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LEON BATTISTA ALBERTI

La storia che vi racconto oggi parte dalla Firenze del Quattrocento, nel
suo periodo d’oro. Una città con un nuovo destino intellettuale deciso da
Cosimo il Vecchio. Sono gli anni nei quali l’intervento geniale della
cupola del Brunelleschi obbligò la città a decorare tutto l’edificio e a
inventare una serie di opere completamente innovative nell’architettura.
Sono gli anni in cui si affaccia all’onor di cronaca Leon Battista Alberti,
architetto, pittore, scultore e scrittore. Forse il teorico d’arte più
importante del rinascimento. Figlio illegittimo di un banchiere fiorentino
esiliato, Alberti nacque a Genova nel 1404. Studiò a Padova e
all’università di Bologna, e fu un apprezzato latinista. Pensate che a
vent’anni scrisse una commedia in latino, ritenuta e acclamata come una
scoperta di età romana.
Dopo gli studi, Alberti visse a Roma per gran parte della sua vita, ma
viaggiò molto ed ebbe stretti contatti con gli artisti fiorentini più
all’avanguardia dell’epoca, in particolare Brunelleschi. Alla corte di papa
Eugenio IV, che seguì nelle varie tappe del suo pontificato, ebbe
numerosi incarichi e poté godere di notevoli benefici ecclesiastici. Giunto
a Firenze, Alberti divenne intellettuale nella città degli intellettuali, dove
operava anche Marsilio Ficino, filosofo e umanista. Platone sta per
essere sdoganato alla cristianità esattamente come due secoli prima era
stato sdoganato il pensiero di Aristotele grazie a san Tommaso. La città
è di chi pensa, discute e scrive. Proprio con la scrittura, in effetti, Alberti
ebbe molto da dire.
Leon Battista Alberti scrisse su una vasta quantità di argomenti. Il De
pictura è il suo primo trattato artistico; il De re aedificatoria è invece un
ampio scritto sull’architettura; De statua è un breve trattato sulla scultura.
Il De re aedificatoria ha però un primato aggiuntivo: terminato nel 1452,
nel 1485 divenne il primo libro stampato di argomento architettonico. In
tutti i suoi scritti Alberti abbandonò la visione medievale per cui l’arte era
considerata espressione simbolica di verità teologiche. Mise invece al
centro il fondamento razionale delle arti e la necessità per l’artista di
avere un’ampia conoscenza di base che spaziasse dalla storia, alla
poesia, alla matematica.
Alberti si avvicinò gradualmente all’architettura, anche se non diresse
mai di persona l’esecuzione dei suoi progetti, interessandosi soprattutto
alla loro ideazione. Così, circa nel 1443, dava consigli per la costruzione
del campanile del Duomo di Ferrara e per l’Arco del Cavallo
(monumento a Nicolò III d’Este). Al 1450 circa risale il suo primo lavoro
effettivo come architetto. Si tratta della risistemazione esterna della
chiesa di san Francesco a Rimini, ora noto come Tempio Malatestiano.
All’epoca Alberti era un cinquantenne, massimo teorico dell’arte, che non
aveva ancora costruito nulla, ma diventerà il prototipo dell’artista
intellettuale moderno.
A Rimini la situazione archeologica è simile a quella di Roma, anche se
in scala ridotta; basti pensare alla via Flaminia con l’Arco di Augusto.
Sempre a Rimini si trova il ponte di Augusto e Tiberio del I secolo. Era
quindi facile avere l’antico sotto gli occhi in questa città e Alberti usò tutti
questi riferimenti per il Tempio Malatestiano. Impresse all’esterno un
poderoso senso di romanità. Nella facciata tre grandi archi, ispirati a
quello d’Augusto, e le colonne sorgenti da un alto stilobate; in cima, un
ampio nicchione; in ciascun fianco, sempre sullo stilobate, una serie di
nicchie. Il monumento rimase incompiuto: la parte alta della facciata non
fu portata a termine e la cupola, che doveva sorgere all’incrocio del
transetto con la navata, non fu mai nemmeno cominciata.

