrello. A causa però dell’arrivo a Milano dei Francesi, nel 1499
Bramante è costretto a spostarsi a Roma, dove si dedica allo studio dell’antichità; qui entra
in contatto con circoli ed ambiente vicini alla corona di Spagna e al clero aragonese. E’
proprio grazie a questi contatti che ha la possibilità di realizzare il chiostro di Santa Maria
della Pace, nella chiesa ottocentesca di Piazza Navona. Il chiostro porta con sé diverse in-
novazioni, sebbene conservi alcune caratteristiche delle prime architetture di Bramante: fa
uso di archi riquadrati (ripresi dal Colosseo), di paraste appiattite e archi senza archivolto,
mentre, punto più importante, abbandona la pratica quattrocentesca del ricorso alla deco-
razione libera in favore di un uso più uniforme e razionale dei decori, organizzato attorno
ai cinque ordini classici (dorico, ionico, corinzio, tuscanico, composito). Con Bramante si
assiste, infatti, ad uno stile architettonico più uniforme e universale, che viene usato per
tutto il Cinquecento. Il chiostro presenta paraste sia sulla muratura della loggia sia sulla
faccia dei pilastri, di tipo ionico, rialzate su piedistalli e prive di capitello, con la sola cornice
in risalto (come era solito fare il Di Giorgio), mentre l’arco è impostato su un pilastro dorico
e, anziché basarsi sugli assi delle strutture, fonda sull’intercolunnio degli elementi verticali.
Soluzioni particolari sono negli angoli, in cui le due colonne gemini si avvicinano quasi a
diventare una sola, in rimando a Palazzo Barbo, vicino al Campidoglio, a cui può aver col -
laborato anche l’Alberti. Superiormente, compare una trabeazione con mensole nel fregio
(come nel Colosseo) e un altro sistema di paraste su pilastri con capitello composito, men-
tre in asse con le aperture vi sono delle colonnine con capitello corinzio. In corrispondenza
dei pilastri Bramante addensa le mensole: negli angoli ne compaiono sei, mentre nelle al -
tre due campate (ve ne sono quattro totali su ogni facciata) ci sono sette mensole. Questo
perché vi è un dimensionamento progettuale non uniforme nelle campate della loggia, in
cui le due centrali, non si sa bene per quale motivo, sono più larghe.
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Nel 1502 il cardinale Carvajal, su incarico del re di Spagna, commissiona a Bramante la
costruzione del Tempietto di San Pietro in Montorio, sul luogo in cui, secondo la tradizione,
fu crocefisso l'apostolo Pietro. L’edificio, che si presenta come una cappella soprastante
una cripta, segna l’inizio del Rinascimento maturo, poiché è completamente all’antica, dati
gli ordini architettonici con cui è realizzato. Per la sua realizzazione sono presi a modelli
diverse architetture come, per esempio, la Sibilla di Tivoli, un piccolo tempio di età repub -
blicana a cella circolare, perimetro con colonne, copertura a cassettoni radiali e decori fu -
nerari con teste di bue, ghirlanda e patere; altro modello è il Foro Boario, di età imperiale,
che presenta cella circolare circondata da colonne corinzie realizzata in conci lapidei
pseudo-isodomi. Di entrambi gli edifici Giuliano da Sangallo realizza diversi disegni. La
piccola struttura periptera a pianta circolare del Tempietto di Bramante è amplificata e mo-
dulata dal ritmo delle sedici colonne, dalla balaustra superiore e dal tamburo che regge la
cupola seicentesca. E’, infatti, probabile, come si vede da alcuni disegni del Cinquecento,
che la copertura iniziale fosse a semicalotta, oppure ribassata a gradoni anulari, simile al
Pantheon, così come la disegna il Peruzzi. Il tamburo presenta sull’esterno nicchie rettan -
golari alternate ad altre a conchiglia ed ha in sommità una trabeazione a sostegno della
copertura, che è in asse con la croce della cripta. La zona bassa del tamburo, inoltre, non
è del tutto lavorata, ma è lasciata in bianco, visto che tale porzione non è visibile dal bas-
so, mentre la parte superiore presenta decori molto dettagliati. Il Tempietto ha decori ed
elementi dorici, con un uso di simboli cristiani come calici e croci: tale ordine classico, im-
ponente e severo, è, infatti, assegnato ai santi guerrieri come San Pietro, San Giorgio,
ecc. L’interno ha alternativamente campate strette con finestra rettangolare e nicchia su-
periore e campate larghe con arco e nicchia, simile al Sant’Andrea di Mantova, soltanto
che in questo caso le cavità non sono in corrispondenza delle diagonali. Un’attenzione
particolare è resa agli elementi architettonici disposti lungo le pareti, che non sono piatti
ma incurvati secondo il muro; al centro del pavimento vi è un foro che mette in comunica-
zione i diversi livelli. Infine, vi è un infittirsi di elementi verticali sia all’interno che all’ester -
no: il portale si sovrappone alle paraste, inglobandole, mentre rimane una certa connota-
zione nella base e nella continuità delle linee orizzontali, al fine di mantenere una certa
identità architettonica. Presumibilmente il progetto di Bramante non è stato del tutto com-
piuto, poiché egli aveva previsto un cortile circolare attorno al Tempietto con una circonfe-
renza intermedia di colonne, come compare in un disegno del Serlio, dove tutti gli elementi
concentrici sono disposti lungo le diagonali che escono dal centro dell’edificio. Anche per
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questa idea può aver preso ispirazione dal Teatro Marittimo di Villa Adriana, in cui vi è un
muro perimetrale con loggia di colonne voltata a botte e con trabeazione con decori di tri -
toni, costruita attorno ad una vasca d’acqua recante al centro un’isola. Siccome l’imperato-
re Adriano era di origini spagnole, è possibile che Bramante volesse riprendere tale archi -
tettura e riproporla al re di Spagna proprio per questa uguaglianza di patria.
Dopo questi due incarichi romani, Bramante diventa l’architetto di fiducia di papa Giulio II,
il quale dal 1505 dà avvio a due imponenti lavori per i Palazzi Vaticani e la Basilica di San
Pietro.
L’architetto progetta il Belvedere, un cortile lungo trecento metri su tre livelli che mettono in
comunicazione i Palazzi Vaticani con la villa del papa. La corte iniziale presenta una lunga
e ampia scalinata centrale, in asse con la grande nicchia del livello successivo, con due
rampe doppie sui lati culminanti in un’ampia corte con logge laterali e nicchione centrale,
destinata a rappresentazioni teatrali e cerimonie religiose. Il loggiato presenta archi dorici
inquadrati con due livelli superiori, di cui uno con finestre a timpani alterni triangolari o cur -
vilinei e paraste con ulteriori semi-paraste accostate ai lati (a diventare una sorta di fa -
scio), e un ultimo livello ad archi trabeati con un’enorme targa. A conclusione del percorso
realizza una scala a chiocciola che permette di salire ai vari livelli, la cui rampa presenta
pendenza dolce, in modo tale da permettere la salita anche agli animali. Il centro è cavo
ed è caratterizzato da colonne portanti presenti in tutti e cinque gli ordini architettonici, che
si alternano ai vari livelli. Inoltre, le modanature orizzontali di basi e capitelli sono inclinate
e ruotate, in modo tale da permettere una giusta visuale. E’ probabile che Bramante per
disegnare gli edifici del Belvedere abbia preso ispirazione dal tempio repubblicano della
Fortuna a Palestrina, feudo dei Colonna durante tutto il Quattrocento. I giardini non sono
tuttavia realizzati secondo il progetto bramantesco, per l'introduzione di un corpo di fabbri -
ca trasversale che ne altera completamente proporzioni ed effetto scenografico e per la
fontana di fine Cinquecento che chiude l’invaso
centrale. Anche le due torri laterali alla corte inter-
media inizialmente previste non sono più state rea-
lizzate. Scopo di Giulio II è quello di portare la
Chiesa ad un ruolo centrale e privilegiato, ed è pro-
prio per questo che gli edifici da lui commissionati
sono in pieno stile classico, rifacente per di più alle
architetture imperiali romane. Nel 1509 il papa
commissiona a Bramante il coro di Santa Maria del-
la Pace, dove sono tra l’altro messe le tombe di
due cardinali. Il coro è in un ambiente seminterrato
composto di tre campate, di cui la centrale a cupo-
la: l’illuminazione avviene dall’alto nella parte intermedia; è laterale nella zona conclusiva,
dove la luce entra da un lacunare finestrato, mentre la porzione di edificio in cui sono le
tombe è lasciata al buio. Ma l’edificio bramantesco che più sarà riprodotto è il Palazzo Ca -
prini, costruito nei borghi a ridosso del Vaticano, che Raffaello vuole come dimora dal
1517, salvo la sua demolizione verso gli anni ’40. Il palazzo, così come lo progetta Bra-
mante, ha l’ingresso laterale, poiché il fronte che dà sulla piazza è lasciato a botteghe. La
facciata, che subisce numerose varianti nei secoli successivi, presenta una netta distinzio-
ne tra la parte inferiore, in bugnato rustico, e quella superiore, in cui compaiono, invece,
una struttura di doppie colonne libere e trabeazione dorica; nell’angolo tali elementi si ad -
densano, a diventare un nucleo di elementi molto sporgente. In corrispondenza delle me -
tope della trabeazione vi sono le finestre dei mezzanini, in ripresa del pensiero di Vitruvio,
che voleva ci fosse il vuoto tra i triglifi. Sempre questo ultimo a sua volta aveva studiato il
problema che si presenta nell’angolo di un edificio, in cui è necessario spostare l’asse del
triglifo e creare una metopa più grande: anche questa soluzione viene ripresa da Braman-
te. Inoltre, i finti conci della piattabanda delle finestre non presentano chiave di volta.
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La Basilica di San Pietro da Bramante a Michelangelo
La storia
del Vati-
cano inizia
in epoca
roma- na,
quan- do la
piaz- za,
recante al centro un obelisco, è usata come necropoli e presenta sotto di essa una fitta
rete di sepolcri, disposti lungo un’asse che va da ovest ad est, con l’ingresso disposto ver -
so sud. Il centro degli edifici che nei secoli si sono succeduti corrisponde al luogo in cui la
tradizione vuole sepolto l’apostolo Pietro, in corrispondenza di una doppia edicola sovrap-
posta (detta Trofeo di Gaio) chiusa da un muro rosso d’intonaco, situata sotto l’altare pa-
pale, nel Campo P, che reca una cassetta con le ossa del Santo. In tale punto gli antichi
romani hanno sentito il bisogno di edificare una prima basilica, che Costantino realizza at-
torno agli anni ’20 del quarto secolo d.C. intervenendo prima sul terreno in pendenza del
colle vaticano, per mezzo di opere murarie dette sostruzioni, con lo scopo di livellare la su-
perficie e permettere la costruzione della chiesa. La basilica costantiniana ha un’estesa
piattaforma di 250×90 metri divisa in cinque navate, con la centrale grande più del doppio
delle laterali, con transetto e abside circolare disposto verso ovest (è una chiesa occiden -
tale), sopra la tomba di San Pietro, a differenza della tradizione, che vuole invece l’abside
ad est. La struttura portante è fatta di colonne di marmi preziosi reggenti una trabeazione,
sopra la quale vi è un paramento murario che porta le capriate lignee della copertura. La
basilica è arricchita ed ampliata negli anni successivi: papa Gregorio Magno, tra il sesto e
il settimo secolo alza il pavimento del presbiterio, al fine di rendere più agibile la cripta, e
realizza un percorso tutto attorno per permetterne la visita. Superiormente crea, inoltre,
una piccola finestra per dare modo ai fedeli di calare delle bende a contatto con la tomba.
In seguito, si costruisce il nartece e un cortile d’ingresso con un atrio porticato su tutti e
quattro i lati: questo ospita una cappella per il rito dell’incoronazione dell’imperatore, men-
tre al centro dell’atrio è posizionata la Pigna bronzea con i due pavoni laterali, simbolo
dell’immortalità della fede cristiana. Di questo iniziale San Pietro resta ben poco, poiché
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viene man mano distrutto tutto, se non per un piccolo spazio interrato che reca i sepolcri
dei vecchi papi.
