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Dispense complete di

UROLOGIA
a cura di Luca Tinelli

A.A. 2019/2020
INDICE
Cenni di anatomia 3
Anuria e ritenzione urinaria 4
Iperplasia prostatica benigna (IPB) 6
Incontinenza urinaria 7
Urolitiasi 8
Disfunzione erettile 10
Infezioni delle vie urinarie (IVU) 12
Scroto acuto 12
Traumi di interesse urologico 13
Tecniche laparoscopiche e robotiche in urologia 15
Tumori di interesse urologico 16
Tumori uroteliali 16
Tumori della vescica 17
Tumori del testicolo 18
Tumori del rene 20
Tumori della prostata 22
Malformazioni genito-urinarie 23
Idrocele e varicocele 27
Idronefrosi da ostruzione congenita 27

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a Beppe
Cenni di anatomia
L’urologia si occupa della prevenzione, della diagnosi e della cura di quelle malattie che interessano
l’apparato urinario maschile e femminile, il surrene e l’apparato genitale maschile.
I reni sono due organi pari e simmetrici, di colorito brunastro e situati nel retroperitoneo ad
un’altezza compresa tra le vertebre T11 ed L2. I reni sono irrorati dall’aorta e drenati dalla vena
cava. Misurano circa 12 cm, presentano una superficie liscia nell’adulto (ma lobulata nel bambino)
e si possono suddividere in una parte esterna (corticale, ricca di glomeruli) ed in una interna
(midollare, attraversata dai tubuli renali). La midollare è poi organizzata in piramidi, ciascuna delle
quali finisce con una parte bombata detta papilla renale che, a sua volta, si inserisce in un calice. La
papilla mostra una superficie bucherellata: ciascun foro è la parte finale di un tubulo renale, da cui
sgocciola nel calice l’urina. Le vie urinarie intrarenali sono costituite dai calici, che si dividono in un
gruppo superiore, uno medio ed uno inferiore; queste strutture si riuniscono andando a formare il
bacinetto (o pelvi) renale.
I reni poggiano direttamente sui muscoli psoas e quadrato
IN CASO DI DONAZIONE DEL RENE
dei lombi e, in parte, sul diaframma. Essi sono circondati
dal grasso perirenale (compreso tra il rene e la fascia di Si preleva nel 90% dei casi il rene di
Gerota) e da quello pararenale (posto esternamente sinistra: siccome le vene possono
rispetto alla fascia di Gerota). I reni prendono rapporti con andare facilmente incontro a
i vari organi attraverso questo grasso: il rene di destra ha trombizzazione per la lentezza di
rapporti con il fegato, con la seconda porzione del scorrimento del sangue, si preleva il
duodeno, con il colon (una parte dell’ascendente, la rene che presenta la vena renale più
lunga (quindi il rene di sinistra). Questo
flessura destra, una parte del trasverso) e con il surrene. Il
perché più lunga è la vena drenante,
rene di sinistra, invece, ha rapporti con la milza, con la minore è la probabilità di sviluppare
coda del pancreas, con il colon (una parte del trasverso, la trombi.
flessura di sinistra, una parte del discendente) e con il
surrene.
Alle vie urinarie intrarenali seguono gli ureteri, piccoli tubi lunghi 25 cm e dotati di peristalsi preposti
al trasporto dell’urina fino alla vescica. Da un punto di vista topografico, distinguiamo tre parti:
lombare, pelvica (che sta nel piccolo bacino) e intramurale (che corre nello spessore della parete
vescicale). L’uretere presenta anche tre restringimenti fisiologici: il primo è localizzato subito a valle
della pelvi renale (giunzione pielo-ureterale), il secondo a livello dell’intersezione con i vasi iliaci
(restringimento iliaco) e l’ultimo in corrispondenza dello sbocco in vescica (restringimento
intramurale). La vescica è una struttura dotata di un duplice scopo: trattenere l’urina e svuotarsi in
base alla volontà del soggetto. Procedendo dalla parte più interna a quella più esterna, la vescica è
composta da un epitelio di transizione (che è uguale dai calici renali fino al primo tratto dell’uretra),
da una lamina propria, da uno strato muscolare (detrusore) e da uno strato di tessuto adiposo
(pericistio). La parte superiore (cupola vescicale) è ricoperta dal peritoneo. Internamente la vescica
presenta tre orifizi: uno mette in comunicazione la vescica con l’uretra (collo della vescica), mentre
gli altri due sono gli sbocchi degli ureteri (meati ureterali). Unendo questi tre orifizi con una linea
immaginaria otteniamo un triangolo detto trigono vescicale. Dalla vescica origina l’uretra: nel
maschio è più lunga ed è circondata dalla prostata nel primo tratto. Nella prostata passano anche i
dotti eiaculatori e, dalla loro inserzione nell’uretra in poi, il canale urinario e quello genitale si
uniscono e diventano la stessa cosa. Nella femmina, invece, l’uretra è molto più breve e il pavimento

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pelvico è perforato da tre canali: vagina, retto e uretra. Per tutti questi motivi la donna soffre di
incontinenza (poco frequente nel sesso maschile) e di prolassi della vescica (dovuto a brevità del
canale), dell’utero (dovuto a sforzi durante il parto) e del retto.

TERMINOLOGIA

Diuresi: quantità di urina emessa nel corso delle 24 ore.


Poliuria: diuresi >2 L/24 ore (comune nel diabete insipido).
Poliuria notturna: produzione di urine nella notte >30% di quella escreta nelle 24 ore.
Oliguria: diuresi <500 ml/24 ore.
Anuria: mancata produzione di urina da parte dei reni.
Ritenzione urinaria: incapacità del paziente di svuotare la vescica.
Pollachiuria: frequenza con cui il paziente va a urinare (normalmente 7-8 volte/24 ore).
Disuria: difficoltà a urinare.
Stranguria: bruciore all’atto minzionale.
Tenesmo vescicale: urgenza a urinare.
Iscuria paradossa: situazione di completo riempimento vescicale per cui la vescica si svuota goccia a
goccia.
Urgenza minzionale: accorciamento dell’intervallo di tempo tra una minzione e l’altra.
Esitazione minzionale: difficoltà a iniziare la minzione.
Pneumaturia, fecaluria, piuria, ematuria: escrezione di aria, feci, pus o sangue dal meato uretrale esterno
durante la minzione. In particolare, l’ematuria può essere macroscopica (visibile a occhio nudo) o
microscopica (visibile mediante tecniche di laboratorio).
Uretrorragia: perdita di qualche goccia di sangue dal meato uretrale esterno non durante la minzione.
Emospermia: presenza di sangue nello sperma.

Anuria e ritenzione urinaria


L’anuria è l’assenza di emissione di urina ed è associata ad una vescica vuota. Questa condizione
può essere dovuta alla presenza di ostacoli che impediscono all’urina di arrivare in vescica: la
patologia più comune in tal senso è rappresentata dalla calcolosi. Altre cause di anuria possono
essere date da patologie compressive (generalmente di natura oncologica). L’anuria può essere
confermata fin da subito con un’ecografia vescicale: l’anuria post-renale è di competenza
dell’urologo, il quale ha a disposizione diverse soluzioni terapeutiche. L’obiettivo, che può essere
raggiunto mediante nefrostomia o stent, è quello di creare un bypass tra la pelvi renale e la vescica
in modo da ripristinare la diuresi. La nefrostomia porta le urine
CREATININEMIA
direttamente all’esterno mediante un tubicino che collega la pelvi
renale alla superficie cutanea; lo stent invece è un tubicino in silicone 0,6-1 mg/dl nelle femmine
che viene posizionato all’interno dell’uretere e permette il passaggio 0,8-1,2 mg/dl nei maschi
dell’urina fino alla vescica. Nell’anuria i reni smettono di filtrare e la
creatinina aumenta molto rapidamente.