Alberti divenne poi consigliere, in materia d’architettura, di Ludovico


Gonzaga, a Mantova. Nelle chiese di S. Sebastiano e di S. Andrea di
Mantova poté sviluppare unitariamente esterno e interno. Nella prima
chiesa, a croce greca, il rapporto dei volumi interni sarà esemplare per il
tipo della chiesa a pianta centrale (ripreso dal Bramante). Nella seconda,
costituita da una grande navata coperta da volta a botte, con cappelle
laterali, innovando nella tradizionale forma basilicale, l’Alberti dà il
maggior contributo alla soluzione di quel tipo di chiesa che diverrà poi un
prototipo dal XVI secolo in avanti.

A Firenze invece Leon Battista realizzò il palazzo e la loggia Rucellai, la


cappella del S. Sepolcro nella chiesa di S. Pancrazio, e la facciata della
chiesa di S. Maria Novella. Tutti esempi importantissimi della sua
personale visione architettonica. Ma la figura di questo importante
intellettuale artista non è ancora completa. Alberti lavorò anche come
pittore e scultore, ma sopravvivono poche testimonianze del suo lavoro
in questi campi. Nessuno dei suoi dipinti è arrivato fino a noi, però gli
sono attribuiti due autoritratti su medaglioni in bronzo, realizzati attorno
al 1435.

Mentre quasi tutti gli artisti contemporanei ad Alberti, provenivano


dall’artigianato, lui si dedicò allo studio, alla ricerca e alla passione per le
antichità. Con Leon Battista Alberti per la prima volta l’antico diventa
moderno e il moderno antico. Questo importante intellettuale fissò inoltre
le tre regole per la pittura. La circoscrizione, il componimento e il
ricevimento dei lumi che in italiano moderno vale a dire prospettiva,
composizione e colore.

PALAZZO RUCELLAI

Il palazzo è espressione dell’ordine urbano. Il fiorentino Palazzo Rucellai


è stato progettato nel 1447 da Leon Battista Alberti, che ne affidò la
realizzazione a Bernardo Rossellino, tra il 1450-1460. Albertiaveva
definito la tipologia del palazzo residenziale urbano nel suo trattato De re
aedificatoria nel 1452.
Egli lo concepì con un volume netto, dalla semplice forma parallelepipeda,
derivata dal lotto di terreno per lo più regolare. Il palazzo, infatti, deve
integrarsi in modo armonico e funzionale all’interno della città. La
facciata, con il disegno regolare delle sue parti, deve rispecchiare la
scansione orizzontale dei piani, ma deve anche guidare a comprendere
l’organizzazione interna degli spazi. Questa concezione deriva
dall’architettura romana, che viene resa attuale, sia per quanto riguarda
l’ordine compositivo che per i principi costruttivi.
La facciata di Palazzo Rucellai è suddivisa da un reticolo geometrico
regolare, al cui interno si inseriscono le finestre bifore. Questo reticolo è
definito orizzontalmente dalle cornici marcapiano (cioè che scandiscono i
piani), verticalmente da lesene.
Le lesene si concludono con capitelli dei tre principali ordini classici,
ovvero dorico, ionico e corinzio. Alberti propone, dunque, la
sovrapposizione degli ordini architettonici antichi, applicata
nell’architettura romana, ad esempio nell’Anfiteatro Flavio (noto come
Colosseo).
La superficie della facciata è percorsa da un bugnato liscio, che richiama
le tecniche costruttive romane. Il bugnato crea, inoltre, un effetto di
regolarità delle superfici.
Il cornicione conclusivo, alla sommità della facciata, è aggettante (ovvero
sporgente), e ciò contribuisce a rendere ancora più chiara e regolare la
forma del palazzo. Il motivo gotico delle finestre bifore acquisisce qui un
nuovo ordine geometrico, poiché si conclude con un arco a tutto sesto.
L’alternanza di lesene e di finestre bifore determina un ritmo pacato ed
uniforme. Il piano inferiore è interrotto da due eleganti portali architravati,
che producono un effetto di ordine ed eleganza, ma non di
monumentalità.
Lo zoccolo esterno, in basso, è percorso da panchine, come se volesse
tramandarci la vitalità della vita cittadina. Il loro schienale è trattato con
un motivo a rombi, che ricorda l’opus reticulatum dei costruttori romani.
SANT’ANDREA

La pianta è a croce latina, con navata unica e cappelle laterali.