Nella prima metà del Cinquecento, la Città del Vaticano, ricco centro della cristianità, si
presenta come un laboratorio di idee e progetti: vi si trovano, infatti, i migliori artisti del se-
colo, quali Bramante, Giuliano e Antonio da Sangallo, Baldassarre Peruzzi, Gian Lorenzo
Bernini, Francesco Borromini, Michelangelo Buonarroti, Raffaelo Sanzio, ecc. Al termine
della cattività avignonese, papa Niccolò V (1447-1455) concepisce l'idea di una prestigio -
sa sede papale, che testimoni l’importanza e la potenza dello Stato Pontificio, affidandone
il progetto all’Alberti, che propone, tra i molti interventi volti a edificare un unico grande
complesso, la preservazione della vecchia basilica. I lavori, però, si fermano a livello fon -
dazionale con la morte del papa e del progetto albertiano non si ha più traccia. Ne ritrovia -
mo più tardi qualche disegno, che Martino Ferrabosco realizza nel 1619 basandosi su ciò
che scrive verso la metà del Quattrocento Giannozzo Manetti, biografo di papa Niccolò V:
compare qui un edificio a pianta centrale coperto a cupola con croci più strette e voltate a
crociera su tre lati, realizzate quale ristrutturazione di quelle antiche, mentre il transetto
presenta alte linee gotiche (soluzione questa poco credibile). Poiché la vecchia basilica
non si conserva, ma viene invece distrutta, è facile che il progetto di riferimento non sia
dell’Alberti, bensì del Rossellino, che realizza la parte del coro che porta per l’appunto il
suo nome. Perché i lavori riprendano bisogna aspettare circa mezzo secolo, sotto papa
Giulio II Della Rovere (1503-1513): uomo ambizioso e assetato di fama, di larghe vedute
ma irrequieto, da prima commissiona a Michelangelo di realizzare un complesso scultoreo
per la sua tomba, che da lì a poco il grande artista chiama “il Dramma della Sepoltura”
dato che il papa cambia idea più volte, interrompendo e riprendendo spesso i lavori. Delle
cinquanta statue previste all’inizio attorno alla camera sepolcrale papale, se ne realizza un
numero più contenuto e destinato ad un altro sito, probabilmente per il transetto del nuovo
San Pietro, ma a causa di ristrettezze economiche Giulio II deve abbandonare il progetto
scultoreo per puntare maggiormente sulla costruzione della nuova basilica. Michelangelo,
nel suo smisurato disappunto, sospetta il complotto e dubita perfino che i suoi rivali, so-
prattutto Bramante, architetto della nuova San Pietro, lo vogliano avvelenare. Abbandona
così Roma, per andare a rifugiarsi alla corte di Firenze. Nel 1506 è comunque consacrata
la fondazione della nuova basilica, per la quale si ricorre alla pratica delle indulgenze per
finanziarne la costruzione. Bramante, che ha già realizzato il Belvedere per i Palazzi Vati -
cani, propone inizialmente di ruotare l’edificio di 90° in modo tale da avere la facciata della
chiesa di fronte all’obelisco: ciò avrebbe comportato lo spostamento della tomba di San
Pietro e non trova, pertanto, il consenso del papa. Anche un altro architetto, Fra Giocondo,
presenta al papa un suo progetto, in cui compare un impianto con croce latina, nartece ad
“U” e un sistema di quattro cappelle sui lati lunghi e cinque in corrispondenza del coro, il
tutto coperto da diverse cupole, così come appare a San Marco. A causa della sua utopia
il progetto non è neanche considerato. A Bramante tocca allora fare una nuova proposta,
nella quale affianca la vecchia basilica ad un sistema di doppi pilastri, colonne, nicchie e
cupole, sebbene sappia già che non può funzionare. Nella realizzazione della nuova basili-
ca interviene Antonio da Sangallo il Giovane, che riprende, specchiandolo, il progetto di
Bramante: compare, così, un impianto a quincux (a cinque di dado), in cui vi è una croce
greca inscritta in un quadrato, con diversi ambienti sviluppati lungo le diagonali. Entrambi
si presentano quindi al papa e in tale occasione Bramante prende il disegno del Sangallo
e vi abbozza sopra: aggiunge tre ambulacri che circondano gli absidi, a realizzare delle
zone percorribili, e a questa nuova struttura attacca un corpo longitudinale. Ha in mente la
chiesa di San Lorenzo e il Duomo di Milano, che abbozza, da cui trae spunto per i grossi
piloni che reggono la cupola, larghi quanto una navata minore e con nicchie scavate attor-
no; inserisce, poi, anche una serie di cappelle con altrettante nicchie, anch’esse coperte
con cupole. Ancora una volta, però, il papa non è contento, poiché è sua intenzione lascia-
re il coro già esistente e, inoltre, il nuovo progetto è di dimensioni troppo esagerate per po-
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ter essere realizzato in breve tempo. Si decide allora per una soluzione ibrida di tutti questi
progetti, ciò che il Di Giorgio chiama una figura composita con testata centrale e corpo lon-
gitudinale. La prima pietra è posta in opera nell’aprile del 1506, quando si inizia con il co -
struire i pilastri della crociera e i pennacchi trapezoidali, disegnati in modo tale da meglio
reggere la cupola (grande quasi come quella del Pantheon), che progetta lo stesso Bra-
mante, prevedendo un sistema di colonne tetragoni (formate, cioè, dall’insieme di ben
quattro elementi portanti) alternate a tratti pieni di muratura. Tutto intorno è posizionata
una fila intera di semplici colonne e si sceglie lo stile dorico per decorare sia queste, sia le
slanciate paraste, sia la trabeazione. A papa Giulio II succede Leone X de’ Medici, che af -
fianca a Bramante Giuliano da Sangallo e Fra Giocondo, che collaborano per creare nella
prima parte del braccio della basilica una volta a botte, mentre per l’abside si decide per
una volta a conchiglia. Intanto, per preservare l’altare di San Pietro durante i lavori e dagli
agenti atmosferici (l’edificio è ancora privo di copertura) si costruisce un piccolo tempio,
detto tiburio, che ospita la sacra architettura. Nel 1514 Bramante muore, lasciando la chie-
sa incompleta, nel progetto e nella realtà; intanto, anche il Belvedere è soggetto a crolli e
dissesti, che contribuiscono a mettere in cattiva luce il suo operato. Gli succede Raffaello,
poco più che trentenne, che ridefinisce le idee del suo antecedente: prevede tre parti sim -
metriche con ambulacri, quattro cappelle angolari di cui due nel corpo longitudinale e un
nartece d’ingresso, e sostituisce il coro bramantesco con un’abside simile agli altri tre. Fra
i disegni di Raffaello, però, compare anche una versione alternativa, in cui è lasciato il
coro e sono posizionati in facciata due campanili. Nel 1516 il papa gli affianca Antonio da
Sangallo il Giovane, che resta in cantiere per ben trenta anni, il quale da subito realizza il
deambulatorio esterno, con paraste, colonne e trabeazione in stile dorico e con nicchie a
timpano triangolare e loculo soprastante. Nel 1520 Raffaello muore e il Sangallo, rimasto
l’unico architetto della basilica, scrive una lettera al papa nella quale critica la sua opera,
dicendo che così come l’ha progettata Raffaello la navata centrale risulta troppo alta, stret-
ta e buia. Propone allora diverse soluzioni per correggere tale punto, come quella di intro -
durre tante piccole cupole sulla navata centrale e sul transetto, di creare un ritmo alternato
di cappelle grandi e piccole lungo la zona principale o ancora di interrompere questa ulti -
ma con degli assi trasversali che distolgono lo sguardo. Studia attentamente anche la fac-
ciata, proponendo il ricorso all’intersezione degli ordini architettonici. Gli viene affiancato
Baldassarre Peruzzi, che torna a proporre la pianta centrale a croce greca e le cappelle
angolari, tutto decorato da uno zoccolo di base e da lesene sulle facciate. A papa Leone X
succede Clemente VII de’ Medici (1523-1534), sotto il cui pontificato avviene l’invasione
dei lanzichenecchi, che distruggono e mandano in rovina il cantiere di San Pietro. Qualche
anno dopo diventa vescovo di Roma papa Paolo III, della famiglia dei Farnese (1534-
1549), che fa riprendere i lavori della basilica e ordina di ridurre e semplificare le operazio -
ni di costruzione, al fine di ultimare l’edificio. Muore intanto anche il Peruzzi e Antonio da
Sangallo procede realizzando il muro divisorio tra la vecchia chiesa e la nuova e alza la
quota del pavimento, così da migliorare la navata stretta e alta fatta da Raffaello. Progetta,
però, un impianto longitudinale e ciò va contro il volere del papa, che preferiva un impianto
centrale, più veloce da edificare. Dal 1539 al 1546 i lavori sono ancora interrotti, poiché il
Sangallo realizza un modello ligneo costosissimo in scala 1:29 in cui espone un nuovo
progetto a pianta centrale dove è aggiunto un atrio e diversi ambienti secondari, ma si trat-
ta di una soluzione troppo dispendiosa. Dopo la sua morte torna al Vaticano Michelangelo,
più che settantenne, che lavorerà alla basilica per ben 17 anni. Da subito egli critica il co-
stosissimo modello del Sangallo, sia per motivi strutturali che formali, trovandolo eccessi-
vamente sproporzionato, caotico e buio, troppo simile in ciò al gotico; ma disapprova an -
che la gestione del cantiere, fatto da una setta gallesca di persone corrotte e vicine ad An -
tonio e pertanto le fa sostituire, e muove le sue accuse anche contro i prelati della basilica,
anch’essi immorali, inutili intermediari tra lui e il papa. Michelangelo è un profondo creden-
te ed è inorridito dalla vendita delle indulgenze e dalla situazione che gravita attorno alla
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costruzione della chiesa: è perciò che decide di lavorare gratuitamente. Realizza un suo
progetto, di minore forma ma maggiore grandezza, in cui riprende la pianta di Bramante,
isolata, centralizzata, semplice e ben illuminata, in cui elimina i deambulatori e chiude le
aperture degli archi di passaggio, trasformandole in cappelle. Torna quindi alla pianta cen -
trale coperta a cupola, con le cappelle angolari da cui emergono gli assi per le absidi e con
diverse scale di servizio laterali: l’impianto si presenta, così, come un quadrato intersecato
da un secondo ruotato. Lavora con un modello di creta, molto meno costoso di quello del
Sangallo, a cui opera per tappe. Con questi metodi Michelangelo arriva nel 1555 ad inizia-
re la costruzione del tamburo e nel 1557 a livello della copertura dell’abside, sebbene per-
da i due anni successivi a demolirne una buona parte a causa di discrepanze tra gli ele-
menti (è piuttosto vecchio e non va molto spesso in cantiere). Inizia anche a progettare
l’esterno, trattandolo in maniera plastica, per mezzo dell’uso di paraste, nicchie e finestre,
senza riuscire, però, a completarlo: muore, infatti, nel 1564. Negli anni successivi la fabbri-
ca della basilica continua, con numerosi interventi, non sempre vicini al progetto di Miche-
langelo. Il nuovo San Pietro è affidato al Vignola, a Pirro Ligorio e infine a Giacomo Della
Porta, che realizza nel 1593 la cupola, con un tamburo sottostante con speroni strutturali
sporgenti, due colonne laterali e trabeazione aggettante, probabilmente non del tutto simi -
le al disegno di Michelangelo. Nel primo Seicento Carlo Maderno allunga la navata, stra -
volgendo, così, la visione della cupola, mentre sotto il pontificato di Alessandro VII (1655-
1667) Gian Lorenzo Bernini compone il geniale, grande abbraccio della piazza ellittica con
il colonnato a portico, recante al centro l’obelisco.
Raffaello Sanzio
Raffaello Sanzio è tra i pittori e architetti più importanti del Rinascimento italiano. Nasce ad
Urbino nel 1483, figlio del pittore Giovanni Santi, con il quale inizia la sua formazione arti -
stica, fino al 1500. A Firenze, nel primo periodo di attività, dipinge sotto l'influenza dello sti -
le del Perugino, suo maestro, come testimonia lo Sposalizio della Vergine del 1504, esem-
pio classico di prospettiva pittorica. Nel dipinto, alle spalle delle figure in primo piano lo
spazio si amplia a dismisura, strutturato secondo linee di fuga convergenti in un punto im-
maginario, situato oltre una porta che si apre sull'infinito. Alcuni elementi del quadro sotto-
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lineano la precisione del taglio prospettico: il pavimento decorato a grandi rettangoli paral-
leli, le scalinate dell'edificio a pianta poligonale e le figure sullo sfondo, progressivamente
rimpicciolite dalla distanza. Il tempio posizionato sul fondo porta diversi elementi caratteri-
stici dell’architettura del Di Giorgio. Nel 1508 Raffaello è chiamato da papa Giulio II a
Roma, che gli commissiona la decorazione ad affresco di quattro stanze in Vaticano. Tra i
vari dipinti, il più famoso è senz’altro la Scuola di Atene (1509-10) nella Stanza della Se-
gnatura. Il quadro, che raffigura Aristotele e Platone insieme ad altri filosofi dell'antichità,
appartiene al periodo della maturità artistica del pittore. La grandiosa concezione e il pos -
sente impianto prospettico, uniti allo straordinario fascino della rievocazione di uno fra i
momenti più alti nella storia della civiltà occidentale, fanno di questo affresco uno dei più
celebri capolavori del Rinascimento. L’architettura illusionistica, ispirata probabilmente al
Bramante e ai suoi progetti per la nuova basilica di San Pietro, è riccamente disegnata da
paraste, archi, volte a botte e cupole. Nella seconda stanza vaticana, Raffaello affresca
sulle pareti alcuni episodi che testimoniano l’intervento di Dio nella storia della chiesa, tra
cui anche la Cacciata di Eliodoro, in cui compare una rara tecnica architettonica con colon-
ne portanti che salgono davanti ai pennacchi fino a sostenere la base della cupola, ripren-
dendo il modello bramantesco. Soluzione diversa, questa, da quella che appare nella chie -
sa di San Bernardino del Di Giorgio, in cui la colonna ha funzione decorativa, mentre il so-
stegno alla cupola è dato dalla trabeazione. La Cacciata di Eliodoro è una figurazione
drammatica, percorsa dal rapido ritmo del moto dei personaggi: le figure sono spinte ai
lati, al centro vi è il vuoto prospettico, che corre dritto all’orizzonte; le luci, che irrompono
dall’alto, si ripetono a vortice sulle curve delle cupole, con mirabili effetti di illuminazione
scenica, il tutto sorretto da un basamento di figure scolpite che rimandano alle cariatidi vi -
truviane. Poco dopo realizza la chiesa di Sant’Eligio degli Orefici, vicino alla Via Giulia, con
impianto a croce greca e cupola centrale, in cui riprende l’uso di schemi a serliana; utilizza
qui un ordine dorico e risolve il problema nell’angolo della trabeazione lasciando inalterate
le metope e collocando una patera a segnare lo spigolo, con una semiparasta inferiore ac-
canto a quella angolare. Tra le sue prime opere architettoniche va ricordata anche la cap -
pella ad Agostino Chigi in Santa Maria del Popolo, interessante per la soluzione di ricerca
spaziale, per la policromia e lo sfarzo che caratterizzano l’ambiente interno, per la quale
trova ispirazione direttamente dal Pantheon. Nel 1514 è nominato architetto della Basilica
di San Pietro da Giulio II, incarico affidatogli alla morte del Bramante, che ne aveva iniziato
la costruzione nel 1506. In questo periodo Raffaello è l’architetto più importante di Roma,
oltre che il primo pittore, e l’anno successivo papa Leone X gli affida anche l’incarico della
conservazione e della registrazione dei marmi antichi. Costruisce Palazzo Branconio
dell’Aquila, altra importante architettura in stile dorico, con trabeazione contratta senza tri-
glifi e metope, con residui delle regule sottostanti e slittamento dei diversi elementi archi-
tettonici verso l’angolo; internamente si cela un cortile con quattro alzati uno diverso
dall’altro, in stile dorico completo. Sempre nello stesso periodo progetta e realizza la resi -
denza per Jacopo da Brescia e Palazzo Querini.
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Su commissione del cardinale Giulio de’ Medici, cugino di papa Leone X e futuro pontefice
sotto il nome di Clemente VII, cominciano i lavori per una villa (chiamata in seguito Villa
Madama, in onore di Margherita d’Austria) ai piedi di Monte Mario, la cui progettazione di
massima viene affidata allo stesso Raffaello, che si avvale dei suoi discepoli per i dettagli
dell’esecuzione dei lavori. Per questo edificio numerosi sono gli esempi presi in riferimen -
to: vi è, ad esempio, la villa quattrocentesca di Poggio Accaiano costruita per Lorenzo de’
Medici da Giuliano da San Gallo, che si presenta come un’architettura all’antica attorno ad
un giardino regolare, con impianto ad “H” e facciata con fronte di tempio, antistante un log-
giato voltato a botte, come pure il soffitto del salone principale. Altro rimando è quello a
Villa Chigi del Di Giorgio, caratterizzata da pochi decori, recinti e cornici che sottolineano
le verticalità, impianto ad ali con pilastri esili in corrispondenza degli archi e paraste
pseudo-corinzie sugli angoli; possibili riferimenti sono anche al teatro marittimo di Villa
Adriana e al complesso dell’Alhambra di Granada, col quale Raffaello viene a contatto gra-
zie ad architetti spagnoli che agli inizi del ‘500 si trovano a Roma. Villa Madama presenta
una facciata ad emiciclo con un solo ordine di grandi finestre, inquadrate da una doppia
cornice di colonne; sono proposti preziosi stucchi di Giovanni da Udine, con fasce verticali
di delicate composizioni a spighe e piccoli medaglioni o riquadri di varia forma geometrica
con figurine e scenette di netta derivazione classica, probabilmente riprese dalle terme ro-
mane. Alle figurazioni in bianco del vestibolo fa invece contrasto la decorazione ricca di
colore della loggia, ispirata ad antichi edifici romani e iniziata, secondo la tradizione, da
Raffaello e portata a termine dai suoi allievi, tra cui lo stesso Giovanni da Udine e Giulio
Romano. Tutta la parte bassa di questa decorazione è stata cancellata quasi completa-
mente, ne rimangono dei piccoli affreschi di soggetto mitologico e letterario in un quadro
ricco di elementi ornamentali come fiori, foglie, panneggi, figurine mitologiche, bestioline e
bizzarri disegni geometrici. Ricca di motivi araldici è anche la decorazione delle due sale
sul lato destro della loggia, con belle finestre a crociera di sapore quattrocentesco. Ma
quella che, dopo la loggia raffaellesca, costituisce il maggior pregio artistico della villa è la
sala detta di Giulio Romano, con uno splendido soffitto a volta e decorazioni di vario stile
in un ambiente molto grande.