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La ritenzione urinaria, invece, è l’incapacità del paziente di svuotare la vescica (che è piena): questa
situazione è quindi causata da un ostacolo posto a valle della vescica. La ritenzione va classificata in
base alla durata (può essere acuta o cronica) e all’estensione (può essere completa o incompleta).
Nella ritenzione urinaria i reni filtrano normalmente e la creatinina aumenta lentamente.
Esiste una situazione, nota come iscuria paradossa, che dà un quadro di falsa incontinenza. Il
paziente dice di urinare, ma in verità è in un quadro di ritenzione cronica completa e presenta valori
molto elevati di creatinina. In questo caso la vescica è talmente piena che il volume urinario vince
le pressioni di chiusura dell’uretra e la vescica si svuota goccia a goccia; questo quadro non è
accompagnato da dolore. L’iscuria paradossa può essere trattata con un catetere.
In realtà, tutte le patologie che causano una riduzione del calibro dell’uretra avranno più o meno lo
stesso quadro (cioè quello di sfavorire una minzione regolare): riduzioni del calibro dell’uretra
possono essere causate da stenosi, patologie a carico della prostata (come l’iperplasia prostatica
benigna) o calcoli (in realtà i calcoli uretrali sono molto rari). Patologie a carico della prostata non
portano a sviluppare segni metabolici di disfunzione (come invece può succedere nel caso di fegato
o reni). La prostata continua a svolgere la sua funzione indifferentemente dal suo stato di salute:
per questo motivo alterazioni prostatiche si manifestano solo per interessamento secondario di
vescica e reni. La prostata può essere studiata con l’ecografia tradizionale (sovrapubica, svolta nel
90% dei casi) o transrettale (che è più precisa perché valuta i diametri prostatici). L’ecografia però
non ci permette di trovare eventuali neoplasie a carico della prostata: a tal fine dobbiamo ricorrere
all’uro-TC. Un altro esame preoperatorio molto utile è la flussimetria urinaria, che ci permette di
rappresentare graficamente il volume di urina eliminato nell’arco di tempo. La vescica esercita
sempre la stessa pressione per potersi svuotare ma la presenza di una prostata ingrossata (che funge
da ostacolo) viene a creare un residuo post-minzionale. Questo rappresenta un ulteriore
impedimento allo svuotamento e andrà ad aggravare il quadro: da un lato la vescica si carica di
meno perché la prostata ingrandendosi va a diminuire il volume vescicale, dall’altro la vescica si
svuota di meno. Il residuo post-minzionale è uno degli indicatori di volume che ci permette di
decidere se iniziare una terapia o se indirizzare il paziente verso un trattamento chirurgico (un valore
>100 ml non è accettabile). Per quanto riguarda le conseguenze, la presenza del residuo post-
minzionale causa:
1) Ricorrenti infezioni delle vie urinarie (IVU) per ristagno dell’urina;
2) Insufficienza renale cronica perché l’aumento volumetrico dell’urina non espulsa può
causare un rallentamento della velocità di filtrazione renale;
3) Idronefrosi per reflusso dell’urina dalla vescica (ormai piena) alla pelvi;
4) Pielonefrite cronica per sovrainfezione dell’idronefrosi;
5) Sviluppo di diverticoli a livello vescicale. Un diverticolo è un’estroflessione della parte interna
di un organo cavo attraverso la sua parete muscolare. I diverticoli si formano perché il
paziente per urinare meglio tende ad aumentare la pressione intraddominale: la vescica
prenderà quindi un aspetto a celle e colonne (le colonne sono le maglie muscolari, le celle
sono l’erniazione della mucosa verso l’esterno). Il diverticolo andrà a creare una conca in cui
si accumulerà l’urina e in cui si avrà una proliferazione batterica importante;
6) Calcolosi vescicale per ristagno urinario;
7) Ematuria.
La presenza di anche solo una di queste complicanze rende necessario ricorrere a interventi
chirurgici: una delle procedure più eseguite oggi è la TURP (resezione endoscopica della prostata)
che, per frequenza, ha soppiantato l’adenomectomia prostatica transvescicale (rimozione della
prostata a cielo aperto).
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Iperplasia prostatica benigna (IPB)
È una condizione parafisiologica correlata con l’età: a partire dai 30 anni nella zona centrale della
prostata si sviluppano delle ghiandole (periuretrali) che si organizzano in una struttura solida. La
prostata si fa quindi schiacciare da questa struttura adenomatosa. Questo accrescimento non ha
però alcun significato funzionale. Esiste una serie di sintomi correlati allo stimolo maggiore della
vescica che cerca di liberarsi del contenuto: la vescica infatti non capisce che c’è “qualcosa” che
spinge da sotto. I recettori vescicali percepiscono in modo ingannevole un aumento di volume, che
può essere dato o dall’urina contenuta o da una struttura esterna (che comprimendo la vescica
causa una diminuzione della capacità vescicale). Per questo motivo i recettori del trigono vescicale
registrano una variazione di volume e inviano stimoli alla corteccia cui conseguono pollachiuria,
disuria, urgenza minzionale ed esitazione minzionale. Un aumento delle dimensioni della prostata
può però essere osservato anche in soggetti più giovani che presentino una prostata infiammata
(prostatiti acute): questa situazione è però associata a febbre e dolore (del tutto assenti in pazienti
con iperplasia prostatica). Dal punto di vista diagnostico, si ricorre a:
1) Esplorazione rettale, che andrebbe eseguita almeno una volta all’anno dopo i 50 anni;
2) Ecografia sovrapubica (più usata) o transrettale (solo in fase preoperatoria);
3) Cistoscopia, che è un esame endoscopico con strumento flessibile che permette di vedere
l’interno della vescica per via transuretrale;
4) Flussimetria, che mostrerà un getto più debole;
5) Esami bioumorali (creatinina, indici di funzionalità renale) per escludere che l’aumento di
dimensioni della prostata abbia causato compromissione delle vie urinarie superiori
(insufficienza renale cronica);
6) Valutazione dello stato di salute generale del paziente per escludere quelle patologie
(diabete, ipertensione) che possono causare un quadro di insufficienza renale cronica
“borderline”. Questa situazione può infatti peggiorare per la presenza di un’iperplasia
prostatica;
7) Dosaggio del PSA, che non è un marker tumorale ma PSA (ANTIGENE PROSTATICO
è un marker prostato-specifico. Non sempre valori SPECIFICO)
elevati di PSA si possono associare a tumore, dal
momento che questo può essere presente anche in Proteina che mantiene il liquido
caso di valori ridotti di PSA. La prostata è una seminale fluido dopo l’eiaculazione.
ghiandola tubulo-acinosa composta che produce il Valori normali <4 ng/ml
PSA e lo immagazzina nelle vescicole seminali. Se per
qualche motivo la prostata subisce un insulto, il PSA può filtrare attraverso un’alterazione
strutturale della parete dell’acino e dirigersi verso i capillari. Per distinguere una prostatite
da un tumore, va studiato l’andamento nel tempo del PSA: innalzamenti veloci seguiti da
rapide diminuzioni sono spesso associati a infiammazioni, mentre innalzamenti lenti e
costanti sono tipici di neoplasie. Il clinico deve chiedere il PSA libero e quello coniugato (che,
nell’insieme, costituiscono il PSA totale). Il rapporto PSA libero/PSA totale può indicare al
clinico la necessità di ricorrere ad altri esami per identificare una neoplasia: valori tra il 20 e
il 10% sono dubbi, mentre valori inferiori al 10% sono fortemente indicativi di neoplasia. Il
PSA però non è un marker tumorale, per cui non esiste alcuno screening basato sul PSA.
Dal punto di vista terapeutico, l’urologo inizialmente procede con un trattamento medico (e non
chirurgico) basato su farmaci α-litici (antipertensivi) o inibitori della 5-α reduttasi. Questi composti
possono anche lavorare in maniera sinergica. Gli α-litici agiscono sui recettori del trigono vescicale
inibendo la loro attività (cui consegue una diminuzione dei disturbi irritativi precedentemente
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elencati) e causando un rilasciamento delle fibre muscolari del trigono (per cui quando il paziente
inizierà la minzione avrà meno esitazione). Gli inibitori della 5-α reduttasi, invece, agiscono sul
parenchima prostatico diminuendo la tensione interna della ghiandola (per cui sul lungo termine si
avranno riduzione della ritenzione urinaria e miglioramento del residuo post-minzionale). Laddove
la terapia farmacologica non funzioni e si sviluppino delle conseguenze (calcoli, diverticoli, IVU,
insufficienza renale), si può ricorrere al trattamento chirurgico. Questo può prevedere due
interventi vincolati soprattutto al volume della prostata: se di piccole dimensioni (fino a 90 cc) si
ricorre alla chirurgia endoscopica TURP (mediante uno strumento rigido noto come resettore), se di
grandi dimensioni (oltre a 90 cc) si ricorre all’adenomectomia. Recentemente è stata introdotta
anche l’endoscopia laser THULEP (in sostituzione dell’adenomectomia) per il trattamento di
prostate di dimensioni consistenti: questa nuova tecnica permette di vaporizzare la prostata e
comporta un minor rischio di sanguinamento.

Incontinenza urinaria
Definita come una perdita involontaria di urina dall’uretra, è una patologia legata principalmente
all’invecchiamento, situazione che comporta modificazioni funzionali dell’apparato sfinterico. Per
ragioni anatomiche questa patologia è più diffusa nel sesso femminile (3-17%), soprattutto per via
della gravidanza fisiologica (che porta a una lesione della muscolatura pelvica). Dal punto di vista
classificativo, le due forme più diffuse sono stress incontinence e urge incontinence.
La stress incontinence è dovuta a sforzi che causano aumenti pressori intraddominali. Tra le sue
cause troviamo:
1) Cause iatrogene (lesioni sfinteriche secondarie alla chirurgia della prostata, rimozione
chirurgica dell’utero);
2) Prolassi uretro-vaginali. Nella donna non c’è uno sfintere così ben rappresentato: la
continenza dipende dalla posizione della vescica (posta superiormente al piano perineale,
posizione che permette un’omogenea distribuzione del carico pressorio sulla vescica e
sull’uretra). In caso di prolasso, invece, si hanno aumenti pressori intraddominali che si
concentrano solo sulla vescica causando uno schiacciamento uretrale;
3) Gravidanza e menopausa, che aumentano la mobilità dell’uretra;
4) Malformazioni (sbocco ectopico degli ureteri in uretra) e fistole urinose (retto-vescicali,
vagino-vescicali);
5) Diverticoli uretrali. Questi nascono da ghiandole parauretrali che si ostruiscono (per fattori
infiammatori o infettivi) e si obliterano con formazione di piccoli ascessi: si formano così
delle cavità che si riempiono di urina durante la minzione e che si svuotano per contrazione
della muscolatura dopo la minzione stessa;
6) Altre cause (obesità, stipsi, traumatismi, patologie neurologiche).
La urge incontinence è definita come l’incapacità di dilazionare la necessità a urinare. Si associa a
iperattività detrusoriale e bassa compliance vescicale e si manifesta con pollachiuria e nicturia.
Troviamo poi altri tipi di incontinenza meno diffusi (enuresi notturna, incontinenza continua,
gocciolamento post-minzionale).
Dal punto di vista diagnostico, possiamo ricorrere a:
1) Anamnesi, che può orientarci verso l’origine eziologica della patologia;
2) Esame obiettivo, che ci permette di testare il tono anale (se molto basso può indicarci la
presenza di una patologia neurologica) e il riflesso bulbo-cavernoso (solo nei maschi);

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3) PAD-test, o prova del pannolino, in cui si dà al paziente un pannolino che verrà pesato dopo
un periodo di tempo prestabilito per quantificare la gravità dell’incontinenza;
4) Ecografia sovrapubica o translabiale (quella transvaginale è stata abbandonata perché altera
la statica);
5) Cistografia con MdC;
6) Cistoscopia (usata solo per sospette patologie vescicali);
7) Valutazione dell’urodinamica (mediante uroflussometria o cistomanometria) per studiare le
pressioni e i flussi all’interno della vescica;
8) Risonanza magnetica (solo in centri specializzati).
La terapia può essere farmacologica, riabilitativa o chirurgica. L’approccio farmacologico si basa sulla
somministrazione di duloxetina (SNRI che aumenta il tono vescicale ma che causa anche
allungamento dell’intervallo QT) o di farmaci anticolinergici (per la urge incontinence; questi
causano però alterazioni gastroenteriche). L’approccio riabilitativo si basa su esercizi di ginnastica
utili a migliorare la funzionalità della muscolatura del pavimento pelvico. Gli approcci chirurgici si
basano sul sollevamento e sull’ancoramento della vescica e dell’uretra o sull’inserimento di sfinteri
artificali.