Troviamo anche una copertura formata da una grande volta a botte.
La struttura portante, poi, è costituita da murature continua, pilastri, archi
e volte, con una completa assenza di colonne.
All’incrocio del transetto con la navata, su quattro pennacchi, si imposta
la cupola, costruita successivamente alla chiesa.

All’esterno il portale di ingresso è inquadrato da un monumentale


portico, che ricorda gli archi di trionfo romani.
La facciata però è chiusa in alto da un timpano triangolare di derivazione
greca, a sua volta sovrastato da una volta a botte di tipo romano.
All’interno, la navata e le cappelle laterali sono coperte da volte a botte
decorate a cassettoni e ricordano lo spazio degli edifici termali romani e,
in particolare, della Basilica di Massenzio. Dietro l’altare si apre una
profonda abside che, con la sua parete curva, chiude lo spazio della
navata.
I nitidi volumi architettonici e la grandiosità degli spazi interni saranno un
importante modello per l’architettura dei secoli successivi.

SANTA MARIA NOVELLA

La basilica di Santa Maria Novella è una delle più importanti chiese di


Firenze e sorge sull'omonima piazza. L’edificio religioso e l’annesso
monastero costituivano un importante polo culturale gestito dall’ordine
domenicano.
I domenicani arrivarono a Firenze da Bologna, guidati da Fra' Giovanni
da Salerno, nel 1219. Nel 1221, ottennero la piccola chiesa di Santa
Maria delle Vigne, così chiamata per i terreni agricoli che la
circondavano (all'epoca fuori dalle mura).
La prima pietra di un nuovo e più ampio edificio fu posta il 18 ottobre
1279, durante la festa di San Luca, con la benedizione del cardinale
Latino Malabranca Orsini e fu completata alla metà del XIV secolo.
Il progetto, secondo fonti documentarie molto controverse, si deve a due
frati domenicani, fra' Sisto da Firenze e fra' Ristoro da Campi, ma
partecipò all'edificazione anche fra' Jacopo Passavanti, mentre il
campanile e buona parte del convento si deve all'intervento
immediatamente successivo di fra' Jacopo Talenti. La chiesa, sebbene
già conclusa verso la metà del Trecento con la costruzione
dell'adiacente convento, fu tuttavia ufficialmente consacrata solo nel
1420 da papa Martino V che risiedeva in città.
Su commissione della famiglia Rucellai, Leon Battista Alberti disegnò il
grande portale centrale, la trabeazione e il completamento superiore
della facciata, in marmo bianco e verde scuro, terminata nel 1470. Tra il
1565 e il 1571 la chiesa fu rimaneggiata ad opera di Giorgio Vasari, con
la rimozione del recinto del coro e la ricostruzione degli altari laterali, che
comportò l'accorciamento delle finestre gotiche. Tra il 1575 e il 1577 fu
costruita da Giovanni Dosio la cappella Gaddi. Un ulteriore
rimaneggiamento si ebbe tra il 1858 e il 1860 ad opera dell'architetto
Enrico Romoli.
Un importante restauro è stato effettuato nel 1999 con i fondi del
giubileo, in seguito al quale per l'accesso alla chiesa è stato istituito un
biglietto d'ingresso. Dall'aprile 2006 al marzo 2008 la facciata è stata di
nuovo restaurata. La facciata marmorea di Santa Maria Novella è fra le
opere più importanti del Rinascimento fiorentino, pur essendo stata
iniziata in periodi precedenti. Venne completata definitivamente solo nel
1920.

Il primo intervento si ebbe verso il 1350, quando il registro inferiore fu


ricoperto di marmi bianchi e verdi grazie ai fondi da un tale Turino del
Baldese deceduto un anno prima. In quella circostanza furono fatti i sei
avelli o arche tombali, i due portali laterali gotici e, forse, anche
l'ornamentazione marmorea a riquadri e archetti ciechi a tutto sesto fino
al primo cornicione, che assomigliano a quelli del Battistero di San
Giovanni.