L’attività di Raffaello, oltre alle già citate architetture, si fonda inoltre su un numero consi -
derevole di affreschi, pale d’altare e tele, che fanno di lui uno dei disegnatori più grandi e
prolifici del tempo: di lui sopravvivono oggi oltre 400 disegni, mentre molti altri sono andati
perduti nel corso dei secoli. Muore la notte del 6 aprile 1520, alla giovane età di trentasette
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anni. Sulla sua tomba, collocata nel Pantheon, Pietro Bembo scrive: «Qui giace Raffaello,
dal quale la natura temette mentre era vivo di essere vinta; ma ora che è morto teme di
morire».
Baldassarre Peruzzi
Tra le figure più rilevanti del Cinquecento vi è anche Baldassarre Peruzzi, pittore e archi-
tetto italiano che nasce a Siena nel 1481. Conduce il suo apprendistato pittorico nella città
natale e a Roma, dove si dedica allo studio dell'antichità, in particolare l'architettura, e su-
bisce l'influsso dell'arte pittorica del quasi coetaneo Raffaello, con il quale stringe una forte
amicizia. Suo principale maestro è Francesco Di Giorgio Martini, del quale ammira note -
volmente l’austera Villa Chigi: caratterizzata da pochi decori in favore di recinti e cornici
che sottolineano le verticalità, l’edificio ad ali presenta pilastri esili in corrispondenza degli
archi e arretramento delle paraste pseudo-corinzie sugli angoli, in modo tale da far perde -
re la definizione di chiusura delle facciate. Opera del Peruzzi è, invece, Villa Farnesina, si-
tuata nel quartiere di Trastevere, nei pressi di Porta Settimiana, commissionata dal ban-
chiere senese Agostino Chigi (da cui la frequente denominazione di Villa Chigi) e iniziata a
partire dal 1505. Luogo di feste e incontri mondani, cui partecipano cardinali, diplomatici,
principi, artisti e letterati, la villa è lasciata in rovina dopo la morte di Chigi. Nel 1577 la
compra Alessandro Farnese e da allora viene chiamata Farnesina. Simile per certi versi al
Palazzo della Rovere costruito nel 1495 da Giuliano da Sangallo a Savona, qui il Peruzzi
ripropone l’impianto ad ali, con connotazioni più definite, e lega tutto l’edificio con l’uso at -
tento degli ordini, chiaramente visibili e individuabili, grazie alla cornice che attraversa i ca -
pitelli, che appaiono così immersi nella trabeazione, e alla marcatura su ogni facciata delle
paraste doriche: ciò pare inquadrare ogni prospetto da un consistente telaio architettonico
che scomparta e regolarizza i vari ambienti interni. In alto, un elegante fregio a festoni e
putti corre sotto la cornice. Ogni finestra presenta sulla facciata un lieve risalto inferiore,
fino al livello del calpestio interno, mentre ne introduce di nuove aperte nella trabeazione
ed altre appese, per dare luce ai mezzanini superiori ai due livelli principali, in rimando alla
tradizione antica e ai lavori dell’Alberti e del Di Giorgio. Superiormente si trova una piccola
loggia di affaccio sul Tevere caratterizzata da paraste angolari irrobustite da doppie lesene
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laterali, mentre le altre in campata sono ribattute ed inquadrano l’arco. Un’altra loggia, più
ampia, viene aperta al piano terra sul giardino ed è connotata dall’uso di tarsie marmoree
sul pavimento, pilastri associati a paraste e reggenti gli archi e diverse nicchie che proba -
bilmente ospitavano dei busti scultorei. Tale ambiente è chiamato Loggia di Psiche, dal
nome del raffinato ciclo di affreschi eseguiti sulla volta da artisti della scuola di Raffaello,
dedicati alla favola di Amore e Psiche (terminati entro il 1518). Le scene mitiche sono inca-
stonate entro l’intreccio di un finto pergolato dipinto da Giovanni da Udine, in una commi -
stione tra il reale ed il fittizio di colonne, trabeazione, paraste, ecc. In una delle sale conti-
gue con la loggia si trova l'affresco di Raffaello Il trionfo di Galatea, mentre Sebastiano del
Piombo affresca dodici lunette con immagini mitologiche. Dipinge, inoltre, l'immagine del
ciclope Polifemo affiancata all'affresco raffaellesco, mentre il soffitto della sala di Galatea è
dipinto da Baldassarre Peruzzi, che raffigura attraverso temi mitologici l'oroscopo di Ago-
stino Chigi. In realtà una delle lunette risulta estranea alle altre, quella con la cosiddetta te-
sta gigante, poiché non risulta dipinta da Sebastiano e vi è disegnato a carboncino, senza
colori, un grande volto che occupa tutta la lunetta. La leggenda vuole che questo disegno
appartenga alla mano di Michelangelo, venuto in visita all'amico Sebastiano del Piombo,
che avrebbe disegnato questo valido esempio di studio anatomico per "dare una lezione"
al rivale Raffaello, che lavorava al Trionfo di Galatea: leggenda, però, infondata, poiché è
stata dimostrata la paternità del disegno al Peruzzi. Al piano superiore si trova la Sala del-
le Prospettive, decorata dal Peruzzi, secondo tre temi fondamentali di rimando alla tradi-
zione architettonica antica, alla cultura prospettica (resa dall’attento studio della cromia e
della luminosità) e all’esibizione del simulato di colonne e paraste in cui irrompono ele-
menti reali della camera, come finestre e camino. Data l’immensa fama dei suoi stucchi e
delle sue decorazioni di connotazione antica, il Peruzzi viene incaricato di realizzare la vol-
ta dorata per lo studiolo di un cardinale nel Palazzo della Cancelleria a Roma ed il fronte
della chiesa di Santa Maria in Castello, detta la Sagra, esempio di facciata a intersezione
di diversi schemi e ordini architettonici. Nel 1518 papa Leone X Medici indice un concorso
per la realizzazione della Chiesa nazionale di San Giovanni dei Fiorentini a Roma, il quale
è vinto dal Sansovino, sebbene non vi siano disegni che ci mostrano il suo progetto. Si
hanno, però, esempi del Sangallo, di Raffaello e anche del Peruzzi, in un confronto di for-
me ripreso direttamente dal Pantheon. Qui l’architetto senese propone la costruzione di
una corona circolare con cappelle, vani e nicchie di diversa configurazione planimetrica, in
un impianto di partenza a pianta esagonale caratterizzato da alcuni ambienti lungo gli assi.
Il Peruzzi, inoltre, in quegli stessi anni ha modo di distinguersi per i suoi affreschi nella
chiesa di Santa Maria della Pace, soprattutto per la Presentazione di Maria al tempio, in
cui compaiono architetture antiche. L’anno 1520 è segnato dal dolore, in quanto vi muore
Agostino Chigi e l’amico Raffaello. Del 1524, invece, è la realizzazione del palazzo per il
vescovo di Norcia (non pervenuto fino ad oggi), antistante Palazzo Farnese, che propone
piedritti e trabeazione dorici e tuscanici, e colonne tuscaniche, con aspetto simile all’arco
di trionfo antico e con rimando alla serliana. L’esterno presenta mensole triglifate, che sa -
ranno molto usate negli ani seguenti, e finestre incorniciate; una soluzione particolare è
usata attorno alle cornici delle aperture, le quali presentano una mensola in corrisponden-
za della membratura verticale nel caso delle finestre e due nel caso si tratti di porte. Seba -
stiano Serlio, allievo del Peruzzi, nei suoi trattati studia e rileva queste soluzioni, propo-
nendole in diversi disegni. Dal 1514 il Peruzzi è coinvolto nella fabbrica di San Pietro, per
la quale costruzione suggerisce una facciata caratterizzata dalla presenza di tre templi e a
partire da questa presenta numerose altre soluzioni, in particolare nella disposizione plani-
metrica delle cappelle parietali. Durante il Sacco di Roma, nel 1527, ad opera delle truppe
dell'imperatore Carlo V, il Peruzzi si rifugia a Siena, dove diviene architetto della Repubbli-
ca. Qui viene incaricato di rinnovare il sistema difensivo della città: aumenta lo spessore
dei muri, realizzandoli a scarpa, e introduce numerosi bastioni collegandoli tra loro con un
percorso continuo coperto a botte, creando in sommità diverse camere di sparo con più
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aperture per i cannoni (sebbene risultino poco funzionali). Tutta l’architettura è caratteriz-
zata dalla sporgenza di tori e mensole nella trabeazione. Altri interventi del Peruzzi sono
quello riguardante la costruzione di Palazzo Cesi-Follini, dai caratteristici giardini pensili, in
cui riprende alcuni elementi, come i muri a scarpa e i tori sporgenti; altri numerosi progetti
sono per una residenza in Via Fusari, una zona difficile da edificare data l’irregolarità del
lotto, che prevede di realizzare con un portico in facciata, e diversi disegni per il Duomo e
la chiesa di San Domenico. Su volere del papa, che intende finire l’opera del nuovo San
Pietro, torna a Roma nel 1530. Propone un intervento all’interno economico e veloce, che
non prevede la demolizione delle parti già costruite, che intende soltanto chiudere e usarle
come facciata per abside e transetto, in un invaso centrico a tre campate. Parallelamente,
però, porta a limiti estremi la facciata della basilica, per la quale continua con la preceden -
te idea dei prospetti dei tre templi, stavolta riaccostando i due laterali a quello centrali per
mezzo di due portici. Negli stessi anni, la famiglia Savelli chiede al Peruzzi di intervenire
nel progettare la veste definitiva di residenza Orsini, sulle rovine del Teatro di Marcello,
per la quale prevede di ripristinare il livello più basso, interrato per ⅔ dell’altezza; irrobusti-
re la struttura portante, ricavare nuovi ambienti interni e completare il tamponamento ad
arcate ioniche. Nel 1535 inizia uno dei suoi maggiori capolavori, il Palazzo Massimo alle
Colonne, notevole per la sobrietà dei decori e per la convessità della facciata. Già nel suo
progetto di partenza, il Peruzzi prevede di costruire un portico d’ingresso in facciata, sim -
bolo di prestigio e potenza, che rimane come punto base del programma; nella versione
definitiva conserva le murature iniziali e introduce la facciata curva, della quale rifinisce il
bugnato e gli elementi decorativi completamente in stucco. Internamente, vi sono tre porti-
ci di diverse varietà architettoniche. Baldassarre Peruzzi
muore a Roma il 6 gennaio 1536. Il suo corpo è sepolto nel
Pantheon, assieme ad altre personalità della storia dell’arte
italiana, tra cui anche l’amico e collega Raffaello Sanzio.
Giulio Romano
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no ed è presente una trabeazione dorica contratta e senza fregio; la loggia ha colonne ret -
te da piedistalli, modanature appiattite in sommità, verticali tra gli ordini successivi ben
pronunciate, concatenazione di archi senza archivolto ed elementi a serliana. Le finestre
sono appese alla facciata e non hanno quindi sostegni sottostanti; come già detto nelle
mostre di queste aperture sono riprese le volute dei capitelli. Altro edificio che realizza ne-
gli stessi anni è Palazzo Stati Maccarani, situato tra Piazza Navona ed il Pantheon, per ri-
chiesta di un nobile romano. Qui propone un basamento con bugnato pseudo-isodomo
che presenta in corrispondenza dell’ingresso un timpano superiore al portale con bugne
interne al triangolo; superiormente vi sono due piani nobili con finestre a timpano alterno
triangolare o curvilineo inquadrate da fasce continue a quelle del basamento e con trabea-
zione architravata senza fregio. Al piano terra il bugnato si interrompe in corrispondenza
della trabeazione e vi è uno svuotamento murario attorno alle finestre delle botteghe, il che
fa apparire i conci vicini come un grosso assemblato a forma di parasta, ripreso anche nel-
la trabeazione. Molta cura Giulio Romano presta nell’inserire nella struttura pseudo-isodo -
ma delle bugne le aperture, che connota con una piattabanda superiore. Internamente si
cela un cortile, configurato tutto attorno da una sovrapposizione di paraste esili ed allunga-
te rette da piedistalli che riquadrano le diverse altezze delle facciate che danno sullo spa -
zio aperto. Per se stesso, invece, progetta una residenza in un lotto gotico (ovvero stretto
sulla strada e lungo verso l’interno) a Roma, in cui usa un bugnato molto raffinato nel ba -
samento e grosse paraste in cui sono ripresi i conci con un’esile trabeazione superiore,
sopra la quale è ripreso il bugnato. Per fare ciò trae riferimento dal tempio di Claudio, che
presenta tre tabernacoli con colonne e semicolonne conformate da rocchi grezzi non lavo-
rati: l’intento degli antichi era quello di montare in loco pezzi naturali e di rifinirli in un se-
condo momento, per non danneggiarli.
Nella sua abitazione, inoltre, vi sono finestre che si stringono leggermente verso l’alto e
presentano la parte inferiore raffigurata. Tale facciata è ricostruita di recente in scala 1:1 in
una mostra su Giulio Romano a Palazzo Te, sua massima opera.