Urolitiasi
Con questo termine si indica la presenza di cristalli all’interno delle vie urinarie. I calcoli possono
essere:
1) Di origine calcica (ossalato, fosfato, ossalato e fosfato). Radiologicamente sono radiopachi;
2) Di struvite (misti, ovvero di natura organica e inorganica), spesso associati a infezioni. Sono
i calcoli volumetricamente più significativi e sono radiologicamente diafani (ovvero
presentano aspetti di radiopacità e di radiotrasparenza);
3) Di acido urico (determinati dalla deposizione di urati, spesso associati a gotta, dieta Dukan o
neoplasie). Radiologicamente sono radiotrasparenti;
4) Di cistina (correlata a cistinuria, malattia genetica autosomica dominante, tipicamente
pediatrica).
L’uso sempre più preponderante della TC senza MdC ha permesso di superare i problemi correlati
alla radiopacità e alla radiotrasparenza. La TC permette anche di misurare la densità (in Hounsfield),
caratteristica importante per la diagnosi: un valore elevato di UH indica la natura calcica del calcolo,
mentre un valore basso indica la natura uratica del calcolo. Tuttavia, per facilità e velocità
d’esecuzione, l’esame strumentale oggi più usato resta l’ecografia addominale. Vanno richiesti
anche gli esami bioumorali (emocromo, creatinina, ioni, PCR).
I calcoli si formano per sovrasaturazione, motivo per cui è necessario aumentare la quota di acqua
libera mediante un’idratazione continua nel corso della giornata. Inoltre andrebbe anche
incrementata l’assunzione di citrati perché la calcolosi è associata ad una carenza di questi composti.
Difetti del metabolismo calcico (ipercalciuria, iperossaluria, eccetera) andrebbero approfonditi e
trattati: molto spesso sottendono patologie non diagnosticate. Un esempio può essere dato da uno
stato di ipercalciuria ipercalcemica causata da un adenoma delle paratiroidi secernente elevati livelli
di paratormone. Vanno poi tenute presenti le calcolosi idiopatiche, patologie caratterizzate da
un’elevata familiarità.
Un altro elemento correlato alla formazione di cristalli è il pH urinario: valori acidi sono spesso
correlati alla formazione di cristalli di acido urico, motivo per cui possiamo somministrare
bicarbonati per alcalinizzare le urine. Viceversa, valori alcalini sono spesso correlati alla formazione
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di cristalli di struvite: questi cristalli si formano per la presenza di batteri produttori di ureasi, enzima
che causa un aumento di pH. Il calcolo stesso può costituire un ottimo ambiente di riproduzione
microbica. Il trattamento di questi cristalli consisterà quindi nell’acidificazione delle urine.
In ultima analisi, la formazione di calcoli può essere correlata alla stasi urinaria: un flusso laminare
non permette l’aggregazione dei cristalli, mentre un flusso turbolento e un rallentamento del flusso
permettono l’innesco di un primo nucleo a partire dal quale si può formare un calcolo. Questa
situazione può essere correlata a malformazioni delle vie urinarie, a IVU croniche e ad alterazioni
della dinamica urinaria (intesa come ritenzione e aumento del residuo post-minzionale).
Dal punto di vista clinico, il paziente con colica acuta presenta:
1) Dolore colico, dovuto alla contrazione spastica della PAZIENTE CON COLICA VS
muscolatura liscia ureterale. Questo dolore, evocabile anche PAZIENTE CON PATOLOGIA
dalla manovra di Giordano, si proietta dal fianco in avanti e PERITONEALE
in basso fino ad arrivare alla radice della coscia. Solitamente
Un paziente con colica è un
è ingravescente (perché l’urina continua ad essere filtrata e
soggetto che continua a
il rene va in tensione) e può essere associato a disuria muoversi per farsi passare il
(soprattutto se il calcolo si incunea a livello dello sbocco dolore, mentre un paziente
ureterale in vescica). Il calcolo può andarsi a incastrare a con patologia peritoneale
livello dei restringimenti fisiologici (giunzione pielo- assume una posizione di
ureterale, restringimento iliaco, restringimento difesa e non si muove per
intramurale). Tutti i calcoli di diametro <3 mm passano senza non esacerbare il dolore.
dare alcun problema; quelli di diametro compreso tra i 3 e i
7 mm passano nel 60% dei casi con difficoltà. Sopra i 7 mm difficilmente arrivano in vescica.
Non tutti i calcoli però hanno forma sferica, anzi molti possono presentare forma allungata-
cristalloide;
2) Ematuria, causata dal passaggio del calcolo in uretere. Un dolore che insorge prima della
comparsa di ematuria è legato a una patologia litiasica. Viceversa, un dolore che si sviluppa
dopo la comparsa di ematuria è spesso correlata a una patologia neoplastica: un esempio
può essere dato da un tumore renale che causa un continuo sanguinamento; tale
sanguinamento può manifestarsi prima con emazie nelle urine e, solo in un secondo tempo,
con la formazione di un coagulo che occlude l’uretere causando dolore colico;
3) Febbre urinaria, dovuta alla stasi urinaria cui conseguono proliferazione batterica e
setticemia. È una febbre a brivido scuotente e temperatura elevata.
Per quanto riguarda il trattamento, si consiglia di ridurre l’apporto di liquidi per diminuire il carico
lavorativo del parenchima renale. In prima battuta si consiglia l’uso di FANS per il loro effetto
analgesico: il farmaco più usato è il diclofenac (nome commerciale Voltaren); il ketorolac
trometamina (nome commerciale Toradol) non viene usato perché ha un’incidenza sulla
funzionalità renale. I miorilassanti bloccano le contrazioni spastiche della muscolatura ureterale,
mentre gli α-litici si possono usare off-label anche per favorire il rilassamento delle fibre muscolari
del trigono nel caso in cui si dovesse considerare un’espulsione spontanea di un calcolo arrivato
quasi alla fine del suo percorso ureterale. Nel caso in cui il
dolore dovesse persistere si può procedere con la Le parti lombare e pelvica sono le
uniche due porzioni dell’uretere non
somministrazione di oppiacei. Va tenuto presente anche
visibili all’ecografia. Per poterle
che non tutti i calcoli hanno effetto ostruente: per capire studiare occorre usare la TC.
se un calcolo è ostruente o meno si procede con TC con
MdC (se questo passa, allora il calcolo non è ostruente); questo può essere stabilito anche studiando
il jet ureterale (urina che esce dal meato ureterale) con l’ECO-Color Doppler, strumento che ci
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permette di osservare i flussi. La presenza di flusso o meno ci può indirizzare verso una possibile
terapia chirurgica endoscopica. In anamnesi va anche indagata la possibilità che il paziente sia
monorene: in tal caso il soggetto va trattato in urgenza. Nella calcolosi si può anche considerare
l’uso di un tutore ureterale (stent): questo è un tubicino dotato di due riccioli ai capi che gli permette
di fissarsi da un lato alla pelvi, dall’altro alla vescica. L’urina non passa solo dentro lo stent, ma anche
tutto attorno grazie alla presenza delle contrazioni ureterali. Questo tutore viene inserito (e tenuto
per 7-10 giorni) anche dopo aver eliminato chirurgicamente il calcolo perché l’uretere dopo
l’intervento tende a diventare edematoso, per cui la presenza di un supporto impedisce un’ulteriore
occlusione. Al termine di questo periodo di riposo, il tutore viene eliminato endoscopicamente con
il cistoscopio (senza anestesia). Se lo stent non viene rimosso (per dimenticanza del medico o del
paziente), può andare incontro a calcificazione. Fino agli anni Ottanta, i pazienti con calcoli venivano
trattati con interventi open: tale approccio venne progressivamente abbandonato perché la
calcolosi è una patologia con un alto tasso di recidività. Ciò ha portato gli urologi ad orientarsi verso
l’uso di strumenti endoscopici e trattamenti come l’ESWL (litotripsia extracorporea a onde d’urto).
Quest’ultimo trattamento si basa sull’uso di un macchinario capace di concentrare le onde d’urto
su un fuoco (rappresentato dal calcolo). Tra gli effetti collaterali dell’ESWL troviamo i danni al rene
laddove il fuoco sia erroneamente centrato sul parenchima renale (e non sul calcolo). L’eventuale
uso di anticoagulanti (NAO, Coumandin, aspirina) può rappresentare una controindicazione al
trattamento con ESWL: questo perché le onde d’urto possono andare a impattare sul parenchima
renale portando alla formazione di ematomi. Un calcolo posto a livello renale può essere anche
trattato in endoscopia con un nefroscopio per via percutanea (ovvero creando un tramite tra la cute
del dorso e le cavità renali). Un calcolo posto a livello lombare può essere raggiunto con endoscopia
con accesso dal basso: in questo caso si usa l’ureteroscopio (strumento dal
diametro di 9 Fr che permette di risalire le vie urinarie). All’interno di 1 Fr(ench) = 0,3 mm
questo strumento si trovano quattro vie: una per far passare l’ottica, una
per far passare la fonte di luce, una per far passare la via operativa (con strumento flessibile) e una
per far passare l’acqua (necessaria per bagnare la zona). Quindi i calcoli piccoli (2-3 cm) posti a livello
lombare possono essere operati per via endoscopica (sotto guida radiologica). La via operativa
permette di rompere il calcolo usando il laser, un martellino pneumatico o gli ultrasuoni. La
complicanza maggiore della chirurgia endoscopica è l’avulsione ureterale: lavorando con uno
strumento rigido all’interno di un viscere morbido e molto sottile, si possono avere difficoltà nel far
progredire lo strumento. Forzandolo, l’uretere si allarga e permette il passaggio dello strumento: al
momento della retrazione dello strumento, la parte più larga dello strumento (che ha forma
lievemente conica) causa un’invaginazione (detta intussuscezione) dell’uretere che si strappa. In
questo caso, l’uretere va ricostruito usando un’ansa ileale.

Disfunzione erettile
Definita come l’incapacità di raggiungere un’erezione adeguata per un soddisfacente rapporto
sessuale. Sebbene sia una patologia localizzata a un singolo apparato, molto spesso è espressione
di patologie metaboliche o psicogene. I principali fattori di rischio sono rappresentati da:
1) Età;
2) Fumo, perché causa minore apporto vascolare e minore ossigenazione del sangue;
3) Consumo di alcol;
4) Ipertensione e cardiopatie;
5) Fattori traumatici o iatrogeni come la chirurgia pelvica (prostatectomia radicale, cistectomia
radicale);

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6) L’uso di farmaci quali antiandrogeni (puri o LHRH-agonisti per il trattamento del carcinoma
prostatico), antipertensivi (diuretici, ACE-inibitori, calcio-antagonisti, β-bloccanti),
psicofarmaci (benzodiazepine, antidepressivi, antipsicotici), inibitori della 5-α reduttasi,
chemioterapici;
7) Diabete e malattie endocrine (ipogonadismo, iperprolattinemia);
8) Priapismo, definito come un’erezione patologica del pene della durata superiore alle 2-3 ore.
In questa situazione il ristagno di sangue nei corpi cavernosi può causare acidosi e
conseguente fibrosi delle strutture peniene. Il priapismo può essere legato all’assunzione di
farmaci (assunti in quantità errate), a sostanze d’abuso (cocaina) o a cause professionali. In
quest’ultima categoria rientrano i ciclisti professionisti che presentano continui
sollecitamenti meccanici alle branche ischio-pubiche dei corpi cavernosi con conseguenti
shunt arterovenosi;
9) Fattori psicogeni (stress, depressione, ansia da prestazione).
Dal punto di vista anatomico, le arterie cavernose (originanti dall’arteria pudenda interna) sono i
vasi sanguigni deputati all’erezione che scorrono all’interno dei corpi cavernosi, elementi cavi
circondati dalla tonaca albuginea. La tonaca albuginea è la struttura fibrosa preposta a dare una
struttura al pene nel momento in cui i corpi cavernosi, gonfiandosi, aumentano il proprio volume. Il
glande, invece, è irrorato dalle arterie bulbo-uretrale e dorsale: corpi cavernosi e glande sono quindi
due strutture facilmente scorporabili dal punto di vista chirurgico. Il deflusso venoso del pene è
garantito dal plesso periprostatico e dalla vena pudenda interna. L’innervazione è garantita dai nervi
pudendi, cavernosi e dorsali; i nervi responsabili dell’erezione sono quelli cavernosi che, a livello
pelvico, sono adesi alla prostata.
L’erezione prevede un rilassamento della muscolatura liscia dei corpi cavernosi, una vasodilatazione
arteriosa (con allagamento dei corpi cavernosi stessi) e un’occlusione venosa. Il rilassamento
muscolare è un meccanismo non-adrenergico e non-colinergico mediato dall’ossido nitrico
(sintetizzato a partire dall’arginina e liberato dai neuroni). L’ossido nitrico stimola l’enzima guanilato
ciclasi con formazione di cGMP il quale, a sua volta, determina una riduzione del calcio intracellulare
con rilassamento muscolare finale. L’erezione termina quando il cGMP viene metabolizzato dalla
fosfodiesterasi. Dal punto di vista pressorio, quando l’erezione è al massimo la pressione dell’arteria
pudenda interna è al minimo; l’eiaculazione segna l’inizio della detumescenza perché è
caratterizzata da stimolazione simpatica, contrazione delle cellule muscolari lisce e dei corpi
cavernosi, riduzione del deflusso arterioso e aumento di quello venoso.
Dal punto di vista diagnostico, bisogna indagare la presenza di erezioni mattutine: la loro presenza
può orientare i sospetti verso problemi psicogeni. Si deve poi procedere a un’ispezione dei genitali
esterni, al dosaggio ormonale (testosterone e prolattina), all’ECO-Doppler (per valutare il flusso
sanguigno previa somministrazione intracavernosa di prostaglandine) e all’ecografia peniena
dinamica. Poco diffusi risultano il rigiscan (strumento usato per valutare la presenza e l’entità delle
erezioni notturne), la cavernosometria con MdC (per valutare l’albero venoso) e l’arteriografia (per
valutare l’albero arterioso).
Dal punto di vista terapeutico, si può ricorrere a prostaglandine (per via iniettiva) o agli inibitori della
fosfodiesterasi (vasodilatatori selettivi somministrati per via orale). In quest’ultima categoria rientra
il sildenafil (nome commerciale Viagra).