I lavori in seguito si interruppero e durante il Concilio di Firenze, che si


tenne anche nel convento dal 1439, venne ribadita la necessità di
provvedere al completamento della facciata. Solo un ventennio dopo si
offrì il ricco mercante Giovanni Rucellai, che ne affidò il progetto al suo
architetto di fiducia, Leon Battista Alberti.

Tra 1458 e 1478 fu rivestita la parte restante di marmi policromi,


armonizzando con la parte già esistente. La parte inferiore venne
lasciata pressoché intatta nel suo assetto medievale, aggiungendo solo il
portale classicheggiante, ispirato a quello del Pantheon, incorniciato dal
motivo colonna-pilastro, che ricorre, seppure con un rapporto diverso,
anche alle estremità sui lati. Oltre una trabeazione classicheggiante si
trova un'ampia fascia decorata a tarsie quadrate, ispirata agli attici
dell'architettura antica, che separa e raccorda la zona inferiore e qualla
superiore.

La parte superiore venne influenzata dalla preesistenza del rosone,


attorno al quale Alberti installò, in posizione sfasata, un grande
rettangolo tripartito, legato da rapporti geometrici di multipli e
sottomultipli con il resto degli elementi della facciata. Esso e sormontato
da un timpano con al centro il volto di Gesù Bambino inserito nel disco
solare fiammeggiante, emblema del Quartiere di Santa Maria Novella.

Sull'architrave superiore campeggia un'iscrizione che ricorda il


benefattore e un simbolico anno di completamento, il 1470:
IOHA(N)NES ORICELLARIUS PAV(LI) F(ILIUS) AN(NO) SAL(VTIS)
MCCCCLXX (Giovanni Rucellai, figlio di Paolo, anno 1470). Le due
volute capovolte ai lati, dalle tarsie finissime, hanno funzione di raccordo
con la parte inferiore e mascherano il dislivello tra la navata centrale e
quelle laterali, notevolmente più basse. Quella di destra fu rivestita di
marmi solo nel 1920.

L'elegante fregio marmoreo centrale con le "vele con le sartie al vento"


altro non è che l'emblema araldico di Giovanni di Paolo Rucellai. Lo
stesso simbolo, che si può vedere sulla facciata del palazzo e della
loggia Rucellai, nonché sul tempietto del Santo Sepolcro in San
Pancrazio, compare anche sui pilastri angolari, che in alto portano anche
lo stemma familiare Rucellai.

L'intervento dell'Alberti si innestò quindi sulle strutture gotiche


precedenti, ma seppe unificare la parte nuova e quella antica tramite il
ricorso alla tarsia marmorea, derivata dal Romanico fiorentino (Battistero
di San Giovanni, San Miniato al Monte, Badia Fiesolana). Questo
retaggio tradizionale venne rielaborato secondo la lezione classica e i
principi della geometria modulare, valorizzando la storia dell'edificio e il
contesto locale.

Lo schema è comunque mitigato da alcune leggere asimmetrie, forse


programmate dall'Alberti, forse dovute alla manodopera locale. Lo
schema preimpostato anteriormente non era infatti modulato su
corrispondenze matematiche, per cui è probabile che Alberti dovette
mascherare la mancata corrispondenza tra gli elementi verticali della
parte inferiore e superiore, proprio con l'aggiunta della fascia-attico, le
cui tarsie non sono allineate agli altri elementi.

Alcuni dei rapporti modulari principali:

La linea di base della chiesa è uguale all'altezza della facciata, con la


quale forma un quadrato;
Se la parte inferiore è esattamente la metà della superficie di questo
quadrato, quella superiore, riguardo al quadrato tra le volute, equivale a
un quarto;
Dividendo ancora questa superficie in quattro si ottengono dei
sedicesimi di superficie che inscrivono con precisione le volute laterali;
Il portale centrale è alto una volta e mezzo la sua larghezza (rapporto di
2/3);
L'altezza della fascia centrale a cerniera è uguale alla larghezza dei
portali laterali e degli avelli, ed è sette volte l'altezza dell'ordine inferiore;
I lati dei quadrati intarsiati sulla fascia centrale sono un terzo dell'altezza
della fascia stessa ed il doppio del diametro delle colonne della parte
inferiore.
Il Sol Invictus rappresentato sul timpano è lo stemma del quartiere di
Santa Maria Novella, ma anche un simbolo di forza e ragione; il diametro
del tondo del Sole è esattamente la metà del diametro del rosone
(compresa la cornice) ed è uguale a quello dei cerchi nelle volute.
SAN SEBASTIANO