Nel 1524 accetta l’invito di Federico Gonzaga, signore di Mantova e grande mecenate, e si
trasferisce nella città lombarda per progettare una serie di opere ingegneristiche, architet-
toniche e pittoriche. Qui la sua prima opera architettonica è Palazzo Te: si tratta di un edifi-
cio di un solo livello (vi è soltanto un mezzanino superiore) a pianta quadrata, con al cen-
tro un grande cortile anch’esso quadrato, con quattro entrate sui quattro lati. L’entrata prin-
cipale verso il giardino è una loggia, che presenta arcate tetrastile e serliane. Inizialmente
tale loggia ha la campata centrale più ampia delle due laterali, che Andrea Pozzo regola -
rizza nel Settecento, per dare un aspetto più antico. Tra le sue modifiche vi è anche il
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grosso timpano superiore dotato di un lungo percorso aperto e il riordino delle verticali del-
la facciata, a cui Giulio Romano non dà alcuna simmetria. Originali del Cinquecento è, in -
vece, la successione di ordini quali grosse colonne doriche inferiori sormontate da altre
ben più piccole con volute ioniche: tale salto di proporzioni è riscontrabile in epoca antica
nelle terme di Diocleziano, che presentano nicchie con tabernacoli decorati da colonne e
trabeazione, o anche nell’arco di Costantino, con schermo di colonne libere su piedistallo
e trabeazione su un fondale retrostante di paramento raffigurato. Tutta la superficie ester-
na di Palazzo Te è trattata a bugnato, comprese le cornici delle finestre e delle porte, e
presenta un ordine gigante di paraste lisce doriche, che si addensano sugli angoli; molto
usati sono gli stucchi, i mattoni ed i materiali gettati. Gli intercolunni non sono tutti uguali e
danno l’impressione di disordine, mentre le campate sono caratterizzate da finestre dise-
gnate da conci e segnate dalle verticali. In facciata, in corrispondenza dell’angolo dell’arco
di accesso, vi è un’interruzione delle scene raffigurate risolta con l’utilizzo di una piccola
colonna posta proprio sullo spigolo, che torna ad offrire una discordanza di scala. Nella
sala di Psiche la decorazione a fresco dedicata alla potenza dell'amore è tra i cicli più noti
della pittura italiana: sono qui raffigurati grossi capitelli pensili ed esili padiglioni da giardi -
no che fingono di reggere la struttura della stanza. La stessa funzione è data ad una sta -
tua di cariatide dalle alte proporzioni posta a lato. L’innovazione e la varietà sono compo -
nenti fondamentali in questa architettura di Giulio Romano: troviamo sul lato ovest
un’apertura a vestibolo quadrato, con quattro colonne che lo dividono in tre navate, la cen-
trale coperta con una volta a botte e le due laterali con un soffitto piano, con grosse colon-
ne doriche non finite e volta scavata a grandi lacunari ottagonali. La loggia delle muse,
così chiamata per le immagini rilevate a stucco sulla volta, dà accesso all'ampio cortile, la
cui trabeazione presenta il motivo dei triglifi cadenti, in cui è lasciata una parte vuota nella
zona superiore, per dare l’idea di caduta e di rovina dell’architettura. Nella zona sottostan-
te al triglifo compare un concio del bugnato più grosso e sporgente rispetto agli altri, men-
tre ancora più sotto vi è il timpano bugnato delle finte finestre che pare spingere verso
l’alto, a contrasto del triglifo. Famosa è la sala dei Giganti, celebrata per il potere di coin-
volgimento che esercita sullo spettatore: in una sorta di configurazione a grotta, la volta e
le pareti, dipinte senza soluzione di continuità lineare e di sostegni, rappresentano la rovi-
na dei giganti fulminati da Giove e travolti dal crollo delle falde dell’Olimpo. Unico punto
saldo è il loculo centrale alla volta, attorniato da un giro di lacunari circolari. A fianco, la so-
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brietà torna ad essere protagonista nell’imponente e trionfale sala dei cavalli, dalle pareti
ornate da una ricca architettura dipinta scandita da lesene corinzie e nicchie con finte sta -
tue, che inquadrano sei cavalli delle famose scuderie dei Gonzaga.
Degli inizi degli anni ’30 è l’appartamento Troia all’interno del Palazzo Ducale, con nume -
rosi busti e raffigurazioni che celebrano l’omonima guerra antica. La loggia ha una testata
che rimanda alla serliana e denota caratteristiche tipiche della scuola raffaellesca; è anche
evidente il dialogo con lo stile dell’Alberti (che introduce per primo l’arco che sormonta la
trabeazione), poiché qui Giulio Romano crea il meccanismo opposto della trabeazione che
taglia l’archivolto, tornando a mettere in dubbio la funzione portante dei due elementi, in
favore della pura decorazione. Questo ambiente è affiancato dal giardino, che si trova in
posizione centrale rispetto ai due contrapposti spazi abitativi. La facciata presenta sequen -
za di archi inferiori bugnati con un livello superiore di colonne tortili a scanalature spiralifor-
mi (con riferimento alla pergola costantiniana di San Pietro) con fregio soprastante dorico
e attico. Qui la soluzione delle bugne acquista forma a diamante ed è posto il triglifo in
asse con il capitello delle colonne, sebbene compaiano diversi errori nella simmetria di
metope e triglifi. Sotto l’appartamento vi è una grotta artificiale voltata in richiamo alla natu-
ra. Anche qui a Mantova Giulio Romano realizza un’abitazione personale, intervenendo su
un edificio già esistente, a cui cambia alcuni spazi interni e crea una facciata. Non vi è un
uso proprio degli ordini architettonici, piuttosto il bugnato è impiegato in forma di parasta, e
vi è un uso antico dei decori a doppio meandro delle cornici delle finestre; è ripreso da Pa -
lazzo Te il timpano bugnato con la chiave di concio che spinge verso l’alto. Pure su
quest’architettura interviene secoli dopo Andrea Pozzo, aggiungendo delle campate, spo-
stando il portale in posizione più simmetrica, portando alcune modifiche al taglio delle fine-
stre e alla forma delle nicchie.
Ridisegna in seguito la chiesa di San Benedetto in Polirone, un edificio a tre navate con
cappelle laterali a cui lascia la struttura a serliana e aggiunge il nartece e la copertura
dell’abside (detta catino); riveste, inoltre, le volte a crociera ed i pennacchi e per le campa-
te interne usa capitelli immersi in differenti soluzioni. La campata ritmica in facciata risale
al Settecento, mentre egli interviene introducendo una sequenza di timpani e semitimpani
sopra gli archi (in richiamo all’antico emiciclo degli archi traianei) e allarga sempre più le
campate dalle paraste, in modo tale da far coincidere i loculi aperti nel prospetto con le
cappelle. Si trova pertanto ad avere un’irregolarità in facciata, che riorganizza mantenendo
inalterato l’arco e modificando la trabeazione. Impiega capitelli pseudo-corinzi con vaso
scanalato e foglie di palma al posto dell’acanto, mentre vi sono in corrispondenza dei por -
tali delle unità murarie sporgenti dalla facciata. Altro edificio sacro frutto del suo talento è il
Duomo di Mantova, la cui faccia-
ta è ritoccata nel Settecento. La
chiesa ha origini romaniche, su
cui Giulio Romano interviene per
ordine del cardinale Ettore Gon-
zaga e porta le navate da tre a
cinque, man mano più basse e
con le laterali voltate a botte con
lacunari, oltre alle cappelle mar-
ginali, alternate a botte e rettan-
golari (com’era solito fare Alber-
ti). Sostituisce i pilastri ottagonali
in cotto con colonne (corinzie per
base e capitello, in rimando al
Pantheon) portanti che reggono
la trabeazione soprastante e uti-
lizza una sorprendente varietà artistica su paraste ed altri elementi decorativi. Lo stesso
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Sansovino s’ispirerà a Giulio Romano, riprendendo tecniche e motivi architettonici, fino ad
acquisire un proprio stile autonomo e personale.
Jacopo Sansovino
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centrale, crea due grossi scaloni trionfali a doppia rampa accessibili dalle logge interne.
Nel 1529 è nominato proto, cioè massimo architetto della Repubblica, e in tale occasione
gli viene affidata la ristrutturazione completa di Piazza San Marco, che prevede la costru -
zione della Zecca, della Libreria Marciana e di una piccola loggia sotto il campanile, punto
di ritrovo di politici e magistrati. Inizia con la progettazione della Zecca, un edificio di forte
carica simbolica a ridosso del palazzo dogale, con caratteristiche gotiche ed innovazioni
romane: qui sono contenuti tutti i macchinari per la coniazione delle monete della Serenis-
sima, oltre ad alcuni uffici. Lo stabile, di forma pressoché rettangolare, ha un accesso di-
retto dall’acqua ed un altro laterale da terra, e presenta l’affaccio sul bacino con basamen-
to bugnato molto raffinato in pietra
(materiale usato anche all’interno, poiché a prova d’incendio, contrariamente a quanto ac-
cadeva per le opere di Giulio Romano e Bramante), con tessitura isodoma a concio intero
sporgente e rientrante quello doppio. Il piano in-
feriore presenta archi, mentre superiormente si
alzano colonne doriche bugnate e in rilievo, con
membrature laterali sporgenti che richiamano la
trabeazione sopra le finestre (che a sua volta ri-
manda al disegno delle presse della Zecca). Un
successivo livello e l’aggancio laterale con la Li-
breria sono aggiunti nella seconda metà del Cin-
quecento. Gli spazi interni presentano un grande
cortile, coperto nel Novecento, che ripresenta al
piano terra lo stesso bugnato della facciata, da
cui salgono le paraste legate agli archi, il tutto
caratterizzato da decori poveri come triglifi lisci,
balaustre semplici e scarsi segni architettonici.
Gli edifici produttivi a lato sono coperti da grossi
archi di pietra in cui è applicato un bugnato scol-
pito tra le volte, mentre la copertura della zona
intermedia tra il cortile e l’ingresso dal bacino
presenta figure astratte scolpite nella pietra con
travi bugnate di divisione. Un grande scalone a
farfalla sale ai livelli superiori e divide in due gli
spazi interni.
A lato della Zecca si trova la Libreria Marciana, in cui il Sansovino interviene allontanando
gli edifici dal campanile e dando così un nuovo assetto alla piazza. Prevede per quest’altra
architettura di inserire ben diciassette campate a partire dal campanile fino a ridosso della
Zecca, un tempo staccata e in seguito portata a filo. Il livello inferiore presenta una loggia,
il cui ingresso è scandito da grosse cariatidi (come per il precedente intervento), mentre il
piano superiore ospita gli ambienti per la lettura ed il deposito dei libri: in tal modo la fac-
ciata è scandita in due ordini sovrapposti con archi (in richiamo al Palazzo Ducale) e semi-
colonne doriche al piano inferiore e ioniche a quello superiore; il secondo livello presenta
finestre con balaustra e due colonne laterali per parte, in rimando alla serliana, che com-
porta, però, un restringimento della campata, che non è più in asse con quella sottostante.
Inoltre, la facciata presenta una trabeazione riccamente scolpita, con modanature, ovuli e
rilievi a festoni, ed è coronata da una balaustra sopra la quale svettano statue realizzate in
stile greco-romano, a connotare la tipologia dell’edificio politico. Nel corso del Cinquecento
la volta del livello superiore è decorata dai maggiori pittori veneziani, sebbene essa abbia
dato enormi difficoltà costruttive al Sansovino: inizialmente, infatti, non conoscendo ancora
in maniera esauriente la tradizione veneziana basata su false volte a pianta quadrata, egli
costruisce degli archi a tutto sesto che ben presto crollano ed è pertanto mandato in pri -
gione. Dopo essere uscito da carcere, interviene costruendo finte volte ribassate su cui
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nasconde le capriate portanti l’intero peso della copertura, più adatte al terreno su cui Ve -
nezia poggia, di scarsa o quasi nulla portanza. Particolare attenzione è prestata nell’ango-
lo della Libreria, articolato con un pilastro che presenta sulle due facce laterali delle para -
ste, a cui sono affiancate le semicolonne delle campate. Egli conserva il ritmo dei triglifi
ponendo una semimetopa che rigira sull’angolo; tuttavia si tratta di una soluzione debole,
poiché comporta asimmetrie nei capitelli e nelle basi delle paraste negli spigoli della fac-
ciata. La simmetria è, invece, data secondo la visuale diagonale all’angolo del pilastro,
operazione che il Sansovino riprende direttamente dal Palazzo Ducale. Ultimo intervento
su Piazza San Marco consiste nella loggietta sotto il campanile, un unico ambiente che
presenta facciata trionfale ad archi con balcone antistante. A lato vi è una struttura a ser -
liana, il cui gioco di cerchi (intero sull’arco e a metà a ridosso della trabeazione inferiore)
rimanda a Bramante e a Palazzo Rucellai di Alberti, in cui compare il sistema di trabeazio -
ne ed arco. Vi è un uso ricco dei materiali, con fusti monolitici, marmi diversi, rilievi e sta -
tue scolpite dallo stesso Sansovino, e una panca inferiore sostenuta da grosse mensole,
per consentire una sosta ai dirigenti che dovevano entrare a palazzo. Ciò che oggi si vede
di questa architettura, non risale al Cinquecento, ma risulta essere una ricostruzione, poi -
ché circa un secolo fa campanile e loggietta sottostante sono crollati, insieme a parte della
Libreria.
Dopo la sistemazione di Piazza San Marco, il Sansovino realizza Palazzo Corner a San
Maurizio, un impianto che affaccia direttamente sul Canal Grande, con ambiente passante
centrale che apre su un cortile. Il prospetto presenta apertura tripartita con bugne in rilievo
ad inquadrare la sala passante, in richiamo al fronte nord di Palazzo Te di Giulio Romano.
Vi è qui un’enfatizzazione della facciata libera e scarica dai pesi, con il conseguente utiliz-
zo di diverse vetrate, mentre compare un particolare gioco in corrispondenza dell’angolo
sinistro, in cui sono interrotte le linee verticali, il fregio e la cornice in vicinanza dello spigo -
lo, in modo tale da lasciarlo in bianco. Ciò ha l’intento di mostrare la sua architettura come
uno schermo applicato ad una struttura sottostante, come se fosse un semplice disegno
decorativo. Al piano inferiore le colonne in facciata presentano schema a conci, ed il bu-
gnato è ripreso nei triglifi della trabeazione, non definiti quelli sopra le finestre e lavorati
quelli sopra le colonne, pensati come portanti secondo la concezione vitruviana. Altro in-
tervento è Villa Garzoni a Ponte Casale, composta di due porzioni laterali piene con un
loggiato centrale di due livelli di ordine dorico e ionico sovrapposti, in riproposizione al
tema architettonico proprio della Farnesina e del Belvedere vaticano. Internamente si cela
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una volta ribassata con scomparti ed intagli, mentre l’impianto ad “U” della villa si apre sul
paesaggio tramite un cortile.
Altre opere veneziane sono l'interno di Santa Maria della Misericordia, la chiesa di San
Francesco alla Vigna, la Tribuna del Duomo, la chiesa di San Martino, la Scala d'oro nel
Palazzo Ducale.