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Infezioni delle vie urinarie (IVU)
Le infezioni delle vie urinarie sono legate a malformazioni (nel bambino), a stati di gravidanza (nella
donna), all’età (nell’uomo, soprattutto per ingrossamento della prostata) e all’attività sessuale (in
entrambi i sessi). I quadri più tipici sono rappresentati dalla cistite e dalla vaginite, dalla prostatite,
dalla pielonefrite (che può evolvere in setticemia), dalla sindrome uretrale acuta e dall’uretrite
infettiva gonococcica o non-gonococcica (dovuta a infezioni da Mycoplasma hominis, Chlamydia
trachomatis, Trichomonas vaginalis).
Dal punto di vista diagnostico si ha batteriuria (almeno 100mila colonie) nel mitto intermedio. La
reinfezione è la comparsa di batteriuria dopo un ciclo di terapia con un patogeno diverso da quello
originariamente isolato: generalmente questo può essere dovuto alla massiccia riproduzione di una
colonia batterica presente già nel corso della prima infezione ma meno rappresentata agli esami
delle urine. La recidiva invece è invece la riconferma dello stesso patogeno dopo un ciclo di terapia
e indica persistenza del microorganismo: una recidiva ripetuta nel tempo è definita come infezione
cronica urinaria. L’uso persistente di antibiotici (fluorochinoloni, β-lattamici) ha causato sul lungo
termine farmaco-resistenze diffuse, per cui si cerca di evitare la somministrazione di antibiotici (a
meno che non sia strettamente necessario). Queste infezioni sono sostenute nel 70-90% dei casi da
batteri Gram-negativi (Klebsiella, Enterobacteriaceae, Serratia) e solo raramente da batteri Gram-
positivi. Nel sesso femminile e nei pazienti defedati sono comuni anche le infezioni da miceti
(Candida albicans). Questi quadri infettivi possono essere correlati a diffusione del patogeno per via
ascendente (95% dei casi) o per via ematogena (3-4% dei casi). Appare quindi necessario indagare
anche la presenza di altre patologie, soprattutto gastrointestinali (morbo di Crohn, RCU, sindrome
dell’intestino irritabile, diverticoli, stipsi o diarrea): queste rientrano infatti tra i principali fattori di
rischio nello sviluppo di IVU.

Scroto acuto
Situazione clinica relativamente frequente che si manifesta con dolore acuto, aumento di volume
testicolare e arrossamento cutaneo. Dal punto di vista eziologico, le cause più comuni di scroto
acuto sono:
1) Torsione testicolare, condizione in cui si ha una torsione del cordone spermatico (e non del
testicolo come invece potrebbe far pensare il nome). Situazione più frequente nei bambini,
la diagnosi si basa sulla visualizzazione diretta del cordone ritorto e sull’identificazione dei
cambiamenti indotti dal processo patologico sul testicolo. La torsione porta a infarto
testicolare emorragico (torsione di 180° con occlusione venosa) o ischemico (torsione di 360°
con occlusione arterovenosa). Dal punto di vista diagnostico, si esegue un esame ecografico
che mostra gonfiore testicolare, diffusa ipoecogenicità e mancanza di flusso (completa nella
torsione a 360°, incompleta in quella a 180°). Il cordone può detorcersi spontaneamente o a
seguito di manipolazione da parte dell’urologo. I pazienti con torsione testicolare spesso
riportano una storia di episodi ricorrenti di dolore testicolare acuto seguito da remissione
spontanea. Spesso alla base della torsione si trova un’anomala inserzione della tunica
vaginale che circonda il testicolo e ne consente una mobilità abnorme, per cui è necessario
fissare chirurgicamente il testicolo allo scroto.
2) Torsione delle appendici testicolari ed epididimarie, strutture embrionali residue dei dotti
mesofrenico e paramesofrenico la cui torsione può portare a una sintomatologia
perfettamente sovrapponibile a una torsione testicolare. Anche in questo caso bisogna

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ricorrere all’ecografia, che ci permette di osservare testicoli ed epididimi perfettamente
normali. L’appendice ritorta può staccarsi, calcificare e diventare uno “scrotolita”.
3) Epididimite acuta, situazione causata da agenti infettivi (Neisseria, Chlamydia ed Escherichia
coli) capaci di causare infezioni retrograde dalle vie urinarie. Con l’ecografia si può osservare
un aumento del volume testicolare, una struttura eterogenea ed ipoecogena, un
ispessimento della parete scrotale, la presenza di flusso sanguigno intratesticolare. Le
complicanze più diffuse sono gli ascessi, il piocele e l’infarto testicolare (quest’ultimo è
causato da un aumento del volume testicolare e da una compressione dello stesso contro la
tonaca albuginea).
4) Gangrena di Fournier, fascite necrotizzante del perineo che può estendersi fino al
retroperitoneo e all’addome. Origina da fistole anali e riconosce tra i fattori di rischio il
diabete, l’alcolismo, l’età avanzata e stati di immunodepressione. La diagnosi è clinica,
mentre gli esami strumentali sono riservati per casi dalla sintomatologia dubbia: l’esame
ecografico permette di osservare la presenza di gas a livello sottocutaneo. Dal punto di vista
terapeutico, bisogna procedere con la rimozione chirurgica delle zone compromesse (sotto
guida TC). Questa malattia ha una mortalità del 75%.
5) Infiammazioni della parete scrotale, patologia caratterizzata dagli stessi fattori di rischio
della gangrena di Fournier ma da un decorso meno aggressivo. In questo caso si avranno
ispessimento e iperemia della parete scrotale, assenza di gas nei tessuti molli e (probabile)
rigonfiamento dei linfonodi. I testicoli presentano una struttura normale a meno che non
siano stati interessati da un’infiammazione testicolare estesasi secondariamente alla parete
scrotale. Gli esami strumentali sono utili per trovare eventuali ascessi.
6) Vasculiti, soprattutto nel caso di porpora di Schönlein-Henoch. Clinicamente si manifesta con
dolore ed eritema cutaneo, mentre ecograficamente si osservano ispessimento della parete
scrotale, allargamento dell’epididimo e idrocele a fronte di una struttuta testicolare
inalterata.
Esistono poi cause non scrotali che possono causare sintomi simili a quelli causati dallo scroto acuto
(colica renale, appendicite acuta e rottura splenica).

Traumi di interesse urologico


1) Traumi del rene: causati da
a. Ferite penetranti (causanti i cosiddetti traumi aperti);
b. Incidenti stradali (causanti i cosiddetti traumi chiusi, caratterizzati da rottura del peduncolo
e lesione dell’organo);
c. Incidenti domestici;
d. Cadute dall’alto, infortuni sul lavoro;
e. Eventuali fratture costali con conseguente lacerazione del parenchima renale da parte di un
moncone osseo.

Va considerato anche il coinvolgimento della capsula renale: la lesione di questa struttura può
causare espansione di un’eventuale emorragia a livello
retroperitoneale (situazione solitamente evitata dal EMATOMA PERIRENALE
tamponamento del grasso compreso nella loggia
renale). Dal punto di vista clinico, il soggetto presenta Ematoma occupante lo spazio
dolore (proporzionale all’entità del danno, se delimitato dalla fascia renale, può
persistente è segnale di un ematoma perirenale in causare irritazione peritoneale con
conseguente contrattura difensiva
espansione), ematuria (non proporzionale all’entità del
della muscolatura addominale.
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danno), shock (proporzionale alla perdita di sangue) e, talune volte, emoperitoneo (che necessita
di un rapido intervento). Si distinguono vari gradi di intensità:

a. Tipo 1: caratterizzato da contusioni renali, la capsula si presenta integra e non vi è alcun


ematoma. Dal punto di vista terapeutico si procede con la sorveglianza;
b. Tipo 2: caratterizzato da sanguinamento racchiuso nella fascia renale, dal punto di vista
terapeutico si ricorre a embolizzazione mediante arteriografia;
c. Tipo 3: caratterizzato da lesione della fascia e della capsula, rappresenta un codice rosso per
cui si procede subito con TC e invio in sala operatoria;
d. Tipo 4: caratterizzato da una devascolarizzazione di un intero rene, si manifesta con o senza
shock.

Clinicamente, si ha un’esacerbazione della sintomatologia via via che si procede dal tipo 1 al tipo
4. Dal punto di vista diagnostico, il soggetto deve essere sottoposto a esami bioumorali
(emoglobina e fattori della coagulazione), ecografia e TC con MdC (per indagare la presenza di
sanguinamento).

2) Traumi dell’uretere: rarissimi, dovuti alla dislocazione del rene verso il diaframma con conseguente
trazione ureterale. Sono molto più frequentemente iatrogeni (ureteroscopia o interventi chirurgici).
3) Traumi della vescica: causati soprattutto da fratture del bacino, possono verificarsi anche per
aumenti repentini e importanti della pressione endoaddominale. Clinicamente, si manifesta con
macroematuria ed emoperitoneo (per rottura della cupola vescicale).
4) Traumi dell’uretra: legati a fratture del bacino con conseguente lesione della struttura, sono più
comuni nel sesso maschile per la maggiore lunghezza dell’uretra. Clinicamente, si manifesta con
uretrorragia.
5) Traumi del testicolo: meno frequenti per la mobilità intrinseca del testicolo, si manifestano a seguito
di compressione (da parte di una cisti testicolare che, aumentando di volume, comprime il testicolo
stesso) o schiacciamento. L’ecografia ci permette di osservare un’eventuale rottura della tonaca
albuginea (con conseguente fuoriuscita della polpa testicolare), situazione che richiede un repentino
intervento chirurgico.
6) Traumi del pene: abbastanza rari, possono essere causati da ferite penetranti (a pene flaccido) o da
alterazioni anatomiche (a pene in erezione). In quest’ultima categoria troviamo la malattia di La
Peyronie (induratio penis plastica), patologia caratterizzata dalla presenza di placche fibrose a livello
della tonaca albuginea con conseguente incurvamento del pene in erezione. Questa malattia è
dovuta a microtraumatismi durante i rapporti sessuali con conseguenti sanguinamenti dell’albuginea
e successivi processi di cicatrizzazione. Durante l’erezione, l’albuginea si mostra meno elastica in
prossimità della cicatrice, e si ha minor distensione della zona (incurvamento) che predispone a
eventuali rotture del pene. I traumatismi del pene necessitano di un intervento chirurgico urgente.
7) Traumi della prostata: abbastanza rari per via della sede nascosta dell’organo.

Tecniche laparoscopiche e robotiche in urologia


La laparoscopia è una metodica chirurgica che permette di accedere ad organi anche in posizioni
molto remote dell’organismo attraverso l’insufflazione di aria nell’addome del paziente. La
laparoscopia in campo urologico è utilizzata oggi per trattare patologie a carico della prostata
(prostatectomia radicale), del rene (nefrectomia parziale), della vescica (cistectomia), del surrene
(surrenectomia) e del testicolo (linfadenectomia retroperitoneale). La laparoscopia è usata anche
nella chirurgia plastica urologica (ricostruzione del giunto pielo-ureterale, reimpianto dell’uretere).