Leon battista Alberti arriva Mantova grazie al suo ruolo di membro della
famiglia pontificia, in questo caso è al seguito di papa Pio II, il quale nel
1460 decide di indire una dieta che si svolge a Mantova per promuovere
una nuova crociata. A Mantova troviamo Ludovico Gonzaga, il quale ne
approfitta e ottiene da parte del Papa dei finanziamenti per riqualificare
la propria città.
La chiesa di San Sebastiano nasce come ex voto, nel senso che i signori
di Mantova, poiché la sua città è soggetta a pestilenze, chiede a San
Sebastiano di far sì che la sua città non venga colpita dalla peste mentre
si svolge questa manifestazione, quindi si decide di realizzare questo
piccolo edificio che però rispetto ad alcuni precedenti a cui questo
edificio si ispira si colloca, dal punto di vista dimensionale, in una
posizione nuova (in quanto in pratica è un quadrato di 16 m di lato).
Elemento caratteristico di questo edificio religioso è il fatto che si
posiziona su una basamento, in quanto Leon battista Alberti colloca a
livello del terreno una cripta su cui poi fa sorgere l'edificio religioso vero
proprio (le due scale vennero aggiunte nel 1919, in realtà l'accesso
originario era laterale). La presenza di questa cripta collocata al piano
terra svolge il vero proprio luogo di cripta ma anche un ruolo molto
importante nel caso di alluvione perché impedisce all'acqua di arrivare al
livello della chiesa vere propria (infatti questa era una regione soggetta
questo tipo di calamità), tra l'altro nel suo trattato Leon battista Alberti
promuove il fatto che gli edifici religiosi siano posti su di un podio.
Dal punto di vista dell'articolazione della pianta notiamo come questo
edificio anche strutturalmente richiama due grandezze, che sono la
sagrestia vecchia e la cappella pazzi di Brunelleschi, molto più vicina è
la risoluzione della cappella pazzi perché analogamente esiste uno
spazio centrale a cui si affiancano degli spazi laterali voltati a botte, che
servono dal punto di vista costruttivo a sostenere la cupola che copre
questo grande spazio centrale; infatti la chiesa di San Sebastiano a
Mantova, per le sue dimensioni, si può considerare come prima edificio a
pianta centrale che adotta e sfrutta i sistemi costruttivi introdotti da
Filippo Brunelleschi per risolvere questioni di tipo statico relativo alla
copertura.
Sappiamo attraverso un disegno del 500 di Antonio Labacco possiamo
avere un'idea di come dovesse essere l'alzato di questo edificio, notiamo
infatti che si conclude in maniera molto diversa; interessante è il fatto
che il timpano in corrispondenza dell’ingresso principale sia spezzato e
anche qui abbiamo una citazione perché è Leon Battista Alberti che cita
se stesso per la soluzione che probabilmente immaginava per il tempio
malatestiano. In realtà dal punto di vista architettonico questa è una vera
e propria architettura concepita completamente da Leon battista Alberti,
anche se il cantiere fu di fatto seguito dal suo aiuto che in questo
momento Luca Fancelli.
L’ambiente interno è molto scabro ed è in parte troviamo una citazione di
Filippo Brunelleschi nel voler sottolineare le linee degli archi
PIERO DELLA FRANCESCA

La grande fortuna di Piero della Francesca (1415/1420-1492), eccellente


pittore rinascimentale, è sicuramente legata, almeno in parte, al rapporto
privilegiato che questi ebbe con la corte di Urbino, governata con pugno
di ferro dal Duca Federico da Montefeltro, suo grande ammiratore.
Federico, guerriero tanto valoroso quanto privo di scrupoli, aveva
acquisito nel tempo la cultura degna di un sovrano europeo e alimentato
un clima di sontuoso e raffinato mecenatismo. I letterati e gli artisti più
noti del tempo ben volentieri si recavano nella città marchigiana, attratti
dal suo vivace clima culturale. Il Dittico degli Uffizi di Piero della
Francesca.