Andrea Palladio
Tra i maggiori architetti del tardo Rinascimento c’è anche Andrea Palladio, nato a Padova
e formato nella città di Vicenza, parte della Repubblica Veneziana, dove intraprende le sue
prime opere. Cresce nella bottega di Gian Giorgio Trissino, dimostrando da subito grande
talento e grazie al quale ha modo di venire a contatto con ricchi committenti e illustri artisti
come Giulio Romano, il Sansovino, Sebastiano Serlio e Michelangelo. Con il suo maestro
si reca a Roma, dove può conoscere e studiare gli antichi monumenti, le rovine romane e
Vitruvio. Scrive, così, un saggio sulle rovine romane e il trattato I quattro libri dell'architet-
tura del 1570, di grandissimo successo, nel
quale esprime i principi teorici della propria
arte. Tra le sue prime opere vi è Villa Pisani,
imperniata attorno ad uno spazio centrale che
articola i lati dell’edificio, ognuno composto di
tre ambienti; la parte centrale presenta un log-
giato bugnato, mentre i due avancorpi laterali
sono simili a due torri, con bugne che vengono
riprese nell’angolo della facciata e nelle cornici
delle finestre inferiori. Altra architettura palla-
diana è Villa Poiana, d’ispirazione agli antichi
ambienti termali di Roma: qui rinuncia quasi to-
talmente ai particolari decorativi, vi sono men-
sole appiattite, linee misurate, superfici sobrie,
di grande armonia. Punti focali del prospetto
sono l'originale serliana con cinque ovuli e il
timpano aperto e segnato ai lati. Privo di capi-
telli e trabeazioni, l'ordine è appena accennato
nell'articolazione essenziale delle basi dei pila-
stri. Di tono completamente diverso è Villa Barbaro a Maser (Tv), realizzata per dei ricchi
aristocratici e funzionari veneziani, che porta caratteristiche innovative: il timpano questa
volta è riccamente decorato e nel fregio compare un’epigrafe, mentre appena sotto spezza
la trabeazione in corrispondenza dell’arco (soluzione da lui criticata nei suoi trattati, proba -
bilmente usata su richiesta del committente). Netto è il richiamo per la parte centrale alla
forma del tempio antico, il quale ai lati presenta due barchesse con funzione di deposito e
magazzino, mentre sul retro viene fatto un ninfeo (sempre per volere del committente) in
rimando alla tradizione classica, con statue in nicchie rettangolari e circolari e timpano ri -
curvo che sale. A ridosso della villa realizza il tempietto, in rivisitazione del Pantheon, con
pronao esastilo, cupola e lanterna.
Tra le sue opere più famose vi è Villa Foscari la Malcontenta, costruita a Mira sul canale
del Brenta. Il magnifico prospetto in stile classico verso il fiume è dominato da un pronao
ionico poggiante, come l’intero edificio, su un alto zoccolo, con a lato una scala a doppia
rampa che consente l’accesso. In alto si nota il doppio timpano, mentre meno solenne ri -
sulta la facciata bugnata verso terra, aperta da numerose finestre, per consentire la piena
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illuminazione degli ambienti interni. Completamente diversa è la facciata retrostante, in ri -
mando all’età imperiale.
Altra magnifica architettura è quella di Villa Capra, detta la Rotonda, senza dubbio ispirata
al Pantheon e prevista quale soggiorno unicamente diurno. La pianta è quadrata con ripar-
tizione simmetrica degli ambienti, raggruppati intorno ad un salone circolare ricoperto da
una cupola di undici metri di diametro. In ognuna delle quattro facciate si trova un classico
pronao con colonne ioniche e timpano a dentelli. Inizialmente la cupola centrale è pensata
dal Palladio come una copertura aperta e per tale scopo pone al centro della sala sotto -
stante un cerchio per lo scolo dell’acqua. Altro intervento di rilievo è la sistemazione della
facciata e della struttura esterna della Basilica, o Palazzo della Ragione, a Vicenza. Nel
1549 è indetto un concorso, al quale partecipano anche Sansovino, Serlio, Sanmicheli e
Giulio Romano, ma vinto dal quarantenne Palladio: con le sue logge classicheggianti risol -
ve i difficili problemi statici e con l'uso della serliana scandita da semicolonne adotta un in-
gegnoso stratagemma per nascondere le differenti distanze tra i pilastri ereditate dai pre-
cedenti cantieri, mantenendo inalterata la dimensione dell'arco e variando quella delle
aperture laterali. In sostegno alle serliane, che presentano i classici ovuli, pone due colon-
ne per lato e propone la soluzione dell’angolo irrobustito con doppia semicolonna ed ele -
menti di scarico come pilastri e trabeazione. Sempre a Vicenza, di fronte alla Basilica, nel
1571 il Palladio realizza la loggia del Capitaniato, residenza del Capitanio (autorità militare
istituita dal governo di Venezia). Le tre arcate imponenti del portico sono sottolineate dalle
semicolonne dell'ordine gigante che giungono fin sotto la balaustra dell'attico, secondo
uno stile caratteristico delle opere più tarde del grande architetto veneto; stucchi bianchi e
statue di pietra creano un effetto di contrasto sulla superficie dei mattoni rossi del para-
mento murario.
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A partire dagli anni ’60 il Palladio è a Venezia, in qualità di proto della Repubblica. Qui gli
viene da subito affidato l’incarico di costruire il convento di Santa Maria della Carità, un
grande chiostro con ordini sovrapposti di archi inquadrati e soprastante paramento mura-
rio. L’atrio ha connotazione antica di un enorme loggiato aperto che combina dimensioni ri-
strette con le proporzioni giganti delle colonne, voluto con il preciso intento di colpire i visi -
tatori. Il complesso è andato distrutto in un incendio, ma si è conservata una delle pareti,
con l’ordine superiore e i decori (fregio e ghirlanda) che rimandano al Colosseo; sopra le
aperture, tra le varie modanature sono disposti dei mattoni che assumono funzione di piat-
tabanda, un tempo intonacata. L’edificio presenta ricchi decori nella parte interna, mentre
all’esterno scompaiono completamente gli ordini e sono lasciate sono le quote e le linee
orizzontali. Il Palladio, però, nel centro di Venezia non ha molta fortuna: a differenza del
Sansovino, egli non cerca un dialogo con la tradizione veneziana, ma usa uno stile del tut -
to estraneo; i progetti da lui proposti per la ristrutturazione del Ponte di Rialto e di Palazzo
Ducale non vengono realizzati, mentre gli sono affidati interventi in zone non proprio cen -
trali della città, lontane da Piazza San Marco,
come la Giudecca, San Francesco della Vi-
gna e San Giorgio. Tra gli edifici più riusciti si
trova il Redentore, sull’isola della Giudecca,
che presenta impianto misto a pianta longitu-
dinale e centrale con ambienti laterali, con un
singolare quanto splendido transetto costituito
da tre absidi comunicanti con la grande cupo-
la centrale, dove trovava posto la classe nobi-
le di Venezia. La zona del presbiterio presen-
ta un particolare pilastro ottagonale, pennac-
chi non triangolari e giro di colonne a chiudere
il terzo abside, mentre le campate laterali
sono risolte con grandi semicolonne con nic-
chie interne alternate agli archi delle cappelle,
con richiamo ad alta scala dei pilastri a farfalla
di San Pietro, che il Palladio usa come canale
visivo a chiusura della prospettiva. Le alte co-
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lonne reggono una trabeazione, sulla quale poggia una volta a botte in rimando all’età im -
periale, sebbene attaccati alla cupola vi siano due sottili campanili cilindrici, con tetto a
cono, simili a minareti della tradizione islamica; per la cupola ovvia è l’ispirazione a quella
della Basilica di San Marco. L’interno è a navata unica, con imponenti e decorate cappelle
laterali. Grande importanza ha la luce, come in tutte le opere palladiane, vera protagonista
dell’interno, che valorizza volumi e decorazioni. La facciata di marmo bianco, che combina
due fronti di tempio in pieno stile bramantesco, presenta al centro un pronao murario con
paraste angolari e semicolonne centrali che inquadrano il portale; le porzioni laterali han-
no, invece, sostegni e linee meno definite e marcate, sebbene le membrature intendono ri-
chiamare quelle del corpo centrale. Oltre a questa facciata principale, vi è un altro timpano
e due corpi laterali retrostanti il primo, in richiamo alla facciata del Pantheon: il timpano su-
periore presenta, quindi, semitimpani laterali ripresi due volte, di cui quelli situati dietro con
funzione di contrafforti, più arretrati rispetto alla facciata; in profondità ne compaiono altri,
a stabilizzare le campate interne. Il livello di raffinatezza tra i vari ordini è portato dal Palla -
dio ad un grado altissimo: sebbene cambino gli elementi sono mantenute le stesse quote
e proporzioni, in un contrapporsi di superfici lisce, di lesene e di lunette con statue, osten-
tando stabilità e rigore classico. Un tema simile a già affrontato qualche anno prima dal
Palladio nella chiesa di San Francesco della Vigna, iniziata dal Sansovino. Qui realizza la
facciata con pronao centrale e semipronai laterali, non così accentuati come per il Reden-
tore. Il portale centrale presenta piccole colonne laterali che poggiano sullo stesso piedi -
stallo di quelle giganti che scandiscono la facciata a tempio. Anche qui le modanature oriz-
zontali sono riprese ed appiattite, come succede per il Pantheon e negli archi di trionfo.
Michelangelo Buonarroti
Scultore, pittore e architetto del tardo Rinascimento, artista geniale e inquieto, è tra i mas-
simi protagonisti dell’arte italiana. La sua longevità lo portano a conoscere tutti i maggiori
maestri, committenti e pontefici del tempo, per i quali ha modo di realizzare numerosissi-
me opere d’arte. A tredici anni è già a bottega dai Ghirlandaio. Dopo un anno, tuttavia,
preferisce avvicinarsi a Bertoldo di Giovanni e studiare le sculture antiche nel giardino di
Lorenzo de’ Medici, nel quale apre una propria bottega. Uno dei suoi primi lavori potrebbe
essere una parte del cilindro superiore di Castel
Sant’Angelo, che presenta una campata centrale fine-
strata con paraste e piccole nicchie laterali, in cui inseri-
sce alcuni balaustrini fuori però dal contesto d’insieme: il
perseguimento della novità sarà una delle sue principali
caratteristiche. Viene consultato anche per la facciata di
San Lorenzo a Firenze, il cui disegno prevede un siste-
ma basamentale largo, con parte centrale con timpano,
doppie colonne, serliana e due tabernacoli con nicchie ai
lati; posiziona pilastri dorici sul fondo e paraste laterali
ioniche in cui inserisce un ordine minore che regge una
targa, in un complesso visto non come una lastra, bensì
come parte aggregata anch’essa costruita come il resto
della chiesa. Michelangelo propone anche altre varianti,
progettando la zona inferiore con al centro colonne libe-
re che connotano in maniera forte il fronte a tempio, op-
pure, riprendendo uno schema del Sansovino, prevede
di ridurre la facciata man mano che si procede verso
l’alto, con la porzione centrale dominante su due livelli e
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con le laterali che richiamo, in maniera più ridotta, gli elementi centrali, in un progetto simi -
le a quello raffaellesco. In un’altra soluzione non presenta più il basamento, ma un grande
unico schermo dal grande impatto decorativo, sebbene il progetto di cui realizza il modello
ligneo sia più sobrio e a schema unico, con elementi continui dei due livelli e colonne libe-
re ai lati che si collegano al resto della chiesa. Altri disegni per questa facciata apparten-
gono a Giuliano e Antonio da Sangallo. Tra il 1515 e il 1516 Michelangelo interviene chiu-
dendo la loggia basamentale di Palazzo Medici con quella che il Vasari chiama finestra in-
ginocchiata, costituita come un tabernacolo poggiante su grandi mensole inferiori, con
membrature e decori ridotti a favore del volume e della forma dell’architettura, che appare
estranea rispetto all’intero palazzo. Con questo intervento egli auspica di assumere l’inca-
rico di ristrutturare l’intero edificio, ma i Medici gli commissionano la Sacrestia Nuova e la
Biblioteca Laurenziana, entrambe ospitate nella Basilica di San Lorenzo. La Cappella Me-
dici, così come viene chiamata la sacrestia michelangiolesca per il fatto di ospitare le tom-
be di famiglia, è risolta in maniera differente da quanto fatto dal Brunelleschi per la Sacre -
stia Vecchia. L’impianto è speculare a questo ultimo, da cui riprende il telaio bicromo di
pietra, ma qui Michelangelo allestisce tutte le pareti e v’introduce maestosi gruppi sculto-
rei; la cupola emisferica è retta da archi e pennacchi, in una struttura d’insieme molto sem-
plici e dai decori ridotti, come se fosse quasi una gabbia. A lato di ciascuna parete, dispo -
ne negli angoli alcune aperture riquadrate da paraste e trabeazione, con tanto di archi nel-
la zona inferiore; nella parte superiore, per evitare che gli arconi taglino le piccole paraste
(non identificabili in un ordine preciso) a fianco delle finestre, interrompe entrambi gli ele -
menti, affiancandoli semplicemente sopra la trabeazione. Si vede chiaramente come vi è
un infittirsi di elementi in corrispondenza degli angoli delle pareti, specie attorno alle nic-
chie e alle porte inferiori, con particolari volute che reggono il telaio del tabernacolo, che
tra l’altro invade e interrompe la trabeazione del timpano superiore, entrandovi dentro. Sul -
le pareti che ospitano le tombe, continua il gioco tra la sobrietà delle architetture ed i pochi
elementi decorativi, come paraste con volute inverse e conchiglie al posto della rosetta
dell’abaco. In contrapposizione di tutto ciò sta la scarsella, più spoglia e sobria, che pre-
senta cupola con lacunari trapezoidali radiali dipinti che tendono a stringersi verso l’alto, in
rimando alla finestra del tempietto di Tivoli.
Come già detto, Michelangelo progetta in questa basilica anche la Biblioteca Laurenziana,
luogo in cui ospitare i preziosissimi codici medicei. Problemi iniziali riguardano la struttura
dell’edificio, non proprio semplice, che viene orientato in modo tale da avere le finestre in
posizione ottimale ad est ed ovest. E’ previsto un ambiente cubico di accesso, una lunga
sala longitudinale di lettura e un ambiente triangolare conclusivo. Il grande quadrato
d’ingresso presenta potenti colonne binate in pietra serena che servono per alzare le pare-
ti, in modo tale da aprirvi le numerose finestre necessarie a far entrare la luce: per ragioni
strutturali non può spostare le colonne dal filo del muro e perciò le incassa al suo interno,
con funzione monumentale e portante, a differenza di semicolonne che sarebbero state
puramente decorative (in ciò prende
esempio dal Battistero di San Giovan-
ni). Vi è un attento gioco di nicchie
commentate da rientranze murarie e di
trabeazione, salvo lasciare alcune cam-
pate completamente bianche per au-
mentare il contrasto con quelle lavora-
te: a tal fine usa paraste strette in bas-
so e più larghe sopra (mai usate prima)
e modanature interne alle nicchie, posi-
ziona ulteriori lesene dietro e a lato del-
le cavità in cui sono inserite le colonne,
mentre il portale di accesso presenta
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timpano sporgente sulle colonne e riquadro della porta che emerge sulle paraste laterali.
La scalinata è realizzata dopo la partenza di Michelangelo per Roma, dove è impegnato
per San Pietro, e non si sa di preciso se corrisponda al suo progetto: non potendo costrui-
re due rampe laterali per ovvi motivi tecnici, si decide per una scala centrale a tre rampe,
in cui le laterali, divise da balaustre e con tanto di panca, confluiscono in quella intermedia,
dai caratteristici gradini ovali che presentano un cambio di curvatura alle estremità, in con-
trasto con quelli rettilinei laterali. Viene realizzata in pietra, sostituendo il legno di noce vo-
luto dal Buonarroti. Inizialmente questo ambiente
è previsto di soli due livelli, cui ne è stato aggiunto uno più tardi per avere maggiore illumi-
nazione. L’interno della sala di lettura è, invece, scandito da paraste abbinate alle fila di
banchi, disegnati personalmente da Michelangelo come parte integrante dell’architettura e
alti quanto il basamento su cui poggiano le paraste, con spazio centrale percorribile. Tra le
paraste si aprono le finestre inquadrate da cornici e campiture, mentre il soffitto presenta
lacunari larghi come le campate dei banchi, con disegni a losanghe e parte centrale che ri-
pete le figurazioni del pavimento. Al termine della sala si apre una stanza privata per la let-
tura, dalla particolare forma triangolare con nicchie a timpano alterno sui muri perimetrali
(sebbene Michelangelo sia solito utilizzare nei suoi progetti il solo timpano circolare).