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Tra i vantaggi della laparoscopia troviamo:
1) La (pressoché) totale assenza di cicatrici. Giusto per NEFROURETERECTOMIA
capire l’importanza della laparoscopia, un tempo per
operazioni come la nefroureterectomia (per tumore Asportazione del rene, dell’uretere
della pelvi renale o dell’uretere) si procedeva con e di parte della vescica.
un’incisione xifo-pubica (dalla punta dello sterno
girando attorno all’ombelico fino al pube) che lasciava una cicatrice decisamente evidente.
2) L’assenza di dolore post-operatorio;
3) La riduzione dei tempi di degenza e le perdite ematiche ridotte (perché la pressione
endoaddominale è pari a quella venosa centrale).
Tra gli svantaggi troviamo invece la difficoltà nell’apprendimento della metodica e nello svolgimento
delle operazioni: questo è dovuto all’uso di strumenti che hanno una libertà di movimento
decisamente inferiore rispetto alle classiche operazioni a cielo aperto e alla presenza di un campo
visivo limitato.
La laparoscopia, a differenza della chirurgia robotica, prevede la presenza di uno o più chirurghi al
tavolo operatorio (per cui vi è un contatto diretto con il paziente).
Per quanto riguarda le indicazioni alla laparoscopia, troviamo operazioni sia semplici (cisti renali,
nefrectomia) che complesse (pieloplastica, pielolitotomia, linfoadenectomia retroperitoneale o
pelvica, plastica antireflusso, eccetera). Per tutti questi motivi, l’urologia sta adottando in maniera
sempre più massiccia approcci laparoscopici e robotici; la chirurgia open risulta quindi limitata a
poche situazioni (cistectomia radicale, tumori del rene molto voluminosi).
Per quanto riguarda la parte strumentale, la laparoscopia si serve di:
1) Luci allo xenon (ovvero luci fredde) collegate all’ottica tramite un cavo a fibre ottiche. Di più
recente introduzione sono quegli strumenti ottici che permettono una visione 3D attraverso
occhiali specifici;
2) Insufflatore, che serve per creare uno pneumoperitoneo con la CO₂ a una pressione di circa
12 mmHg;
3) Colonna laparoscopica che presenta l’insufflatore, la fonte di luce e lo schermo;
4) Aspiratore, che ci permette di aspirare liquidi o di lavare le superfici;
5) Pinze bipolari, coagulatori, dissecatori ad ultrasuoni, suturatrici, bulldog (per clampare i vasi
sanguigni);
6) Altri strumenti.
La laparoscopia robotica si serve di piccole incisioni (5 mm-12/15 mm). I trocar più grossi sono quello
per l’ottica e quello per l’assistente (che inserisce clip, aghi). L’accesso alla cavità peritoneale
prevede l’esecuzione di una piccola incisione (facendo attenzione a non lesionare la matassa
intestinale o i grossi vasi) mediante cui inserire il primo trocar: a questo punto si inserisce l’ottica
con cui si ispeziona la cavità addominale. L’inserimento del primo trocar risulta difficile specialmente
nei soggetti già precedentemente operati: queste difficoltà sono dovute alla formazione di aderenze
(dell’intestino alla parete addominale) al di sotto della cicatrice. Una volta messo il primo trocar è
tutto più facile perché si ha una visione generale del peritoneo (aderenze, anomalie anatomiche):
con l’ottica si transillumina la parete dall’interno in maniera tale che il chirurgo non vada a ledere
un vaso all’inserimento del secondo trocar (il vaso tipicamente più coinvolto è l’arteria epigastrica).
I primi interventi di laparoscopia erano preferibilmente quelli in cui non si dovevano lasciare punti
(perché dare punti in laparoscopia è molto complesso), come ad esempio la nefrectomia radicale (il
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rene veniva disconnesso da arteria, vena e uretere mediante clip). La difficoltà nel dare i punti ha
portato allo sviluppo di robot caratterizzati da maggiore libertà. Per quanto riguarda le suture, si
possono utilizzare gli stessi fili usati normalmente nella chirurgia open. Di più recente introduzione
la chirurgia single port, che prevede che tutti gli strumenti vengano fatti passare da un’unica
incisione al centro dell’addome. Tale approccio è usato dal robot Da Vinci.
Il paziente può essere messo:
1) A 45 gradi sul fianco controlaterale, quindi il paziente è messo in decubito laterale con il rene
da operare posto in alto (con il trocar sulla linea pararettale);
2) A 90 gradi in posizione lombotomica (con il paziente sul fianco). Si usa per la chirurgia
retroperitoneale;
3) In posizione supina (con pz in posizione di Trendelenburg). Questa è usata per la chirurgia
pelvica e permette un’entrata più veloce nella pelvi.
Tra gli strumenti più usati in laparoscopia troviamo l’ago di Verres, che permette di entrare nel
peritoneo senza ledere alcun organo: è un ago doppio che viene posto sulla fascia subito dopo
l’incisione e, nel momento in cui entra nel peritoneo, si ha l’attivazione di una molla di protezione
che ottura la parte tagliente. Oggi non si usa più perché si preferiscono accessi fatti in chirurgia open
(grandi 2-3 cm). Gli accessi più usati sono quello transperitoneale e quello extraperitoneale (che si
usa per le operazioni a carico della vescica): quest’ultimo prevede l’incisione, la scollatura manuale
della vescica dalla parete addominale e la creazione di uno spazio extraperitoneale (che ci permette
di operare senza passare attraverso il peritoneo) con dei palloncini.
Terminato l’intervento bisogna controllare che non ci siano sanguinamenti attivi (mascherati a volte
dallo pneumoperitoneo, per cui si abbassa gradualmente la pressione intraddominale fino a 5
mmHg) e togliere i trocar mediante l’ottica.

Tumori di interesse urologico


Tumori uroteliali
L’urotelio è il mantello epiteliale che ricopre tutte le vie urinarie (dal loro inizio alla loro fine). È un
epitelio altamente specializzato, perché il suo ruolo è resistere agli insulti caustici dell’urina.
Caratteristiche sono le cellule a ombrello unite tra di loro da junctions particolarmente
impermeabili; queste possono andare incontro a trasformazione tumorale come tutti gli epiteli. I
tumori uroteliali sono molto comuni (rappresentano il quarto tipo di tumore più diffuso nei maschi)
e dipendono dall’età (>50 anni), dalla schistosomiasi (endemica in Egitto), dal fumo di sigaretta e
dai coloranti chimico-industriali. Hanno una mortalità del 5% nei maschi e del 2% nelle femmine:
pazienti con tumori di questo genere non trattati a 5 anni presentano una sopravvivenza del 10%.
I tumori uroteliali sono più aggressivi se si formano a livello TUMORE MUSCOLO-INVASIVO
ureterale (per via del minor spessore di parete) mentre si
formano più lentamente a livello vescicale (per via del Stadio ≥ T2
maggior spessore di parete). Fortunatamente però sono TUMORE NON MUSCOLO-INVASIVO
neoplasie che, nel 70% dei casi, si presentano come non
muscolo-invasive ma hanno alto tasso di recidività. Il fumo di Stadio T1
sigaretta aumenta il rischio di recidiva e accelera la
progressione.

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A livello vescicale possiamo avere tre tipi di tumore maligno: l’urotelioma, l’adenocarcinoma e il
carcinoma squamoso. L’ematuria è uno dei sintomi principali e deve essere indagata con ecografia
(che tuttavia non riesce a identificare il carcinoma in situ), cistoscopia e citologia urinaria. Laddove
questi esami non fossero dirimenti, si procede con uro-TC (che prevede l’opacizzazione delle urine
mediante MdC). Nel caso in cui anche quest’ultimo esame fosse negativo, si procede con
l’ureteroscopia. La PET viene usata esclusivamente nel follow-up di pazienti già trattati per vedere
la presenza di eventuali recidive. La pielografia ascendente si basa sull’inserimento di MdC a livello
delle basse vie urinarie e sulla sue risalita fin verso al rene.
Dal punto di vista terapeutico, i tumori delle alte vie di piccole dimensioni possono essere trattati
con il laser o con nefroureterectomia, mentre i tumori della vescica sono asportati con il resettore.
Si sceglie invece un trattamento conservativo laddove il paziente sia monorene.

Tumori della vescica


Neoplasie molto frequenti, rappresentano circa il 70% dei tumori dell’apparato urinario. Presentano
un picco d’incidenza massimo nella fascia d’età 50-70 anni e sono molto più frequenti nel sesso
maschile. Tra i fattori di rischio accertati troviamo il fumo di sigaretta, l’esposizione a determinati
coloranti chimico-industriali e la schistosomiasi. Tra i fattori di rischio non del tutto accertati, invece,
troviamo l’abuso di analgesici, la ciclofosfamide, il caffè e una componente variabile d’ereditarietà
(che porta a un aumento di rischio pari a circa 11 volte).
Dal punto di vista classificativo, troviamo due classi:

1) Tumori primari
a. Tumori epiteliali
i. Papilloma (benigno);
ii. Urotelioma (92% di tutti le neoplasie maligne);
iii. Carcinoma a cellule squamose (7% di tutte le neoplasie maligne);
iv. Adenocarcinoma (1% di tutte le neoplasie maligne).
b. Tumori non epiteliali
i. Connettivali;
ii. Muscolari;
iii. Nervosi;
iv. Vascolari.
2) Tumori secondari
a. Tumori che si espandono da organi vicini per contiguità;
b. Metastasi.
Tra i tumori epiteliali troviamo delle forme benigne e delle forme maligne. Il papilloma è l’unica
forma benigna riscontrata nella vescica: si tratta di una neoplasia di piccole dimensioni
caratterizzata da un singolo peduncolo. È ricoperto da un normale strato di urotelio (costituito da
non più di 6 strati cellulari). Tra i tumori maligni invece troviamo l’urotelioma, che presenta una
struttura superficiale ricoperta da molti strati di urotelio (più di 7). Questa neoplasia presenta delle
cellule giganti plurinucleate con perdita della polarità e incremento del numero delle mitosi.
Macroscopicamente può avere aspetto papillare (con struttura sessile e peduncolata) o aspetto non
papillare (con struttura esofitica o piatta). Origina dalla base, dal trigono o dalle pareti della vescica.
Dal punto di vista terapeutico, questo tumore viene trattato con asportazione della vescica e
resezione della prostata. Per quanto riguarda l’adenocarcinoma, questo tumore origina dal punto
di inserzione vescicale dell’uraco (quindi si forma nella cupola vescicale). L’uraco è quella struttura
che, nel feto, collega la vescica al cordone ombelicale e si presenta come una zona ricca di ghiandole.
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Il carcinoma a cellule squamose, invece, pur essendo così poco frequente, risulta essere
estremamente aggressivo: questa neoplasia si sviluppa a seguito di schistosomiasi.
Dal punto di vista anatomopatologico, dobbiamo ricorrere alla classificazione TNM:
1) Estensione T Il muscolo è riccamente
a. T1 = tumore che non supera la lamina propria vascolarizzato, per cui a
b. T2 = tumore che infiltra superficialmente il muscolo partire da T2 l’unico
c. T3 = tumore che infiltra profondamente il muscolo approccio possibile è la
d. T4 = tumore che infiltra gli organi circostanti rimozione della vescica.
2) Coinvolgimento linfonodale N
a. N0 = metastasi assenti
b. N1 = metastasi di un singolo linfonodo <2,5 cm
c. N2 = metastasi di un singolo linfonodo <5 cm
d. N3 = metastasi di un singolo linfonodo >5 cm
3) Metastasi a distanza M
a. M0 = metastasi assenti
b. M1 = metastasi presenti
Dal punto di vista sintomatologico, i sintomi più comuni sono: ematuria, disturbi irritativi minzionali
(pollachiuria e stranguria), dolore al fianco (laddove dovesse esserci un’infiltrazione a carico del
meato ureterale), astenia e perdita di peso (tardivamente).
Dal punto di vista diagnostico, la neoplasia va ricercata mediante esame obiettivo (palpazione
bimanuale), citologia, cistoscopia (per evidenziare eventuali alterazioni cromatiche della mucosa
vescicale o lesioni papillari) e indagini strumentali (ecografia dell’apparato urinario, TC e risonanza
magnetica). La scintigrafia ossea, invece, viene eseguita solo per pazienti sintomatici.
Dal punto di vista terapeutico, si ricorre all’endoscopia per neoplasie poco estese (resezione
transuretrale della vescica, TURB), mentre per le neoplasie più estese si ricorre a una cistectomia
radicale. La chemioterapia è poco efficace nel trattamento dei tumori vescicali. Il follow-up prevede
il ricorso a cistoscopia ed esame citologico urinario.