I rapporti tra Piero e la corte urbinate dei Montefeltro s’intensificarono dal


1470 al 1480. A questo periodo risale il dittico con i Ritratti di Federico
da Montefeltro e della moglie Battista Sforza, noto come Dittico degli
Uffizi perché attualmente conservato in questo museo. Come attestano
alcuni versi che corredano il dipinto di Battista Sforza, il ritratto venne
realizzato dopo la sua morte: l’opera è quindi posteriore al 1472, quando
la donna morì, e precede il 1482, anno di morte di Federico. Il doppio
ritratto celebrativo si trovava in origine nella Sala delle Udienze di
Palazzo Ducale, a Urbino; le due tavole di cui era composto, oggi
separate, un tempo erano unite da cerniere, che permettevano di
chiudere il dittico a libretto lasciando all’esterno i due Trionfiallegorici.
L’opera è infatti concepita secondo la tradizione numismatica romana.
Entrambe le tavole, come una medaglia, presentano da un lato il profilo
dei signori; dall’altro lato, un dipinto mostra Federico vestito con
l’armatura e seduto su un carro trainato da due cavalli bianchi; l’altro,
invece, la moglie Battista, ancora su un carro ma questa volta trainato da
unicorni. Entrambi i Trionfi, che recano in basso una iscrizione in latino,
alludono alle qualità morali dei signori di Montefeltro.

È bene osservare che in Italia, ancora nella seconda metà del


Quattrocento, il ritratto di profilo veniva adottato ogniqualvolta si doveva
celebrare la sovranità o il prestigio dei personaggi raffigurati. Federico e
Battista sono rappresentati nel dittico uno di fronte all’altra: la donna a
sinistra, l’uomo a destra.

Il signore di Urbino del resto veniva sempre rappresentato da questo lato


per ragioni di decoro in quanto, nel 1450, aveva perduto l’occhio destro
durante un torneo. Il suo particolarissimo profilo era poi il risultato di un
intervento di chirurgia, dai dubbi risultati estetici ma assai funzionale: il
duca si era fatto asportare un pezzo di naso, per poter sbirciare con
l’occhio buono anche dall’altra parte.

Il duca guarda immobile la moglie, la quale invece sembra fissare lo


sguardo verso un punto lontano e indeterminato. L’incarnato della donna
presenta un’intonazione pallidissima, che risalta sulla stoffa nera della
veste funebre al pari delle perle che le ornano il collo; i capelli biondi,
coperti da un velo, sono acconciati in un nodo fermato da un monile
sopra l’orecchio.

Il volto di Federico, dalla carnagione scura, è reso con impietoso


realismo. Anche il paesaggio alle spalle dei duchi, con le navi che
solcano uno specchio d’acqua, è dipinto con tecnica quasi miniaturistica
e con un’attenzione degna dei migliori modelli fiamminghi, di cui Piero si
confermava interprete tra i più sensibili in Italia. Il paesaggio è
protagonista non secondario anche nei Trionfi allegorici del verso dei
ritratti, in cui prospettiva e profondità creano effetti di straordinaria
suggestione.

IL BATTESIMO DI CRISTO

La tavola con il Battesimo di Cristo, oggi conservata alla National Gallery


di Londra, è la più famosa e giustamente celebrata tra le opere giovanili
del grande pittore rinascimentale Piero della Francesca (1420 ca.-1492).
Costituiva la parte centrale di un polittico, destinato probabilmente
all’altar maggiore, completato, per le restanti parti, dal pittore Matteo di
Giovanni.