Verso la fine degli anni ’20, dopo il Sacco di Roma da parte dei mercenari di Carlo V, Fi -
renze è assediata dall’esercito imperiale e da quello del papa: i Medici sono alle strette e
Michelangelo progetta allora nuove fortificazioni, partecipando attivamente alla difesa della
città fino alla capitolazione. Le mura, disegnate dal Peruzzi qualche anno prima, sono raf -
forzate con bastioni dall’aspetto zoomorfo con assetto circolare cavo verso l’interno, fino
ad assumere forme innovative a linee spezzate, per garantire una migliore copertura di
fuoco da parte di Firenze, per cui il Buonarroti effettua un vero e proprio lavoro di design
dell’architettura militare. Perdonato da papa Clemente VII per avere appoggiato il governo
repubblicano, a Firenze si sente ormai a disagio e dagli anni ’30 si sposta prima a Venezia
e poi si reca definitivamente a Roma dove, morto il papa Medici, compie per Paolo III Far-
nese l'opera della piena maturità, il Giudizio Universale della Cappella Sistina. Oltre ad oc-
cuparsi, come già detto, del progetto per San Pietro, il papa gli affida l’incarico di ripristina-
re la piazza e gli edifici del Campidoglio, luogo del potere municipale di Roma. Il progetto,
pur rispettando l'impianto delle strutture preesistenti sui tre lati, prevede la demolizione
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delle torri, delle logge e delle finestre ineguali che sono state aggiunte agli edifici nel corso
dei secoli e comporta un ingresso in salita alla piazza con una rampa percorribile a cavallo
e balaustra finale con statue e trofei, mentre l’ovale disegnato al centro della pavimenta -
zione richiama caratteri tipici francesi; nel 1538 è posta al centro della piazza la statua
equestre bronzea di Marco Aurelio (attualmente conservata nei Musei Capitolini), che Pao-
lo III fa portare qui dal Laterano, a cui Michelangelo aggiunge il piedistallo sottostante. La
trasformazione del Palazzo Senatorio è eseguita dopo la sua morte, tra il 1582 e il 1605,
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1:1 che colloca in prova sul prospetto: essa presenta innovativo gocciolatoio e guscia su -
periore decorata con clave di Ercole e leoni. Realizza anche l’ultimo piano dei tre che af-
facciano sul cortile, in cui riprende in maniera del tutto
nuova alcuni elementi antichi: usa una doppia cornice
attorno alle finestre, semplice verso l’interno e più ela-
borata quella esterna, con triglifi e teste di leone; in-
nalza il timpano delle finestre con elementi sottostanti
a sorreggerlo, fuori asse rispetto agli elementi verticali
delle cornici, perché posizionati verso l’interno. Intro-
duce singolari decori con ghirlande e protome ovine
agganciate ai due anelli laterali. Di ciò Filippo Juvarra
realizza un disegno, in cui compare la trabeazione
con maschere grottesche nella seconda fascia, solu-
zione del triglifo con sporgenze inusuali e parte alta
con guscia, tipicamente medievale.
Tra i progetti di Michelangelo vi è anche quello defini-
tivo per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, ferma
su carta da ben trenta anni. Infatti, né il Sansovino, né Antonio da Sangallo sono riusciti a
darne una soluzione decisiva. Michelangelo propone una pianta centrale, interpretandola
in diverse versioni: in una prima pensa ad un ambulacro con spazio laterale circolare inter-
rotto da colonne concentriche e ambienti vari, in maniera simile al Pantheon; al centro
pone un baldacchino reggente una volta a botte anulare, sostenuta anche dalle colonne
addossate alla struttura sottostante: questo sistema è ripreso, invece, dalla chiesa di San-
to Stefano Rotondo, un’architettura antica ripristinata dal Rossellino, che presenta molte -
plici giri concentrici di colonne. In una seconda versione lascia il nartece di ingresso (pre -
sente anche in quella precedente), ma l’impianto presenta enfatizzazione dei soli assi dia-
gonali, caratterizzati da diversi ambienti, le cui verticali sono riprese dai costoloni della vol -
ta soprastante. Di un ulteriore adattamento realizza anche un modello ligneo con colonne
binate e corona di quattro cappelle diagonali, alternate ad accessi identificati da quattro
colonne libere all’interno, di cui uno chiuso che conserva l’altare. Questa soluzione riman-
da a diversi esempi del Quattrocento e anche agli antichi sepolcri romani, che hanno ac-
cesso con quattro colonne. Un’altra versione presenta, invece, le colonne traslate verso il
muro, interno scandito da nicchie e ulteriori colonne riprese anche al livello superiore, su
cui poggia un tamburo indipendente privo di corrispondenze con l’esterno su cui fonda la
cupola: anche per ciò attento è lo studio del Pantheon.
Altra opera di Michelangelo è la Cappella Sforza a Santa Maria Maggiore, un edificio di
piccole dimensioni, per il quale propone inizialmente diverse soluzioni per il tipo di invaso,
salvo poi decidere per un impianto centrale in cui sono aperti diversi spazi a curvatura
schiacciata, di cui uno ospita l’altare; posiziona delle colonne libere angolari quasi incassa-
te nel muro, con elementi di contorno come paraste semplificate senza base. Superior -
mente vi è una fascia neutra ed una trabeazione. Sua è anche la realizzazione di Santa
Maria degli Angeli, posizionata all’interno delle terme di Diocleziano, in cui propone un im-
pianto centrale coperto a crociera, perimetro con volte ed atrio con esedra. Progetta, inol -
tre, Porta Pia, la cui soluzione finale presenta elementi monumentali con capitelli astratti
ed enorme triglifo al posto della mensola, a reggere la compenetrazione dei timpani supe-
riori (modello che avrà molto successo nel Seicento); superiormente vi sono elementi tondi
e merli di totale invenzione, con capitello ionico e sfera soprastante, ripresi più tardi dal
Borromini.
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Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento la Basilica di San Pietro subisce ulteriori
modifiche: viene abbandonata l’idea di un edificio a pianta centrale, riprendendo la classi -
ca pianta basilicale a sviluppo longitudinale con l’aggiunta di una navata realizzata da Car-
lo Maderno, cui si deve anche la facciata della chiesa. Egli realizza un grande schermo
con alto nartece loggiato a includere anche il livello superiore, facendo sporgere il fronte a
tempio, e utilizza decori michelangioleschi ripresi da Palazzo dei Conservatori. La presen-
za dell’attico superiore non rende, però, completamente visibile la cupola di Michelangelo,
inizialmente pensata per un edificio a croce greca. Proprio nel cantiere di San Pietro
s’incontrano Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini, personalità artistiche e architet-
toniche dominanti del XVII secolo: diversi in quanto a carattere ed approccio all’arte, Bor -
romini, contrariamente all’amico e avversario Bernini, scultore oltre che architetto, si dedi -
ca esclusivamente all’attività costruttiva. Figlio dello scultore manierista Pietro Bernini,
Gian Lorenzo è artista precoce: nasce a Napoli, ma le origini fiorentine della sua famiglia
lo portano vicino ai gusti e alle tradizioni artistiche della Firenze rinascimentale. Il secondo,
invece, nasce a Bissone, in Lombardia, come figlio di uno scalpellino ed è presto ingaggia-
to come intagliatore e disegnatore da Carlo Maderno, suo lontano parente, che lavora a
San Pietro: questo ultimo rimane impressionato dal talento del giovane Francesco e deci -
de di nominarlo supervisore dei lavori per la basilica. I due giovani sono pressoché coeta -
nei, così come Pietro da Cortona, che si forma a Firenze come pittore, per stabilirsi presto
a Roma, dove trascorre il resto della sua vita. Bernini e Pietro da Cortona trovano come
principali committenti e sostenitori la famiglia Barberini, mentre sono i Pamphili a privile-
giare l’opera del Borromini.
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Fra il 1624 e il 1626 Bernini lavora per la ristrutturazione della chiesa di Santa Bibiana,
della quale vengono ritrovate le reliquie; realizza una statua che ritrae la santa in un mo-
mento di estasi, con le pieghe del drappeggio che sembrano partecipare all’atteggiamento
mentale della figura, e lavora anche per la facciata, creando un sistema di logge su due li-
velli, in cui l’inferiore è scandita da paraste ribattute, mentre la superiore, usata per le fun -
zioni di ostensione, è caratterizzata da timpano centrale e innalzamento della struttura al
di sopra dei capitelli, il tutto chiuso da una balaustra finale. Alcuni affreschi interni sono af -
fidati al Cortona, mentre tra i lacunari della copertura ne compare uno aperto per l’illumina-
zione, come accade nella chiesa di Santa Maria della Pace di Bramante. Agli inizi degli
anni ’30 Bernini è a Bologna, dove progetta l’altare per la chiesa di San Paolo, prevedendo
un grande tabernacolo contenente una nicchia, caratterizzata da una trabeazione incurva-
ta e da colonne libere che la circondano, in una ricercata deformazione prospettica. Torna-
to a Roma si dedica a Palazzo Barberini, per il quale, però, si limita ad alcune modifiche
del progetto di Maderno: alla morte di questo ultimo nel 1529, Bernini diviene capo del
cantiere e gli viene affiancato il Cortona. L’edificio è centrato attorno ad un salone ovale
monumentale dal quale si distribuiscono le due ali sporgenti del corpo di fabbrica in cui
sono collocati gli appartamenti e sul fondo si apre una loggia; è progettato anche il giardi-
no, sono definiti alcuni elementi decorativi dell’interno e viene disegnato l’alzato, caratteriz-
zato dal sovrapporsi degli ordini architettonici (triplo ordine nella parte centrale) e da ele -
menti di scansione come colonne, archi e paraste ribattute. Corpo centrale e alcuni ele-
menti architettonici, come ad esempio il cornicione, sono ripresi da Palazzo Farnese. Il
Cortona porta a termine il soffitto del gran salone, in un’esecuzione davvero stupefacente:
crea una struttura architettonica illusionista che in parte cela sotto una profusione di porta-
tori di ghirlande, conchiglie, maschere e delfini, in rimando alle cariatidi vitruviane, tutto di -
pinto in finto stucco. Tale struttura divide l’intero soffitto in cinque aree separate, delle quali
ognuna mostra una scena a sé stante.
Tra le opere giovanili del Cortona vi è una villa vicino Roma per i Sacchetti, purtroppo già
in rovina verso la seconda metà del Seicento. Il pianterreno dell’edificio presenta una si-
stemazione simmetrica delle stanze e una nicchia monumentale nella struttura centrale,
che si erge molto dalle ali meno elevate, derivante dal Belvedere nel Vaticano. Le grandi
nicchie divisorie delle facciate laterali, la sistemazione di fontane, ninfei e grotte ed il com-
plicato sistema di scale sono concepiti in rimando ad architetture passate; costante è il ri -
ferimento agli archi di trionfo. I piedritti del primo livello tendono a diventare astratti ai lati
della nicchia, come accadeva negli archi antichi, e gli ordini architettonici sono riproposti
anche per gli spazi interni.
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re vista come un ottagono deformato lungo i due assi principali, con gli intercolunni ondeg-
gianti accoppiati alle nicchie (ribassate quelle in direzione trasversale) e alle modanature
continue dei muri perimetrali. Borromini inserisce una fascia di pennacchi su cui appoggia -
re la cupola ovale di forma curvilinea, che scarica quindi sui sostegni inferiori e sulla robu-
sta trabeazione, che rende una visione contorta e deformata degli archi e delle linee
d’imposta inferiori. La zona ondulata sottostante presenta delle varianti nei decori delle co -
lonne, con quelle che reggono i pennacchi che hanno volute inverse, per suggerire la fun -
zione portante (così come compare a Villa Adriana a Tivoli), mentre soluzioni particolari e
stazioni prospettiche sono ricavate lungo i due assi principali. La copertura è decorata con
un labirinto di cassettoni profondamente incisi di forma ottagonale, esagonale e a croce,
che diminuiscono notevolmente di dimensione verso la lanterna; la luce entra non solo dal-
la lanterna, ma anche attraverso finestre poste nei riquadri dei cassettoni, in parte nasco -
ste alla vista dalla curvatura della cupola. Le decorazioni sono ricche e lussureggianti, con
ricorrenti decori a conchiglia trilobata in rimando alla trinità; inferiormente si trova un’altra
chiesa, dalle pareti spoglie e povere, probabilmente usata come cripta per le tombe di preti
e monaci. La facciata, iniziata dal Borromini ma conclusa nella parte superiore dal nipote,
riprende il tema della colonna libera, che ripete in due registri d’importanza uguale ai due
livelli, facendole ruotare secondo l’andamento del prospetto e legate insieme dalla robu-
sta, continua e ondulata trabeazione superiore ripresa da Michelangelo. Sotto, le colonni-
ne dei settori esterni incorniciano il muro con piccole finestre ovali, di supporto per nicchie
con statue, mentre sopra, le colonnine incorniciano nicchie e pannelli di muro chiusi; al
centro si trova la statua di San Carlo Borromeo, protetta da un arco formato dalle ali di
grandi e vivaci cherubini e affiancata da altre due statue collocate sopra i portali a reggere
ancora l’arco superiore. In alto compare un medaglione ovale sorretto da angeli, mentre a
lato delle colonne compaiono paraste ribattute con capitello quasi michelangiolesco.
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al muro in chiaro rilievo; questo principio è capovolto nei settori centrali: nella fila superiore
colonne strutturali sono sprofondate nel muro, mentre nella fila inferiore forme rigide simili
a pilastri sovrastano la porta.
Nello stesso periodo, la Congregazione di San Filippo Neri bandisce un concorso per co -
struire vicino alla loro chiesa un oratorio, da includere in un più vasto programma edilizio
che prevedeva un refettorio, una sacrestia, quartieri d’abitazione per i membri e una gran -
de biblioteca. Nel maggio del ’37 il Borromini vince questo concorso, ma il suo intervento
deve far fronte ai lavori già iniziati da Paolo Maruscelli, architetto della Congregazione: egli
accetta l’essenzialità di questo piano che comprende anche la posizione dell’oratorio stes-
so, ma introduce alcuni perfezionamenti, creando ad esempio un’asse centrale per l’intera
facciata del complesso. Per quanto la facciata rammenti quella di una chiesa, le sue fila di
finestre da casa d’abitazione sembrano contraddire questa impressione. Per richiesta della
Congregazione, la facciata non è rivestita di pietra, in modo che non fosse in concorrenza
con la vicina chiesa: Borromini, perciò, elabora una nuova e molto sottile tecnica in matto-
ni, di discendenza classica, che gli consente le più fini graduazioni e un’assoluta precisio -
ne di dettaglio. La parte centrale del prospetto consiste di cinque settori, rigorosamente di-
visi da paraste, sistemate secondo una pianta concava; il settore centrale della fila inferio-
re è curvo verso l’esterno, mentre la fila superiore si apre in una nicchia di notevole pro-
fondità. A coronamento della facciata si erge il potente frontone che, per la prima volta,
combina un movimento curvilineo ed uno angolare. Le nicchie del primo livello gettano
ombre profonde e danno al muro profondità e volume, mentre sopra di esse le finestre
sembrano premere con i loro frontoni contro il fregio del cornicione; isolate sono le finestre
del secondo livello, con ampi spazi sopra e sotto. In contrasto con questa complicata fac -
ciata, Borromini adopera motivi più semplici per i fronti ovest e nord del convento, come
corsi diritti a fascia che dividono i piani e larghi solchi orizzontali e verticali che sostituisco -
no cornicioni e angoli. L’interno dell’oratorio è articolato da semicolonne sulla parete
dell’altare e un complicato ritmo di paraste giganti lungo le altre tre pareti, in rimando allo
stile di Michelangelo. Interviene anche nel cortile degli aranci del convento, in cui prevede
un ordine minore di archi e trabeazione inserito in uno gigante di paraste e nicchie arcua -
te; gli angoli del cortile sono risolti in curva.