Tumori del testicolo


Rappresenta l’1% dei tumori dell’uomo, il 5% dei tumori urologici, si manifesta in 3-10
soggetti/100mila abitanti e il picco di incidenza è tra la seconda e la quarta decade (il tumore più
diffuso nel range 20-30 anni è il non-seminoma mentre sopra i 40 anni è il seminoma). Nell’1-2% dei
casi si hanno forme bilaterali. Ha un’incidenza altissima in pazienti molto giovani: è l’unico tumore
urologico caratterizzato da un’incidenza massima tra i 15 e i 35 anni. La prognosi è molto buona: i
seminomi hanno una sopravvivenza del 92% a 5 anni, mentre i non-seminomi hanno una
sopravvivenza dell’80% a 5 anni. L’incidenza varia a seconda delle popolazioni: Nord Europa,
Australia e Argentina presentano più casi, mentre l’Africa risulta essere il continente meno colpito
(anche per via delle scarse metodice diagnostiche).
I principali fattori di rischio sono rappresentati da:
1) Criptorchidismo, situazione per cui il bambino alla nascita non presenta i testicoli nel sacco
scrotale. In alcuni casi questa situazione viene trattata con un intervento di orchidopessi (che
è un trascinamento del testicolo dall’addome al sacco scrotale);
2) Testicolo a cielo stellato, quadro ecografico caratterizzato da microcalcificazioni ipoecogene;
3) Infertilità per ipogonadismo. Tali soggetti presentano un rischio aumentato (di circa 1-2
volte) di sviluppare tumore al testicolo.
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Il soggetto giunge all’osservazione perché all’autopalpazione percepisce una massa dura, non
dolente e non dolorabile allo scroto. Altri sintomi lamentati dal paziente possono essere la
ginecomastia e dolore al fianco (legato a un ingrossamento linfonodale con conseguente occlusione
ureterale). Dal punto di vista diagnostico, gli esami da eseguire sono:
1) Palpazione della massa testicolare e ricerca di eventuali masse palpabili addominali. Va posta
subito diagnosi differenziale con epididimite (che di solito è dolorosa), idrocele, cisti
dell’epididimo ed ematomi post-traumatici. Se si sospetta un tumore testicolare, non va mai
eseguita alcuna ago-biopsia perché questa può causare metastatizzazione tumorale. La
diagnosi di tumore testicolare va sempre eseguita con un intervento chirurgico;
2) Ecografia;
3) Dosaggio bioumorale dei markers (α-fetoproteina, LA βhCG È PRESENTE ANCHE IN:
βhCG ed LDH). Va ricordato però che non tutti i tumori
testicolari esprimono questi tumori: l’LDH, ad esempio, Tumori epatici
viene espresso dai tumori più grandi. L’ α-fetoproteina Gravidanza
è aumentata nel 50-75% di tumori non-seminomatosi
mentre la βhCG nel 40-50% dei tumori non-seminomatosi. Questo perché esistono due tipi
di tumori diversi nel testicolo: il seminoma e il non-seminoma (i markers sono generalmente
espressi nei tumori non-seminomatosi). L’assenza di markers non esclude comunque il
ricorso a un intervento chirurgico, che anzi è sempre necessario, ma anzi indica che il
soggetto presenta un tumore seminale;
4) TC torace-addome con MdC per tutti i soggetti con diagnosi di tumore testicolare, prima o
dopo l’operazione;
5) Scintigrafia ossea e TC cerebrale solo per pazienti sintomatici.
Si può poi ricorrere a crioconservazione del liquido seminale per evitare il rischio infertilità e per
prevenzione nei confronti della radio-chemioterapia. Le metastasi dal testicolo destro sono
principalmente a carico dei linfonodi paracavali, intraaortocavali e iliaci mentre le metastasi dal
testicolo sinistro a carico dei linfonodi lateroaortici, intraaortocavali e iliaci. Tali metastasi linfatiche
vengono trattate con microadenectomia retroperitoneale. Troviamo poi le metastasi polmonari,
epatiche, cerebrali e scheletriche. I tumori non-seminomatosi sono il coriocarcinoma, il teratoma, il
carcinoma embrionale e il tumore del sacco vitellino. I non-seminomi sono tumori misti, per cui tutti
questi aspetti istologici possono coesistere. Per questo motivo la grossa differenziazione è tra
seminomi puri e tumori misti.
Dal punto di vista anatomopatologico, dobbiamo ricorrere alla classificazione TNM:
1) Estensione T
a. T1 = tumore limitato al testicolo e all’epididimo senza invasione linfovascolare
b. T2 = tumore limitato al testicolo e all’epididimo con invasione linfovascolare
c. T3 = tumore che invade il funicolo spermatico
d. T4 = tumore con invasione dello scroto
2) Coinvolgimento linfonodale N
a. N0 = metastasi assenti
b. N1 = metastasi con linfonodi ≤2 cm
c. N2 = metastasi con linfonodi di 2-5 cm
d. N3 = metastasi con linfonodi >5 cm
3) Metastasi a distanza M
a. M0 = metastasi assenti
b. M1 = metastasi presenti
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Lo stadio invece è così suddiviso:
1) Stadio I = malattia nello scroto (con N0)
2) Stadio II = malattia linfonodale (con N1-N3)
a. Stadio IIa = con coinvolgimento dei linfonodi sottodiaframmatici
b. Stadio IIb = con coinvolgimento dei linfonodi sopradiaframmatici
3) Stadio III = tumore molto esteso con coinvolgimento linfatico ma senza metastasi a distanza
(con qualunque N, ma senza M)
4) Stadio IV = tumore con metastasi a distanza (con M1)
I tumori testicolari vengono trattati con orchiectomia (ovvero asportazione del testicolo) e
successivo esame istologico. L’orchiectomia è un’operazione abbastanza semplice che prevede
l’asportazione del testicolo attraverso un’incisione inguinale: il paziente resta monorchide, anche se
può usufruire di protesi testicolari. Esistono dei pazienti in cui si può andare a eliminare il nodulo
senza intaccare il testicolo: questi pazienti sono di solito soggetti monorchidi, pazienti con tumore
bilaterale o pazienti con tumori benigni (tumori originanti dalle cellule di sostegno: Leydig e Sertoli).
Questo approccio però non impedisce il ripresentarsi di neoplasie: i seminomi hanno una probabilità
di recidivare del 20% a 5 anni, mentre i non-seminomi hanno una probabilità del 30%. Per questo
motivo per i seminomi in stadio I si ricorre a sorveglianza o a un ciclo di PEB (cisplatino, etoposide,
bleomicina), mentre per i non-seminomi in stadio I si ricorre a due cicli di PEB. La radioterapia deve
essere valutata perché può indurre tumori retroperitoneali.

Tumori del rene


Si dividono in tumori del parenchima renale (più frequenti) e in tumori delle alte vie escretrici
(bacinetto e calici). Questi ultimi sono generalmente tumori che si sviluppano a partire dall’urotelio:
per tale motivo quando si parla di “tumori del rene” si fa riferimento ai tumori del parenchima
renale. Maggiormente diffusi nel sesso maschile rispetto a quello femminile, per frequenza si
collocano nella lista dei primi dieci tumori a livello nazionale. L’aumento di incidenza di questo tipo
di tumore negli ultimi venti anni è dovuto principalmente a una maggiore attenzione diagnostica (va
considerato infatti che molti di questi tumori, del tutto asintomatici, sono scoperti casualmente).
I tumori del rene si possono distinguere in base agli aspetti anatomopatologico, citogenetico e
molecolare. Dal punto di vista anatomopatologico i tumori più frequenti sono:
1) Epiteliali (adenocarcinomi, 95%)
a. Carcinoma a cellule chiare
b. Carcinoma papillare (di tipo 1 e di tipo 2)
c. Carcinoma cromofobo
d. Carcinoma a cellule chiare – variante papillare
e. Oncocitoma (benigno)
2) Mesenchimali
a. Angiomiolipoma (benigno)
b. Angiomiolipoma epitelioide (maligno)
c. Sarcoma (maligno)