Il capolavoro di Piero della francesca presenta, al centro, la figura di


Gesù, sovrastato dalla colomba, simbolo dello Spirito Santo. Cristo è
affiancato, a sinistra, da un albero, simbolo della vita che si rigenera con
l’avvento del Salvatore, e a destra da san Giovanni Battista, vestito di
una pelle a brandelli. Il Redentore è mostrato frontalmente, immobile,
con le mani giunte e gli occhi umilmente abbassati. La perfezione del
suo corpo e la sua posa rigida e austera lo rendono simile ad un’antica
statua greca e d’altro canto il colore pallidissimo della sua pelle,
richiamato da quello dell’albero, contribuisce a conferirgli tale aspetto
scultoreo.

All’estrema sinistra, tre angeli assistono all’evento. Quello con un drappo


rosa sulla spalla, seminascosto dall’albero, guarda dritto verso
l’osservatore. Il suo compito è quello di agganciare lo sguardo del fedele
e di richiamare la sua attenzione. Egli svolge, insomma, la stessa
funzione del “festaiuolo”,

Sul fondo si scorgono dei farisei. Uno di loro, il più vecchio, indica il cielo
con il braccio destro, puntando alla colomba sospesa sul Cristo. Questo
suo gesto è enfatizzato dalla posizione parallela della gamba.

All’estrema destra, un neofita si spoglia per essere a sua volta


battezzato: un lampo di realismo, in una scena così intellettualmente
concepita, che richiama i bellissimi, neofiti dipinti da Masaccio nella
Cappella Brancacci.
A differenza dell’albero in primo piano, quello alle spalle dell’uomo che si
sta spogliando è secco; questa pianta rappresenta coloro che non si
battezzano, non seguono Cristo e dunque non possono dare frutto.

Il dolce paesaggio collinare, punteggiato di piante, è descritto nei minimi


particolari, secondo la consuetudine della pittura fiamminga che Piero
tanto apprezzava.

Nella zona centrale del dipinto, a sinistra, in lontananza, si riconosce nel


piccolo borgo fortificato la cittadina di Sansepolcro, qui ambiziosamente
presentata come nuova Gerusalemme. Il Giordano è dunque identificato
con il Tevere: una attualizzazione dell’evento evangelico assai consueta
nella pittura rinascimentale.

la scena immaginata da Piero è poco a che vedere con la riproduzione


fedele della realtà: essa è interamente una costruzione mentale. Lo
confermano alcuni particolari, come quello del fiume Giordano (di per sé,
un rigagnolo, seppure ricchissimo di riflessi) che non continua oltre i
piedi del Cristo; l’albero che sbuca da una riva che sembra lastricata in
pietra; la sostanziale assenza di ombre delle figure.

Anche la composizione della scena è molto rigorosa e guidata dalla


geometria e dalla matematica. La tavola è infatti composta da un
quadrato sormontato da una semicirconferenza, al centro della quale
l’artista collocò la colomba, le cui ali si distendono lungo il diametro.
Sull’asse verticale si distribuiscono colomba, mano e coppa del Battista,
corpo di Cristo, il cui ombelico coincide con l’incontro delle diagonali del
quadrato. Il vertice inferiore del triangolo equilatero costruito dal lato
superiore del quadrato coincide con i piedi di Gesù; l’altro triangolo
equilatero, quello costruito invece dal lato inferiore, ha il vertice sulla
mano del Battista. Il pentagono costruito all’interno del quadrato contiene
gran parte delle figure della composizione. L’albero di sinistra, infine, è
collocato in corrispondenza del rapporto aureo.

La singolare iconografia del Battesimo di Piero ha spinto gli storici


dell’arte a proporre due differenti interpretazioni.

Nel 1439, a Firenze, il pittore assistette all’apertura del Concilio ecumeni


coconvocato pochi anni prima da papa Eugenio IV e secondo alcuni
studiosi (che per questo motivo riconducono la datazione del dipinto a
quegli anni) il quadro farebbe riferimento a tale evento e dunque alla
raggiunta pacificazione fra la Chiesa d’Oriente (greca) e quella
d’Occidente (romana). Due angeli, infatti, si tengono per mano, mentre il
terzo ha la mano destra sollevata in un antico gesto classico che
significa concordia. Anche la presenza sullo sfondo di alcuni personaggi
vestiti all’orientale alluderebbe al tema della conciliazione fra la Chiesa
ortodossa e quella romana.