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Quasi immediatamente dopo il completamento di San Carlo alle Quattro Fontane, il Borro-
mini inizia nel 1642 ad occuparsi della chiesa di Sant’Ivo, per quella che sarà la futura uni -
versità della Sapienza. Egli si trova davanti ad uno schema già compiuto in buona parte da
Giacomo della Porta, che ha previsto due ali laterali ad ambienti successivi, grande cortile
centrale porticato su tre lati e sul quarto vi doveva essere la chiesa a pianta centrale, con
tre ingressi e alcune cappelle. La chiesa viene quindi affidata al talento del Borromini, che
ritorna ancora una volta ad utilizzare schemi geometrici: qui usa il triangolo equilatero
come elemento base e ne compenetra due sul perimetro di un’ipotetica circonferenza, in
modo da formare un regolare esagono a stella. Tale impianto rimanda a precedenti del
Palladio e di Baldassarre Peruzzi. Egli racchiude il perimetro in una sequenza continua di
paraste giganti a sei scanalature, che seguono e assecondano tutta la muratura, accen-
tuata dalla sovrastante trabeazione (con fregio alto fuori scala) che delinea la forma a stel-
la del piano base. Innovative soluzioni sono negli angoli ottusi del corpo della chiesa risolti
con doppie porte con timpano superiore di cui una falsa, da cui trae spunto da Villa Adria -
na. Nella cupola, segnata dall’enfasi della trabeazione sottostante, sono chiaramente di-
stinguibili le modanature dorate che proseguono le linee verticali delle paraste inferiori, in
una chiara scelta di continuità che rimanda per certi versi alle architetture gotiche; la cur -
vatura degli spicchi della cupola passa in alcuni punti da concava a convessa ed è media-
ta da alcune aperture. All’esterno Borromini incassa la cupola, piuttosto che metterne in
mostra la curvatura come ad esempio accade per Santa Maria del Fiore del Brunelleschi.
Realizza una prima struttura inferiore a tamburo esagonale convesso, a cui sovrappone
una piramide a gradini divisa da costoloni radiali simili a contrafforti che distribuiscono i ca-
richi e che terminano nella lanterna a doppie colonne e rientranze concave tra l’una e
l’altra. Sopra questi tre elementi se ne erge un quarto, la spirale ad elica, monolitica e scul-
torea, che non corrisponde a nessun tratto interno né continua direttamente il movimento
esterno, e che termina con la colomba di Innocenzo X Pamphili. Possibile per questa strut-
tura è il riferimento alla Piazza d’Oro di Villa Adriana a Tivoli, alla cupola di Michelangelo
per il nuovo San Pietro e al mausoleo dei Calvezi. Molta attenzione viene prestata nella
continuità delle verticali dei costoloni, delle colonne e degli elementi a fiamma della lanter -
na, e anche nell’uso dei decori; sono spesso impiegati cherubini con ali aperte a reggere
la struttura sovrastante e nella parte bassa paraste ribattute scandiscono le pareti curve o
incorniciano le finestre. Per l’accuratezza dei disegni e la concezione architettonica
espressa, Sant’Ivo viene considerato il capolavoro del Borromini.
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una nuvola, mentre sta per essere trafitta dall’angelo Cupido. La sensualità della scena
rappresentata è accentuata dalla luce che, proveniente da una camino esterno ed incana-
lata per mezzo di specchi, piove sul corpo e i drappeggi delle figure scolpite, facendo risal-
tare il bianco quasi trasparente del marmo. Lungo le pareti laterali della cappella, sopra le
porte, appaiono i membri della famiglia Cornaro che, inginocchiati, parlano del miracolo
che avviene sull’altare. Essi sono posizionati in un’architettura illusionistica con volte a bot-
te, colonne e nicchie, che sembra un’estensione dello spazio in cui si muove l’osservatore.
Estrema attenzione è data anche al pavimento, che Bernini decora con ricche tarsie e rap-
presentazioni della morte secca.
Nel maggio del 1646 si rende necessaria una ristrutturazione totale di San Giovanni in La-
terano, in pericolo di crollo, e papa Innocenzo X Pamphili affida i lavori al Borromini, già
impegnato nella chiesa di Sant’Ivo. Questi realizza in fase progettuale diverse varianti,
prevedendo ben cinque navate, di cui la centrale più ampia e le laterali più piccole e bas -
se; propone l’uso di paraste giganti e la differenziazione delle campate con archi e taber -
nacoli e finestre superiori; un’altra soluzione presenta delle campate più strette alle estre -
mità con tabernacoli circolari alternati ad altri rettangolari più bassi; o ancora, prevede un
uso della parasta abbinata in rimando all’arco di trionfo antico. Dei vari progetti realizza
una sezione quasi definitiva da illustrare al papa, con la navata centrale larga e le altre la -
terali più strette, arricchite da cappelle e illuminate da condotti verticali che incanalano la
luce solare, il tutto scandito da paraste a scanalature alterne, tabernacoli ovali con lesene
che ribattono le colonne e nicchie con le statue dei dodici apostoli; nella zona alta prevede
degli ovali da lasciare aperti sulle vecchie murature costantiniane, in modo tale da segna -
lare la continuità storica tra le due basiliche. Le navate laterali sono alterante tra volte a
botte parallele a quella centrale e spazi aperti verso l’alto in cui piove la luce; le due nava -
te estreme hanno volte molto ribassate e sono caratterizzate da elementi scultorei che
reggono le imposte degli archi ribassati. La controfacciata è immaginata per due tratti in
diagonale, mentre al centro la concavità è rivolta verso l’interno della chiesa, per richiama-
re l’abside antico.
Verso gli anni ’40 papa Innocenzo X vuole trasformare Piazza Navona, dove si trova il pa -
lazzo di famiglia, nella piazza più grandiosa di Roma, a diventare quello che nelle sue in -
tenzioni era il Foro Pamphili, dominato dalla nuova chiesa di Sant’Agnese, in sostituzione
di quella vecchia. Inizialmente l’intervento è affidato a Carlo Rainaldi, ma dopo una serie di
crisi e problemi questi è licenziato dal pontefice ed è chiamato il Borromini. Egli cambia il
carattere dell’intervento e con particolari espedienti fa credere all’osservatore che le brac-
cia abbiano tutte la stessa larghezza, per far apparire l’incrocio come un ottagono regola -
re. I contrasti di colore rafforzano quest’impressione, perché il corpo della chiesa è bianco,
mentre le colonne libere sono rosse. Un intenso verticalismo è ottenuto con il cornicione
aggettante sopra le colonne, dall’alto tamburo e dall’elevata curvatura della cupola. La fac -
ciata del Rainaldi, appena iniziata, viene demolita e il Borromini può arretrarla e disegnarla
con un andamento concavo: a sua volta, però, non riesce a concludere il prospetto, poiché
viene estromesso dai Pamphili e l’intervento è concluso da un team di architetti, che fini-
scono la facciata nella parte superiore e realizzano i due campanili laterali. Poco tempo
dopo tocca al Bernini costruire la fontana ad obelischi che ancora oggi si trova nella piaz -
za.
Tra il 1646 e il 1649 Borromini segue il lavoro per il Palazzo Falconieri, dove amplia la fac -
ciata da sette a dodici settori. Incornicia la facciata con enormi busti a teste di falco, in ri -
mando alla tradizione egizia, e aggiunge nuove ali in affaccio sul Tevere, che caratterizza
con paraste astratte ribattute di tipo ionico e ghirlande michelangiolesche. Il suo contributo
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più originale sono i dodici soffitti con i loro complicati ornati floreali e la loggia, con colonne
e serliane.
Attorno agli anni ’50 Borromini è impegnato nel progetto per il palazzo del conte Ambrogio
Carpegna, vicino alla fontana di Trevi. Dei suoi disegni poco è stato eseguito, compare co-
munque il cortile ovale con una sequenza interna di colonne che girano tutto intorno, l’atrio
d’ingresso ottagonale con due logge passanti, lo scalone monumentale caratterizzato da
grosse nicchie e la loggia intermedia. L’apparecchiatura decorativa presenta festoni e me-
duse alate. E’ probabile che per questo progetto abbia preso più volte spunto da Villa
Adriana.
Nel 1650 il Bernini disegna per la famiglia di papa Innocenzo X il Palazzo Ludovisi, ora Pa-
lazzo Montecitorio. Cinque anni dopo, quando il papa muore, poco è in piedi del grande
edificio, che viene ripreso solo quaranta anni dopo da Carlo Fontana. Bernini realizza la
facciata con un’intera fila di venticinque finestre divise in vani diversi, che s’incontrano ad
angolo ottuso, così che l’intera facciata sembra eretta su una pianta convessa. Le leggere
sporgenze delle unità alle due estremità e al centro sono importanti mezzi di organizzazio-
ne; ogni unità è delimitata da gigantesche paraste che comprendono i due piani principali,
ai quali serve di base il pianterreno con le formazioni di rocce sotto le paraste alle estremi -
tà e i davanzali delle finestre.
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Nel ’56 Pietro da Cortona è impegnato nel rinnovamento della chiesa di Santa Maria della
Pace, su commissione di papa Alessandro VII Chigi. Da un primo progetto, che prevede
un loggiato curvo sulla facciata quattrocentesca, si passa ad uno ben più ambizioso, volu-
to dal papa su una scala più ampia ed urbana: nella nuova intenzione la chiesa appare
come un palcoscenico e tutto ciò che vi sta attorno viene visto come una scenografia tea-
trale. La facciata superiore, a doppio timpano di cui uno scende verso il basso, per curva-
tura e verticalità rimanda alla chiesa dei Santi Martina e Luca, e presenta ai lati colonne li-
bere a girare l’angolo, in rimando al San Lorenzo di Michelangelo, mentre la zona inferiore
protende circolarmente verso l’esterno ed è complessiva di una loggia con capitelli dorici e
trabeazione ionica. Lateralmente le due ali concave sono messe in relazione con gli edifici
circostanti, a creare uno schema uniforme e regolare. Tema dominante dell’ideologia di
papa Alessandro VII è, infatti, la spettacolarizzazione di particolari aspetti e caratteri della
vita religiosa, dato che la sua chiesa viene sempre più rilegata al solo ruolo spirituale,
Attorno agli anni ‘40 il Borromini interviene nella costruzione di Santa Maria dei Sette Dolo-
ri, un impianto a geometria semplice che ottiene accostando un ottagono con lati convessi
verso l’interno e un rettangolo dagli angoli smussati. Vi sono due ingressi contrapposti,
che seguono gli assi principali, caratterizzati da strutture architettoniche diverse e che ren -
dono la pianta da longitudinale a centrale. L’interno è articolato da un’imponente sequenza
di colonne e semicolonne, collegate da archi che partono dalla trabeazione ininterrotta che
segue tutto il profilo interiore. L’esterno è una massa imponente di mattoni crudi, forse la -
sciati volutamente all’antica, contrastati dalla facciata concava del fronte con grandi para-
ste posizionate anche sugli angoli.
Nel 1653, invece, il Borromini viene incaricato dal marchese Paolo del Bufalo di finire la
chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, iniziata anni prima. Il suo compito è di realizzare il cam-
panile e il tamburo della cupola, ma sebbene vi rimanga impegnato per diversi anni, egli
deve abbandonarlo in uno stato frammentario. Il vecchio impianto presenta un’imponente
massa di murature impostate su speroni diagonali commentati con colonne, con profilo
fuoriuscente verso l’esterno, in ripresa di un antico mausoleo a canocchia a Santa Maria
Capua Vetere. Borromini riproduce alla lettera lo schema interno: racchiude la curva della
cupola in una copertura a forma di tamburo, da cui sporgono quattro contrafforti fortemen-
te aggettanti, che creano quattro facce uguali, ciascuna consistente in una grande cavità
convessa del tamburo e in più piccole cavità concave dei contrafforti. E’ possibile che per
tale impianto egli si rifaccia alla sezione di un capitello corinzio in scala monumentale. Il
campanile, invece, presenta sovrapposizione di elementi architettonici e decorativi, con un
ritmo alternato di aperture, contrazioni e curvature caratterizzate da paraste a forma di an-
gelo e capitelli del tempietto inferiore con facce barbute.
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Nel 1646 Borromini è no-
minato architetto del Col-
legio di Propaganda Fide:
se in un primo momento
decide di lasciare inalte-
rata la chiesa ovale co-
struita dal Bernini, in se-
guito interviene demolen-
do il lavoro dell’avversa-
rio e progettando tutto ex-
novo. Realizza una cap-
pella rettangolare ad an-
goli smussati a cui affianca delle cappelle laterali, come
ha già fatto per l’oratorio dei Filippini; usa un ordine gi-
gante di paraste, volta a cesta ribassata segnata dai co-
stoloni e trabeazione ben ridotta, al fine di segnare maggiormente le verticali a scapito del-
le linee orizzontali. La facciata ovest è disegnata dal Borromini, che la connota in maniera
monumentale, svincolandola dal resto dell’edificio: adotta paraste semplificate a fusto li-
scio e capitello scanalato, alle cui estremità ci sono due piccole mensole che reggono la
trabeazione ridotta a semplice cornice (come si vede anche nel chiostro di Santa Maria
della Pace di Bramante), il tutto con decori dorici molto sobri. Compaiono qui ampie fine-
stre che ricoprono piani diversi, mentre sopra la trabeazione le aperture conservano, come
sotto, il timpano alterno e sono inquadrate da paraste binate ben più piccole di quelle infe -
riori. La facciata verso Piazza di Spagna è finita, invece, dal De Vecchi, sebbene sia possi-
bile qualche suggerimento da parte del Bernini: l’ordine architettonico qui è più povero e
compaiono i cantonali bugnati in richiamo del portale centrale.