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I tumori del parenchima renale hanno come principali fattori di rischio il fumo di sigaretta, l’obesità,
la nefropatia balcanica, l’acido aristologico e l’insufficienza renale cronica in trattamento dialitico e
l’ereditarietà (quest’ultima causa fino al 10% dei tumori
renali). Esitono poi alcune malattie spesso associate a SINDROME DI VON HIPPEL-LINDAU
tumori renali, tra cui la sindrome di Von Hippel-Lindau Malattia autosomica dominante (gene
(carcinoma a cellule chiare), la mutazione del gene MET VHL sul cromosoma 3) che si può
sul cromosoma 7 (carcinoma papillare di tipo 1), la presentare con cisti renali e
leiomiomatosi (carcinoma papillare di tipo 2), la sclerosi pancreatiche, feocromocitoma,
tuberosa (angiomiolipoma) e la sindrome di Birt-Hogg- angiomi retinici, tumori dell’orecchio
Dubé (carcinoma cromofobo, oncocitoma). Il sospetto di interno, emangioblastomi cerebellari e
una causa genetica va posto soprattutto se il tumore cistoadenomi dell’epididimo.
insorge in giovane età (<50 anni), si manifesta
bilateralmente con masse multiple e se il paziente presenta familiarità per neoplasie renali. La
presenza di una componente ereditaria condizionerà la terapia orientandola maggiormente verso
approcci conservativi e non radicali.
I tumori del parenchima renale entro certi limiti di crescita (<4 cm) comprimono il parenchima
circostante non infiltrandolo ma anzi creando una pseudocapsula: questi tumori possono essere
trattati con chirurgia conservativa (asportazione della massa). Crescendo, tuttavia, questo tumore
può andare a perforare la sua pseudocapsula colonizzando il parenchima renale e invadendo
l’albero venoso (causando trombi): ciò orienta la terapia verso una nefrectomia radicale.
Dal punto di vista clinico, i tumori renali sono spesso asintomatici (soprattutto se sono <4 cm) o
presentano dei sintomi del tutto generici e aspecifici (motivo per cui la loro diagnosi avviene per via
casuale, da cui il nome di “incidentalomi”). Tra i sintomi più frequenti e specifici troviamo macro e
microematuria, lombalgia, coliche renali, deformità addominali (soprattutto per tumori molto
avanzati), fratture (per metastasi ossee) e sindromi paraneoplastiche (febbricola, ipercalcemia,
anemia, deficit neurologici).
Dal punto di vista diagnostico, si ricorre in prima istanza all’ecografia, che permette di identificare:
1) Le cisti, che possono essere semplici (ecograficamente anecogene) o complesse. Le cisti
semplici non vengono trattate con
CLASSIFICAZIONE DI BOSNIACK
asportazione chirurgica ma vengono tenute
sotto controllo con visite ecografiche Tipo 1 = cisti semplice (richiesto follow-up)
periodiche. Le cisti complesse (caratterizzate
Tipo 2/2F = cisti densa (richiesto follow-up)
da calcificazioni, sepimenti interni o aumenti
dello spessore di parete) richiedono invece un Tipo 3 = rischio del 50% di essere maligna
esame di secondo livello (TC). Per le cisti renali
Tipo 4 = carcinoma (rischio >90%)
si ricorre alla classificazione di Bosniack;
2) Gli angiomiolipomi, che si presentano come iperecogeni per il loro contenuto grasso;
3) Le lesioni solide, che non possono essere istologicamente definite mediante ecografia (per
cui si definiscono come “sospette in senso neoplastico”).
La TC può offrire maggiori dettagli nell’identificazione della massa, senza tuttavia dare indicazioni
anatomopatologiche. Per poter identificare l’istotipo tumorale si deve procedere con la biopsia:
questa viene svolta solo su pazienti selezionati ed è ECO-guidata o TC-guidata.
La classificazione TNM ci orienta verso il trattamento migliore:
1) Estensione T
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a. T1 = tumore limitato al rene
i. T1a = tumore di dimensioni <4 cm
ii. T2b = tumore di dimensioni 4-7 cm
b. T2 = tumore limitato al rene di dimensioni >7 cm
c. T3 = tumore che infiltra il grasso perirenale o la vena renale o la vena cava
d. T4 = tumore infiltrante gli organi adiacenti
2) Coinvolgimento linfonodale N
a. N0 = metastasi assenti
b. N1 = metastasi con linfonodi ≤2 cm
c. N2 = metastasi con linfonodi di 2-5 cm
d. N3 = metastasi con linfonodi >5 cm
3) Metastasi a distanza M
a. M0 = metastasi assenti
b. M1 = metastasi presenti
Il trattamento è prevalentemente chirurgico: in T1 si procede con la chirurgia conservativa, da T2 in
poi si procede con la nefrectomia radicale. Nei tumori di dimensioni ridotte (<4 cm) si può procedere
con sorveglianza o terapie ablative (crioterapia, radiofrequenza) per via percutanea. Nella malattia
metastatica si possono utilizzare farmaci antineoplastici o immunologici.

Tumori della prostata


Rappresentano la seconda causa di morte per tumore nel sesso maschile e riconoscono come
principali fattori di rischio l’età, la familiarità, l’etnia (i caucasici e gli asiatici risultano meno colpiti)
e la dieta. Generalmente, l’istotipo più frequente è l’adenocarcinoma (95% dei casi) che si sviluppa
a carico della periferia della ghiandola o da un preesistente adenoma prostatico.
Dal punto di vista clinico, il tumore della prostata è quasi sempre asintomatico o, al limite, presenta
una sintomatologia non troppo dissimile dall’IPB. Nei casi più gravi si possono avere dolore colico,
ematuria ed emospermia, fratture o edemi (questi ultimi per la presenza di metastasi). Dal punto di
vista diagnostico, si ricorre al dosaggio del PSA (test di screening; va correlato con l’età, con le
dimensioni della prostata e con stati infiammatori della ghiandola stessa). Si ricorre all’esplorazione
rettale, all’ecografia transrettale (TRUS, poco affidabile) e alla risonanza magnetica
multiparametrica. Prima di proporre un trattamento, bisogna conoscere l’istotipo tumorale
mediante biopsia, che risulta essere molto invadente: questo esame può essere svolto laddove alla
risonanza magnetica si rilevi una massa sospetta. La biopsia può essere eseguita per via transrettale
sotto guida ecografica. La biopsia ci permette di stadiare il tumore mediante il Gleason Score che
valuta l’aggressività del tumore con un punteggio compreso tra 2 e 10. Questo punteggio è ottenuto
sommando i punti assegnati al pattern dominante (fino a un massimo di 5) e i punti assegnati al
pattern secondario (fino a un massimo di 5):
1) Grado 1: altamente differenziato (valore<6) 2-6 = tumore a crescita lenta
2) Grado 2: ben differenziato (valore 3+4=7)
3) Grado 3: moderatamente differenziato (valore 4+3=7) 7 = tumore di grado intermedio
4) Grado 4: scarsamente differenziato (valore=8) 8-10 = tumore molto aggressivo
5) Grado 5: altamente indifferenziato (valore=9-10)
Risulta sempre valida anche la classificazione TNM:
4) Estensione T
a. T1 = tumore clinicamente non apprezzabile
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b. T2 = tumore limitato alla prostata
i. T2a = coinvolge meno della metà di un lobo
ii. T2b = coinvolge più della metà di un lobo
iii. T2c = coinvolge entrambi i lobi
c. T3 = tumore in espansione
i. T3a = tumore che supera la capsula prostatica
ii. T3b = tumore che invade una o due vescicole seminali
d. T4 = tumore infiltrante gli organi adiacenti (tipicamente il collo della vescica)
5) Coinvolgimento linfonodale N
a. N0 = metastasi assenti
b. N1 = metastasi con linfonodi ≤2 cm
c. N2 = metastasi con linfonodi di 2-5 cm
d. N3 = metastasi con linfonodi >5 cm
6) Metastasi a distanza M
a. M0 = metastasi assenti
b. M1 = metastasi presenti (nell’85% dei casi all’osso)
Fatta la diagnosi, si possono dividere i pazienti in tre classi:
1) Basso rischio (stadio T1, PSA<10 ng/ml, Gleason Score con valore=6);
2) Rischio intermedio (valori intermedi);
3) Alto rischio (stadio T3 o maggiore, PSA >20 ng/ml, Gleason Score con valore=8-10).
Dal punto di vista terapeutico si può ricorrere alla sorveglianza attiva (per i soggetti con basso
rischio), alla chirurgia (prostatectomia radicale robotica con contestuale asportazione dei linfonodi
iliaco-otturatori), alla radioterapia adiuvante, alla brachiterapia (con impianto di semi radioattivi
nella prostata) o all’ormonoterapia (con azzeramento farmacologico del testosterone).
Il follow-up prevede il dosaggioa cadenza regolare del PSA: questo deve essere indosabile in caso di
trattamento chirurgico o molto basso (<1 ng/ml) in caso di radioterapia. Elevamenti di questi valori
indicano la presenza di una recidiva.

Malformazioni genito-urinarie
Le malformazioni renali comprendono una serie di situazioni che possono causare anomalie del
numero, della struttura, della forma, della sede, della rotazione o della vascolarizzazione dei
principali organi dell’apparato urinario. La più frequente complicanza delle malformazioni renali è
l’insufficienza renale, che può essere primitiva (per riduzione del numero di nefroni) o secondaria.
Quest’ultima forma può dipendere da: infezioni (dipendenti da stasi urinaria, difetti di perfusione
renale o reflusso vescicoureterale), calcolosi o ipertensione arteriosa. L’insufficienza renale si
manifesta clinicamente con ematuria (causata da processi infiammatori o da calcolosi) e con dolore
(causata da infezione, calcolosi, compressione o stiramento delle strutture nervose). Le
malformazioni più comuni sono:
1) Malformazioni renali di numero
a. Agenesia renale bilaterale: questa è una malformazione incompatibile con la vita e
dovuta alla mancata formazione della gemma ureterale. È accompagnata da una
mortalità intrauterina pari al 40% e da un’altissima mortalità post-natale (la
sopravvivenza post-parto non supera le 48 ore perché tale patologia è associata a
ipoplasia polmonare).

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b. Agenesia renale monolaterale: difetto di sviluppo della gemma ureterale, è associato
a un normale stato di salute e può essere scoperto del tutto casualmente. Si associa
frequentemente ad agenesia dei genitali omolaterali, mancanza dell’arteria renale e
dell’uretere (sempre omolateralmente). Generalmente, il rene unico controlaterale
è ipertrofico e iperplastico.
c. Rene soprannumerario: gemma ureterale in soprannumero, il rene in più è dotato di
una vascolarizzazione propria.
2) Malformazioni renali di struttura
a. Ipoplasia renale: organo poco sviluppato associato a ridotta vascolarizzazione. Se
l’ipoplasia diventa anche funzionale, si parla di aplasia: per poter stabilire se siamo
davanti a un’ipoplasia o a un’aplasia si ricorre alla scintigrafia renale.
b. Displasia multicistica: rara malformazione, generalmente non dà sintomi. Si tratta di
unità renali non funzionanti costituite da cisti non comunicanti con interposto
tessuto solido.