Altri studiosi hanno diversamente interpretato i tre angeli, uno dei quali è
vestito di bianco, rosso e blu (colori divini e trinitari), come l’allegoria
della Trinità; essi incarnerebbero, da sinistra, il Padre, lo Spirito Santo e
il Figlio. Piero avrebbe dunque scelto l’iconografia bizantina della Trinità
basata sull’apparizione dei tre angeli ad Abramo alle querce di Mamre, e
che il pittore russo Andrej Rublëv aveva magistralmente proposto, pochi
anni prima, in una delle sue più celebri icone. D’altro canto, l’ultimo
angelo è parzialmente coperto dall’albero che riconosciamo come un
noce, pianta che tradizionalmente simboleggia il Cristo

LA FLAGELLAZIONE

La flagellazione di Cristo si trova ad Urbino nel palazzo di FedericoII ed


è uno dei dipinti più misteriosi del 400 Italiano.

È una tempera su tavola di 60 × 80 cm, che raffigura Cristo legato alla


colonna mentre viene flagellato su ordine di Ponzio Pilato.Questa scena
si trova sulla sinistra, in secondo piano nonostante sia il tema del dipinto.

Iin questo dipinto troviamo architetture del periodo greco romano: un


portico dalle forme classiche, con soffitto a cassettoni retto da colonne
corinzie.
Proprio sotto questo portico troviamo un personaggio seduto con le
braccia sulle ginocchia il personaggio è Pilato e dietro di lui si trova una
porta che lascia intravedere una scala che dovrebbe portare al piano
superiore di quello che era il suo palazzo.

Al centro del portico, Cristo è legato alla colonna, affiancato da due


uomini che lo stanno flagellando e ,di fronte al loro, di spalle
all’osservatore c'è un personaggio con abiti orientali.

Sopra la colonna cui legato Cristo è presente una statua di un idolo,


forse un Dio greco.

Fuori dal portico l'architettura non ricorda quella classica, ma più quella
di una cittadina umbra del 400 proprio come Urbino: palazzetti con logge
e pavimento in cotto con riquadri, tipica delle piazze. La torre Bianca,
poi, ricorda il campanile del Duomo di Ferrara.

Il quadro presenta almeno due fonti di luce una è quella esterna ed è


naturale, l'altra è interna e illumina il soffitto sopra Cristo.

Dei tre personaggi in primo piano, quella sinistra col cappello, la barba è
un abbigliamento orientale con versa con un uomo che gli sta di fronte,
che sembra essere molto ricco, con un abito prezioso. Tra di loro un
giovane scalzo porta una semplice veste rossa, lo sguardo dritto di
fronte a sé ed è perso nel suo mondo.

Lo spazio del disegno aiuta ad “Unire” Le due parti del dipinto, grazie la
tecnica della prospettiva con un punto di fuga centrale che accentua la
visione unitaria dello spazio.

Questo disegno ha diverse interpretazioni alcuni studiosi credono che,


l'uomo barbuto in primo piano sia il cardinale Bessarione (arcivescovo di
nicea, che venne in Italia nel 1439 per un concilio), il giovane scalzo sia
il buonconte di Montefeltro (figlio di Federico duca di Urbino) e l'uomo dei
capelli grigi sia Giovanni Bacci (erudito e ricco personaggio dell'epoca).
Molto probabilmente i due uomini discutono dell'ultimo imperatore di
Bisanzio (Giovanni VIII Paleologo, responsabile delle sofferenze dei
cristiani da parte dei turchi).

L'imperatore in questione è rappresentato come Pilato, seduto


impassibile di fronte al supplizio di Cristo.

Anche la statua sulla colonna richiama Costantinopoli dove vi è una


uguale che richiamava il Dio sole.

L’uomo di spalle all'osservatore con abiti orientali sta significare la


minaccia Turca sui cristiani.

Secondo un'ipotesi questo quadro fu regalato da Giovanni Bacci a


Federico Secondo di Montefeltro per convincerlo a partecipare a una
crociata contro i turchi, sostenuta anche dal cardinale Bessarione. Difatti,
il figlio di Federico (morto di peste a 17 anni), guarda verso l'osservatore
del quadro (il padre) come ad esortarlo ad accettare.

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