Tra le chiesa più importanti progettate dal Bernini vi è quella di Sant’Andrea al Quirinale,
per il noviziato dell’ordine dei gesuiti. Da un primo schizzo che riprende un’idea del Serlio
con corona di cappelle e colonne, si passa ad una soluzione più complessa ad ovale tra-
verso. Attorno al perimetro interno sono collocate delle cappelle che, contrariamente a
quanto accadeva nel Quattrocento, sono posizionate lungo assi diversi; ai lati di queste
sono presenti delle paraste, che in corrispondenza dell’altare (
che reca una pala raffigurante Sant’Andrea sulla croce) vengono abbinate a colonne. La
cupola, dipinta con angeli, putti e colombe, è tagliata in alcuni punti da finestre posizionate
nei cassettoni della copertura, grazie ai quali viene illuminato lo spazio ellittico. Largo è
l’uso di materiali preziosi per l’interno. Lo spazio antistante la chiesa è creato arretrando
dal bordo del lotto il filo dell’edificio e inserendo due bracci laterali; al centro dell’ampio
spazio concavo viene collocato un grande tabernacolo convesso con colonne libere da-
vanti, che proietta verso l’esterno l’altare.
Nel 1662 al Bernini viene affidato l’incarico di erigere la chiesa di Santa Maria dell’Assun -
zione ad Ariccia, accanto all’antico Palazzo Savelli. Qui realizza una chiesa circolare con
cappelle a coronamento, pronao loggiato esterno e sagrestia dietro l’abside commentata
da due campanili laterali (che sono ripresi più tardi dal Guerini). Palese è per questa archi-
tettura il richiamo al Pantheon: la forma base della chiesa consiste in un cilindro sovrastato
da una cupola semisferica con un’ampia lanterna. Nella zona della cupola, che presenta
ancora cassettoni e costoloni, si trova una decorazione con putti, angeli e ghirlande. La
zona d’ambito della chiesa è circoscritta da un muro, a causa della pendenza del terreno e
della presenza di edifici vicini.
Tra il 1658 e il 1662 Pietro da Cortona fa la facciata alla chiesa di Santa Maria in Via Lata:
consiste in due piani completi con la porzione centrale spalancata e affiancata da pilastri
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rientranti anziché sporgenti e con risalto di trabeazione. La parte centrale, che si apre sot-
to in un portico e sopra in una loggia, è unita da un grande frontone triangolare nel quale,
come in Santa Maria della Pace, è stato inserito un elemento segmentato: vi è, però, non
un secondo frontone, bensì un arco che collega le due metà della trabeazione interrotta, in
un disegno a serliana.
Nel 1664 una serie di architetti europei sono chiamati dal primo ministro Colbert alla corte
del Re Sole per progettare il palazzo imperiale del Louvre, futura residenza dei sovrani.
Dall’Italia sono chiamati Pietro da Cortona e il Bernini, ma questo ultimo si rifiuta di parteci-
pare. Il Cortona, invece, propone nel suo progetto di chiudere il cortile e di creare un alza-
to a padiglione centrale e due laterali, secondo uno schema tipicamente italiano (caratteri-
stico ad esempio di Palazzo Pitti a Firenze) sovrastato da una cupola. Al piano nobile sono
impiegate colonne al centro e paraste ai lati, mentre inferiormente gli ordini sono poveri e
poco decorati; finestre secondo lo stile di Michelangelo e Borromini aprono il fronte su più
punti. Il progetto non viene approvato. Nel ’65 il Bernini si decide ad andare a Parigi e qui
disegna ben tre progetti, pagati profumatamente ma mai realizzati, sebbene saranno ripre -
si negli anni seguenti in tutta Europa. Il primo progetto è centrato sulla facciata est, che
connota con un colonnato con andamento concavo ai lati e convesso al centro, recante sul
retro un grande salone ovale che tiene due piani; il piano secondo, con finestre circolari,
paraste binate e decori con gigli di Francia, si eleva sopra il cornicione uniforme di tutta la
facciata. In questa facciata segue il modello di diverse architetture italiane, come Palazzo
Barberini e opere del Palladio e Sansovino, delineando archi e serliane. Ma tale progetto
rimane solo sulla carta. La seconda soluzione ha un ordine gigante applicato al muro so-
pra il pianterreno a bugnato e presenta un ampio movimento nella parte centrale concava,
sempre in rimando a edifici italiani. Nel terzo progetto Bernini ritorna al palazzo romano e
nel disegnare la facciata est perde in originalità quanto guadagna nell’aspetto monumenta-
le: divide il fronte in cinque unità distinte, con la centrale in rapporto 1:2 tra altezza e lun -
ghezza messa in risalto dalle semicolonne giganti; questo motivo è ripreso nelle paraste
giganti delle ali, mentre le sezioni arretrate non hanno alcun genere. Seguendo l’esempio
di Palazzo Farnese, mantiene una vasta superficie di muro liscio sopra le finestre del pia -
no nobile così come il tradizionale corso lineare sotto le finestre dell’ultimo piano. Per
quanto riguarda la facciata est, il Bernini rimane fedele a tutti quegli elementi da lui consi-
derati indispensabili, sebbene siano contrari alla tradizione francese: conserva il cornicio -
ne unificante, il profilo continuo e il tetto piano, e insiste nel trasferire la corte del re dal
tranquillo lato sud all’ala est, la più imponente, ma anche la più rumorosa. Fra le altre idee
inaccettabili vi è quella di circondare il cortile con porticati secondo la moda italiana e di
posizionare negli angoli scaloni monumentali. Gli architetti francesi sono aspramente con-
trari a tutto ciò, così come il primo ministro Colbert, ma il re ha preso in simpatia il maestro
italiano e lo appoggia: la prima pietra del Lou-
vre, così, è messa in opera tre giorni prima del-
la partenza di Bernini per l’Italia. Nel giro di
poco tempo, però, l’interesse del Re Sole si è
spostato su Versailles e questo è il segnale per
Colbert di abbandonare i progetti berniniani.
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periori con le loro gigantesche paraste composite, così vicine le une alle altre che le edico-
le delle finestre del piano nobile occupano tutto lo spazio. La relazione del pianterreno con
i due ordini superiori, il passaggio da semplici finestre con pesanti edicole del piano nobile
alle leggere e allegre cornici delle finestre del secondo piano, il ricco ordine composito del-
le paraste, il robusto cornicione con mensole sovrastate da una balaustra aperta, la con -
trapposizione della parte centrale altamente organizzata con le ali non rifinite, e infine, il
forte rilievo dato all’ingresso con le colonne toscane libere, balcone e finestra superiore:
tutto ciò è qui combinato in un disegno di autentica nobiltà e ingegnosità. Il Bernini ha qui
trovato la formula per il palazzo barocco aristocratico e l’immensa influenza di questo si
estenderà oltre i confini d’Italia. Questa facciata ben equilibrata viene sciupata nel 1745,
quando il palazzo è acquistato dagli Odescalchi: i loro architetti, Salvi e Vanvitelli, raddop-
piano la parte centrale, che ha ora sedici pilastri invece di otto e due portali d’ingresso an-
ziché uno. La facciata attuale è troppo lunga rispetto all’altezza e non vi è più il senso delle
proporzioni voluto dal Bernini.
Guarino Guarini
Nasce a Modena nel 1624 e qui ha modo di crescere e formarsi, entrando a far parte
dell’Ordine dei Teatini nel 1639 e spostandosi a Roma dove studia teologia, filosofia, ma -
tematica e architettura. Di ritorno a Modena nel 1647 è ordinato sacerdote e ben presto
nominato insegnate di filosofia. In questi anni lavora come architetto per la chiesa
dell’Ordine Teatino, progettata con pianta a croce greca e cupola retta da piloni rivolti in
diagonale verso la crociera della volta; prevede un’enfatizzazione dell’alzato con ordini no-
bili sull’ingresso e poveri ai lati, mentre lo spazio centrale sotto la cupola presenta uno
spettacolare tamburo con elementi a serliana. Nel 1655 nascono divergenze fra lui e la
corte ducale e lascia Modena per trasferirsi a Messina. Qui progetta due importanti edifici,
la chiesa dei Padri Somaschi, con impianto simile alla Rotonda degli Angioli del Brunelle -
schi (mai eseguita) e la facciata della Santissima Annunziata, distrutta nel 1908. Torna a
Modena, da dove ben presto parte alla volta dell’Europa, visitando la Francia, la penisola
iberica e l’Europa centrale, dove lascia opere come Sant’Anne La Royale di Parigi (demoli-
ta successivamente), Santa Maria della Divina Misericordia di Lisbona (distrutta da un ter-
remoto) e Santa Maria da Altötting a Praga. Si trasferisce poi a Torino nel 1666, dove la-
vora per il casato dei Savoia. Durante la sua permanenza in Francia egli ha modo di os-
servare e studiare i progetti del Bernini per il Louvre, in particolare il primo. Chiara è anche
l’influenza della lezione del Borromini, così come traspare nei trattati del Guarini; a Parigi
egli si occupa di palazzi di grandi dimensioni e segue uno schema che prevede un corpo
centrale avanzato, ingresso principale accentuato, padiglioni laterali, cortile con alzati
uguali a due a due, pareti inflesse con colonne libere addossate e facciata scandita da due
logge sovrapposte, la prima in dorico austero e la seconda a serliana. A Torino, nel 1676 il
principe Emanuele Filiberto di Savoia-Carignano (detto il Muto) gli affida la trasformazione
del Castello Reale di Racconigi, grandiosa e complessa costruzione medievale, in villa re-
sidenziale. Viene progettato un vero e proprio rifacimento, eseguito però solo in parte con
la costruzione dell’attuale facciata verso il parco, a fasce astratte che scandiscono il pro-
spetto orizzontalmente e verticalmente (in proposizione di architetture presenti a Modena)
e del padiglione centrale a chiusura del cortile interno; copre la sala centrale del palazzo
con una volta a botte traforata da sorgenti di luce nascoste, in rimando ad esempi di Berni-
ni e Borromini, della quale svuota il guscio e lo innerva di costoloni, lasciando aperti dei
grandi fori che permettono alla luce di entrare. Del 1679 è, invece, il magnifico Palazzo
Carignano, accentrato attorno ad un ambiente ellittico ad atrio esagonale e ambulacro cir-
costante, con due spazi laterali che conducono alle rampe di salita e diversi ambienti di
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suddivisione. L’alzato prevede curve e controcurve nella parte centrale, così come si vede
nel primo progetto berniniano per il Louvre, e presenta una loggia monumentale con gran-
de tabernacolo e scansione dell’edificio con ordini architettonici ben distinti. I decori rico -
prono tutto l’edificio, più sterili però
all’interno, e particolari sono i fusti
delle paraste abbinate in facciata,
realizzate in cotto: al livello inferiore
sono altamente lavorate e inquadrano
anche il mezzanino superiore, mentre
al secondo livello i fusti sono lisci e
contengono ben tre mezzanini.
Carlo Emanuele II di Savoia gli affida
la realizzazione della Cappella della
Santissima Sindone, che ha di per sé
le dimensioni di una chiesa, già inizia-
ta qualche anno prima da Amedeo di
Castellamonte all’estremità orientale
del Duomo e strettamente congiunta
al palazzo. Il Guarini lavora per mesi
con un gruppo di ebanisti, al fine di realizzare un modello fedele del suo progetto, e nella
cappella, che per forza di cose deve avere pianta centrale ed alzarsi come una torre per
essere vista da lontano, lascia inalterati i pilastri già presenti alternati a colonne libere e
posiziona due accessi circolari laterali, articolati sulla ripetizione di tre colonne in modulo,
in riferimento alla Trinità. Viene data una scansione ad arco di trionfo alla tribuna che porta
la reliquia e realizza una struttura che scarica il peso su piloni alterni, mentre su quelli non
portanti sono messi archi e pennacchi senza funzione strutturale. La struttura della cupola,
che poggia su un tamburo molto alto alleggerito da sei finestroni e cinghiato alla base con
anelli lapidei, poggia su un sistema di archi portanti in marmo nero che diventano più bassi
man mano che si procede con la quota (per dare l’idea che sia più alta) e poggiano sulla
mezzeria di quelli sottostanti, fino alla stella a dodici punte che costituisce la sommità. Die-
tro le vetrate superiori sono sistemate delle camere che diffondono e affievoliscono la luce
verso la parte bassa della chiesa, mentre tutta la cappella presenta decori con chiodi, pas-
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siflora e corone di spine, simboli della passione di Cristo. All’esterno è caratterizzato dalle
sei grandi finestre del tamburo, unite sotto un cornicione ondulato che rimanda ad esempi
di Bernini e Borromini. Sopra a questo appare lo straordinario labirinto di gradini a zig-zag,
che in realtà sono i costoloni segmentati della cupola. Infine c’è il sereno motivo orizzonta-
le ad anelli che diminuiscono di misura, coronati dalla struttura a pagoda alla quale nulla
corrisponde all’interno.
Nel 1668 Guarini incomincia a lavorare alla chiesa di San Lorenzo, vicina al Palazzo Reale
dei Savoia. La forma base della pianta è un ottagono con gli otto lati ricurvi verso lo spazio
principale, ognuno consistente in una serliana, che rende difficile o persino impossibile ac -
corgersi della vera forma dell’impianto. Dietro la transenna di sedici colonne di marmo ros-
so ci sono nicchie con statue bianche davanti ad uno sfondo nero ed incorniciate da para-
ste anch’esse bianche. In tal modo esiste una certa continuità di motivi interni, ma vi sono
tante unità e motivi differenti ad arrivare a contare fino a 8, 9 tipi di sostegni diversi. Il robu-
sto cornicione sopra gli archi mette in evidenza la forma ottagonale, ma nella zona adia-
cente c’è un inaspettato cambiamento di significato, con i pennacchi esagonali posti negli
assi diagonali e l’ottagono che a questo livello si trasforma in una croce greca con bracci
molto corti. Sopra la zona dei pennacchi vi è una galleria con finestre ovali, intervallate da
otto paraste dalle quali partono i costoloni della volta, sistemati in modo tale da formare
una stella a otto punte e un ottagono regolare aperto al centro. Sopra l’apertura centrale si
erge una lanterna, costituita da tamburo e cupola, alta esattamente come la cupola princi -
pale. All’esterno la cupola ha di nuovo aspetto di un tamburo che è coronato da un secon-
do tamburo piccolo e da una cupola. Fra la cupola e la lanterna è inserita una zona con fi-
nestre che gettano luce attraverso un anello aperto di segmenti disposti intorno all’ottago -
no più interno della cupola e spostano la trabeazione sopra tali aperture. Tutta la struttura
grava su quattro grandi arconi nascosti, proprio dietro le file di cherubini che fingono di
reggere la cupola. Inoltre, realizza veri e propri pozzi di luce che illuminano lo spazio inter -
no, oltre alle numerose aperture che traforano la facciata; questa ultima non è tanto elabo-
rata, perché tende ad uniformarsi a quelle degli edifici laterali. Sempre per monumentaliz-
zare l’opera e trasmettere l’effetto di un’architettura miracolosa, esternamente realizza un
campanile a forma di colonna, in rimando ad esempi parigini, sebbene inizialmente ne pre-
veda ben due. Possibili fonti per questa chiesa sono, oltre agli stessi Bernini e Borromini,
anche alcune architetture tipiche piemontesi ed arabe, come la moschea di Cordoba.
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