3) Malformazioni renali di sede


a. Ectopia renale semplice: malattia asintomatica. Il rene si colloca al di fuori della sua
normale sede anatomica (può localizzarsi in sede addominale, lombare o pelvica).
Quando il rene ectopico si trova controlateralmente, si parla di ectopia crociata ed in
questo caso i due reni possono essere fusi.
4) Malformazioni renali di forma
a. Rene a ferro di cavallo: si forma per anomala fusione delle gemme metanefrogene
dei due lati, per cui esiste un istmo parenchimale (raramente fibroso) che congiunge
i due poli renali inferiori (di rado i superiori). Se la saldatura esiste sopra e sotto si
parla di rene a ciambella. Clinicamente, si può avere dolore periombelicale
esacerbato dall’iperestensione del tronco.
5) Anomalie del sistema collettore
a. Diverticolo caliceale: è una cavità cistica rivestita da urotelio, all’interno del
parenchima renale e in periferia di un calice minore. Ciò comporta stasi urinaria,
infezione e calcolosi.
b. Idrocalicosi: rara dilatazione cistica di un calice con un collegamento alla pelvi renale.
c. Megacalicosi: dilatazione non ostruttiva dei calici dovuta a malformazione delle
papille renali.
6) Anomalie di fusione nefroureterogena
a. Cisti semplice: è un reperto molto frequente e quasi sempre riscontrato casualmente
in corso di accertamenti radiologici praticati per altra patologia. Può essere di
svariate dimensioni (si passa da cisti di grandezza appena percepibile a cisti di 10 cm
di diametro). È dotata di una parete propria epiteliale di derivazione tubulare ed è
ripiena di un liquido sieroso-limpido (per cui si vede come anecogena all’ecografia).
Può tuttavia andare incontro a emorragia, infezioni o rottura. Raramente al suo
interno possono svilupparsi vegetazioni neoplastiche. Quando sintomatica, può
causare dolori lombari e ipertensione arteriosa.
b. Displasia renale policistica: situazione nota anche come “rene policistico”, è
un’affezione generalmente bilaterale di cui si riconoscono due forme. La forma
infantile (autosomica recessiva) è spesso causa di insufficienza renale e morte in
tenera età, mentre la forma adulta (autosomica dominante) è lentamente evolutiva
e compatibile con una normale sopravvivenza. Quest’ultima forma si associa anche
alla presenza di cisti a livello del fegato, della milza, del pancreas e dei polmoni. La
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forma adulta si associa spesso a ipertensione arteriosa (50% dei casi), ematuria,
calcoli renali, infezioni e dolori addominali. Spesso si deve ricorrere al trapianto.
c. Rene a spugna midollare: è una dilatazione cistica dei dotti collettori che si verifica
solo nella sostanza midollare del rene a cui conferiscono il tipico aspetto “a spugna”.
All’interno di queste dilatazioni possono formarsi dei microcalcoli. Circa la metà dei
pazienti non presenta sintomi per tutta la vita. Dal punto di vista clinico, questa
malattia può associarsi nel 50% dei casi ad un’aumentata escrezione di calcio che si
accompagna ad una calcolosi recidivante delle vie urinarie: ciò porta questi soggetti
a soffrire di coliche renali. Altri sintomi sono ematuria e infezioni urinarie farmaco-
resistenti.
7) Malformazioni dell’uretere
a. Atresia ureterale: anomalia molto rara, è caratterizzata dall’assenza dell’abbozzo
ureterale o dalla presenza di un uretere rudimentale che termina a fondo cieco.
b. Duplicazione ureterale: può essere incompleta o completa. Quest’ultima forma è
caratterizzata dalla presenza di due ureteri che sboccano in vescica con due meati
ureterali; il meato che drena il segmento renale superiore sbocca in vescica in sede
inferiore e mediale rispetto all’orifizio dell’uretere che drena in segmento inferiore.
c. Ureterocele: dilatazione cistica del tratto terminale dell’uretere. Esso si riscontra più
frequentemente nel sesso femminile. Si definisce ortotopico se è regolarmente
situato alla base della vescica, ectopico se localizzato sul collo vescicale o nell’uretra
(quest’ultima situazione può causare incontinenza). A tutt’oggi non è ancora
definibile l’eziologia di questa malattia. Clinicamente si possono avere infezioni delle
vie urinarie, febbre e ritardo nell’accrescimento (per gli ureteroceli in doppio
distretto) o disturbi minzionali (per gli ureteroceli di piccole dimensioni). Dal punto
di vista diagnostico si ricorre all’ecografia, all’uro-TC e alla scintigrafia renale. La
terapia è chirurgica.
8) Malformazioni della vescica
a. Agenesia della vescica: rarissima, è dovuta alla persistenza della cloaca o
all’alterazione di sviluppo della stessa.
b. Anomalie dell’uraco: l’uraco normalmente diventa un cordoncino fibroso privo di
lume che collega la cupola vescicale all’ombelico. La mancata o incompleta
obliterazione del lume darà origine alle fistole vescico-ombelicali.
c. Diverticoli vescicali: possono conseguire ad un’ostruzione cervico-uretrale
instauratasi in epoca prenatale.
d. Estrofia vescicale: difetto della parete addominale anteriore e del cingolo pelvico
attraverso il quale si esteriorizza la vescica (priva della propria parete anteriore e in
parte delle pareti laterali). La mucosa vescicale si continua con la cute dell’addome e
le ossa pubiche sono separate.
9) Malformazioni del pene e dell’uretra
a. Apenia: assenza congenita del pene. L’uretra sbocca nel perineo o nel lume rettale.
b. Valvole dell’uretra posteriore: pliche congenite (costituite da urotelio o tessuto
connettivale) dell’uretra che agiscono come valvole dell’uretra prostatica. Possono
causare ostruzione urinaria con conseguente disfunzione miogena della vescica.
Queste sono valvole a nido di rondine: alla minzione esce poca urina, mentre tutto il
resto del contenuto vescicale si accumula aumentando la pressione e, sul lungo
termine, causando insufficienza renale. La diagnosi prevede l’esecuzione della
cistouretrografia, il trattamento è chirurgico.

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c. Stenosi del meato uretrale: la stenosi del meato uretrale associata a ipospadia è la
più comune forma di stenosi uretrale congenita, sebbene sia più frequentemente
una condizione acquisita, come esito cicatriziale di un intervento di circoncisione. La
meatotomia è indicata in caso di mitto significativamente deviato o intermittente.
d. Fimosi e parafimosi: la fimosi è un restringimento congenito o acquisito della cute
prepuziale, che non può essere retratta all’indietro a scoprire il glande. La parafimosi
è l’impossibilità della cute prepuziale, retratta e stringente, a essere riportata
distalmente sul glande. In entrambi i casi è indicata la circoncisione chirurgica.
e. Ipospadia: si tratta di un’anomala posizione del meato uretrale che può essere
localizzato a livello della giunzione peno-scrotale, tra le pieghe scrotali o nel perineo.
All’ipospadia di solito si associa una curvatura ventrale del pene, più evidente
durante l’erezione, dovuta alla presenza di tessuto fibroso che corre lungo il decorso
del corpo spongioso.
f. Epispadia: questo difetto di fusione dorsale dell’uretra può essere parziale o
completo.

10) Malformazioni testicolari


a. Ectopia testicolare: presenza di un testicolo in posizione anomala, diversa dalla
normale via seguita dalla gonade durante la sua discesa nel corso dello sviluppo.
b. Poliorchidismo: presenza di un testicolo soprannumerario.
c. Anorchidismo: assenza di entrambi i testicoli.
d. Monorchidismo: presenza di un solo testicolo.
e. Criptorchidismo: arresto della discesa del testicolo durante il suo sviluppo.
Rappresenta la più frequente anomalia dello sviluppo genitale maschile. Alla nascita
circa il 3,4% dei bambini ha i testicoli criptorchidi, ma nella metà dei casi i testicoli
discendono nello scroto durante il primo mese di vita. Si definisce portatore di
criptorchidismo chi, a 6-12 mesi di vita, ha ancora uno o entrambi i testicoli non
discesi nel sacco scrotale. Il criptorchidismo riconosce più cause nel suo sviluppo tra
cui: fattori ormonali (alterati valori di testosterone, FSH ed LH), fattori meccanici
(ostacoli anatomici come il canale inguinale obliterato o la brevità degli elementi del
funicolo spermatico) e fattori genetici (alterazioni cromosomiche come la sindrome
di Klinefelter). Importanti sono le alterazioni istologiche che si riscontrano; il danno
istologico si aggrava progressivamente, raggiungendo col tempo alterazioni
irreversibili sia della funzione endocrina (produzione di ormoni) che di quella esocrina
(produzione di spermatozoi). Clinicamente, una prima distinzione avviene tra il
testicolo palpabile (situazione più frequente) e un testicolo non palpabile. Nel primo
caso avremo un testicolo in sede perineale, pubo-peniena, inguinale, crurale (nel
triangolo di Scarpa) o crociata (ovvero ambedue i testicoli si trovano nello stesso
emiscroto). Un testicolo non palpabile, invece, può essere agenesico o presente;
questa situazione richiede un’ecografia addomino-pelvica e una risonanza magnetica
per poter localizzare il testicolo. La terapia del criptorchidismo può essere medica
(ormonale) o chirurgica. La terapia ormonale si basa sulla somministrazione di βhCG
o LHRH, i quali possono favorire la discesa del testicolo. La terapia chirurgica, invece,
va usata solo in caso di fallimento della terapia medica e prevede orchidopessi. Dal
punto di vista prognostico, il criptorchidismo monolaterale non presenta alterazioni
dello sviluppo sessuale, mentre la forma bilaterale può causare alterazioni dello
sviluppo e della funzione sessuale. Il criptorchidismo ha inoltre un ruolo importante
nell’eziopatogenesi delle neoplasie testicolari: circa il 12% dei tumori testicolari
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riscontrati in età adulta è correlato a degenerazione neoplastica di una gonda
ritenuta o già sottoposta ad orchidopessi.

Idrocele e varicocele
L’idrocele è un accumulo di liquido a livello scrotale con
conseguente rigonfiamento. Tale situazione è più frequente nei IDROCELECTOMIA
neonati (per mancata chiusura del dotto peritoneo-vaginale) e Drenaggio del liquido mediante
negli uomini sopra i 40 anni (per infezioni, traumatismi o incisione, esteriorizzazione del
neoplasie). Clinicamente si manifesta con gonfiore testicolare, testicolo e apertura della tunica
dolore e arrossamento cutaneo. Nel bambino, alla palpazione lo vaginale comune.
scroto può avere consistenza molle o tesa-elastica a seconda
dell’ora della giornata in cui si esegue l’esame: generalmente di notte, con il paziente in posizione
sdraiata, il liquido compreso nello scroto tende a spostarsi in addome. Dal punto di vista diagnostico,
si ricorre a palpazione scrotale ed ecografia; vanno tenuti anche in considerazione gli esami
bioumorali e urinari laddove sia sospettata un’infezione urinaria. Per quanto riguarda la terapia,
invece, va tenuto presente che molto spesso questo problema tende a risolversi spontaneamente
nel neonato, mentre per quanto riguarda l’adulto (o i neonati in cui non si sia avuta remissione
spontanea) si può ricorrere ad agoaspirazione (se non grave) o a idrocelectomia (se grave).
Nell’adulto inoltre si può avere molto spesso anche recidiva (per procedure di aspirazione del liquido
che non rispettino i criteri di sterilità).
Il varicocele è una dilatazione delle vene testicolari che, diventando incontinenti, permettono un
reflusso patologico di sangue venoso dall’addome al testicolo con conseguente ristagno di sangue,
comparsa di dolore, aumento di temperatura e di dimensioni. Il varicocele può essere:
1) Idiopatico, generalmente correlato a malfunzionamento del sistema valvolare del plesso
pampiniforme;
2) Secondario alla presenza di tumori capaci di comprimere le vene pelvico-addominali.
Tra le conseguenze del varicocele troviamo l’atrofia testicolare e l’infertilità.
Dal punto di vista diagnostico, il varicocele va indagato con ecografia scrotale e addominale
(soprattutto per escludere la presenza di tumori) e con spermiogramma (laddove i soggetti in età
riproduttiva riscontrino difficoltà ad avere figli). Dal punto di vista terapeutico, il varicocele può
essere trattato con antinfiammatori (in caso di dolore sporadico), con isolamento chirurgico delle
vene dilatate (mediante interventi a cielo aperto o laparoscopici) o con embolizzazione percutanea.

Idronefrosi da ostruzione congenita


L’idronefrosi congenita è una dilatazione della pelvi renale dovuta a una stenosi del giunto pielo-
ureterale. Questa ostruzione, quasi sempre monolaterale, non è mai completa ma è sempre parziale
e caratterizzata da gravità variabile. Dal punto di vista clinico, i segni dell’idronefrosi sono correlati
alle frequenti IVU (febbre, vomito) e all’ostruzione (riduzione della funzionalità renale, dolore
colico), mentre dal punto di vista diagnostico si ricorre a valutazioni pre- e postnatali sotto guida
ecografica e alla scintigrafia renale.

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La stenosi tende a risolversi molto spesso spontaneamente entro PIELOPLASTICA
i primi 12-24 mesi di vita. Laddove però il bambino presenti
un’idronefrosi persistente e sintomatica, è necessario ricorrere a Rimozione del giunto pielo-
un trattamento chirurgico rappresentato dalla pieloplastica ureterale ostruito con creazione
laparoscopica. di un collegamento diretto tra la
pelvi e l’uretere.

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